Come un toro in mezzo al petto

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Andrea Asti

COME UN TORO IN MEZZO AL PETTO

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COME UN TORO IN MEZZO AL PETTO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Andrea Asti ISBN: 978-88-6307-323-2 In copertina: immagine di Iris Baldo

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 da Digital Print Segrate – Milano


Al mio papà

“La missione di ogni uomo consiste nell'essere una forza della natura e non un grumo agitato di guai e di rancori che recrimina perché l'universo non si dedica a renderlo felice” George Bernard Shaw “Se ogni persona portasse in piazza la propria croce, alla fine si riprenderebbe la sua” Detto popolare “L'ultima pagina che hai letto È stata un toro in mezzo al petto Ma stai tranquilla non è niente È solo vita che entra dentro” Negrita - Hemingway



Ringraziamenti

Grazie a Pegy e a Vera per l'inestimabile e prezioso lavoro di editing e correzione. Grazie a Manuela Baldacci per la disponibilitĂ a leggere questo libro e l'indispensabile supporto necessario a capire meccanismi e conseguenze della sclerosi multipla. Grazie a Iris Baldo, preziosa amica e autrice del disegno di copertina, per la pazienza dimostrata nel riprodurre, con il suo tratto, una immagine che era solo nella mia testa. Grazie alla mia meravigliosa famiglia e a Lei, che crede in me piĂš di quanto solitamente faccia io.



Siamo diversi. Per modo di pensare, modo di camminare, modo di esprimerci, modo di apparire, modo di vivere, modo di amare. Siamo diversi. Per come ci muoviamo, per quello che diciamo, per come lo diciamo, per il colore della pelle, per il dio in cui crediamo, per il sesso che facciamo. Siamo diversi e spesso trattati come tali. Allontanati dalla normalità e pugnalati da ogni sguardo; fenomeni da circo; oggetto di incuriosite attenzioni; bersaglio di scherno da parte di giovani arroganti e falsi portatori di verità . Ma noi siamo qua e non è chiudendo gli occhi che ci cancellerete da questa terra. Qualcuno cade, qualcuno muore, qualcuno si arrende; ma siamo sempre e comunque qua, a rivendicare dignità e rispetto con una rabbia e una voglia di vita che non potrete mai scalfire. Noi, i diversi, lotteremo fino allo stremo per ottenere quel posto nel mondo che dovrebbe essere nostro di diritto, ma che voi, normali, avete paura di concederci. Noi, i diversi, non ci sposteremo dalla vostra visuale, ma continueremo a ferire i vostri sensi e a destabilizzare quella vostra falsa sicurezza di una vita finta e perfetta. Continueremo a morire, a subire umiliazioni, a piangere sangue e a urlare in silenzio; ma noi, diversi, dalle palle non ci toglieremo mai!



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I

Questo seduto qui sono io. Appoggiato con un braccio a una stampella e con l'altro al bancone del pub. Questo di fronte a me è Matteo: mio fratello. No. Non mio fratello di sangue; non il possessore del mio stesso codice genetico; non il frutto di un'altra vittoria di uno spermatozoo di mio padre. Ma proprio quello che un fratello dovrebbe sempre essere e in realtà non è mai: un amico, un assistente sociale, un autista, un buon bevitore e sufficientemente carino da attrarre ragazze nelle vicinanze. Anche lui ha un braccio appoggiato a una stampella e l'altro al bancone del pub. Il pub è il solito. Un po' in periferia, per non alimentare il mio panico da caos, ma sufficientemente animato da sapere di poterci trovare sempre qualcuno per fare quattro chiacchiere e un numero di birre direttamente proporzionale. Lo stesso pub da dieci anni, alla faccia dei giovani di Torino che non riescono a divertirsi se non ne cambiano uno a settimana o se vanno nello stesso due volte in un semestre. Lo stesso pub con lo stesso gestore; un po' burbero e un po' amico; che ti fa aspettare la birra una vita, ma che è capace di sfrattare chiunque dal bancone se hai bisogno di sederti. Beh, certo, il pub ha anche dei tavoli, ma il bancone è il bancone e non credo di essermi seduto in un altro posto se non le poche volte che siamo venuti qui con una compagnia più vasta che non comprendesse solo me e Matteo. Esclusa la tazza del cesso, ovviamente, ma per episodi eccezionali e legati a disfunzioni intestinali, ahimè, non così rari. Matteo è fratello, ma anche cugino. Di tifo. Non ha la faccia del granata eppure virus familiari lo hanno reso tale. Beh, è appurato che i granata hanno una faccia tutta loro: di solito spigolosa, tirata, ingrugnita, e attraversata da occhiaie profonde, figlie di notti insonni e animate dagli spettri della retrocessione e del fallimento. Ma forse Matteo era così una volta e non me lo ricordo. Già, deve


10 essere così, ma adesso ha una bella faccia tirata a lucido grazie a una ritrovata serenità economica della sua squadra e a due anni consecutivi passati in serie A. Devo ricordarmi di notare la prossima metamorfosi quando questo idillio finirà. Perché è scontato che finirà. Io sono juventino, se non si è ancora capito, da parte di padre. O meglio, a casa mia si è juventini o agnostici perché la blasfemia e l'eresia non sono tollerate. Non è un'imposizione, ma un imprinting continuo esercitato su ogni componente della famiglia che genera o fedeli e devoti servitori della maglia bianconera — eccomi — o guerrafondai lanciatori di anatemi verso chiunque indossi dei pantaloncini e insegua un pallone — ecco mia sorella —. La comunicazione, annaffiata dalla seconda Guinness della serata, verte proprio sul calcio e sul fatto che Matteo stia cercando di convincermi ad andare allo stadio per vedere l'imminente derby, che verrà giocato fra due settimane in una notturna infrasettimanale. «Guarda che la prevendita inizia domani» Provo a prendere tempo. «E mica dura solo un giorno» Il tempo sembra scarseggiare. «Ma i biglietti sì» Mi piace andare allo stadio. Ma l'ideale sarebbe averlo aperto solo per me, agli addetti ai lavori e ai giocatori. E poi, ovvio, dovrei potermi sedere in panchina, così da non dover fare nemmeno uno scalino e poter accedere al campo direttamente dal tunnel al livello del terreno di gioco. Le volte che prendo coscienza di quanto sia poco probabile che tutto ciò si avveri allora mi convinco ad andarci comunque; ma stavolta è diverso. È diverso perché il derby è sempre una partita a rischio, perché gli spalti sono spesso troppo gremiti e le due tifoserie arrivano allo stadio inevitabilmente confuse fra di loro, e se scoppia un tafferuglio posso provare a difendermi a stampellate, ma sicuramente non scappare, e Matteo potrebbe provare a difendermi, ma per quanto ben piazzato, soccomberebbe da solo contro dieci e così io, oltre a dovermi preoccupare delle mie contusioni, dovrei anche convivere con i sensi di colpa per aver influenzato la sua coscienza, che a sua volta gli impedirebbe di darsela a gambe levate. «Uè, ci sei?» Mi accorgo che le mie elucubrazioni mi hanno portato via qualche secondo e almeno due sorsi di birra. «Lo sai che queste partite mi mettono ansia»


