Fabio Pesce
ROUGE ET NOIR
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ROUGE ET NOIR Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Fabio Pesce ISBN: 978-88-6307-312-6 In copertina: immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Settembre 2010 da Digital Print Segrate – Milano
In questo libro i personaggi e i luoghi sono inventati e qualsiasi analogia con persone, luoghi e fatti reali è da considerarsi puramente casuale.
A Paola mia compagna nel cammino
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I
Maggio 1989 La ragazzina era bagnata come un pulcino, gocce minute e infinite di pioggia insistente le cadevano addosso senza sosta, scivolando nell’acqua in cui era immersa sino alle caviglie, assieme a rivoli di lacrime che scendevano copiose da un viso inespressivo. L’acqua del ruscello era ghiacciata, ma lei non sembrava curarsene, non pensava né all’acqua né a se stessa, ma ai suoi due amici rimasti nel casolare. Lei sola era riuscita a scappare, loro no, chissà se era tutto finito e chissà perché Dio ce l’aveva con loro tre, doveva avercela di sicuro per aver permesso questo. Si toccò le labbra, le facevano male. Poi mise la mano sotto alle gonne e si toccò tra le gambe, anche lì le faceva tanto male, ma in quel momento si stupì che anche il cuore non le facesse male. Non lo sentiva proprio, forse non c’era più, se lo erano presi con tutto il resto. Si incamminò in mezzo alla boscaglia senza più pensare e le sembrò strano, non le importava di pensare, non le importava di sé.
Sembrava così lontana quella sera di un anno prima, una serata fresca per essere agosto, anzi proprio fredda ma, come ormai succedeva da alcuni anni, anche quell’estate aveva stravolto tutte le statistiche climatiche. Alla Tv si avvicendavano continuamente esperti di meteorologia, climatologia e altre cose del genere, con l’intento di spiegare all’ignara popolazione i mutamenti atmosferici e ambientali che avevano tolto alle stagioni la loro identità, tanto che ormai in autunno si prendeva la tintarella al mare e in primavera si faceva la settimana bianca in montagna. Ma non è che fossero tanto esperti nemmeno loro, perché in realtà blateravano un po’ di questo e un po’ di quello, senza poi capirci granché. Il freddo però non disturbava i quattro ragazzi. A quattordici anni si temono poche cose, non certo il caldo o il freddo.
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Stavano seduti su una panca di marmo, nel cortile di quel collegio immerso tra i castelli romani, a godersi l’ultima serata di vacanza. Vacanza era proprio il nome giusto, per tutta la loro classe era stata una vera vacanza, altro che esercizi spirituali, come erano stati etichettati quei tre giorni tra le colline. Forse a quell’età è un po’ presto per pensare a cose del genere. “A quanto stiamo con il conto?” chiese Gianluca. “Due Francesca, una tu Gianluca, zero Michela e io.” “Be’ Mario, sai che ti dico? Mi sa che non vi state impegnando molto, tu e Michela. E’ facile dai, non staccate gli occhi dal cielo e ne vedrete anche voi una, prima o poi.” commentò Francesca. “Può darsi, ma forse per vedere stelle cadenti bisogna essere… come te e Gianluca.” Francesca guardò Gianluca, ricevendone un sorriso e rispose: “E’ vero, ma lo capirai anche tu, Mario, quando ti capiterà. Ehi, ho un’idea, perché non vi mettete insieme, tu e Michela?” “Francesca, non fare la scema!” disse scocciata l’amica. “Oh, va bene, va bene, scherzavo soltanto, ma…” “Guardate lì!” fu interrotta da Gianluca che additava un punto nel cielo e in quel momento i loro occhi per una frazione di secondo conversero in quell’angolo di universo trapuntato di stelle: “Eccola!” esclamarono quasi in coro. La scia luminosa durò per un attimo, regalando loro un’emozione intensissima. “L’avete vista anche voi? L’avete vista, vero?” chiese Michela. “Io si.” disse Francesca. “Anch’io, stavolta l’ho vista anch’io.” aggiunse Mario. “L’abbiamo vista insieme, vi rendete conto?” disse ancora Francesca. “Forse voleva proprio regalare a noi il suo ultimo show prima di morire.” aggiunse Michela. “Concordo anch’io, ma lei non è morta.” osservò Mario. “E dove sarà finita secondo voi?” chiese Gianluca. La risposta arrivò dalla sua ragazza: “Ha ragione Mario. Quando cade una stella fa felice qualcuno che ne osserva la scia, come è capitato a noi, poco fa. Ma non è caduta e continua a viaggiare. In questo momento si sta facendo ammirare da altri occhi da qualche parte, in questo mondo e chissà, forse anche in qualche altro mondo. Forse…” si interruppe. “Forse…?” la incalzò Gianluca.
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“… Forse ora ci sono altri quattro come noi, felici di averla vista.” “Accidenti Francesca! Ma è tutta farina del tuo sacco o ti sei preparata prima di venire qui? la canzonò Mario, che subito però aggiunse: “Sto scherzando e ciò che hai detto è molto bello e… tu Gianluca…” concluse voltandosi verso l’amico “… sei fortunato.” “Ora state a sentire,” disse a quel punto la ragazza “questa è una sera speciale e voglio che facciamo qualcosa di speciale.” “Qualcosa… cosa?” chiese Mario. “Una promessa.” “Che promessa?” chiese Michela. Francesca li guardò e rispose: “Noi siamo amici da tanto tempo e credo che lo siamo davvero, che dite?” chiese fissando i loro occhi. “Si, siamo sempre stati insieme noi quattro, fin dai tempi dell’asilo.” “Bene, allora fate come me, teniamoci con la mano destra… ecco si, una sopra all’altra.” disse lei, assecondata dalla curiosità degli amici. “Ora teniamole unite e alziamole lì, verso il punto in cui abbiamo visto la stella iniziare a cadere… ecco si… perfetto. Adesso state a sentire: voglio che quella stella cadente sia il simbolo della nostra amicizia e leghi le nostre vite. Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro, ma se uno di noi dovesse trovarsi in difficoltà, gli altri gli staranno accanto per tirarlo fuori dai guai. Insomma, amici per sempre!” Lei finì di parlare aggiungendo al silenzio perfetto degli altri il suo, mentre le loro mani rimanevano unite in quella atipica e calda catena. “Ok?” chiese ancora e stavolta in modo più deciso, scuotendo gli amici da quel torpore in cui dovevano stare tanto bene, a giudicare dai loro volti sorridenti. Poi assieme ripeterono quelle parole, ma troppo sottotono per soddisfare la ragazza, che stavolta li incitò a gran voce: “Forza, dai! Al mio tre voglio che lo gridiamo insieme! Uno… due… tre!” Un attimo dopo il silenzio della notte fu squarciato da una voce sola: “Amici per sempre!”
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II
5 gennaio 2019 Era mattino inoltrato quando l’ambulanza arrivò al pronto soccorso. Dieci minuti dopo il paziente fu sollevato di peso dalla lettiga e trasferito sul letto di quella stanza singola da due robusti infermieri. “Ecco reverendo, ora qui starà tranquillo. Si rilassi, tra poco passerà il medico.” gli disse uno dei due. L’uomo mosse le labbra in una smorfia di ringraziamento, senza riuscire a parlare. Soffriva, era chiaro. Rimase solo nella stanza finché un quarto d’ora dopo entrò il medico, accompagnato da un’infermiera. “Buongiorno reverendo, come sta? “Buongiorno…” rispose il paziente con un filo di voce. “Cosa si sente? Dove le fa male?” “Mi sento… come svuotato, senza forze e mi fa male qui…” disse girandosi quel tanto che gli permise di indicare a fatica un punto sulla schiena. “E’ normale mi creda, il dolore è dovuto a una cosa che non dovrebbe esserci, lì dentro. Ma domani o dopodomani gliela togliamo. Deve solo stare tranquillo e riposarsi. Ora le daremo qualcosa che le attenuerà il dolore.” “E’ in buone mani, gliel’assicuro.” disse l’infermiera. “Grazie infinite.” rispose il prete. “Ora cerchi di dormire. Più tardi le facciamo una radiografia e una risonanza magnetica, così avremo un quadro preciso della situazione. Poi programmeremo l’intervento.” Il medico uscì dalla stanza e percorse il corridoio fino a una porta poco più avanti. La dottoressa seduta dietro alla scrivania appena lo vide gli chiese: “E allora?” “E’ abbastanza malconcio.” “Pensi se la caverà?” “Non lo so, Francesca. Ogni volta è un terno al lotto in queste cose. Tutto dipende da quanto si è propagato il male. Comunque direi di non
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perdere tempo. Ho chiesto di avere gli esami con la massima urgenza e credo arriveranno già stasera, così domani potremmo metterlo in lista per l’intervento.” “Va bene Livio, segui tu la cosa. Io lo visiterò dopo aver visto i referti.” Verso sera l’uomo in camice bianco stava osservando le lastre in controluce. “Che mi dici Livio?” gli chiese la dottoressa. “Da questi esami si nota una massa tumorale abbastanza estesa al polmone sinistro, ma forse non sarà necessario asportarlo tutto.” “Lo penso anch’io. Fa preparare la sala operatoria per domattina, lo operiamo per primo.” “D’accordo. Ah, sai chi è quel tipo?” “No… a parte che è un prete.” “Padre Varisco Hernandez. E’….” “Mai avuto il piacere, ma non dirmelo, ora vado a conoscerlo.” Seguita dal collega si diresse verso la stanza del paziente e vi entrò, aspettandosi il solito anonimo volto con la solita identica espressione sofferente, ma rimase di stucco nel vederlo. “Lei…!” esclamò per primo il prete, senza che a quella sua espressione di profonda sorpresa seguisse risposta da parte di chi gliel’aveva sollevata, il cui stupore era stato ancora maggiore, tanto che fu Livio a cercare di porre fine a un imbarazzante silenzio: “Vi… conoscete?” Fu a quel punto che lei si scosse e rispose: “Si, certo Livio, ci conosciamo…” “Ah bene… cioè… volevo dire che…” Ora lei aveva ripreso il proprio autocontrollo e lo interruppe spiegando: “Ci siamo incrociati in Brasile, vero padre Hernandez? Solo di vista, però, solo di vista.” “Ecco si… solo di vista…” proferì anche il malato, che subito aggiunse, lasciando intendere che la cosa non gli andava a genio: “E’… lei che mi opera?” “Si, pare proprio di si.” “Forse sarebbe meglio…” “Che lo facesse qualcun altro? Di che ha paura? Io curo chi è malato, senza pensare ad altro. Ma se vuole posso lasciare al mio collega il compito.”
