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GIPPO
UN FILO D’ODIO Il capitano Marai e le Ondine della Fonte oscura
ZeroUnoUndici Edizioni
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UN FILO D’ODIO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-474-8 Copertina: immagine di Matteo Bignozzi Prima edizione Giugno 2021
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I
Notte fra il 28 e il 29 settembre 1999 A un tratto Otto si sente delicatamente prendere la mano. A fatica abbassa gli occhi. Una bimbetta di forse tre o quattro anni sta in silenzio accanto a lui, a testa bassa, con una bambolina di pezza nell’altra mano. Indossa solo la maglietta e le mutandine, bianche, ben alte sulla pancia ancora rotondetta del grasso infantile. Sicuramente ha freddo, ma non trema e non dice niente. «G’de mama?» (Dov’è la mamma?) domanda Otto nel poco di ucraino che ha imparato. La voce gli esce rauca, spezzata, ma la bimba mostra di capire lo stesso e sempre a testa bassa, dondolandosi un po’ su una gambetta per l’imbarazzo, indica gli alberi dietro cui c’è la fossa. «Idy do neyi» (Va da lei), lui riesce a dirle con voce abbastanza controllata. Lei alza la testa e lo guarda. Lo sguardo è triste e interdetto, ma non piange. Gli porge la bambola: «Vy trymayete yoho, bud'laska: vona duzhe mala.» (Tienila tu, per favore: lei è molto piccola). Poi si gira e si avvia. Otto fissa ostinatamente davanti a sé là in fondo dove quelli che avanzano vengono divisi in due file, gli uomini da una parte e le donne dall'altra e poi incredibilmente si spogliano con un certo ordine e sotto gli incitamenti pressanti delle guardie depositano i vestiti nei due autocarri predisposti che ormai ne traboccano. Non si spreca nulla: gli abiti andranno riutilizzati. Con solo la biancheria intima addosso vengono avviati verso il boschetto e sfilano tra le ali delle sentinelle che li spintonano e incitano continuamente perché non abbiano tempo di pensare. Molte donne piangono e abbracciano i figli piccoli, gli uomini sembrano come inebetiti, ma in generale non urlano, non danno in escandescenze e non cercano nemmeno di fuggire. Gli elementi più agitati sono stati già allontanati ed eliminati con discrezione, ma
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sicuramente anche gli altri stanno realizzando di andare verso la morte, eppure si dominano, qualcuno cerca addirittura di camminare eretto e con passo fermo. Forse quell'aggrapparsi alla dignità è l'ultima risorsa che hanno per dare un senso a quella squallida fine o forse sono incapaci di reagire, travolti dall'enormità della cosa. Cade una neve rada e lenta che attutisce i rumori. Anche le raffiche di spari che vengono dalla fossa arrivano ovattate, come lontanissime. Li faranno sdraiare con ordine, prima di sparargli alla nuca, una fila dopo l'altra, come sardine, perché i corpi ammonticchiati alla rinfusa occupano troppo posto e poi qualcuno darà il colpo di grazia a chi serve. Lo sa bene perché è toccato anche a lui dover camminare sui cadaveri, scivolando e sprofondando nel sangue e nelle feci, per svolgere quel compito. Otto non vuole voltarsi, cerca disperatamente di non girarsi a vedere cosa fa la bimba, ma poi non resiste e guarda. Due donne anziane l’hanno presa, ciascuna per una manina e piano spariscono tutt’e tre dietro gli alberi. Un soldato lo guarda fisso, col volto inespressivo. Certo è quello che prima non aveva avuto cuore di fermare la bimba quando era uscita dalla fila, forse spinta dalla mamma che l'aveva indirizzata verso di lui sperando in un miracolo. Allora si rigira, getta lontano la bambola e si appoggio a una betulla per vomitare. Il candore della neve si macchia di colori osceni. Otto si sveglia ansando aggrovigliato nelle lenzuola, con il cuore che batte impazzito. Scivola nel suo vomito mentre cerca di districarsi e cade dal letto. A carponi sul pavimento vomita ancora e quasi soffoca prima di riuscire ad aggrapparsi al comodino e in qualche modo alzarsi per fare entrare un filo d'aria nei polmoni. Di nuovo quel maledetto sogno: l’ha fatto per vent’anni, notte dopo notte, implacabile. Ormai si era illuso di poter stare in pace, di dimenticare. Maledizione! Non si dimentica mai. L’angoscia gli serra la gola, ma non è solo questo. Trema tutto come una foglia e batte i denti. È terrorizzato e sente di stare per morire. Aria, ha bisogno di aria. Si precipita fuori gemendo piano come un cucciolo abbandonato, mentre sbatte in tutti gli spigoli.
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È ancora scuro e deve aver piovuto nella notte perché per terra è bagnato. Il freddo pungente lo calma un poco. Butta indietro la testa e aspira avidamente a bocca spalancata, con gli occhi chiusi, l'odore della terra bagnata e del bosco. Quando li apre scorge il cielo che si accende nell’aurora sopra il profilo di Avelengo e sotto il grande pozzo scuro punteggiato di luci della conca meranese. Quella visione dolce e familiare sembra farlo stare meglio. Respira a fondo e si domanda perché quel vecchio incubo sia tornato a tormentarlo. Mentre cerca di calmarsi si guarda attorno e così intravede in fondo alla parete di roccia una figura femminile diafana e bianca che dal buio sembra osservarlo, immobile, in silenzio. Proprio quella calma immobilità gli fa rizzare i capelli, il panico lo riassale a ondate che lo squassano violente come i conati di vomito di poco prima e lui cade sui cubetti di porfido bagnato e scivoloso e si accovaccia in posizione fetale, aggrappato alle ginocchia. Il castello che lo sovrasta incastrato nella roccia alle sue spalle acquista un aspetto maligno e protende i merli e i doccioni aguzzi per ghermirlo. Otto allora indietreggia rotolando fino all’aiola centrale dove i rametti duri dei rododendri lo artigliano, gli strappano il pigiama e gli graffiano braccia e gambe. Tutto questo non può essere reale, lui lo sa, ma non riesce a dominarsi, si alza traballante e si fa strada ansando tra i cespugli adunchi. La figura immobile di donna è sempre là e lo spaventa ancor più delle guglie del castello e degli artigli spuntati ai rododendri. Gli affiora l'assurda certezza che sia una delle Ondine della leggenda. Le Ondine si vendicano perché ha cercato di spiarle! Negli ultimi tempi si è perso spesso nelle grotte alla ricerca di quelle mitiche creature e proprio ieri le ha sentite ridere e sguazzare, là in fondo, nell'ultima caverna. Quando è riuscito ad affacciarsi dal cunicolo che vi accede, erano sparite, ma ha sentito i tonfi e gli sciabordii che facevano scappando e gli è sembrato proprio di percepire il palpito della loro presenza nell'aria oscura, fredda e così desolatamente immobile dei cunicoli sotterranei. Ora sono venute a vendicarsi! La leggenda dice che uccidono o fanno impazzire chi le spia, ma è solo una leggenda, piagnucola tra sé e sé, e poi io non le ho
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nemmeno viste. Nella confusione che lo attanaglia c'è una vocina in fondo alla coscienza che cerca di riportarlo alla ragione e crede di avvertire un filo logico che potrebbe dare un senso a quella pazzia, ma il panico lo riprende violento, lo toglie da ogni pensiero coerente e lo getta in uno stato di terrore allucinato. Così fugge ed entra correndo nelle aiole dopo il vialetto lastricato, ma dal terreno morbido vede spuntare mani e braccia di donne e bambini che con grottesca dolcezza gli afferrano le gambe e, quando inciampa e cade, cercano di tirarlo sotto terra, mentre mormorano incomprensibili parole gentili. Si districa a stento da quell’abbraccio così oscenamente dolce e avido e urlando balza sul vecchio sentiero che scende a valle, ma le pietre di copertura ondeggiano come galleggiassero sull’acqua, si ribaltano su se stesse e sotto si aprono squarci pronti a inghiottirlo. Allora si butta a perdifiato nel bosco. Guardandosi alle spalle scorge dietro agli alberi la figura bianca, sempre ai confini del buio, che lo segue, calma e implacabile. La sensazione di stare per morire è fortissima. Morirebbe volentieri, Otto. È vecchio e sono più di cinquant’anni che i ricordi lo uccidono un poco alla volta. Se ne stanno acquattati per ore o giorni o addirittura mesi, i ricordi, ma quando ti sembra di respirare finalmente libero, quando senti che il cielo è azzurro e una ragazza sembra sorriderti, ecco che loro, i maledetti ricordi, ti assalgono a tradimento e di botto nell’aria senti il fetore dolciastro della morte che ti ha riempito ogni poro della pelle e ai sorrisi delle ragazze di oggi si sovrappongono quelli che vedevi allora sul viso di quelle donne e di quelle bambine, sorrisi tirati e imploranti che si piegavano in stupefatto raccapriccio di fronte all’inimmaginabile. Morirebbe volentieri, sì, ma non in quest’angoscia delirante. «Non così, per favore, PER FAVORE!» grida al buio del bosco che è sempre più denso, così denso che lui fatica ad avanzare e che sembra ammassarsi attorno per soffocarlo. La piccola parte dentro di lui che ha conservato la lucidità capisce che, chissà come, è intrappolato nell’incubo. Deve trovare aiuto per uscirne, subito o sarà la fine. Nel Gasthaus poco sotto, oltre il bosco c'è luce a una finestra. Otto la
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vede e si apre a un filo di speranza: deve essere Magda che è già in piedi. Magda potrebbe aiutarlo, sì. Una corda, una corda per legarlo prima che si uccida o si sfracelli da qualche parte e grappa, grappa a litri per stordirlo. Prima o poi l'effetto dell'incubo passerà. Dopo potrebbe anche morire, sì, ma in pace. Si precipita alla porta e bussa e urla finché Magda s’affaccia alla finestra sopra e lo guarda spaventata. Stenta a riconoscerlo. Lui la implora: «Prendi una corda, per favore, per favore Magda e legami, legami stretto. Non aver paura, quest’attacco passerà. Salvami Magda.» La sua voce è un piagnucolio difficile da capire, ma lei sembra intuire cosa deve fare. Fa cenno di sì e sparisce. Lui le urla dietro: «Fa presto!» Magda verrà con la corda, è una brava ragazza e verrà, certo, ma lui sente che ormai non farà in tempo. Tremando e battendo i denti cerca di nascondersi sotto una panca, ma poi non resiste al senso di soffocamento. Gli sembra che le assi si chiudano attorno a formare una bara che già comincia a sprofondare, mentre il coperchio si chiude. Al limite del bosco la figura bianca lo osserva, inesorabile. Singhiozzando si apre la strada fra le valve immonde che cercano di imprigionarlo e scappa, ma ormai è perso in un nulla oscuro e vaga alla cieca sbattendo qua e là. Quando si accorge di aver scavalcato un muretto e che sta precipitando nel vuoto prova un attimo di sollievo.
