Il grande albero

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In una Sicilia senza tempo, nel ripetersi dei giorni di un piccolo paese, Federico un giorno ha un incontro con una bella e strana donna, un incontro che gli stravolgerà la vita, dopo il quale strani eventi e misteriose apparizioni porteranno Federico ad antiche verità. Un bar, anziani che giocano a carte, personaggi che sono l’essenza di una Sicilia sempre uguale: Luigi, amico di Federico, inconsapevolmente anche lui travolto dagli eventi; Don Pino, mafioso d’altri tempi; una donna che appare e scompare; un gatto bianco dagli occhi ipnotici; il “Grande Albero” dove tutto inizia e finisce. L'AUTORE: Marco Bileddo è nato a Palermo nel 1978. Dopo la maturità classica si laurea in Lettere Classiche e consegue il diploma di Specializzazione in Archeologia Classica. Vive e lavora come archeologo a Matera dal 2006. Da più di dieci anni si occupa di teatro, facendo l’attore, l’autore e il regista.

Titolo: Il grande albero Autore: Marco Bileddo Editore: 0111edizioni Collana: Opera Prima Pagine: 148 Prezzo: 13,00 euro

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IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le Gioca con la Banda del Booko vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei (che si legge quali è richiesto un riscatto all'autore. BUCO) all'ANONIMA Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In SEQUESTRI VAI AL SITO

questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.


Marco Bileddo

IL GRANDE ALBERO

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

IL GRANDE ALBERO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Marco Bileddo ISBN 978-88-6307-276-1 In copertina: immagine di Marco Bileddo

Finito di stampare nel mese di Aprile 2010 da Digital Print Segrate - Milano


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I Dove la luce vince l’ombra

E pensare che, fino a quel giorno, non avrebbe mai immaginato che nella sua mente delle parole potessero comporsi in una frase del tipo: arrivò trascinata dal tepore dell’estate che, bruscamente, in punta di piedi, salutò la dolce primavera, questa volta più fresca del solito. Il vecchio bar era sempre lì: quante stagioni aveva visto passare, quanti inverni solitari lo avevano rattristato e quante estati afose lo avevano affollato di persone. Ormai la vecchia insegna non s’illuminava più e Federico non intendeva più ripararla; ci aveva perso la salute dietro a quel bar: riparare questo, aggiustare quest’altro, comprare la nuova macchina del caffè; borbottava e sbuffava ogniqualvolta, alzando gli occhi, si vedeva davanti a quella vecchia insegna spenta ormai per sempre e, tendendogli contro il pugno a mo’ di minaccia, imprecava contro tutti i santi che conosceva. Erano vent’anni che si lamentava di quel suo vecchio bar senza mai stancarsi. Non si sarebbe facilmente convinto a chiuderlo e andar via, più che per interessi economici (non gli rendeva più di tanto, lo stretto necessario per vivere), si ostinava perché lo aveva ereditato dal padre. Era il bar più antico del paese: centoventi anni aveva! E ne andava veramente fiero, anche se molti acciacchi erano palesi e recavano un fastidio immenso al povero Federico. Quanto aveva voluto bene a suo padre: sì, un tipo un po’ all’antica, manesco a volte, ma in fondo la persona più in gamba che egli aveva mai conosciuto. Che vigore quell’uomo; era instancabile: lavorava tutta la giornata fra il bar e quel piccolo orticello dietro a casa, che coltivava con ostinata insistenza, sebbene non era mai riuscito a mantenere in vita quattro pianticelle. Non aveva mai tempo per riposare e anche la sera, quando ormai il sole se n’era andato, ed era lecito riposarsi, egli invece dedicava quelle poche ore al figlio: rimaneva con lui davanti alla casa, guardando l’infinito tramonto, il cui rosso rimbalzava tra le pareti delle colline tutt’intorno; e l’imbrunire sembrava così dolce accanto a suo padre, l’aspra desolazione di quei luoghi diveniva piano piano più sopportabile. Ormai era grande Federico, non poteva più perder tempo a


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guardare l’imbrunire, e poi non sarebbe mai stato tanto bello come quello che guardava appoggiando il capo sul poderoso braccio del padre. Si sedette su una delle vecchie sedie di plastica verde, un verde ormai sciupato e scolorito dal cocente sole di tante estati. Accavallò quelle sue lunghe e lisce gambe, che sembravano scolpite dalla mano di un antico e mitico artista, modellate su qualche divino blocco di marmo, simile a una di quelle tante statue che Federico, da ragazzo, spesso contemplava, rimanendo estasiato, sul suo libro d’arte; i suoi occhi non avevano mai visto tale bellezza in carne e ossa. Ora se la ritrovava lì, seduta su una sedia del suo bar, come se fosse stata creata proprio da uno di quegli artisti. Era soave, quasi immateriale; come poteva la natura creare tali bellezze, si chiedeva. Rimase bloccato. Aspettò qualche minuto dentro al bar, nascosto grazie alla complicità dell’ombra, e ammirava i giochi che i raggi del sole, delicatamente, facevano sulla sua pelle, sui biondi capelli che fluivano all’indietro come cascata d’oro. Solo gli occhi non riusciva a scorgere, perché coperti da grossi occhiali scuri; che peccato! Che peccato mortale! Sicuramente una donna così bella non può non avere degli occhi splendidi; perché coprirli? perché non dare al mondo la possibilità di goderne? Non s’era mai vista e non era mai nata in paese una donna tanto bella. Forse un tempo. Si ricordò all’istante che, quando era piccolo, i vecchi del paese, che si riunivano al bar, raccontavano di Teresa, una donna stupenda, dietro alla quale molti si scannavano come galli inferociti; lui era piccolo e certe cose non le capiva; ma ora sì che le capiva, e non poteva biasimare quegli uomini. Anche lui adesso avrebbe fatto delle pazzie per quella donna. Muoveva il piede nervosamente, esile e bianco come se mai lo avesse poggiato a terra. Un leggero venticello le sfiorava i capelli e le agitava la soffice gonna, così da scoprirle le ginocchia: e Federico fantasticava. Poteva soltanto fantasticare; lui un semplice barista di un semplice e sperduto paese, lei una cliente, sicuramente straniera e ricca. Avrebbe semplicemente ordinato, poi avrebbe pagato, e dopo se ne sarebbe andata lasciando il suo profumo, che a sua volta sarebbe stato portato via dal vento. Ma sognare è dell’uomo, e Federico sognava da una vita; nulla cambiava: il vento era sempre lo stesso; il sole riscaldava sempre alla stessa maniera; e la vecchia insegna non si sarebbe più accesa. Questo paese polveroso lo aveva stancato, ma Federico era unito a quel paese da un vincolo indissolubile, un terribile cordone ombelicale, che ormai lo soffocava. Vole-


