Elfo per metà

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Valentina Capaldi

Elfo per metĂ

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ELFO PER METÀ Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Valentina Capaldi ISBN 978-88-6307-267-9 In copertina: immagine Shutterstock

Finito di stampare nel mese di Aprile 2010 da Digital Print Segrate - Milano

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A Martina, sempre la prima a leggere i miei libri.


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Caleb strizzò gli occhi, infastiditi dalla luce del primo pomeriggio che filtrava tra le fronde, e si sistemò meglio sul ramo sul quale si era accoccolato. La vita nella foresta si era rivelata più scomoda di quanto avesse immaginato, a cominciare dagli aspetti basilari: nessun soffice giaciglio di piume su cui riposarsi, solo rami nodosi e contorti o, in alternativa, un cumulo di foglie sul duro terreno. Sbuffò e si stiracchiò, irritato perché la posizione gli impediva di prendere sonno; e dormire era la cosa più necessaria in quel momento, dopo dieci ore consecutive passate a montare la guardia. Rimpiangeva amaramente il mondo esterno alla cupa foresta di Mawood e le comodità dei maghi e degli umani in mezzo alle quali era nato; e passava metà del poco tempo libero di cui disponeva nell’occupazione, in realtà piuttosto inutile, di domandarsi se sarebbe mai ritornato alla sua vita precedente. Un fruscio improvviso fece vibrare le sue grandi orecchie a punta, ereditate dal padre, l’unica cosa che lo facesse somigliare un po’ a un elfo. Per il resto aveva preso dalla madre e dalla sua razza: perciò aveva le fattezze di un essere umano, con occhi grandi e verdi e una spruzzatina di barba bionda sulle gote e sul mento; però la sua corporatura era più gracile e minuta di quella di un umano adulto. Un eterno ragazzino con spropositate orecchie a punta, ecco che cosa sembrava. Guardando giù dall’albero vide Ning, e questo lo fece sbuffare nuovamente. Tra i molti elfi del loro gruppo che consideravano Caleb con disprezzo Ning era il capofila; tra loro due non era mai intercorsa una grande simpatia, sin da quando Caleb era giunto nella foresta. Nel tentativo di sottrarsi allo sguardo dell’elfo si raggomitolò contro il tronco; ma fu un movimento talmente repentino che perse l’equilibrio e scivolò giù. Mulinando le braccia riuscì ad afferrarsi a un ramo, ma questo non resse a lungo il suo peso e si spezzò con uno schianto secco. Caleb precipitò a terra in un turbinio di foglie. Il muschio ai piedi dell’albero attutì un po’ la caduta, ma Caleb rimase comunque qualche istante disteso supino, semistordito, a contemplare le fronde che s’intrecciavano in alto. Quando si riscosse e si mise a sedere la schiena gli schioccò dolorosamente.


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“Eccoti qua, mezz’elfo. Ti stavo cercando”, disse una voce sopra di lui. Ning lo stava fissando; un ghigno di scherno gli incurvava le labbra, e Caleb si sentì incredibilmente stupido per essere caduto dall’albero. Ripensò a se stesso che precipitava mulinando le braccia come un goffo uccello, e immaginò che visto da fuori doveva essere stato uno spettacolo davvero comico. Arrossì fino alla punta delle orecchie. Probabilmente Ning se n’accorse, perché il suo ghigno si allargò un po’, ma non fece commenti. “Devi venire con me”, si limitò a ordinare. “Non se ne parla”, rispose Caleb rimettendosi faticosamente in piedi, cosa che gli procurò un’altra fitta di dolore alla schiena. “Ho appena smontato la guardia. Ho diritto al riposo.” Ning gli scoccò un’occhiata carica di disprezzo con i suoi occhi viola come le profonde acque del lago Görth; era una caratteristica della sua casata di cui, per altro, lui era l’ultimo sopravvissuto. “Come al solito ti dimostri del tutto inadatto per questa guerra”, commentò. “Forse dovresti tornartene dalla tua mammina, dato che non sei per nulla utile alla nostra causa.” “Lo farei se solo potessi”, ribatté Caleb acido, ancora imbarazzato per la caduta; “e adesso levati di torno, se non vuoi che ti dimostri quanto io sia adatto per altre cose.” “Devi venire con me”, insistette Ning, “e non credere che sia perché io godo della tua compagnia; è un ordine di Nadriend.” Questo cambiava le cose; senza ulteriori proteste, Caleb fu costretto a seguire l’elfo attraverso l’accampamento. Gli elfi combattevano tra loro una vera e propria guerra civile. Persone nate nella stessa città, conoscenti, vecchi amici, a volte persino parenti, si odiavano e si scontravano per una sola ragione: la regina Tania. Tania sedeva su un trono che si era presa con la forza: molti anni prima aveva organizzato un gruppo di traditori che avevano assassinato il legittimo sovrano e avevano investito lei come regina di Ashra, la città dove gli elfi della foresta di Mawood dimoravano. In quell’occasione la popolazione di Ashra si era divisa in due fazioni. Molti nobili fedeli al vecchio re, guidati dalla consorte di quest’ultimo, erano fuggiti nella foresta e avevano formato un piccolo nucleo di ribelli. Nel corso degli anni altri elfi si erano uniti a loro, esasperati dal piglio tirannico con cui Tania governava.

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Del resto, una regina illegittima come lei era costretta a comportarsi con severità per mantenere il proprio potere; ma sapeva anche essere generosa con chi si dimostrava leale. Ecco perché molti altri elfi erano rimasti ad Ashra. Così le due parti si facevano la guerra da anni, ma senza che ci fossero né vincitori né vinti. Il capo dei ribelli o, come amavano definirsi loro, gli elfi desiderosi di giustizia, era il vecchissimo Nadriend, che da sempre era fedele alla legittima famiglia regnante di Ashra. Punto di riferimento per la comunità, teneva salda la resistenza con una forza e una fiducia incrollabili, e da quando Caleb si era unito a loro il suo ottimismo era aumentato. Quello però era un giorno infausto, uno che avrebbe gettato nello sconforto chiunque. “Abbiamo perso altri due esploratori”, annunciò Nadriend agli elfi riuniti nella tenda attorno al suo scranno di legno, coloro che rivestivano un ruolo di comando tra i ribelli. Nel centro del loro cerchio ardeva un piccolo falò, che faceva luce ma non riusciva a scaldare i cuori. Tutti si scambiarono occhiate cariche di rassegnata desolazione: ormai quel tipo di notizia giungeva sempre più spesso. Negli ultimi tempi la guerra contro Tania e le sue guardie era diventata molto più difficile, soprattutto dal punto di vista psicologico. Non solo molti dei ribelli stavano morendo; quelli che rimanevano in vita si erano dovuti adattare a dormire su stuoie in tende di lino, a vestire abiti fatti di pelle di piccoli animali o intessuti con fibre di poco valore, a cibarsi prevalentemente di bacche ed erbe. Era sicuramente una vita molto diversa da quella comoda e ricca che si conduceva ad Ashra. Il problema però era anche strategico, e ogni volta Nadriend lo metteva in evidenza. “È un risultato naturale, visto che continuiamo stolidamente a mandarli a morire contro la barriera”, osservò. “Nessuno di noi ha idee migliori, nemmeno tu”, borbottò un elfo con una lunga cicatrice che gli sfregiava il volto. Rannicchiato in un angolo della tenda, Caleb pensava come al solito che Nadriend avesse perfettamente ragione. Ashra era circondata da una barriera spirituale praticamente inespugnabile, che la proteggeva dagli assalitori. Era tenuta in piedi da tempo immemore dalla magia del guardiano di Mawood, un essere elementale di nome Lifaen, che secondo le leggende viveva nei più profondi recessi della foresta. Lifaen era una creatura talmente mitica che, se non fosse stato per la presenza costante della barriera, molti lo avrebbero conside-