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II
29 settembre 1999. Mattina presto. Ho freddo e sono di pessimo umore. I riflessi blu dei lampeggianti della camionetta rimbalzano sulle rocce attorno, scure e bagnate, e danno un tocco ancor più deprimente alla scena. I miei uomini mi guardano in silenzio, abbacchiati. Il maresciallo Menichelli, che comanda la pattuglia, ha un bell’occhio pesto che si avvia a diventar nero ed è il più imbarazzato. Li guardo, ostentando severità, ma la mia attenzione vola via, catturata dal rimbombo cavernoso della vicina presa d’acqua della centrale di Tell che mi mette addosso una penosa sensazione di angoscia. In gita, da piccolo, incuriosito dallo scrosciare dell'acqua mi ero sporto della chiusa per vedere meglio e la mamma si era precipitata a trattenermi, spaventata. Per instillarmi la prudenza mi aveva detto che se cadevo in acqua sarei stato trascinato dalla corrente nella condotta forzata della centrale elettrica, un tubo che si addentrava nella roccia e mi avrebbe portato giù nel buio fino a essere sfracellato dalle pale della turbina. Rimasi sconvolto. L’idea di venire risucchiato in un inghiottitoio mi ha perseguitato per anni negli incubi notturni. Anche adesso non riesco a liberarmi da quel pensiero quando sento il rimbombo dell’acqua costretta a incanalarsi in un qualche cunicolo. A fatica riporto l'attenzione sui carabinieri di fronte a me. Avevano piazzato il posto di blocco in tutta fretta alle quattro della notte per cercare di intercettare una banda che poco prima aveva sventrato un bancomat a Silandro, ma sono incappati solo in qualche ubriaco ritardatario e l’ultimo fermato ha reagito con tale violenza che hanno faticato molto a neutralizzarlo. Pensando che forse era uno di quelli che cercavamo, stanchi per la levataccia e incerti sul da farsi mi hanno chiamato. Dopo un’ora di controlli incrociati è risultato che è solo un nerboruto lavoratore stagionale che viene dalla Slovacchia, ma
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è uno di quelli che quando beve diventa cattivo e così loro adesso sono conciati per le feste e anche lo slavo ammanettato nella camionetta sembra piuttosto ammaccato. Meno male che nessuno dei miei ha sparato. Do disposizioni di far portare in caserma l’energumeno per metterlo al fresco a riflettere un po’, ma prima di passare dal pronto soccorso e far certificare le ferite e le contusioni di tutti. Speriamo di no, ma dal pestaggio potrebbero nascere grane e in questi casi bisogna sempre andare cauti. Infine mi allontano con sollievo dallo scroscio dell'acqua, verso l'Alfa 156 parcheggiata dall’altro lato, all’incrocio con la vecchia strada per Lagundo. L’idea è di tornarmene in caserma a Merano e farmi un buon caffè. Lorusso è al posto di guida con la portiera aperta. Aspettandomi ha acceso la radio e trovato una stazione che, per legarsi alla data di oggi, ha ripescato la vecchissima «29 settembre» dell’Equipe 84. Lui non l’ha mai sentita e la trova originale, ma a me ricorda la gioventù, anzi, quasi l'infanzia e così mi prendo un minuto di relax per godermela assieme al dolce paesaggio della conca meranese che va illuminandosi. Il cielo è limpido dopo la pioggia notturna e preannuncia una di quelle bellissime giornate di autunno che una volta erano tipiche della nostra zona e adesso cominciano a essere più rare. La chiamata via radio viene a interrompere quell’attimo di tranquillità: «Capitano, mi sente? Risponda prego.» Sospiro e rispondo: «Alberti, non verrai a rompere per il solito incidente d’auto, spero?» «No, capitano, non è un incidente d’auto: qualcuno ha fatto un volo dal parcheggio del ristorante Vertigo, sopra Parcines e sembra che sia morto. Dovrebbe andare a dare un’occhiata.» «Alberti, ma non ci può andare il maresciallo Spinoni di Rablà? La competenza di Parcines è sua!» «Mah, capitano, se vuole ci provo, ma voi siete già in zona e la ragazza che ha telefonato l’ha messa giù strana. Forse è meglio se va lei direttamente. Se non sapete dov’è basta che seguiate il mezzo della Croce Bianca che è già partito e dovrebbe passarvi davanti fra poco.» Sospiro rassegnato. «Va bene. Credo di sapere dov’è. Partiamo subito. Visto che dobbiamo
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andare è meglio se arriviamo noi, prima che quelli della Croce Bianca facciano casini. Chiudo.» Lorusso non fa in tempo a mettere in moto che già si vedono i lampeggianti dell’ambulanza che sale dalla curva, a velocità elevata. Prima che noi si possa partire, ci passa davanti accelerando. «Quello che è cascato sarà stato magari ubriaco fradicio, ma da come guidano, anche questi mi sembrano belli pieni» dice il vicebrigadiere mentre fa stridere le gomme nella curva secca per immettersi nella statale della Venosta. Taccio, ma rifletto che gli ubriachi quando cascano, hanno di solito miglior fortuna e che ormai non è più la loro ora. Forse è cascato stanotte e lo hanno trovato solo ora. Comunque, bisogna andare. Vedremo. Intanto Lorusso riesce a raggiungere il mezzo di soccorso e si accoda mentre borbotta: «Dove minchia sarà ‘sto Gasthaus Vertigo. Mai sentito!» «Sarà in via Vertigo, stando alla logica! È una stradina che dal centro di Parcines va verso est e poi sale un bel po’ nel canalone sotto la Muta per arrivare fino a un vecchio maso. Tu cerca di star dietro all’ambulanza e di non farti distanziare e stai attento che l’asfalto è ancora bagnato.» Vorrei due minuti di silenzio, perché via Vertigo mi ricorda molte cose, ma Lorusso è in vena di chiacchiere: «Che minchia di nome che hanno ‘sta strada e ‘sto Gasthaus: Vertigo. Non credo possa venire da vertigine che in tedesco fa Schwindel, che poi si dovrebbe leggere «Fertigo»: che venga da fertig?» Il mio vicebrigadiere è nato a Colonia, da emigrati calabresi, e ci tiene a far vedere che lui ha frequentato la scuola tedesca, ma solo le elementari in verità e nella Germania del nord, sicché fa un figurone con i turisti che gli chiedono indicazioni, ma ancora non capisce un granché il dialetto dei nostri tirolesi. «Lorusso, piantala! Vertigo verrà pari, pari dal latino, ma perché abbiano appioppato questo nome a quella specie di sentiero, non lo so e non lo voglio sapere. Taci e cerca di guidare che non finisca in un Vertilgung!» «Cos’è ‘sto Vertilgung?» Fa lui stupito di fronte a un vocabolo che non conosce.
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«Volendo, anche sterminio! Taci adesso.» L’autista dell’ambulanza deve essersi messo in testa di fare la gara con noi e guida al limite, ma Lorusso ci sa fare e l’Alfa li segue agevolmente. Io intanto penso che l’unica volta che sono andato in via Vertigo è stato diversi anni fa e che mi ci ha portato Magdalena, che allora era la mia Magda. Mi aveva portato a conoscere il nonno, lassù nell'unico solitario maso sperduto alla fine della strada. Campava con quattro mucche, il maiale e l'orto, un prato che si doveva falciare tutto a mano per la forte pendenza e con quel poco che rendeva il bosco, ma era orgoglioso il vecchio tirolese e sentiva ancora lo Stato italiano come un indebito occupante della sua Heimat, il Tirolo, la dolce terra natia a cavallo delle Alpi. Così mi aveva accolto con gentilezza, perché amico della nipote, ma solo sul terrazzo, perché in casa sua un carabiniere italiano non era mai entrato. Che anch'io fossi sudtirolese non importava, era la divisa che gli dava fastidio. Gli ero piaciuto, però, e alla fine aveva detto a Magda che gli sembravo una brava persona e poi rivolto a me: «Torna senza la divisa, così potrò farti entrare» e mi aveva stretto la mano. L’ambulanza accende la sirena quando entra in paese a Parcines. Prima che Lorusso lo faccia anche lui o solo lo chieda, dico: «No!» Lui capisce e tace. La strada fa un giro verso est fin dove ci sono gli ultimi alberghi, poi gira a sinistra e continua a salire costeggiando il declivio di fronte a Plars. Avelengo, Tirolo e un po’ della conca meranese ci appaiono alla vista man mano che si sale. Che io sappia sopra non c’è più niente fino al maso del nonno Stephan, là in fondo alla gola. Forse adesso ci hanno fatto il Gasthaus Vertigo. Sta a vedere che ci trovo Magda. «Sarebbe proprio bella» penso e il cuore mi fa un piccolo balzo nel petto. Continuiamo a salire. Ricordo che dopo l’incrocio con lo stradello che va alla galleria dell’acquedotto la strada diventava sterrata e avviso Lorusso di stare attento, ma invece adesso l’asfalto continua. Bah, penso, ormai è tutto diverso.
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Andiamo avanti ancora parecchio poi l’ambulanza accosta a sinistra e si ferma. Faccio segno a Lorusso di passarle davanti a parcheggiare e lì troviamo una ragazza seduta su un masso al ciglio della strada che, infreddolita, si stringe addosso un giaccone. Si alza. Le gambe sono infilate in un paio di stivali da contadino e sotto la giacca spunta la camicia da notte. Gli addetti dell’ambulanza stanno già scendendo e si dirigono verso di lei. Io però mi metto in mezzo e la interpello per primo. «Hai chiamato tu?» «No. Mia sorella. Poi mi ha mandato di guardia, per farvi da guida. Adesso vi porto dov’è...» esita un attimo, forse non vuole dire il morto o il corpo. Poi conclude: «dov'è lui: venite.» «È ancora vivo?» Chiedo, mentre la ragazza ci guida dietro ai cespugli. «No, non credo, almeno. Mia sorella ha detto che è morto. Io l’ho guardato solo da lontano. Mi faceva impressione.» Mentre la seguo penso: «Questa potrebbe proprio essere la sorellina di Magda. Non l’ho mai vista, ma so che ne aveva una di dieci anni più giovane di lei.» Dopo pochi passi, dietro alcuni piccoli abeti, addossato alla parete di roccia che si alza per alcune decine di metri vediamo quello che a prima vista appare sicuramente un cadavere. Sta addossato di schiena alla roccia come se avesse cercato di infilarcisi dentro. Con la bocca aperta e gli occhi spalancati è veramente brutto a vedersi. La ragazza lo indica e subito si allontana. Mi volto verso i due dell’ambulanza che impazienti vorrebbero precipitarsi e faccio segno di calmarsi. «C’è un medico fra voi?» «No» risponde quello davanti, un po’ piccato. «Ma io sono infermiere professionale e sono addestrato a gestire le emergenze. Mi faccia andare dal ferito. Ogni istante può essere prezioso.» «Dubito che ci sia qualcosa da fare, comunque hai ragione. Vai avanti tu, da solo» sottolineo «e verifica se ci sono segni vitali, ma se è morto e non ti sembra il caso di tentare la rianimazione, non spostare il corpo e vedi di non scombinare niente attorno.» Mentre l’infermiere cerca un battito nel polso o sulla gola, trattengo con un braccio l’altro addetto che vorrebbe seguirlo e intanto osservo la
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scena. Il morto è vecchio e magro. Indossa solo i resti di un pigiama sfilacciato che mette in mostra le costole piene di graffi e lividi, così come del resto sono anche braccia, gambe e viso. I testicoli pendolano oscenamente da uno strappo dei pantaloni e i piedi sono incrostati di sangue. Il volto contratto esprime un terrore disperato e noto che, nonostante abbia i piedi nudi, con i talloni è riuscito a scavare dei solchi nel terreno per cercare di spingersi indietro, contro la roccia. Con metodo cerco in alto da dove può essere precipitato e poi in basso il punto dell’impatto. Non l’ha ucciso la caduta, non subito almeno. Un abete di pochi metri di altezza appare schiantato, è evidente che ha ammortizzato la caduta, poi lui si è trascinato fino alla roccia e vi si è addossato come volesse sfuggire a qualcuno o qualcosa. Guardo interrogativo l’infermiere: «Vuoi tentare di rianimarlo?» «No. È inutile, è morto ormai da un po’. Forse più di un’ora.» «Allora lasciamolo così e vediamo se riusciamo a far venire il medico legale. Vorrei sapere come è morto. Tutti quei graffi non sono conseguenti alla caduta e non sembra che sia morto per quella.» «Prima che arrivi ci vorranno almeno un paio d’ore e quando poi sarà qui vedrà quello che vediamo noi. Per sapere la causa della morte dovrà fare l’autopsia. Direi che è inutile aspettare.» «Hai sicuramente ragione, ma vedi anche tu che qui c’è forse qualcosa di più di un semplice incidente. È bene che facciamo tutto in regola, prima di metterci nei guai. Visto che è inutile aspettare, andate pure. Ci penserà poi la mortuaria.» L’infermiere rassegnato si avvia verso l’ambulanza. Il suo collega lo segue malvolentieri borbottando fra i denti, in dialetto tirolese stretto. Mi rivolgo a Lorusso che è rimasto vicino alla macchina, con la ragazza: «Chiama in caserma e digli che cerchino di far venire al più presto il medico legale o almeno il servizio mortuario e che mandino su la camionetta con Kaserer. Tu resta qui di guardia finché non arriva lui e mentre aspetti fa un po’ di foto al cadavere e dintorni. Mi raccomando: che si vedano i segni per terra e il punto della caduta. Guarda bene anche intorno. Io intanto vado a vedere di sopra. Quando poi arriva Kaserer, lo lasci qui e vieni su con la camionetta.» «Comandi, capitano.» Lorusso per una volta non mugugna e chiama per radio la caserma. Quando ha finito, faccio segno alla ragazza di
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montare in macchina. Lei ci si infila di corsa, infreddolita. Prima di scendere, Lorusso si china sopra di lei per prendere nel cassettino la macchina fotografica che abbiamo in dotazione e lì si blocca e si volta adagio a guardarla, con espressione beata e imbambolata. Mi viene da ridere e non dico nulla, ma quando poi mi siedo al posto di guida e lei si sistema per bene il giaccone in modo da coprirsi le ginocchia, mi arriva un alito di quell’aroma quasi di pane appena sfornato che hanno le ragazze ancora calde di letto e capisco perfettamente l’imbambolamento del mio giovane vicebrigadiere. Ci resto un po’ anch’io frastornato, impaniato nei fili dei ricordi che svolgendosi si intricano ancor di più fra loro. Il profumo e il sapore del corpo bianco di Magda si mescola alla sua voce, alle frasi dolci dei primi tempi frammiste e a quelle più tarde, taglienti e sprezzanti: «Sei proprio un carabiniere!» Mentre metto in moto mi affiora il ricordo del nome della sorella minore e metto subito a frutto questa reminiscenza. Così mi rivolgo alla ragazza e chiedo: «Allora tu sei Steffi, Steffi Wieser, la sorella di Magda?» Mi aspetto un moto di sorpresa e, in effetti c’è, ma è appena accennato. Senza nemmeno girarsi mi risponde tranquilla: «E tu sei Zeno il carabiniere. Vedo che hai fatto carriera: ho sentito che ti chiamano capitano. Complimenti.» Tocca a me restare sorpreso per la sua perspicacia e anche e soprattutto per la tranquilla confidenza con cui mi ha risposto. Annuisco, cerco di cavarmela con un «Già» e cambio argomento. «Allora chi è il morto? Lo conosci?» «Oh sì, è Otto. Fa il custode su al castello. Lo vedevo tutti i giorni perché ci lavoro anch’io. Oddio, un lavoretto part-time: tengo la corrispondenza con i clienti. Non è male come lavoro. Mi sto per laureare in lingue a Innsbruck e un po’ di soldini fanno proprio comodo. La nonna e Magda col maso e il Gasthaus ci campano appena e la mamma che si è risposata e fa l’infermiera a Silandro non mi può aiutare più di tanto.» Provo un altro leggero tuffo al cuore perché le sue parole confermano che la sorella che ci ha chiamato è proprio Magda e che la incontrerò a momenti, ma mi controllo.