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va vedere soli diversi invece, sentire sulla pelle il soffio di venti nuovi, recidere quel cordone. Scoprì finalmente gli occhi: due spicchi di cielo che illuminarono tutt’intorno. Posò gli occhiali sul tavolino bianco, aprì la borsetta di pelle nera e prese un pacchetto di sigarette, dal quale n’estrasse una. La portò alla bocca con soave delicatezza e l’accese con altrettanta soavità. Fumava con una nobiltà mai vista. Si sarebbero perse volentieri giornate intere soltanto per ammirarla mentre fumava. Il fumo circondandola le dava un senso d’immaterialità, come se veramente fosse stata una visione, come se veramente fosse l’anima di qualche antica statua da poco riscoperta, da poco riportata alla luce. Era tremendamente difficile uscire dal bar, come se non avesse mai servito a una donna. In paese turisti se ne vedevano pochi durante l’anno. E poi: “Perché vuole visitare proprio questo paesino? Con tutto quello che la Sicilia può offrire. Qui non ha niente da fare” si chiedeva; “forse era solo di passaggio, forse aveva voglia di assaporare la visione e la genuinità delle nostre argillose colline; forse solo per questo?”. Ma Federico non era proprio pronto a ricevere una donna così bella. Cosa poteva pensare del bar; non funzionava neanche l’insegna, pensò, mandando una cupa occhiataccia alla poverina. Si guardò attorno, e un tremendo sconforto percorse tutto il suo corpo. Dentro al bar le luci erano spente: con un sole così sarebbe uno spreco tenerle accese; ma una scusa del genere non poteva celare il senso di squallore che il buio infondeva con una prepotenza inaudita, sembrava quasi che il buio nascesse proprio da quelle pareti; e le mosche, che con quel loro appiccicoso ronzare davano ancor più quel senso di squallore all’ambiente. Se la prendeva con se stesso, imprecando contro tutti i santi che conosceva, e ne conosceva parecchi! Era la prima volta che, con sconsolata disperazione, si preoccupava dell’estetica del suo bar; già! come se a qualcuno dei suoi compaesani potesse minimamente e lontanamente importare dell’aspetto del bar; era sempre stato così, e tutti lo conoscevano così per com’era; quella sua semplice architettura: muri bianchi, screpolati dal tocco del tempo; crepe sui muri, rughe antiche; quella sua pensilina tutta arrugginita, che ancora, dopo tutti quegli anni, cercava, e in qualche modo ci riusciva, di fare ombra. Il fascino di quel bar risiedeva solamente nell’acre profumo del vino, che ancor prima di essere bevuto ubriacava gli anziani del paese. Ma adesso era diverso: voleva fare bella figura davanti a una cliente, una cliente vera; una di quelle che, quando prendono un caffè, quasi sfiorano con le labbra il bordo della tazzina. Durante tutta la sua vita, che scorreva lenta in


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questo polveroso paesino, le sue aspettative erano misere, diciamo pure la verità, erano nulle. Forse, qualche volta, un pensiero diverso dai soliti gli era balenato per la testa, ma, come un gioco d’artificio si sera spento subito in aria; nemmeno il tempo e il piacere di vederlo scivolare verso terra; anche quella voglia di piantare tutto e andarsene via, magari nel continente, che ogni tanto gli martellava il cervello con lieve insistenza, era solamente, diceva con infinita amarezza, uno strambo pensiero. Un profondo respiro e uscì. Il forte sole all’improvviso lo accecò e dovette coprirsi con una mano gli occhi. Un’irresistibile attrazione lo spingeva verso quella donna. Si avvicinò: «Buongiorno, cosa vuole che le porti?»; si voltò leggermente verso Federico, posando la bianca sigaretta sul posacenere color verde sbiadito che si trovava al centro del tavolino; guardandolo sorrise, e quel sorriso, inaspettato e improvviso, lo pietrificò. «Oh, buongiorno. Credevo non ci fosse nessuno. Sa, oltre lei e il capostazione, si direbbe che il paese sia abbandonato. Non ho incontrato proprio nessuno per le strade». Avrebbe preferito servirle immediatamente qualcosa, per poi infilarsi di corsa dentro al bar. Non era solito parlare con i turisti. Ogni volta che si trovava di fronte a qualche estraneo il suo cervello entrava in sciopero generale: le sue labbra sembravano serrarsi, cementarsi, chiudere all’interno tutte le parole. Era combattuto tra una grande voglia di sedersi e parlare e una tremenda e angosciosa paura di poter apparire goffo e ridicolo; in fondo era soltanto un semplice barista, di un piccolo e semplice paese. Continuava a fissarla, era ancora meravigliosamente più bella da vicino: quelle labbra rosso fuoco, brillanti ancor di più sotto i raggi del sole, lo facevano sognare. «Allora, è deserto o no questo paese?». «Come dice?». Sarebbe stato più contento se un fulmine in quel momento gli fosse caduto in testa. «Dicevo che questo paese sembra deserto». Lei era alquanto divertita, consapevole forse che la sua presenza era come un terremoto per quel povero barista. «Sa signurina, verso le due, dopo pranzo, tutti si riposano. È un’usanza di noi siciliani. Chi ci voli fari, questo sole concilia tanto il sonno». Chissà se si era saputo esprimere bene; quel suo accento non lo poteva soffrire, era uno dei tanti rimproveri che si faceva. Ma quale rimedio poteva esserci… «Una bellissima usanza la vostra» rispose con un sorriso che raggelò il povero Federico; si sentì disarmato, come se quel semplice sorriso gli


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avesse succhiato via tutte le energie. Rimase immobilizzato come un babbeo. Le cicale dolcemente intonavano solenni inni al sole, che sembrava anch’esso attirato da quella donna; un leggero vento di scirocco massaggiava le sue rosee gote. «Non mi sorprende per nulla. Anzi, devo confessarle che, appena scesa dal treno, non so, ma mi sono sentita pervasa da una strana sensazione di torpidezza, un senso di rilassamento tale che mi sarei messa subito a dormire». Perché doveva rivelare queste sensazioni proprio a lui, alla prima persona che aveva incontrato in paese? Ma Federico ormai si era sciolto, s’era scongelato sotto il calore dei bianchi sorrisi che lei a ogni frase lanciava inconsapevole del loro effetto. «Sa signurina, quando qua in Sicilia il sole picchia, lo fa veramente, mica scherza. Non fa come al Nord, che si affaccia, si fa vedere e manco il tempo e se ne va’. È qui… qui in Sicilia che abbiamo il vero sole». Scoppiò in una gran risata che spiazzò il povero Federico. Sicuramente aveva commesso qualche gaffe. Ma chi glielo aveva fatto fare: parlare in maniera così disinvolta! Doveva solamente prendere l’ordinazione, servire e basta! e invece probabilmente si era reso ridicolo. Una situazione strana. Federico per sua natura, era alquanto taciturno. Le parole contavano poco nella sua vita; amava ascoltare i suoi clienti – sempre gli stessi – che ogni giorno raccontavano le stesse cose, e questo rafforzava quel senso d’immobilità temporale che si respirava in paese. Racconti ripetuti con le stesse intonazioni, con le stesse cadenze, con le stesse risate, sempre alla stessa ora. Non cambiava nulla. Ma quello fu un giorno nuovo. La sua presenza s’insinuò fra gli ingranaggi di quella meccanica ripetizione giornaliera con un’assurda prepotenza, senza chiedere il permesso. «Scusi, forse l’ho offesa? Lei è del Nord, vero?». Un rosso intenso salì d’improvviso dalla pianta dei piedi fino a ricoprirlo tutto, fino alla punta degli orecchi! «No, ma cosa dice, non mi ha offeso minimamente. Sa perché ridevo? Ridevo per il vostro modo di parlare». Ecco, come sospettava. Doveva starsi zitto. Perché parlare, perché rovinare tutto! «Sa signurina, ogni tanto mi scappa qualche parola in dialetto. Mi deve scusare, ma è una brutta abitudine». Un’altra risata, ancor più fragorosa. “Sono veramente un idiota”, pensava fra se, scoraggiandosi ancor di più. E non voleva finire quella risata. Era, per Federico, una frana violenta che cadeva tutta sulla sua testa.