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rato solo un’invenzione dei tempi antichi. Si diceva che fosse un gigantesco albero di almeno sei iarde d’altezza, dotato di un potere magico straordinario. Il suo compito era proteggere tutte le creature che vivevano entro i confini di Mawood. La barriera che aveva eretto a difesa di Ashra era fatta in modo che solo il sovrano degli elfi, e nessun altro, poteva aprirvi dei varchi temporanei per permettere l’entrata e l’uscita dalla città. La tattica dei ribelli consisteva nel mandare esploratori a cercare passaggi per poter entrare ad Ashra. Naturalmente non ce n’erano, che esistessero era solo un’illusione, e gli esploratori venivano puntualmente massacrati dalle guardie di Tania, disposte a ridosso della barriera proprio a quello scopo. Come strategia di guerra era abbastanza inutile e dannosa ma, come aveva detto l’elfo con la cicatrice, nessuno aveva idee migliori. Finché la barriera sarebbe rimasta al suo posto sarebbe stato impossibile entrare ad Ashra e scacciare Tania. “È vero, non ho idee migliori; questo è sicuro”, replicò Nadriend. “Però ne ho qualcuna di alternativa. Su una in particolare rimugino da un po’, e credo che sia giunto il momento di esporvela. Finora non l’ho fatto perché… beh, perché è un’idea molto, molto azzardata; ma mi sono stancato di sacrificare inutilmente esploratori. ” Gli elfi nella tenda rimasero in perfetto silenzio ad attendere. Allora Nadriend disse: “Io credo che dovremmo provare a parlare con l’elementale Lifaen. Forse è possibile convincerlo a rimuovere la barriera che circonda Ashra.” All’inizio nessuno parlò, perché la proposta li aveva lasciati stupefatti; ma poi gli elfi cominciarono a scambiarsi commenti, e il brusio nella tenda crebbe rapidamente. “Per favore, per favore”, li riportò all’ordine Nadriend. “Il piano è ardito, lo so…” “E rischioso”, aggiunse un elfo biondo alzandosi in piedi e mettendosi al centro del cerchio. “Di Lifaen sappiamo solo che vive nella foresta, ma non conosciamo il luogo esatto! E attraversare Mawood per cercarlo è molto pericoloso.” “Senza considerare che l’Elementale non ci ascolterà mai!” obiettò un altro elfo prendendo il posto del compagno in mezzo al cerchio. “Il suo compito millenario è di proteggere Ashra! Che interesse volete che abbia per le scaramucce tra elfi?” “Possiamo convincerlo che è per il bene della città e di tutto il nostro popolo”, rispose Nadriend. “Noi siamo suoi figli, è suo compito proteggerci.”

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“E come pensi di riuscire a convincerlo?” domandò Ning. Tutti gli altri si zittirono. Secondo i canoni degli elfi Ning non era molto vecchio ma, a causa del suo lignaggio, là dentro era il più autorevole dopo Nadriend. Veniva infatti da una famiglia molto nobile e molto vicina al vecchio re. Suo padre era stato un Alto Dignitario, uno degli elfi che avevano il compito di sostenere il sovrano nell’azione di governo. “Gli manderemo qualcuno che egli dovrà ascoltare per forza”, replicò Nadriend senza scomporsi. “Qualcuno che abbia il potere di rivendicare il trono di Ashra.” Immediatamente tutti gli sguardi si puntarono su Caleb. Il mezz’elfo, colto alla sprovvista, si ritirò ancora di più nel suo angolino buio. Il primo a ridere fu Ning; ben presto tutti gli altri lo seguirono. Gli unici a rimanere seri, a parte Caleb che non attendeva altro che l’occasione giusta per svignarsela dalla tenda, furono Nadriend e un elfo abbastanza esile, che teneva il volto nascosto da un cappuccio. Nadriend ci mise un po’ a riottenere la calma. “Provate a rifletterci: vi renderete conto che la mia non è una proposta così assurda”, dichiarò. “Se chiediamo aiuto a Lifaen nella maniera giusta, perché mai egli dovrebbe rifiutarcelo?” Ning si alzò in piedi, e ogni scintilla d’ilarità rimasta nella tenda si spense. “Non è la tua idea che io metto in dubbio, Nadriend. Per quanto disperato, è pur sempre un piano”, disse; “ma non concordo con la scelta del messaggero. L’Elementale, il potente Lifaen, non darà mai ascolto a un mezz’elfo! Non fa nemmeno parte del nostro popolo!” “Lo sai bene che non è così”, replicò Nadriend. “Il suo rango lo rende il più adatto a questa missione, a prescindere dalla purezza del suo sangue.” Caleb sospirò. Come al solito gli elfi parlavano e decidevano della sua sorte come se lui non fosse presente; o, meglio, come se fosse un semplice ciocco di legna da ardere. Anche Nadriend e i pochi altri che dicevano di nutrire fiducia in lui si facevano sopraffare dal disprezzo per il suo sangue misto. Se non avesse avuto assoluta necessità di restare con i ribelli avrebbe volentieri abbandonato la foresta, dimenticandosi di quegli elfi spocchiosi e di tutto il resto. In fondo ce l’aveva una sua vita fuori da quel postaccio. Per fortuna qualcuno dalla sua parte sembrava esserci anche lì: l’elfo col volto celato, che fino a quel momento non aveva detto una parola, si alzò


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in piedi e tirò indietro il cappuccio, scoprendo delicate fattezze femminili e una cascata di capelli rossi. “Io credo che prima di decidere dovremmo ascoltare l’opinione di Caleb”, dichiarò. Ning le lanciò un’occhiata che avrebbe fatto tornare al proprio posto chiunque altro in quella tenda, ma l’elfa non indietreggiò, anzi: ricambiò con uno sguardo di sfida e, per sembrare ancora più decisa, si mise le mani sui fianchi. Per un momento Ning aggrottò la fronte, ma poi si limitò a scuotere la testa. “Non ce n’è bisogno, Elynia”, dichiarò. “La metteremo ai voti. Chi non è d’accordo che il mezz’elfo vada a parlare con Lifaen alzi la mano.” La maggior parte dei presenti espresse il proprio sfavore. Anche Caleb avrebbe voluto votare, ma riuscì a trattenersi. “Quindi la proposta è respinta”, constatò Nadriend con una certa amarezza alla fine della votazione. “Adesso andate a prepararvi. Stasera tributeremo i giusti onori ai nostri compagni caduti.” Tutti gli elfi lasciarono la tenda parlottando tra loro. Ning prese Elynia per un braccio e la trascinò via quasi a forza. Anche Caleb si alzò in piedi, ma Nadriend lo trattenne con lo sguardo. “Mi dispiace di averti coinvolto senza prima parlartene”, gli disse non appena rimasero soli. Caleb scosse le spalle. “È tuo dovere elaborare piani per permetterci di vincere questa guerra. Non devi chiedere il permesso a nessuno”, rispose. Nadriend sospirò “Forse”, mormorò. “Forse è così, figliolo. Forse allora è anche mio dovere ignorare le decisioni degli altri se non le ritengo corrette.” Caleb rimase in silenzio, perché aveva chiaramente intuito la direzione in cui Nadriend si stava dirigendo; e non era d’accordo. “Hai la mia esplicita approvazione per non tenere in considerazione la votazione; e penso proprio che dovresti farlo”, dichiarò il vecchio elfo. Caleb sospirò. “Nadriend, io apprezzo molto il tuo interessamento, davvero, ma è una follia sperare di trovare Lifaen e convincerlo a rimuovere la barriera”, rispose; “e, anche se ci riuscissi, non risolverei di certo il mio problema.” “Sarebbe comunque un passo avanti”, osservò Nadriend allargando le braccia. “Caleb, pensaci: non ci sono altri modi per avvicinarsi a Tania.”

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Sembrò bastare il nome della regina perché accadesse di nuovo: Caleb avvertì una dolorosa fitta al petto, il fiato gli si mozzò, le gambe gli cedettero. Nadriend lo guardò accasciarsi, ben conscio di non poter far nulla per aiutarlo. “Lo vedi? Non ti rimane più molto tempo”, mormorò. Caleb non lo sentì: il cuore aveva preso a martellargli nelle orecchie. Per un attimo le fiamme del falò gli guizzarono negli occhi, e poi fu il buio.