11 «Ma andiamo in tribuna! O meglio, prendiamo una sedia a rotelle e così non devi nemmeno fare sforzi» «Certo, vista da seduto e con qualcuno puntualmente in piedi davanti a me, sulle transenne, se non addirittura in piedi sulle mie gambe. No, lo sai, niente sedia a rotelle» «Ok, allora tribuna… e partiamo presto. Due ore prima siamo allo stadio così il freddo lo puoi prendere tutto tutto» «È inutile che mi prendi per il culo…» Di pazienza con me ce ne vuole molta, ne sono cosciente. Ogni volta che decido di fare qualcosa, che non sia andare in un locale, bisogna partire prima ancora che la gente normale decida di fare quel qualcosa. Credo sia una forma di controllo che cerco di esercitare sullo spazio e sul tempo; dopotutto le lunghe attese non mi hanno mai spaventato, se mi permettono di poter gestire ogni singolo aspetto dei miei movimenti con i tempi e le implicazioni emozionali che meglio mi si addicono. «Sei devastante, Lory. Ogni volta che cerco di convincerti a fare qualcosa c'è da impazzire. Mi chiedo davvero chi me lo faccia fare» «Mi sembra che per venire qua tu non debba fare tutta 'sta sudata» «Ah beh, certo, se si tratta di bere ci va un attimo. Ma là fuori c'è anche altro che non sia buttare giù birra» Lo sa anche lui che finirà per convincermi, ma ormai questi dialoghi sono routine. È un piccolo teatrino, a nostro uso e consumo, che allestiamo ormai inconsciamente e che ci sembra originale ogni volta. Se non sapesse di spuntarla ogni volta probabilmente avrebbe già smesso di insistere. E non è vero che suda continuamente, ma ammesso che lo sia è per colpa della Guinness, che sta riempiendo il suo boccale per la terza volta nella serata. «È tardi — provo ancora a prendere tempo — portami a casa» «Ma certo, domani devi alzarti presto per andare in fabbrica. Fai il primo o il secondo? Non vedi che ho appena preso una birra? Tu stasera fai l'astemio?» È un bastardo e lo so. Ma gli voglio bene proprio per questo motivo Perché fin dal primo giorno che ci siamo conosciuti non ha mai espresso finta pietà nei miei confronti. Non ho mai sentito ipocrisia nella sua voce e non mi ha mai permesso di piangermi addosso. È un bastardo, ma se sono diventato cinico, tagliente e ironico lo devo anche a lui. Domani non andrò a lavorare né in fabbrica né da nessuna altra parte. Non sono più in grado di farlo, se non con un aiuto costante che non


12 voglio. Troppo orgoglio in questo caso, ma se devo essere assistito tutto il tempo preferisco attaccarmi allo Stato e fanculo a tutto e a tutti. Domani, come sempre da qualche mese a questa parte, dormirò fino a tardi e poi cercherò di far passare la giornata nel modo piÚ veloce e indolore possibile. Quindi adesso non devo andare da nessuna parte. Prendo un'altra birra e poi magari cedo alla proposta di Matteo.


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II

Siamo in macchina, fermi in coda nell'attesa che la fiumana di veicoli defluisca lentamente dal parcheggio. I clacson si sentono solo in lontananza perché la gente da tribuna non strombazza a caso o rischierebbe di perdere quello stile che pensa di avere solo perché va in tribuna. Matteo probabilmente suonerebbe all'impazzata comunque e lo farebbe urlandomi addosso di tutto, ma stasera non ha motivo di farlo visto che la sua squadra di bovini ha perso due a zero. Il suo viso è funereo e, probabilmente, si sta pentendo di aver insistito così tanto, due settimane fa, per venire a vedere questa partita; ognuno a casa propria sarebbe stato decisamente meglio. O anche in un locale, perché almeno il viaggio di ritorno sarebbe stato decisamente più breve, così come la sua agonia. Oltre che funereo il suo viso lascia trasparire anche attesa. Io so che sta aspettando una sola parola da parte mia per poter avere la scusa per sputare sfoghi e improperi contro il nostro presunto culo e supposti falli da rigore fischiati e non fischiati, a seconda dell'occasione. Ma lo conosco e questa soddisfazione non gliela darò; è decisamente più divertente vederlo schiumare mentre insulta chiunque gli impedisca di tornare a casa alla velocità della luce. Gli durerà un paio di giorni e poi, a quel punto, io finalmente comincerò a infierire e, allora, gli durerà di nuovo quasi una settimana. Pazienza Matteo, fra circa quattro mesi arriverà la rivincita e la scena probabilmente si ripeterà. È stata una buona serata. Non solo per la vittoria, ovviamente goduriosa, ma soprattutto perché alla fine è andato tutto bene. Certo di fatica ne ho fatta tanta e di freddo ne ho preso a chili, ma almeno è filato tutto liscio. Alla fine io le cose non me le godo mai perché durante il loro svolgersi sono troppo preoccupato che vadano nel verso giusto. Non per nulla i momenti migliori sono sempre alla fine, quando tutto è concluso e non può più succedere nulla al di fuori del mio controllo. Come adesso, in macchina, contento di aver sfidato ancora una volta i miei limiti. E di


14 aver vinto, ancora una volta, io. Alla fine lo so chi la vincerà questa guerra. So che mi devo accontentare di qualche battaglia. Ma va bene lo stesso; è la lotta a farmi sentire vivo, a farmi credere e illudere che fino a che si vince qualche battaglia rimane uno spiraglio per la vittoria finale. E se sconfitta deve essere, che sia almeno il più possibile lontano nel tempo. Ho sete e fame e nessuna voglia di tornare a casa. Di solito, a questo punto, panino e birra sono d'obbligo, ma sinceramente questa sera ho paura di proporlo a Mat. I nostri istinti primordiali, però, hanno quasi sempre la meglio sulle nostre paure. «Pensi di riuscire a sopportare ancora la mia presenza per una birra e un panino?» «È già un po' tardi, non so quando ci toglieremo da questo delirio e domani mi devo alzare presto» «… E le palle stanno facendo scintille tanto girano, va beh, pazienza…» «Non è questione di palle che girano. Non girano più quando prendi coscienza di certe cose. Domani mi devo alzare presto, mica come te che…» «Sì sì sì… ok, io dormo e la Juve compra le partite anche contro scarponi come voi. Va bene, comunque bastava un no» Ecco. Lo sapevo. È bastata una semplice domanda per rovinare un abitacolo. Non che prima ci fosse giovialità, ma il silenzio era sempre meglio. Perché poi adesso può solo più attaccarsi al fatto che si deve alzare presto, perché nel frattempo la coda si è sciolta e nel giro di venti minuti, al massimo, potremmo essere al nostro pub. Ma non insisto più. Non ho voglia di elemosinare un'ora in più di libertà. Non voglio tornare a casa, ma devo almeno conservare integra la dignità. Siamo arrivati a casa mia sotto una pioggerellina fitta quanto inconsistente. Il resto del viaggio è stato silenzioso e carico di una tensione che non può avere spiegazione in una partita di calcio, per quanto sentita. Matteo scende dalla sua postazione, apre la portiera sul retro per prendere le stampelle e arriva ad aprire la mia. Mentre scendo faticosamente dalla macchina provo a tenere i miei occhi fissi nei suoi, ma lo sforzo di tirare giù le gambe mi fa distogliere lo sguardo. Mi porge la seconda stampella e quando sono già pronto a salutarlo e a ringraziarlo, con una punta di sarcasmo nemmeno troppo celato, attacca a parlare. «Scusa… non volevo essere scostante»