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«Ma cosa ha capito! Non intendevo dire questo. Io mi riferisco alle vostre espressioni così… come posso dire, sì, così colorite». E rideva…. Che gioia! Che voglia di vivere sprigionava, una bufera solare da tutto il suo corpo, sinuosa espressione di bellezza che, ormai, aveva avviluppato in una dolcissima morsa la mente di Federico. «Il vostro modo di esprimervi è proprio come la vostra terra: bella, calda, a volte arida, a volte fertile. Comunque è proprio vero, il vostro sole sembra diverso, sembra bruciare veramente la pelle». E rimase un po’ assente, guardando chissà quale orizzonte. Federico, che era rimasto confuso da quelle parole, ora si trovava nell’imbarazzo totale: era rimasto lì impalato, e aspettava non osando interrompere quel momento. «Oh, scusi tanto» e, rimettendosi quegli occhiali scuri, freddamente ordinò un caffè. Si era dissolto così presto quel sogno. Era il suo destino. Ancorato per sempre a quel suo bar, e non avrebbe mai avuto la possibilità di prendere il largo verso nuovi mari.


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II Oscure presenze

Puliva con svogliata intenzione il bancone, con lento gesto, che quasi sembrava si dovesse addormentare da un momento all’altro. Insieme alle solite mosche, – già clienti fissi – nel bar vi erano le solite persone, non più clienti, ma il bar stesso, oggetti d’arredamento. Se non fosse stato per loro quel misero locale sarebbe rimasto aperto solo per le mosche, che sembravano non aver la minima intenzione di abbandonarlo. Come al solito il bar era quasi al buio; il soffocante calore del denso buio veniva rinfrescato dalla luce del neon e da quel poco che dai lampioni della strada riusciva a entrare a stento attraverso le frange della tenda di plastica multicolore. Da quando ebbe quella visita, quasi un sogno mistico, Federico non riusciva più a guardare il bar con amore, ma giorno dopo giorno ne era disgustato, non sopportava quel suo pungente odore di vino. Accostava con lenta sicurezza i bicchieri sul bancone, ma con la mente era altrove. I discorsi dei suoi vecchi clienti, più vecchi di loro, si mescolavano agli odori ammuffiti dell’ambiente, e quasi ubriacavano il povero Federico. Che antichi discorsi! Discorsi di guerra per lo più, di quando le nostre terre erano più genuine, e la Sicilia era la Sicilia, che ancora all’epoca non aveva perso l’antico odore dei Ciclopi. Balenava il ricordo di suo padre; ma erano ricordi vaghi, a malapena intravisti tra la nebbia dei suoi pensieri, che diventavano insopportabili: ronzio di mille calabroni, che giravano in circolo, un ripetuto e ritmato girotondo di pensieri; pochi ma ostinati: un treno che parte su binari nuovi; la sagoma di quella donna che, come in quel giorno, anche nella sua mente si allontanava, con dolce ondulazione, fra la calura di un sole a lei sconosciuto. Rauchi brontolii di vecchi catarri risuonavano fra le stanche mura del bar, e rimbombavano sempre con la stessa cadenza nella testa di Federico, che avrebbe voluto essere altrove piuttosto che al lugubre buio di quello sgangherato bar. Non faceva più caso all’insegna spenta, forse per stanchezza, o perché aveva esaurito la conoscenza dei santi ai quali poteva lanciare bestemmie. La rugosa voce dei vecchi si faceva più ru-


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morosa e fastidiosa, ma non avrebbe mai potuto azzardarsi a farli stare zitti. Queste nostre tacite leggi! I vecchi, qui da noi, sono tanti papi, immortali e intoccabili, come se aleggiasse intorno a loro un’aurea patina di divinità. In loro è come se fosse conservato tutto lo scibile umano, come se immagazzinassero e custodissero leggi e verità a noi ignote, e che forse, quando saremo noi vecchi, ci verranno tramandate durante qualche antico e misterioso rito. I vecchi sono la nostra storia, in loro c’è il profumo della terra, lo spirito del mare, la millenaria vecchiaia di quest’isola, immensa quanto tutta la storia. Forse a Federico tutto questo importava assai poco, ma inconsciamente, e per una strana e connaturata alchimia mistica e divina, era tutt’uno con la sua terra, così come lo sono tutti i siciliani; e in tutti scorre nelle vene, fin dalla nascita, un po’ del sapore della terra, un po’ dell’odore del mare e un po’ dell’ustionante alito del sole; questi naturali ingredienti, mischiati insieme, producono una miscela talmente vischiosa e magica che, anche lontano da questa terra, ogni siciliano, chiudendo solamente gli occhi, immerso nel solitario buio, riuscirà, e senza nessuno sforzo – così potente è questa miscela – ad ascoltare nascere dentro al proprio corpo gli echi che dal profondo irrompono imperiosi: lo sciabordio schiumoso del mare che spande piano lo spinoso suo sapore, fino ad arrivare a solleticare e irritare lievemente la gola; e anche in mezzo a un freddo impetuoso, potrà scaldarsi soltanto con il ricordo del sole di Sicilia. Era una verità che Federico conosceva benissimo, in fondo non gli dispiaceva proprio, perché era conscio che, volente o nolente, il suo posto era dietro a quel bancone, e nessun sogno si sarebbe mai realizzato, nessun treno sarebbe partito con lui. Il rumore delle carte da gioco che venivano sbattute sul tavolino con veemenza inaudita, diventava sempre più forte, e sembrava dovesse diventare sempre più aggressivo. È uno solo l’esito finale di una partita di carte fra alcuni anziani siciliani: litigare, ovvero vuciare, come si dice da noi, cioè cercare, chiedendo aiuto a tutte le forze che il proprio corpo può dare, di far valere la propria ragione, gridando a squarciagola gl’insulti e le bestemmie più ardite. Così per l’ennesima volta quella partita di carte stava finendo a schifiu. Federico era sul punto di crollare. “Perché fanno così? Se solo avessi più coraggio! e invece devo rimanere qua fermo, immobile, fingendo di sorridere pure. Ma che divertimento c’è nel vedere ogni giorno la stessa partita di carte?!” Tanta amarezza in queste pesanti parole, cariche di tutta quell’energia che rimaneva prigioniera dentro di sé, e che sprigionava la propria potenza, come la lava dell’Etna, solo nella sua testa. Nulla traspariva in lui.


