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Un’opera agile e briosa sulla Civiltà Occidentale che mira in qualche modo a richiamare le velleità del genere epico della letteratura classica, o almeno a toccare in chiave moderna le stesse corde di quel genere. Un libro multiforme, che ha come filo conduttore principale il senso di appartenenza a una comunità, il rapporto tra essa e il singolo e la sua natura viscerale, qualunque contesto si prenda in considerazione, da quello tribale a quello postindustriale e globalizzato. L'AUTORE: Paolo Seruis è nato in un paese vicino a Cagliari nel 1973. È laureato cum laude in Lingue e Letterature Straniere e in Scienze Politiche. Dopo aver soggiornato in vari paesi europei, attualmente vive e lavora in provincia di Varese.

Titolo: Epos Editore: 0111edizioni Pagine: 144

Autore: Paolo Seruis Collana: Generazione "E" Prezzo: 13,00 euro

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IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO

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questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.


Paolo Seruis

EPOS

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EPOS Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Paolo Seruis ISBN 978-88-6307-271-6 In copertina: immagine dell’autore Finito di stampare nel mese di Aprile 2010 da Digital Print Segrate - Milano


All’Europa



Il cammino degli Arii



7

Il bagliore leggero di un sole opaco illuminava da poco la pianura davanti ai monti quando gli Arii – o le loro avanguardie – apparvero per la prima volta ad Occidente. Probabilmente qualche pastore d’un vecchio popolo vide all’orizzonte, stagliato sul nero dei rilievi, il luccicare delle loro aste e il pallore della loro pelle. La prateria, immensa, increspata dal solito vento fortissimo, appariva sconvolta da una presenza irreale, silenziosa e minacciosa come una nuvola di tempesta sopra il deserto. Per un lasso di tempo di alcune ore, la schiera rimase lì, immobile, inchiodata all’orizzonte, coi contorni indefiniti come quelli di un fantasma; al giunger della sera sparì nella foschia. Passarono alcuni giorni e non accadde nulla. Qualcuno con la vista troppo buona si sentì prendere per pazzo e la pianura ricuperò la sua calma ancestrale, avvolta in una nebbia più spessa che mai. Poi, di colpo, il grigio fu squarciato dal rosso. I monti, quei monti – gli unici che fossero presenti in quell’immensa pianura – sembravano diventati altrettanti vulcani che buttassero fuori tutto il sangue infuocato della terra. Il fumo, dappertutto, annebbiò gli occhi degli uomini, rinchiudendoli in una solitudine presaga di morte. Tutto divenne invisibile. I pastori persero in un istante le loro greggi, le loro case, i loro famigliari e i loro dei. Boati più forti del tuono esplodevano nell’aria generando altrettanto intensi gridi di terrore e innestando spaventosi cerchi sonori senza fine. Chi allungava la mano per trovare il viso del figlio, trovava il dolore gelido e lancinante di una spada; chi, non assordato dai boati, sollevava l’udito alla ricerca della voce dell’amante, sentiva suoni indecifrabili, sconosciuti; come usciti dal sottosuolo. Un odore greve di umori sessuali si spandeva nell’aria fredda o bollente a seconda del vento. Dopo una lotta incerta, il rosso ebbe definitivamente la meglio sul grigio. Il cielo divenne una fiamma e la terra un braciere. Il fuoco sembrava alimentarsi con l’acqua. Tutte le calamità naturali parevano riunite in una nuova forma ibrida in grado di disintegrare ogni cosa. Fuochi, fuochi profumati di pioggia, distrussero gli innumerevoli templi di legno e tutto quanto stava loro intorno – subito dispersa dal vento non rimase neanche la cenere.


8 I vecchi pastori sarebbero rimasti ancora più increduli se qualcuno avesse detto loro che quell’inferno improvviso non era dovuto a forze naturali scatenate da terribili demoni. Il ciclone di violenza durò incessante tutto un giorno, ma al tramonto incredibilmente si centuplicò. La pietà svanì con il sole – la notte, da sempre, la rifiuta quando opprime di piacere o di morte. Le fiamme si elevarono all’altezza della passione. Il giorno seguente al confronto fu notte. Dopo alcune ore di riposo gli Arii ripartirono subito. Quello che si lasciarono dietro era un tipo di devastazione sconosciuto – chi non conoscesse il loro stranissimo modo di combattere, non vi rinverrebbe nulla d’umano. Il loro cammino proseguì come sempre, seguendo le modalità rituali con cui tempo prima avevano lasciato la steppa. La marcia cominciava all’alba e il sole la seguiva durante la giornata col suo fascio di luce, mentre gli Arii si dirigevano verso la linea scura dell’orizzonte. Al tramonto, il sole, immenso, come un condottiero si parava davanti a segnare la sosta – gli Arii al buio non marciavano mai. Ormai da tempo non stavano più di qualche mese nello stesso luogo. Essi sentivano che v’è qualcosa di fondamentalmente celeste nella conquista, e in sommo grado nell’esimersi dall’esercitare il potere su ciò di cui si è preso possesso. Li spingeva avanti una motivazione ch’era assieme un istinto ferino e un’ansia dell’animo. Presto divenne per loro impossibile fermarsi di fronte all’orizzonte nero. Nel successivo cammino di là dei monti, gli Arii incontrarono spesso altre tribù, talora anche comunità strutturate in una forma piuttosto complessa. Non sempre il risultato di questi incontri fu un’ecatombe come nel primo caso. Talvolta si trattò soltanto di qualche scaramuccia che provocò negli indigeni più terrore di fronte a tanta stranezza che danni concreti. La pianura centrale non era, specie in quelle zone così interne, molto popolata, e lo spazio sembrava infinito anche senza uccidersi l’un l’altro. E così gli Arii, pur così schivi, finirono per essere in breve tempo conosciuti da tutti, ammirati per il loro coraggio, maledetti per i loro assassini, spiati curiosamente per la loro assoluta diversità. In tutta la regione non c’era unità linguistica, ma la diversità fra i dialetti poteva sovente essere superata dalla buona volontà. Con gli Arii non c’era storia. S’anche qualcuno – comprensibilmente giudicato pazzo quanto loro – trovava il coraggio di avvicinarli, magari singolarmente, dai loro suoni gutturali non riusciva mai a concludere nulla. Gli autoctoni se la sbrigarono collocandoli, sorte che sempre tocca ai barbari d’ogni tempo, in uno spazio ritagliato fra gli uomini e le bestie.


9 Gli Arii, invece, riguardo i popoli che incontravano non erano particolarmente curiosi, e dei loro costumi per molto tempo probabilmente non appresero quasi niente, mantenendo intatti i propri. E non soltanto per la loro inevitabile chiusura mentale, ma anche perché erano, o credevano d’essere, profondamente felici in quello stato. Tanto che molti decenni e chilometri dopo, sembravano ancora appena usciti dagli altipiani orientali. Gli Arii, certo, avevano un re. Ma più che un re era considerato sostanzialmente solo un capo militare. E soprattutto gli Arii non ammettevano la successione dinastica. Essa avrebbe potuto far sì che tutte le loro falangi in battaglia – e quindi la comunità al completo che sempre le seguiva – si trovassero a dipendere da un incapace. Avere un re è sempre un lusso e quando un popolo, per quanto bellicoso e primitivo posa essere, smette di guardarlo con sospetto, significa che ha già raggiunto un minimo grado di appagamento. I capi dell’esercito degli Arii si succedevano rapidamente, a volte da un anno all’altro. Non c’erano scadenze fisse, ma raramente capitava che un uomo detenesse il comando per più di tre anni consecutivi. Il minimo errore, la più piccola indecisione ne provocavano l’estromissione. Gli Arii adoravano il potere, ma all’interno di quel popolo conquistarlo e mantenerlo era così duro che paradossalmente, una volta perso, quasi nessuno lo rimpiangeva. Le condizioni che lo accompagnavano erano così esasperate che era impossibile vivere umanamente. Essi, conoscendosi assai bene, sapevano che l’unico modo per costringere il primo fra loro a non idolatrare il comando, era renderglielo un inferno. E’ difficile definire i contorni di quella figura di comandante, che da una parte aveva poteri praticamente illimitati su tutto, ma che era seguita così da vicino dalla comunità intera, che non poteva abusare di nulla. Spesso capitava anche che, essendo sempre il primo negli attacchi, il condottiero lasciasse la vita sul campo di battaglia. Era un sistema di potere così strano che probabilmente poteva, in quei modi, adattarsi solamente agli Arii. Impressionante, agli occhi di tutti gli estranei che ebbero modo di assistervi, era la cerimonia con la quale il comandante ufficializzava il suo potere all’interno della comunità. Tutti i capiclan si radunavano in cerchio attorno a colui che era stato designato al comando da un’assemblea congiunta di sciamani e soldati. L’eletto stava disteso con la faccia per terra, immobile, dall'alba al tramonto; all'imbrunire si portava davanti a lui una giumenta e con essa, pubblicamente, si accoppiava. Subito dopo, la giumenta veniva uccisa, fatta a pezzi con l’ascia e bollita sul luogo dell’accoppiamento, in un recipiente di grandi dimensioni. A cottura ultimata, il più anziano degli sciamani spegneva il fuoco e recitava dinanzi


10 alla cenere una serie di formule propiziatorie incomprensibili e noiose, alle quali probabilmente nessuno faceva molta attenzione. Quando il brodo cessava di essere bollente, il nuovo re veniva introdotto nella pentola e vi faceva una sorta di bagno, mangiando alcuni pezzi di carne bollita, senza usare le mani. La stessa carne veniva infine distribuita fra i guerrieri che si erano maggiormente distinti nelle ultime battaglie. Al re era permesso avere rapporti sessuali solo con animali, mentre gli erano interdetti la danza e il consumo di idromele. Egli doveva vivere all’interno del recinto dei cavalli, sotto gli occhi di tutta la comunità, in modo che potesse essere accertata la sua osservanza di queste regole. Oltre a comandare l’esercito, il sovrano degli Arii poteva anche modificare il codice tribale del suo popolo, ma ciò avveniva assai raramente, perché veniva considerato un atto d’offesa nei confronti degli antenati e portatore di sventura. Quando la stessa assemblea che l’aveva scelto, per qualunque motivo, ne decideva l’estromissione, il comandante uscente veniva portato dinanzi a tutta la comunità. Se esso veniva acclamato, acquisiva di diritto il rango di sciamano e poteva fare pubblicamente offerte agli dei a nome della comunità. In caso contrario, ritornava ad essere un normale guerriero, ma, qualunque fosse stata la causa della sua estromissione, non poteva essere ucciso, né punito corporalmente. Nei casi più gravi, egli poteva però essere bandito dalla tribù e costretto ad abbandonare per sempre il suo popolo. Altrettanto peculiare era il loro esercito. Gli Arii non avevano fanteria. Combattevano tutte le fasi della battaglia sui cavalli, dai quali scagliavano impressionanti quantità di frecce incendiarie. Andavano all’assalto su un solo fronte che poteva, a volte, essere lungo anche parecchi chilometri. Tutti gli uomini stavano uno a fianco all’altro sulla medesima fila, tranne il comandante designato per la battaglia, che stava qualche metro più avanti ad indicare l’attacco. C’erano poi, disseminati in vari punti dello schieramento, dei carri dove erano sistemati grossi tamburi o scudi di metallo. All’inizio dell’assalto, gli uomini sui carri cominciavano a battere furiosamente i tamburi e gli scudi con mazze di onice, provocando un frastuono che ricordava gli strali di un temporale. In certi punti della schiera, il rumore era così assordante che i cavalli impazzivano gettandosi a terra. In aggiunta alla raffica di tamburi, i soldati lanciavano degli incredibili gridi di guerra, che atterrivano gli aggrediti; urla e peana erano da essi portati a livelli inauditi e spaventosi. Le frecce, unte con strani oli, facevano prendere fuoco anche alla rugiada. La prateria, perennemente umida, prendendo fuoco dava spesso origine a una densissima cortina di fumo che durava per giorni. Le azioni degli Arii erano solitamente molto veloci, ma quando volevano sfogare della crudeltà a lungo