15 «Più che scostante sei stato un po' stronzo, ma almeno la prima lettera l'hai azzeccata» «Stronzo? Perché non ho eseguito i tuoi ordini e assecondato i tuoi capricci? Perché non ti ho portato a bere? Certe volte ho il dubbio che tu ritenga che tutto ti sia dovuto… Io ti chiedo scusa perché non sono stato il massimo della gentilezza e tu hai il coraggio di rinfacciarmi stanchezza e piani diversi dai tuoi» «È solo una fottuta partita, cazzo. Guarda come ti ha ridotto!» «Ma tu che ne sai? Dall'alto delle tue stampelle credi di essere sempre al di sopra delle parti e di avere tutte le verità in tasca… Ma tu che ne sai?» «Se era per un altro motivo bastava…» «Cosa? Bastava cosa? Ora tarda. Sonno. Sveglia presto domani. Ti ho detto quali erano i motivi. Ma è servito a qualcosa? Tu non hai potuto farti la tua fottuta birra e il tuo fottuto panino e questa è l'unica cosa che conta per te» «Ma non è…» «Basta, Lorenzo. Stasera non è serata… non ho voglia. Ci sentiamo nei prossimi giorni… Buonanotte» Lo vedo andarsene così. Mentre sono con le chiavi di casa in mano e mi chiedo cosa sia successo. E mi ha chiamato Lorenzo. Cosa che non fa praticamente mai. Cerco di controllare il respiro che sta diventando un po' troppo affannoso. Non so se sia colpa della scalinata per raggiungere il posto allo stadio o la discussione con Matteo, ma non posso permettere ai miei polmoni di riempirsi e svuotarsi così velocemente. Devo controllare il respiro e calmarmi e so che lo posso fare. Sul comodino, al mio fianco, c'è il campanello per le emergenze; per buttare giù dal letto mia sorella o mia madre, che entrambe hanno l'orecchio fino, per essere preso in fretta in caso di una crisi. Questo campanello non l'ho potuto evitare. Dopo averla spuntata sulla camera singola e la porta chiusa dovevo cedere qualcosa. Dopotutto, considerato l'udito della famiglia e un appartamento da circa ottanta metri quadri, basterebbe un urlo, ma potrebbe anche capitare che quell'urlo non si riesca a tirarlo fuori. Non posso fare a meno di pensare alla discussione con Matteo. Sia chiaro, non è la prima volta che succede, ma questa volta c'era qualcosa di diverso. «Dall'alto delle tue stampelle credi di essere sempre al di sopra delle parti e di avere tutte le verità in tasca»… È questa la frase


16 che continua a rimbombarmi in testa e sì, che forse mi ha ferito. Ho un carattere di merda e lo so. A volte mi piace sventolare il mio orgoglio e nascondermi dietro i miei problemi per giustificare atteggiamenti e paranoie. Ma Matteo lo sa. Mi conosce da tre anni e non ho mai avuto l'impressione che mi considerasse un giudice borioso di esistenze altrui. Che non vuol dire che non lo sia, ma nemmeno che lo sia. Vuol solo dire che Matteo non può vedermi in questo modo perché diversamente non potrei fare a meno di pensare che mi abbia sempre visto così. Che poi mi ha anche chiesto scusa e io, deficiente che non sono altro, ho persino fatto finta di non averlo sentito. Sì, volevo quella fottuta birra e quel fottuto panino. O meglio, no, volevo solo stare in giro ancora un po'. Ma Matteo lo sa che, in certe occasioni, sono un viziato egoista; e allora perché reagire così? Per far reagire me, forse. O forse, semplicemente, ora tarda, sonno, sveglia presto domani. Lo chiamerei adesso ma se la conversazione salisse di nuovo di tono i miei polmoni non sarebbero d'accordo. Domani… adesso devo cercare di dormire. Domani… altra giornata da far passare, altra guerra contro il tempo.


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III

Ricordo in modo confuso quella sera di circa undici anni fa. Avevo appena finito di fare i compiti e mi stavo preparando a una tranquilla serata davanti al televisore. Non ricordo che film dessero, ma avevo avuto il permesso di guardarlo fino alla fine, nonostante la scuola il giorno dopo, e questo la dice lunga su quanto abbia insistito per non perderlo, e quanto mi interessasse. Ricordo bene il dolore improvviso all'occhio sinistro, però, e le immagini sfocate. Ricordo la sensazione di panico quando mi resi conto che il mio campo visivo si stava velocemente riducendo. L'urlo che lanciai risuona ancora oggi nelle mie orecchie e dalla cucina accorsero simultaneamente mia madre e mio padre: «non ci vedo… fa un male cane e non ci vedo più» urlai con la testa fra le mani e cominciando a tremare come una foglia. Mio padre non volle nemmeno perdere tempo a chiamare un'ambulanza. Mi caricò sulla macchina e corse come mai più avrebbe fatto in vita sua, considerando la sua proverbiale flemma alla guida. La notte in ospedale fu lunga e spossante, fra attese in corsia, con mia madre che mi teneva la mano, e risonanze magnetiche e paura folle e dolore acuto e vista sempre più annebbiata. Avevo solo sedici anni e una certa predisposizione all'ipocondria, quindi quello che mi passò per la mente spaziò dall'ictus al tumore al cervello. Con il senno di poi non avevo tutti i torti a essere tanto disfattista, ma il senno di poi alimenta solo rabbia e frustrazione; spesso e volentieri senza nemmeno un bersaglio verso cui indirizzarle. Alla fine di una nottata da incubo — il mio primo e vero scontro con la brutalità e la imprevedibilità della vita — arrivò la diagnosi: neurite ottica. Una infiammazione del nervo ottico che mi avrebbe procurato fastidio e un aggravarsi dei problemi visivi ancora per qualche giorno, per poi assistere a un probabile recupero nelle settimane successive. Cura a base di corticosteroidi e visita di controllo dopo tre settimane. Mentre mio padre mi spingeva in carrozzella fuori dall'ospedale vidi in lontananza mia madre parlare con un dottore; capii solo qualche anno più tardi che quella mano davanti alla bocca e quegli occhi lucidi non


18 erano collegati a emozione o gioia. È passato un altro giorno ed è stato particolarmente lungo e noioso. Uno di quei giorni in cui la spossatezza vince ogni singola sfida e abbandonarsi all'inedia risulta decisamente più comodo che combattere. Ho finito per passare quasi tutta la giornata sdraiato sul letto a non guardare la tv e a non leggere libri e riviste che passavano fra le mie mani. E dopo la cena sono qui in procinto di farmi la mia punturina. La tachipirina è pronta sul comodino perché, nonostante tutti questi anni, i mal di testa notturni non accennano a scomparire. Sto scegliendo un punto del mio corpo poco martoriato quando mia madre bussa leggermente alla porta e, come sempre, apre subito dopo senza aspettare nessun tipo di risposta. Un giorno o l'altro le dovrò spiegare che il fatto di avermi visto nudo da piccolo e di avermi aiutato a orinare, anche in tarda età, non esclude il fatto che possa avere bisogno, di tanto in tanto, un po' di privacy. Ma va beh, santa donna, non me la sento mai di mortificarla con disquisizioni inutili sull'esigenza di un po' di intimità in una reggia come la nostra. Paradossale, forse, ma ha sofferto più lei del diretto interessato. Che sarei poi io. «Ciao, hai bisogno di una mano?» «No Ma', vai pure a letto. Lo sai che mi piace bucarmi da solo» Non so se coglie l'allusione tossica. Mi guarda con quel solito mix di perplessità e tenerezza. Sento che devo dirle ancora qualcosa prima che mi vada a letto scossa e pervasa da chissà quale dubbio. «Davvero Ma'. Faccio la puntura, guardo ancora un po' di tele e poi provo a dormire» «Va bene. È la prossima settimana che vai in day hospital, vero?» «Sì. Mercoledì» «Speriamo… Buonanotte Lorenzo» «'Notte Ma'» Santa donna. Che ci sarà mai da sperare. Mi preleveranno e analizzeranno, di nuovo, un po' di liquor e cambieranno qualche dosaggio. Una primaria progressiva così precoce non se l'aspettavano nemmeno i medici. Sono un caso clinico da studiare e da portare a esempio. Da tenere sotto controllo, forse, ma purtroppo non da curare. Passo un po' di alcool sul punto che devo bucherellare, ma la mano sinistra comincia a tremare. Vaffanculo anche a lei. In questi giorni è come se fosse carne morta attaccata al braccio e so che rischia di essere