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Sembrava un pupo, sì un pupo di zucchero, dolce e immobile all’esterno, così da rendere felici tutti coloro che lo leccano… ma guai a romperlo, perché dentro non c’è niente, e poi finisce subito. e in lui vi era un vuoto incolmabile, un vuoto di disperazione; si sentiva come colpevole di non aver portato a termine chissà che cosa; come se in uno dei suoi cassetti ci fosse, polveroso e capriccioso, un romanzo da completare, e per chissà quale strano impedimento, non trovasse mai il tempo e l’ispirazione per finirlo. Si sentiva impotente. Ma impotente per che cosa? Chi poteva saperlo?! Certamente lui non lo sapeva, ma era una forza incontrollabile, la piena di un fiume sotterraneo che s’ingrossava sempre di più, e non sarebbe stato in grado di arginarlo, doveva farlo sfogare in qualche modo. Quel giorno la misura era colma. Ma non potendo cacciare fuori i suoi beneamati clienti, dovette cercare una soluzione efficace che non provocasse risentimenti da parte dei suoi venerandi ospiti. L’unica soluzione possibile era quella di chiudere il bar facendosi venire un improvviso malore. Certo, interromperli nel bel mezzo di una partita infuocata come quella, non era facile, ma doveva farlo, era qualcosa d’inevitabile, che gli dettava la sua anima, non poteva più resistere alle violenti pressioni interne, a quel turbine che dentro di sé continuava, con spietata follia, una devastazione inimmaginabile. Si avvicinò con lenta cautela, cercando una formula gradevole, qualcosa di gentile. Ma in quel momento non nasceva nulla nella sua mente, come se dentro di sé ci fosse una sorta di sciopero generale; il suo corpo era rigido e gelido come un pezzo di marmo appena estratto da una cava. Il suo passo era talmente lento che pensò di non farcela ad arrivare a quel tavolino. Quasi sottovoce proferì alcune parole, ma il vuciare dei vecchi era così prepotente che coprì totalmente l’esile voce di Federico; cercò di insinuarsi, di incunearsi tra le feroci parole di quegli uomini, e dopo molti sforzi ci riuscì. «M’aviti a scusari,» quasi gli tremava la voce, non sapeva se per timidezza, o perché quel finto malore gli si era concretizzato veramente «siccome non mi sento molto bene, vorrei chiudere il bar e andarmene a casa». «Federico, l’abbiamo iniziata da poco la partita, e tu vuoi chiudere», disse Don Pino alzando lentamente la testa. Gli occhi si scorgevano a mala a pena, coperti dalla coppola di velluto marrone che ormai faceva parte del suo corpo. Gli occhi di Don Pino erano neri, piccoli, sembravano du’ coccia di carvuni, profondi come il cratere dell’Etna, micidiali come la sua lava: bastava solamente mezz’occhiata, uno sguardo di tra-


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verso, per far venire i brividi a chiunque. Era come un padre per Federico. Don Pino era stato il migliore amico di suo padre, ed era in casa sua quando Federico nacque, l’aveva visto crescere; correre per i suoi giardini, tirare sassi dentro le sue gebbie, rincorrere le sue vacche. Federico aveva una sviscerata riverenza per quell’uomo, per quel monumento di potenza, di fatica e di rispetto. Rispettava ed era molto rispettato, uno sceriffo per quel paese, un mafioso d’altri tempi, uno di quelli che non è stato per niente scalfito dall’arrivo dei tempi moderni: la sua coppola è sempre la stessa, vecchia rattoppata, ma pura, non si è trasformata in cappelli moderni, ma è rimasta quella dei suoi antenati. «Minchiuni, proprio adesso t’avevi a sentiri mali, proprio quannu stava vincennu. E va be’, se ti senti male ce ne andiamo». Si alzarono lentamente, lamentandosi di dover abbandonare la partita di carte così presto – l’avevano iniziata appena da mezz’ora – e di ritornarsene a casa. Un brontolio di sottofondo accompagnava quella vecchia processione verso l’uscita del bar. La notte era fresca, stranamente non vi era umidità, e sarebbe trascorsa bene, senza soffrire troppo il caldo a girarsi e rigirarsi sul materasso, inzuppati dal sudore. Dopo una decina di minuti, quando ormai la processione si era dileguata tra i vicoli del paese e aveva lasciato solamente l’eco di quel brontolio, Federico si apprestò a chiudere il bar, sistemando le ultime cose. Chiuse la saracinesca e il rumore rimbombò per tutta la piazza, ed egli si voltò scrutandosi intorno, quasi spaventato se qualcuno avesse sentito quel baccano, come se stesse scappando o fosse un ladro. Non c’era nessuno in piazza; era mezzanotte, e quasi tutto il paese forse stava dormendo; solo qualche cane che andava sbadigliando per la piazza, e qualche gatto in cerca di un posto per poter cenare in santa pace. Si avviò, tenendo le mani in tasca e la testa bassa, quasi sconsolato, non sapendo neanche il perché. Percorse la solita strada, che da troppo tempo percorreva, e arrivò di fronte al portone di casa sua, la casa che era di suo padre, che gli lasciò insieme al bar. Guardò intensamente quel portone e maledì suo padre e quella sua ostinata preoccupazione per il futuro del figlio; che ne sapeva lui del futuro del figlio; programmargli la vita è servito forse a qualcosa? Si nascondeva dietro a quella scusa ripetuta e banale che i piccoli paesi non danno mai nulla, soprattutto quelli della nostra isola, come se quest’isola fosse cinta da una muraglia altissima, invalicabile, indistruttibile, perenne, messa da chissà quale mano divina, da chissà quale dio che ha voluto punire il suo popolo, provocando così un’immane diaspora, che dura da troppo tempo! Ed egli voleva fare parte di questa diaspora; sì, scappare, ma non per vi-