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Caleb era elfo solo per metà, mentre per l’altra metà apparteneva alla stirpe dei maghi; e questo era il suo primo problema. A causa del suo sangue misto nessuno dei due popoli lo teneva in gran considerazione. Soprattutto gli elfi, antichi e orgogliosi, inorridivano al solo pensiero di una macchia sulla purezza della loro razza. I maghi, invece, lo ritenevano una creatura piuttosto bizzarra, ma in realtà non gli avevano mai creato grandi problemi; generalmente lo trattavano con indifferenza, come se fosse un essere inferiore o un po’ stupido. Il secondo, enorme problema di Caleb erano i suoi genitori. Suo padre Fen, un elfo, era uno dei più grandi cacciatori di demoni che ci fossero mai stati, un mercenario e un guerriero implacabile; godeva di un grandissimo rispetto presso i maghi, ma solo perché non si faceva scrupoli a far rotolare teste. In passato, però, era stato il legittimo erede al trono degli elfi, prima che Tania uccidesse suo padre il re e costringesse lui e sua madre a fuggire da Ashra assieme agli altri ribelli. Di temperamento insolitamente focoso e passionale per un elfo, Fen non aveva mai propriamente abbracciato la causa dei suoi consimili; a dirla tutta, non nutriva il minimo interesse né per Tania, né per Ashra né per il suo trono. Non appena aveva avuto l’età giusta aveva abbandonato la foresta per vivere nel mondo esterno; e si diceva che sua madre la regina fosse morta per il dolore e la vergogna. Erano questi i motivi per cui gli elfi consideravano Fen un codardo e un traditore, e il loro disprezzo per lui si rifletteva ovviamente su Caleb. Poi c’era sua madre. Gli elfi la chiamavano Aine, vivida fiamma; i maghi la chiamavano Grande Guerriera e, in privato, Grande Puttana. Era in assoluto la maga più potente e temuta di tutto il continente, ma anche la più chiacchierata, sia a causa del modo poco convenzionale con cui combatteva le forze del male, sia a causa della sua sfrenata vita sociale: giusto per fare un esempio, oltre a Fen aveva un altro amante regolare. Caleb, per quanto ne sapeva lui, era il suo unico figlio. Le voleva bene, certo, e le era anche molto grato, perché non gli aveva mai fatto mancare nulla; però non era una donna facile da gestire. Era grazie a una sua idea che Caleb stava tra gli elfi ribelli; anche se, in effetti, quello era il modo più probabile che lui aveva per salvarsi la vita.

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Caleb aveva su di sé una maledizione, un marchio nero dai contorni ben definiti sulla spalla destra, che a intervalli regolari gli succhiava energia vitale, fino al giorno fatale che sarebbe stato l’ultimo. Gliela aveva imposta Tania due anni prima, e solo lei aveva il potere di scioglierla. La regina cercava di uccidere Caleb dal giorno in cui era nato, nel folle terrore che lui avrebbe potuto muoverle guerra per riprendersi il trono che, in effetti, gli spettava di diritto; la maledizione era stata un modo per risolvere il problema senza sporcarsi troppo le mani. A ben vedere, se Tania non avesse attaccato per prima mai e poi mai Caleb avrebbe pensato di mettersi contro di lei: il trono di Ashra non gli interessava, in questo aveva preso da suo padre. Si era unito ai ribelli solo perché con loro aveva più possibilità di entrare nella città degli elfi e costringere Tania a sciogliere la maledizione. Peccato che, fino a quel momento, non si fosse mai avvicinato nemmeno alla barriera che circondava Ashra. Caleb si svegliò nella stessa posizione in cui era caduto, e la prima cosa di cui si accorse fu di essere tutto dolorante; probabilmente perché quel giorno era la seconda volta che rovinava a terra, constatò non appena ritrovò un po’ di lucidità. Cautamente si mise a sedere. Nadriend lo guardava affranto dal suo scranno di legno. “Arriverà la volta in cui non aprirai più gli occhi”, costatò con amarezza. “Lo so, non serve che me lo ricordi”, borbottò Caleb. Nadriend sospirò. “Devi fare ciò che ti ho suggerito”, disse. “È la tua unica speranza, e anche la nostra.” Caleb si toccò la spalla destra, pensieroso. Nadriend si alzò in piedi senza attendere la risposta. “Ora devo presiedere il rito per i nostri fratelli caduti. Tu pensaci; ma ricorda che il prossimo funerale potrebbe essere il tuo”, disse; e poi lasciò Caleb da solo. Il mezz’elfo sospirò; lo sapeva fin troppo bene che Nadriend aveva ragione, ma che cosa poteva fare? Andare a cercare Lifaen per far scomparire la barriera era una follia; un albero di sei iarde avrebbe anche potuto schiacciarlo come una bacca se non avesse gradito la proposta. E comunque, anche se alla fine fosse riuscito a entrare ad Ashra, avrebbe dovuto convincere Tania a sciogliere la maledizione. Il successo del piano era improbabile.


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Sì, ma non impossibile, considerò; del resto morirò comunque se me ne resto qui ad aspettare che le cose si risolvano da sole. Tremendamente indeciso, uscì dalla tenda e si avviò verso l’albero sul quale aveva cercato di addormentarsi quel pomeriggio. Aggirò di proposito il luogo in cui si svolgeva il rito d’addio ai due elfi caduti: non partecipare era poco elegante, ma partecipare sarebbe stato troppo deprimente. Recitò fra sé e sé una preghiera per le due povere anime e decise che si sarebbe preso tutta la notte per riflettere sulla proposta di Nadriend.

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Alla fine scelse di andare; e in fondo era la decisione più ovvia: il suo scopo era avvicinarsi a Tania per farle sciogliere la maledizione; in ciò era ostacolato principalmente dalla barriera; per rimuoverla doveva parlare con Lifaen. Molto semplice. Così, prima ancora che la luce del nuovo giorno squarciasse il tetto di fronde, raccolse le sue cose e attraversò l’accampamento. Viaggiava leggero: i suoi averi si limitavano a un fagotto d’abiti di ricambio, qualche vettovaglia, un pugnale infilato nella cintura e il vecchio arco di suo padre, che non sapeva nemmeno usare bene. Caleb non era granché portato per il combattimento, ma se la cavava con la magia. Aveva un maestro che lo attendeva nel mondo esterno, e contava di poter tornare da lui per riprendere gli studi che aveva dovuto lasciare a metà. Cercò di non incontrare nessuno cui dover fornire noiose spiegazioni su dove stava andando, ma in realtà l’accampamento sembrava deserto. Le tende erano immobili e silenziose, e dall’alto dei rami non proveniva nessun rumore, come se anche le sentinelle si fossero volatilizzate. Domandandosi il perché di quella calma, a Caleb venne in mente che tutti stavano rispettando il giorno di lutto per i due caduti, com’era tradizione degli elfi. Che sciocco, come aveva fatto a non pensarci? Forse avrebbe dovuto adeguarsi anche lui e ritardare di un giorno la partenza; così, giusto per non gettare altro discredito sulla sua immagine: mezz’elfo e figlio di un codardo traditore, ma almeno non irrispettoso delle tradizioni. Stava perciò tornando indietro, quando un fruscio dall’alto fece vibrare le sue grandi orecchie. Portò la mano all’elsa del pugnale e guardò in su: un movimento rapido, un lampo di verde, e Ning gli atterrò elegantemente davanti. Caleb sospirò seccato: la giornata era rovinata. “Hai già cambiato idea, mezz’elfo?” gli domandò Ning. Caleb notò che indossava stivali e mantello da viaggio e che portava l’arco a tracolla; la cosa gli piacque pochissimo. “Riguardo a cosa, scusa?” “Lo sai benissimo: riguardo all’andare da Lifaen. Nadriend mi aveva avvertito che avresti potuto decidere di partire nonostante la nostra opposizione.”