19 una ricaduta. Potrei evitare i neurologi la prossima settimana e farmi una auto diagnosi: «Sig. Lorenzi, questa è una ricaduta. Considerato l'uso ancora limitato della sua gamba lei sta correndo verso una secondaria progressiva. Ha capito il gioco di parole? Ricaduta. Correndo. Ah, ah, ah». E vaffanculo alla secondaria progressiva e alla mia auto diagnosi. Cambio mano e mi buco. Di nuovo un po' di alcool e mi corico aspettando mal di testa e febbre. La tachipirina potrei anche prenderla subito e salvarmi in corner, ma sono stanco di tutta la merda che butto giù. Vediamo se entra in area e nel caso decidiamo se spazzare o buttarla giù nella speranza che l'arbitro non veda. Alla fine Matteo non l'ho chiamato e va bene così. Fra uomini non ci si telefona per scambiarsi emozioni. Si discute, si fa a botte o a stampellate, si fa passare qualche giorno, e poi tutto come prima. Oggi avrà smaltito le mestruazioni iniziate ieri e magari domani sera si esce a bere una birra. Se non chiama domani però magari gli mando un sms neutro. Qualcosa tipo: «Passato il ciclo? Stasera si beve?». No, poco neutro. Magari: «Fottuto bovino che non sei altro, stasera si beve?». Neutro, ma poco diplomatico, soprattutto se la paranoia di ieri era, alla fine, legata alla partita. Eppure è prassi che lo prenda per il culo due giorni dopo il derby. Perché stavolta mi sembra di non doverlo fare? Perché credo che ieri gliene fregasse davvero poco della partita? Va beh, devo piantarla anche io perché se no sarò costretto a scambiare emozioni e gli uomini questo non lo fanno. Domani deciderò il da farsi, perché tanto il tempo non mi manca. Il mal di testa è entrato in area sfruttando un fuorigioco mal riuscito. Butto giù la bomba e gli esco addosso. Domani mattina vediamo se l'arbitro ha fischiato o sono riuscito a prendere la palla. «Ciao Lory» Il telefono ha squillato mentre ero ancora nel mondo dei sogni. Visto l'ora, appurato che era già quasi ora di pranzo, guardato il display e maledetto il fatto di non aver spento il cellulare la sera prima. O forse le ultime due cose le ho fatte in ordine inverso. «Ciao Mat» Temo di non essere riuscito a mascherare l'impastatura da fresco e brusco risveglio. «Dai, adesso dimmi anche che ti ho svegliato»


20 «Ma figurati. Ero a letto, ma stavo leggendo» «E allora smettila di drogarti che hai una voce cha fa paura. O a scelta puoi anche smetterla di contarmi palle» Non li sopporto i lavoratori. Solo perché si alzano presto, e alle undici sono già nel pieno della veglia, pensano di poter giudicare chi ha la possibilità di dormire. È solo invidia la loro, ma non lo ammetteranno mai. Mi rendo conto che non sono di buonumore. Forse la sveglia improvvisa, forse la notte agitata as usual — alla fine ha fischiato il rigore, arbitro cornuto — o forse la voce di Matteo che mi riporta bruscamente a due giorni prima. «Sono contento che la tua voce sia, invece, già bella squillante. E sono anche contento che tu stia producendo a pieno ritmo per il bene del paese. Posso fare qualcosa per te?» Matteo lavora in una finanziaria che offre servizi ad aziende e privati. In tempi in cui la gente fa fatica ad arrivare a fine mese, ma non può fare a meno di vacanze e macchine sempre più appariscenti, queste società vanno a gonfie vele speculando sulla pelle e la vanità degli italiani. Li odierei profondamente se non fosse che sono stato uno di loro fino a pochi mesi fa. «Senti… lungi da me il voler chiedere scusa, perché non credo di doverlo fare, ma mi dispiace per come ci siamo lasciati l'altra sera. Stasera c'è Giorgio che offre da bere in un locale per festeggiare una recente promozione. Ci sarà un po' di movimento, gente simpatica… e di sicuro un po' di gnocca. Che dici?» Che dico? Dico che secondo me delle scuse me le devi eccome. Dico che non sono ancora riuscito a recuperare dalla fatica di mercoledì e che sono due giorni che sono a pezzi. Dico che non ho ancora capito che cosa ti sia frullato per la testa l'altra sera e che ho paura tu possa sclerare di nuovo, senza che capisca quale possa essere il motivo. Dico che Giorgio mi sta sul culo e non me ne fotte nulla della sua promozione. Dico che la gnocca mi interessa, ma un invalido non interessa a lei, quindi evita di usarla come motivazione per farmi uscire. Dico che sarà sicuramente un locale affollato e caotico e che mi verrà un attacco di ansia appena varcherò la soglia. Dico che puoi andarci da solo, che forse a te va anche meglio visto che sono una palla al piede, anche se la gnocca non è interessata


21 all'invalido, ma sciama attorno all'amico tanto sensibile e tanto assistente sociale che lo accompagna. Ma tu sei furbo perché non dici l'unica cosa che può convincermi a uscire. Sei furbo perché sai che è venerdì e io odio stare a casa il venerdì sera. E allora sai che dico? Dico sì, ma te la farò pesare.


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IV

Il passare della giornata, lo scorrere del tempo, l'idea di una serata fuori e di qualche birra, il sapere che stasera non mi devo bucare e sì, anche l'idea di qualche gnocca. Tutti pensieri che alla fine hanno fatto decadere i miei intenti bellicosi e mi hanno reso meno irritabile di quanto fossi stamattina. Forse dovrei cominciare a riconsiderare l'impostazione dei miei cicli biologici, magari evitando di stare sveglio fino alle due del mattino per poi dormire fino alle undici del giorno dopo. Il problema è che dormo per far passare il tempo e di notte ci sono programmi più interessanti che al mattino - film, solo film. Sono troppo vecchio perfino io per eccitarmi con le signorine che pubblicizzano dvd porno e linee erotiche-. Certo ci sarebbe stato un motivo valido per non uscire stasera, ma l'ho scoperto quando ormai ero già nella macchina di Matteo e viaggiavamo spediti verso la nostra destinazione. Voglio credergli quando mi ha detto che non sapeva nemmeno lui dove saremmo andati fino a quando non ha chiamato Giorgio, appena partiti. Certo, c'è anche la possibilità che non abbia voluto dirmi niente per non concedermi il pretesto per un bidone dell'ultimo minuto, ma la sua faccia perplessa mentre era al telefono mi è sembrata abbastanza sincera. Il quadrilatero romano è una zona compresa fra via Garibaldi e Porta Palazzo. Fino a pochi anni fa era solo un ammasso di case e costruzioni che ricordavano le origini romane di Torino, ma negli ultimi anni vi è stato un sostanzioso recupero urbano della zona, che l'ha fatta diventare quello che attualmente è il fulcro del divertimento della città. Ristoranti ispirati a varie etnie, bar dove fare colazioni e aperitivi, locali dove fare tardi. Lungo stradine strette e affollate ci si può passare una giornata intera con tutto il necessario per sopravvivere e vivere. Tutto molto bello, sicuramente, e poi d'estate c'è veramente il mondo che intasa la zona e passa da un locale all'altro provando tutto il provabile.