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Mentre arriviamo al tornante chiedo lumi su questo castello di cui non ho mai sentito parlare. Lei velocemente mi spiega che non è un vero e proprio castello, ma una specie di vecchio fortino messo a chiudere una serie di grotte, nella parete di roccia che si alza poco lontano dal vecchio maso. Dunkelbrunnen: Fonte Oscura, lo chiamano. Da qualche anno ci hanno aperto un laboratorio dove si realizzano prodotti di bellezza che sfruttano le acque purissime delle sorgenti sotterranee che affiorano nelle grotte interne e poi si inabissano nuovamente senza mai vedere la luce. Questa caratteristica pare che le renda particolarmente idonee a creare creme, unguenti e lozioni molto pregiate, che non si trovano sul mercato, ma vengono distribuiti direttamente a diverse rinomate beauty farm, col marchio "Ondina" Eternelle Jeunesse. «Io parlo italiano, tedesco, abbastanza anche l'inglese e sto studiando francese e così mi hanno assunta per mantenere la corrispondenza con le varie aziende» conclude Steffi, con tono dimesso, ma si vede che ne è orgogliosa. Non ha ancora finito di raccontare che siamo arrivati. Mi fermo davanti all’ingresso e le faccio segno di scendere. «Bene, adesso vai. Mentre ti vesti e fai colazione io cercherò di parlare un poco con Magda. Poi, per favore, dovresti accompagnarmi al castello, visto che lo conosci bene, così mi chiarisci la situazione.» Lei smonta tranquilla: «Va bene, tanto avrei dovuto andarci lo stesso. Ciao. Ci vediamo dopo.» Svelta sale i pochi gradini fino al terrazzo. Apre la porta ad arco, in legno chiaro e vetro, ed entra nell’edificio, poi si volta e, vedendo che non la seguo, se la lascia chiudere dietro. Io parcheggio meglio, più avanti. Scendo e mi fermo a guardare il vecchio maso rimesso a nuovo a cui è stata aggiunta la sala da pranzo che intuisco attraverso le vetrate. Un grosso pastore bernese esce da dietro la casa e va a sedersi vicino all’ingresso. Mi fissa bonario, ma non mi perde di vista un attimo. Il primo sole che inizia a sorgere proprio qui di fronte, dietro l'altipiano di Avelengo, tinge di rosa le cime del Tessa. Mi godo la linea della luce che scende rapidamente e arriva fino qui a illuminare in pieno l’edificio che prende improvviso rilievo e consistenza. Anche il terreno e i boschi attorno si accendono in un attimo nel
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tripudio dei colori autunnali. È come un’esplosione: il rossiccio dei larici si fonde col giallo delle macchie cedue e il verde scuro degli abeti. Resto a guardarmi in giro, con un senso di appartenenza e gratitudine verso questa mia terra. Dal camino esce fumo, fumo di legna, ne sento l’odore. Si respira un tale senso di pace che fatico a ricordare che sono lì per una tragedia e mi sembra ancor più incongrua l’angoscia che ho visto sulla faccia del morto. Ormai sono le otto. Faccio due passi lungo il muretto che protegge lo strapiombo cercando di trovare il punto da cui il poveretto è precipitato e intanto provo a chiamare il procuratore Rigoli. Non so se sia lui di turno, ma è un tipo che si dà da fare e probabilmente ha già attivato il suo cellulare. Infatti mi risponde subito. Ci conosciamo e rispettiamo a vicenda. Gli spiego la situazione e lo prego di confermare al medico legale la richiesta che io mi sono permesso di anticipare. Lui spiccio, approva il mio operato e mi assicura che provvederà. Si mostra dubbioso sulla venuta fin quassù del patologo, ma comunque mi assicura che farà rimuovere il corpo e lo farà portare a disposizione all’istituto di medicina legale di Bolzano. Mi chiede se oltre al sopralluogo ho fatto anche delle foto. Alla mia risposta affermativa, dice di tenerlo informato e chiude. Non ho trovato attorno segni particolari della caduta. Mi affaccio dal muretto e sotto intravedo Lorusso che si è messo d’impegno a fare foto. Lo chiamo e lui si volta, mi vede e mi fa un cenno. Io gli rispondo col segno dell’OK e poi mi volto e vedo che finalmente qualcuno si è affacciato alla porta. È proprio lei.
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III
È sempre bella come dieci anni fa e mi guarda con espressione indecifrabile. Mi avvicino, cercando di sembrare indifferente. Lei aspetta che le sia di fronte e le dica «Ciao Magda», prima di accennare un vaghissimo sorriso e rispondere: «Ciao Zeno.» Con calma poi mi passa un dito sul colletto della divisa e infine completa: «Anzi: capitano Zeno! Che belle mostrine d’argento hai sul colletto capitano.» Fa un passo indietro: «Ti sei ingrassato, anzi no, scusa: irrobustito. Sei qui per Otto, dunque?» Io copro con la mia la sua mano, che si è fermata un attimo sul mio petto e sento che non è più morbida come una volta, ma asciutta e un po’ screpolata. Anche il viso, da vicino, mostra qualche segno del tempo che però nulla toglie alla sua bellezza, anzi mi sembra più vera, più donna. Lei sfila lentamente la mano. La domanda su Otto è retorica, ma rispondo: «Sì, e dovrei parlarti un attimo. Possiamo entrare anche se sono in divisa e con gli alamari sul colletto o dobbiamo stare qui fuori al freddo?» Lei che è vestita abbastanza leggera, fa la sua tipica smorfia furbetta, tirando indietro le labbra mentre gli occhi le diventano fessure. Le rughette che le si formano attorno alla radice del naso sono deliziose. «Puoi entrare. Nonno Stephan ci perdonerà. E tu perdonami» mi prende in giro, «se ho chiamato mostrine i tuoi alamari.» «Come sta il nonno? Ancora bene, spero.» «Benissimo, adesso» dice mentre si gira verso la porta. «È morto sei anni fa! Appena ristrutturato il maso.» Mi fermo a guardarla, ma lei non si gira. Scuoto la testa. «Scusami, non lo sapevo. Mi dispiace molto, sai che mi piaceva il tuo vecchietto.» «Anche tu gli piacevi. È per questo che ti lascerò entrare anche se sei in divisa da sbirro e ti offrirò pure un caffè.» «Sarebbe una vera carità, anzi due. Sono in giro da ore e avrei proprio
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bisogno di due cose: sedermi al caldo e bere un caffè. Grazie.» Entriamo. Di fronte all’ingresso, c’è una bella stufa intonacata con la panca che le gira attorno. Magda mi ci fa sedere e sparisce dietro, dove si intuisce un passaggio che probabilmente porta alla cucina e al resto della casa. Mentre mi godo il tepore della stufa guardo la sala col pavimento in piastrelle scure e il soffitto in legno chiaro come le panche e i tavoli. È calda e accogliente come quasi tutti i locali della nostra zona e fa sentire a proprio agio. Dopo poco Magda torna con un vassoio e lo depone sul tavolo. Ci sono tre tazze, un bricco fumante di caffè e uno di latte. C’è anche un cestino con alcune rosette di pane coperte da una salvietta e un piattino con le posate, oltre a burro e marmellata. La guardo interrogativo: «Devi ancora far colazione o vuoi mortificarmi con la tua splendida ospitalità?» Lei sporge il mento in fuori e fa la sua smorfietta mentre inclina la testa. «Né l’uno né l’altro, capitano. Ti offro un caffè e ti faccio compagnia a berlo, ma la colazione è per Steffi, prima che vada al lavoro. Se ne vuoi una anche tu devi ordinarla e pagarla. Il locale serve proprio a questo.» Si fa seria. «In effetti non ne abbiamo da buttare. Non ci lamentiamo, ma non è che abbiamo poi moltissimi clienti.» «Già, siete un po’ fuori mano. Che tipo di clientela avete?» Mi versa il caffè con sbrigativa gentilezza. «Vedo che cominci a indagare. Bene, del resto sei qui per questo.» Mentre mi servo dello zucchero, continua: «Anzitutto abbiamo quelli del castello come clienti fissi a pranzo. Durante il giorno poi passano alcuni degli escursionisti che affrontano l'Alta Via di Merano. Fanno volentieri una deviazione per fermarsi qui a pranzo o a fare merenda sulla nostra terrazza, per la bella vista che si gode. La sera viene ancora qualcuno del castello, alle volte a cena e altre solo a bere una birra o un paio di Schnaps. Spesso vengono su anche dei giovani del paese a fare un po' di baldoria. Siamo così fuori mano che possono fare tutta la confusione che vogliono. A loro piace.» Il sole ancora basso che entra dalle finestre dà un bellissimo colore rosato alle sue guance e le fa splendere gli occhi. La guardo mentre mi godo il profumo e i primi sorsi di caffè in un meraviglioso silenzio. Vorrei sapere di lei, di come sta e se ha un compagno, e vorrei annusare
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il profumo del suo collo subito dietro l’orecchio, ma invece chiedo: «Steffi mi ha accennato di questo misterioso castello, ma vorrei che tu mi dicessi qualcosa di più soprattutto dei suoi abitanti che dovresti conoscere, visto che sono tuoi clienti abituali.» «Dunque: a pranzo viene sempre il direttore, Herr Gustav e c’era fisso anche Otto.» Alza gli occhi e fa con la mano un gesto, come di qualcosa che vola via. «Cliente perso!» Sospira. «Comunque, da lunedì a giovedì vengono anche i due tecnici Alois e Herbert. Invece il direttore scientifico che, pensa un po', è un anziano dottore giapponese, non viene mai a pranzo. È un tipo strano, che preferisce farsi da sé le sue brodaglie, ma viene però la sera con Herr Gustav e i due si bevono diversi grappini. Lui va matto per lo Himbergeist, la grappa di lamponi. Anche Otto veniva spesso ed era quello che beveva più di tutti, ma anche il più silenzioso.» Prende un sorso dalla tazza e continua: «Nel castello abita anche la sorella del proprietario: il marchese Von Beilhart, che è stato un tempo margravio di non so quale paese ai confini con la Slovacchia. Lui vive di solito in Germania e viene qui solo di tanto in tanto, mentre lei ci risiede stabilmente perché le piace il nostro clima. È assistita da un'immigrata dell’est che le fa da badante e dama da compagnia. Spesso vengono qui assieme. C'è anche un custode-giardiniere o meglio l'uomo di fiducia del marchese, un tuttofare che cerca di limitare il degrado dell'edificio, un certo Manfred, un vedovo silenzioso e solitario che vive lì da sempre, non proprio nel castello, ma in una dependance, una casupola addossata all'esterno della roccia.» Un bel po’ di gente, penso e spero di riuscire a parlare con tutti senza perdere troppo tempo. «Grazie, per ora mi basta. Adesso, per favore, prepara una colazione completa per il mio brigadiere che arriverà fra poco e poi torna a raccontarmi cos’è successo al morto.» Mentre finisco il mio caffè arriva Steffi, ben pettinata, con i capelli raccolti a chignon e vestita con jeans, camicetta bianca e una bella giacca di lana ricamata. Si siede e con calma si versa caffè e latte, poi comincia a imburrare una rosetta tagliata a mezzo. Torna anche Magda. «Hai visto che bella la mia sorellina?» Steffi ride anche con gli occhi, mentre le si appoggia al fianco e butta indietro la