11 repressa, i guerrieri rimanevano ore sul campo di battaglia, girando sui cavalli e infierendo sino all’ultima vittima. Non prendevano mai prigionieri, di cui oltretutto non avrebbero saputo che fare. Gli ultimi rimasti venivano uccisi o, più spesso, lasciati andare. La vista del sangue non eccitava gli animi degli Arii. Tutt’al più, sembrava che quello dei vecchi suscitasse in loro un po’ di disgusto. Compivano in mezzo a tanto furore i più violenti gesti con la ieraticità di un rito. Le spade degli Arii erano enormi e sovente lunghe quasi due braccia. Le loro strane aste di legno bianchissimo parevano d’avorio. Ma la loro arma diletta era l’arco. L’arma era assai diffusa in ogni parte del continente, ma nelle loro mani sembrava diventare qualcosa di diverso. Scagliavano le frecce a distanze quasi incredibili e ciò permetteva loro di uccidere senza minimamente avvicinarsi ai bersagli, fossero uomini o branchi di cervi. A volte le vittime avevano l’impressione che le frecce, con la loro parabola altissima, arrivassero dal cielo. A prima vista, i loro attacchi assomigliavano allo scatenarsi di uno strano temporale, e per tale indubbiamente talvolta li scambiò qualche ingenuo pastore. Soprattutto quando la nebbia nascondeva sino alla fine i soldati a cavallo e il vento allontanava il fumo causato dall’erba in fiamme. Ma, ascoltando attentamente, si sarebbe potuto notare che quei tuoni avevano un ritmo; certamente non molto ordinato, ma comunque neanche frutto del caso. E i gridi di guerra, così strani ed esasperati da apparire inumani, non erano versi animali, come pensavano gli sventurati che li udivano. Chi avesse avuto la possibilità di ascoltarli senza essere sconvolto dalla paura, vi avrebbe scorto un che di poetico, seppure estremamente rozzo. Quando la schiera degli arcieri a cavallo si rompeva, i movimenti dei cavalieri erano ordinati, coordinati; troppo per una carica che aveva il compito di finire un nemico già in fuga. Durante questa fase i peana si interrompevano completamente e si udivano solo le grida di terrore degli aggrediti. E a quel punto la cosa più strana, nella prateria trasformata in un rogo, era trovare dell’ordine dove si aspettava una furia selvaggia; scoprire una misura umana raffinata in ciò che era sembrato dapprima una forma di calamità naturale e poi l’aggressione di barbari predoni simili a bestie. Sembrava cominciare una specie di danza. Ecco, la stranezza era che sembrava una danza. Il furore degli Arii in battaglia non era un furore guerriero. Essi parevano in preda a qualche demone, che avesse rubato la loro mente e li muovesse a piacer suo come esseri inanimati, armoniosamente. Era una cosa che tutti quelli che combattevano con loro credevano di percepire molto chiaramente, ma che non sarebbero mai stati in grado di spiegare. Sembrava proprio che gli Arii uccidessero in un modo che ricordava un po’ una processione religiosa e un po’ una danza corale.


12

Gli Arii erano un popolo guerriero quant’altri mai, ma non lo furono sempre. Sinché rimasero nella loro sede originaria, anzi, preferirono sempre la pacifica attività di pastori integrata con la caccia. Le armi venivano fabbricate e adoperate con moderazione, e più per tenere a bada animali feroci che per praticare la guerra. Le steppe erano scarsamente abitate, non facevano gola a nessuno e gli Arii potevano stare relativamente tranquilli. I predoni non venivano avvistati spesso ed erano poco numerosi; non rimanevano nella zona più del tempo necessario a una breve razzia. Talvolta si arrivava anche a concludere con essi qualche fecondo scambio commerciale. L’unica precauzione che gli Arii prendevano a vantaggio della loro sicurezza era quella di edificare i centri abitati su alture, spesso fortificate, che permettessero di controllare la zona circostante. Questa abitudine la mantennero sempre, al pari di quasi tutte le altre, quando lasciarono la steppa, soprattutto quando non trovarono dense foreste che potessero offrire una protezione adeguata alle loro famiglie e ai loro greggi. L’abbandono della loro sede originaria fu semplicemente causato da un aumento demografico, lento ma costante, che a un certo punto non poté più essere gestito in una terra che offriva risorse molto scarse. Ma, quando una parte della popolazione cominciò a muoversi, la voglia di partire improvvisamente contagiò un po’ tutti e, nel giro di pochi anni, la portata delle migrazioni assunse dimensioni enormi. Anzi, alla fine, coloro che rimasero furono così pochi che vennero spazzati via un poco alla volta dalle orde dell’Est. L’unico cambiamento veramente grande che caratterizzò le popolazioni arie una volta iniziato il loro cammino fu l’assunzione quasi immediata di un’indole guerriera spietata e terribile, alla quale i pastori e i contadini sparsi nei territori occidentali e meridionali non erano in grado di fare fronte. Gli Arii erano inferiori ad essi sotto molto punti di vista, ma la rapidità con cui impararono a maneggiare le armi assicurò loro la vittoria praticamente in ogni occasione. Furono le prime grosse battaglie a mostrare agli Arii che quella era la loro vocazione, che probabilmente lo era sempre stata, anche se era stata trascurata per tanto tempo. Probabilmente, per acquisire la loro tecnica militare, bastò solo il tempo di una generazione. Gli Arii non avevano un insieme di riti religiosi collettivi. Sembrava che i valori nei quali tutti si riconoscevano (e dopotutto non erano pochi) venissero instillati nelle loro teste individualmente e naturalmente dal sole, senza una vera consapevolezza e senza alcuna problematicità. Come tutti gli altri aspetti della loro vita, anche la loro religiosità parve incomprensibile e folle a coloro che ne vennero a contatto ad Occidente.


13 Gli Arii infatti parevano non sentire il bisogno di esorcizzare tutto ciò che gli altri popoli solitamente temevano; amavano istintivamente l’imprevedibilità del futuro e sopportavano il dolore con un’impassibilità morbosa mista ad orgoglioso piacere. Gli Arii rispettavano gli dei, tanto quanto li ammiravano. Erano divinità celesti: potenti ma lontane non intervenivano direttamente nella vita degli uomini. I rapporti tra le due nature erano inesistenti. Gli dei non scendevano mai sulla terra, troppo calda per loro, per non far torto agli Arii (giacché, solitamente, quando un dio scende sulla terra lo fa per rubare); ma gli Arii lasciavano loro libere le terre ghiacciate del Nord e le cime delle montagne, nel caso quelli avessero voluto giocare nei ghiacci. Il dio padre di tutto era il cielo, signore di tutte le divinità che avevano il diritto di vivere al suo interno. Dopo la creazione aveva distribuito un compito a ciascuna di esse e aveva mantenuto per sé quello di saggio osservatore. Meno di tutte le altre interveniva nella vita degli uomini, troppo piccoli per meritare la sua attenzione. La divinità più amata dagli Arii era il sole. Tutta la loro esistenza era dominata da esso. Questo in sé non sarebbe un fatto sorprendente: tale è l’influenza di quell’astro sulla terra che molti altri popoli si sentivano legati ad esso quanto gli Arii. Ma è certo che, anche in questo contesto, questi ultimi, riuscivano ad essere diversi dagli altri. Per gli altri popoli il sole era infatti dispensatore di ordine, di stabilità, di abbondanza e di vita, mentre per gli Arii esso sembrava essere soprattutto dispensatore di gioia, di un benessere interiore legato a qualcosa di folle. E difatti non veniva invocato dagli Arii per mettere a loro disposizione, benignamente, la sua potenza. Nella vita degli Arii, pastori delle steppe, l’agricoltura aveva scarsa importanza e il loro sostentamento non dipendeva che in minima parte dalla clemenza atmosferica. Proprio per questo, pensavano, il sole poteva essere loro amico. Da esso gli Arii volevano gioia: se il cielo era il padre di tutto, troppo grande e lontano per loro, il sole, pur essendo una divinità, poteva, a forza di amore, diventare una sorta di compagno degli uomini. Attraversando giornalmente il cielo, sembrava congiungersi fisicamente alla terra, come un amante. Nelle iscrizioni su pietra e nelle formule esso era identificato ad una ruota e a volte ad un carro. Solo al sole venivano sacrificati in abbondanza animali di grosse dimensioni, come tori e cavalli, che quello avrebbe utilizzato per trainare il suo carro infuocato nel cielo. Confidando ciecamente in esso, nel suo percorso, gli Arii si spostarono soprattutto ad Occidente, trascurando Meridione ed Oriente.


14 Le eclissi erano considerate momenti di sciagura e viste come il segno che la loro amicizia col sole si era interrotta. Tutta la vita della comunità si bloccava e ci si preparava a qualche imminente catastrofe. Alcune donne, in preda a terribili attacchi di follia, commettevano i più efferati delitti per poi suicidarsi. Le altre due divinità più amate erano l’aurora, protettrice della poesia, della magia e della preghiera, ed il vento, protettore dei giovani. Presso gli Arii, inoltre, l’orso era considerato un animale sacro, che incuteva rispetto e timore, tanto che si evitava persino di pronunciarne il nome. Esso non poteva naturalmente essere ucciso e chi si fosse macchiato di un simile delitto doveva immediatamente lasciare la tribù, proprio come chi uccideva un consanguineo. Gli Arii avevano, attraverso una loro leggenda, ancora memoria di quando vivevano assieme agli orsi e con essi dividevano amichevolmente il miele. In fondo era stata un’epoca felice e gli Arii non l’avevano rinnegata; a quei tempi gli Arii non allevavano ancora il bestiame e vivevano solo di caccia e dei frutti del bosco. Ma con gli orsi si era trovato un accordo: i pesci erano per loro e gli animali per gli Arii. Fu l’inizio di un’amicizia fruttuosa: gli orsi erano più forti e potevano difendere gli uomini dalle altre bestie feroci, soprattutto di notte; gli Arii, dal canto loro, erano più furbi e potevano sbrogliare situazioni intricate che di volta in volta si presentavano. Ad esempio potevano allontanare le api con l’acqua per rubare il miele senza problemi. Spesso si formavano anche delle coppie miste di Arii ed orsi che sembravano funzionare a meraviglia, anche se purtroppo non generavano prole. Il legame, pare, si ruppe quando gli Arii cominciarono a parlare troppo. Non si accontentavano più di alcuni gridi di caccia, ma si misero in testa di formare una parola per tutto e presero ad esibirla ad ogni occasione. Gli orsi li stavano a sentire confusi, sembravano non essere in grado di capire nulla della nuova invenzione e divennero diffidenti. Gli Arii, d’altra parte, divennero sprezzanti e d’un tratto si resero conto che non era più convenevole vivere insieme. Tuttavia fu una rottura carica di conseguenze. Senza la protezione degli orsi, gli Arii dovettero lasciare il bosco e vedersela da soli con i loro nemici, in primo luogo i lupi. Dovettero organizzarsi per bene ed accettare una serie di limitazioni, a cui però in fondo non si abituarono mai del tutto, rimpiangendo ciò che avevano lasciato. Rendendosi comunque conto che tornare indietro non era più possibile – e se lo fosse stato, c’è da crederci, gli Arii lo avrebbero fatto – essi vollero tributare al loro vecchio compagno un riconoscimento di carattere sacro, in nome della vecchia amicizia e dell’età perduta. Gli Arii non costruivano templi, né ebbero per molto tempo dei sacerdoti che regolassero il culto del sole e degli altri dei celesti. Chiunque poteva fare delle