23 È bello sapere che la propria città ha una zona che richiama molto la vita notturna parigina e che arrivano anche da fuori per poterne godere. Tutto molto carino. Per le persone normali, però. Perché per chi si deve far lasciare ai margini della zona pedonale per poi farsela a piedi trascinando stampelle e bestemmie non è tanto divertente. Fortuna che Matteo lavora in centro e può sbattersene della ZTL; ma per arrivare fino alle soglie di questo locale ho dovuto attingere a ogni scorta di benzina che ho trovato nelle mie vene. Sto riprendendo fiato seduto sulla sporgenza di una delle vetrate che lasciano intravedere l'interno del locale. Non ho intenzione di acuire la mia ansia guardandoci dentro perché ho già capito che è uno di quei posti in cui dovrò ignorare le persone che mi squadreranno, cercando di capire la mia patologia, e quelle a cui inavvertitamente schiaccerò un piede per poi bofonchiare qualche scusa. Capisco che è uno di quei locali già solo dalle persone che sono sulla strada con il cocktail in mano e che sono fuori perché è fuori che si deve stare per farsi vedere, anche se non hai una sigaretta da fumare. Anche se la temperatura è prossima allo zero. Matteo è in piedi davanti a me e sta aspettando che mi decida a entrare. Mi conosce abbastanza bene per sapere che il momento del recupero fisico è passato già da un pezzo e che sono ancora seduto solo perché non ho voglia di entrare. Da fuori ha già adocchiato qualcuno che conosce e capisce che la maggior parte degli invitati, festeggiato compreso, stanno già brindando. Evito di abusare della sua pazienza perché riconosco che sto prendendo del tempo inutile, mi alzo simulando uno sforzo superiore al reale e gli dico che possiamo entrare. Il locale è un tipico American Bar dove passi dall'aperitivo, alla cena, al dopo cena senza alzare il culo dallo sgabello. Arredato in modo moderno, ma lasciando trapelare una volontà di regalare calore alla propria clientela con un uso forse un po' pacchiano del legno. C'è, come temevo, molta gente. Il bancone si estende per qualche metro subito alla sinistra dell'ingresso, ma lo spazio che lo divide dai primi tavolini, di fronte, è troppo esiguo e stipato di persone che non hanno trovato uno sgabello libero. Matteo ha già visto dov'è la festa e mi precede con passo veloce cercando di farsi spazio in mezzo alla calca. Poi si ricorda che ci sono anche io, si ferma e si volta per capire se sono ancora in piedi e se sto ancora respirando in modo regolare. Lo raggiungo a fatica cercando di


24 non colpire nessuna caviglia e l'ansia che sta cominciando a salire è più legata alla paura di urtare qualcuno che alla fatica vera e propria. La festa si sta svolgendo attorno a un tavolino, in un angolo illuminato da una luce soffusa e parzialmente tagliato fuori dal resto del locale da un separè, che però non impedisce di sbirciare dentro a chi passa davanti. Classico angolo ideale per festeggiare qualcosa senza essere disturbati, ma che lascia intravedere a tutti che hai qualcosa da festeggiare. Il tavolo è piccolo ed è ricoperto da birre già mezze vuote e un paio di bottiglie di spumante. Gli sgabelli sono in numero inferiore rispetto al numero dei festeggianti e sono già tutti occupati. L'ansia cresce e sento i polmoni che si stanno dilatando in modo poco ortodosso. Ho bisogno di sedermi. Ci infiliamo a fatica in mezzo a due che non si sognano nemmeno di scansarsi e raggiungiamo il gruppo. Mi accorgo subito che conosco la metà degli invitati e metà di questa metà la conosco per un ciao scambiato di fretta quando lavoravamo insieme. Il primo ad accorgersi di noi è Giorgio che tende subito una mano a Matteo e poi lo abbraccia fraternamente. Poi vede anche me e capisco dal suo sguardo che non si aspettava la mia presenza. «Ciao Lorenzo, che bella sorpresa!» «Ciao Giorgio. Scusa, ma pensavo che Matteo ti avesse detto che c'ero anche io» «Ma certo, certo. Solo che non pensavo decidessi di venire. Ricordo che non ami molto questi posti. Ma sono contento. Vieni, vieni… Alberto, fai sedere Lorenzo, dai» Ecco, quale modo migliore di presentare qualcuno se non farlo passare per un rompicoglioni? Certo, una sedia in questo momento è manna dal cielo, ma l'atteggiamento accondiscendente che percepisco mi stringe lo stomaco. Che si unisce alla spiacevole sensazione che questo posto sia stato scelto per scoraggiare la mia venuta. Sono paranoico, come negarlo! Come impedirlo! Mi siedo e prima di sistemarmi a dovere riesco ancora a ricordarmi di fare le congratulazioni a Giorgio per la promozione. Accenna un sorriso imbarazzato e rotea gli occhi come per sminuire il fatto. Ma cosa cazzo ti sminuisci? Se vuoi sminuire eviti di fotterti mezzo stipendio per festeggiare e ostentare una cosa che hai inseguito dal primo giorno che hai messo piede in quell'azienda. Giorgio si è laureato in economia e commercio con centodieci e lode e l'azienda in questione lo ha praticamente aspettato sulla porta di casa sua, dopo la tesi, per poterlo avere nella squadra. Quando ha cominciato