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testa per guardarla da sotto in su. Sono proprio un bel quadretto: Steffi bionda e con gli occhi chiari e la sorella mora e con gli occhi neri. Resterei a guardarle volentieri, ma mi impongo di ricordare che sono qui per il morto. «Allora Magda, raccontami cosa è successo.» Lei non fa in tempo a rispondermi che finalmente Lorusso arriva. Entra, si guarda attorno e poi viene verso di noi. Gli faccio segno: «Siedi. Ti ho ordinato la colazione, così mangi qualcosa mentre ci raccontano cos'è successo.» Lui mi ringrazia e mentre si accomoda guarda le due ragazze, soprattutto Steffi che, adesso che è vestita e pettinata, fa un figurone. Io allora le presento: «Queste sono le sorelle Wieser: Magda la maggiore e la signorina Stefanie...» poi rivolto a loro aggiungo «…e questo è il brigadiere Giacomo Lorusso.» Ometto il vice per farlo contento, poi, tanto la sua promozione è prossima. Lorusso scatta in piedi allontanando bruscamente la sedia e battendo i tacchi. Formale e solenne, nel suo Hochdeutsch (tedesco forbito) più scandito dichiara: «Molto piacere, signorine. Sono onorato di conoscervi.» Ribatte i tacchi e fa una specie di inchino. Vedo che le due ragazze faticano a rimanere serie. In quel momento esce da dietro la stufa una signora anziana con il vassoio della colazione. Sopra il Dindrl, il costume tradizionale, indossa un ampio grembiule bianco. È un po’ sovrappeso, ma ha un bel viso aperto e sorridente e gli occhi chiari, gli stessi che ora noto sul volto di Steffi mentre questa si volge verso di lei e dice: «Ciao, nonna Thilde.» È la mia volta di alzarmi in piedi: «Molto piacere, signora Thilde. Sono il capitano Zeno Marai. Questo è il brigadiere Lorusso. Purtroppo siamo qui per indagare sull’incidente capitato a Otto» e qui esito perché mi accorgo di non saperne nemmeno il cognome, prima di concludere: «Grazie per la colazione.» «Piacere mio, capitano» risponde inclinando un po’ il capo di lato, poi mi guarda fisso con un ampio sorriso e chiede, quasi con trepidazione: «Mi scusi ma non posso fare a meno di notare che il suo cognome particolare è lo stesso dello scrittore Sandor Marai. Lei è dunque di origine ungherese? Ed è forse parente del buon Sandor?» Mi meraviglio alquanto che la cara signora conosca i libri di Sandor,
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ma la cosa mi fa piacere. «In effetti il mio bis-bisnonno si trasferì qui dall’Ungheria nel 1800. Pare che avesse conosciuto la mia bis-bisnonna alle terme di Balatonfüred dove lei si era recata come dama di compagnia di una ricca signora di Bolzano. Lui era un giovane ufficiale dell’esercito imperiale e se ne innamorò a tal punto che mosse mari e monti per farsi trasferire qui e poi sposarla. Dello scrittore Marai non so se sono parente: potrebbe forse essere, ma solo alla lontana.» «Ah, che cosa romantica. Una volta o l’altra deve raccontarmi qualcosa di più della sua famiglia, se non le dispiace. Comunque adesso non voglio disturbare. Prego, continuate pure. Io torno in cucina.» Fa un sorriso sia a me che a Lorusso che nel frattempo si è rialzato precipitosamente in piedi e se ne va. Lorusso si risiede, si scusa con le ragazze e si versa un caffè. Mentre addenta di gusto un panino con burro e marmellata, io prego Magda di tornare ai fatti della mattina. «È stato presto, verso le sei. Mi ero appena fatta un caffè ed ero seduta in camera mia a berlo in santa pace, mentre controllavo la lista della spesa da fare per oggi e i conti di ieri.» Al mio aggrottare le sopracciglia, un po’ stupito, spiega: «La sera sono troppo stanca e preferisco fare queste cose la mattina presto, prima di svegliare Maria e poi nonna Thilde e Steffi. In cambio mi lasciano riposare un paio d’ore nel pomeriggio.» «Chi è questa Maria?» chiedo. «Una donna sui quarant’anni, anche lei immigrata dell’est, che ci ha raccomandato proprio la badante della marchesina. È una brava signora, vedova, che viene a lavorare qui per mantenere la figlia agli studi. Vive con noi e dà una mano, soprattutto in cucina, a nonna Thilde che da sola non può farcela e fa poi anche le pulizie e i servizi su al castello, così può mandare a casa dei bei soldini.» Poi riprende il filo del discorso interrotto: «Ho sentito battere alla porta del vecchio ingresso, qua sotto alla mia finestra e urlare. Mi sono affacciata e ho visto Otto. Era stracciato e insanguinato, piangeva e urlava come un ossesso e francamente sembrava impazzito. Mi faceva paura. Gridava di prendere una corda e legarlo e che poi gli passava. Probabilmente parlava della furia che lo aveva preso. Io non sapevo
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bene come comportarmi, ma lui era veramente disperato e mi ha fatto pena. Ho detto che sì, avevo capito e sono andata nella vecchia stalla, dove sapevo che c’era una matassa di corda.» «Quando sono uscita da dietro l’ho visto che correva in tondo, come se fosse cieco e lo sentivo piangere e lamentarsi. Era come se fuggisse da uno sciame di vespe nere, ma in giro non c’era nulla. Poi ha sbattuto contro il montante del telone che ripara il terrazzo e così ha deviato improvvisamente verso lo strapiombo. Io ho urlato di fermarsi, ma lui non deve aver sentito, anzi mi è sembrato che non sentisse proprio più nulla e così ha superato il muretto ed è cascato di sotto. Mi sono sporta a guardare e l’ho visto a terra, che cercava di muoversi. Sono corsa lungo la strada, fino giù. Lui si era spostato e stava addossato alla parete. Si è come raccolto un attimo dentro se stesso, rantolando e poi è rimasto immobile, a occhi spalancati Ho provato a scuoterlo, ma mi è sembrato che fosse proprio morto.» Tace e china la testa per un attimo. Evidentemente è provata dal ricordo di quei momenti. Io prendo la sua mano abbandonata sul tavolo, cercando di confortarla. Lei la ritira solo quando riprende il racconto. «Dovevo tornare fino su a piedi per chiamare il 118, ma per fortuna è passato il furgone del fornaio che porta il pane per noi e per il castello e mi ha dato un passaggio. Così ho telefonato e poi ho svegliato Steffi e mandato giù lei ad aspettare l’ambulanza. Io dovevo preparare per la giornata, accendere la stufa e svegliare la nonna.» Tace ancora un poco, a testa china, poi alza lo sguardo su di me: «Ecco, è tutto qui. Una cosa terribile e inspiegabile. Deve essere impazzito o forse era sonnambulo e stava vivendo un incubo da cui non riusciva a svegliarsi.» Sorbiamo il caffè in silenzio, poi Steffi con la bocca piena interviene: «Forse ha spiato le Ondine e loro lo hanno fatto impazzire.» Lo dice con noncuranza, ma non sembra che sia solo una battuta. Guardo interrogativo Magda che fa un cenno con la mano, come a dire di lasciar perdere, ma io chiedo: «Cos’è questa storia?» Magda alza le spalle: «Una sciocchezza! Una vecchia leggenda locale racconta che nelle grotte e gallerie che si aprono sotto il castello ci siano dei laghetti in cui abitano delle Ondine bellissime che amano danzare nude ai bordi dell'acqua. Se un uomo osa insinuarsi nei
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meandri per spiarle viene punito severamente. Gridando "Au und weah, iatz konn di nix rettn!" (Disgrazia e dolore, adesso più nulla ti potrà salvare!) gli sono addosso e lo tormentano. Spesso lo fanno impazzire, a volte lo uccidono. Nonno Stephan diceva che amano scorticare vivi gli intrusi, ma credo che mescolasse la leggenda di Marsia della mitologia greca che lui amava tanto, con le storie locali.» Steffi interviene ridendo: «Da piccolina ero qui a passare le vacanze. La nonna Thilde mi stava lavando nella tinozza e naturalmente ero nuda. Il nonno è entrato e si è coperto il viso con le mani gridando: "Un'ondina! Una bellissima ondina nuda. Devo fuggire prima che mi faccia scorticare vivo se la guardo." La cosa mi ha molto divertito e gli ho chiesto poi chiarimenti. Così mi ha raccontato per bene la storia delle Ondine della fonte scura. Mi è sembrata una storia bellissima.» Ride di gusto raccontando l’episodio e Lorusso la guarda incantato, a bocca aperta con pane e burro nella mano bloccata a metà del gesto. L’idea di Steffi nuda deve averlo colpito molto, perché il boccone gli va di traverso, diventa paonazzo cercando di trattenersi, poi viene preso da un accesso di tosse. Steffi aspetta che si ricomponga cercando di non ridere troppo, poi precisa con serietà che comunque è proprio la leggenda delle Ondine che ha dato il marchio alle creme di bellezza che producono al castello e Lorusso fa grandi cenni di approvazione, che non c’entrano niente, ma danno il senso della sua partecipazione emotiva a tutto ciò che la ragazza dice. La faccenda del castello con le sue leggende si sta complicando un po’ troppo e il fascino di Steffi mi sta rincitrullendo del tutto Lorusso e soprattutto stiamo facendo troppo tardi. «Lasciamo perdere per ora le Ondine e tutto il resto. Poi mi racconterete tutto di questo castello e anche della fonte oscura e delle grotte. Adesso Steffi mi farà la cortesia di accompagnarci là e lungo la strada mi dirà come fa di cognome questo Otto e che tipo era. Forza, Lorusso sbrigati a finire la colazione.» Così, dopo poco, finalmente ci avviamo verso questo castello fuori dal mondo, dove abita strana gente e per sovrappiù ci sono pure le Ondine, nude e assassine. Questa volta sono proprio sistemato per le feste.