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Caleb sbuffò: alle ortiche il giorno di lutto, doveva lasciare l’accampamento prima di cedere alla tentazione di cambiare i bei lineamenti di Ning con due o tre cazzotti. “Sì, beh, ho il permesso di Nadriend di ignorare la votazione, quindi fatti da parte”, borbottò. Fece per avanzare, ma Ning lo ricacciò indietro con una spinta. Caleb sentì il sangue ribollirgli: adesso gli sarebbe saltato addosso! In una rissa avrebbe avuto la peggio, perché Ning era più alto e più imponente di lui, ma almeno un paio di denti poteva romperglieli. Tuttavia, l’elfo disse una cosa che lo bloccò. “Vengo con te.” Caleb rabbrividì. “No.” “Non era una domanda, ma un ordine. Un ordine di Nadriend, per essere precisi”, replicò Ning senza curarsi di celare una certa irritazione. “Come ti ho già spiegato, io non godo della tua compagnia; ma ben comprendo l’esigenza di tenerti d’occhio, per evitare che tu ti faccia ammazzare prima di giungere a destinazione. Quindi verrò con te.” “Bella fiducia che nutrite nelle mie capacità”, borbottò Caleb. “Tu non hai alcun tipo di capacità”, sentenziò Ning mettendosi in cammino. “Malauguratamente, però, fai parte della famiglia reale, e io ho l’ingrato compito di proteggerti, che mi piaccia o no.” Caleb preferì non replicare. Se davvero doveva affrontare quel viaggio con Ning, e doveva perché gli ordini di Nadriend non si discutevano, non gli sembrava il caso di mettersi a litigare ancora prima della partenza; tanto era sicuro che non sarebbero mancate le occasioni in futuro. Uscirono dall’accampamento e si diressero a nord, verso il cuore della foresta, dove si supponeva che dimorasse Lifaen. Già, si supponeva: Caleb non si era ancora posto il problema di che cosa fare se l’informazione si fosse rivelata inesatta, e in realtà preferiva non pensarci: l’idea di dover battere tutta Mawood alla ricerca dell’Elementale gli faceva venire mal di testa, e ancora peggio era quella che Lifaen nemmeno esistesse. Il piccolo torrente che apportava acqua all’accampamento saltellava allegro nel suo letto roccioso. Ning lo raggiunse senza esitazioni e prese a risalirne il corso. Il gorgoglio dell’acqua si accompagnava a quello degli uccelli, e nella foresta non c’era nessun altro rumore. Quanto Mawood fosse tranquilla rispetto al mondo esterno era una delle prime cose che Caleb aveva notato quando era arrivato; e col tempo aveva scoperto che quel silenzio non

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gli dispiaceva. Doveva essere per via di quella parte di sangue elfico che gli scorreva nelle vene. Elynia era seduta su un sasso che affiorava dal torrente, e giocava a farsi scorrere l’acqua tra le dita. Quando vide arrivare Ning e Caleb si raddrizzò e li salutò con la mano bagnata. “Ci avete messo un sacco di tempo”, disse. “Questo codardo aveva già deciso di abbandonare l’impresa”, rispose Ning. Caleb non tentò nemmeno di protestare, perché era troppo impegnato a capire che cosa ci facesse l’elfa lì. Probabilmente era venuta per augurare loro buona fortuna; però anche lei era vestita di tutto punto come Ning. Anche lei sembrava pronta per mettersi in viaggio. Caleb considerò che era improbabile che Nadriend le avesse ordinato di partire con loro, perché il vecchio elfo non l’avrebbe mai messa in pericolo; ma c’era la possibilità che lei lo avesse deciso di testa propria. “Che cosa fai?” le domandò allora. “Non è evidente?” rispose lei alzandosi in piedi. “Vengo con voi.” Caleb sospirò. Come aveva immaginato, Elynia era più che capace di imbarcarsi in un’impresa potenzialmente mortale. “Non puoi venire, è troppo pericoloso”, replicò. “Per una volta sono d’accordo con lui”, dichiarò Ning. Caleb notò che non sembrava affatto sorpreso dalla proposta di Elynia. Lei scosse la testa. “Mi pare che n’abbiamo già discusso abbastanza stanotte, Ning”, disse. “Sì, e io non ho mai detto di approvare”, ribatté l’elfo. “Non ho bisogno del tuo consenso per intraprendere una missione che potrebbe significare la salvezza del mio popolo.” Caleb sospirò. Ning ed Elynia avevano lo stesso carattere orgoglioso e testardo, e sapeva che potevano andare avanti a discutere per delle ore. “Forse è meglio chiarire”, intervenne. “Questa è la mia missione, voi due non c’entrate niente. Volete seguirmi? Bene, non ve l’ho chiesto io, ma non posso di certo impedirvelo. Però non dovrete mai ostacolarmi, in alcun modo. Quindi, innanzi tutto, smettetela di litigare, perché è solo una perdita di tempo.” Ning gli lanciò un’occhiata talmente carica d’odio che Caleb si pentì immediatamente di aver parlato, ma si fece forza e riuscì a sostenere lo sguardo dell’elfo. Elynia invece si limitò ad annuire. “Hai ragione, scusa. Non ti daremo più fastidio, te lo prometto.” “Bene.”


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Caleb fece un respiro profondo e guardò il sentiero che si snodava verso il cuore della foresta; una strada che non molti avevano percorso. Là dove si trovavano gli alberi non erano ancora troppo fitti, e il sottobosco era piuttosto rado; ma andando avanti le cose si sarebbero complicate, Caleb ne era certo. Storie spaventose circolavano su Mawood e su ciò che si celava nei suoi recessi più profondi. Lo stesso Lifaen era descritto in tutti i libri come un gigante fatto di foglie, corteccia e pietra, con una forza tale da poter sgretolare un’intera città solo con le sue poderose radici. Questa era un’esagerazione letteraria, Caleb aveva studiato e visto abbastanza per capirlo; ma rimaneva il fatto che l’Elementale teneva in vita la foresta e in piedi la barriera di Ashra solo servendosi della sua forza spirituale: decisamente non era un tipo da sottovalutare.

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Il sentiero che dovevano percorrere costeggiava per circa un miglio la barriera di Ashra. Questo era il primo problema serio da affrontare, perché era molto elevato il rischio d’imbattersi in qualche guardia di Tania. “Se accadrà ci sbarazzeremo di loro”, decretò Ning mentre si avvicinavano alla città. Caleb sospirò, esasperato. “La violenza non è sempre la soluzione”, obiettò. “Io ed Elynia non siamo bravi a combattere; se ci trovassimo di fronte a dieci nemici che cosa faremmo?” “Ucciderei volentieri dieci di quei traditori codardi; anche più di dieci, se fosse necessario”, replicò Ning. “Certo, ma sii realista. Non possiamo affrontare dieci nemici e sperare di vincere.” “Continuare a litigare tra voi non risolverà il problema”, sospirò Elynia. “Caleb, non conosci qualche magia che possa aiutarci?” Caleb ci pensò un po’. Sì, qualcuna la conosceva: sapeva mutare l’aspetto delle persone o renderle invisibili; ma si trattava di riti complessi, che richiedevano tempo; e che, soprattutto, richiedevano energia. Troppa energia. Da quando Tania gli aveva imposto la maledizione utilizzare la magia era diventato sempre più difficile: ogni volta che provava un incantesimo, anche semplice, ci metteva un sacco di tempo a recuperare le forze. Doveva dosare la sua energia vitale come se fosse un fluido prezioso. “Se voglio durare fino alla fine del viaggio non devo usare la magia, salvo che sia strettamente necessario”, rispose. “È vero, non ci avevo pensato”, si scusò Elynia. “Allora dobbiamo passare e sperare che vada tutto bene”, decretò Ning. Caleb allentò la custodia del suo pugnale, in modo da poterlo estrarre più facilmente in caso di necessità, e si sfilò l’arco dalla spalla. Ning fece lo stesso col suo, e al fianco teneva pronta una piccola daga. “Comunque, se la regina ci scopre possiamo aspettarci che ci mandi contro tutto il suo esercito”, osservò Elynia. “Noi siamo i tre elfi che lei detesta di più in assoluto.” Caleb sospirò: giusto, non aveva ancora valutato quell’ulteriore aspetto. Ning ed Elynia si tenevano lontani da Ashra da anni proprio perché Ta-