15 offerte sacre a titolo personale, ma solo chi otteneva il riconoscimento di sciamano, grazie alla stima che si era guadagnato in qualche modo all’interno della sua tribù, poteva fare sacrifici a nome della comunità o pregare in pubblico. Il colore del sacro era il bianco e chi voleva invocare gli dei doveva abbigliarsi di quel colore – il rosso era il colore dei guerrieri e il blu quello dei pastori. Mentre non costruivano templi – che se ne sarebbe fatto un dio celeste di un’abitazione terrestre? -, gli Arii costruivano delle ampie tombe sotterranee per i defunti importanti, solo per essi: ex sovrani, guerrieri valorosi, sciamani particolarmente stimati, etc. Si trattava di celle quadrate scavate nella roccia o nella terra, dove il defunto di particolare valore veniva collocato assieme ai suoi oggetti terreni, in primo luogo le armi. La sepoltura veniva poi coperta da un tumulo di terra per due differenti ragioni: la prima era la necessità che chiunque potesse rendersi conto che in un certo luogo c’era una sepoltura e, schifato, potesse così starne lontano; la seconda era che il defunto, sotto tanta terra, non si facesse venire la tentazione di tornare, spinto dalla nostalgia, a trovare i suoi familiari. Certamente il defunto sapeva che sarebbe stato accolto a sassate ed insulti, ma il rimpianto della vita perduta, all’inizio, avrebbe potuto creare situazioni spiacevoli. Non sapendo con certezza se il morto aveva la possibilità o meno di tornare, magari per poco, era meglio cautelarsi, in quella maniera, che nessuno si azzardasse a fuoriuscire dalla terra per sconvolgere la vita dei vivi. Dopo il decesso, il morto faceva un viaggio più o meno lungo che terminava in una palude, dove sarebbe rimasto per l’eternità. Quel posto non era un luogo di dannazione, non c’erano peccati da espiare – che cos’era il peccato per gli Arii? -, ma è certo che le anime laggiù dovevano stare assai male. Intanto era un luogo umido, pieno d’acqua, la cosa che gli Arii odiavano più di tutte. E poi non c’era la luce del sole, dispensatrice di gioia ed ebbrezza. Era dunque un’esistenza scura e triste destinata a durare per sempre; il fatto che non vi si patissero fame e dolori fisici non poteva evidentemente essere di grande consolazione. I morti solitamente non parlavano tra loro e anzi spesso si evitavano, perché la vista dell’altro finiva per essere un po’ come uno specchio e come tale in quelle condizioni difficile da sopportare. Il colorito, in vita albino o bronzeo a seconda della stagione, assumeva una colorazione olivastra; i muscoli si assottigliavano e deformavano, l’umidità della palude entrava nelle ossa. I morti sapevano che nessuno dei loro famigliari si sarebbe ricordato di loro; del resto, se lo avessero fatto, sarebbe stato con disgusto. Il solo modo di sottrarsi ad una tale condizione di orrore, era di lasciare in vita un nome glorioso legato a gesta fuori dell’ordinario. Il nome era per gli


16 Arii ciò che per gli altri popoli potrebbe essere chiamato anima. Mentre lo spirito seguiva il corpo nella palude senza luce della morte, era il nome a rimanere in vita e a dare speranza di immortalità. Il nome era l’elemento essenziale e fondamentale di ogni individuo. Il nome glorioso non veniva contagiato dalla laidezza della morte e si identificava, come presso nessun altro popolo, nella memoria dei vivi con la forza e l’eccezionalità del suo possessore. E poiché ciò che è straordinario è fuori del tempo e, anzi, trae forza da tutto ciò che, banalmente, lo segue, i conquistatori di gloria potevano davvero sentirsi detentori di una sorta di immortalità. Chi dimenticava il padre il giorno stesso della sua morte, sentiva il dovere e il piacere di ricordare le gesta e il nome glorioso degli eroi lontani. Esisteva dunque una possibilità di salvezza e immortalità per l’uomo e stava solamente nel suo nome. Ma essa era un’eventualità rara ed eccezionale, legata non solo a meriti particolarissimi, ma anche a una scelta della sorte: un’eventualità, dunque, cui rimaneva estranea la generalità degli uomini. Per quei pochi, solo per essi erano costruite le tombe. L’elitarismo e la tenebrosità di questa religione della gloria erano esasperati dal fatto che per pastori seminomadi abitatori di steppe solitarie, le occasioni per attingere l’immortalità del nome non erano frequenti. E’ facile però immaginare cosa avvenne dopo l’abbandono della sede ancestrale e l’inizio di sistematiche guerre di conquista. Il fuoco divenne inestinguibile. Nelle sue fasi più arcaiche, e quindi più autentiche, la società ariana non aveva al suo interno una forte stratificazione e tanto meno conosceva un sistema chiuso di caste. Un certo grado di specializzazione, che pure, indubbiamente, esisteva, rimase per lunghissimo tempo ad uno stadio larvale. I guerrieri professionisti che sprezzavano ogni altra attività fecero all’interno di quella società la loro apparizione solo dopo l’abbandono della steppa e anche allora rimasero una minoranza, trattandosi di uomini divenuti molto ricchi, o dediti alla sicurezza personale di un principe. Per la maggior parte della comunità, la guerra non significò mai l’abbandono totale dell’allevamento del bestiame. Lo stesso discorso si può fare a proposito dell’unica figura di artigiano conosciuta dagli Arii: il fabbro. Sinché gli Arii rimasero nella steppa, esso non raggiunse mai un livello di specializzazione tale da garantirgli un abbandono totale della cura del bestiame. E se anche il membro di una determinata famiglia decideva di dedicarsi unicamente al lavoro dei metalli, si può esser certi che gli altri continuavano nella loro attività di pastori e cacciatori.


17 Non esisteva neanche la figura del poeta professionista, che divenne però comunissima dopo l’età delle migrazioni. Le poesie erano generalmente di carattere sacro e quindi legate indissolubilmente al repertorio degli sciamani. Persino riguardo ad essi parlare di una qualche forma di professionismo sarebbe fuorviante. Se non svolgevano generalmente altre attività era perché, tranne casi eccezionali, pur non avendo mai il tempo di divenire vecchi, erano troppo infiacchiti dal fatto di sapere di non essere più giovani. Erano dunque inadatti a qualsiasi lavoro, tranne la guerra. Anzi, era proprio grazie ad essa che potevano morire senza subire l’abominio della vecchiaia. Praticamente nessuno raggiungeva i cinquant’anni. Si trattava di uomini stimati per la loro sapienza e lealtà, che avevano imparato, nel corso della loro vita, numerose leggende e formule di preghiera, ma che non avevano avuto alcuna sorta di apprendistato regolare. L’ammissione di un nuovo membro era decisa dall’assemblea degli sciamani riunita al completo; poteva divenire sciamano ogni uomo di età superiore a quarant’anni che ottenesse il consenso di due terzi dell’assemblea per alzata di mano. Per chi aveva svolto l’attività di fabbro o per chi aveva dato prova di abilità nel comporre versi, era sufficiente il consenso di metà dell’assemblea. Unica eccezione a queste regole erano i sovrani uscenti acclamati dal popolo, che divenivano sciamani per diritto, senza la votazione di nessuna assemblea. Non c’era una gerarchia ufficiale all’interno di essa, ma le rare cerimonie importanti, come quella di incoronazione, erano riservate allo sciamano più anziano, quando questo era ancora in grado di camminare e di recitare versi a memoria. Si trattava dunque di una società rozza, per molti aspetti primitiva, forgiata dalla vita della steppa, che non ebbe per lungo tempo la possibilità di creare al suo interno una qualunque forma di ricchezza, all’infuori di quella costituita dal bestiame allevato. E così le società agricole che si trovavano a Sud e ad Ovest finirono per apparire agli occhi degli Arii, ancora totalmente barbari, una sorta di eldorado da razziare. Ma anche molti secoli dopo quella fase iniziale, si può dire che la società degli Arii rimase sempre piuttosto semplice e dominata da una sola passione per volta: la pastorizia prima della partenza e la guerra dopo di essa. Alla lunga si può dire anche che la seconda superò di parecchio la prima e oltre che una passione divenne una vocazione. Gli Arii non sopportavano l’acqua. Si lavavano quasi esclusivamente con gli oli e le lame. Certamente nessuno di loro sapeva nuotare, né mai alcuno li vide su una barca o qualcosa di simile.


18 In misura inversamente proporzionale amavano il fuoco. Ne erano circondati in ogni momento della loro vita, dalla danza alla guerra. Sentivano di assomigliargli, come loro sospeso tra una natura aerea e una carnalissima. Ma per gli Arii in fondo era la vita stessa ad assomigliargli, come esso così naturalmente spietata, mutevole ed evanescente. Parallelo e complementare al culto del sole era quello del fuoco. Ma se il cielo era loro padre ed il sole un compagno fraterno, seppure d’una natura superiore, il fuoco era per gli Arii una loro creatura. Era una loro invenzione, un loro strumento, qualcosa che, dal momento che si trovava sulla terra, doveva essere al servizio degli uomini, pur essendo, verosimilmente, della stessa natura del sole, principe degli astri. Come gli Arii naturalmente riverivano e ubbidivano il sole, il fuoco doveva obbedire agli uomini, e come nel primo caso, il rapporto diseguale non impediva un sincero amore. Per dei pastori spesso a contatto con l’aria aperta, abitatori di steppe fredde e ventose, il fuoco era ovviamente sinonimo di benessere e protezione. I lupi e gli altri animali feroci della steppa sapevano che il fuoco delimitava lo spazio umano e forse, non solo per paura, ma anche, in parte, per rispetto, essi si astenevano dall’avvicinarsi ad esso. Così almeno pensavano gli Arii. Ma gli stessi Arii del fuoco, probabilmente senza rendersene pienamente conto, amavano di più l’altra anima, quella distruttrice, quella legata alla morte. Se questa idea sarebbe potuta sembrare strana finché vissero nella loro terra ancestrale, dopo l’inizio delle migrazioni e l’assunzione della loro indole guerriera, sarebbe invece parsa condivisibile a tutti. Il rosso, insegna dei guerrieri arii, più che un richiamo al colore del sangue era quasi certamente un tributo a quello del fuoco. Il fuoco, compagno dei pastori e dei guerrieri, lo era anche dei danzatori e degli sciamani. Come spesso accade presso tutti i popoli barbari e primitivi, le danze degli Arii si svolgevano innanzi al fuoco e da esso traevano forza. Dopo il tramonto, gli Arii accendevano enormi fuochi, intorno ai quali si scatenavano danze cariche di ordine e di passione. Praticavano la danza individuale e quella corale. Ovunque andassero, di notte, voci di vergini contrappuntate da tamburi di guerra, diffuse dal vento, risuonavano nell’immensa pianura. Danzavano gli Arii, danzavano gli Arii. Gli Arii erano soli. La loro solitudine non era attenuata dai vari momenti di vita collettiva, principalmente la danza e la guerra. Soprattutto perché quelle attività ognuno sentiva di viverle appieno solo se non comunicava nulla agli altri di ciò che sentiva.


19 E anche quando, individualmente, portavano il bestiame al pascolo e lo controllavano distesi su qualche roccia a godere del vento, avevano sempre timore che qualcuno potesse spiarli e capire cosa passava loro per la testa, rubando la loro solitudine. Tra gli Arii non c’erano molti divieti, e quelli imposti al loro sovrano parevano un’eccezione necessaria. Essi passavano la maggior parte del loro tempo da soli e ognuno poteva ben fare di se stesso ciò che voleva. In guerra e in amore, loro principali passioni assieme all’idromele, i divieti non sono mai serviti a nulla presso nessun popolo e gli Arii, forse con brutalità, forse con candore, li evitavano anche formalmente. Un timore atavico tanto forte da sembrare innato impediva loro di uccidere membri della stessa comunità, mentre il furto, quasi inesistente, non rappresentava un problema. Gli Arii spregiavano il possesso slegato dai sensi; ecco, l’accumulo, odiavano l’accumulo. Era per loro come un ventre deforme. Era un fastidio concreto prima ancora che filosofico. Ne sentivano fisicamente la pesantezza, la laidezza. Quando vedevano un oggetto non utilizzato in qualche angolo della casa, sembrava loro di averlo indosso, penzolante, e renderli impacciati e ridicoli. Anche un calice sembrava avere il peso di una montagna e, se non utilizzato, essere in grado di schiacciarli a terra. Se questo era per le donne, delicate e diafane, un imperativo assoluto, i maschi dovevano sforzarsi di fare delle eccezioni e assumersi le loro responsabilità. E così, talvolta, quando c’era abbondanza di qualche prodotto, ad esempio formaggio, con un po’ di vergogna decidevano di non buttarlo e lo conservavano nel posto più segreto della casa. Il medesimo problema si presentava dopo una battuta di caccia particolarmente fortunata. Gli animali uccisi durante la caccia non potevano essere offerti agli dei e lasciarne qualcuno sul posto poteva attirare la cattiva sorte; così la carne in eccesso veniva depositata nei carri ad essiccare, per essere utilizzata nei periodi di marcia più intensi, solitamente al cambio di stagione. Allora, l’unico momento che gli Arii avevano per procacciarsi selvaggina era prima dell’alba, ed era spesso difficile avere successo in battute di caccia così brevi, tanto che a volte alcuni rischiavano di morire d’inedia. Un’altra eccezione erano le armi. Vederle giacere impolverate in qualche angolo dell’abitazione doveva essere terribile, ma gli Arii si rassegnavano pensando che non c’erano alternative. Seppellirle, ad esempio, poteva essere troppo pericoloso, nei casi in cui ci fosse stato bisogno immediato di esse, magari dopo l’avvistamento di qualche predone. Tanto meno si poteva pensare di fonderle dopo averle usate e costruirne nuove al bisogno, per quanto paresse agli Arii una cosa altamente poetica.