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IV
Usciamo dal bosco e ci affacciamo su una radura inondata di sole, ai piedi di una parete di roccia che si innalza a strapiombo. C’è una rotonda pavimentata a cubetti di porfido in cui si innesta la strada asfaltata che arriva dal Gasthaus facendo un percorso più lungo rispetto al breve ma ripido sentiero che abbiamo preso noi. Al centro un’aiola di rododendri e altri sempreverdi, a lato alcune panchine esposte al sole, ma non si vede nessun castello né altra costruzione! Steffi ride della mia espressione perplessa: «Vedi capitano, lo chiamano anche il «castello che non c’è» e mi pare che il nome sia proprio quello giusto.» Poi si avvia e noi la seguiamo sentendoci piccoli piccoli sotto quell'imponente parete nuda che ci sovrasta. Man mano che ci spostiamo di lato lungo la rotonda, quella che sembrava solo una sottile fenditura della roccia di fronte a noi, si rivela essere molto più ampia. Non si notava perché è rivolta verso est e defilata rispetto al sentiero, ma ora si mostra nelle sue dimensioni reali. La frattura divide il costone per tutta la sua altezza e quando ci affacciamo dentro, scopriamo un cortiletto racchiuso fra le alte pareti. Nel fianco a sinistra è incuneata una facciata che guarda un po’ a sud e che comincia a essere illuminata di striscio dal sole e lo resterà, penso, fino al primo pomeriggio. È molto semplice e costruita con blocchi di pietra ricavati probabilmente sul posto che si distinguono a malapena dalle pareti di roccia circostanti. Al piano terra c’è un portale strombato a tutto sesto, con inserita una porticina più piccola e a lato due finestre con pesanti inferriate. Sopra queste, un camminamento col parapetto merlato sporge dalla parete di roccia e si allunga fino a collegarsi con l’altra facciata, incuneata nel lato opposto della fenditura, dove probabilmente la luce del sole non arriva mai. I merli del camminamento sono irregolari, forse per mimetizzarsi meglio con le rocce dietro e in effetti non ho notato quello sporto sulla parete fino a quando non l’ho visto collegato alle facciate. Tutto è piuttosto
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«puntuto». Diversi merli e i coronamenti delle cornici di porte e finestre finiscono con guglie e speroni. I doccioni sono decorati da diavoli e mostriciattoli. La facciata sul lato più buio è praticamente solo una muraglia liscia, a parte l’apertura che dà accesso al camminamento e numerose feritoie sparse qua e là. Al piano terra è stato però inserito un ampio portale, un dado quadrato, modernissimo tutto di cristallo, che in effetti non sta male e alleggerisce la cupa struttura in pietra. A lato c’è una tabella in vetro che nei colori argento e azzurro riporta il logo della ditta. Steffi mi dice che è l’ingresso del laboratorio e che dietro vi è una caverna molto vasta. La porticina incassata nel portone di fronte è aperta e Steffi ci informa che uno dei compiti di Otto era quello di tenerla chiusa. Dentro c’è una vasta sala buia. La poca luce che filtra tra le inferriate della finestra mi fa intuire un alto soffitto a crociera. Di fronte, sale una scala che si ritorce verso destra. Nella parete di lato alla scala si trova una pesante porta borchiata, semiaperta, che lascia intravedere un piccolo vano appena illuminato da un vago chiarore verdino. Dopo pochi passi mi accorgo che quella tenue luce proviene dalla spia di un ascensore, che reca un’incongrua nota di modernità a quell’ambiente medioevale. Subito a fianco c’è un’altra porta aperta che dà probabilmente nella stanza la cui finestra è l'ultima di quelle che abbiamo visto affacciarsi all’esterno. «Quella è la stanza di Otto, lo so perché mi hanno mandato una volta a chiamarlo.» Ci dice Steffi. «Ha lasciato aperta anche questa porta.» Ci affacciamo. Nella zona sotto la finestra si nota un disordine generalizzato, aggravato da alcuni oggetti rovesciati. Di fronte, il letto è del tutto sottosopra e manda un forte lezzo di vomito. Faccio cenno ai due di restare sulla porta e mi accosto. Il letto è disfatto e aggrovigliato. Sembra sia stato teatro di una lotta ed è sporco dappertutto. Per fortuna conservo abitualmente alcune bustine di nylon rigido nel taschino. Ne uso una per prendere un campione di vomito, cercando di non sporcarmi. Di fianco c’è la porta che va in bagno. Mi affaccio, ma dentro sembra tutto in discreto ordine. Torno alla porta da Lorusso che ha ancora con sé la macchina fotografica. «Fa qualche foto e sta attento di non pestare il vomito e non
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toccare nulla.» Steffi si è tirata indietro e sembra un po’ frastornata. Mentre la raggiungo sentiamo dei passi che scendono la scala e appare un tipo alto e ben piantato con folti capelli bianchi e sopracciglia cespugliose che si ferma un attimo interdetto a guardarci. Dopo avermi scrutato indagatore si rivolge alla ragazza: «Buongiorno, signorina Stefanie. Vuole essere così gentile da spiegarmi cosa fa nella stanza di Otto assieme a un carabiniere? E dov’è poi Otto?» Steffi guarda me prima di rivolgersi a lui e al mio cenno risponde: «Buongiorno Herr Gustav, c’è stata una disgrazia, il signor Otto è morto precipitando dallo strapiombo davanti al Gasthaus. Il capitano è qui per svolgere gli accertamenti.» Herr Gustav non dice nulla. Continua a scendere con calma gli scalini che restano, mentre continua a fissarci. Io per contro assumo la mia aria ufficiale e aspetto a vedere cosa farà. Quando mi arriva di fronte si raddrizza un attimo, quasi a mettersi sull’attenti e si presenta: «Mi chiamo Gustav Knobel, signor capitano, ero l’attendente del margravio e sono adesso il responsabile della ditta. Sono a sua completa disposizione.» Ha parlato in un tedesco perfetto e senza inflessioni, direi in tono quasi solenne e resta a fissarmi. Forse vuol vedere se ho percepito la serietà, in qualche modo marziale, con cui si è messo a disposizione o forse cerca solo di capire se anch'io parlo tedesco. Sto al gioco e mi presento in tono ufficiale: «Capitano Zeno Marai della stazione di Merano. La ringrazio della disponibilità. Avrò certo bisogno di lei.» In quell’attimo esce Lorusso con la macchina fotografica in mano e si ferma a guardare Herr Gustav che sta sempre sull’attenti. Questi risponde allo sguardo indagatore tornando a presentarsi anche a lui, sempre con tono militaresco. Lorusso va in brodo di giuggiole, per il tono militare e per il chiaro accento «Hochdeutsch». Mi guarda un attimo di sottecchi e poi batte i tacchi e risponde da par suo: «Brigadier Lorusso.» Herr Gustav strabuzza gli occhi: Brigadier in tedesco corrisponde al nostro brigadiere generale, cioè generale di brigata. Lorusso capisce la stupidaggine che ha fatto, ma Corporal, caporale, che sarebbe stata la
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traduzione giusta del suo grado lo farebbe sentire sminuito, soprattutto davanti a Steffi e così intervengo io a metterci una pezza: «Nell’Arma dei carabinieri brigadiere è un graduato.» Herr Gustav non ribatte al riguardo, ma mi chiede: «Mi perdoni, ma vorrei sapere qualcosa di più sull’incidente e se possibile dare un’occhiata alla stanza.» Lo accontento e lo faccio entrare, senza lasciarlo avvicinare al letto e gli spiego per sommi capi che Otto è cascato di sotto e che sembrava colto da un attacco di pazzia. Herr Gustav guarda tutto in silenzio, serio e imperturbabile, poi sembra perdere la calma e sbotta: «Guardi che disordine! Disciplina! Mancanza di disciplina. Otto si è sempre lasciato troppo andare. Me lo aspettavo, prima o poi. Gli avevo detto tante volte che doveva controllarsi di più, dare ordine alla sua vita.» Poi, in tono nuovamente calmo, continua: «Mi spiace per lui, ma se l’è cercata». Sospira e aggiunge: «E del resto aveva ormai settantasei anni.» Io non faccio commenti a quello strano riferimento alla disciplina. Usciamo dalla stanza. La chiudo con la chiave che poi gli consegno direttamente: mostrandogli fiducia spero di ottenere da lui la massima collaborazione. «Per il momento non faccia entrare nessuno, per favore. Le dirò io quando potrà fare pulizia, ma penso già domani.» Lui risponde sempre in tono militare: «Agli ordini, signor capitano. Se permette però adesso dovrei aprire la ditta e organizzarne la giornata. Mi serve solo qualche minuto, poi sarò a sua completa disposizione.» Aspetta il mio assenso e chiede: «Posso andare all’ufficio con la signorina Stefanie o ha ancora bisogno di lei qui?» La guardo. Lei non sembra avere obiezioni e così rispondo: «Prego. Se serve, sentirò la signorina più tardi. Lei, Herr Gustav, poi sarà così gentile da farmi visitare la casa e conoscere gli altri residenti. Andiamo adesso, esco con voi. Resterò ad aspettarla fuori, in giardino.»