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“No… no...” rispose subito, quasi pentendosi per quel timore lasciato chiaramente trasparire. “Bene allora. E’ per domani alle otto. Le auguro una buona serata padre.” E senza aggiungere nient’altro se ne uscì con il collega, che le pose a bruciapelo una ovvia domanda: “Ehi, ma non lo hai nemmeno visitato!” “Non serve.” rispose lei molto brusca. Lui a quel punto si rassegnò, prendendo atto di una chiara evidenza: “E’ chiaro come il sole che non ci sia simpatia tra di voi. Vuoi spiegarmi, per favore?” “Livio, non c’è niente da spiegare. Ci siamo incontrati durante il mio periodo in Brasile, in occasione di un evento spiacevole. Non sapevo come si chiamasse, ma ho conosciuto il suo… principale. Sai chi è? Nientemeno che il cardinale Vasco Montuori, il segretario di Stato vaticano. E lui è il suo segretario particolare.” “Montuori? Proprio quel… Montuori? “Proprio quello. Ho avuto a che fare con lui, ma ormai è acqua passata.” Livio capiva che c’era qualcosa, anche se non sapeva cosa e le disse: “Sicura di operarlo? Se vuoi posso pensarci io.” “No, tutto a posto, non preoccuparti.” “Ok.” rispose Livio, abbandonando discretamente l’argomento. Più tardi Francesca teneva in mano i referti degli esami e li fissava, ma la sua mente era altrove e vagava senza pensare a quelle radiografie, ai polmoni, al tumore, al prete che si trovava in quella stanza. La sua mente era molto più lontana, al contrario dello sguardo, immobile, quasi assente, finché si trovò a esclamare, quasi imprecando: “Brutto pezzo di merda!” Erano le dodici e trenta quando la porta della sala operatoria si aprì e Francesca uscì, discretamente stravolta. Non ne aveva la minima voglia e neanche la forza, ma sapeva bene cosa doveva aspettarsi ogni volta, all’uscita da un intervento: parenti o amici del paziente appena operato, tesi e ansiosi di conoscere come era andata, che pendevano dalle sue labbra aspettando di sentire solo ciò che speravano, buone notizie. E come ogni volta, dopo quatto, cinque, o più ore di intervento, l’ultima
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cosa che voleva era parlare, ma sapeva bene che non si poteva sottrarre: per quelle persone lei era spesso, o sempre, l’unica speranza. Li individuava subito quelli in attesa di lei, quasi ne fiutasse l’odore come un esperto segugio. Anche in quell’occasione notò una persona in attesa. Dall’abito che portava e dalla papalina color porpora in testa le risultò chiaro. Si tolse allora la mascherina e il berretto, lasciando scoperti il volto e i capelli bagnati di sudore. “Lei dev’essere qui per…” “Padre Varisco, dottoressa. Mi ha mandato il cardinale Montuori. Come è andato l’intervento?” “Ah reverendo… o… eminenza…” la domanda suscitò l’ilarità del prelato, che rispose: “Non si preoccupi, sono solo monsignore.” “Ok monsignore e mi scusi, ma non sono esperta di queste cose.” “Nessun problema, dottoressa.” “Bene, l’operazione è andata molto bene. Abbiamo trovato una situazione migliore di quanto ci aspettassimo e ora credo che il peggio sia passato.“ “Ah, Dio ti ringrazio. Quando si potrà fargli visita?” “Se non ci sono problemi, fra un paio di giorni. Ora lo mandiamo in terapia intensiva.” “D’accordo, passerò domani. Servirà assistenza? Se serve posso mandare una sorella…” “Una…sorella?… ah si… sorella in quel senso. No, no, ci arrangiamo, non si preoccupi.” “Allora bene, ripasserò e… grazie.” “Ho fatto solo il mio lavoro.” Detto questo si accomiatò dal religioso e tornò nel suo ufficio, trovandolo occupato da una persona che le dava le spalle, ma che al rumore dei suoi passi si voltò, mostrando ancora una volta una faccia ben conosciuta e ancora una volta capace, come era stato con quell’Hernandez, di coglierla completamente di sorpresa: “Ciao Francesca…” le disse quell’uomo molto basso di statura, con i capelli folti e candidi come la neve, senza dubbio sulla sessantina, nonostante un fisico asciutto e per niente dimesso: “Tu…” esclamò lei stupefatta e chiaramente infastidita, come se quella fosse l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento: “Si, io, figlia mia.”
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Lei divenne furente: “Non azzardarti più a chiamarmi figlia mia. Io non ho più un padre da tanto tempo, ormai!” L’uomo incassò quelle parole come fossero un gancio al mento, ma non cadde al tappeto e cercò di difendersi: “Ti prego, sono qui per…” “Non voglio saperlo! Vattene!” “Me ne andrò, ma prima mi devi ascoltare... per favore…” Il medico controllò la rabbia e qualche attimo dopo alzò lo sguardo verso l’uomo in piedi davanti a lei e gli disse: “Va bene, ma non ora, ho da fare. Vieni a casa mia domattina alle nove.”
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III
16 gennaio Alle nove puntuale squillò il campanello. La donna era sveglia da tempo, il pensiero di quella visita sin dal giorno prima le aveva creato un notevole stato di agitazione. Andò ad aprire in camicia da notte e fuori dalla porta trovò chi si aspettava. “Ciao.” la salutò l’uomo con timore. “Entra.” gli disse lei in modo brusco, dirigendosi in salotto e sprofondando in una poltrona, con l’aria di chi è schiacciato dal peso di qualcosa che non passa. “Su, siediti a fa in fretta. Che hai da dirmi?” L’uomo, senza togliersi il cappotto, si sedette sul divano di fronte a lei e aspettava l’ispirazione che gli dicesse da dove cominciare, ma lei non voleva aspettare: “Senti, io devo andare al lavoro tra un’ora. Non so neanche perché ti ho detto di venire qui.” Allora lui si scrollò, trovando il coraggio necessario: “Senti Francesca… ecco… non so come dirtelo ma… ti chiedo perdono per ciò che ti ho fatto...” L’inizio non sembrò colpirla in modo particolare, tanto che rimase perfettamente zitta e imperscrutabilmente immobile. Lui però non si diede per vinto e continuò: “Per favore, non passa giorno che non mi maledica per non averti capito e, anziché aiutarti, abbia contribuito a ferirti ancora di più. Ora mi è chiaro cosa ti ho fatto, piccola mia. Tua madre è morta di dolore per questo e avrei voluto morire anch’io, ma non mi è stato concesso, forse perché devo espiare qui e…” La veemenza con cui lei si scagliò contro l’uomo che aveva di fronte ridondava di rabbia da tempo repressa: “No, tu non capisci, non puoi capire! Lo potresti solo se provassi ciò che ho provato io. Vuoi che ti racconti cosa ho provato? Non l’ho mai
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fatto, perché avevo deciso di non parlarti mai più, ma ora stammi bene a sentire, così forse capirai perché per me tu non esisti più. Ciò che ho provato quel giorno è… è stato… era mancanza d’aria. Trattenevo il respiro, tenevo serrata la bocca, in una sorta di apnea, come quando senti dei miasmi insopportabili da farti vomitare e ti difendi così, sperando che passino presto. Ma non passavano e quelle luride labbra non si staccavano da me e io improvvisamente guardai il soffitto e immaginai di trovarmi distesa in un prato. Sopra di me c’era un cielo plumbeo, che mi scaricava addosso pioggia, tanta pioggia, ma era acqua scura, sporca. Le gocce mi scendevano dappertutto, ma non mi lavavano, quel fango mi entrava negli occhi, nel naso, nella bocca e mi soffocava. Respiravo appena per non morire soffocata e pensavo a mio padre, speravo… no… ero sicura che tu saresti arrivato a salvarmi, ma tu non arrivavi… non arrivasti…” L’emozione la prese e interruppe il racconto, ma durò poco, perché riprese risoluta: “Poi a casa facesti il resto… Ecco, è questo che mi annientò ancor più di ciò che avevo subìto e…” lasciò in sospeso il discorso, assalita dai ricordi di ombre opprimenti, ma con uno sforzo continuò: “… e non ti perdonai mai, per questo. Capisci? Da quel giorno per me mio padre divenne uno qualunque, anzi ancor meno che uno dei tanti e vissi aspettando il giorno in cui avrei potuto andarmene da quella casa. Non volevo averci più a che fare con te e neanche con mia madre.” Poi, fulminandolo con lo sguardo, concluse: “Voi non eravate più niente per me. Tu non sei niente per me!” Suo padre era annichilito, si vedeva chiaro: “Dio, cosa ti ho fatto!” “Lascia stare, se hai bisogno di sentirti sollevato, da me non puoi trovare ciò che ti serve. E ora vattene.” L’uomo non si mosse e continuava a fissarla, finché non fu ancora lei ad apostrofarlo in malo modo: “Che hai? Non mi hai sentito?” “Quel ragazzo di colore…” “Che hai detto? Quale ragazzo?” “Frequenti un ragazzo giovane, di colore…” “E come fai a saperlo?” “Ti ho vista qualche volta per strada…” “Accidenti, non ci posso credere! Mi pedini perfino! Lo sai che è un re-
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ato?” “Ti prego, sforzati di capirmi. Sei tutto quello che ho…” “Non mi hai più ormai e lascia stare le preghiere, tanto non servono. Vuoi sapere chi è quel ragazzo? Pensi sia il mio compagno? E se anche fosse? Ma no, non preoccuparti, ha vent’anni meno di me, non sto insieme a lui. E’ solo un ragazzo che ho conosciuto in Brasile e che aveva bisogno di aiuto. Me lo sono portato qui a Roma e l’ho fatto studiare.” “Lo hai adottato?” “Non so perché sto qui a sentire le tue stupide domande! Che differenza fa? Comunque no, ma è come se lo avessi fatto. Abbiamo una cosa in comune noi due. Anche lui è passato attraverso il mio inferno.” “Anche lui…?” “Si, e anche lui deve ringraziare un prete e…” scoppiò a ridere con tono amaro “Ah Ah! A volte la vita è proprio buffa. Vuoi sapere chi ho appena operato? Il segretario di quel prete, un farabutto come lui, non tanto per essere come lui, io non lo so se le ha anche lui quelle deviazioni mentali, ma è un farabutto solo per il fatto che, anche se sa perfettamente tutto ciò che fa il suo capo lo aiuta pure a organizzare i suoi simpatici festini. Si, mio caro. La vita mi ha fatto incrociare nuovamente il prete che ha abusato di Josè e mi ha costretto anche a salvare la vita al suo aiutante, anziché portarselo via da questo mondo, lui e quel maledetto Montuori.” Quel nome pronunciato con rabbia colpì suo padre, che chiese subito: “Intendi il cardinale Montuori?” “Proprio lui. Che dici? Me ne sono venuta via dal Brasile con Josè per lasciarmelo alle spalle e lui che fa? Mi rispunta alle spalle, proprio qui a Roma e dall’alto del suo nuovo incarico. Dimmi tu se c’è una giustizia; invece che radiato… scomunicato si dice, no? Viene anche promosso.” Smise di parlare per un attimo, poi si rivolse a lui con una decisione che non ammetteva repliche e gli disse: “Vattene, sono stanca, non ne posso più, non ti voglio più vedere… vattene…” “Posso accompagnarti al lavoro?” “Perché? Ti fa sentire a casa? Ti piace vedere tua figlia indossare il camice che avevi tu? No…” “Francesca…” Forse fu perché si sentì chiamata per nome, ma quel tono quasi di supplica ottenne l’effetto sperato:
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“Mi faccio la doccia. Aspettami qui.” Un’ora dopo erano nell’atrio dell’ospedale e il tono in cui lei gli disse “Addio” aveva proprio l’aria di un commiato definitivo. L’uomo rimase in silenzio e indietreggiò appoggiandosi al muro dietro di lui, con la stessa lentezza delle due lacrime che gli stavano scendendo sulle gote. Poi si abbottonò il cappotto, si diresse alla porta e prima di oltrepassarla, disse solo: “Tu sei tutto per me e finché vivrò cercherò il tuo perdono… in ogni modo.” Un attimo dopo lei era sola.