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gliaccheria o per snobismo, ma perché il suo animo gli dettava questo, gli aveva sempre suggerito che il suo posto non era qua. Indietro era difficile ritornare, e più andava avanti negli anni, più si cementava quel suo legame con questa terra, più diventava consapevole del suo futuro. Un futuro che in tutti quegli anni non gli aveva regalato nulla, nemmeno la felicità di costruirsi una famiglia. Mise la chiave nella toppa, ma si fermò subito: perché entrare in una casa vuota senza che nessuno ti accolga? Il buio non ti può accogliere calorosamente. Ritornò su i suoi passi, rifece lo stesso percorso di prima. Spuntò su quello scenario architettonico che era la piazza del suo paese; la luna che prima, camminando fra le stradine, non riusciva a scorgere, d’improvviso sorse maestosa, un faro cosmico a illuminare la barocca facciata della chiesa madre; quella giallastra luce, un po’ mistica, in quella serata piena di rabbia, dava un effetto di chiaroscuro di un’eccezionale bellezza; quei putti, quei capitelli, così magistralmente scolpiti, sembravano animarsi, iniziare un magico spettacolo in onore di quell’unico spettatore. Non un accenno di stanchezza si manifestava nel suo corpo, eppure la giornata era stata faticosa. Il sonno quella notte non si voleva impadronire di lui: rimaneva distante, lasciandogli il gusto di assaporare quella bellissima notte. Rimase per un po’ seduto sulla scalinata della chiesa ad ammirare il manto nero che misterioso copre il nostro mondo. Non voleva angosciarsi con pensieri complicati, ma guardando un cielo stellato così nitido era inevitabile. Era possibile che Dio si ricordasse di lui e di quello sperduto paesino in quel momento? Forse Dio si occupa solo dei potenti, dei fortunati… no, non erano suoi quei pensieri; non si era mai troppo interessato alla religione, ma gli fu imposta, com’è nostra tradizione. La nostra non è una religione gioiosa, che può far crescere sempre più la voglia di vivere, ma è triste, luttuosa, sofferta, come se tutti gli uomini dovessero soffrire così come ha sofferto Cristo, come se a tutti spettasse una pesante croce da trascinare per tutta la vita. E non è il rosso, né il giallo, né il verde brillante il colore di questa nostra religione, ma il nero, un lutto che ci colpisce fin dalla nascita. Una religione rifatta. Forse perché la nostra terra é una terra di croci disperse su tutti i campi, in ogni collina, in fondo a ogni nostro mare! Un mare di sofferenze ha bagnato sempre questa terra, non lasciandogli mai il tempo di respirare, di gioire, di vivere. Una guerra che dura da quando Ulisse approdò in quest’isola, prima solo dimora degli Dei. Forse egli ora conosceva il vero valore di Dio? Oppure il vero significato della sua vita? No, non ne aveva la minima idea. Rimuginava ogni tanto sul perché si nasce e si soffre, sul perché il vento soffia, sul per-


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ché il sole sorge ogni giorno; sì, perché il sole s’affaccia ogni giorno a guardare questa triste terra e i suoi cupi abitanti? Chi lo sa. Si sa solo che respiriamo e continuiamo a vivere. “Se solo sapessimo il vero scopo della nostra esistenza?”, si chiedeva con lo sguardo fermo, immobile, ipnotizzato, come quello della luna che rimane lì, da miliardi d’anni senza esprimere mai un’emozione, velata da quell’innaturale maschera. La chiesa, solenne, come un fratello maggiore, sembrava confortarlo. Gli scalini erano freschi, davano una sensazione rilassante al suo fondoschiena. Sarebbe stato meglio andarsene a casa e mettersi a letto? In quel letto gelido, sotto quelle bianche lenzuola che infondevano una sofferta desolazione? No! Era sicuramente meglio restarsene sotto la pallida luce della luna, e vivere a fondo quella notte come non aveva mai fatto. Chissà se il paese, nascosto dalle tenebre, cambia volto, a dispetto di tutti i suoi abitanti che lo hanno sempre visto in questa maniera? Perché si faceva tutte quelle domande? Era animato da una strana energia interiore che lo tormentava e lo provocava; come se un orrido diavoletto all’interno della sua anima continuasse a punzecchiarlo, senza lasciarlo in pace, istigandolo a pensare le più ardue assurdità, le più nascoste fantasie, costringendolo a farsi domande così estranee al suo essere e al suo modo di pensare. Era una notte magica, oppure cominciava a risvegliarsi qualcosa dentro di lui? Sì, qualcosa sentiva dentro, come se quella notte fosse stato il voltare pagina del romanzo della sua vita, come se per quarant’anni non avesse fatto altro che leggere sempre la stessa pagina; chissà da quante pagine era composto questo misterioso romanzo. Ora, dopo tanti anni, si accingeva a leggerlo con il cuore alla gola, un po’ sgomento e impaurito perché non sapeva a cosa andava incontro, ma con un coraggio inaspettato; si era accesa una vivida fiamma all’interno del suo corpo, che bruciava in maniera sovraumana. “Se il destino ha voluto che io nascessi qui, lo accetto; ma non potrò mai accettare che la mia vita passi così, come un ulivo in un uliveto. Io voglio essere rondine, che arriva, si posa su un ramo, riparte, ritorna, perché il cielo è suo, e nessuno la può fermare. E voglio la saggezza del mare, che nello stesso momento si trova in tutti i luoghi e conosce tutto, e non rimane mai immobile, ma fluisce, rifluisce, sbuffa e distrugge, e in eterno moto sta”, pensò con un’energia straordinaria; i suoi pensieri scivolavano via come fiumi in piena, e non era in grado di fermarli. Non aveva mai avuto simili pensieri. In genere erano pochi e tutti concentrati sul suo bar; doveva stare attento a molte cose per poter mandare avanti quel bar senza problemi, e per ciò non vi poteva essere posto


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nella sua mente per un pensiero diverso. Ma quella notte la sua mente fu sgombra da quei giornalieri e impertinenti pensieri, lasciando via libera tutto quanto potesse occupare la sua mente, non gl’importava che tipo di pensiero, l’importante non fosse attinente al bar. Quella notte pensò a tutto, rivide tutta la sua vita. Rinacque in lui l’immagine di sua madre, distesa su quel nero letto al centro della stanza; e nella foschia di quel ricordo rivide se stesso, un piccolo bambino innocente in un mondo di terrore, che non capiva bene cosa ci facesse la sua mamma ferma su quel letto, che non capiva bene perché non gridasse più; erano stridule quelle voci, che s’infilavano dentro agli orecchi e rimbombavano la notte; sì, stridule e acri, ma tutto il suo mondo all’epoca, voci di sirene per lui. Per troppo poco tempo poté disubbidire a quelle voci. Quel bambino costretto a baciare sulla guancia la povera morta, tra le cantilenanti litanie luttuose dei parenti, messi a cerchio come un coro greco a proteggere il corpo della propria eroina; piangeva, e non sapeva bene il perché, piangeva solamente perché sentiva gridare gli altri. Miraggi di ricordi che lacerano lentamente e indelebili rimangono queste cicatrici. Era stato privato del naturale amore di una madre, che in quei pochi anni, quasi presagendo il proprio futuro, si diede tutta; sì, diede tutta se stessa alla famiglia, perché quello era il suo ruolo, quello era il personaggio che doveva interpretare durante la sua vita; era nata per recitare quella parte, doveva renderla nel miglior modo possibile, nella maniera più naturale; e per quei pochi anni, fu la migliore attrice del mondo. Si stropicciò violentemente il viso con le mani, cercando di eliminare quel pensiero, come se fosse incollato sulla sua pelle. Si alzò di scatto, e ficcandosi le mani in tasca, come a voler bucare la fodera dei pantaloni, si avviò mesto per una stradina adiacente alla chiesa madre, buia più del buio. Voleva camminare, non rimanere fermo, perché rimanendo fermi si perdono attimi importanti. Non dovremmo mai regalare neanche un secondo al tempo, ma dovremmo vivere tutto; e lo stare fermo in quella notte per lui era come non vivere; aveva regalato quarant’anni di vita al tempo, e ora voleva tenerla tutta per sé questa vita e respirarla a fondo. Anche se buia, percorse quella stradina come se ci fosse stato pieno giorno: conosceva quel paesino a memoria, ma si era stancato di conoscerlo a memoria. Spuntò su un’altra piazzetta, dietro alla chiesa madre, e qui venne abbagliato dalla luce della luna. Scivolò, come un lampo improvviso, un’ombra sulla parete bianca di una casa. Si voltò furioso, per vedere chi ci fosse a spiarlo: non vide nessuno. Corse tutto d’un fia-


