Dario Balzaretti
UNA STORIA
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UNA STORIA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Concetto Strano ISBN: 978-88-6307-322-5 In copertina: immagine Shutterstock.com
Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 da Digital Print Segrate – Milano
Fossero cancellati PovertĂ e Dolore, lo spirito dell'uomo sarebbe come una targa di marmo vuota, con incisi nient'altro che i segni dell'egoismo e dell'aviditĂ . KAHLI GIBRAM (La voce del maestro)
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I
Condomini gettati a mucchi e ornati da accumuli di immondizia agli angoli dei marciapiedi. Li taglia una cicatrice d'asfalto correndo incontro al muro di cinta del fabbricone: monumento della civiltĂ industriale, un tempo ricovero a migliaia di braccia da lavoro. Ora abitato dal nulla che si allarga oltre i vetri rotti a sassate e lungo i pilastri di cemento. Ăˆ questo il quartiere. La cittĂ si dilata piĂš avanti, tranciata dal muraglione del cimitero e dalla massicciata della ferrovia, dove ristagna l'odore dell'urina e degli escrementi delle senegalesi e dei viados che la notte ci fanno la tana. Ci sono anche le baracche degli zingari nel sobborgo: carrozzoni, macchine da migliaia di euro tutte scassate, con le targhe straniere. Sotto un pino mezzo morto, in un lembo di terra che doveva essere un parco nelle intenzioni degli amministratori, sono raccolte le poche cianfrusaglie di un nessuno, che nella storia chiameremo Abderrahim. Non si sa da dove arriva e nemmeno che cosa faccia al mondo. La dimora che lo ospita è un casotto malandato, i muri cadenti, delimitati su due lati da fogli di latta arrugginita e scatoloni sventrati; un'ondulina per tetto, come pavimento una trapunta
6 ricamata da macchie di olio e relativi aloni. Rifugio un tempo per pale, bidoni e una carriola sgangherata: strumenti da ortolano, quando ancora le zolle nere davano frutti succosi, come il grembo di una giovane donna. In questa stagione di pioggia e umidità prossima all'inverno Abderrahim siede accanto alle fiamme che sciolgono in vigoroso fumo e fiacco calore delle cassette per la verdura recuperate al mercato. Le mani insaccate nella giacca, fino a quando il sole cala dietro i condomini. Nessuno per le strade. Chi lavora negli stabilimenti della cintura cittadina riposa in attesa del turno. Poche finestre accese. Silenzio di fruscii ed echi lontani della città che non si ferma. Mormorio di motoretta, un miagolio, una lattina che rotola sull'asfalto. Voci: di un uomo e di una donna che litigano. Abderrahim esce dalla sua casa, avvolto dalle ombre della sera, quando le prostitute si radunano intorno ai falò, alle macchine dei protettori. Siede sul cordolo del marciapiede a guardare le pattuglie della polizia che passano indifferenti.
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II
Alle prime luci l'aria è carica dell'umidità che sale dai prati. Le narici bruciano. Il chiarore dell'alba disegna una linea stracciata sull'orizzonte, fin contro il fabbricone; per ripartire poi dalle cappelle del cimitero e andare a smorzarsi sui binari della ferrovia. I neon tra un po' si spegneranno. Le senegalesi se ne vanno. La strada è vuota. Dalla casa di latta Abderrahim si muove. Il freddo lo stringe. Prende a sinistra, per i campi bruciati dalla brina che circondano le recinzioni di un paio di cantieri edili. Fin dal primo giorno in città aveva visto non lontano una specie di avvallamento senza erba dove a migliaia posavano uccelli di ogni specie, grandezza e colore. Cammina sul suolo battuto dai pneumatici dei camion che portano l'immondizia. Odore. Trambusto di mezzi meccanici mescolato al cinguettio degli uccelli. La discarica numero tre è la più vasta nel territorio comunale. Un'isola ecologica perché è un mondo a sé, nascosto dal resto del mondo, come se ci fosse vergogna a mostrarla nella sua vera entità: migliaia di metri quadrati di terra destinati a raccogliere tonnellate di rifiuti. Tutto il giorno i bracci meccanici scavano il suolo incolore,
8 alzando montagne al posto di cavità e spianando là dove fino a poco prima c'era un'altura: un girone fatto degli scarti della civiltà, che resterà nei secoli; tempio a memoria del benessere televisivo. Qui Abderrahim si trova a suo agio, senza nome e senza volto, tra oggetti che hanno perduto il loro nome e il loro prezzo. È fermo, i piedi in mezzo a centinaia di lattine schiacciate come frittelle variopinte. Tutto intorno, in cielo e in terra, uccelli e macchine: brulichio industriale di vite e di motori. Tivù, materassi, comodini, lavatrici, scatoloni, cassette di plastica, borse, bucce di frutta, carta; tutto in settori divisi secondo ragione e scienza. Abderrahim ciondola qua e là nell'immondizia. Osserva, tace. Seduto su una lavatrice con il cestello sfondato, resta a studiare se c'è qualche oggetto di utilità per la casa di mattoni e latta. Un materasso, sotto una montagna di cose inutili. Questa sera dormirà con delle molle che gli accarezzeranno la schiena.