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V
Quando esco la luce mi assale e mi accorgo di quanto fosse opaca e buia l’atmosfera all’interno. Mentre sono fermo un attimo a godermi il sole, suona il mio cellulare: è Kaserer che mi informa che sono venuti con il furgone a ritirare il cadavere. Bene. Mi volgo a Lorusso e gli dico di prendere la camionetta e andare a recuperare il collega per poi tornare in caserma assieme a lui. Io sarei tornato più tardi con l’Alfa. Lo vedo esitante e penso di sapere il perché. Sospiro e lo esorto: «Vai tranquillo, tanto Steffi adesso deve lavorare e non abbiamo più nulla da chiederle, per ora. Tu, anzi, vai a scaricare e a mettere in ordine le foto. Se vuoi vedere Steffi torna qui stasera a cena, nessuno te lo impedisce.» Lui diventa rosso. «Ma no, capitano. È che non volevo lasciare lei da solo. Vado subito.» Mi guardo attorno. Poco lontano, sedute su una panchina al sole ci sono due anziane signore, probabilmente la marchesina con la badante. Davanti hanno un tavolino pieghevole ben imbandito e stanno facendo colazione. Decido di parlare prima un po’ con loro. Domando permesso e mi siedo accanto. La marchesina Eleonora mi accoglie con un sorriso amabile e parlando in un discreto italiano chiede: «Come mai abbiamo qua un ufficiale dei carabinieri? È forse per questo che non vedo Otto? L’avete magari arrestato?» Poi ride della sua battuta. «Ma no, cosa dico. Povero Otto.» «Ah, signora mia, povero Otto, veramente.» Rispondo in italiano, poi passo al tedesco e le spiego cosa è successo. Lei sembra che ci resti molto male. Accenna anche una lacrima. «Che cosa terribile! Mi spiace molto. Otto non era cattivo. Un po’ strano, a volte, ma di animo buono.» La badante è una donna sulla sessantina che appare molto meno impressionata dalla sorte di Otto, ma mi ascolta interessata. Mi rivolgo a lei in tedesco, anche per vedere se lo parla. Molte immigrate dell’est parlano solo un po’ di italiano. Le chiedo se non ha notato per caso
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qualcosa di strano nel comportamento di Otto negli ultimi tempi. Lei mi risponde tranquilla, anche se con un linguaggio un po’ scolastico e antiquato: «No, Herr Hauptmann, nulla, assolutamente. Poi Otto non era un tipo molto socievole e se ne stava spesso appartato a rimuginare. Non avevamo molti contatti con lui, come del resto con gli altri della casa. Lei comprende che io e la signora facciamo vita a parte, per così dire.» «Oh, sì.» La marchesina le appoggia una mano sul braccio e la guarda con confidenza e gratitudine. Poi si volge a me e cinguetta: «Josepha è veramente un’amica. Non solo mi assiste come e meglio di una cameriera personale, ma mi accompagna in giro in macchina a fare shopping, a vedere mostre, al bar o al ristorante. Con lei mi sembra di vivere una seconda giovinezza. Le sono molto grata.» Ride contenta, poi si ricorda della morte di Otto e turbata sospira. «Come si può impazzire così, di botto? Ieri era tutto normale e oggi ti svegli che non sei più tu.» Scuote la testa e i capelli bianchi e fini, illuminati dal sole le creano un’aureola attorno. Io mi sto domandando dove tengano l’auto per le loro escursioni e vedo che adesso ce ne sono due parcheggiate in un tratto ombreggiato, forse quelle dei due impiegati. Noto anche una grossa porta nella parete rocciosa di lato al portale dell’azienda che potrebbe dare accesso a una rimessa. Prima mi era sembrata solo una macchia d’ombra, ma adesso il sole la sta rivelando. Mentre la osservo mi scappa di rispondere sovrappensiero alla domanda retorica della marchesina: «Già, signora mia, sembra impossibile eppure succede di impazzire dalla sera alla mattina e anche senza l’aiuto delle Ondine.» La cosa sembra colpire le due signore che mi chiedono all’unisono: «Le Ondine? Cosa c’entrano le Ondine?» Mi pento subito di essermi lasciato scappare quell’accenno alla leggenda, ma ormai sono incastrato e mi tocca raccontare l’ipotesi di Steffi sulle cause della pazzia di Otto. La marchesina Eleonora è affascinata: «Sarebbe molto poetico se il povero Otto fosse stato fatto impazzire come punizione per aver osato guardare le bellezze proibite delle Ondine delle grotte.» Ride estasiata, mentre probabilmente insegue qualche piccante ricordo di gioventù. «Conoscevo naturalmente la storia delle Ondine che abitano nelle
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grotte, qui tutti ne parlavano, ma non sapevo la parte in cui ballano nude e fanno impazzire gli uomini che le guardano. Eppure ho abitato qui diversi mesi da bambina dalla Tante Hildegarde, la sorella nubile di mio suocero. Forse però me ne sono semplicemente dimenticata: ero così piccola.» Si porta la mano al mento, con gesto grazioso e scuote la testa leggermente, come a sottolineare la stranezza del fatto o forse anche a rimpiangere quei tempi così lontani. Josepha non conosce la leggenda e ne sembra molto colpita. Considera la cosa scuotendo la testa, mentre versa una tazza di tè alla signora. «Purtroppo capitano la realtà raramente è poetica e suggestiva come il mondo delle antiche leggende, ma bisogna ammettere che la storia delle Ondine potrebbe essere in fondo una ragione per la pazzia improvvisa di uno come Otto che era più che altro in età da demenza senile. Mi rendo conto che per lei non può essere una spiegazione da mettere a verbale, ma chissà.» Sospira. «C’è sempre un fondo di verità nelle vecchie leggende. Magari non sono le Ondine, ma potrebbe esserci qualcosa nelle grotte. Qualche fenomeno naturale che può far impazzire una mente debole. Otto in effetti non aveva molto da fare e spesso spariva. Pensavamo che si rintanasse in camera sua, ma forse invece andava in giro a esplorare le grotte. Chissà cosa può averci trovato.» Sorrido senza risponderle, non ho nessuna voglia di addentrarmi in questioni più o meno metafisiche. La vecchia signora però scuote la testa, sembra particolarmente dispiaciuta, quasi vergognosa di non ricordare tutta la storia delle Ondine. La badante coglie il suo imbarazzo e le corre in aiuto. La conosce bene evidentemente e cerca di non farla agitare. Le pone una mano sulla spalla con atteggiamento protettivo: «Mia cara Eleonora, probabilmente non ne sa nulla perché quella delle Ondine che danzano nude non è una favola adatta a una bambina e non le avevano raccontato questa parte.» Eleonora si rasserena, sorride sollevata e mi chiede se desidero una tazza di tè; io lo accetto molto volentieri e me lo bevo a occhi socchiusi, con il sole in faccia. Dopo poco esce Herr Gustav e si ferma, rispettosamente sull’attenti, ad aspettarmi, per cui ringrazio le signore per la cortesia, prendo congedo
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e raggiungo l’anziano sovrintendente. Questi sembra desideroso di collaborare e mi chiede da dove io voglia cominciare. «Passiamo dal dottore giapponese e poi sentiamo gli impiegati e, se possibile, anche Manfred, il custode. Non sarà una cosa lunga.» In effetti mi sono ormai convinto che la morte di Otto sia la conseguenza del suo violento attacco di pazzia e che non valga la pena scavare più di tanto nell’ambiente alla ricerca di moventi nascosti. Voglio ancora solo conoscere questo strano figlio del Sol Levante che è finito a fare il chimico sulle pendici del Tessa e poi fare quattro chiacchiere con i due impiegati, tanto per sentirmi in pace con la coscienza e tacitare il tarlo sospettoso che mi rode da quando ho visto il cadavere. Sono anche curioso di vedere questo misterioso laboratorio per prodotti di bellezza installato in una grotta, come le fabbriche delle V1 e V2 della seconda guerra mondiale. Il portale in vetro si apre automaticamente quando ci accostiamo. Subito dietro c’è un ampio ingresso triangolare. Anche la parete di destra è tutta di vetro e dietro si trova l’ufficio dove lavora Steffi, che ci vede entrare e fa un cenno di saluto. L’ufficio così inclinato si affaccia verso la valle e prende luce indirettamente dal portale. Verso sinistra c’è un’anticamera con armadietti, panche e appendiabiti. Herr Gustav mi porge un camice, le soprascarpe e la cuffia. Mi prega di indossarli mentre lui fa altrettanto. Così bardati, che sembriamo i miei colleghi del RIS, entriamo in un'ampia grotta che mi ricorda quelle super-tecnologiche dei cattivi nei primi film di 007. Resto a bocca aperta per l’ampiezza dell’ambiente e il contrasto fra la nuda roccia e il luccichio di cromo delle molte attrezzature. Incastonate in un fianco vi sono alcune cabine in vetro e acciaio alternate a banchi di lavoro. Sul fondo, chiusi fra pareti modulari dotate di grandi vetrate, si vedono macchinari complicati che servono probabilmente per confezionare i prodotti del laboratorio. Intravedo che uno di essi è in funzione e sta riempiendo con una crema azzurrina una fila di vasetti che scorrono lungo un nastro trasportatore, sotto la sorveglianza di una persona in camice e mascherina come noi. L’aria è secca e probabilmente filtrata e mantenuta a temperatura costante. L'altro impiegato è seduto davanti al monitor di un computer e forse
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controlla il processo di lavorazione. In una cabina, quello che sembra il medico giapponese sta manipolando qualcosa, con le braccia guantate dentro a un vano schermato dal vetro a ghigliottina. A fianco è pieno di apparecchiature su cui occhieggia una serie di lucette. Herr Gustav mi spiega che dovremmo aspettare che il dottore finisca il lavoro nella cabina sterile, che ci vorrà qualche minuto e che nel frattempo potrei parlare con gli impiegati. Mi accompagna al tavolo dove siede il primo e poi si allontana discreto di qualche passo. Il ragazzo si gira verso di me senza alzarsi, quando lo interpello e mi dice sbrigativo che lui Otto lo conosceva appena, che gli dispiace, ovviamente dell’accaduto, ma che non saprebbe cosa altro dirmi. Parlando del suo collega occupato alla macchina confezionatrice aggiunge: «Credo che sia inutile che perda tempo a parlare con Herbert capitano. Quando prima Steffi ci ha informati, anche lui ha commentato esattamente con le parole che ho detto io prima e cioè che lo conosceva appena e non saprebbe cosa dire al riguardo dell’incidente.» Nel frattempo il dottore ha finito il lavoro nella cabina sterile, si è tolto i guanti e ci raggiunge. È abbastanza alto, secco e segaligno, con i baffetti grigi e pure i classici occhialetti degli scienziati giapponesi dei film. Il portamento è di calma e distaccata superiorità. Accenna a un inchino e si presenta, in un tedesco che, pur avendo la dolce cantilena orientale, è preciso e ricercato. «Sono il dott. Hiro e svolgo qui il compito di direttore scientifico. Ho saputo poco fa della tragica fine di Otto e me ne dolgo assai. Mi dica se e come posso esserle utile, capitano.» «Solo qualche domanda dottore: ha notato qualcosa di strano o di diverso in Otto, negli ultimi tempi?» Assieme ci avviamo verso Herr Gustav, mentre Hiro ci pensa un po’ prima di rispondere con un semplice e categorico: «Assolutamente no.» Mi rivolgo allora a entrambi: «È venuto qualcuno a trovarlo o ha forse ricevuto telefonate o lettere? C’è stata ultimamente una qualsiasi cosa che fosse comunque diversa dal solito?» Sia Gustav che Hiro scuotono il capo. «No, capitano. Non c’è stato veramente nulla di inconsueto.»
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Mi sembrano del tutto sinceri. Decido che non vale la pena insistere, ma prima di andare butto là: «Sulle grotte e i cunicoli che si inoltrano nella grotta, circolano strane storie. Le conoscete?» Hiro sorride: «Sì, certo. È proprio la storia delle Ondine che ci ha fatto venire l’idea del nome e del logo per le nostre creme di bellezza.» A questo punto ringrazio, saluto e me ne esco. Il sovrintendente mi segue. Passando davanti all’ufficio metto dentro la testa per salutare anche Steffi e ringraziarla per la sua disponibilità. Lei lascia per un attimo la tastiera del computer, mi fa un gran sorriso e dice di tornare a trovarle. A me sembra di notare che abbia un po’ calcato l’accento sul trovarLE, cioè a trovare lei e Magda, ma forse sono in vena di romanticismo. Fuori chiedo se è possibile vedere il garage di cui prima ho intravisto la porta e sono subito accontentato. È veramente grande. Dentro ci sono due auto ben tenute e un vecchio camion militare parcheggiato accosto a una parete. Occupano però solo parte dello spazio e nel lato adiacente al laboratorio vi è una zona delimitata da moduli in legno che ospita un bancone e accanto alcuni pallet carichi di scatoloni, ordinatamente accostati. «Qui teniamo il magazzino e consegniamo le merci. Le scatole sigillate in laboratorio sono condotte direttamente qui dai nastri trasportatori, pronte per la spedizione.» Sul fondo della grande sala c’è un portone chiuso da grossi catenacci. Herr Gustav mi dice che dà accesso a vecchi magazzini, caverne e gallerie e chiede se voglio visitarle. Per un attimo sono tentato di vederle, ma è tardi e al momento non mi sembra necessario. E poi non ho proprio voglia di vedere cunicoli bui che inghiottono acque scure, per oggi mi è bastata la caditoia di Tell. Rispondo che per me è sufficiente così e che l’indomani potrà far ripulire anche la stanza di Otto. Ormai mi sembra tutto abbastanza chiaro e credo di potermi fidare di Herr Gustav al punto da chiedergli il favore di parlare lui col giardiniere e di chiamarmi se risultasse qualcosa di interessante. Per ultima precauzione domando di chi si servono per le pulizie. «Una volta alla settimana viene su una ditta specializzata con diverse persone:
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due sanno come pulire a fondo il laboratorio senza fare danni e altri trattano tutto il castello abitato. Per sua tranquillità, capitano, le preciso che verranno proprio domani e che nei giorni scorsi nessun estraneo è venuto al castello. Per il servizio leggero c’è Maria, una signora dell’est, come Josepha, che viene su alcune ore tutti i giorni per il servizio di fino: fare i letti, spolverare, rigovernare e passare l’aspirapolvere. Quando serve lava le tende, stira, ecc...» Intanto siamo usciti di nuovo fuori. Mentre mi accingo a congedarmi gli faccio la domanda che mi era rimasta da un po' sul gozzo: «Cosa voleva dire quando riguardo alla morte di Otto, ha parlato di disciplina, anzi: di mancanza di disciplina?» Lui mi fissa serio e accenna col capo. «Capisco la sua curiosità. In effetti è un po’ difficile da spiegare. Se permette l’accompagno un tratto e cerco di farle capire.» «Andiamo: l’ascolto volentieri. Se scende fino al Gasthaus le offro una birra.» Passando salutiamo la marchesina e la sua dama di compagnia che sono ancora sulla panchina a godersi il sole e c’incamminiamo attraverso il bosco. Il sovrintendente mi affianca mentre comincio a scendere e inizia a raccontare. Evidentemente ha voglia di parlare. Forse si sente solo anche lui. Bene sentiamo cosa mi dice. Magari mi chiarirà il quadro d’assieme di questa strana compagnia di persone in questo strano posto. «Vede capitano, noi tre, Otto, Iasuji e io, siamo venuti qui alla fine della guerra e dopo cinquant’anni restiamo in fondo ancora dei reduci. Eravamo agli ordini del colonnello, il margravio Von Beilhart, sul fronte orientale quando c’è stata la rotta sotto la spinta di quella che i russi hanno chiamato operazione Bagration.» Penso che gli anni sono cinquantaquattro, per la precisione, e che la sta prendendo assai alla lontana e poi non so molto di questa «operazione Bagration». Mi informerò. Lui continua: «È stato terribile! Le nostre linee si sono letteralmente sbriciolate. Erano ormai sottili e senza riserve e i russi avevano messo in campo una forza veramente incredibile per quantità e qualità. Avevano un’infinità di carri armati enormi che facevano fuori i nostri Tigre come fossero giocattoli e artiglieria e Katiuscia a non finire.