20 Per questo motivo probabilmente non crearono mai un’arte materiale, tanto meno quella applicata. La trascuravano considerandola un’attività ignobile, indegna della loro vanità. Pure sommamente laconici, gli Arii erano invece maghi della parola. Il riposo fisico che si concedevano, veniva a volte occupato da racconti indecifrabili. Non si trattava di leggi, gli Arii le odiavano tanto che ne ebbero sempre poche. Poche erano pure le leggende, perlopiù usate per cullare i bambini. Erano storie oscure, il cui significato probabilmente non era neanche importante, ma ricche di sfumature, e da esse apprendevano il dono insieme divino e naturale della complessità. C’era poi la poesia vera e propria che era, ovviamente, solamente orale. Si trattava essenzialmente di inni religiosi e di poemi che ricordavano le gesta degli eroi, spesso mescolati in una forma ibrida, avendo entrambi i generi un significato fondamentalmente religioso. Il loro apprendimento era casuale, affidato alla buona volontà di ciascuno. Gli sciamani indolenti, sempre ubriachi di idromele, passavano le giornate ai bordi del villaggio a recitare versi e chiunque li poteva ascoltare; nei giorni di festa, spesso venivano anche invitati nelle abitazioni e rallegravano i banchetti. Ogni sciamano aveva un suo piccolo repertorio che ripeteva ossessivamente e di cui andava fiero. Solitamente, in un modo o nell’altro, anche chi non diveniva sciamano, raggiunta una certa età, finiva per sapere alcune decine di poemi, salvaguardando così la gloria immortale degli eroi. Gli Arii non dedicavano del tempo ad attività di tipo ginnico. La loro esistenza era così dinamica da non renderle necessarie. Tuttavia, una volta l’anno, svolgevano un curioso torneo che coinvolgeva indirettamente tutta la comunità e che consisteva in una gara di marcia di resistenza fisica, una sorta di maratona a oltranza, senza traguardo. Gli Arii, di costituzione corporea solitamente molto massiccia, abituati ad andare a cavallo dalla più tenera età, non erano però avvezzi a camminare. Dopo pochi chilometri provavano una fatica terribile a continuare. Si trattava quindi di una gara che veniva combattuta più con la tenacia dei nervi che con i muscoli, e la vittoria, come non mai, andava a colui che la voleva di più. Erano rare le volte che non ci fossero vittime o che la gara durasse meno di due giorni. Durante la marcia era vietato mangiare qualunque cibo, mentre poteva essere bevuta solo l’acqua che si trovava durante il cammino. Erano ammessi solo i ragazzi e ognuno poteva partecipare una sola volta nella vita. Vinceva l’ultimo rimasto in piedi, colui che percorreva la distanza maggiore. Paradossalmente – ma non tanto, vista la particolarità dell’agone – chi vinceva veniva considerato non tanto un atleta quanto un poeta e, pur avendo dato


21 prova di forte volere, acquisiva agli occhi di tutti un alto sentire. Le donne più dolci, seppure per poco, l’amavano con violenza. Gli Arii non amavano gli estranei ma non esisteva il divieto di mischiare il proprio sangue. Se qualcuno di loro portava uno straniero nell’accampamento, quello a volte diventava senza troppi problemi un membro della comunità, per quanto ciò potesse sembrare incredibile a molti. C’è invero da dire che furono comunque sempre le azioni occasionali di un singolo a creare i presupposti per simili affiliazioni; e che, evidentemente, chi introduceva degli stranieri, vedeva bene che si trattasse di individui assimilabili dal suo popolo. L’unità sociale di base presso gli Arii era il clan o famiglia patriarcale allargata. I figli maschi non lasciavano la casa paterna, ma introducevano in essa le loro mogli e concubine. I matrimoni erano solo delle piccole formalità, generalmente regolate da uno scambio di averi. La monogamia non era diffusa, ma in qualche caso si stabilivano delle unioni che duravano anche dall’adolescenza alla morte. La fedeltà non era né osservata né pretesa, ma, all’interno della stessa casa, si cercava di mantenere un certo decoro. Le donne, nella nuova casa, così come nella vecchia, stavano assai poco e andavano al pascolo da sole esattamente come gli uomini, magari stando attente a non allontanarsi troppo per non correr il rischio di essere rapite da qualche predone. I bambini venivano allevati solo dalle donne. Spesso essi non sapevano neanche esattamente chi fosse il padre. Comunque anche il ruolo della madre durava assai poco. Finito l’allattamento, i bambini della tribù stavano insieme fra loro e, per alcuni anni, la loro unica attività era rotolarsi nel fango. Era quello l’unico periodo della vita degli Arii in cui si praticava una reale vita in comune. Raggiunta la seconda infanzia, i bambini venivano divisi per sesso. Per i maschi i dieci anni successivi venivano impiegati a diventare guerrieri, per le femmine a diventare più belle possibile. Chi non riusciva a diventare quello per cui la sua vita era dedicata, a volte si uccideva. Ma, invero, non accadeva spesso, forse perché quei due obiettivi erano perseguiti con tanta maniacale volontà da essere, nella maggior parte dei casi, raggiunti. Gran parte della giovinezza era anche impiegata ad imparare a cavalcare alla perfezione. I giovani arii passavano così molto del loro tempo sui cavalli, sopra i quali amavano accoppiarsi. In epoca più antica, la tecnica del morso non era ancora stata perfezionata, e soltanto la grande destrezza del cavaliere poteva assicurare una risposta immediata e precisa dell’animale. Una grossa mandria, patrimonio della collettività, veniva utilizzata appositamente per l’esercitazione dei giovani. I cavalli erano domati e addestrati dai maschi, ma anche le femmine divenivano presto caval-


22 lerizze eccezionali. Entrambi, raggiunta l’adolescenza, ricevevano un cavallo della mandria comune e ne divenivano proprietari. Considerata la loro natura di pastori seminomadi e visto che la cavalleria era il loro unico corpo di guerra, si può immaginare facilmente quale importanza avessero quegli animali presso gli Arii. Dopo l’abbandono della steppa, i cavalli degli Arii persero però il loro aspetto magnifico e divennero sporchi e sfregiati dalle continue battaglie: doveva essere bizzarro vedere quei guerrieri fierissimi sopra quelle bestie luride e acciaccate. Eppure la condizione di queste non doveva essere così atroce se, quando venivano lasciate libere perché troppo vecchie, continuavano a seguire gli Arii nei loro spostamenti. Talvolta guardavano da lontano le battaglie cogli occhi che parevano malinconicamente umani e – secondo quanto giuravano alcuni – si gettavano come impazziti senza cavaliere nella mischia, come se la prolungata simbiosi con i loro padroni avesse loro trasmesso l’amore per la guerra. L’amore. Per gli Arii l’amore più che un sentimento specifico era l’insieme di tutto. Non facevano una sola cosa che non fosse permeata da esso. Essi agivano come degli innamorati eternamente di fronte all’amato. Passavano sempre per le crepe più strette, salivano per la strada più alta, seguivano la belva più grossa. Quel modo di agire prima che un onore era per loro un dovere assoluto. Gli Arii che non erano così, così si sarebbero voluti. Conoscevano naturalmente anche il sentimento amoroso come lo intendevano gli altri popoli. A volte se ne lasciavano toccare. Ma era fatale che gli Arii a quel tipo di amore preferissero la guerra. Quando la passione raggiunge il suo livello più alto, la forza supera la forma. Quando avanzava l’età, gli uomini compivano in battaglia azioni progressivamente sempre più ardite, fino a diventare veri e propri atti suicidi. Le donne, invece, che tanto si compiacevano della propria timorosità, con la più assoluta indifferenza si lasciavano annegare. I vecchi praticamente non esistevano. E nessuno ne sentiva la mancanza. In un popolo dove il culto della bellezza era pesante come la roccia, la loro presenza sarebbe stata più odiosa delle cimici. Nessuno sopportava di diventarlo ed era preferita di gran lunga la morte. Forse per questo stesso motivo adoravano la guerra e l’amore. Gli uomini che si erano distinti in modo particolare, solitamente nel campo delle armi, ricevevano, come descritto, delle sepolture regali da parte della comunità. Per gli altri non c’era nessuna forma di omaggio o commiserazione. Generalmente i corpi non venivano neanche sepolti ma gettati in un lago o in un fiume. Non c’era memoria degli antenati. Si può dire con certezza che venissero dimenticati con rapidità.


23 Il fatto è che i morti, pensavano gli Arii, della bellezza della morte non hanno niente. Ne sono indegni. Forse si può credere che, tra le tante loro crudeltà, fu questa che maggiormente spaventò i popoli che li conobbero. Gli Arii, che, come detto, praticavano l’agricoltura solo saltuariamente e in forma assai primitiva, non conoscevano la vite e il malto. L’unica bevanda alcolica che possedevano era l’idromele, ottenuta da un miscuglio di acqua e miele fermentato con l’aiuto di lievito. Ad esso si aggiungevano a volte erbe o spezie come rosmarino e chiodo di garofano. Gli Arii erano grandi bevitori e consumavano idromele in ogni momento della giornata, dal risveglio sino al tramonto. D’estate, col gran caldo, l’effetto della bevanda era molto maggiore ed era facile vedere girare nella brughiera gialla torme di pastori ubriachi, sempre sul punto di cadere e rotolare per terra. Bevevano tutti, donne e bambini compresi, senza alcuna misura. Non bevevano per festeggiare, come gli altri popoli, o per scacciare la tristezza. Per festeggiare c’era già la danza e per scacciare la tristezza c’era la solitudine. Gli Arii bevevano per raggiungere uno stato di ebbrezza che giudicavano necessario per comprendere il mondo. Quando erano sobri, non accadeva spesso, ne approfittavano per fare un po’ d’ordine in casa e buttare le cose vecchie; si mettevano poi a far conti e passavano in rassegna il bestiame, per veder se tutto era in regola. Ma i conti non tornavano mai, c’era sempre qualche numero di troppo o in meno. E allora il povero pastore, confuso, contava di nuovo e pensava che dopotutto qualche pecora in più o in meno non era così importante, che forse gli era nato qualche vitello più del previsto o che qualche altro gli era stato rubato. Succede. Quando le bestie erano più del dovuto, bastava fare un sacrificio al sole; nell’altro caso era più fastidioso. Ma in fondo, pensava il pastore, forse la colpa era sua, che era rimasto sobrio e voleva capire qualcosa in quelle condizioni. D’altra parte, contare con la pancia piena di idromele non era possibile, girava la testa; e un buon pastore ogni tanto i suoi conti li deve fare. L’idromele era davvero una cosa benedetta. Era economico, facile da produrre e buono per tutto, ma soprattutto per pensare. Perché gli Arii amavano pensare, non erano bestie come credevano gli altri popoli. Anzi, tra sé, ripetevano spesso: “E se non capisco, che cosa mi distingue dal mio bestiame?”. Non che capire, pure con l’idromele, fosse facile, tutt’altro. Ma in certi momenti era davvero possibile farsi un’idea su tante cose e stare bene, sentire benessere nell’anima. Svaniva anche il disgusto per i morti e per l’acqua. Rimaneva solo il disprezzo.