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III
Nel pomeriggio le macchine oziano: gli operai hanno interrotto il turno di lavoro. Da mezz'ora Abderrahim assiste alla battaglia tra due schiere di uccelli: corvi e passeri, questi in numero preponderante. Lottano per occupare il punto in cui il camion ha rovesciato la sua soma maleodorante. Vanno avanti per un pezzo schiamazzando e sfarfallando, mescolandosi e improvvisamente distanziando, per ributtarsi di nuovo con ostilità, e ricomporsi, fin quando arrivano i gatti. Basta perché si levi in volo una nuvola di esseri che ruota sulla discarica per qualche momento e va a sfaldarsi poi in migliaia di frammenti pigolanti dietro un refolo di vento. I gatti si aggirano sicuri e affamati. Annusano, saltano da un mucchio all'altro. Danno principio a fulminee zuffe appena qualcuno mostra di avere tra i denti e le zampe qualcosa di appetibile. Se ne vanno infine pigramente, quando il sole si smorza dietro i condomini sull'altro lato dell'autostrada; colossi di cemento armato con le insegne pubblicitarie, fantasmi nelle prime luci dei neon. L'orizzonte è fuoco. La discarica tace, sommersa dalla sera. È l'ora in cui le puttane e i viados accendono i fuochi sul viale che abbraccia il quartiere. Abderrahim lascia l'immensa miniera di scarti della civiltà.
10 Prende la strada che fiancheggia il lato sinistro del cimitero, camminando sotto i tigli. Nella notte ormai pesante sente che qualcosa gli lega i piedi; non è la paura, che non conosce, almeno nei termini consueti, ma un nuovo compagno. Il gatto è di razza bastarda; pelo irto e rado, tra il marrone e il grigio, le orecchie rosate con la punta in giù, e la coda come un filo. Miagola, struscia intorno alle caviglie, lasciando l'impressione delle sue ossa sottili sulla pelle di Abderrahim. Un nome è presto dato: Faruk. Ricordo del compagno di viaggio conosciuto su un'imbarcazione sbattuta qua e là dai marosi, con il quale ha dormito sui gradini di una chiesa, appena entrato in Italia: entrambi clandestini, entrambi senza nome. Un amico come lui non lo aveva più incontrato. L'unico pentimento è che in due mesi di frequentazione non si erano mai scambiati una sola parola, se non quel giorno, tra le onde del mare di un diafano infinito, in cui pronunciarono per la prima volta i nomi che qui, nel paese del benessere, non significano nulla.
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IV
Avere un gatto aiuta a passare la giornata, perché la vita con un essere con cui guardare il cielo e respirare l'aria effervescente del mattino è meno vuota. Quando la luce inizia a filtrare tra gli spiragli dei muri si svegliano, fiancheggiano il muraglione del cimitero, attraversano la ferrovia, raggiungono la discarica. Prima degli uccelli, prima degli operai dell'azienda municipalizzata. Abderrahim approfitta per fare i bisogni del corpo al riparo della mole arrugginita di una ruspa, mentre il gatto salta su e giù in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Infine se ne vanno per i prati secchi. Faruk lo segue ovunque e condivide con lui il tempo infinito in cui Abderrahim, un sacco di plastica a tracolla, va a vendere le sue cianfrusaglie fatte di accendini, cinture, fazzolettini, per le vie della città. Di notte, quando i fuochi delle senegalesi inghirlandano il muro del fabbricone, i due stanno accartocciati in prossimità dell'edicola. Infine si coricano e Abderrahim lo ricovera tra un braccio e l'ascella, nella casa di latta e di muri marci; riposano sul materasso con le molle rotte che si infilano nel costato, fino allo spuntare delle luci di un nuovo giorno.