25 a lavorare io ero già sul posto da quasi sei mesi, forte della stessa laurea, ma con votazione di novanta e un sostanzioso aiuto da parte della legge sulle assunzioni per gli invalidi. Non abbiamo legato da subito e il nostro rapporto si è fermato, durante l'anno in cui abbiamo lavorato insieme, a un livello di falsa cortesia fatta di ciao ciao e cosa hai fatto ieri sera. Era evidente che fossimo su due piani diversi e con aspettative differenti: io che cercavo di sopravvivere a un lavoro che non mi piaceva, e che mi sottoponeva a torture fisiche quotidiane; lui che era entrato già con l'obiettivo di fare carriera e lasciare un segno all'interno dell'azienda. Alla fine, in modi diversi, abbiamo raggiunto entrambi il nostro fine. Non che sia antipatico, ma ha quell'aura di supponenza tipica delle persone che sanno dove vogliono arrivare e usano qualunque mezzo per farlo. Caratteristiche che, onestamente, riscontro nella maggior parte delle persone intorno a me, in ambiti diversi. È invidia e lo so, ma me ne sbatto e continuo a tenermi su un piano diverso. Che poi questo piano lo consideri superiore fa solo da contrapposizione al loro modo di vedere le cose, che probabilmente è lo stesso nei miei confronti. Guardo attorno a me e vedo volti conosciuti che sorseggiano, apparentemente già annoiati, una birra o dello spumante. Sono facce che non mi mancano, Però so che la maggior parte di loro è brava gente che non vive per lavorare, ma viceversa. Che difendono a spada tratta il loro orticello per far crescere una famiglia o garantirsi un futuro al riparo da spiacevoli sorprese. Qualcuno incrocia casualmente il mio sguardo e risponde con un sorriso imbarazzato al mio accenno di saluto con la testa, ma nessuno ha la voglia o gli argomenti per intavolare una conversazione con me. Giorgio mi mette una Beck's davanti e mi dice di cominciare a darci dentro, che sta aspettando ancora una persona e poi possiamo fare un brindisi ufficiale. Mi chiedo cosa intenda per ufficiale, visto che lo spumante è già sul tavolo, quasi finito. Mi domando chi stiamo ancora aspettando, visto che già noi eravamo in pauroso ritardo. Il consiglio di Giorgio però non è male. Ormai la fatica l'ho fatta e sono seduto. Il fatto di non stare intrattenendo rapporti sociali non mi turba più di tanto. Prendo la birra e tiro giù qualche bella sorsata. Il liquido freddo scende di botto fino allo stomaco e mi regala una sensazione di calore interno che aumenta il mio senso di rilassatezza. Alla fine siamo qua, tanto vale godersela. È pure tutto pagato! Mentre sto per riprendere la bottiglia per una nuova dose di relax vedo


26 Giorgio che risponde al telefono, urla qualche parola ed esce di corsa dicendoci che torna subito. Il tassello mancante deve essere arrivato. Mi aspetto qualche suo amico borioso che ha ritardato perché non sapeva dove parcheggiare il Porsche. Dopo qualche minuto sento la voce di Giorgio che parla in modo affabile con qualcuno, ma da dove sono seduto non ho la visuale dell'ingresso e quindi non riesco ancora a capire chi sia. A un certo punto sbuca il suo profilo da dietro il separè e vedo che raccoglie il giaccone di qualcuno, per poi deporlo con un sorriso sull'attaccapanni accanto all'ingresso del nostro privè. L'ultimo ospite misterioso è ancora nascosto, ma dal tipo di giaccone intuisco che potrebbe essere di sesso femminile. Per un secondo mi chiedo da cosa nasca tutta questa curiosità verso la sua identità e nel secondo successivo mi rispondo che probabilmente è solo noia. Questi due secondi anticipano la rivelazione. La prima cosa che vedo è rosso, tanto rosso. Come una palla di fuoco che squarcia un cielo plumbeo. Boccoli cascanti su spalle eleganti, scolpite da qualche tipo di sport, probabilmente nuoto. Impossibile, poi, non scendere con lo sguardo e non notare una camicetta di raso con il primo bottone abbandonato a sé stesso per scoprire un pizzo appena accennato del reggiseno sottostante. Impossibile non notare una gonna poco sopra il ginocchio e scarpe con un tacco né troppo accentuato, né troppo basso, ma semplicemente giusto per sostenere un corpo che sembra scolpito nella pietra e nell'ovatta. È bella, semplicemente e maledettamente bella! Giorgio la presenta come sua cugina Sara, ma per come viene salutata capisco che sono in pochi a non averla già vista almeno una volta. Fra quei pochi ci sono ovviamente io e c'è Matteo, che al momento delle presentazioni le stringe educatamente la mano e le sorride un ciao prima di tornare a parlare con un suo collega di chissà quale diavolo di tipo di finanziamento delle palle. Nemmeno un cedimento degli occhi, impassibile come se avesse conosciuto un acero. Sto ancora cercando il salto di un battito sotto la camicia di Matteo quando mi accorgo che lei, nel frattempo, si è piazzata davanti a me con Giorgio che da dietro le spiega che sono un ex collega e amico di Matteo. Mi porge la sua mano e mi acceca con un sorriso. Ho pochi attimi a disposizione per convincere me stesso che è solo un essere umano e per dire qualcosa che possa non essere catalogato nei saluti convenzionali. Gioco la mia carta preferita.


27 «Ciao, sono Lorenzo. Scusa se non mi alzo, ma sono un villano» Viso perplesso, sorriso tirato che si allarga quando al margine del suo campo visivo intravede le stampelle. «Non ti preoccupare, il solito calcio immagino» «Ahimè no, la meno solita Sclerosi Multipla» Silenzio. Ma non solo suo. Silenzio a tutto il tavolo. Forse in tutto il locale. Istantaneo e glaciale. Matteo mi guarda come se avessi appena insultato sua madre; lo percepisco con la coda dell'occhio, ma non riesco a distogliere lo sguardo dal viso mortificato di Sara. Diamine però, faccio spesso questa introduzione. È il mio modo per mettere a proprio agio la persona di fronte a me. O forse per mettere a mio agio me stesso. Ma di solito funziona. No, non è vero, non funziona quasi mai, ma di solito me ne sbatto. Parto sempre dal presupposto che la persona che sto per conoscere prima o poi proverà pietà per me e allora accorcio i tempi per evitare convenevoli inutili. Ma stavolta no, stavolta non avrei dovuto. «Mi… mi dispiace… scusa» Sono bravo a non imparare dai miei errori. «E di che? Non è colpa tua» E sorrido. E vorrei fermarmi. E vorrei scomparire. Giorgio capisce che la sua bella festa di promozione sta rischiando di andare in malora per colpa del mio disincantato cinismo o, dal suo probabile punto di vista, della mia stronzaggine acuta. Prende per le spalle una Sara che sta ancora cercando di capire se il problema sono io o quello che è riuscita o non è riuscita a dire e la trascina a una sedia vuota vicino a una ragazza che probabilmente conosce già bene e che può riportarla a un clima festoso. Le mette un calice in mano, come un coniglio da un cilindro tira fuori da sotto il tavolino due bottiglie di Champagne, e con una voce appena incrinata dall'imbarazzo dice che finalmente si può fare un bel brindisi. La macchina sta correndo veloce e tranquilla lungo strade rese deserte dall'ora tarda e dai locali ancora pieni. Con la faccia appoggiata al finestrino osservo i lampioni rincorrersi per proiettare luce e coni d'ombra. Ripenso a una serata nata storta e continuata nel grigiore più assoluto; con la fastidiosa sensazione di essere stato fuori posto, fuori tempo, fuori tutto.


28 Ancora una volta non sono stato capace di interagire come una persona matura e ancora una volta ho sicuramente fatto la figura di quello che si atteggia nascondendosi dietro la sua malattia. Ancora una volta ho etichettato le persone intorno a me come superficiali e indegne della mia considerazione e ancora una volta ho perso l'occasione per passare una piacevole serata e per dimostrare che non sono solo cinismo e autocommiserazione. Ho bevuto e taciuto. Bevuto troppo e taciuto. Matteo guida silenzioso e sembra arrabbiato. È abituato alle mie uscite, ma sa anche lui che stasera ho esagerato. Forse è per questo motivo che due sere fa mi ha fatto quella piazzata. Forse è stanco di me e delle figure che gli faccio fare. Ma non ho voglia di chiederglielo e di parlare. Non ho voglia di affrontare una discussione che mi porterebbe via energie che in questo momento non credo di avere. Mi lascio ipnotizzare dai fanali posteriori delle macchine che sorpassiamo e penso a Sara. Penso a quanto sia bella e ai sorrisi imbarazzati che ogni tanto provava a lanciarmi questa sera. Cosa può aver pensato di un tizio che l'ha aggredita in quel modo sottile e umiliante, e che nell'arco della serata non ha dato segni di pentimento? Ma soprattutto sto cercando di capire perché proprio il pensiero di Sara sia quello predominante nella mia testa… e perché sia quello che mi fa più male!