24 Taluni, quando erano veramente ubriachi, riuscivano a parlare la lingua degli altri popoli, e allora recitavano delle poesie in tutte le lingue del mondo e poi gridavano al vento: “E tu, e tu sai fare di meglio?”. Superati i trent’anni, sembrava persino crearsi una sorta di dipendenza e quando l’idromele non era a portata di mano, gli Arii diventavano nervosi. Forse si può dire che gli unici delitti che venivano commessi in quel popolo erano dovuti ad attacchi di incoscienza causati dalla mancanza di quella adorata bevanda. La sua assenza era come una piccola eclissi solare, e chi commetteva atti malvagi in quelle condizioni, se non perdonato, era però compatito. Gli Arii amavano bere soprattutto in solitudine – che delizia sommare i piaceri! Ecco perché prima delle danze corali o di una battaglia, si beveva, sì, ma senza tanto gusto, senza convinzione, forse addirittura con moderazione. Solo il re, per tutta la durata della sua carica, non poteva avvicinarsi all’idromele. Ma è assai probabile che in un modo o nell’altro, di nascosto, qualche goccia riuscisse a berla lo stesso. Gli altri divieti impostigli erano più rispettati. Gli Arii, col distacco degli iniziati, adoravano i sensi. Godevano della luce e del buio, della musica e del silenzio. Adoravano la fisicità del loro corpo. I baci del vento facevano tremare di piacere la loro pelle. Ma più di tutto adoravano i profumi, di qualsiasi cosa, di qualunque cosa fosse intenso. Adoravano gli odori del proprio corpo, il sudore, e passavano ore a sentire col naso inebriato il suo profumo. E quindi adoravano gli odori dell’aria, gli odori dei muschi, gli odori della terra e dell’acqua. Nella stagione dei profumi, si rotolavano nei campi senza vesti come cinghiali, si mischiavano alle erbe verdissime, umide, e i loro corpi ne acquisivano l’odore ed il colore – spesso simile a quello dei loro occhi. Nel larghissimo tempo che passavano da soli, si riposavano sulle rocce più ventose e si godevano il vento in tempesta correre nel petto. Esso portava loro gli odori misti alla pioggia delle terre ormai superate e con essi ricordi di guerra e d’amore. I profumi di mille terre diverse, di mille annate trascorse arrivavano ai loro polmoni e così avevano la sensazione incantata d’essere ovunque, svincolati dalle leggi del tempo e dello spazio. I loro respiri erano sempre profondi e coglievano la stessa quantità d’aria dei respiri dei bufali della taiga. Spesso sembravano sospiri. I rari giorni in cui le sconfinate praterie continentali non erano battute dal vento, e l’aria ristagnava immobile sotto nuvole basse, si sentivano soffocare. Il loro era il respiro degli amanti. Linee sinuose od angoli acuti, a seconda del sesso, dominavano le loro figure sino a ché morti premature uccidevano i corpi impedendone il disfacimento.


25 Gli uomini solitamente avevano capelli scuri, sovente uniti agli occhi chiari, e specie d’estate, quando la loro carnagione molto pallida diventava subito fosca, faceva una certa impressione vederli vicino alle femmine che, albine e bianchissime, sembravano appartenere ad un altro popolo. Gli Arii avevano solitamente delle espressioni fredde e indifferenti. Dei rari sorrisi le squarciavano per volare via pochi istanti dopo. I loro sorrisi erano belli come tutte le cose rare. Quanto al pianto, a lungo i popoli che per qualche periodo furono loro vicini pensarono che fosse loro completamente estraneo. In realtà, durante le danze gli Arii piangevano spesso, ma le loro lacrime, per il pudore, sembravano vincere la forza di gravità e stavano nascoste negli occhi ad annegare la pupilla. Gli Arii odiavano le vesti. Bandite d’estate, d’inverno erano mal sopportate e ridotte allo stretto necessario: uguali per maschi e femmine, si trattava perlopiù di aderenti mantelli di pelle che venivano solitamente aperti vicino al fuoco. Non li lavavano praticamente mai e l’assunzione dell’odore del proprio corpo costituiva per loro l’unico aspetto piacevole nell’indossarli. Non si specchiavano mai con le vesti indosso trovandosi goffi e ridicoli. Ogni individuo sapeva in quel gruppo di essere molto simile agli altri e questo era insopportabile. Sapeva inoltre quanta debolezza vi sia nel nascondere ciò che un’eternità oscura aveva stabilito con chiarezza. Gli Arii consideravano la compagnia un’elemosina degli dei e il loro orgoglio smisurato e feroce li portava a rifiutarla sdegnosamente come tale. La vista dell’amato da parte dell’amante era un’apparizione più che consuetudine. Ciò aveva negli Arii, come al solito, anche una motivazione estetica. Lo specchio dell'acqua aveva loro insegnato che le figure solitarie sono più belle. Le più svantaggiate in questo, a dire il vero, erano le donne. Gli efebi, appostati sulle rocce, guardavano con piacere le loro ombre spesse e spigolose, leggermente distorte dal sole – fratello, il sole – nel deserto rosso del tramonto. Trovavano bella quella figura, la sola scura fino all’orizzonte; così potente e perfetta nelle sue linee, sembrava compiacersi di sé. Le ragazze invidiavano quei ritratti naturali. La loro figura, riflessa in ombre disegnate da curvilinei gonfiori, dava alla loro abbagliante bellezza un senso infinito di misera malinconia. Quelle gambe lunghissime davano l’impressione di avere a malapena la sola forza di sostenere rotondità distribuite casualmente in un tronco magrissimo e inutile. Il loro corpo sembrava non isolarsi in un cielo, ma chiamare a soccorso o a battaglia tutte le forze terrestri. Eppure, pensavano, non si può rinunciare alla solitudine. Capivano poi che sarebbe stato bello se al seno avessero avuto un essere fragile come il cristallo di vetro, capace di assorbire la debolezza dei loro corpi restituendone intatta ed esaltata la bellezza. E imparavano presto a ricambiare


26 con luminosi sorrisi gli sguardi dei giovani guerrieri e gli intendimenti degli dei. Le donne arie non partecipavano in nessun modo alle battaglie e non avevano neanche il compito di accudire i feriti. La guerra era per loro qualcosa che si poteva soltanto immaginare, anche se sovente le stavano così vicino. Le loro uniche attività erano, oltre alla pastorizia, la danza ed il canto, nelle quali, forse, non furono superate da nessun popolo in nessun tempo. Erano anche amiche dei boschi e delle erbe, di cui conoscevano tutti i poteri. Le donne arie non indossavano gioielli. Come se per una paradossale vanità la loro pelle rifiutasse persino il contatto con l’oro. Gli uomini invece indossavano dei piccoli anelli con pietre nere od azzurre. A prima vista le femmine sembravano molto più basse dei maschi, e ciò era sostanzialmente dovuto al fatto che queste tenevano spesso le gambe leggermente piegate e la schiena eccessivamente inarcata, cosicché, sotto le pelli, sembrava esserci solo un gigantesco e sinuoso organo sessuale. A volte giravano nei prati a carponi, agitando le chiome generalmente rosse e costringendo, se viste, i ragazzi a interrompere qualsiasi attività, pagavano lo scotto della loro provocazione venendo sfiancate come giumente – nell’accoppiamento, come in ogni altra attività, gli Arii erano feroci. Le donne arie erano bellissime. La fama della loro bellezza, sin dal periodo anteriore alle migrazioni, aveva raggiunto i popoli meridionali e occidentali. Chi aveva voglia e possibilità di viaggiare, speso arrivava fino alle steppe con l’idea di vedere tali decantate meraviglie e c’è da credere che non restasse deluso. I predoni meridionali, che sapevano che molti uomini ricchi e potenti erano disposti a spendere cifre enormi per assicurarsi il possesso di un’Aria nel loro harem, a volte facevano delle incursioni nella terra degli Arii per rapire delle ragazze. La cosa presentava molti rischi. Gli Arii, era noto, non praticavano la schiavitù e non facevano mai prigionieri. Essere catturati nelle steppe equivaleva alla morte. Ma c’era di peggio. Gli Arii, a casa loro, sotto il perenne effetto dell’idromele, non si accontentavano di uccidere semplicemente, come facevano generalmente in guerra, ma volevano divertirsi il più possibile. Non è sorprendente, visto che erano dei barbari. Ai predoni che invadevano le loro terre erra riservato un trattamento davvero speciale. Le torture praticate dagli Arii erano assai variegate e la loro fama faceva accapponare la pelle a chi ne sentiva parlare. I più grandi torturatori, presso gli Arii, erano gli sciamani, benché ogni individuo in quel popolo potesse dirsi un esperto in materia. Quando uno sciamano inventava un tipo di tortura partico-


27 larmente bella, le dava il suo nome e voleva che chiunque altro intendesse adoperarla gli chiedesse almeno il permesso. Durante la tortura, spesso pubblica – torturare appartati, in solitudine, sarebbe certo stato meglio, ma era impossibile evitare che accorresse subito una torma di spettatori, persino negli angoli più selvaggi della brughiera - tutti stavano in silenzio e spesso pensavano. Pensavano a quanto era ingegnosa la tortura che vedevano praticare; pensavano a quanto sono folli gli uomini a ficcarsi in certe situazioni per procurarsi denari. Pensavano che ciò che facevano a quegli sventurati era bello, ma non glorioso. Pensavano però che tutta la vita umana fosse spietata e che quello fosse solo un modo come un altro di accettarla, di adeguarsi ad essa. Quando ai predoni andava bene, e riuscivano a fuggire dalla terra degli Arii con qualche capo di bestiame e qualche ragazza, la prospettiva di guadagni spropositati era certa. Un solo cavallo o una sola ragazza arii potevano valere una reggia. Ma, ad esser pagato, era più il gusto di acquisire qualcosa di raro ed eccezionale che il piacere del suo possesso. I cavalli e i tori ariani, fuori dalle steppe, non riuscivano mai a vivere più di un anno, sia che fosse la nostalgia della terra natia, dei loro padroni o semplicemente il cambiamento di clima. Per quanto riguarda le ragazze, il loro possesso era decisamente problematico. Le femmine arie conoscevano ogni tipo di veleni ed erano in grado di fabbricarne a partire da ogni genere di sostanza. Chi si arrischiava a tenere una fanciulla aria in casa faceva una brutta fine. E non c’era verso di tenerle sotto guardia, riuscivano sempre a trovare il modo di fabbricare un veleno mortale e di ficcarlo in corpo a chi volevano loro. Una soluzione saggia sarebbe stata ucciderle dopo aver preso possesso del loro corpo, ma nessuno aveva mai il coraggio di farlo, sia perché erano troppo belle, sia perché le avevano pagate troppo. E così il gioco si perpetuava e giungeva sempre alla medesima fine. Tanto che quando si sapeva che un uomo teneva uno donna aria nel suo harem, i suoi eredi cominciavano a dividersi i suoi beni. Oltre che per la loro bellezza, le femmine degli Arii erano note anche per la loro cattiveria. Certo in quel popolo anche i maschi erano cattivi, ma le femmine riuscivano a vincere la lotta. Nessun dubbio che se avessero preso parte alle azioni di guerra, dai campi messi a fuoco dagli Arii non sarebbe mai fuggito nessuno. La loro cattiveria era tale che se i maschi l’avessero conosciuta sino in fondo, se ne sarebbero stupiti e le avrebbero mandate in guerra al loro posto. Ma le femmine arie non tenevano ad andare in guerra, perché, seppure era divertente, c’era il rischio di farsi male e diventare brutte. Preferivano stare nei campi a bere l’idromele di nascosto, giacché berlo scopertamente era meno piacevole. Bastava rubarne un poco, perché a loro, magrissime, era sufficiente


28 un sorso per sentirsi girare la testa. Solo gli uomini più ingenui arrivavano a credere che le donne davvero non facessero uso di idromele; gli altri la sapevano più lunga e non credevano alle loro bugie. Le bugie delle donne arie spesso erano belle e gli uomini le apprezzavano. Anche se a volte quelle esageravano e gli uomini credevano di impazzire. Un giorno gli Arii trovarono il mare. E’ ragionevole pensare che lo avessero già visto di passaggio in qualche punto del loro cammino, ma che non avesse significato per loro più di tanto. Stava a Nord – o a Sud -, non era ai loro occhi che un lago salato. Lo trovarono davvero il giorno che ne capirono la natura. Non si abituarono mai a lui. Non piaceva il mare, agli Arii. E presto, senza che ci avessero mai messo piede, se li sarebbe inghiottiti tutti. Quando essi raggiunsero tutte le punte dell’estremo Occidente, il loro cammino finì definitivamente di fronte ad esso. Gli Arii, probabilmente proprio a causa del loro modo di vivere, furono sempre pochi. Dovunque andarono imposero alle terre i loro pensieri e agli uomini i loro nomi, ma alla lunga, dopo l’interruzione del loro cammino, il loro sangue finì per perdersi in troppe vene. Oggi sarebbe impossibile, forse, trovarne un ceppo intatto e quando al mondo rinasce uno di loro lo si può indovinare solo dalle sue gesta sconsiderate. La loro scomparsa fu un bene per gli uomini, che da quel giorno furono più giudiziosi. Il popolo ibrido che succedette loro preferì adattarsi a ciò che trovava davanti, riscoprì la placidità degli antichi pastori e agricoltori temporaneamente sconfitti, ma tenne sempre pronta la spada. Presto nacquero imperi potenti che forze arcane distrussero. Poi credenze lontane inghiottirono gli uomini. Il sole svanì – sempre il sole scompare in simili periodi. Cronaca di quest’epoca è cronaca di invasori, nulla sapremo degli Arii, citandola. Il sole tornò dopo un tempo quasi eterno ma non fu più lo stesso.