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V
Piove. Il quartiere è grigio. Il cielo è grigio. Il muro del fabbricone senza vita, ora che le senegalesi non accendono i falò, anch'esse impedite dal tempo che non ha riguardo per nessuno. Il prefabbricato del cimitero è nascosto dalla foschia che l'acqua produce rovesciandosi sui prati. La pioggia scivola dalle pareti della casa di muri consunti e latta, fin sul terreno, in un angolo che Abderrahim non è riuscito a riparare come si deve. Faruk non vuole stare nell'umidità e tutte le scuse sono buone per saltare in braccio e arrotolarsi sul materasso. Però il gatto resiste poco al chiuso. È un animale docile e allegro, ma vuole la sua libertà. È notte. Abderrahim veglia, perché a quest'ora di solito è abituato a rimanere seduto vicino all'edicola, mentre i magnaccia fanno la ronda, o i pusher tentano i ragazzi che passano sui motorini. Dal campo degli zingari arrivano voci concitate. Il resto del quartiere tace. Poche finestre illuminate. Solo il battito della pioggia. La città è informe. I bei palazzi del centro sono avvolti da un velo di nebbia lattiginosa. Abderrahim cerca Faruk che se n'è andato a vagabondare, proprio quando l'oscurità del quartiere è lacerata dalla sirena di
13 un'auto che transita a tutta velocità. Ci sono dei riverberi di luci in direzione del campo degli zingari. "Faruk!" Eccolo. Schizza verso il fabbricone, inseguendo chissà quale preda. Abderrahim dopo qualche istante è in mezzo alla strada con la pioggia gelida e fitta che gli batte sulla faccia. Raggiungere il muro del fabbricone è un attimo. Ci gira intorno, inciampando nel buio. Finalmente è al riparo; fradicio. Dalle finestre senza vetri l'aria è tagliente. Odore di umidità. Sgocciolio che filtra dal tetto; per terra una pozzanghera scura. "Faruk!" Voce metallica sulle pareti prefabbricate. Scrosciare della pioggia. Più che per il gatto è venuto a ripararsi nel fabbricone per cercare un posto all'asciutto dove coricarsi. L'animale sarà in qualche angolo a consumare la preda. Abderrahim siede ai piedi di una trave di cemento armato. Vorrebbe dormire; lo stillicidio dell'acqua e il freddo lo tengono sveglio. Il fabbricone è un ventre nero, sterminato. Le campate si allungano a perdersi nel buio. Dalle finestre arriva qualche macchia dei neon sulla strada che attraversa il quartiere. Gli occhi si sono pian piano abituati all'oscurità. Ciò che vedono lo rattrista, come sempre rattristano gli edifici vuoti e abbandonati; è come essere davanti a un animale preistorico di cui resta la carcassa a dare una vaga parvenza di quanto un tempo sia stato maestoso e vitale. Socchiude gli occhi sperando che il sonno venga a lavare la solitudine, come l'acqua sta lavando le strade e le case dalla
14 sporcizia accumulata in mesi di vita. Tutto è tormentato e insieme immobile nella notte. Ogni tanto i fari di un'auto filtrano sopra il cemento armato del soffitto. Le ruote schizzano sull'asfalto; poi torna il silenzio dei mille ticchettii sulle lamiere e sui muri. Silenzio percorso da un alito che passa indistinto attraverso le strutture dell'edificio: e di nuovo la pioggia. Abderrahim si muove su un fianco. Questa volta ha sentito chiaramente l'alito nell'immensità metallica del fabbricone. Dall'oscurità qualcosa si mescola al martellare dell'acqua. È un respiro simile a quello che le rocce troppo scaldate dal sole producono nella pianura alle falde dei monti, dove fin da bambino con i suoi fratelli conduceva le pecore al pascolo. Si sveglia di soprassalto al passaggio di un'automobile. Ancora dall'oscurità qualcosa si mescola alla disarmonia della pioggia. Abderrahim si alza. Il pavimento è cosparso di frammenti di vetro, lattine, calcinacci, legni, sterco di uccelli notturni e di cani. Si trova sotto una delle finestre all'estremità della costruzione, dove una breccia nel muro consente il passaggio nel capannone contiguo. Nell'angolo un mucchio di stracci che sembrano abbandonati, ma sono pervasi di vita. Quando Abderrahim si china riconosce il volto di una donna, capelli lunghi, gli occhi spaventati nel nero della fabbrica deserta. Abderrahim tace. Improvvisamente dischiude nelle pupille l'immagine di sua madre Fatìma quando aveva dato alla luce l'ultimo dei suoi otto figli in un capanno di terra con l'odore degli animali, mentre gli altri fratelli stavano tornando dai campi accompagnando il gregge, accaldati, sudati e sporchi, ansiosi di accogliere la nuova vita che veniva ad aggiungersi a