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IV
“Il caffè è pronto, amore.” disse Gianluca, aprendo piano la porta della camera senza accendere le luci, guidato solo dalla luce della finestra in corridoio, per consentirle un dolce risveglio. “Ciao, amore. Mhh, il caffè a letto…” “Mi fa piacere questo tuo stupore, ma lo faccio ogni mattino, da quando non lavoro più al catasto.” “Lo so, ma ogni volta mi piace da impazzire.” “Bene, ora svegliati con calma.” “Avvicinati.” “Che c’è?” “Distratto che sei! Non mi vedi? Io!” “Ma che ti prende? Mi sembravi ancora mezzo addormentata.” “Sta’ tranquillo, sono sveglia. Sai, stanotte mi ricordo di aver pensato a te.” “A me? E a che proposito?” “Ho pensato che tu sei bravo, scrivi bene, hai tanta inventiva e riesci davvero a catturare l’attenzione del lettore.” “Grazie.” “Però ho anche pensato che potresti essere meno monotematico e descrivere, oltre alle solite catene di omicidi anche qualcos’altro.” “Per esempio?” “Per esempio…” il tono ora era languido e lei accompagnò le parole successive strusciandosi addosso a lui “… qualche incontro… piccante del tuo killer con una dark lady, o una storia d’amore parallela a quella di sangue. Sono sicura che l’intreccio sarebbe ancora più interessante…” “Sai che sei un po’ strana stamattina?” “Dici? No, è che volevo dire…… be’, ho capito, hai bisogno di un esempio…” Con movimenti lenti e provocanti si sbottonò la camicia da notte e gli fece appoggiare il viso sul suo seno caldo e morbido. “… sai, in questo momento ho certi pensieri e… devi scrivere?” “Dovrei…”
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“Non puoi farlo dopo?” “Be’… si…” “Che diresti di lasciar stare i tuoi cadaveri dentro al libro e far morire me, ora…?” “Farti morire…?” “Si, come sai fare tu…” “Di piacere… Ci sono arrivato, vero?” “Si…” A quel punto Elisa si scoprì, mostrando tutti i suoi centosettantadue centimetri di bellezza e il fischio di ammirazione che lui non trattenne fu poco distinto ma molto eloquente: “Elisa, che gran pezzo di…” “Gianluca, ti prego…, non fare commenti da taverna del porto.” lo interruppe con un sorriso soddisfatto per l’effetto ottenuto. “Scusami, hai ragione. Allora vediamo…Enchanté! Va meglio così?” “Molto meglio.” sorrise lei, schernendosi. Era una gran bella donna anche in pigiama e… chissà poi perché fanno degli indumenti che, sia che li indossi o no, l’effetto è lo stesso. Quella camicetta da notte azzurra di pizzo, molto trasparente, evidentemente era nata per nascondere il meno possibile le sue curve mozzafiato, tanto era leggera da essere quasi impalpabile. Le coperte l’avevano arruffata in su fino ai fianchi, scoprendo le gambe e lasciando intravedere gli slip dello stesso colore, ma se anche lui non li avesse visti sarebbe successo lo stesso quello che Gianluca stava facendo in quel preciso momento, perché le trovava così incredibilmente sexy, le sue gambe, e lei lo sapeva benissimo quando si era scoperta. Le tempestava di baci e non finiva più, doveva averne una scorta incredibile e proseguì sempre più su, fino a che le loro labbra si incontrarono in un bacio caldo, umido, innamorato. Allora si spogliò, distendendosi prima accanto a lei, poi sopra, sotto… e…
Si svegliò, per niente stupito di aver rifatto quel sogno. Gli succedeva ogni tanto. Era andata così l’ultima volta in cui erano stati insieme tre anni prima, lui e sua moglie. Se ne ricordava ogni più piccolo particolare. Aveva seguito il consiglio di sua moglie e da allora aveva aggiunto in ogni
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sua storia, oltre alla solita fila di morti ammazzati, l’ingrediente di un intreccio amoroso. Rimase a ricordare disteso a letto una buona mezz’ora. Poi decise di alzarsi. Solo in quel momento guardò l’orologio, le tre del mattino, ma tanto che importanza aveva? Sapeva che non sarebbe più riuscito a dormire. Così andò alla scrivania e aprì il blocco degli appunti. Lo richiuse quatto ore dopo, deluso. “Ok, mi arrendo.” In tutto quel tempo la sua mente aveva prodotto solo quella frase scialba e senza spessore: L’assassino prese il coltello e si avvicinò alla sua vittima, legata mani e piedi alla sedia…” Quella storia di delitti ambientata proprio lì a Roma, un serial killer che stava per iniziare la sua triste collezione di cadaveri, proprio non voleva saperne di decollare. Era stato un errore mettersi a scrivere dopo aver sognato sua moglie. Già, era uno scrittore, scrivere era il suo mestiere e fino a quel momento gli era anche riuscito bene. E non era uno scribacchino qualsiasi. No, aveva talento lui ed era uno dei pochi casi letterari in cui critica e pubblico si erano finora trovati sempre d’accordo. Si alzò e andò alla finestra, c’era la nebbia, ma nelle giornate di sole, da lì si apriva l’incredibile spettacolo della città incantata, lo stesso che si era spalancato davanti a lui ed Elisa il primo giorno che erano andati ad abitare in quell’attico luminoso in cima a Monte Mario. Glielo aveva permesso il suo primo romanzo di successo, che aveva finalmente rimpinguato le loro finanze dopo anni di attese e delusioni, segnati dall’indifferenza e dai no degli editori a cui non si era stancato di inviare i suoi manoscritti. Ma non si era mai dato per vinto ed era venuta l’ora de Quel tanto che mi scaldi il cuore, una storia d’amore, la prima e unica della sua bibliografia, arricchitasi poi quasi esclusivamente di gialli e thriller. Ma era quella l’opera a cui era più affezionato, forse perché dentro ci aveva buttato tutto se stesso, non solo in fatto d’impegno, ma soprattutto per essersi raccontato, svelato. Quel romanzo era molto autobiografico e, dopo il successo, un giorno aveva confidato a Elisa:
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“E’ proprio vero che, se invece delle bugie dici la verità, vieni ripagato.” Già, Elisa, da quanto non c’era più? Non aveva bisogno di sforzarsi per ricordarlo, contava i giorni ogni giorno. Millecinquecento giorni da quel maledetto venti novembre 2014, quando uno zingaro ubriaco fradicio l’aveva travolta mentre uscivano da teatro. Lui si trovava quei venti centimetri più indietro che bastarono a salvarlo. Lei invece fu investita in pieno e l’urto fu così violento che morì subito, così dissero i medici, dopo averne constatato il decesso. Senza soffrire, dissero e si ricordò di aver pensato in quel momento che diavolo ne potevano sapere se avesse sofferto o meno. Quando avvenne l’incidente erano sposati da quindici anni e si amavano come il primo giorno. Si erano conosciuti la prima volta per caso a una festa di capodanno, ma allora non successe nulla, anche se già lei lo aveva adocchiato, l’ingenuo però non se ne accorse. Non era il loro tempo, lui era reduce da una grande delusione d’amore, la ragazza che amava da impazzire lo aveva lasciato, senza che lui capisse perché. Il loro tempo venne sei anni dopo. Gianluca non viveva più già da un po’ con i suoi e abitava in un appartamentino in affitto. Era diventato un bravo uomo di casa e provvedeva a tutto, compreso lavare e stirare. Quel giorno gli serviva del detersivo per lavatrice e si infilò nel primo supermercato che trovò, quello dove abitualmente ci andava Elisa, che investì letteralmente con il carrello in fondo a uno scaffale, sbucando fuori distratto come gli succedeva spesso. Gli artisti si sa, che siano pittori o scultori o… scrittori, hanno una costante che li accomuna: la testa il più delle volte tra le nuvole. Appena accortosi di averla scaraventata a terra si era chinato verso di lei per aiutarla a rialzarsi, profondendosi in scuse a volontà, ma nel momento in cui vide il suo viso, si ricordò immediatamente di lei e pensò di non essersi mai accorto di quanto bella fosse. Lo riconobbe anche Elisa e questo smorzò la sua ira, che svanì in fretta. Poi si erano sposati, poi era arrivato lo zingaro… Ecco, fu proprio da quando Elisa se ne andò che non scrisse più d’amore e macinò solo storie sempre più cupe, senza nessuna concessione ai sentimenti, dove ciò che imperava era la sofferenza di qualcuno, quasi volesse in questo modo esorcizzare la sua. Però scriveva bene, almeno a giudicare dalle copie che vendeva. Ora qualsiasi cosa scrivesse diventava un best seller, anche se in almeno un
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paio di occasioni, non aveva poi scritto dei capolavori. Ma la gente comprava lo stesso, la gente è cosÏ, sempre alla rincorsa di gente nota e famosa, al punto da non curarsi piÚ di tanto di cosa faccia o dica, basta che per qualsiasi motivo, anche per presentare un nuovo libro, appaia in TV, unico giudice riconosciuto per consacrare cavalieri o condannare poveri diavoli.
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17 gennaio Così quel mattino l’esperienza gli suggerì di decidersi, vista la totale aridità della sua mente. Prese il foglio e lo accartocciò, formandone una palla abbastanza regolare che, dopo un breve volo, finì nel cestino. Niente, non gli veniva niente, era a corto di idee come solo una volta gli era successo in passato e, memore di quell’esperienza, sapeva che, se anche fosse rimasto lì seduto per dei giorni interi, sarebbe stato perfettamente inutile; uno scrittore senza idee è come un fucile scarico, o un motore senza benzina, o uno sposo senza la sposa. Le idee stanno allo scrittore come il lievito alla farina: né un libro né il pane vedranno mai la luce senza il loro paio. Gianluca lo sapeva benissimo e sapeva anche che, per sbloccare la situazione, doveva liberare la mente da quel pensiero fisso e pensare ad altro, a qualsiasi altra cosa ma non a quel libro, che sembrava non avesse la minima voglia di sottomettersi al suo creatore. Si vestì e uscì, anche se la giornata non era di quelle che invogliano a uscire, umida di una nebbia così rara a Roma, che ti entrava nelle ossa. Ma alzò le spalle senza darci peso, aveva bisogno di aria, non importava se calda, fredda o umida, bastava che fosse aria. Prese l’auto e partì, senza una meta particolare. Scese per via Licinio Calvo, incrociando poco dopo via Prisciano, dove svoltò a destra. La strada la prendeva a seconda dell’estro, era anche un po’ svagato e a un semaforo tirò dritto, senza avvedersi che era diventato rosso. Per fortuna non ci fu alcun botto. In breve si ritrovò sul Lungotevere e quando fu all’altezza del ponte Nenni passò sull’altra sponda, addentrandosi in centro. Il caso lo fece incrociare via del Babuino e prendere la decisione di fare due passi da quelle parti. Sapeva che lì c’era una buona concentrazione di negozi di antiquariato e ci avrebbe dato volentieri un’occhiata. Lasciò così l’auto in sosta vietata, unico posto libero a Roma, e si mise a girovagare. L’ora era mattiniera e non c’era ancora molta gente per strada.
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“Meglio così” pensò “la confusione è una noia.” Le saracinesche erano ancora quasi tutte chiuse e le poche sollevate lo vedevano in sosta a guardare le vetrine, ma non c’era niente di particolarmente interessante che riuscisse a catturare la sua attenzione. Quadri, stampe, mobili antichi, ma non era quello che cercava, anche perché non sapeva nemmeno lui cosa stesse cercando. Senza rendersi conto macinò un bel po’ di strada e non fu per niente poca se a un certo punto si stupì di trovarsi nei pressi del Pantheon senza essere stanco. Imboccò una viuzza abbastanza stretta di cui non aveva ricordi e mentre pensava che la stava percorrendo per la prima volta, passò davanti a un negozio dall’aria invitante. Lui si sentiva invitato solo da ciò che aveva il sapore del passato: libri vecchi, stampe, macchine fotografiche d’epoca. Quell’insegna lo sedusse: Penne da collezione – dal 1893 e senza pensarci un attimo entrò. La stanza era in penombra, illuminata dalla luce ancora radente per l’ora mattutina di quella stagione morta che, entrando da una piccola finestra chiusa da un’inferriata, disegnava sul muro e sul pavimento delle croci allungate. Al centro del soffitto pendeva da un filo bianco una lampadina nuda e spenta. L’arredamento era monotematico: di legno il pavimento, di legno il soffitto, con travi a vista dall’aria vetusta. Di legno ovviamente anche i mobili. C’era un bancone non molto alto, con dietro una serie di credenze con le ante di vetro, che ne lasciavano intravedere gli scaffali pieni di penne di ogni tipo. Tra il bancone e le credenze si aggirava un omino calvo, incurvato, con degli occhiali tondi stile Conte di Cavour, che sembrava antico quanto il luogo. C’era un odore di vecchio, stantio, ma per Gianluca era profumo. “Buongiorno signore, posso aiutarla?” Il saluto del negoziante lo scosse: “Buongiorno,” rispose “volevo dare un’occhiata.” “Faccia con comodo e passi pure da questa parte del bancone. Le penne sono quasi tutte concentrate qui.”