Una notte stellata del 1720



31

- Lei che è appena arrivato dall’Inghilterra, saprà apprezzare degnamente il telescopio astronomico fattomi arrivare dall’Inghilterra dal nostro comune amico... Lord Pembroke? E chi altri? Quell’uomo è assolutamente folle. Ha già dilapidato una parte considerevole del suo patrimonio per circondarsi di ogni sorta di diavoleria stellare. La notte, passa più tempo in terrazza ad osservare che in camera da letto. Mi chiedo come mai la moglie non abbia ancora dato fuoco a tutti quegli arnesi. Forse quella situazione fa comodo anche a lei... Ah, quanta malizia, madame... Si vede che sono di nuovo sul suolo francese... Lei è convinto che in Inghilterra ci sia meno malizia? Assolutamente. Forse sono solo più bravi a nasconderla. E le pare poco? La malizia, quando è occultata, cessa di essere tale per divenire disincanto... Questione di punti di vista. In ogni caso, anche lei, vedo, è stata contagiata dalla mania stellare di Lord Pembroke. Passa molto tempo in questa terrazza? Francamente sì. La sera è così piacevole e mite in Aquitania, si può stare all’aperto senza temere di prendersi un raffreddore, almeno per sei mesi all’anno. Come stasera, vede... Già, e il parco è così bello che viene voglia di guardare anche in basso e non solo in cielo... E poi io non ho più un coniuge da soddisfare. Mio marito è morto tre anni fa... Sono spiacente... Le assicuro che il mondo non ha perso nulla. E lei ha perso qualcosa? Cammin facendo, qualcosa si perde e qualcosa si trova. Già, in ogni caso io non mi intendo di astronomia. Lord Pembroke con me non è riuscito a trasmettere la sua passione. Forse perché, quando lo vede-


32 vo, ero sempre così stanco che non ero in grado di seguirlo, appena si metteva a parlare di cose troppo serie... Qualche volta credo di essermi addirittura addormentato davanti a lui. Trova noiosa l’astronomia? No, affatto, ma temo di non avere le basi teoriche per coglierne le sfumature. E anche per quanto riguarda le osservazioni col cannocchiale, ripeto, a una certa ora sono sempre così stanco che gli occhi mi si chiudono da soli. Quando escono fuori le stelle mi rintano io. Forse non si è mai sforzato abbastanza. Può darsi. Ma se non l’ho fatto sino ad ora, temo che non lo farò mai. Sa, in Inghilterra Lord Pembroke non è stato l’unico a tentarmi. C’è una vera e propria moda, specie nella nobiltà. Non c’è quasi castello che non abbia la sua terrazza dotata di cannocchiale. Se per questo la moda c’è anche qui. Da quanti secoli manca dalla Francia? Dopo la pubblicazione delle Pensées di Bayle e del dialogo di Fontenelle, non c’è dama che non ami volgere gli occhi alle stelle, quando il cielo lo permette... Conosco abbastanza le francesi per sapere che sono tuttora più interessate a volgere gli occhi alla terra. Ora è lei che fa il malizioso. Sono francese anch’io, madame, anche se ho passato tanti anni in Inghilterra. E se non osserva, almeno ha letto le opere della nuova astronomia? Ho letto qualche opera di Galileo, i libelli di Giordano Bruno e mi è passato tra le mani naturalmente il dialogo di Fontenelle. Ma, ad esempio, non ho mai letto una pagina di Copernico e Keplero. So, a grandi linee, per sentito dire, i punti fondamentali delle loro ipotesi stellari. Per anni, a Parigi e a Londra, ho passato intere serate ad ascoltare dibattiti infuocati sull’ordine del cosmo e sulla pluralità dei mondi. Devo dire, comunque, che ancora adesso non sarei in grado di prendere una posizione netta, al riguardo. A parole quei sistemi paiono tutti perfetti, ma lassù a controllare non c’è ancora stato nessuno. Personalmente, credo nella centralità del sole e nel moto della terra, ma, al di là di questo, non mi sento di difendere le ipotesi di un astronomo invece che di un altro. Oltretutto, in Inghilterra, nel tempo libero, ho preferito dedicarmi alla lettura della filosofia naturale del barone Verulamio e di Newton, più che alla nuova astronomia. Beh, se non sa nulla di astronomia, mi parli dell’Inghilterra. Ha imparato bene l’inglese? Ci sono state due fasi. Sinché ho fatto il precettore, i primi due anni, non sono riuscito a imparare un accidente. Durante il mio lavoro e fuori, tutti


33 mi volevano sentire solo parlar francese. Io, del resto, mi vergognavo del mio inglese infantile e quando incontravo persone che parlavano un buon francese, cedevo alla tentazione. Quando ho abbandonato l’insegnamento e mi son dato al commercio, tutto è stato differente... Al commercio? Già, la passione principale degli inglesi. Per molti anni è stato anche il mio mestiere. Poco fa ho detto di essere francese. Ciò è vero solo in parte, dal momento che ormai per metà parlo e ragiono come un inglese, sapesse come mi mimetizzo bene nei mercati di Londra! All’attività di mercante di lana ho dedicato quasi ogni goccia della mia energia per alcuni anni. Io so molto poco di lei, lord Pembroke è stato molto vago, seppure molto insistente. Mi ha detto solo che il suo nome è Paul Berry, che è francese e che per un po’ ha bisogno di lasciare l’Inghilterra. Quando ha saputo che intendo vendere una piccola proprietà nei pressi di Bordeaux, mi ha scongiurato di aspettare il suo arrivo e di venderla a lei, signor Berry, chiedendomi di darle protezione qui e di garantire per lei presso le autorità. Ora che lei è qui, credo di avere il diritto di chiederle perché ha dovuto lasciare l’Inghilterra, e perché ha bisogno di nascondersi... E’ giusto. Ma voglio dirle subito, con sincerità, che le poche cose che lord Pembroke le ha detto, l’hanno portata piuttosto lontana dal vero. Persino il fatto che sono francese, come ho appena detto, oramai è vero solo in parte. E dall’Inghilterra non sono dovuto scappare, da anni ho imparato a stare lontano dai guai. Ho deciso di tornare in Francia per mia scelta. Se lord Pembroke mi ha mentito senza motivo, potrebbe essere la fine della nostra amicizia. Io ho interpretato la sua reticenza come una misura di sicurezza, dal momento che, qui in Francia, si sa bene che il corriere, prima di consegnare una lettera, non manca di passare all’ufficio di polizia. Io, poi, sono quasi sicura che tutta la corrispondenza che scambio con l’Inghilterra e la Germania è intercettata da mille sbirri e lacchè. Ma, dal tipo di discorsi inviatimi da lord Pembroke, ho creduto di capire che, come altre volte, si trattasse di togliere dai pasticci e nascondere qualche amico suo epicureo, incappato nelle ire di qualche potente e ricercato dalle polizie di mezza Europa. L’Inghilterra, si sa, è tollerante e comprensiva, ma solo con i suoi figli; gli stranieri scomodi, sono espulsi alla prima occasione. Non si arrabbi col nostro amico lord Pembroke, madame de Rougelon. Se le ha detto qualche inesattezza è perché certe misure di sicurezza, nel mio caso, sono davvero necessarie, come le spiegherò tra breve. E se non ha detto molto sulla mia partenza dall’Inghilterra, e sul fatto che voglio stabilirmi nella provincia francese è perché, mi creda davvero, le ragioni non le ha capite nemmeno lui. Sicuramente per colpa mia, visto che evidentemente non sono


34 stato in grado di spiegargliele nel modo giusto. Ma lei sa come è fatto il nostro amico, è buono, è candidamente buono come solo un inglese sa essere; anche senza capire, e sapendo che forse non mi avrebbe più rivisto, ha deciso di aiutarmi, di accontentarmi. Ha messo a mia disposizione le sue numerose conoscenze per facilitare il mio ritorno in Francia, in particolare ha fatto appello alla sua amicizia, per farmi trovare qui, nella zona di Bordeaux, dove voglio continuare la mia attività commerciale, una sistemazione sicura. Così lei, invece di stare a Londra ad ascoltare i noiosi discorsi di lord Pembroke sulla pluralità dei mondi e sulla traiettoria del moto terrestre, ha preferito, di sua volontà, venire a fare il commerciante a Bordeaux. Diciamo che è esatto. Sentiva nostalgia della Francia? L’Aquitania è la sua regione natale? No, l’Aquitania non è la mia regione natale, sono nato a Poitiers. Devo dire che l’Aquitania non la conosco e che non c’ero mai stato prima di ora. Ma credo che Bordeaux sia il luogo più adatto, qui in Francia, per svolgere in tranquillità e, spero, prosperità, un’attività commerciale. Quanto alla nostalgia della Francia, sì, ovviamente, c’è anche quella componente, ma il discorso è più complesso. Ma allora, se lei è un tranquillo commerciante di lane, perché Lord Pembroke è stato così misterioso? Perché mi ha fatto credere, coi suoi discorsi cifrati che riconosco lontano un miglio, che lei era un “filosofo” nei pasticci, braccato dai censori? E perché lei stesso mi ha detto che misure di sicurezza sono necessarie? Perché ha bisogno di qualcuno che garantisca per lei? Intanto, se sono francese, è quasi evidente che il mio vero nome non è Berry. Quella è stata la prima delle piccole bugie dette da Pembroke, ma proprio per le ragioni di sicurezza che lei stessa giudicava necessarie. Quanto al filosofo e ai pasticci, beh, entrambi i termini sono appropriati, soprattutto il secondo a dire il vero, se vogliamo riferirli alla mia giovinezza, passata a Parigi, prima di lasciare la Francia, ormai molti anni fa. Le confesso di essere davvero curiosa. Ora che ho detto che, prima di diventare un volgare mercante di lane, facevo vita da filosofo e mi ficcavo nei guai in ogni momento, sono riuscito a suscitare improvvisamente la sua attenzione, madame de Rougelon. Ne sono felice. Questa è la sua metà francese, signor Berry, o come diamine si chiama. Qual è il suo nome francese? Si fida di un’amica di Lord Pembroke, vero? Mi faccia il racconto della sua vita, e poi parleremo di affari. Non si preoccupi, che l’aiuterò anch’io a fare mercato qui a Bordeaux, così il nostro amico lord Pembroke mi dovrà un favore.


35 Le sono grato sin d’ora, madame. Sarò lieto di dirle tutta la verità sulla mia identità vecchia e nuova. Il mio vero nome è Paul Paillole e sono nato a Poitiers nel 1680 da una famiglia borghese. Mio padre lavorava in un ufficio di esazione delle imposte. Mia madre era una donna molto devota. Devo dire che in questo, come in ogni altra cosa probabilmente, non sono riuscito a darle nessuna soddisfazione. Era un famiglia tranquilla, in fondo, non sono stato male con i miei. Ero il secondo di quattro figli. Per quello che ne so, mio fratello maggiore attualmente svolge il lavoro che fu di mio padre all’ufficio delle imposte. Degli altri due non so assolutamente nulla. Ho ricevuto da mia madre un’educazione rigidamente cattolica, come tanti altri bambini nati in provincia. Raggiunta l’età di quindici anni, grazie all’interessamento di uno zio, sacerdote a Parigi, sono entrato in un seminario retto dai gesuiti, per studiare filosofia e teologia. Santo cielo, i gesuiti! Mi guarda come se avessi nominato il diavolo, madame! Mi permetta di ricordarle che se lei è epicurea, e sono più che sicuro che lei lo sia, al diavolo non deve credere. Se ho reagito così, ho le mie buone ragioni. Tutti hanno le loro buone ragioni, madame. Ma è vero che i gesuiti, spesso, è meglio perderli che trovarli. Ho studiato in quel luogo per quasi cinque anni. A diciannove anni, ho ricevuto il titolo di abate, e, per breve tempo, ho avuto il diritto di indossare un abito ecclesiastico. Terminati gli studi, a vent’anni, sono uscito dal convento per prendere una pausa di riflessione. Non sapevo se avevo la vocazione. In realtà era chiaro che non l’avevo, ma per me, per anni, non è stato così facile capirlo. Si riferisce agli effetti del tipo di educazione che aveva ricevuto in famiglia e in seminario? A dire il vero, non tanto ad essi, anche se è indubbio che, dopo tutti quegli anni di rigido indottrinamento cattolico, ai miei occhi, qualsiasi cosa che non fosse una vita dedicata a Dio, appariva come una seconda scelta. Il fatto è che l’interesse, la passione che avevo per la filosofia e la cultura in genere, erano così forti nella mia giovinezza che li consideravo come il mio destino, la mia vocazione. Tendevo così, proprio come facevano gli altri che mi vedevano, a confondere le due cose, vocazione religiosa e amore per la conoscenza. In realtà, confondersi fra queste due cose era ed è sempre molto facile, soprattutto quando si è giovani ed inesperti. Quando i maestri vedevano che rimanevo sempre chiuso in seminario a studiare, più di chiunque altro, ne ricavavano l’idea che fossi una natura contemplativa, nata per la meditazione e inadatta alle cose del mondo. I fatti diranno quanto si sbagliavano. In ogni caso, qualcosa mi tratteneva dal fare il passo decisivo e divenire un uomo di chiesa: i dubbi.