15 loro. Sua madre aveva nello sforzo del parto gli stessi occhi della donna. Abderrahim non parla perchÊ ha capito che il respiro è il pianto nascosto di un bambino. La pioggia cade come tante schioppettate. Le mani della donna lo stringono per gli abiti. Allora corre alla casa di latta a cercare qualcosa da mangiare. Fuori albeggia. Una luce di cera si apre tra i blocchi di cemento ammucchiati nel cielo, ancora scuro di nuvole sfilacciate e basse.
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VI
L'universo promette acqua. Schegge di cielo colore del piombo si infilano sopra i tetti degli ultimi condomini, prima della pianura sterile di fabbriche, nel punto in cui l'autostrada e la ferrovia corrono quasi parallele. La luce filtra ovattata creando un quadro surreale del paesaggio che si perde in una caligine velata e opaca verso le case del quartiere, vicino al campo degli zingari. Il vento di tramontana passa come una coltellata. Per la strada due spacciatori, raggomitolati in un angolo, infreddoliti e poco propensi a muoversi. Quiete cupa, senza automobili né bus; senza l'abbaiare di cani, tanto consueto nelle belle giornate. Abderrahim è l'unico a muoversi. A tracolla la cassetta con i pacchetti di fazzoletti, gli accendini, gli orologi di plastica, persino un paio di cellulari finti, avvolta da un pezzo di cellofan recuperato nella frequentazione della discarica comunale. Andrà a vendere nel quartiere vicino alla piazza del duomo, dove anche nelle brutte giornate qualche passante è disposto ad acquistare, se non altro per fare un'opera di carità. Qui forse riuscirà a mettere insieme qualche moneta. Lo fa da quando un suo connazionale dalle mani lunghe e disinvolte gli ha offerto la possibilità di guadagnare un
17 boccone, alcuni giorni dopo essere giunto in città. Ora però ha un motivo in più. Non sa nemmeno il perché si sente in dovere di aiutare la donna del fabbricone; è un sentimento spontaneo che nasce da una tradizione di secoli. O semplicemente perché si ritiene più fortunato di quelle due creature che stanno rannicchiate nell'umidità della garitta di mattoni e latta, protetti da qualche scatolone e da un fuoco acceso con pochi sterpi e cartone. O ancora perché ha la sensazione di avere una famiglia e di vivere con uno scopo. Non conosce il nome della donna, né del bambino; si sono scambiati gesti con le mani e con gli occhi. Sono troppo lontani i loro mondi, e nello stesso tempo infinitamente vicini. Nonostante ciò Abderrahim sa che deve compiere il dovere di un uomo: questo gli hanno insegnato la religione, il maestro quando frequentava la scuola, i suoi genitori. Le strade di porfido luccicano. La città vive, convulsa, disattenta. Vicino a lui, accovacciato sotto i portici, dove i piccioni hanno depositato mucchietti di escrementi, dileguano donne e uomini, si sfiorano, ma i loro corpi sono proiettati nella realtà della fretta, ognuno sconosciuto agli altri: tante meteore in un cosmo di vuoto. Il villaggio di pastori e di cammellieri da cui proviene non è solo lontano migliaia di chilometri, lo è anche nello spirito. Le strade là sono silenti nell'infinità degli spazi dei magri pascoli bruciati dal sole, sulle pendici delle montagne o a ridosso dei rilievi che si protendono verso il deserto pietroso; si conoscono i nomi di ogni uomo, si sa di ognuno da dove viene e dove va, a quale famiglia appartiene e chi sono i suoi parenti; il saluto è nel nome di dio. Vi è un solo cielo per tutti, benevolo o impietoso. Qui, nella città, non c'è cielo per nessuno.