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La nostra piccola unità si è trovata di colpo in territorio nemico, tagliata fuori e senza più riferimenti né collegamenti. Con due camion che avevamo in dotazione abbiamo iniziato una ritirata forsennata correndo in alcuni tratti paralleli alle unità corazzate russe che avanzavano e a volte in mezzo al caos delle nostre truppe in rotta. Cercavamo la nuova linea del nostro fronte, ma ci trovavamo sempre alle spalle o a fianco dei nemici che avanzavano con una velocità stupefacente. Per fortuna abbiamo trovato modo di procurarci qua e là del carburante. Abbiamo attraversato tutta la Polonia finché a un certo punto abbiamo deciso di separarci. Una parte di noi che aveva famiglia nel nord ha proseguito dritto con uno dei camion cercando di rientrare. Noi tre invece non avevamo più alcun parente in patria e abbiamo accettato la proposta del margravio di deviare a sud attraverso la Cecoslovacchia che lui e Otto conoscevano bene, in direzione dell’Austria. Così abbiamo fatto, ma abbiamo trovato che anche là ormai tutto si stava disgregando, pur se più lentamente, e così, una tappa alla volta, abbiamo finito per venire a rifugiarci qui, in questo castello che il margravio possedeva nel Tirolo del sud. Come ha visto conserviamo ancora il camion del nostro viaggio, come una reliquia.» Io lo guardo aspettando, perché in effetti è tutto interessante, ma non spiega ancora nulla. Lui continua: «In Russia, sia durante la nostra avanzata che poi nella ritirata abbiamo vissuto esperienze terribili. Non le dico le cose che abbiamo visto e anche quelle - esita un poco - che abbiamo dovuto compiere.» «Invecchiando tutto ti scivola addosso, ma allora eravamo giovani e a quell’età ciò che vivi e vedi ti entra nella carne. Quando l’orrore è più di quello che puoi sopportare la tua mente si difende e, per non soccombere all’atrocità che ti circonda, fa scattare una specie di blocco emotivo: non provi più niente, nessuna emozione.» Scendiamo lentamente e io ascolto un po’ stupito ciò che questo vecchio mi dice con tanta amarezza. Capisco che sono cose su cui ha riflettuto molto e sono forse anni che cerca qualcuno a cui raccontarle. Io, capitano in divisa, mi sovrappongo un po’ all’immagine del vecchio margravio, che per lui è stato evidentemente una figura quasi paterna e così ha scelto di confidarsi con me.
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Lui continua: «In questo modo eviti la pazzia, ma poi vivere così per molto tempo non è possibile, devi rientrare in qualche modo nel mondo della normale vita fatta di rapporti e sentimenti. Naturalmente è diverso per ogni individuo, c’è chi si difende meglio e chi non ce la fa.» Non faccio alcun commento e non chiedo chiarimenti su cosa fossero in concreto le atrocità a cui accenna, posso immaginarle. «Eravamo degli alienati e non avevamo una casa e una vita normale a cui tornare e in cui immergerci per dimenticare e per ritrovare sentimenti umani. Il margravio ci aveva salvati e ospitati, ma noi potevano fare ben poco altro che lottare coi ricordi per cercare di non esserne sopraffatti.» «Per fortuna Iasuji, oltre che laureato in chimica, aveva da giovane fatto esperienza in una ditta di cosmetici e prendendo spunto dalle Ondine che si narra vivano in queste grotte e dalle sorgenti di acque pure e abbondanti, si è inventata questa attività del laboratorio di bellezza. È stata un vero successo e così abbiamo avuto uno scopo per vivere e abbiamo potuto anche ripagare il margravio che ci aveva ospitato per anni senza chiederci nulla.» «Otto però non aveva abbastanza forza d’animo o forse semplicemente mancava di metodo e disciplina: beveva troppo e si lasciava andare. Mi meraviglio anzi che abbia resistito tanti anni.» Restiamo in silenzio per un tratto, poi gli chiedo a bruciapelo: «Perché la vedo a volte imbarazzato ed esitante quando parla delle grotte?» Senza guardarmi risponde a voce bassa: «Credevo che l’avesse capito. A volte i rumori che si sentono nelle grotte, credo per via di sifoni in cui l'acqua sfiata, ricordano i lamenti dei nostri commilitoni feriti e anche - e qui esita di nuovo - quelli delle nostre vittime. In effetti uccidere era spesso il nostro lavoro quotidiano.» Sembra sincero e credo di capirlo. Nel '96 sono stato in missione a Sarajevo e so cosa vogliono dire le parole guerra e carneficina. Non parliamo più per il resto del cammino e lasciamo che il silenzio leggero del bosco, così vivo di macchie di luce che filtrano fra i rami, richiami di uccelli e sottili ronzii, lavi via gli orrori del passato. Al Gasthaus io ricordo che devo pagare la colazione di Lorusso e mi accorgo di avere anche una fame del diavolo. «Venga, Herr Gustav, beviamo una birra e mangiamo qualcosa.» «Grazie, signor capitano.» Per un istante mi sembra commosso.
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VI
Seduto al tavolo sulla terrazza piena di sole mi guardo attorno e capisco cosa voleva dire Magda quando parlava degli escursionisti che si fermano a fare colazione per la bella vista che si gode da quassù. Davanti a noi si apre piena di sole la val d'Adige, con Lagundo in primo piano e poi, dietro, Merano con le passeggiate, circondate dai vigneti, che si inerpicano sulla collina di Tirolo. A destra i dolci pendii colorati del Monte S. Vigilio si fondono coll’ingresso della Venosta e di fronte fa cortina l’altopiano di Avelengo. Me lo godo proprio il panorama, mentre Herr Gustav, seduto accanto a me appare depresso e non sembra apprezzarlo. Si rianima però di botto quando viene una ragazza a prendere le ordinazioni, mostrando di essere molto più sensibile alle sue grazie che ai colori della valle. «Ecco, questa è la nostra bella Maria.» È tutto ringalluzzito e me la presenta come se avesse lui il merito della sua avvenenza. Fa il galante: «È la fata che mantiene civile e in ordine il nostro vecchio maniero.» La donna, in risposta, fa un sorriso tirato che denuncia chiaramente come sia avvezza agli apprezzamenti del vecchio e li digerisca malvolentieri. Già che ci sono faccio anche a lei e senza troppe aspettative la domanda di prammatica, ovvero se abbia notato qualcosa di strano o diverso nel comportamento di Otto negli ultimi giorni. La sua risposta mi lascia un po' perplesso: «Non so se sia importante, ma l'altro giorno l'ho visto venire dal corridoio interno, quello che dalle stanze porta giù alle grotte, e mi sembrava strano. Aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto, ed era affannato, spettinato e più in disordine del solito. Sul momento ho pensato che avesse bevuto, anche se era ancora mattina e fosse in preda a una delle sue crisi di tristezza, ma poi ho fatto caso che non aveva nessun odore di alcool. Posso dirlo per certo perché mi è passato proprio accanto, come se non mi avesse visto. Ho dovuto scansarmi per non farmi urtare. È sceso in camera sua e si è chiuso
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dentro.» Esita un attimo e mi guarda, come per valutare se può fidarsi a continuare. Io guardo il suo bel viso, aperto, che mi fa subito simpatia e faccio un cenno come di attesa, per invogliarla a continuare. Lei aggiunge: «Mi scusi se mi permetto di dire una cosa che anche a me pare stupida, ma sembrava che avesse visto uno spettro.» Io prendo atto che l'ipotesi della presenza di qualcosa di soprannaturale ha diversi sostenitori e me la cavo con un generico: «Mah? Chissà!» che chiude l'argomento. Così, ordiniamo due boccali di birra alla spina a cui io aggiungo anche uova con speck e patate e lui rapanelli e cetriolini in agrodolce. Le birre arrivano subito, portate da Magda e mentre aspetto le uova le dico che se ha tempo di sedersi con noi, le offrirei volentieri qualcosa. Lei fa segno che va bene, va a prendersi un bicchiere di vino bianco, si accomoda e beve un sorso: «Salute. Due minuti solo, però, vedi che c’è gente.» «Vedo, vedo. Vedrai quanta ne verrà se si spargerà la voce delle Ondine assassine.» Alzo il bicchiere alla sua salute e continuo: «Volevo solo farti sapere che, a parte le diverse creature mitiche che abitano nelle grotte, non mi pare che ci siano altri sospettati d’omicidio. Aspetteremo magari l’esame tossicologico, se il magistrato vorrà ordinarlo, ma credo che l’inchiesta verrà chiusa al più presto.» Beviamo un altro sorso in silenzio, poi chiedo sia a lei che a Herr Gustav: «Mi sapete dire qualcosa di più su questo castelletto così strano? Chiuso e nascosto come un bunker? Cosa doveva mai difendere in questo luogo solitario?» È Magda che mi risponde: «Il nonno se ne era interessato, come del resto si interessava di tutto ciò che riguardava la nostra terra e me ne ha parlato a lungo.» Prende fiato e assume l'aria da maestra. «Come hai visto è solo un palazzotto costruito in una spaccatura della roccia. È poco conosciuto anche perché è praticamente invisibile fino a quando non gli sei proprio davanti. Inoltre nei secoli passati non se ne parlava se non in termini vaghi perché si voleva tenere nascosta la sua ubicazione e anche la sua reale esistenza. Veniva nominato come se fosse solo una leggenda
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perché meno gente lo conosceva, meglio era. Sai benissimo che qua sotto, nella stretta di Tell, c’è sempre stata una specie di confine fra popolazioni diverse fin dai tempi più antichi e in questa zona naturalmente oltre a grandi spostamenti c’erano frequenti conflitti. La gente cercava dunque di tenere segreto questo posto per potercisi rifugiare in caso di bisogno, perché era nascosto e fuori mano e poi le vaste grotte interne permettevano di ricoverare uomini e animali che avevano oltretutto accesso diretto all'acqua e potevano così sostarvi per lunghi periodi. Inoltre era facilmente difendibile: bastavano pochi uomini risoluti a bloccare gli ingressi. Dopo che i conti di Tirolo ebbero preso il controllo completo della regione, cessarono le competizioni fra le varie casate e la funzione del rifugio venne meno e così il castello fu praticamente dimenticato. Infine andò in eredità alla famiglia Von Beilhart, che lo mantenne stentatamente in vita per secoli. Adesso si sono inventati questo laboratorio di prodotti di bellezza che sta avendo un buon successo.» «Complimenti, sei meglio di un'enciclopedia. Ti devo proprio ringraziare.» Lei mi fa la faccia scura: «Speri di cavartela così?» «Be', se vuoi ti invito a cena al "Zur Rose" di Appiano.» «Ma cosa hai capito? Volevo solo ricordarti che prima di andare devi pagare un bel conto: la colazione del brigadiere, uova e birre e poi vedrai cosa ti metto per questo bicchiere di Kerner.» Fa la sua faccia furbetta e aggiunge: «La lezione di storia te la regalo, ma l'invito al Zur Rose lo tengo da parte. Ti farò sapere quando mi è comodo e tu non azzardarti a tirarti indietro, sai!» Se ne va e io resto a chiedermi se si era davvero inalberata o cosa volesse sottintendere. Ma basta, per ora. Allontano il pensiero di ciò che dovrò fare al più presto e cioè il rapporto al magistrato, informare per cortesia il maresciallo Spinoni di Rablà e altre mille incombenze e mi giro a godermi il sole, aspettando le uova.