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to verso quella parete: “può essere che era solo l’ombra di un cane o di un gatto?”, pensò spaventato, girandosi violentemente a destra e a sinistra. Adesso la distinse chiaramente; scivolava di nuovo, con lento fare, dall’altra parte della piazzetta; era qualcuno, un individuo, non poteva essere un animale; qualcuno si stava burlando di lui, lo stava seguendo. S’innervosì ancor di più e con gli occhi iniettati di sangue per la rabbia corse freneticamente verso quell’ombra: nessuno. Era disperato, non sapeva cosa pensare, e la sua rabbia cresceva sempre più, doveva darsi una spiegazione esauriente; era possibile che quell’individuo era così veloce da non poterlo raggiungere? Che strana notte! Ritornò in fretta nella piazza principale, il cuore gli batteva in maniera anomala, può darsi per la corsa, o perché quella notte era davvero magica. Sulla facciata della chiesa, in quella barocca atmosfera, cominciò ad apparire un’ombra gigantesca che coprì tutta la chiesa. Era inanimata, congelata, pietrificata fra le concavità della chiesa. Guardava entusiasta e anch’egli pietrificato. Si girò, per comprendere meglio quale strano fenomeno si stava verificando in quel luogo. Che orrore! Quel piccolo paesino, quel minuscolo neo sul mondo non esisteva più, tutta una distesa di macerie, di fumi che da esse uscivano; nulla: distruzione, desolazione, disperazione. Grida, grida strazianti, cupe, strozzate, sotto quei cumuli di calcinacci e legno, che impedivano loro di uscire e farsi sentire in tutta la loro angoscia. Nessun corpo era visibile, nessuno si era salvato; erano stati colti tutti nel sonno, tutti imbavagliati fra le loro lenzuola… solo egli era salvo, e perché? “Perché io solo?”, cadendo a terra pianse: con amara consapevolezza pianse. Per quanti anni aveva sognato di andarsene da quel paese polveroso! Per quanti anni aveva desiderato che quel paese non fosse mai stato costruito! Ed era questo il suo castigo? Per averlo soltanto pensato, desiderato, sognato? Poteva mai la sua via concludersi in una così innaturale situazione? Poteva mai non esserci una spiegazione plausibile? “A che serve piangere in un momento così apocalittico”, si rimproverava, e si disperava strappandosi i capelli. Era forse veramente la fine del mondo? Forse egli era già morto e non se ne rendeva conto; forse bisognava andare in qualche punto particolare e aspettare chissà che cosa… ma era possibile? Allora è tutto vero quello che la nostra rassegnata e luttuosa religione dice. Cos’era questo? inferno o paradiso? Doveva rimanere lì, in quella posizione così mortificante, e aspettare l’angelo giudicatore? Ebbe un fremito violento e gelido. L’angelo del giudizio finale sarebbe venuto a giudicarlo, a giudicare quella sua vita misera e inutile… ma cosa doveva giudicare? Cosa condannare? Cosa perdonare? Si poteva mai giudi-


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care un uomo, la cui vita era trascorsa senza nessuna scossa, senza nessuna incertezza, piatta, quasi ferma nell’immobilità di quel paese? Tutti i suoi anni erano passati come decisi e ripetitivi sbattere d’ali, tutti con la stessa lenta cadenza, in un flemmatico ritmico movimento, non una planata, nessun’accelerazione, nessun rallentamento. L’angelo l’avrebbe fissato, e avrebbe letto le pagine della sua anima, la sua amarezza, quel desiderio di una vita diversa; era forse un errore questo? Era da condannare un simile desiderio? Perché mai l’uomo deve accettare la vita così come ci viene data? Poteva stare tranquillo, sereno, o doveva già tremare per il pensiero di una condanna? E perché? Condannato a un eterno soffrire per aver immaginato una vita diversa, per avere solamente carezzato quella dolce immagine; sì, era vero, un’immagine che lo aveva tormentato tutta una vita. E chi al mondo non vuole una vita diversa? Chi al mondo non ha mai urlato, con isteriche grida di dolore, il proprio astio per la propria vita, per quel vestito di sensazioni, gioie, dolori, che per qualche ancestrale sfortuna ci viene consegnato sbagliato, di qualche misura più grande o più stretto? Tutta la desolazione di quel paese distrutto, si era riversata, come una cascata di spade nel suo cuore. Ma l’angelo del giudizio non arrivava, ed egli capì che non sarebbe mai venuto. Si alzò con un’infantile paura; tutto un tremolio lo percuoteva. Avanzò dalla piazza verso la strada principale. Le case erano cadute su se stesse senza spargere le proprie macerie per le strade, che rimasero intatte. Alla fine della strada principale non c’era più niente: il nulla; era come se il mondo finiva là. Inconcepibile! A un tratto, un mugolio interruppe la sinfonia del silenzio, e Federico si girò di scatto cercando con confusi sguardi il luogo da dove proveniva quel terribile verso: un mugolio così atroce che lo spaventava. Cercò tra le macerie, ma con inutile sforzo. Non c’era nulla che avesse potuto emettere quel misterioso verso. Ma diventava sempre più insistente: possibile che quel rumore lo stava chiamando? O forse era solamente qualche povero gattino agonizzante sotto le macerie? sì, senza dubbio, era l’unica soluzione possibile. Fra qualche minuto tutto sarebbe divenuto di nuovo silenzio, e quel mugolio avrebbe finito di straziare per sempre quel già straziato luogo. No, non voleva finire, diveniva sempre più forte, e martellava sempre con più avida insistenza la sua testa. Doveva trovare la fonte di quel mugolio. Un’immagine che non avrebbe mai voluto vedere, una scena raccapricciante che lo distrusse: in un angolo, dove prima poteva giurare di non aver visto nulla, era distesa quella soave visione che, qualche giorno prima con prepotenza, aveva invaso la sua vita; era lì immersa in un


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lago di sangue, che le copriva mezzo viso, ansimava combattendo contro quella vita che le sfuggiva dal corpo. E nonostante la morte era lì accanto, la sua bellezza non l’aveva abbandonata. Stentò ad avvicinarsi, non poteva credere a quello che vedeva. I suoi occhi erano fissi su quell’orrenda immagine, e avanzò con fare lento e tremante. «Signurina, e lei? Mi riconosce? Sono quello del bar». I suoi occhi erano chiusi, sicuramente per la stanchezza, e il suo respiro era quasi impercettibile. «Non parlare Federico. Ascoltami. Tutti moriamo, tutti. Federico, scappa, corri via, fuggi da qui… », non riuscì più a dire nulla, un velo di beata commozione le dipinse il volto, e a flutti il sangue le uscì dalla bocca, e la morte l’abbracciò. Federico emise un urlo disumano, di disperata amarezza, di straziante angoscia.