36 Dubbi sulla veridicità della dottrina cristiana? Ovviamente. Mi dicevano di non preoccuparmi, che ci sono dei momenti di debolezza nei quali si mette in dubbio ogni cosa, che è normale, ma che ciò non significa che non si sia un buon cristiano. Ed infatti, là dentro, gli altri avevano in genere molti più dubbi e incertezze di me. Mi raccontavano delle cose che avrebbero messo in imbarazzo un maomettano... I gesuiti! Cani rognosi, li odio, li odio tutti! Si calmi, madame, la prego! Le confesso anzi che, a volte, il loro strano candore mi faceva quasi tenerezza. Ci vuole coraggio a chiamarlo candore! Che la terra li inghiotta tutti e li risputi nello spazio stellare! Cani rognosi! Madame, mi sorprende! Si calmi! Comunque, ciò che trovavo insopportabile era l’idea di arrogarmi il diritto di rappresentare Dio in terra, senza avere totalmente fiducia in lui. Credevo e credo anch’io che sia possibile essere buoni cristiani, convivendo con il dubbio; ma nessuno è obbligato a divenire un ministro di Dio, per essere un buon cristiano. Proprio per questo semplicissimo motivo, una volta che si è fatto quel passo, i dubbi diventano un peccato diverso. Un peccato che per gli altri era umanamente accettabile, o comunque riscattabile dalla confessione, e che per me non lo era. Così a venti anni sono uscito dal convento, senza sapere se si trattava di una breve passeggiata per respirare aria fresca, o di un abbandono vero e proprio. Ci ha messo molto a capire cosa doveva fare? A quel punto, no, affatto. Ho preso in affitto una camera e ho cominciato a frequentare i teatri, per me una cosa assolutamente nuova. E’ stata una folgorazione. Qualcosa di incredibile, impossibile da descrivere. Dopo una settimana, ho deciso che volevo conoscere quel mondo dal di dentro e sono entrato in una piccola compagnia, come semplice comparsa. Non fu un fuoco di paglia. Ho lavorato nel teatro per quasi dieci anni, anche se solo come attore di terza categoria. Non sono mai diventato qualcosa di più di una comparsa. Ma non mi interessava, mi piaceva l’ambiente, le persone che frequentavo. Integravo dando lezioni di latino e filosofia. Ha mantenuto qualche rapporto con i vecchi maestri e compagni, nei primi tempi? No, proprio no. Per loro deve essere stato uno shock, lo comprendo. Da seminarista ad attore di teatrini! Anch’io mi son sorpreso della rapidità con cui ho cambiato, rivoluzionato il mio stile di vita. Tanto più che presto mi son avvicinato alla confessione protestante, frequentando i commercianti olandesi e inglesi a Parigi. Pure protestante! I gesuiti, che il diavolo li porti, devono essersi sentiti davvero in colpa, per come non hanno saputo formare la sua coscienza!


37 Credo che abbiano più semplicemente pensato che mi era partito il cervello. In effetti, era vero che in quei tempi avevo le idee un po’ confuse, ma era anche comprensibile, avevo vent’anni! Della religione protestante mi attirava la possibilità di un rapporto più personale con Dio, l’impalcatura dogmatica più snella. Ma, frequentando gli attori e in genere l’ambiente di teatro, dovevo conoscere delle persone che mi avrebbero portato ben più lontano rispetto alla mia formazione cristiana. Oh, signor Paillole! Gli epicurei! I miscredenti! I libertini! Povera l’anima sua! Povera anche la sua, in tal caso, madame. Già, la mia professione di fede protestante non durò più di tre mesi. Passai dai camerini delle attrici ai salotti. E lì incontrai i liberi pensatori. Mi attirava la loro personalità più che le loro idee, almeno all’inizio. Ero sedotto dalla loro spregiudicatezza. Così ho passato con loro serate interminabili a discutere di filosofia e di religione, con la convinzione di poterli confondere facilmente, di poter affermare la mia superiorità intellettuale su uomini che consideravo niente più che dei conversatori brillanti e piacevoli. E invece... E invece? Invece dovetti rendermi conto di essere un giovane ingenuo e disarmato, senza esperienza su nulla. Il fatto di aver lasciato il seminario, di aver rotto i rapporti con i miei vecchi maestri gesuiti, d’essere divenuto un commediante mi aveva dato la convinzione d’esser l’uomo più anticonformista di Francia. Credevo di aver raggiunto il limite massimo di trasgressione intellettuale consentito a una mente umana! E quando venni a contatto con degli atei dichiarati, pensai si trattasse generalmente di uomini filosoficamente rozzi, seguaci di un grossolano materialismo, sostanzialmente incapaci di elevarsi a qualcosa di più alto. Mi resi presto conto di quanto fosse limitato il mio spirito, di quanto avessi ancora da imparare. Quegli uomini, generalmente, non erano affatto dei filosofi straordinari, però, certo, erano in grado di sgretolare le mie argomentazioni con una facilità impressionante. D’improvviso mi accorsi che pagavo il fatto d’essere cresciuto in due ambienti chiusi e culturalmente morti: la mia casa paterna a Poitiers e il seminario dei gesuiti a Parigi. Mi sembrò di non aver mai vissuto, di aver sprecato il mio tempo, la mia adolescenza. Avevo inseguito per tanti anni la conoscenza, la saggezza, e, pensavo, dopo tanto studio ero messo in difficoltà da qualche conversatore da salotto. In realtà, ora posso dirlo, ero troppo duro con me stesso. Quegli uomini, oltre ad aver viaggiato molto, ad aver fatto, a differenza di me, mille tipi di esperienze, erano anche, solitamente, molto più anziani. Avevo solo bisogno di tempo. Ma, in ogni caso, lo smarrimento che mi prese in quel periodo fu salutare. Divenne uno stimolo molto forte verso il mio arricchimento culturale.


38 Abbracciò il materialismo anche lei? Non subito, devo dire. Ero diffidente; ero divenuto improvvisamente diffidente su tutto. Mi sentivo insicuro, dubitavo di me, delle mie capacità intellettuali, della loro possibilità di distinguere il vero dal falso, il bene dal male. Avevo paura di cascare in qualche rete pericolosa, non volevo prendere una strada falsa, senza utilità e futuro, come senza utilità e valore ritenevo ciò che era stata la mia vita sino ad allora. Se avevo sbagliato tutto, significava che non ero stato in grado di usare il mio cervello nel modo giusto, che mi ero fatto ingannare da tutti e che questo, se non stavo attento, probabilmente sarebbe successo di nuovo in futuro. Ingenuo, sprovveduto e presuntuoso come avevo improvvisamente scoperto di essere, avevo il diritto di abbracciare di nuovo, con convinzione, subito, una nuova ideologia? Ci fu una nuova pausa di riflessione... Durò poco come l’altra? Non esattamente, non ci fu alcuna folgorazione come nel primo caso, e, se la mia vita cambiò rotta, ciò avvenne lentamente, senza alcuna inversione clamorosa, come quando lasciai il convento per fare il commediante. Continuai a lavorare a teatro e a frequentare gli stessi ambienti, ma, forse, stando più sulle mie, taciturno e modesto, desideroso di ascoltare più che di parlare. Per un periodo di alcuni anni smisi anche di dare lezioni di filosofia, un po’ perché non mi sentivo più in grado di farlo, ma soprattutto perché volevo utilizzare tutto il tempo che non era assorbito dal teatro per leggere. Questo provocò inevitabilmente una riduzione del mio già basso livello di vita e divenni ufficialmente uno dei tanti bohémiens spiantati che bazzicavano l’ambiente artistico, accontentandomi di ciò che arrivava, e vivendo a volte di piccoli espedienti. Non ero abituato alle ristrettezze estreme, alla vera miseria, ma il fatto di aver avuto un’infanzia austera in provincia e di aver vissuto per tanti anni in un grigio convento, in qualche modo mi avevano preparato a resistere a tali situazioni. Resistetti insomma senza troppi problemi, senza avere mai la tentazione di diventare un lacchè e senza abbandonare la legalità. Oserei dire che ero quasi felice, leggevo tanto e l’ambiente di teatro mi forniva emozioni intense, anche dal punto di vista sentimentale. Cosa leggeva principalmente, opere di filosofia? Diciamo di sì, quelle erano le letture sulle quali si concentrava principalmente la mia attenzione; filosofi inglesi come Locke e Newton, furono da me divorati. Riuscivo a procurarmi le loro opere attraverso la conoscenza di colleghi francesi che andavano in tournée in Inghilterra, o, viceversa, di attori inglesi che facevano degli spettacoli a Parigi. Qualcosa riuscii anche a procurarmi attraverso la vecchia conoscenza di qualche mercante protestante a Parigi. Altre volte, devo dire, si trattava di opere che chiamare filosofiche sarebbe


39 probabilmente eccessivo: gazzette e libelli, generalmente anonimi, che giravano negli ambienti teatrali e libertini che frequentavo; roba esplosiva, che rischiava di farci finire in galera tutti. Vi si sbeffeggiava tutto ciò che aveva legittimità, potere o semplicemente rispetto, all’interno della nazione francese: Dio, la religione, il re, la corte, la nobiltà, il clero, l’esercito, le tasse; il concetto stesso di autorità, qualunque tipo di autorità, era spesso rigettato. Trovai infine tempo per approfondire la mia conoscenza del teatro inglese, lessi molte opere di Shakespeare o le vidi rappresentare; ad alcune partecipai come attore. Quanto durò dunque questa fase dedicata, a quanto ho capito, unicamente al teatro e all’apprendimento della filosofia inglese? Per tutto il lungo periodo in cui rimasi a Parigi, sino al 1709, non smisi mai di dedicare una parte del mio tempo alla passione per la filosofia e la letteratura inglesi, ma la fase cruciale, in cui vivevo quell’arricchimento culturale come un apprendistato mistico, come un amore folle, durò circa due anni. Poi, ripeto, senza cessare completamente, le letture presero un ritmo meno frenetico e potei, diciamo così, riappropriarmi interamente della mia vita, senza essere vittima di alcun demone. Ripresi a dare lezioni private, ma ad un livello più alto, pur non potendo divenire precettore in una casa nobiliare, perché rovinato dalla reputazione di commediante. Non avrei neanche voluto farlo, credo. Non ero disposto a rinunciare del tutto all’attività teatrale, che richiedeva un impegno costante e la mia presenza ad orari inusuali, incompatibili con l’attività di precettore a tempo pieno nella dimora di qualche gentiluomo. La mia vita sentimentale, senza mai essersi interrotta del tutto, come ho detto prima, riprese slancio e intensità. Sostituii le vecchie relazioni allacciate con le attrici della mia compagnia, senza alcuna officialità e solidità, con qualcosa di più impegnativo e appagante, pur senza pensare minimamente ad accasarmi in maniera definitiva. Mi gettai nella vita dei salotti parigini con rinnovato entusiasmo e curiosità. Riguadagnai di colpo la mia antica sicurezza, il mio amor proprio e, ahimè, probabilmente, la mia presunzione ed arroganza. Ma, in quei due anni, tutto era cambiato. In che senso? Non ero più un giovane sprovveduto, me ne accorgevo io e, cosa ancor più piacevole, se ne accorgevano gli altri. Non che mi sentissi completamente formato, appagato; se avevo definitivamente acquisito uno spirito moderno e brillante, il novero delle mie esperienze non era ancora sufficientemente ricco. Ad esempio, nonostante il ragguaglio culturale con il mio tempo, con la modernità, fosse stato raggiunto con due anni di studio forsennato, non ero riuscito a trovare il tempo e i soldi per fare almeno un viaggio fuori dalla Francia. Uno solo sarebbe bastato; il senso di colpa che in quel tempo mi prendeva non appena mi staccassi dalle mie letture, non mi avrebbe consentito, pur avendo