29

V

Difficile stabilire quale fu l'inizio vero e proprio. Il momento da fissare nella memoria per stabilire una data in cui iniziò il calvario. Si può individuare un periodo, forse, ma non un giorno sul calendario da cerchiare in rosso e far vedere agli amici dicendo ecco, da questo giorno io non sono più stato lo stesso. Il primo e più nitido ricordo di quel periodo è legato a una partita di calcetto. Una delle tante che un qualunque ragazzo intorno ai vent'anni gioca abitualmente con i suoi amici. Ricordo che alla gamba sinistra avevo già avuto, nei giorni precedenti, formicolii e leggere scosse che qualunque ragazzo intorno ai vent'anni non cataloga sicuramente come un segnale preoccupante. Perché qualunque ragazzo intorno ai vent'anni si considera giustamente, e beatamente, indistruttibile, se non addirittura immortale. Tuttavia durante quella partita di calcetto capitò un fatto che mi fece preoccupare, non tanto per qualche aspetto squisitamente medico, ma per l'incongruenza dell'evento stesso nel contesto in cui mi muovevo. A calcio me la cavavo piuttosto bene; non ero sicuramente destinato a grandi palcoscenici, ma avevo comunque delle qualità che mi contraddistinguevano nella cerchia di amici. Ero il classico soggetto che veniva chiamato per primo al momento di formare le squadre e che rendeva soddisfatto chi mi conquistava nel suo gruppo. Destro naturale, senza disdegnare il sinistro, bella visione di gioco, velocità e dribbling efficace, tiro potente e soprattutto altruismo. Mi piaceva fare gol, ma mi piaceva soprattutto mandare a rete gli altri con assist al bacio. Insomma, chi mi aveva con sé sapeva che si sarebbe divertito e, soprattutto, di avere alte probabilità di vincere la partita. Ovviamente anche le punizioni le facevano tirare sempre a me. Tirare una punizione a calcetto non è semplice a causa dell'inevitabile barriera e della porta troppo piccola. Solitamente si preferisce appoggiare a lato, ma se la posizione era invitante io amavo comunque provare a sorprendere il portiere sul suo palo con violente conclusioni che, se non


30 entravano direttamente sotto il sette, costringevano a respinte affannose per eventuali ribattute a rete. Quel giorno però qualcosa non funzionò. Al momento di calciare di destro mi venne a mancare l'appoggio sulla gamba sinistra. Un cedimento improvviso che mi fece arrivare a colpire appena il pallone con conseguente loffia sulla barriera. Mentre ero a terra e mi stringevo il ginocchio dolorante per la caduta innaturale, intorno a me scoppiò la risata classica di chi vede la boiata, resa ancora più assordante dal fatto che a compierla fossi stato io, assolutamente estraneo a goffaggini simili. Ma io non stavo ridendo. A parte il dolore per il ginocchio sapevo di non essere scivolato. Sapevo che la gamba aveva cessato di esistere per qualche secondo, come se si fosse smaterializzata in un altro spazio e in un altro tempo. Mi rialzai e provai a sorridere per non passare per l'arrogante che non ero. Ma era un sorriso di circostanza per adeguarmi all'ambiente e combattere la sensazione di disagio che si agitava dentro di me. Il ginocchio faceva male, ma era la gamba a non sostenermi come avrebbe dovuto. Era debole e riluttante a riprendere coscienza di sé. I miei compagni intravidero una smorfia di dolore dietro al mio sorriso imbarazzato e smisero di ridere per sincerarsi delle mie condizioni. Non capivo cosa stava succedendo e cominciavo ad avere paura. Usai la scusa della contusione al ginocchio per congedarmi. Dissi che sarei andato a fare la doccia e li avrei aspettati a bordo campo. Mi lavai appoggiato al muro testando, di tanto in tanto, una gamba che non sentivo mia. A fine serata chiesi a un amico, che non abitava lontano da me, di guidare la mia auto e accompagnarmi a casa. Addussi come scusa la paura di non riuscire a schiacciare la frizione a causa del ginocchio dolorante, ma la verità era che la frizione avevo paura di non sentirla proprio sotto il piede. Il giorno dopo era un sabato e non avevo lezione all'università. Dormii fino a tardi e quando mi svegliai lo feci con ancora in bocca la strana sensazione che aveva accompagnato la fine della mia serata fino al momento del sonno. Provai ad alzarmi appoggiando prima di tutto la gamba destra. E poi, lentamente, quella sinistra. Aveva, durante la notte, ripreso un po' di vigore e riusciva almeno a sostenere il peso del mio corpo. Ma non era cessato il senso di debolezza. E nemmeno i formicolii. Passai la giornata con la speranza che queste sensazioni potessero


31 andarsene da sole, ma se il dolore al ginocchio era ormai scomparso tutto il resto era rimasto inalterato. A sera decisi di parlarne con mamma e papà. Gli dissi tutto: dal formicolio dei giorni precedenti, al modo in cui ero caduto, alla sensazione di smaterializzazione della gamba che avevo provato, alla debolezza, fino alla paura che stavo cominciando a provare. L'improvvisa perdita di colorito sui visi dei miei genitori è uno dei momenti impressi nella mia mente che non dimenticherò mai. Da quel giorno iniziò un lungo calvario. Visite fisiatriche, ortopediche, neurologiche, psicologiche; non mi sono mai fatto mancare niente. E poi risonanze magnetiche, esami del sangue, del siero del sangue, del liquor cerebro spinale. La gamba, durante i mesi che seguirono, riacquistò un po' di forza, ma permasero il solito formicolio e una debolezza che nel frattempo diventò generalizzata. Due settimane dopo l'incidente del calcetto mia madre venne in camera e mi disse che doveva parlarmi. Mi spiegò che era necessario cominciare una serie di esami e che la neurite ottica di qualche anno prima avrebbe potuto essere il primo segnale della sclerosi multipla, che era presto per preoccuparsi e che gli esami sarebbe stato meglio farli per sicurezza, visti gli ultimi eventi. Mia madre ha sempre avuto un rapporto schietto con me, superando le incomprensioni dell'età adolescenziale e preferendo la cruda verità a bugie di comodo. Continuai la mia vita forte della beata ignoranza della mia giovinezza e senza preoccuparmi di cosa fosse la sclerosi multipla e di cosa comportasse esserne colpiti. I dottori continuavano a prendere tempo, sostenendo che la diagnosi non era semplice e che i sintomi che si manifestavano potevano essere collegati a varie patologie, tutte potenzialmente connesse al deterioramento della mielina. Dopo circa un anno arrivò la sentenza: sclerosi multipla nella forma recidivante-remittente. La più comune, agli esordi; la meno prevedibile negli sviluppi. Il senso di stanchezza sempre più opprimente, la gamba che cedeva all'improvviso quando sollecitata in modo particolare, il formicolio alla mano sinistra, i primi problemi intestinali; ora tutto aveva una spiegazione, un nome, una collocazione in un quadro clinico che avrebbe continuato ad avere delle zone d'ombra, ma che poteva essere