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“Grazie.” Gianluca cominciò a guardare tra gli scaffali, incantato da ciò che contenevano. Penne stilografiche, penne con il pennino, perfino penne d’oca, nessuna biro. “Affascinanti, vero?” disse l’uomo, notando il modo con cui Gianluca osservava. “E’ una passione che ho da sempre.“ “Cerca qualcosa in particolare?” “Di solito cerco senza un’idea a monte e non vengo mai deluso, è il modo migliore per trovare.” “Bene…” il vecchio si sfregò le mani, non per un motivo preciso, quanto per un vezzo, un’abitudine. Gianluca ricordò che lo aveva già fatto almeno tre volte da quando era entrato. “Mi permette di farle vedere qualcosa? Di solito non lo faccio, ma lei mi sembra una persona che sa apprezzare certe cose.” “Prego, mi farebbe piacere.” rispose Gianluca. Il negoziante prese da uno scaffale quattro stilografiche e le appoggiò con delicatezza sopra a un panno blu. “Lo sa quando le hanno inventate?” chiese, fissando quegli oggetti. “Le stilografiche? No, forse nel diciannovesimo secolo.” rispose Gianluca. “Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, ma si dice che già Leonardo ne avesse realizzato un prototipo probabilmente funzionante, a giudicare dagli schizzi trovati. Le prime penne però erano poco affidabili e davano un sacco di problemi. Poi vennero perfezionate da un signore di nome Waterman, nei primi anni del ventesimo secolo, contrariato per averne acquistato una con il solito difetto: fuoriusciva troppo inchiostro. Ma quella volta, anziché riportarla dal negoziante, pensò bene di ripararla da sé e ci riuscì. Dopo qualche anno apriva stabilimenti in giro per il mondo. Poi arrivò anche la concorrenza: Parker, Montblanc, Aurora e così via.” “Affascinante.” “Già, ora guardi questi gioielli.” Gianluca non disse nulla e prese in mano la prima alla sua sinistra. “Conway Stewart blu del ’55,” sentenziò il vecchio “un pezzo molto elegante.” Il cliente continuava a tacere, mentre passava in rassegna le penne a una a una e ogni esemplare era accompagnato dalla presentazione orgoglio-
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sa del negoziante. Fu il turno della seconda: “Parker Arrow del 1980. Nome azzeccato, non le sembra?” Stavolta ci fu risposta: “Sinuosa, proprio come un dardo. Quest’altra invece? E’ sempre una Parker…” “Ecco, guardi il certificato. Ha un nome un po’ difficile.” Gianluca lesse a voce alta: “Parker Blue Pearl Striped Duofold del 1941. Accidenti! Non dimostra certo la sua età! Preziosa e luccicante proprio come una perla. E quest’altra? Che meraviglia!” Ora nelle sue mani rigirava con delicatezza una Sheaffer Black del 1978, impreziosita di gemme. Poi fu la volta di una Waterman Vintage Targa, edizione limitata del 1985, un pezzo molto raro, gli spiegò quell’uomo. Davanti ai suoi occhi passarono in rassegna vari altri esemplari di Aurora, Omas, Sheaffer, una tedesca Krone e davvero la confusione che si era creata nella sua testa gli impediva di decidersi. Le avrebbe volute tutte, erano meravigliose. A un certo punto appoggiò le mani sul bancone e guardando davanti a sé esclamò: “Davvero sono senza parole, qui c’è una collezione inestimabile. E’ proprio difficile scegliere…” proprio mentre pronunciava quelle parole il suo sguardo, fermo sulla vetrina di fronte, notò qualcosa che lo incuriosì: “E quella…?” Il negoziante si voltò e Gianluca trovò strano che, tra le dieci penne che occupavano lo scaffale avesse preso proprio quella che aveva suscitato la sua curiosità. “Questa?” “Proprio questa. E’ una Rouge et Noir, ma dev’essere una delle prime prodotte. Io possiedo un esemplare uscito in edizione limitata nel 2006 in occasione del centenario della casa produttrice.” “Si, Montblanc Rouge et Noir del 1913.” annunciò solennemente il negoziante. “E’ il primo modello con la stella a sei punte, dopo la versione di esordio del 1909 della neonata Montblanc, che era invece caratterizzata dallo stesso corpo in ebanite, ma aveva un tondino rosso sulla sommità del cappuccio, una chiazza rotonda ancora abbastanza anonima.
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Per essere precisi, prima di arrivare alla stella che vede, ci fu un passaggio intermedio, con il tondino che da rosso era diventato bianco. Ma non durò molto e poco tempo dopo si trasformò nel marchio che tutti conoscono.” “Certo,” osservò Gianluca “ma stando a ciò che mi ha detto, dopo che il colore del tondino era stato modificato da rosso a bianco, la stella di questa penna dovrebbe essere bianca, mentre invece è rossa.” disse indicando il simbolo sul cappuccio. “Ha ragione e proprio questa è la curiosità e rarità di questo pezzo. Per quanto abbia fatto ricerche e mi sia documentato, non risulta traccia di edizioni, pur limitate, di un modello del genere ed è una cosa davvero strana, forse dovuta alla bizzarria di un momento del mastro artigiano che la lavorò.” L’attenzione di Gianluca ora era tutta per quell’oggetto, come se le altre penne appoggiate sul panno blu non esistessero. “Ah, ovviamente il pennino è in oro 18 carati. Non vi compare però ancora il numero 4810.” “Già, l’altezza del Monte Bianco.” “Esatto, un’altra particolarità con cui, assieme alla stella, ama firmarsi la casa produttrice. La apra pure se vuole. E’ magnifica, sembra appena uscita di fabbrica.” “Gianluca eseguì e mentre lo faceva sentiva, conoscendosi, che non sarebbe uscito dal negozio senza di lei. “Deve costare una fortuna.” disse con uno sguardo rapito. “Le ho spiegato, è un pezzo unico.” “Quanto?” “La mia è una stima grossolana, visto che non si trova traccia di un modello così da nessuna parte. Ventimila.” “Accidenti!” Il vecchio si tolse gli occhiali e fissò Gianluca negli occhi, dicendo: “Vede signore, io sono vecchio e non avrei bisogno di lavorare per vivere, ma lo faccio perché questa per me è una passione che ho da sempre. Sono qui da quarant’anni e solo altre due volte è entrato qualcuno, come lei, nei cui occhi ho letto una vera ammirazione per opere come questa. E anche stavolta farò come in quelle due volte precedenti. Lei mi ha già ripagato per una parte tenendola in mano e guardandola come una cosa viva. Quindicimila ed è sua.” “Ma non so se…”
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“Vuole pensarci?” “No, è meglio di no. Certe cose bisogna deciderle subito. Si o no.” Rimase pensoso qualche attimo, poi chiese: “Vorrei provarla.” “Certo, gliela carico.” Poco dopo scrisse solo quattro o cinque parole e fece due volte la propria firma. Gli bastò per esclamare: “Si, la prendo.” “Bene.” disse il negoziante soddisfatto “ora gliela sistemo nella sua confezione. Dentro ci troverà anche la garanzia ufficiale del 1913. Posso chiederle una cosa?” “Certo.” “Cosa ne farà? Voglio dire, la metterà a far da soprammobile o la userà?” “La userò. Io scrivo, per lavoro.” “Lo so.” “Che ha detto?” “Che so chi è lei. Si è appena firmato, signor Moreschi.” “E’ un osservatore.” “Non è stato difficile, mia figlia ha tutti i suoi libri e qualcosa di lei ho letto anch’io.” “Mi fa piacere, vuol dire che non mi avete trovato noioso.” “Ora sono ancora più contento che quella penna venga a casa sua.” “Non ho contanti. Se le può andar bene un assegno…” “E me lo chiede?” “Permette?” Gianluca prese la Montblanc per compilare l’assegno “ora la posso usare, no?” Appena uscito dal negozio allungò il passo, nonostante già stesse quasi correndo, ma per lui non era ancora abbastanza. Ogni tanto metteva la mano nella tasca del cappotto e ciò che sentiva lo rassicurava, facendogli assaporare sempre più il momento in cui si sarebbe trovato nel salotto di casa a scartare quel pacchetto. Mezz’ora dopo, emozionato, aprì lentamente la scatola e ne estrasse il contenuto, rimanendone ancora una volta ammirato. Prese la penna e mentre la osservava provò una sensazione strana. Da giorni interi non riusciva a mettere in fila che poche parole di senso compiuto, quasi
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scordandosi le medie dei momenti di vena, in cui riempiva almeno otto o dieci pagine al giorno. Ma in quel momento, proprio quando si era seduto e aveva preso nelle mani quella penna, notò in sé qualcosa di diverso. Erano trascorse appena tre ore: poco prima non riusciva a cavare un ragno dal buco, ora, chissà perché, si sentiva finalmente ispirato, chissà cosa gli era successo, le idee cominciavano a confluire nella zona centrale del suo cervello e si mettevano in mostra, ognuna cercando di farsi preferire alle altre. Lui sapeva che quella era una cosa positiva, ma pericolosa, perché c’era il rischio che, di quelle tante idee, qualcuna si perdesse per strada e allora addio, non la recuperavi più. Così prese a scrivere con frenesia, senza badare al lessico, alla sintassi, alla grammatica. Per quelle ci sarebbe stato tempo dopo, ora era prioritario lasciar traccia sul foglio delle cose che gli venivano in mente. Era uno scrittore un po’ anomalo, all’inizio del ventunesimo secolo. Diceva che scrittore è sinonimo di uno che scrive e per lui lo scrivere era quell’atto che si fa con una penna in mano e un foglio bianco sul tavolo. Così aveva sempre fatto e ricopiava solo dopo al computer ciò che aveva scritto, senza considerarlo tempo perso. Provava piacere nel vedere l’inchiostro uscire dalla punta della stilografica e disegnare sul foglio i suoi pensieri, dando forma a mille fantasie che diventavano un personaggio, un paesaggio, un’azione, un’emozione. Tolse il cappuccio sul quale in quel momento notò, forse per l’ampia luminosità che pervadeva la stanza, una cosa che prima nella penombra del negozio gli era completamente sfuggita. Vi erano incise due iniziali, in eleganti caratteri: G. R. “G. R., chi mai sarà stato?” ma lasciò lì la domanda per dedicarsi al suo libro tanto, si disse, quello doveva essere morto già da un po’ e la penna ora era diventata sua. Iniziò a scrivere, scoprendosi compiaciuto; il pennino scorreva come lo scafo di una barca a vela su un mare piatto e anche la storia, ora. La sua creatura si era finalmente rianimata e lui sentiva di nuovo di amarla.
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VI
30 gennaio Di solito, finita l’ora di nuoto, se ne filava dritto a casa, ma quella sera passando davanti al bar della piscina gli venne voglia di bersi qualcosa. Ordinò un Campari, rimanendo al banco a ingannare il tempo, osservando distrattamente il via vai di gente che entrava e usciva continuamente, con l’immancabile borsone con sé. “No, non ci posso credere, Gianluca!” Una voce lo distolse dalle sue riflessioni e si voltò sorpreso per vedere chi lo avesse chiamato. Era una donna, una donna molto bella, che lo stava guardando con un’espressione di felice sorpresa. “Scusi, ma io non…” “Memoria corta, vero? Scherzi dell’età che avanza? Suvvia, guardami bene, sono proprio così cambiata?” “Francesca…“ “Ciao… Gianluca.” “Francesca… accidenti, sei davvero tu, quanto tempo è passato!” “Trent’anni, direi, mese più mese meno.” “Tanto così? Sono diventato così vecchio?” “Ehi, stai dando della vecchia pure a me!” “No, no figurati, è che è un numero che fa un certo effetto. Ma tu non hai proprio l’aria della vecchia. Caspita. Ti faccio invece i miei complimenti. Eri bella una volta, ma lo sei ancora, eccome!” Francesca era visibilmente felice, lo testimoniava il suo rossore, che faceva il paio con una non nascosta emozione. “Che ci fai qui?” “Ho appena finito l’ora di palestra. Ti avviso, sono cintura nera di karate.” “Allora è meglio starti alla larga.” “Solo chi vuol farmi del male e… non credo tu lo voglia…” “Certo che no. Ma che fai di bello nella vita, Francesca? Sei sposata?”
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“Sposata io? Figuriamoci! Troppo stress il matrimonio. No, sono felicemente single, come sembra andare tanto di moda ora. E ho un lavoro, sono medico.” “Non mi dire! Non ha tanta attinenza con il liceo classico in cui eravamo.“ “Per niente. La maturità classica l’ho fatta, solo che poi ho cambiato indirizzo e mi sono iscritta a medicina, laureandomi a pieni voti.” “Non poteva che essere così. Sei sempre stata una intelligentona. In cosa ti sei specializzata?” “Sono oncologa, ragazzo mio.” “Complimenti davvero.” “A te invece non serve che chieda nulla. Ti conoscono tutti ormai, signor scrittore.” “Si, scrivo qualcosa…” “Lo so cosa scrivi. Ti leggo, sai, e mi piaci anche. Hai stile.” “Se non ti concilio il sonno, allora posso dirmi soddisfatto.” “Tutt’altro! Un tuo libro non dura mai più di quattro o cinque giorni nelle mie mani e sai una cosa? Ogni volta cerco di indovinare come la fai finire la tua storia, ma, accidenti, non c’è verso che ci becchi una volta. Mi freghi sempre con i tuoi finali a sorpresa.” “Se non fosse così potrei dedicarmi al giardinaggio.” “Continua invece, una lettrice affezionata l’avrai sempre. Ma dimmi, come sta Elisa?” A quella domanda improvvisamente lui si rabbuiò, abbassando lo sguardo e rispose con tono quasi baritonale: “Elisa è… morta.” Quella notizia Francesca non se la sarebbe mai aspettata ed era sinceramente dispiaciuta: “Oh, non sapevo… Gianluca, scusami tanto… Dio mio che notizia!” “Già, sono tre anni ormai. Un incidente.” “Sono davvero sconvolta.” Era davvero imbarazzata, quella notizia era un fulmine a ciel sereno. “E… avevate bambini?” “No…” Gianluca sentì all’improvviso il bisogno di andarsene e bruscamente disse: “Ora devo andare…” Lei capì il suo imbarazzo: “Certo, be’ mi ha fatto piacere incontrarti e… se vuoi che ci facciamo
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una chiacchierata in tranquillità, chiamami. Questo è il mio numero.” e gli allungò un biglietto da visita “Mi farebbe piacere.” “Certo, anche a me. A presto.” Il ciao che lei pronunciò aveva un che di languido.