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nia smaniava per avere le loro vite. Beh, più che altro per quella di Ning; forse Elynia se la poteva cavare con un paio di schiaffi. Elynia era la figlia secondogenita di Tania. Era fuggita da Ashra perché considerava con assoluto sfavore i metodi di governo della madre. Lei aveva molto a cuore il suo popolo, e soffriva nel vederlo soffrire. L’idea che gli elfi fossero divisi in due fazioni avversarie la deprimeva. Caleb aveva sempre pensato che Elynia sarebbe stata benissimo sul trono di Ashra. Era saggia, era coraggiosa, era buona: aveva tutte le caratteristiche di una vera principessa. Forse il suo unico difetto consisteva nell’essere innamorata di Ning. Quando lui era dovuto scappare da Ashra Elynia lo aveva seguito, e probabilmente era questa la cosa che maggiormente faceva infuriare Tania: che sua figlia si fosse invaghita di un ribelle, e inoltre l’ultimo discendente di una delle stirpi più nobili di Ashra, seconda solo alla famiglia reale e così fedele al vecchio re che Tania non aveva avuto altra scelta che sterminarne tutti i componenti. Caleb pensava che perdere la propria famiglia doveva essere terribile, e provava molta pena per Ning; ma naturalmente non lo lasciava trasparire: se Ning si fosse accorto che Caleb provava pietà per lui lo avrebbe ucciso. La barriera di Ashra era un’impenetrabile e altissima siepe, che giungeva fino alla cima degli alberi e s’innalzava ancora più su, verso il cielo. Non erano piante vere, si trattava di un’illusione: difatti, a toccarla, la mano non affondava in mezzo a foglie e rami, ma trovava una superficie liscia e dura. Era una muraglia d’energia: l’aspetto concreto era dovuto solo all’esigenza di rendere visibile il confine della città. Quando Caleb, Ning ed Elynia cominciarono ad avvistarne le prime propaggini la giornata era quasi a metà. A parte gli uccelli e qualche scoiattolo la foresta sembrava deserta. Il sentiero usciva dalla protezione degli alberi, costeggiava la barriera per un po’ e poi curvava di nuovo verso nord, allontanandosi dalla città e dal pericolo. Caleb, Ning ed Elynia lo percorsero in perfetto silenzio, trasalendo a ogni minimo rumore fuori dall’ordinario, fino a quando uno scricchiolio di particolare intensità li fece fermare. “Veniva dalla barriera, ne sono sicura”, dichiarò Elynia stringendosi a Ning. Caleb si arrischiò ad avvicinarsi per analizzarla meglio. Vi poggiò su la mano, e come si aspettava trovò un freddo muro invisibile. La perfezione di quell’incantesimo era davvero esemplare; nella sua carriera da mago era la prima volta che Caleb s’imbatteva in qualcosa come la barriera di

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Ashra. Pensò che, se fosse davvero riuscito a trovare Lifaen, avrebbe dovuto complimentarsi con lui per quella meraviglia. “Mezz’elfo, è meglio se torni qui” lo chiamò Ning. Lui ed Elynia stavano fissando un punto della barriera situato un po’ più avanti rispetto a dove si trovava Caleb. Dalla sua posizione il mezz’elfo non notò niente di strano, quindi tornò sul sentiero; e ciò che vide lo fece rabbrividire: la barriera si stava come deformando, le foglie e i rami avevano perso i loro contorni e si erano fusi in pennellate verdi in continuo movimento. Poteva esserci una sola spiegazione a quello strano fenomeno: la barriera si stava aprendo. “Nel bosco, veloci!” esclamò Ning. Abbandonarono il sentiero e si lanciarono tra gli alberi. Ning ed Elynia correvano davanti, mentre Caleb, meno agile e veloce, arrancava un po’; ogni tanto si lanciava un’occhiata alle spalle, ma ancora nessuno li inseguiva. Ning li condusse fino a che non trovarono una piccola depressione del terreno cosparsa di violette. Ordinò a Caleb ed Elynia di restare lì. “E tu dove vai?” gli domandò l’elfa. “A vedere chi è uscito dalla barriera.” “Non ce n’è bisogno, è un’idea stupida e pericolosa”, protestò Caleb. Ning non si scomodò nemmeno a rispondergli, saltò fuori dalla piccola conca e tornò verso Ashra. Caleb sospirò e andò a sedersi in mezzo alle viole, accanto a Elynia. Lei lo guardò con aria rassegnata. “Lo sai che è fatto così”, disse. “Già, lo so bene che è un borioso pallone gonfiato”, borbottò Caleb. “Per questo non avrei mai dovuto permettergli di venire.” “Ma no, vedrai che ti servirà il suo aiuto”, rispose Elynia raccogliendo un fiore e porgendolo a Caleb. “Ning s’impegna con tutto il cuore per la causa, ma non riconosce la tua autorità. Non puoi pretendere di dargli degli ordini.” Caleb accettò la violetta e se la rigirò tra le dita, fissandola assorto. “Io non pretendo di dare ordini a nessuno”, replicò. “Non ho alcun interesse per il vostro trono e la vostra città; se sono qui è solo per salvarmi la vita. E poi con Ning non è una questione d’autorità: è solo che non andiamo d’accordo.” “Ma che cosa pensi di lui?” domandò l’elfa. “Te l’ho detto: è un borioso…” “No, intendo sul serio. Ti prometto che non glielo dirò.”


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Caleb sospirò. Che cosa pensava davvero di Ning? “Beh, è un bravo guerriero”, ammise, “ed è molto coraggioso, onesto e pieno d’ideali. Se solo fosse un po’ meno orgoglioso…” “Lui invece t’invidia”, rivelò Elynia. Caleb la guardò senza capire. “E che cosa avrebbe da invidiarmi?” “Beh, tu hai una famiglia, una casa, un’altra vita a cui puoi tornare; tutte cose che a noi sono state negate.” Caleb si sfiorò la spalla destra. “Veramente sono bloccato qui, proprio come voi”, replicò amareggiato. Elynia distolse lo sguardo. “Mi sento così in colpa per quella…” “E perché? Non me l’hai imposta tu questa maledizione.” “Lo so, ma mia madre…” Caleb sospirò. Si avvicinò a Elynia e le sistemò la viola tra i capelli, poi le sollevò il volto in modo da poterla guardare negli occhi. “Senti, ti sembrerà una considerazione banale, ma tu non sei tua madre; tu sei infinitamente migliore di tua madre.” Elynia sorrise, e Caleb si sentì un po’ meglio: era da parecchio tempo che qualcuno non gli sorrideva. In quel momento qualcosa atterrò pesantemente al centro della piccola depressione. Elynia lanciò un urlo, e Caleb cadde all’indietro sul tappeto di viole, col cuore che gli batteva all’impazzata per lo spavento; e che non accennò a rallentare nemmeno quando il mezz’elfo si accorse che era Ning quello piombato tra i fiori. “Correte, svelti, mi hanno scoperto!” esclamò l’elfo. Caleb ed Elynia videro numerosi cavalieri che spuntavano al galoppo da dietro gli alberi. Senza perdere un istante scattarono in piedi e fuggirono dietro a Ning. Mentre correvano, Caleb notò quanto il sottobosco fosse pulito in quel punto: questo rendeva più facile la loro fuga, ma sicuramente agevolava anche il galoppo degli inseguitori. Le prime frecce sibilarono nell’aria dietro di loro e s’infissero negli alberi e nel terreno con schiocchi secchi. Elynia si lasciò sfuggire un gemito, mentre Ning si fermò di colpo e si voltò. Per poco Caleb non gli finì addosso. “Che cosa fai?” Ning non rispose, ma incoccò due frecce sul suo arco e tirò. Entrambi i dardi trovarono il loro bersaglio, e due degli inseguitori caddero da cavallo; ma questo non arrestò la corsa degli altri.

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Caleb sbuffò. “Voi due continuate a correre”, disse. “E tu?” domandò Elynia. “Io vi raggiungo tra poco.” Ning annuì, poi prese Elynia per mano e la condusse via. Caleb si tirò su le maniche della casacca e s’inginocchiò, posando i palmi sulla terra. Fece un bel respiro, chiuse gli occhi e recitò una formula. Il suolo tremò, e davanti al mezz’elfo si aprì un lungo crepaccio dal quale fuoriuscì un potente getto di vapore biancastro. Invece di disperdersi nell’aria, acquistò consistenza e diede forma a una parete trasparente, increspata da onde concentriche come se fosse liquida. Una piccola barriera spirituale, non efficace come quella di Lifaen, ma sufficiente per bloccare gli inseguitori. I cavalieri elfici non fecero in tempo a fermarsi e molti cavalli si schiantarono contro la barriera, rovinando a terra tra nitriti di terrore. Solo pochi elfi, più abili degli altri, riuscirono a evitare lo scontro; un cavallo scartò di lato e frenò la sua corsa con gli zoccoli, fermandosi a pochi pollici dalla barriera, giusto davanti a Caleb. Il cavaliere, che si era chinato sulla sella durante la manovra, si raddrizzò e lanciò al mezz’elfo uno sguardo colmo d’astio. Caleb balzò in piedi e indietreggiò di un passo, spaventato. Aveva riconosciuto l’elfo che gli stava davanti, colui che due anni prima aveva lasciato la foresta per catturarlo e portarlo da Tania, affinché lei potesse compiere il rito d’imposizione della maledizione. “Hywel”, mormorò. L’elfo gli fece un cenno con la testa, un gesto che poteva rappresentare tanto un saluto quanto una minaccia, e sguainò la sua spada. Caleb deglutì. Hywel era il primogenito di Tania, il fratello maggiore di Elynia, e la cosa che gli stava più a cuore era difendere il trono di sua madre, dato che un giorno sarebbe diventato suo. Era tra i guerrieri elfici più potenti che Mawood avesse mai conosciuto: non solo era quasi insuperabile in combattimento, ma anche con la magia era bravo quanto i maghi più esperti del mondo esterno. Caleb non era riuscito a tenergli testa nemmeno per cinque minuti due anni prima; forse adesso poteva resistere un po’ di più, ma sperare di batterlo era un’utopia. Senza tentennare si voltò e corse via; la sua misera barriera non avrebbe retto ancora a lungo. Era stato una specie di shock coprire che Hywel li stava inseguendo. Adesso sì che si poteva dire che la missione era pericolosa.