40 del denaro a disposizione, di farne parecchi, di fare il bohémien in grande stile. Era una lacuna che sentivo, indubbiamente, soprattutto quando mi trovavo di fronte a degli avventurieri che avevano girato per tutta l’Europa e che facevano il racconto delle loro esperienze nei salotti di Parigi. Nonostante vivessi nella capitale da molti anni, avevo ancora l’ossessione di essere un provinciale, per di più educato dai gesuiti. Era una cosa di cui ormai mi vergognavo, soprattutto in quegli ambienti aristocratici dove cominciavo, seppure con riserva e senza troppa considerazione, ad essere ammesso. La Francia non mi bastava più, non nel senso che volessi andare a vivere in qualche altro angolo d'Europa, ma soltanto conoscere, venire a contatto con qualcosa di diverso, che mi permettesse di fare un paragone completo con ciò che vedevo intorno a me. Si sarebbe trattato insomma di un completamento di ciò che stavo raggiungendo in quel periodo con la lettura, all’interno della stessa passione e con il medesimo obiettivo; si trattava di imparare, di conoscere, di elevare lo spirito, ma in modo diverso: con i sensi. Cominciavo a fidarmi di essi, seppure non ne avessi fatto un mito incrollabile. Riconoscevo ad essi un ruolo importante, un’effettiva capacità e utilità nel processo di conoscenza del mondo, come, molto più tardi, ormai già in Inghilterra da anni, riconobbi ad essi il compito di plasmare il mondo, di fare di esso ciò che noi vogliamo che sia. E questo viaggio lei, naturalmente, allora, l’avrebbe voluto fare in Ighilterra. Certamente quella era la meta sognata. Il paese di Locke e Newton, del barone Verulamio Bacon, che cominciavo appena a conoscere. Là, avrei potuto anche procurarmi le opere di questi autori, che vedevo come dei veri profeti, che non mi erano giunte in Francia. E poi il paese di Shakespeare, del teatro. Il paese della tolleranza, della libertà, della ricchezza. Il paese di cui ormai avevo imparato un pochino la lingua, sebbene soprattutto attraverso letture, e dunque senza conoscerne a fondo la pronuncia. Il paese, infine, dove si erano rifugiati alcuni amici epicurei e dove altri, attori, erano partiti, semplicemente, in cerca di fortuna. Era anche un paese vicino, che non avrebbe richiesto un viaggio molto lungo e molto denaro. Una seconda scelta sarebbe stata l’Italia, il paese di Roma, di Firenze, di Venezia. Conoscevo alcuni italiani a Parigi e il loro carattere gioviale ed amabile mi aveva reso simpatica la loro terra, di cui spesso, a dire il vero, essi parlavano invece assai male. Più la amano e più ne parlano male! E’ una delle loro peculiarità. E anche a me, pur non essendo mai stato più a Sud di Poitiers, non sfuggivano istintivamente i suoi lati negativi: il malaffare diffuso, la frantumazione territoriale, l’oppressione papale - che ormai giudicavo, né più né meno, alla stregua di una tirannia. Ma erano sensazioni,


41 non convinzioni, e, anzi, i racconti tetri degli esuli italiani, invece di spaventarmi, mi facevano venire voglia di andare a toccare con mano e di vedere con i miei occhi come stavano veramente le cose. Ancora adesso, mi dispiace non essere mai stato in Italia. Una terza scelta sarebbero stati, infine, i Paesi Bassi, di cui ammiravo la pittura e dove conoscevo molti amici, commercianti che facevano la spola con Parigi, ma anche liberi pensatori e libertini, nati o stabilitisi là per sfuggire all’intolleranza cattolica. Insomma, al di là della meta, almeno per qualche settimana, i miei occhi desideravano vedere un cielo diverso, le mie orecchie desideravano sentire una lingua diversa dal francese e la mia bocca desiderava gustare cibi diversi. Ma se, a quanto da ad intendere, voleva così fortemente spostarsi per un po’, perché non è riuscito a realizzare il suo desiderio? Gliel’ho detto, madame: il tempo e il denaro. Le sembra così strano che possano essere degli impedimenti tanto forti? La mia attività nella compagnia non si interruppe un momento, era anzi la mia unica fonte di sussistenza, e tutt’altro che sicura e soddisfacente. Se avessi piantato il teatro anche solo per due settimane in quel periodo, forse non mi avrebbero ripreso, c’era la fila per sostituirmi, e probabilmente più degnamente. Avrei perso il lavoro che mi dava il pane e i soldi per comprare qualche libro, di tanto in tanto – più spesso dovevo farmelo prestare. Avrei perso anche la donna, che lavorava con me in quella compagnia e che era, anch’essa, prontissima a sostituirmi, stavolta non voglio dire probabilmente più degnamente. Lei può pensare che perdere un lavoro così poco appagante e una relazione sentimentale così traballante non erano cose che avrebbero dovuto impedirmi di partire, se davvero l’avessi voluto e sì, devo dire che in gran parte condivido questo punto di vista. Potrei dire che in quel periodo non avevo ancora riacquistato la mia sicurezza, e che perdere quanto avevo, davvero poco, certo, ma comunque tutto quello che avevo, senza avere qualcosa con cui sostituirlo mi pareva insensato, comunque mi faceva paura. Ma dopo aver detto questo, aggiungo subito che se avessi trovato i soldi per partire in Inghilterra, l’avrei fatto e che dunque il motivo di gran lunga prevalente è stato semplicemente che quei soldi non li ho mai trovati. E le assicuro che li ho cercati. Ma non sono stato disposto, come non ero mai stato disposto precedentemente in tutta la mia vita, a fare soldi con la truffa o umiliandomi con qualche potente, alla stregua di un lacchè. Le ripeto inoltre che quel periodo per me è stato difficilissimo dal punto di vista economico, vivevo di stenti, spesso riuscivo a fare un solo pasto decente al giorno. In quelle condizioni, pensare di risparmiare un po’ di soldi per fare un viaggio, prima che impensabile era semplicemente impossibile. Avevo già qualche piccolo debito, non potevo pensare di farne altri ben maggiori per andarmene in giro; nessuno del resto me li avrebbe concessi. E’ vero, conoscevo molte persone e avevo molti


42 amici, ma in quel periodo così strano e così difficile per me, quasi a tutti dovevo qualche piccolo favore, avevo già, in un modo o nell’altro, richiesto il loro aiuto, che si trattasse di un libro, una parte, un costume di scena o altro. Tutti quelli che mi conoscevo sapevano che non sarei stato in grado di restituire nessun favore che mi venisse fatto. Tale è stata la mia situazione per due anni, madame. E venivo da una famiglia borghese, certo non agiata ma dignitosa. Queste e altre cose ho sopportato per amore dell’arte e della filosofia. Anzi, mi chiedo e le chiedo quanti lo avrebbero fatto al mio posto. E difatti più di una persona non mi comprese, e parlo di persone che avevano una passione autentica per le lettere, che non le consideravano una perdita di tempo. Da molti venni considerato semplicemente un uomo in crisi, un amico perduto. Non intendevo offenderla in alcun modo. Per carità, madame, non lo metto in dubbio, lei non mi ha offeso in alcun modo. Se ho assunto un tono un po’ grigio nel mio discorso, è semplicemente perché ancora adesso parlare di quel periodo mi riporta alla mente tanti sacrifici. Eppure le ho detto e le ripeto che al contempo ero quasi felice, sentivo crescere il mio intelletto quasi giornalmente, trovavo risposte a molti dubbi e altri, in forma sempre più raffinata, mi si ponevano positivamente. Devo altresì dire che se qualche amico mi abbandonò, la maggior parte di essi invece mi aiutò, magari non sempre al meglio, ma almeno facendomi sentire un po’ di calore umano. Non è stato un periodo solo di miseria e stanchezza ma anche di soddisfazioni e di gioie. Concludo questo discorso dicendo che se potessi tornare indietro, rivivrei quel periodo nel medesimo modo, facendo le stesse cose e affrontando gli stessi problemi. I risultati di quei sacrifici, dopo circa due anni, mi hanno ripagato interamente. Già, mi ha detto che, pur mantenendo il complesso della sua origine e della sua educazione provinciali, si sentiva completamente cambiato, e in grado di conquistare i salotti con il suo esprit. Come le ho detto, ripresi di colpo a frequentare i saloni con entusiasmo, ma, oramai, avere la meglio su qualche brillante conversatore non era più il mio obiettivo principale. Anche l’invidia per i bohémiens cessò e l’idea di imitarli per un po’, se non svanì, venne comunque accantonata. In quel tempo ero diventato interamente epicureo, possiamo certamente usare anche noi questo termine, che è improprio e fuorviante, ma che rende bene l’idea perché è quello usato universalmente dagli ignoranti e dai bigotti, che sono la maggioranza. ...CONTINUA...


43 Dunque per lei è solo una questione di termini desueti: dovremo usarne uno più moderno? Mi permetta, madame, non è solo una questione di termini desueti, non mi sospetti di pedanteria, la scongiuro. Il problema, o se vogliamo l’inesattezza, suscitata dal termine epicureo è sostanziale. Le esporrò, brevemente, ciò che mi spinge ad affermarlo. Noi, io e lei ad esempio, non siamo atei e materialisti perché tra le tante dottrine di cui è possibile infatuarsi ed abbracciare, oggi, nel 1720, abbiamo scelto quella di Epicuro. O, detto in altri termini, perché siamo convinti della teoria degli atomi costituenti la materia invece che di quella platonica delle idee innate ubicate nell’iperuranio. Entrambe erano speculazioni non supportate dall’indagine diretta della natura e sono poi state sconfitte, anche culturalmente, dal cristianesimo. E questo già nell’età antica, prima della caduta dell’Impero e dell’inizio della barbarie dei secoli gotici. Ciò non vuol dire che le idee di Epicuro e Platone, ad esempio, siano semplicemente da buttare, indegne di essere conosciute da noi nati molti secoli dopo. Quello che è certo, però, è che non possiamo, oggi, prenderle così come sono, ignorando i motivi per cui gli uomini, nel loro insieme così come nei loro rappresentanti più nobili e saggi, sono giunti a non fidarsi più di esse, a sostituirle con qualcosa che, anche se a noi ora non piace, li ha soddisfatti maggiormente, si è dimostrato più utile alla loro razza, li ha portati a raggiungere traguardi ulteriori, a conoscere tutto il pianeta, ad esempio. Noi siamo atei e seguaci della materia perché, a partire da un’educazione, un indottrinamento cristiani – lei è battezzata e catechizzata come me, madame – insomma dai valori che hanno permeato la società europea per secoli, siamo giunti, poco a poco, inevitabilmente, a qualcosa di diverso che ci convince e soddisfa di più. Perché questa conversione è avvenuta non è affatto impossibile da ricostruire nelle sue linee generali, anche se, ovviamente, ognuno ha un suo percorso personale. Il nostro rifiuto del cristianesimo è un superamento di esso, ha le sue radici, le sue motivazioni, la sua stessa ragion d’essere nella modernità. Da quello che ho potuto osservare durante la mia vita, nei due paesi che conosco di più, Francia e Inghilterra, questa evoluzione, questo allontanamento dal cristianesimo, è avvenuto secondo modalità e per motivazioni spesso simili. Parlando con centinaia di liberi pensatori, ho notato infatti che le differenze in esso rilevabili erano generalmente legate più a fenomeni di carattere sociale e personale che a motivi filosofici: lo stato sociale della persona, il suo livello di ricchezza ancor più che di cultura, la sua indole personale, il suo bisogno di essere rassicurato o meno, etc. Quanto ai motivi e ai processi filosofici, rapportandoli alla storia, io li schematizzo, grossolanamente e senza originalità, in questo modo. Innanzi tutto la riscoperta della cultura antica, che ci ha fatto conoscere un’alternativa a quella cristiana, che tanti secoli or sono l’aveva a sua volta bat-


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