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III Dove dalla piazza compare un uomo grasso

«Din, don, din, don…». La forte luce del sole insieme con il ritmato suono a festa delle campane del paese s’incuneavano con dolce violenza fra le persiane appena socchiuse; invadente natura, che tormentava inconsapevole quel privato e angosciante sonno. Sussultò come una fiera impaurita dalle luci troppo accecanti della realtà. Quelle sottili frecce luminose lo accecarono di colpo; soltanto un incubo, che ancora non lo aveva abbandonato del tutto. Nere gocce di sudore scivolavano per tutto il suo volto e sembravano lumache voraci. Aprì gli occhi con lenta cautela e rimase qualche secondo seduto sul letto. All’improvviso si precipitò verso le persiane. Le aprì con violenza: tutto era al suo posto: non una casa distrutta, ma tutto festa e grida gioiose. Sorrise e si passò le mani sulla faccia. Com’era tardi, guardò l’orologio: mezzogiorno. Non aveva molta fame, ma in ogni modo si recò in cucina – era un gesto quasi istintivo. Bevve una tazza di caffè amaro che era rimasto dal giorno prima. Caffè amaro, come la sua vita. Lo aveva sempre bevuto amaro, anzi non riusciva a capire come si potesse berlo dolce. Il vero gusto del caffè, diceva, è l’amaro. Questo era per lui una sorta di dogma, e guai a ribattere con un’asserzione contraria, non v’era alcun verso nel farlo ragionare; ogni volta che ne parlava, sembrava uno di quei saccenti professoroni universitari. Uscì da casa e si avviò verso la piazza. Era domenica: in paese ricominciava il rito. Ogni domenica era sempre uguale. La gente sembrava non aspettare altro. Tutti quanti si riversavano in piazza – agorà del mondo moderno – per passeggiare – solenne rito propiziatorio, affinché la settimana potesse iniziare bene. Anch’egli quel giorno voleva stare fra la gente, non per avere compagnia, ma proprio per isolarsi. La confusione poteva in qualche modo fargli da protezione. Arrivò in piazza. Un brulichio confusionario di gente, intenta a camminare, a parlare, a gridare. Tragitti sempre uguali, discorsi ormai imparati a memoria, vuoti, assenti di ogni significato; giravano, roteavano ne-


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vrotici per tutta la piazza. Federico si sentiva frastornato da tutto quel mondo in movimento. Forse avrebbe preferito allontanarsi all’istante, volare chissà dove, non importava, ma che fosse abbastanza lontano da quel frastuono di vita. Dalla parte opposta della piazza, si senti chiamare: «Federico, oggi niente caffè?». Luigi M., amico di sempre. Erano cresciuti insieme, e insieme avevano sognato, gioito, vissuto fino a quel momento. Luigi era un uomo basso, tarchiato, grasso; camminava con molta fatica; quei suoi grossi piedi rivolti all’infuori, gli davano l’aspetto di un’enorme papera. Sembrava uscito da un quadro di Botero. Ci mise un bel po’ ad attraversare la piazza; quel suo fisico era davvero un ostacolo; “chissà come faranno gli organi a rimanere intatti dentro a quel corpo” si chiedeva Federico sorridendo allegramente, volendo così iniziare una giornata diversa dalle altre; non era sicuro di riuscirci, ma volle tentare lo stesso. «Allora, niente caffè? Proprio non lo vuoi aprire il bar?», disse il grosso amico riprendendo fiato. «Buongiorno Luigi. Sempre in forma, vero? Ma dico io, santo cielo, non sai fare neanche una tazza di caffè. Ma come fai a campare? Proprio non riesco a capirlo. In quarant’anni non hai imparato niente. Cucinare non se ne parla, tanto ci pensa tua zia; i vestiti te li lava anche lei… sei proprio una disgrazia per quella povera donna. Perché non ti sposi, così ti sistemi, invece di fare la vita dell’eterno scapolone». «Cu’ parrò m’arricriò… Perché non te la trovi tu, invece, una bella mogliettina? Io non ne ho bisogno, sto bene così. Una bella giornata, vero? Questa notte non ho neanche sofferto il caldo, e avrei dormito bene se non fosse stato per una maledetta zanzara; non mi ha fatto chiudere occhio», e rideva Federico. Una ventata di felicità. Quelle allegre risate, genuine come quelle di un bambino: da quanto tempo non li assaporava, ed era un sapore fresco, che si diffondeva per tutte le sue membra. Poteva solamente un’ingenua risata risolvere concreti problemi? Sembrava di sì; ma quanto poteva durare quel benefico sollievo? Poco. Era consapevole che quelle risate si sarebbero sciolte ben presto, e avrebbero lasciato soltanto un amaro retrogusto. «Ridi, ridi. Mi fa piacere. Io soffro e tu ridi. Sai, non soffro tanto per le punture, ma quanto per il loro ronzare; è insopportabile. Ma poi dico io, quanto sono queste zanzare, sembrano degli elicotteri impazziti. E poi, è come se me lo facessero apposta; non si limitano a ronzare per la stanza, no, devono