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Quando Caleb si svegliò si trovò adagiato sull’erba, avvolto nel suo mantello. Come c’era arrivato? Ci pensò, ma non riuscì a ricostruirlo. Si ricordava che dopo aver visto Hywel era scappato e aveva raggiunto i suoi compagni; ma poi? Provò a mettersi a sedere, e scoprì che la testa gli girava; così ricadde pesantemente all’indietro. “È meglio se resti disteso ancora un po’”, disse una voce femminile. Caleb si appoggiò su un gomito e riuscì a tirarsi un po’ su, anche se il movimento gli procurò una terribile vertigine che per un momento gli annebbiò la vista. Si trovava in una piccola radura; sopra di lui il cielo si stava lentamente tingendo dei colori tenui dell’alba. Ning ed Elynia erano seduti un po’ più in là, attorno a un fuocherello. “Quando ci siamo accampati?” domandò il mezz’elfo. “Quando tu sei svenuto”, gli rispose Ning. “Sono svenuto? Davvero?” “Beh, sarebbe più esatto dire che ti sei afflosciato come un sacco vuoto. Mi è toccato portarti in spalla per un bel pezzo.” Caleb sospirò. Stavolta non si era nemmeno accorto che la maledizione stava agendo; la magia doveva avergli prosciugato un sacco d’energia. Ripensò a quanto era accaduto, e rabbrividì. “Tra quegli elfi c’era…” “Hywel, lo so. L’ho visto anche io”, dichiarò Ning. “E c’era anche Lòmion. Ci ha traditi”, aggiunse Elynia. “Deve averci visto partire ieri mattina, ed è corso a dirlo a Hywel. Con buona probabilità ha anche intuito dove stiamo andando. Del resto c’era anche lui nella tenda di Nadriend quando è stata espressa l’idea di andare a parlare con Lifaen.” Caleb sbuffò e riappoggiò la testa sull’erba fredda. “Che bella notizia”, borbottò. “Così adesso Hywel è a conoscenza del nostro piano.” “Io non mi sono mai fidato di Lòmion”, disse Ning. Lòmion era un elfo arrivato tra i ribelli qualche mese dopo Caleb. Si era rivelato utile, perché era stato per tanti anni al servizio di Tania e conosceva molti dei segreti militari della regina; per questo motivo Nadriend

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lo aveva accolto nella loro piccola cerchia di comando. Per il resto era un tipo meschino e pavido, poco gradevole e di conseguenza poco benvoluto. Caleb non si meravigliò che fosse un doppiogiochista. Adesso, grazie al suo intervento, i loro problemi si erano duplicati: non solo avrebbero dovuto affrontare l’Elementale, ma per arrivarci avrebbero dovuto evitare che Hywel li catturasse; perché era questa l’unica soluzione: Hywel non si poteva fronteggiare in uno scontro diretto, andava battuto in astuzia. Beh, un problema alla volta. Innanzi tutto Caleb doveva riuscire a mettersi seduto. Contò fino a tre e poi si tirò su; per un paio di minuti fu costretto a restare piegato su se stesso, lottando contro la nausea, ma poi pian piano passò. Quando il suo respiro tornò regolare e fu sicuro di riuscire a parlare si rivolse ai suoi compagni. “La barriera che ho eretto dovrebbe averli tenuti buoni per qualche ora”, disse. “Stanotte abbiamo messo parecchia distanza tra noi e loro. Abbiamo corso a lungo”, raccontò Ning. “In che direzione?” “Verso nord, per quanto ho potuto, ma era buio; è molto probabile che siamo andati un po’ fuori strada.” “Beh, non importa: da qui in poi vi guiderò io. Conosco diverse magie per mantenere l’orientamento”, dichiarò Caleb. “Non è meglio che tu limiti l’uso della magia?” domandò Elynia perplessa. Caleb scosse la testa. “Con Hywel che ci corre dietro non possiamo permetterci di andare alla cieca.” “Ha perfettamente ragione”, assentì Ning. “E devo fare necessariamente anche un altro incantesimo, ma ho bisogno del vostro aiuto”, aggiunse Caleb. “Devo spedire un messaggio a mia madre, per chiederle che cosa dire a Lifaen; altrimenti rischiamo che l’Elementale rifiuti la nostra proposta.” “Ecco, questa è l’idea migliore che tu abbia avuto da quando siamo partiti”, osservò Ning. “Allora dovete trovarmi una foglia molto larga e una piuma d’uccello.” Mentre Ning si allontanava alla ricerca dei materiali per l’incantesimo, Caleb si avvicinò al fuoco. Tentò di mettersi in piedi, ma scoprì di barcollare, quindi ritenne più prudente andare carponi. Elynia lo guardò preoccupata.


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“Caleb, sei sicuro che sia proprio necessario usare la magia? Le tue condizioni…” “Le mie condizioni sono irrilevanti”, ribatté lui seccato. Cominciava a essere un po’ stufo di tutta quella pietà. L’elfa si adombrò. “Scusa.” “Smettila di scusarti.” “Va bene, scusa…” Elynia si portò una mano alla bocca, poi le venne da ridere. Caleb scosse la testa. “Voi elfi siete proprio bizzarri”, constatò. Ning tornò poco dopo portando tutto quello che Caleb gli aveva chiesto. Intanto la radura si era riscaldata, e la foresta sembrava essersi risvegliata: gli uccelli avevano preso a cinguettare con più vigore, e piccoli animali passavano ogni tanto tra gli alberi producendo dolci fruscii. “Credete che Hywel sia ancora molto lontano?” domandò Elynia. Ning si sedette accanto a lei. “Non lo so, ma nel dubbio è meglio ripartire al più presto”, dichiarò. “Faccio l’incantesimo e poi andiamo”, disse Caleb. Ning gli aveva portato una foglia a ventaglio molto ampia e una lunga piuma marrone. Caleb si domandò che tipo di uccello l’avesse fornita, ma non perse tempo a indagare: annerì la punta con la fuliggine del falò e vergò un messaggio sulla foglia; poi la piegò su se stessa diverse volte e se la nascose tra i palmi. Recitò una formula e quando riaprì le mani la foglia non c’era più. “Ecco fatto”, disse. “Tutto qui? Sei sicuro che tua madre la riceverà?” domandò Ning. “Sì, certo”, rispose Caleb alzandosi in piedi. Constatò con piacere che la testa non gli girava più, nonostante l’incantesimo appena effettuato. Dopo aver spento il falò e averne cancellato meglio che potevano le tracce si rimisero in marcia. Caleb raccolse un bastoncino da terra e lo stregò in modo che puntasse sempre il nord. Nonostante il timore che Hywel spuntasse alle loro spalle da un momento all’altro, la giornata trascorse tranquilla. A un certo punto Elynia ipotizzò che i loro inseguitori avessero rinunciato, ma Caleb e Ning si scambiarono un’occhiata scettica. Proseguirono nella foresta quanto più velocemente poterono. Come Caleb aveva previsto, man mano che avanzavano verso il cuore di Mawood gli alberi diventavano più fitti e il sottobosco più intricato. Sul finire del pomeriggio le fronde sopra le loro teste erano così folte che, sebbene la