32 ricondotto a una malattia ben specifica: sclerosi multipla! Al momento della diagnosi, poco più di cinque anni fa, ero a pochi giorni dal compimento del mio ventunesimo di vita. Un'esistenza serena scandita dagli amici, dall'università, da partite di calcetto e serate in birreria, era destinata a essere spazzata via da un evento su cui non potevo avere nessun controllo. Mi mancava l'amore, ai tempi come adesso, ma perché non ero interessato a legami duraturi; volevo godere del presente e organizzare il mio futuro. Corticosteroidi e Interferone divennero i miei migliori amici perché quelli in carne e ossa si allontanarono a poco a poco, spaventati da qualcosa che non sapevano gestire e da me, che cominciavo a chiudermi in un silenzio e in un isolamento fatto di rabbia e autocommiserazione. Approfittai di questo guscio che mi stavo costruendo per buttarmi esclusivamente sullo studio e mi laureai nel giro di due anni. Mi dividevo fra esami nelle aule ed esami in day hospital. Alternavo giornate sui libri a ricadute che progressivamente resero la mia gamba sinistra carne morta attaccata a un corpo che non la riconosceva più. Non avevo più uno straccio di vita sociale, ma ero diventato dottore in economia e commercio. Mercoledì sera. Sdraiato sul letto dopo una giornata in day hospital. Prelevato un po' di liquor qua, cambiata qualche dose là, confermata una ricaduta su, mi raccomando il riposo giù. Sono stremato da giorni, ormai, e queste visite, sempre tutte uguali, non aiutano il mio spirito e il mio morale. Come se non bastasse fuori piove di una pioggia densa che sento ticchettare sul davanzale senza interruzione. L'odore e la densità di una piovosa serata novembrina passano attraverso tapparelle e finestre chiuse per infilarsi nello stomaco e stringerlo come una morsa che non lascia spazio a momenti di respiro. Lucia, mia sorella, è nella camera accanto con la musica a palla, incurante di regolamenti condominiali e urla parentali; come sempre le note di Come as you are dei Nirvana o di Black dei Pearl Jam servono a nascondere una telefonata troppo lunga o qualche dolore troppo forte per i suoi diciotto anni. Sarà una delle tante giovani complessate che popolano questa città, ma almeno sono riuscito a evitare che affogasse le sue frustrazioni dentro discoteche di tendenza o musica di merda. Non siamo molto simili, ma


33 almeno le ho passato l'amore per la Musica vera, quella con la m maiuscola. In serate come questa non posso fare a meno di tornare indietro nel tempo; non posso evitare di guardarmi indietro per cercare di capire se è stato solamente a causa della mia malattia che tutto è cambiato negli ultimi anni o a causa della mia incapacità di affrontarla. Torno indietro con i ricordi e vedo un ragazzo che era pronto a spaccare il mondo, che aveva sempre il sorriso sulle labbra e una voglia di stare insieme alla gente che nemmeno i dubbi e i timori della giovinezza potevano scalfire. Ero ottimista, nel modo di essere e in quello che dicevo. Gli amici venivano da me perché sapevano che mi avrebbero poi lasciato con un peso in meno sullo stomaco, qualunque cosa io avessi detto o fatto. In pochi anni sono rimasto solo. Un unico vero amico, Matteo, che prima o poi si stancherà di me, e alcune conoscenze satelliti che entrano ed escono dalla mia vita senza prendere o lasciare niente. Ora sono uno stronzo cinico e arrogante, che aggredisce le persone prima ancora che aprano bocca e che le cataloga in schemi preconfezionati sulla base di come gli lanciano il primo sguardo o di quale parola pronunciano per prima. Non sono più io, o meglio, sono un io diverso che non mi piace, ma che non è più in grado di cambiare. Che non sa più come cambiare. Risucchiato in un vortice che lo spinge verso un futuro in cui vede solo nero e freddo; un vortice con pareti lisce e senza appigli. La frustrazione è una lama sottile che penetra le ossa. Talmente sottile che non la senti sempre, come un ago nella pelle che percepisci solo a causa di alcuni movimenti. Si vive cercando di godere di quello che si ha, ma poi quella lama entra di taglio e smonta qualunque certezza, qualunque base solida su cui si pensa di avere poggiato la propria vita. E si rimane soli, pur in mezzo agli altri; soli con se stessi e le proprie paure. Quella frustrazione che nasce dall'impossibilità di essere uguale agli altri, di poter fare le cose che fanno tutti, di difendere la propria posizione sociale per la difficoltà a fare duecento metri a piedi. È un equilibrio sottile e aleatorio. Come camminare in eterno sul bordo di un pozzo. Ma a volte basta un passo indietro, o semplicemente basta non fare un passo avanti. Del resto ci sono persone che vivono una vita intera con equilibri precari, con una stabilità emotiva fatta di porcellana.


34 Basterebbe tenere fuori gli elefanti. Basterebbe tenere a bada i tamburi che battono nel cervello, la morsa che stringe il cuore. Dopo venerdì sera non sono più uscito. La stanchezza mi ha impedito di fare qualunque cosa che non fosse alzarmi dal letto per mangiare o per andare in bagno. Cerco spesso dentro di me l'energia necessaria per contrastarla, per non abbandonarmi al tedio assoluto, ma questa volta l'autocommiserazione mi ha permesso di staccare la spina della testa per evitare di pensare troppo. In questi giorni Matteo mi ha chiamato un paio di volte per sapere come stavo e per sapere se volevo uscire. Ai miei stanchi rifiuti non ha opposto nemmeno una resistenza così forte. Forse anche lui ha bisogno di disintossicarsi da me. E io amo troppo compatirmi per non convincere me stesso che ogni tanto ha bisogno di serate e amici normali. Negli ultimi anni non sono mancate le occasioni in cui ho affogato frustrazione e rabbia dentro la birra, fino allo sfinimento. Serate in cui bevevo fino a non reggermi più in piedi nemmeno con l'ausilio di stampelle, o di amici, e in cui tiravo da sigarette aromatizzate per ampliare il potere dello stordimento e cancellare dal mio conscio ogni briciola di consapevolezza del mio corpo e della mia vita. Al risveglio ero sempre accompagnato da quello sgradevole senso di colpa, per aver fatto e detto qualcosa che va a minare l'orgoglio per la propria persona e la dignità di essere umano; quella spiacevole consapevolezza di essere nel torto. Di solito era una sensazione che svaniva durante la giornata, affogata nuovamente sotto mari di dolore e di rabbia freschi di stampa. Quella sensazione la sto provando ora e mi accompagna da sabato mattina. Il fatto di essere stato così scostante e imbecille da lucido accresce il senso di nausea che non mi abbandona. E non è l'interferone, ma la consapevolezza di essere andato troppo oltre e di averlo fatto con la persona sbagliata. Spengo la televisione che stava passando immagini che non stavo guardando, ma a cui permettevo di fare da sfondo ai miei pensieri. Infilo le cuffie del iPod e decido che non è la serata adatta alle note grunge che provengono dalla stanza di Lucia; mi serve qualcosa di più melodico e di abbastanza straziante da strappare via quello che ho in fondo all'anima. Seleziono i Third Eye Blind e mentre cominciano le note di God Of Wine decido che è tempo, dopo tanti anni, che io torni a porgere delle scuse a qualcuno. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...


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