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VII
2 febbraio “Mi ricordi un salame. Sai quegli insaccati che si compravano una volta dai contadini? Io li prendevo da Emilio. Li faceva lui, ogni anno uccideva tre maiali e quello che non serviva alla sua famiglia lo vendeva. Io preferivo la coppa. Emilio me la teneva in cantina per qualche mese, così si stagionava al punto giusto. Quando la portavo a casa ricordo che era una festa. Mhh… davvero squisita. E prima di tagliarla le toglievo tutto quello spago che la avvolgeva ed era servito a tenerla in sé al momento della insaccatura...” La pausa fu accompagnata da un profondo sospiro, a cui seguì il finale: “… a te la corda la tolgo più tardi.” Se la situazione non fosse stata così grottesca e tragica chi parlava aveva ragione. L’uomo che aveva di fronte assomigliava proprio a un salame, legato com’era alla sedia dalla testa ai piedi con metri di corda robusta e ben annodata. Quello che gli era consentito fare in quella penosa condizione era dimenarsi poco e lamentarsi tanto: “Ti prego lasciami andare… perché ce l’hai con me? Chi sei…? Che vuoi? Cosa vuoi farmi?” “Ciascuno raccoglie ciò che semina. Davvero non hai niente da farti perdonare? Pensaci bene, su forza, un piccolo sforzo. Ti piacciono ancora i ragazzini?” A quelle parole sobbalzò chiaramente sulla sedia: “No, mio Dio, no!” “Vedo che hai capito, è per questo che sono qui.” “Per favore… è da tanto che non succede più… Dio, ti prego…” Quella nenia supplichevole non impietosiva affatto il suo carceriere. Indossava un impermeabile grigio, il capo celato da un cappuccio stile Ku Klux Klan, che lasciava scoperti solo gli occhi. A un tratto disse, rivolto al prigioniero: “Ora devi fare il bravo e stare fermo. Ti farò una piccola iniezione. Non voglio che tu soffra, sai!” A quelle parole l’agitazione e il terrore del prigioniero raggiunsero il culmine, tanto che intensificò ancor più in volume e numero le grida di
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aiuto: “No! Cosa vuoi farmi? Ti scongiuro… lasciami andare! Sono solo un povero prete… oh Dio!!! Nooo!” “Povero non direi, con la pancia che ti ritrovi. Mi sa che non mangi solo per vivere, piuttosto direi il contrario. Ma ora risparmia il fiato, neanche Dio può fare niente per te.” E meccanicamente si infilò dei guanti in lattice, prese una siringa, la scartò e poco dopo affondò l’ago nel collo del prigioniero, mentre il pollice spingeva dentro alle sue vene il contenuto incolore di quel cilindro trasparente. Qualunque cosa fosse risultò molto efficace, perché mezzo minuto dopo l’uomo smise di dimenarsi, cadendo in un sonno profondo. Posò allora la siringa sul tavolo posto in fondo a quell’ampia autorimessa, per prenderne subito un’altra. L’iniezione stavolta la fece intorno alla bocca della sua vittima. Terminata anche questa fase si accostò al tavolo, sul quale era appoggiato un grosso chiodo, lungo all’incirca cinque centimetri e con un diametro di quattro o cinque millimetri. Il fusto, anziché essere liscio, era a spirale. Quindi gli afferrò le labbra, stringendole forte tra il pollice e l’indice, mentre con l’altra mano appoggiò la punta del chiodo al centro del labbro superiore. Poi, con movimenti flemmatici, lo spinse in giù, incurante del sangue. L’uomo ebbe un piccolo scuotimento, ma continuò a dormire per effetto dell’anestesia. Pulì le gocce cadute sul pavimento, ancora luccicanti sotto il fioco riverbero della lampada al centro del soffitto, poi raccattò lo straccio e lo gettò in un secchio addossato al muro un metro più avanti. Nelle sue mani ora teneva un coltello, con il quale tagliò i legacci che tenevano immobilizzato il prigioniero alla sedia il quale, un attimo dopo, rotolò a terra. Gli si piazzò vicino alla testa e lo afferrò per le ascelle, cominciando a trascinarlo verso il fuoristrada e, giuntovi, aprì il portellone posteriore e si preparò allo sforzo finale facendo un respiro profondo. Si chinò su quel peso morto, sollevandolo fino a ribaltarlo all’interno dell’auto, poi chiuse il portellone e indossò una cerata nera, che gli arrivava appena sotto alle ginocchia. Fuori pioveva a dirotto. Salì sull’auto e premette il pulsante di un telecomando. Un attimo dopo l’auto oltrepassò il portone del garage che, come si era aperto, si richiuse senza far rumore.
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Erano le tre quel mattino e continuava a piovere dal giorno prima. Una classica notte da lupi con nemmeno un cane per strada. Nessuno notò l’auto che si fermò sul lato sinistro della basilica di Santa Maria Maggiore. La figura misteriosa volse lo sguardo sul sedile posteriore. Ora il sonnifero aveva esaurito il suo effetto e il prigioniero si muoveva freneticamente, emettendo a fatica dei mugolii, imbavagliato com’era. Tecnicamente non era corretto usare quel termine, il suo bavaglio era un chiodo. Il risultato però era lo stesso, con l’aggiunta di dolori così lancinanti, ora che era svanito l’effetto dell’anestesia, da fargli mancare il respiro. L’aguzzino si tolse il cappuccio dalla testa e l’altro, dopo pochi secondi lo riconobbe e sbiancò, tentando vanamente di parlare, impedito da quel maledetto pezzo di ferro conficcato nelle sue labbra: “Mi riconosci, vero? Ora sai perché stai seduto lì. Sai una cosa? Vorrei torcerti il collo, ma forse proveresti lo stesso se ti buttassi dentro a… sorella acqua? E’ così che la chiamava quello che hai preso ad esempio? Poverino, avesse saputo che adepti si sarebbe tirato dietro! Che dici? Ah, che sbadato, non sei francescano tu, ma non fa niente, anche il santo del tuo ordine non credo sia tanto contento di te. Ma sta’ tranquillo, non ho nessuna intenzione di trasportarti su fino in cima alla fontana. Troppa fatica che non meriti. Sai, voglio che tu provi cosa significa non trovare il respiro, cercando un’aria che non arriva e i polmoni te li senti scoppiare. Ma ora basta chiacchiere, sai che stai per andare all’inferno? So che pensi sarà anche la mia destinazione. Può darsi, ma la differenza tra te e me è che io lo vivo da tanto ormai in questo mondo schifoso, il mio inferno e quindi lo aspetto con tranquillità. Tu invece con quel collare bianco magari ritenevi un diritto andare a finire su qualche nuvoletta azzurra. Invece… buon viaggio nel tuo inferno, don Giuseppe.” Senza aggiungere altro scese, aprì la portiera posteriore e tirò fuori il prigioniero, che cadde sbattendo sull’asfalto con un sordo rumore. Quindi, puntando un piede sul petto della sua vittima, afferrò saldamente nelle mani la corda che congiungeva collo e caviglie e la tirò con forza, provocando nell’uomo steso a terra un dimenarsi convulso, che piano piano si attenuò fino a smettere del tutto.
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L’assassino si diede un’ultima occhiata attorno, non c’era nessuno, respirò profondamente e, soddisfatto, risalì in auto, sparendo in breve nel buio.
3 febbraio Dall’altra parte della città lo scrittore era stanco, dopo quattro ore ininterrotte passate a lavorare sul suo libro, ripose il manoscritto e andò a distendersi sul divano per un po’ di relax e di armagnac. Sentiva proprio di meritarselo. Prese il giornale e diede un’occhiata alla prima pagina, zeppa di politica interna, che lui saltò a pié pari. Troppe zuffe dai toni sempre più accesi, come se le parti avverse si odiassero davvero, ma proprio questo accentuarsi di toni troppo animosi, troppo artefatti, a lui sembrava poco credibile e molto ipocrita, quasi che quei pezzi grossi volessero far credere che si odiavano davvero, per poi ritrovarsi la sera a cena e ridere di chi prendevano in giro, con l’unico scopo di estorcergli un voto. Poi una notizia di morti ammazzati per un attentato kamikaze da qualche parte del mondo e altre amenità, manco a farlo apposta, sempre a tinte nere. La sua attenzione fu attirata però da un trafiletto sulla destra, intitolato: Cadavere rinvenuto ai piedi della chiesa di Santa Maria Maggiore L’articolo diceva che il corpo di un uomo era stato ritrovato a ridosso del muro della basilica di Santa Maria Maggiore probabilmente la sera prima. La polizia lo aveva trovato legato mani e piedi, con al collo una sorta di garrota. Il cadavere era stato identificato, si trattava di un sacerdote. La sua scomparsa era stata denunciata alle autorità dall’Istituto religioso dove viveva. Dopo aver letto, la reazione più normale sarebbe stata: “Be’, mi dispiace per quel poveretto, ma purtroppo cose del genere accadono, ogni tanto.” Quella volta però Gianluca era rimasto alquanto perplesso. Quel fatto era stranamente simile all’omicidio che lui stesso aveva descritto il giorno prima nel suo libro.
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In entrambi i casi il morto era un prete ed era stato legato con una corda annodata al collo e ai piedi, con il chiaro intento di rendergli difficile respirare. Le analogie non finivano lì, ce n’era una terza che lo aveva lasciato ancora più incredulo: il nome della vittima, Giuseppe, come aveva battezzato il suo sfortunato personaggio nel libro due giorni prima. Il cognome non gliel’aveva dato, ma quello scritto nell’articolo lo conosceva bene e lo aveva fatto rimanere a bocca aperta. Mazzori, Giuseppe Mazzori. Continuò a leggere l’articolo: Don Giuseppe Mazzori, settantacinquenne salesiano, dopo quarant’anni spesi nell’insegnamento, era da poco andato in pensione. Nome noto in città, per essersi guadagnato nel corso della sua vita la fama di educatore paziente e preparato, dedito alla formazione scolastica e religiosa, con un occhio privilegiato a numerose iniziative di aiuto verso i poveri del terzo mondo, pur senza tralasciare i poveri di casa nostra che, come diceva sovente, “abbiamo anche noi appena fuori delle nostre porte, ma il più delle volte non vediamo.” Quattro anni fa era stato sfiorato dal sospetto di avere molestato un’ allieva del collegio, accusa mossagli proprio da quest’ultima, ma poi categoricamente smentita dalla direzione dell’istituto, che l’aveva motivata con un malcelato rancore della studentessa nei confronti del suo professore, per la valutazione molto scarsa assegnatale in sede di esame. Ieri la sua triste fine. Don Giuseppe, eccolo che ricompariva e… accidenti se se lo ricordava! Quel prete così gioviale e simpatico conosciuto ai tempi del collegio. Be’, un occhio privilegiato all’aiuto del prossimo lo aveva, ma di sicuro l’altro ora aveva scoperto che era orientato a ben altro. Pensò a quell’accusa di molestie, collegandola a un fatto che aveva sempre trovato strano. Nei momenti di intervallo c’era sempre anche lui in cortile, così affabile con tutti. Dalle sue tasche uscivano manciate di caramelle che pareva non finissero mai. E gli scherzi che rivolgeva a tutti i ragazzi che chiamava a sé. Per la verità si attorniava più di ragazze che di ragazzi; non c’è che dire, aveva l’occhio furbo, don Giuseppe. Ma solo con le femmine, i maschi li snobbava.