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notte non fosse ancora calata, nella foresta era buio, tanto che dovettero fermarsi perché andare avanti era diventato difficile. Si accamparono tra le radici di una grossa sequoia e accesero un fuocherello, ben delimitato da pietre per evitare di dare fastidio all’albero; di solito le piante di Mawood restavano perfettamente inanimate, ma le leggende su spiriti vegetali che uccidevano incauti viaggiatori erano così frequenti che era meglio non rischiare. Accadde mentre consumavano una cena frugale; Caleb si sentì improvvisamente debolissimo, e fu costretto ad accasciarsi contro una delle grosse radici della sequoia. Tentò di muoversi, ma il suo corpo si rifiutava di ubbidirgli. Il buio attorno a lui diventò più fitto, e scivolò nell’incoscienza senza nemmeno accorgersene. Nel cuore della notte un raggio di luce sferzò le fronde e s’infranse violentemente al suolo. Ning balzò in piedi sguainando la sua daga, e anche Elynia e Caleb si svegliarono di soprassalto. Poco lontano da loro c’era una piccola buca fumante. Ning lanciò un’occhiata ai suoi compagni, poi si avvicinò con circospezione e si chinò. Mise la mano nella buca e ne tirò fuori qualcosa; quando tornò vicino al falò, Elynia e Caleb videro che si trattava di un piccolo rotolo di pergamena. “È la risposta di mia madre!” mormorò Caleb con un filo di voce. Si sentì sollevato; era sicuro che quel messaggio avrebbe reso più semplice la loro missione, e di conseguenza più certa la sua riuscita. Nonostante la testa gli girasse ancora, riuscì a tirarsi un po’ su e tese la mano. Ning gli diede la pergamena; impaziente, Caleb la srotolò e la lesse; ma quello che c’era scritto sopra non corrispondeva a quanto si aspettava, anzi. Dovette rileggerla più volte per accertarsi di aver capito bene, col dubbio che forse era la sua debolezza a confonderlo. “Caleb, allora?” lo esortò Elynia. Caleb alzò su di lei uno sguardo assolutamente sconcertato. Sulla pergamena, vergata nella calligrafia rotonda di sua madre, c’era una semplice frase: “Digli che ti mando io”.


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Pioveva. Grosse gocce trasudavano dalle fronde e nell’aria c’era l’odore dolce di terra bagnata. Nonostante forse giorno, la visibilità era molto ridotta. I colori dominanti della foresta erano diventati il marrone e il grigio. Adatto al mio umore di stamattina, pensò Caleb mentre raccattava le sue cose per la partenza. La pergamena era ben nascosta nella tasca interna del suo giustacuore e lui non aveva intenzione di tirarla fuori. Si sentiva profondamente deluso; anzi, no, si sentiva tradito. In fondo non gli sembrava di aver domandato tanto: solo un piccolo aiuto; ma sua madre doveva sempre essere così, misteriosa ed eccentrica. Del resto, che cosa avrebbe dovuto aspettarsi da lei? Era una dannata strega sulla quale non si poteva fare affidamento. Che cosa aveva mai fatto per aiutarlo concretamente? Niente. Lui si portava appresso una terribile maledizione, e tutto ciò che sua madre era riuscita a fare era stato scaricarlo in quella foresta a salvarsi da solo. Sbuffò mentre si rimetteva l’arco a tracolla. “Dai, non prendertela troppo”, cercò di consolarlo Elynia. Caleb la ignorò. Come poteva non prendersela? Erano al punto di partenza, anzi, erano ancora più indietro. Non sapevano dove fosse Lifaen, non sapevano come affrontarlo e, cosa peggiore, avevano fornito a Hywel il pretesto per mettersi sulle loro tracce, cosa che l’elfo attendeva da anni, dato che aveva sempre pensato che uccidere direttamente Caleb sarebbe stato più comodo e sicuro che attendere che la maledizione compisse il suo dovere. Al mezz’elfo veniva quasi da piangere. Sarebbe stato meglio restare all’accampamento dei ribelli, in attesa che Nadriend trovasse un modo per entrare ad Ashra. O forse si sarebbe dovuto far mandare in esplorazione contro la barriera, a farsi trucidare dalle guardie di Tania; questo sicuramente gli avrebbe risolto il problema. O, meglio ancora, si sarebbe dovuto rassegnare e sarebbe dovuto tornare alla sua vita fuori da quella dannata foresta, in attesa dell’inevitabile. Ecco, avrebbe fatto così se la missione non fosse andata buon fine. Tanto era impensabile riuscire a trovare Lifaen in quell’intricato labirinto vegetale, e ancora più impensabile era riuscire a sfuggire a Hywel.

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“Andiamo”, disse Ning alzandosi in piedi, dopo aver nascosto le tracce del falò. Caleb abbandonò i suoi pensieri con un sospiro e si concentrò per eseguire l'incantesimo della direzione. Mantenerlo così a lungo il giorno precedente lo aveva completamente svuotato d’energia; era sicuro che questa volta sarebbe crollato ancora prima che calasse il buio. Avanzare con la pioggia si rivelò molto più difficile di quanto pensassero. Il terreno era diventato una mistura di fango e foglie scivolose, e ogni volta che spostavano un ramo per poter passare questo riversava loro addosso una cascata d'acqua. Inoltre, la foresta divenne ancora più fitta e intricata, e la presenza d’ogni forma di vita animale scomparve completamente. Forse era per causa della pioggia; o forse perché, man mano che si avvicinavano al cuore della foresta, il regno vegetale prendeva il sopravvento. Per fortuna, verso ora di pranzo la pioggia prese a cadere meno fitta, e dopo un po’ smise del tutto. Decisero di fermarsi per fare il punto della situazione. Caleb si lasciò scivolare a terra, col fiato corto; aveva sperato di resistere fino al tramonto, ma non era riuscito ad arrivare nemmeno a metà giornata. Forse doveva smetterla con l'incantesimo, anche se c’era il rischio che si perdessero. “Se proseguiamo così sbucheremo dall’altra parte della foresta senza aver concluso nulla; ci serve qualche indizio che ci conduca da Lifaen”, osservò Ning. “Già, peccato che non ce ne siano”, obiettò Caleb. Ning sospirò. “Che cosa sappiamo esattamente dell’Elementale?” “Che vive nel cuore della foresta, è alto sei iarde e protegge tutti gli esseri viventi di Mawood”, rispose Elynia. “Questo è quello che c’è scritto nei libri, ma in realtà nessuno lo ha mai visto, quindi non è detto che sia così; anzi, quasi sicuramente non è così”, ribatté Caleb. Ning si fece pensieroso. “Pochi elfi conoscono bene Mawood e tutte le sue leggende, e credo che Hywel sia uno di questi”, osservò. “E allora?” domandò Caleb. “Non vi siete chiesti perché non ci sia ancora piombato addosso?” “Perché siamo stati bravi a far perdere le nostre tracce?” propose Elynia. Ning scosse la testa. “Io credo che lui ci stia aspettando esattamente nel posto dove dobbiamo andare”, dichiarò.


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Caleb ed Elynia si scambiarono uno sguardo perplesso. “Credi davvero che Hywel sappia dove vive l’Elementale?” domandò l’elfa. “In effetti è molto esperto di magia, perciò potrebbe essere plausibile”, disse Caleb. “Ma tu non vorrai proporre…” “Sì, invece: se troviamo Hywel troviamo anche Lifaen”, dichiarò Ning. Caleb lo guardò incredulo. “Vuoi offrirti volontariamente a Hywel?” Ning scosse le spalle. “Se è utile per trovare l’Elementale, il rischio di essere catturati passa in secondo piano. Però, piccolo mezz’elfo pavido, se tu non ne hai il coraggio puoi anche tornare indietro”, dichiarò. Caleb sentì il sangue ribollirgli. Cominciava a essere proprio stufo di Ning e di tutta quella sua strafottenza sempre fuori luogo. “Senti, vi ho condotti io fino a qua…” “Già, anche se senza di te avremmo fatto sicuramente molto prima”, replicò Ning con un sorriso sprezzante. “Non vi ho chiesto io di seguirmi”, sibilò Caleb. “Possiamo anche separarci se preferisci.” “Adesso basta!” intervenne con forza Elynia. “Litigare è perfettamente inutile! A questo punto sarebbe molto sciocco tornare indietro: dobbiamo seguire il piano di Ning.” “Sempre che Caleb ce la faccia a stare in piedi”, dichiarò l’elfo. “Oh, chiudi quella bocca!” si limitò a rispondere Caleb. Chiuse gli occhi e fece respiri profondi, tentando di svuotare la mente come gli aveva insegnato a fare il suo maestro di magia. “Che cosa stai facendo?” domandò Ning. “Cerco l’aura di Hywel”, rispose Caleb senza interrompere la concentrazione. “Pensavi di andare a zonzo per la foresta fino a imbatterti casualmente in lui?” Ning non rispose o, comunque, se lo fece, Caleb non lo sentì; la sua mente era ormai totalmente presa dal ciò che c’era attorno. Trovare un’aura non era una cosa semplice: bisognava ampliare a dismisura le proprie percezioni per poter vedere ciò che non era visibile. Sentì che c’erano pochi animali, come avevano già intuito dal silenzio della foresta; per lo più individuò piccoli roditori e insetti. Poi andò oltre, e trovò alcune aure originali, che non gli era mai capitato di avvertire prima. Erano esseri dotati di grande potenza magica, anche se le sentiva piuttosto distanti, come se quelle creature fossero… beh, nascoste all’interno di qualcosa; fu esattamente questa la sensazione di Caleb. Si soffermò su di