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VII
Le gocce cadono subito assorbite dall'asfalto. Ma i loro schiocchi lasciano presagire che tra poco l'acqua sarà una barriera grigia e impetuosa. Abderrahim raccoglie le sue cose. In tasca qualche spicciolo. All'ufficio postale invierà qualcosa per la sua famiglia, pagherà il tributo dovuto a chi gli ha offerto questo misero lavoro, il resto lo terrà per la donna e il bambino; la sua nuova famiglia. Per sé terrà la fame. Ripercorre la strada che lo conduce al quartiere con una sensazione di leggerezza e di benessere, nonostante il freddo e nonostante la stanchezza. Il mondo che lo avvolge sembra sfumare nel grigio della foschia che si alza dai prati scoloriti accanto alle fabbriche e ai palazzi popolari. La sera scende con le sue ombre e la segretezza dei brusii per le strade. È ormai vicino al fabbricone. Lo può vedere nella sua mole fin dall'inizio del quartiere, dove in un rettangolo di terra con radi ciuffi di erba alcuni ragazzi sfidano il tempo gridando dietro a un pallone, inseguiti dal fumo dei loro fiati. Così a poco a poco anche la sua casa emerge da sotto il pino: luogo di riposo e di conforto. Entrando trova la donna raggomitolata con il bambino in braccio, in un angolo, i piedi sotto la coperta dove fino a
19 qualche giorno prima Faruk amava rotolarsi al caldo. Ora il gatto non c'è, se n'è andato offeso, di mattina presto, quando Abderrahim ha accompagnato le due creature intirizzite dalla permanenza nel capannone e con una mano lo ha allontanato dal materasso. Non tornerà più Faruk, preferendo la libertà e il proprio orgoglio all'obbligo di stare in secondo piano, senza il diritto di possedere una parte di quelle comodità. Abderrahim offre due panini alla donna. Ha anche una bottiglia di acqua. Fuori la pioggia inizia a tamburellare. Le luci sulla strada sono accese benché sia ancora presto. Si sentono le automobili percorrere l'asfalto bagnato. Ma per Abderrahim il mondo è chiuso in questi pochi metri di superficie, protetti da una barriera di mattoni fatiscenti, con un calore che è di fiati e di corpi, più che di fiamme. Ora guarda la donna. Ha un bel volto, gli occhi grandi e la pelle bianca; le mani forti. Abderrahim non ha mai avuto a che fare con una donna. Nel suo villaggio non era possibile averne né vederne facilmente. Tutto era cambiato però nel nuovo mondo. Giungendo era rimasto impressionato da come le immagini di donna fossero ovunque, e in libertà mostrassero i loro corpi. La fede all'inizio gli proibiva di guardare senza vergognarsi; il tempo aveva fatto la sua parte e aveva vinto anche la fede. Aveva smesso di pregare e iniziato a desiderare fortemente una donna; le sere guardava le senegalesi dietro il muraglione del cimitero. Tuttavia ora che lei è lì a pochi centimetri e ne sente l'alito e l'odore dei vestiti, ha imbarazzo a guardarla. Fuori ormai è buio. La notte è calata più scura di ogni altra
20 notte. La donna dorme con il bambino. Abderrahim è disteso sul margine del materasso, in un punto dove qualche goccia di acqua cola lungo il muro e inzuppa il terreno. Ha le ossa doloranti per l'umidità. Ma non si muove. Il corpo vicino al corpo della donna. Gli occhi vagano sull'ondulina che copre la misera abitazione: tante onde che gli ricordano il mare della traversata. Quando la meta era un sogno e una speranza. Quando la felicità sembrava lì, pronta per essere afferrata. Adesso sa di averne la sua piccola parte. Intorno alla casa il freddo e il buio dell'ultimo autunno.
FINE ANTEPRIMA CONTINUA...