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Era questa sua affabilità che trovava strana, per il semplice motivo che era palesemente troppa e ora l’apprendere di quell’accusa rivoltagli lo turbò, perché anche l’uomo ucciso dal killer del suo libro si era macchiato di atti odiosi verso adolescenti e questa era un’altra assonanza strana che sembrava legare il suo lavoro con la morte di quel prete. In quel momento fu distolto dai suoi pensieri dal promemoria sul telefono, che gli ricordava il quadro che aveva fatto incorniciare. Era la tela di un artista macchiaiolo della scuola di Fattori, a cui lui faceva il filo da tempo e che finalmente, un mese prima, era riuscito a portarsi a casa soddisfatto, spuntando dall’antiquario che gliel’aveva venduta il prezzo che voleva. Il giorno prima lo avevano avvisato che il quadro era pronto e ora doveva andare a ritirarlo. Finalmente avrebbe riempito quella parete nuda proprio di fronte alla sua scrivania. Non la sopportava più così. Rimase un attimo pensieroso, poi si disse tra sé: “Gianluca, credo che, a forza di scrivere libri gialli, tu ti stia immedesimando un po’ troppo nella parte e veda misteri anche dove non ci sono. Ammetto la singolarità delle analogie tra il mio fatto inventato e quello reale, ma credo che, per quanto incredibili, rimangano solo coincidenze. Bah, mi dispiace per te, Giuseppe e pace all’anima tua.”
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VIII
Parcheggiò davanti a un passo carrabile. Appena sceso dall’auto la guardò preoccupato per come era piazzata, ma alzò le spalle e si avviò sul marciapiede lungo la via, alla fine della quale, proprio all’incrocio con via Condotti, c’era il corniciaio, ma era distratto e, svoltando, andò a sbattere contro una persona che sopraggiungeva in quel momento: “Ehi, stia più attento!” si sentì dire. Quel qualcosa sotto ai suoi piedi, i tacchi alti e le gambe incantevoli che incrociarono il suo sguardo gli fecero capire di aver pestato una signora e si scusò con prontezza, senza dare tempo ai suoi occhi di alzare la visuale: “Mi dispiace, non mi ero accorto…” Lo fece un istante dopo e piacevolmente sorpreso aggiunse: “Francesca!” “Ma guarda un po’! Ciao scrittore. Sei sempre con la testa tra le nuvole?” “Solo quando non è attaccata al mio collo. Però, o mai o sempre ci vediamo noi!” In trent’anni non si erano mai incrociati una volta e ora quella era già la seconda a distanza di pochi giorni. Ecco un’altra cosa strana, ma lui non ci pensò, aveva la mente immersa nel piacere di quel nuovo incontro. “Hai proprio ragione ma, a parte il male al piede, mi fa piacere rivederti e… ti ho visto scendere dall’auto, ora non posso, ma che dici? Potremmo bere qualcosa assieme e rivangare il tempo passato.” “Be’… non so…” “Perché no? Non ora però, vado di fretta. L’altra sera ti ho dato il mio numero di telefono, ma non avevo il tuo, altrimenti ti avrei chiamato. Dai dammelo, su.” “Ok, prendi nota.” E Gianluca le dettò il suo numero, ma le disse: “Ecco fatto, ma ti chiamo io.” “Perfetto.” “Dove abiti?”
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Lei alzò lo sguardo a indicare delle finestre all’ultimo piano del palazzo, proprio sopra al negozio del corniciaio ed esclamò: “Lì sopra…” Lui guardò a sua volta con il naso all’insù, poi lo rivolse alla retta di via Condotti davanti a lui, che come un coltello tagliava quel cuore di centro città pulsante di tutto, per puntare dritta a Trinità dei Monti cento metri più avanti, caso più unico che raro di gradinata che una volta tanto rubava scena alla scena, promuovendosi a protagonista per niente asservita alla pur incantevole piazza della Barcaccia, la fontana che in qualsiasi altro posto avrebbe giustificato l’edificazione di un museo, ma che in quella città si confondeva nell’apoteosi unica al mondo di una sublime bellezza. Rispose: “Vedo che ti piace la periferia…” Lei gli sorrise: “Ora ciao, devo andare e… dai retta a me, togli quella macchina da lì, mi sa che ti eviti una rimozione forzata.” Lui diede uno sguardo perplesso alla sua auto, poi concordò: “Forse sarebbe meglio, ma faccio in un attimo.” “Come vuoi, testone. A presto.” Gianluca girò l’angolo si diresse al negozio di cornici, duecento metri più avanti e l’attimo che aveva preventivato si dilatò in tre quarti d’ora, perché dentro c’erano tre persone prima di lui. Quando finalmente se ne uscì teneva un po’ goffamente nelle mani un grande quadro con i lati di circa un metro. Ripercorrendo il tragitto verso l’auto rischiò per un paio di volte di colpire con quell’arnese la gente che incrociava sul marciapiede, ma finalmente arrivò dove aveva lasciato l’auto, scoprendo però che non c’era più. Stupito si guardò attorno, era sicuro che fosse proprio quello il posto e… noo! Se l’era portata via il carro attrezzi! Se avesse dato retta a Francesca… Ma ormai era fatta. E ora? Conosceva dov’era il deposito dove venivano parcheggiate le auto rimosse e pensò di andarci subito, la macchina gli serviva. Andò alla fermata dell’autobus poco lontana e per fortuna non dovette attendere molto. Il bus si fermò e si aprirono le porte, facendolo sbiancare in volto. Era stracolmo di gente. E lui come ci sarebbe stato con quel coso che si portava appresso? Ma con una decisione temeraria ini-
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ziò la salita, tra i commenti di disappunto e le scrollate di testa degli altri passeggeri, contrariati e preoccupati per la loro incolumità. Alla fine riuscì a ritagliarsi un piccolo spazio in quella situazione di schiacciata promiscuità e sistemò a terra il quadro, appoggiandolo lungo la fila laterale di sedili. Le porte si chiusero e si udì un commento ad alta voce di un passeggero: “Dovrebbe pagare tre biglietti per l’ingombro, lei!” “Tranquillo, non li chiedo a lei i soldi per il mio biglietto!” rispose Gianluca sicuro di sé, ma subito sentì un tuffo al cuore quando gli venne in mente che il biglietto non ce l’aveva proprio. Comunque ormai non poteva farci niente e cercò di mettere a tacere la sua vena di onestà, confidando nella buona sorte. “Non avrò mica la scalogna nera di…” ce l’aveva invece e non fece in tempo a finire il pensiero, che alla fermata successiva salì il controllore, che iniziò il suo giro proprio da lui.” “Biglietto, prego.” “Ehm, ecco, mi sa che non ce l’ho.” “Allora le devo fare la multa.” rispose il controllore. “Andavo di fretta e non ho avuto il tempo di comprare il biglietto, mi faccia pure la multa.” All’altro non parve vero di avere già trovato una vittima al primo tentativo e tirò fuori il blocchetto con chiara soddisfazione. “Nome e cognome, per favore.” “Gianluca Moreschi” rispose sottovoce e pieno di vergogna per la figura che stava facendo davanti a quella moltitudine di passeggeri. Intanto pregava tutti i santi del paradiso che quell’uomo non fosse un accanito lettore e non lo riconoscesse. Almeno qui ebbe fortuna perché non lo era, almeno non di libri gialli e non lo riconobbe, facendogli tirare un sospiro di sollievo. Mentre compilava il modulo, in un impeto di zelo professionale il funzionario attaccò tronfio con la solfa tediosa che “dicono tutti che non hanno avuto tempo, o si sono dimenticati l’abbonamento e se facessero tutti così addio servizio pubblico, e poi ci si lamenta di come va la società e…” “Per favore, mi risparmi i suoi commenti e mi dica quant’è. Devo scendere alla prossima.” “Sono quarantatre euro, ma mi raccomando, la prossima volta cerchi…”
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L’autobus si era fermato e Gianluca senza curarsi di ciò che stava dicendo quell’uomo gli posò cinquanta euro sopra al blocchetto, prendendo con fatica la porta assieme al quadro e dicendogli: “Non lo farò più e… tenga il resto.”
Francesca, l’amica del cuore, assieme a Mario e Michela. Gli era sempre piaciuta, Francesca, nei modi scanditi dalle tappe dell’età, dai quindici anni fino ad arrivare a quella del primo amore, quando si misero insieme. Certo, i sentimenti da quindicenni non vanno confusi con quelli che si provano da adulti. E’ l’età dei primi innamoramenti che ti fanno sentire un Dio, per quel ribollire di brividi, ormoni impazziti, turbamenti che fuoriescono da un corpo che si sta trasformando in quello di un uomo e di una donna. Ma durò poco e il perché non se lo spiegò mai. Successe al liceo, era un collegio salesiano, scuola rinomata che potevano permettersi in pochi e all’avanguardia per quei tempi. Fu anche la prima in città ad aprire le porte alle ragazze. Proprio in quarta ginnasio per la prima volta nella sua storia, quella scuola aveva deciso di accogliere iscrizioni anche di ragazze e quella di Gianluca, Francesca, Michela e Mario fu la prima classe mista. Per la verità, su ventitré allievi, di donne quell’anno in classe con lui ce n’erano solo cinque, ma negli anni a seguire la cosa prese progressivamente piede. Se le ricordava tutte, le sue compagne di scuola: Elisa non c’era, frequentava un’altra classe, essendo un anno più giovane e la conobbe più tardi. C’era Rebecca, bassa e bruttina, ma secchiona e bravissima, oltre che altruista, vista la sua disponibilità a passare i compiti ai compagni bisognosi. Poi Maria, carina, ma così antipatica che ogni volta che la vedeva gli veniva voglia di prenderla a calci in culo. La terza era Nives be’, così anonima. Se la ricordava più per il nome inconsueto che per altro. Poi la cara Michela e infine Francesca! Sicuro, proprio lei. Non c’era ragazzo a scuola che non sognasse di starci assieme. Era bella sapendo di esserlo, lo dimostrava il suo modo di camminare, che determinava un ondeggiare dei glutei da infarto, per non parlare del movimento sussultorio del seno prosperoso e sempre ostentato con ge-
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nerosità. Ma tra tutti lui era stato il prescelto e non poteva essere altrimenti. Sembravano nati per stare insieme. Erano certi che sarebbe durato tutta la vita, il loro amore e non c’era motivo di dubitarlo. Proprio per questo, quando cinque mesi dopo lei lo lasciò, lui non se lo spiegò mai. Due giorni prima avevano riso, scherzato e fatto altre cose. Le aveva anche regalato una catenina con una medaglietta d’oro, su cui era incisa una stella cadente, a memoria di una sera d’estate passata con lo sguardo in su a guardare comete. Erano stati bene e si erano salutati con il solito sorriso. Poi quella mazzata senza un perché. Non se lo scordò mai, cinque mesi e un giorno dopo essersi giurati eterno amore, lei lo lasciò. Per telefono, non di persona, chissà come mai, come se temesse il suo sguardo. Non era da lei. Nessuna motivazione particolare, ma lui le diede atto di chiara sincerità, perché non inventò scuse più o meno banali. Gli disse solo: “Ho deciso di lasciarti.” Al suo ovvio “Perché?” lei aveva risposto: “Perché ho deciso così.” Una cazzo di spiegazione, e quel suo sorriso che sembrava aggiungesse “Non ne ho più voglia” a quelle quattro scarne parole ancora gli bruciava trent’anni dopo. Si era sbagliato su di lei e si era convinto che, mentre lui con l’ingenuità dei suoi quindici anni aveva pensato a un amore per sempre, Francesca lo aveva vissuto semplicemente come un’avventura. L’aveva anche odiata per questo e non ricordava ormai quante volte le aveva dato della stronza tra sé. Si era sbagliato su di lei ed era questo che gli bruciava di più. Cinque giorni dopo però, era maggio, la sorpresa: Francesca lasciò la scuola. Si diceva per problemi di salute, un’epatite che forse si era presa in un viaggio ai tropici con i genitori durante le vacanze di Pasqua e che l’aveva messa al tappeto. Poi guarì e non perse neanche l’anno, ormai quasi giunto alla conclusione. L’anno successivo si iscrisse in un'altra scuola. Seppe poi che si era messa insieme a un certo Moreno. Non lo conosceva, ma da quel momento gli stette sulle palle per un altro motivo, oltre che per quel nome brutto come di sicuro doveva essere anche lui. Di lei poi perse le tracce, fino a tre sere prima.