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VII
Notte fra il 29 e il 30 ottobre 1999 Gustav si sveglia da un sonno agitato. Si gira appoggiandosi sul gomito e strizza gli occhi per riuscire a leggere senza occhiali l’ora sul quadrante luminoso della sveglia. Distingue a fatica che sono da poco passate le due. Si lascia andare sconsolato sul cuscino e fissa il soffitto, vagamente illuminato dalla luce della luna che filtra attraverso le tende. Ha come la sensazione che qualcuno lo abbia chiamato, ma il silenzio è assoluto e per quanto tenda l’orecchio non si sente il minimo rumore. Anche il vecchio castello questa notte ha deciso di non emettere nemmeno uno scricchiolio. Da quando Otto è morto, gli capita spesso di svegliarsi a quell’ora e non riuscire più a prendere sonno. Ha cercato in tutti i modi di combattere l’inquietudine da cui si sente preso: dieta sana, niente alcool e più esercizio fisico. Salvo un giorno che pioveva a dirotto, tutte le mattine, appena alzato, oltre alla ginnastica che pratica con regolarità, si è messo una vecchia tuta ed è uscito a fare di corsa il giro del sentiero che scende attraverso il bosco fino al Gasthaus, per poi risalire proprio in fondo alla gola. Non è servito a niente! Ha pensato anche di riprendere le spedizioni sessuali, perché il sesso per lui è sempre stato uno sfogo piacevole e rilassante, ma le due signorine compiacenti che per anni ha frequentato a Merano, ormai non esercitano più e per ora non gli è sembrato il caso di andare fino a Innsbruck al bordello. Certo che se quella sciocchina di Maria si decidesse a concedergli qualche favore, sarebbe il massimo. Gli è entrata proprio nel sangue quella mora alta e sinuosa, coi capelli lunghi che le svolazzano attorno al viso, ma fino a ora si è sottratta a ogni sua avance.
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Sono troppo vecchio, pensa, ho perso tutto il mio fascino. Eppure ieri sera gli era sembrato che la bella vedova fosse più gentile e disponibile del solito: chissà. Per un qualche tempo si smarrisce in possibili sviluppi di una relazione con lei, seguiti da varie fantasticherie erotiche, ma poi deve ammettere che sicuramente ieri si era illuso di chissà cosa perché era ubriaco fradicio. Infatti ha celebrato insieme a Iasuji il primo mese trascorso dalla morte di Otto con una solenne sbronza giù al Gasthaus. Ha bevuto due birre grandi e poi sette od otto Treber gelate mangiando rapanelli e Hiro si è scolato mezza bottiglia di grappa di lampone. Tornando hanno cantato le vecchie canzoni del tempo di guerra e lui è andato a letto sicuro di dormire come un sasso sino al mattino, ma invece ecco che adesso è sveglio e non si sente affatto bene. Si alza e va alla portafinestra che si affaccia sul ballatoio merlato. La notte è limpidissima e fa molto freddo. La luna non è più piena, ma la sua luce è particolarmente brillante e illumina quasi a giorno l’angusto cortile interno. Le sporgenze creano fili d’ombra che tagliano nette la luce sulle pareti scabre, di fronte e di lato rispetto a lui, che invece resta nel buio. Luce quasi abbagliante o, per contro, ombra scura e impenetrabile: non ci sono sfumature. Non c’è via di mezzo, pensa, e ha la sensazione che ci debba essere un qualche significato nascosto in questa cosa, ma non gli viene in mente niente. Per quanto si concentri, il senso profondo che gli sembra di intuire sfugge a ogni tentativo di definirlo, mentre continua a mormorare tra sé e sé: «Non c'è via di mezzo, non c'è.» Però nel pozzo scuro dietro l'inferriata che chiude il passaggio di fronte a lui, all’altro estremo del camminamento, gli sembra di scorgere un vago chiarore che proietta un’ombra sulla parete del corridoio. Sembra la silhouette di una donna. Gustav guarda attento e affascinato. Da lontano non ha bisogno di occhiali, ci vede ancora bene. Sembra proprio l’ombra di una donna e si muove. Poi la luce viene meno, però dal buio qualcosa si fa avanti: un corpo che si evidenzia perché, avvicinandosi all’esterno, riceve un po’ del riflesso della luna. È una donna sicuramente ed è nuda. Per un attimo si appoggia all’inferriata e il chiarore della luna mette in evidenza il
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corpo bianco e la macchia scura del pube. A Gustav sembra di scorgere anche l’aureola rosata dei seni, ma è un attimo, fugace come un ricordo che la mente non riesce a mettere a fuoco. Gustav trema, ma non sente più freddo, anzi, ribolle. Tutto il suo essere grida: è lei, è Maria, ma la mente scarta inesorabile ogni possibilità che possa essere proprio lei. Inutile che si illuda è più facile che sia un’Ondina o un fantasma. Sono ipotesi surreali e fantastiche, ma meno improbabili della prima, riflette amaramente. Nulla più increspa il nero profondo dell’apertura e lui comincia a pensare di aver avuto un’allucinazione, ma non riesce comunque a trattenersi dall'andare a verificare e così, senza perdere di vista la grata, cerca a tentoni, nel cassetto del mobile a lato, il mazzo con la chiave che la apre e scalzo e in pigiama, corre verso quell'ombra misteriosa che lo attira. Con affanno sceglie la chiave giusta e apre la pesante inferriata quel tanto da sgusciare dentro, cercando di non far rumore. Mentre si inoltra nell’oscurità tende l’orecchio e gli sembra proprio di sentire un lontano chiacchiericcio e una specie di risatina. Non sa se fidarsi dei suoi sensi e pensa che forse sta solo sognando, ma comunque avanza cauto, in silenzio. Con una mano, per sicurezza, segue la parete, ma conosce bene quel corridoio di bassi gradini che porta alle grotte con una lunga curva in discesa che si poteva fare anche a cavallo e sa che non vi sono inciampi né ostacoli. Quando è verso la metà comincia a intravedere una leggera luce e poi il profilo dell’accesso alla grotta da cui provengono sempre più chiaramente quelle risatine giocose. La grotta gli è ben nota: è quella principale a cui, dopo un breve corridoio si può arrivare anche dalla porta del garage. Ha un laghetto centrale che sembra una grande piscina rotonda e di giorno vi filtra anche un po’ di luce da un qualche pertugio della volta. Adesso sembra ancora più illuminata, anche se è notte. Si affaccia cauto e vede, meravigliato, un raggio di luce abbagliante che come per magia piove sghembo dalla volta dell’antro sotterraneo. Ragiona che evidentemente questa notte la luna è nella posizione giusta perché i suoi raggi possano penetrare direttamente e non solo di riflesso, attraverso l’apertura della volta, ma c’è qualcosa di magico,
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quasi divino, in quella lancia di luce che trafigge il buio millenario dalla grotta e lui resta incantato a guardarla, a bocca aperta. La sua mente si perde tra le reminiscenze dei templi egizi o aztechi in cui si svolgevano riti propiziatori, spesso cruenti, quando nei solstizi venivano penetrati a fondo dai raggi del sole e certo anche da quelli della luna in qualche caso, ma intanto continua a percepire risatine e ombre provenire dal buio attorno alla lama di luce. Possibile che le Ondine esistano veramente e si ritrovino per qualche misterioso motivo a danzare in questa notte di luna propizia? Gustav è una persona razionale, non può e non vuole crederci, ma non sa darsi altra spiegazione. Impietrito resta con tutti i sensi tesi a cercare di identificare le figure e i suoni attorni a lui, ma evidentemente lo hanno scorto o sentito perché le risate cessano, le vaghe figure si eclissano nel buio e si odono concitati tonfi e sciabordii che provengono dal laghetto. Poi si sente chiamare. Sono solo sussurri, come sospiri o forse sgocciolii dell’acqua o refoli di vento, però sembra proprio che dicano: «Vieni, su, vieni». Allora fa un passo avanti e la vede. Sta un po’ in disparte, davanti a un enorme masso ai bordi dell’acqua, grande, bianca, bellissima. È illuminata in pieno dal raggio di luna che piove dall’alto e indossa solo i capelli che lunghi e nerissimi si aprono attorno ai seni. È ferma, in piedi con le braccia appena aperte e le palme delle mani leggermente alzate verso di lui come in un delicato invito e lo guarda seria, in silenzio, ma dal fondo della grotta sente salire ancora il sussurro: «Vieni, vieni.» E lui va, come in un sogno verso quella figura fantastica che gli sembra una dea e nello stesso tempo anche Maria e pur se dista ancora alcuni metri da lei, vede che il nero delle sue pupille è abbastanza grande e profondo da potercisi tuffare e quando infine la raggiunge e tremando osa alzare una mano a sfiorarla, lei lo circonda di un abbraccio lievissimo e sussurra, proprio lei questa volta, sussurra: «Vieni.» Dolcemente gli sfila il pigiama e lo strige al seno per un lungo attimo e lui ne aspira la dolcezza e gli sembra di trovare ogni risposta nell’abbandono tra quelle braccia. Poi lei indietreggia tenendo ferme le mani di lui strette ai suoi fianchi e
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così lui cade lentamente in ginocchio davanti a quel corpo maestoso e col viso passa tra i seni morbidi e poi sfiora l’ombelico e infine avverte con meraviglia il profumo di mare del suo sesso. Mentre scivola a terra prono, pensa: «Che strano, l’odore del mare quassù, in mezzo alle montagne» ed è l’ultimo suo pensiero coerente. I sussurri attorno si mutano in grida dolci e stridule al contempo, come garrire di rondini: «Au und weah, au und weah» ripetono ossessive e lui, steso a terra sente diverse mani che lo spingono e lo tirano nella pozza d’acqua e lo portano sul fondo. Lui è ancora sopraffatto dal profumo di mare e si abbandona senza fare nessuna resistenza. )LQD DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
I ....................................................................................................... 3 II ...................................................................................................... 8 III .................................................................................................. 17 IV .................................................................................................. 24 V.................................................................................................... 28 VI .................................................................................................. 37 VII ................................................................................................. 40 VIII................................................................................................ 45 IX .................................................................................................. 48 X.................................................................................................... 54 XI .................................................................................................. 60 XII ................................................................................................. 65 XIII................................................................................................ 71 XIV ............................................................................................... 78 XV ................................................................................................. 81 XVI ............................................................................................... 86 XVII .............................................................................................. 90 XVIII ........................................................................................... 100 XIX ............................................................................................. 108 XX ............................................................................................... 114 XXI ............................................................................................. 122 XXII ............................................................................................ 128 XXIII ........................................................................................... 133 XXIV........................................................................................... 148 XXV ............................................................................................ 156 XXVI........................................................................................... 163
XXVII ......................................................................................... 170 XXVIII ........................................................................................ 173 XXIX........................................................................................... 177 XXX ............................................................................................ 183 XXXI........................................................................................... 192 XXXII ......................................................................................... 205 XXXIII ........................................................................................ 212 XXXIV........................................................................................ 217 Ringraziamenti ............................................................................ 223
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.