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loro qualche secondo, poi, accorgendosi che non riusciva a identificare esattamente la loro natura, decise di passare avanti, e finalmente trovò quello che cercava. Come aveva immaginato l’aura di Hywel era enorme; dipendeva dalla sua grande potenza magica. Sovrastava quasi interamente le aure degli altri che stavano con lui, anche se comunque Caleb riuscì a contarle con una certa precisione: una ventina. Venti cavalieri che da quasi tre giorni non facevano che aspettare lui, Ning ed Elynia per catturarli o, magari, ucciderli. Caleb aprì gli occhi e sospirò. “Siamo proprio sicuri?” domandò ai suoi compagni. “N’abbiamo già discusso a sufficienza”, dichiarò Ning alzandosi in piedi. “Cioè andiamo veramente a offrirgli le nostre teste?” “Tanto è la tua quella che Hywel brama”, replicò l’elfo. “Io credo che preferisca prendersi la tua”, rispose Caleb con una punta di malignità. “Non ha bisogno della mia per uccidermi.” Caleb rifece l'incantesimo dell'orientamento in modo da seguire la direzione in cui si trovava l'aura di Hywel. Stregare quel piccolo pezzo di legno gli procurò un tale capogiro che fu costretto ad appoggiarsi al tronco di un albero per non cadere. Si domandò come mai si sentisse così debole. Era vero che la magia gli succhiava energia, ma non stava eseguendo incantesimi particolarmente impegnativi; perciò quella debolezza era un po’ esagerata. Forse la maledizione era quasi arrivata allo stadio finale, quello in cui gli avrebbe risucchiato tutta la vita in un unico, terribile istante. Non poté evitare di provare una fitta di paura che gli strinse lo stomaco. Fu una cosa abbastanza improvvisa e inaspettata; era la prima volta che il pensiero della maledizione gli provocava una sensazione così intensa. Panico, si disse; forse perché finalmente la minaccia si era fatta molto più concreta. “Caleb, va tutto bene? Ce la fai?” La voce di Elynia lo riscosse dai suoi pensieri. Caleb si raddrizzò e si passò una mano sulla fronte; la trovò umida, ed era sicuro che non fosse a causa della pioggia. “Andiamo”, mormorò con un filo di voce. Non parlarono molto mentre viaggiavano, anche perché riprese a piovere più forte di prima e questo non contribuì a migliorare il loro umore.


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Quando si fermarono per la notte erano talmente zuppi che i loro abiti erano diventati pesanti come macigni. Non provarono nemmeno ad accendere il fuoco, perché con tutta quell’acqua che cadeva sarebbe stato impossibile. Consumarono una cena veloce e fredda, poi decisero che sarebbe stato meglio fare dei turni di guardia: Hywel e i suoi non erano molto lontani, era meglio essere prudenti. Elynia fece il primo turno, Ning si prese il secondo; Caleb invece sarebbe rimasto sveglio per l’ultima parte della notte, perché per poter vegliare aveva prima bisogno di riposarsi. Quando chiuse gli occhi e lasciò vagare la mente sentì di nuovo le auree bizzarre che aveva trovato quel pomeriggio; ma, nella confusione del dormiveglia, quasi non fece caso a quanto fossero vicine. Fece sogni strani fino a che Ning non venne a scuoterlo. Si mise a sedere e si strofinò gli occhi. “È già il mio turno?” borbottò ancora assonnato. “No. C’era un esploratore”, rispose Ning. All’improvviso Caleb ritrovò tutta la sua lucidità. “Come sarebbe a dire?” “Hywel ci ha trovati”, dichiarò Ning; e lo disse con tranquillità, come se quello non rappresentasse un problema. Caleb fissò il suo profilo scuro. “Dobbiamo scappare”, affermò. “No, dobbiamo trovare Lifaen”, replicò l’elfo. “Dobbiamo scappare”, insistette Caleb. “Abbiamo trovato Hywel ma, contrariamente alle tue previsioni, questo non ci ha dato nessun indizio sull’ubicazione dell’Elementale.” “Davvero? Possibile che tu non lo senta? Voglio dire, se fosse da queste parti avvertiresti la sua presenza, no? Lifaen deve avere un’aura molto potente… perché non provi a concentrarti?” Improvvisamente a Caleb vennero in mente le strane auree che aveva sentito ma, per un motivo che non riuscì a definire, ebbe remore a parlarne con Ning. Tanto non pensava che avessero a che fare con Lifaen. “Non sento nulla”, replicò; “e adesso scappiamo o restiamo qui ad attendere che Hywel ci piombi addosso?” Sentì Ning sospirare e alzarsi in piedi. “Non sai fare altro che scappare”, dichiarò l’elfo con sprezzo. Caleb si arrabbiò. Com’era possibile che Ning non si rendesse conto di quanto fosse suicida scontrarsi con Hywel?

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“Si può sapere che cosa vuoi fare?” sbottò. “Vuoi proprio che Hywel ci catturi? O magari desideri tanto scontrarti con lui perché vuoi vendicare la tua famiglia?” Ning respirò rumorosamente, e Caleb si pentì di quella domanda: era stato molto indiscreto, e se ne rendeva conto. “Scusa, non avrei dovuto”, borbottò. “Quello che m’interessa è che tu parli con Lifaen”, dichiarò Ning senza celare un certo astio; “e non perché così avrai qualche possibilità di salvare la tua stupida vita, ma perché dal successo di questa missione dipende il futuro di tutto il nostro popolo. Se la barriera di Ashra venisse rimossa noi potremmo entrare in città e cacciare Tania; ti rendi conto di questo oppure sei troppo concentrato su te stesso?” “Io… io non sono affatto concentrato su me stesso”, bofonchiò Caleb; mentendo, perché forse un po’ di ragione Ning ce l’aveva. “E allora perché non t’impegni per trovare l’Elementale? Abbiamo solo due possibilità, Caleb: andare da Lifaen oppure affrontare Hywel; e se l’alternativa da scegliere è la seconda, preferisco andargli incontro io piuttosto che attendere che mi piombi addosso lui.” Caleb sospirò e si prese la testa tra le mani. Le cose che Ning aveva detto non erano sbagliate, anzi: erano dannatamente sensate; ma come poteva fare per trovare Lifaen? Doveva avere un’aura enorme, e Caleb era sicuro che se fosse stato lì vicino lui sarebbe riuscito a sentirlo anche senza aver bisogno di concentrarsi. Forse avevano sbagliato, forse Lifaen non si trovava in quella parte della foresta; anzi, magari nemmeno esisteva. Però tutti i libri che erano stati scritti su di lui? Tutte le storie che lo collocavano nel cuore di Mawood? Erano davvero solo leggende infondate, storie per bambini creduloni? “Per tutti i folletti, Caleb, sei l’essere più pavido e meschino che io abbia mai conosciuto!” esclamò Ning di fronte al suo silenzio. Improvvisamente, Caleb fu colpito da un’idea. “Che cosa hai detto?” domandò. “Ho detto che sei l’essere…” “Sì, quello l’ho capito. Intendevo, che cosa hai detto prima?” Ning rimase un attimo in un silenzio attonito. “Ho detto per tutti i folletti. È un’esclamazione comune.” “Folletti”, ripeté Caleb. Era un’idea folle, ma a ben pensarci era un’idea plausibile. “Sei impazzito?” gli domandò Ning. “No, io… io credo di aver capito come trovare Lifaen”, rispose Caleb serio. ...CONTINUA...


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