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IX
20 febbraio La solita riunione del mercoledì sera si era conclusa e il prete spense le luci della sala parrocchiale aprendo la porta che dava sulla strada per andarsene a dormire. Stava per richiuderla dietro di sé ma con suo stupore l’uscio non si unì allo stipite, qualcosa si era frapposto in mezzo e abbassò lo sguardo sul pavimento, scoprendo che quel qualcosa era un piede. Non ebbe però il piacere di conoscere a chi apparteneva, non subito almeno, perché fu colpito con forza sul capo e si accasciò a terra vicino a quel piede. Ma le presentazioni erano solo rimandate, l’individuo celato dentro a un impermeabile grigio si premurò di tirarlo su e trascinarlo fin sulla porta, fermandosi un attimo a guardare di fuori. Rassicurato sul fatto che non c’era nessuno, lo trasportò fino all’auto parcheggiata sul marciapiede, aprì il bagagliaio e lo buttò di dentro. Quindi richiuse lo sportello, salì e partì. Un’ora dopo l’autorimessa era la solita, anche la sedia era la solita, ma era invece nuovo l’ospite che vi era seduto. In quel momento si svegliò e, come chi lo aveva preceduto, avrebbe voluto essere altrove. Il padrone di casa gli si avvicinò e appena l’altro lo vide esclamò: “Che cosa vuole da me? Io sono…” “Oh, lo so chi sei e poi dite tutti così, “sono un povero prete… non ti ho fatto niente…”, sai cosa ti dico caro Lucio? Sei monotono, manchi proprio di fantasia.” “Mi conosci…?” “Di fama.” “Quale fama?” “Quella che ti sei fatto.” “Ma che stai dicendo? Di che fama parli?” Il suo aguzzino sbottò in una risata sarcastica e prese una sedia, piazzandola davanti all’uomo.
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Si sedette e lo fissò negli occhi, non era incappucciato e il prigioniero lesse in quel volto l’espressione inquietante di un sorriso indecifrabile. Poi pronunciò un nome, “Michela” che per poco non fece venire all’altro un infarto. “Dalla tua reazione vedo che ti ricordi chi è.” “Che c’entra con lei…?” balbettò il prete. “Mi dispiace molto per quello che le è accaduto.” “Sono passati tanti anni…” “Ah, tanti anni?” il tono della voce ora era alterato da una rabbia violenta. “Sai cosa ti dico? Chiedilo a lei se tanti anni sono bastati a farle dimenticare! Chiedile se di notte non sogna più quelle mani viscide che la toccavano, o se non si sveglia più di soprassalto con il terrore che le stia accadendo di nuovo! Ah! Ah! Tanti anni, dici! Gli anni misurano il tempo, non i ricordi e neanche se chi ha avuto la sfortuna di incappare in gente come te vivesse mille anni, riuscirebbe a riavere la vita serena che spetta di diritto a ogni persona che viene in questo fottuto mondo! No caro reverendo, ci sono cose che non si cancellano con niente, neanche con il tempo e tu sarai per sempre il suo incubo, anche se ora si è fatta una vita, ha un bel lavoro e una bella casa.” “Perché ti sta così a cuore?” Avrebbe fatto meglio a rimanersene zitto il prete, perché gli arrivò uno schiaffo improvviso. “Non ti azzardare mai più a rivolgerti a me con quel tono, maledetto depravato! Tu non hai la minima idea di cosa provochi quando scateni i tuoi istinti da animale! Dopo dieci minuti ti senti molto appagato, immagino! Magari stai lì per un po’, dopo che hai lasciato andare a casa il disgraziato di turno, a goderti quei momenti, rilassato come il tuo uccello. No, io so bene invece che cos’è tutta questa faccenda, perché… perché… ma cosa importa! Lo so io perché! Tu invece sai una cosa? Non ho ancora finito di pormi una domanda: che cazzo può aver mai fatto di male un ragazzino o una ragazzina per meritarsi una cosa del genere? A quindici anni che cosa vuoi che faccia uno di male? Un ragazzino, Dio! Sei solo un ragazzino, e ti aspetti il mondo intero dalla vita! Poi invece ti arriva un pezzo di merda come te e la tua vita si trasforma nella stessa merda che sei tu per il resto dei tuoi giorni. Maledizione! Ci sarebbe anche da ridere se ci si trovasse in una situazione diversa, Mida trasformava tutto in oro, mentre tu e i tuoi amici trasformate tutto nella
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merda che siete voi!” Si interruppe in quel tragico monologo, appoggiandosi allo schienale della sedia, dove sedeva al contrario e con lo sguardo fisso e assente sul pavimento, immaginandosi spettri, solo spettri. Poi, con un tono di voce improvvisamente pacato, come quello di uno che chiede che tempo fa di fuori, gli disse: “E’ il tuo compleanno, oggi.” “Si… come fai a saperlo?” “Te l’ho detto, so tante cose su di te. Scusa ma non ti faccio gli auguri. Sappiamo entrambi che non hai un bell’avvenire davanti a te.” “Ti prego…” “Ora basta…”
Era passata un’ora e la vittima era proprio tale, dopo aver smesso di dimenarsi nella vana speranza di potersi liberare di quel chiodo dalla bocca, di quella corda che lo soffocava e di quel sacchetto di plastica con dentro la sua testa, macabro involucro con l’apertura chiusa attorno al collo da una fune sottile. La faccia all’interno non si vedeva, offuscata dalla superficie di nylon appannata dagli ultimi respiri e arrossata da chiazze di colore rosso nella parte inferiore, che lentamente si allargavano, alimentate da un gocciolio proveniente da appena sotto il naso. L’artefice della sua morte gli tolse il sacchetto, scoprendo il capo quasi calvo riverso in avanti. Guardava, mentre aspirava lentamente il fumo di una sigaretta giunta anch’essa alla fine. A un tratto disse: “Ti è piaciuto? Ah, non puoi più parlare. Ma so che non ti è piaciuto. Anche a Michela non era piaciuto. Lo so bene, è tremendo, se ti capita non riesci a dimenticarlo.” Rimase seduto a guardare il cadavere per un’altra ora. Erano quasi le due del mattino quando la brace dell’ennesima sigaretta raggiunse il filtro e la lasciò cadere a terra, per poi schiacciarla con il piede. Mezz’ora dopo l’auto stava percorrendo via del Corso, proveniente da piazza del Popolo. Giunto in piazza Colonna si fermò in strada, giusto all’altezza della colonna di Marco Aurelio.
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C’era la solita volante della polizia sulla sinistra, che presidiava i palazzi del potere, ma la cosa sembrò non preoccuparlo più di tanto. Ritenne solo prudente non osare di più. Aprì la portiera sulla destra e diede uno spintone a quello che per vitalità poteva benissimo essere un sacco di patate pur senza contenere patate, ma qualcosa di altrettanto inanimato, visto che dentro c’era un morto, che con un sordo rumore ruzzolò giù sull’asfalto. Poi si allungò con il corpo a richiudere lo sportello e ripartì in direzione di piazza Venezia. Superò l’Altare della Patria, lasciandoselo sulla sinistra, fino a sbucare in piazza del Campidoglio. La solitudine delle strade e l’eccitazione del fatto recente gli faceva provare l’ebbrezza di guidare in una pista di formula uno durante delle prove individuali. Poco dopo imboccò il lungotevere Aventino fino all’altezza di Ponte Sublicio, svoltò a sinistra sbucando davanti alla piramide Cestia e in breve imboccò l’Ostiense, assieme alla quale si accomiatò da Roma. Gianluca continuò a scrivere fino alle undici, poi posò la penna sul tavolo. La stanchezza pesava troppo e ora voleva solo dormire. Diede una rapida rilettura al testo fresco d’inchiostro: La solita riunione del mercoledì sera si era conclusa e il prete spense le luci della sala parrocchiale aprendo la porta che dava sulla strada per andarsene a dormire… Dieci minuti dopo stava per spegnere la luce dell’abat-jour, ma l’idea gli passò nella mente come un lampo e si mise seduto sul letto a riflettere. Non riusciva a togliersi dalla mente che il delitto di don Giuseppe assomigliasse così tanto a quello del suo Giuseppe. Erano troppe le analogie, troppe per credere che fossero solo tante semplici coincidenze. E se ciò che pensava fosse stato vero, c’era da inquietarsi e lui si stava inquietando. Qualcosa di indefinito gli impediva di accantonare quella pazza supposizione. Sarebbe stato ancora più inquieto se avesse saputo che poco prima aveva letto qualcosa già diventato notizia. Solo dopo due ore riuscì a dormire di un sonno agitato.
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La sera successiva era disteso sul divano a guardare la TV, c’era ancora il notiziario, slittato per lasciar posto a una partita di calcio finita poco prima. Ascoltò distrattamente il giornalista: “Un’altra vittima del misterioso killer di preti. E’ stato ritrovato stamattina in piazza Colonna il corpo senza vita di un uomo. Dal poco che si è potuto apprendere dagli inquirenti la morte è avvenuta per soffocamento ieri notte e il cadavere deve essere stato portato lì in un momento successivo. Non si conosce ancora il movente, ma sembra si tratti di un caso del tutto analogo a quello del sacerdote trovato qualche giorno fa a Santa Maria Maggiore. Infatti alcuni particolari li accomunano, tanto da far ipotizzare che i due delitti portino la firma della stessa persona. La vittima è stata identificata: si tratta di Lucio Pratesi, che prestava la propria opera presso una parrocchia della cintura romana. Nonostante il riserbo la polizia si è fatta sfuggire un aspetto piuttosto macabro: entrambe le vittime presentavano segni di sevizie, anche se non si sa di preciso cosa abbiano subito. Vi terremo informati su eventuali sviluppi, nel corso delle nostre prossime edizioni.” Il suo corpo si irrigidì e sbiancò in volto. “La notizia… ho scritto… ed è successo ancora!” Si accese una sigaretta, cominciando ad aspirarne il fumo freneticamente. “Non possono essere coincidenze. Non è possibile che sia accaduto per due volte!” si diceva “La dinamica; prima lo strangolamento, poi il soffocamento con un sacchetto di nylon, guarda caso negli stessi luoghi venuti in mente a me. Le vittime sempre preti. E allora la coincidenza va a farsi benedire. Sta accadendo qualcosa che non so spiegare.” Improvvisamente Gianluca scoppiò a ridere, ma subito si ricompose, anche se a fatica e un po’ egoisticamente rimuginò: “Ora ho un bel problema: come faccio a pubblicare un libro dove ciò che narro è già avvenuto nella realtà? La cosa più ovvia che può venire in mente a chiunque è che abbia bellamente scopiazzato, no? Alla faccia dell’inventiva!” Spense la sigaretta ormai divenuta una cicca e cercò di controllarsi:
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“Una cosa la posso fare: scrivere quale sarà la prossima mossa del sequestratore misterioso. In questo modo potrò avere la prova se c’è un oscuro legame tra il mio romanzo e ciò che sta accadendo davvero, oppure rendermi conto che le cose non c’entrano per niente e mi metterò finalmente il cuore in pace.“ Quel presentimento della sera precedente si stava forse rivelando fondato. Il suo libro e quei fatti di sangue erano in qualche modo legati tra loro? Ora doveva assolutamente sapere.
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X
23 febbraio L’ampia sala della centrale di polizia sembrava un cuore in fibrillazione, dove il caos regnava sovrano. Sulla destra c’era un gruppo di donne che, dai modi e dall’abbigliamento succinto e per niente di classe, dovevano essere state senza timore di smentita prese direttamente dalla strada. Accanto a loro tre africani con le manette ai polsi, che imprecavano ad alta voce, senza che nessuno li badasse. Le otto scrivanie sommerse di carte e telefoni che squillavano in continuazione, ospitavano altrettanti poliziotti, non tutti in divisa, che condividevano nei modi l’agitazione e la frenesia di quel luogo, gesticolando, gridando e chiamando senza tregua. L’unico di questi a manifestare una calma quasi olimpica era seduto alla prima scrivania che si incontrava appena entrati e stava parlando con una persona, dietro alla quale ce n’erano altre quattro in fila, che aspettavano il loro turno. Parlava con una pacatezza che strideva con il nervosismo dell’interlocutore, che stava sporgendo denuncia contro ignoti per il furto dell’auto. L’agente che occupava la scrivania di fianco aveva appena preso dal cassetto un grissino e se lo stava sgranocchiando con discrezione, quando una voce lo chiamò: “Esposito, per favore vieni un attimo nel mio ufficio.” La donna aveva un fisico magro e minuto, capelli corvini, molto corti. Portava occhiali con la montatura in metallo nero, lo stesso colore di un tailleur che completava un ritratto da professoressa demodé. “Subito commissario.” rispose l’agente Esposito, che ingurgitò d’un fiato quel che restava del grissino e lasciò su una scrivania in perfetto disordine le scartoffie con cui era alle prese, per infilarsi nella porta dell’ufficio dove era appena entrata la poliziotta. La targa recitava: Ispettore Michela Lucente. “Abbiamo i risultati della Scientifica?” “Non ancora, ispettore.”
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“Sollecitali, li voglio entro stasera.” “Senz’altro, ispettore.” “E voglio anche un’altra cosa: rovista nella vita dei due preti ammazzati e annota tutto ciò che trovi. Voglio sapere della loro infanzia, dove hanno studiato e poi che amici avevano, i loro gusti musicali e letterari, se erano vegetariani, quanti rosari dicevano al giorno. Insomma tutto, mi hai capito?” “Ho capito commissario.” “Esposito…” “Mi dica.” “Vuoi chiedermi qualcosa?” “Ehm si, commissario.” “Hai bisogno di un permesso scritto per farlo?” “No… ecco, io volevo chiederle se si è fatta qualche idea sui delitti.” “Può darsi, ma prima voglio aspettare cosa scoprirai su di loro. Scommetto che ne esce del torbido…, qualcosa che mi potrebbe confermare il movente. Senti Esposito…” “Si…?” “Quanti anni hai?” “Ventitre, commissario.” “Sei un bravo ragazzo, ma… cerca di scioglierti un po’, per favore. Mica ti mangio, sai.” “Sissignore signor commissario.” “Ecco bravo, come non detto…” e dopo una breve pausa aggiunse “ora va pure, Esposito.” L’agente uscì dall’ufficio e Gianluca, entrato in quel momento, lo incrociò e gli chiese: “Buongiorno, ho bisogno di parlare con l’ispettore Lucente.” “Si sieda e attenda.” “Non posso aspettare. E’ una cosa urgente.” “Non posso farci niente. La dottoressa ora è impegnata e non può riceverla.” “Senta, è una questione vitale. Me la chiami per favore…” “Senta lei invece…” non finì la frase, interrotto dalla poliziotta, uscita per andarsi a prendere un caffè al distributore automatico: “Ciao Gianluca, come ti va la vita?” L’agente Esposito, nel vedere che il suo capo lo conosceva, abbozzò un: “Mi scusi, non sapevo che…” e si allontanò.
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“Ciao Michela, è da un po’ che non ci vediamo.” “Già…” “Ma quell’agente è nuovo? Non l’ho mai visto prima.” “Quello? Quello è Esposito, è qui da un mese. Indovina da dove viene?” “Con quel cognome senza h e k di sicuro non da Bolzano.” Lei sorrise e gli rispose: “Seguimi burlone.” Michela, dai tempi di quando erano ragazzini a quelli dei loro quaranta e più anni adulti di ora, era sempre la stessa. Stessa pettinatura da maschio, stesso fisico gracile, stesso cattivo gusto nel vestire, ma anche stesso temperamento deciso e autoritario. Be’, i vestiti che portava non le cadevano proprio a pennello, ma il suo lavoro, quello si che era tagliato su misura per lei e aveva avuto anche il merito di ritagliarle addosso dei seriosi tailleurs sempre scuri, con i quali le riusciva difficile non riuscire ad abbinare il resto dell’abbigliamento. A lui però questo suo eterno disinteresse nel curare il proprio aspetto era sempre dispiaciuto. D’accordo, non era bella, ma prima dei tailleurs era sempre apparsa proprio brutta e la colpa era soltanto sua. E pensare che con gli opportuni accorgimenti abitualmente in uso alle donne avrebbe potuto lasciare il reparto racchie per quello delle passabili. Se ne era però sempre fregata, forse anche perché non le era mai importato di piacere agli uomini, al punto che Gianluca dubitava che l’avesse mai fatto con un uomo. Ma erano affari suoi e per lui contava solo che era Michela e le voleva un gran bene. Quando furono nel suo ufficio la poliziotta e Gianluca si guardarono e si scambiarono un affettuoso abbraccio. Poi lei chiamò un interno: “Esposito, per favore, non passarmi telefonate.” e finalmente si rivolse a Gianluca: “Ti trovo in forma, scrittore.” “Non va malaccio Michela, ma anche tu hai una bella cera. Come stai a fidanzati?” “Non ho tempo per quelli. Sai come si dice: meglio soli che male accompagnati. E tu…?” “Il solito.”
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“Come mai qui?” “Devo parlarti e ciò che sto per dirti potrà di sicuro sembrarti strano. In effetti lo è anche per me, ma quello che è successo negli ultimi giorni mi ha dato da pensare…” “Da pensare?” “Vedi, sto scrivendo un nuovo romanzo, nel quale narro di una serie di delitti che avvengono proprio qui a Roma. E fin qui niente di strano, dirai tu, visto che è il mio mestiere. Già, tutto filerebbe liscio se non fosse che, da poco, i fatti che descrivo trovano purtroppo puntualmente riscontro nella realtà e con analogie talmente identiche che mi hanno portato a scartare parole come coincidenza o caso o fatalità. Sto parlando dei preti ammazzati. ” “Aspetta un attimo Gianluca. Se ho ben capito mi stai dicendo di avere descritto dei fatti di sangue simili a quelli su cui sto indagando?” “Esatto.” “E quali sono queste analogie?” “Per esempio che muoiono solo preti. E’ successo due volte, la prima volta all’inizio di febbraio, quando avete ritrovato quel prete a ridosso della chiesa di Santa Maria Maggiore e si è ripetuta in occasione dell’ultimo cadavere rinvenuto a Piazza Colonna. Non è tutto perché, oltre alla tipologia delle vittime, ho indovinato anche altri particolari.” La dottoressa Lucente sbottò, stavolta in tono scherzoso: “Chi mi assicura che tu in qualche modo non sia venuto a conoscenza dei fatti e le abbia scritte dopo, quelle cose? O peggio ancora tu le conosca perché sei il famigerato killer?” Gianluca rise e rispose: “Regola numero uno per un detective: non scartare mai a priori nessuna ipotesi. Quindi ti consiglio di stare attenta a me, mia cara! Tornando seri, senti bene quello che sto per dirti, forse dissiperà un po’ i tuoi dubbi. Da quel poco che vi siete lasciati sfuggire sembra che l’assassino infligga alle sue vittime qualcosa di particolarmente macabro e raccapricciante.” La sua amica aggrottò la fronte ed esclamò: “E tu… sai di che si tratta.” Per tutta risposta lui estrasse dalla tasca dei fogli che aveva stampato prima di uscirsene di casa e li porse a Michela, che lesse. Era l’episodio del primo omicidio, con tanto di particolari: il cappio at-
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torno al collo legato in quel modo particolare e ovviamente il chiodo infilzato sulle labbra. Dopo aver letto la Lucente era visibilmente colpita e guardò Gianluca, con un’espressione di grande stupore. “E’… è… impossibile.” riuscì appena a esclamare “queste cose non le abbiamo divulgate. Ma è proprio così che li abbiamo trovati entrambi, quei disgraziati…” Gianluca mise sul tavolo il resto del plico che teneva in mano e disse: “Tieni e leggi, questi sono altri pezzi del mio libro. Ci sono altre cose interessanti.” Passarono cinque minuti e lei alla fine aveva una espressione esterrefatta. “Davvero queste cose te le sei inventate?” “Si.” “Non… so che dire. E’ incredibilmente tutto uguale! Anche il nome del primo prete ucciso e…” lui la interruppe, formulando una data: “Il secondo è morto il giorno del suo compleanno. L’ho scritto nel libro.” Michela Lucente lo squadrò, rimanendo per un attimo in silenzio, poi prese il telefono e compose il solito interno: “Esposito, per favore trovami la data di nascita del prete che abbiamo trovato ieri. Al più presto.” Lei poi gli chiese: “Qual è secondo te il movente?” Lui rispose con un’altra domanda: “E tu che ne pensi?” “Sembra che a questo tipetto non piaccia molto andare in chiesa…” “Tu ci credi? Pensi sia proprio questo il motivo?” Lei rispose con un’altra domanda: “Qual è il movente nel tuo libro?” “Non questo.” “Lo so. Non è nemmeno la mia idea. E circa quelle cose carine che fa alle vittime? Chissà per quale motivo.” “Non so, è come se volesse lasciare una firma delle sue imprese, o volesse in qualche modo dare una motivazione dei suoi atti, anche se di preciso non si sa cosa.”
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In quel momento entrò Esposito, dopo aver bussato con discrezione e porse un foglietto al suo capo, che lo lesse e subito volse lo sguardo allo scrittore, annuendo con il capo: “Si, è nato il venti di febbraio.” La donna prese il pacchetto sul tavolo ed estrasse a metà una sigaretta, porgendola a Gianluca: “Fumi ancora?” “Si grazie.” Gli accese la sigaretta, poi gli chiese: “Perché ti era venuta in mente quella data?” “L’ho pensata nel momento esatto in cui l’ho scritta, senza un particolare motivo e… senti Michela, è una storia inverosimile, lo so bene ma… che dici? Non credo che tu mi creda pazzo.” “No.” “E allora, visto che tu per un motivo e io per un altro siamo inguaiati in questa storia, potremmo darci una mano…” Lei rimase qualche istante pensierosa, poi prese una profonda boccata espirando fumo e parole: “Ci sto.” “Bene.” disse lui, soddisfatto, poi le chiese: “Chi è il nuovo morto? Alla Tv non l’hanno detto.” A quella domanda lei si rabbuiò in modo evidente e rispose cercando di ostentare una naturalezza che non c’era: “Non aveva documenti con sé e l’abbiamo scoperto da poco. Si chiamava… Lucio Pratesi.” “Mai sentito. Dove lavorava?” “Era in pensione. Ora… mi spiace, ma devo recarmi in un posto.” La titubanza di Michela a parlare della vittima e il tono brusco con cui troncò la conversazione, lasciarono un po’ sorpreso il suo amico, che però non ci badò più di tanto: “Va bene Michela, ho anch’io qualcosa da fare, più precisamente da… scrivere.” Riuscì a farle ritornare un sorriso. “Ok. Non mi hai detto cosa pensi del movente.” Lui, voltandosi verso la porta, fece due passi, poi si fermò e rispose: “Sesso malato.” Arrivato a casa era più tranquillo e andò a sedersi al tavolo, prese in
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mano la penna ed esclamò: “Forza, vediamo come far morire il prossimo.” Fece per scrivere, ma dal pennino non uscì nulla, lasciando immacolato il foglio. “Accidenti, che scemo! Non ho pensato a prendere l’inchiostro. Pazienza, scriverò con la mia vecchia Omas. Ad andarci ora perderei il filo di ciò che ho in testa.” E partì a razzo a mettere in fila parole su parole. Quando si fermò erano le due di notte, ma nonostante la stanchezza era visibilmente soddisfatto: “Bene, molto bene.”
26 febbraio Ma i due giorni seguenti trascorsero senza nuovi cadaveri e lui non ci stava a capire più nulla. Che il suo teorema fosse sballato? Possibile? Quella sera non riuscì a resistere e si recò sulla balconata del Pincio, dove due giorni prima aveva ambientato la terza impresa del suo killer inventato. Quando rientrò a casa erano le sette del mattino, appoggiò le chiavi sul tavolo e si accasciò sul divano con aria delusa, dopo essere stato per parecchie ore in un posto defilato, convinto di scoprire qualcosa. Ma non era successo niente e non si portò a casa nulla di interessante, oltre a un gran freddo penetratogli fino alle ossa e ad aver provato la non edificante ebbrezza di essere scambiato per un guardone dalle molte coppiette che si andavano ad appartare. O meglio, una cosa se l’era portata a casa: la convinzione che il suo fosse tutto un castello inventato. Ma si, tutte balle le magie e i misteri! Quelli esistevano solo nelle favole. La realtà invece andava per conto suo, altro che essere determinata da ciò che lui scriveva. Era ritornato sulla Terra, finalmente! Michela al telefono gli disse che era meglio ritornare razionali e un po’ dava dell’idiota anche a se stessa per avergli creduto. “Fa’ come me, Gianluca, levati dalla testa tutte le idee strane che ci sono dentro! Le magie, i sortilegi esistono solo nella fantasia e questa è realtà, capisci? Accidenti, e io che ti sono venuta dietro!” “Ok.” fu la risposta laconica di Gianluca.
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L’acqua scrosciava calda sul suo corpo, lavando via un po’ tutto, il freddo di quella notte e anche ciò che lo aveva portato. Chiuse il rubinetto e vedendosi allo specchio esclamò: “Scemo che sei stato, vecchio mio.” Prese l’accappatoio e se lo infilò, coccolandosi nella sua morbidezza.
FINE ANTEPRIMA CONTINUA...