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precipitarsi in picchiata dentro all’orecchio; se ci penso mi vengono i brividi. E tu neanche mi delizi col tuo caffè!». «No, proprio non mi va’. Non muore mica qualcuno se oggi non faccio il caffè». Era bello quel discorso, sereno, disinvolto, leggero come le nuvole, fresco come quell’aria d’estate. «Sai Federico, mi trasferirò a Roma a fine estate», che amara quella frase. Fu un fulmine tremendo, che colpì Federico con inaudita violenza, senza risparmiare nulla. Anche Luigi aveva trovato il suo treno! Sarebbe partito via, così come tutti gli altri, lasciando soltanto un ricordo pallido della propria presenza in quel polveroso e piccolo paese. «Ho trovato lavoro in un quotidiano. Sai com’è la vita, alle volte le cose arrivano così, senza che te lo aspetti». No, non lo sapeva. Lui aspettava, aspettava, e avrebbe aspettato fino alla fine del modo, fino all’ultimo giorno, ma le cose non arrivavano così. Non era tanto facile la vita per lui, era tremendamente in lotta contro se stesso; lottava con tutte le proprie forze? Oppure lasciava che il destino fluisse così? Per quale strana ragione avrebbe dovuto lottare? Quale motivo nascosto gli avrebbe dovuto dare la forza, il coraggio per andare contro quella corrente gelida, che spazza ogni speranza, che distrugge ogni sogno, deboli ideali? Egli era una fragile stella senza luce in mezzo a migliaia di fragili stelle, che ogni giorno morivano o si riaccendevano, per splendere magnifiche in quel cielo buio e freddo. «Sono veramente contento. Chi se lo poteva mai aspettare! Hai raggiunto finalmente quello che hai sempre desiderato. Dopo tanto studio te lo meriti». Mentiva dipingendosi il volto con un falso sorriso. Era consapevole della sua invidia, della sua rabbia, e non si rimproverava. No, non se ne vergognava per nulla. Era tutto un brivido intenso il suo corpo, riusciva a trattenersi a stento, non facendo trapelare nulla che potesse smascherare quella sua falsità. La gioia di qualche minuto fa si era disciolta, e aveva lasciato un sapore acre, un sapore che Federico conosceva bene. Doveva, comunque, continuare quella farsa. A che serviva rivelare i propri sentimenti. Era giusto che tutto rimanesse così, un immobile e statico quadro nella galleria del tempo, fra un’infinità di turbolenti e anch’essi ripetitivi quadri d’infinite vite, perse forse tra le nere viscere d’utopistiche fantasie. «Sai, quasi quasi sono pentito d’aver accettato quel lavoro», disse Luigi con una punta di tremenda amarezza, che gli dava un’aria di un guerriero che già conosceva il cattivo esito della battaglia, era come una sorta di condannato a morte; un velo di tristezza copriva i suoi occhi, e melanconica la sua voce usciva debole da quell’enorme corpo. «Non so


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spiegarlo, ma ogni volta che penso la mia vita lontana da qui m’intristisco e quasi mi viene da piangere. Come posso andarmene da questo paese? Tu dovresti capirmi». No, non riusciva a capire. Erano estranee quelle parole, non riusciva a comprendere come si potesse rimpiangere questo luogo. Lui avrebbe venduto l’anima per non respirare più la polvere di quelle strade, per scuotere la propria vita dallo statico torpore che lo avvolgeva da sempre. «No, non posso capirti. Fin da piccoli abbiamo sempre sognato d’andarcene via da qui, anzi tu hai sempre avuto più fiducia di me. E adesso che hai la fortuna dalla tua parte, ti fai prendere da questi stupidi sentimentalismi». Era realmente amareggiato, non aveva più voglia di pensare al futuro. Avrebbe preferito andarsene, ma l’irruenza e l’allegria di Luigi erano più dure di qualsiasi catena. In fondo era quasi bello farsi stringere da questa catena. «Ma sì, forse hai ragione. Dovrei pensare con più serenità invece di farmi prendere dalla nostalgia; e poi ancora non sono partito. Ci penserò quando sarò partito a sconfiggere la solitudine e la nostalgia». E nuovamente l’allegria s’impadronì del corpulento amico, che riprese a dimenarsi e a gesticolare con una frenesia contagiosa; si muoveva con soffice morbidezza, sembrava quasi ballare sulle punte. Il sole era ora allo zenit, e inondava di afoso umido calore tutta la gente che si accalcava, che con ostinatezza continuava a passeggiare avanti e indietro, su e giù per la piazza rotonda. Solo i ragazzini avevano l’audacia di rinfrescarsi con l’acqua della seicentesca fontana, e fra schizzi e risate si rincorrevano tutt’intorno a essa. Federico li ammirava, e la loro spensierata età sembrava quasi beffarsi di lui, insultarlo, come se quegli schizzi, provocati dai ragazzini, fossero degli sputi lanciati con disprezzo. I due amici si erano seduti su una delle panchine che circondavano la piazza e si lasciavano baciare dal violento sole Lo sguardo di Federico guizzava con frenesia tra i corpi dei passanti, rimbalzava sulla facciata della barocca chiesa e ritornava di nuovo indietro, per poi rifare lo stesso giro. Non voleva più proferire una sola parola, voleva farsi cullare dall’allegra confusione della gente, perdersi fra quelle voci, scoprire fra di esse il cadavere della sua, che non aveva più la forza di gridare contro il muro della vita, quel sordo muro su cui si erano schiantati i suoi sogni; li vedeva svanire come nuvole. Ma quella gente che ne sapeva; camminavano con disinvolta allegria, sembravano tutti uguali; tutti con la stessa maschera addosso, quella maschera di plastica che non potrebbe mai dare adito a niente, che annulla tutti i pensieri, anzi li fa tutti u-


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guali, e sembrano così felici questi uomini-manichini. A Federico sembravano tanti automi, tante macchine che eseguivano gli stessi movimenti, che ridevano tutti alla stessa maniera. “Ma almeno loro ridono. Sarà finta, ma è pur sempre una risata… e vorrei averla io questa finta risata… vorrei proprio amalgamarmi a quella folla… ma non ci riesco… proprio non ci riesco…”, non ci riusciva o forse non voleva. Forse preferiva rimanere così, lontano da tutti, sordo a quelle risate di plastica, cieco a tutti quei sorrisi uguali. Ad un tratto, dall’altra parte della piazza, tra quelle finte immagini di persone tutte grigie, Federico notò un’immagine vera, che splendeva di un colore raggiante, ed era un’esplosione di colorata allegria in mezzo a quella grigia macchia. Sì, era lei, non poteva sbagliarsi. Era ancora in paese, lo scirocco non se l’era portata via con sé, ma l’aveva lasciata lì, forse per lui… che stupidi pensieri! Il suo sguardo si bloccò, era tutt’uno con quell’immagine, i suoi occhi divennero di fuoco: era cambiato, un turbine devastante lo sconvolgeva all’interno, deliziosa e terribile quella sensazione. Era tutto strano quel momento. Si alzò all’improvviso e rimase a guardare fisso e immobile l’altra parte della piazza. Anche Luigi si alzò e guardava Federico cercando di capire cosa gli era preso. «Federico cosa è successo? Ti senti male? Federico, Federico rispondi». Ma quella statua non rispondeva. Era scomparsa in un vicolo, non la vedeva più, e un improvviso impulso di correrle dietro lo invase. Si girò e guardò intensamente negli occhi il grosso amico: due fuochi profondi i suoi occhi, che fecero indietreggiarono per lo spavento il povero Luigi. Erano realmente stravolti quegli occhi, sembravano quasi splendere come una fiamma di notte. Luigi non riuscì a sostenere quello sguardo e abbassò il volto con molta disinvoltura chiudendo gli occhi. Neanche cinque secondi e Federico non c’era più. Lo stupore di Luigi era enorme: come se ne era potuto andare via in un batter di ciglio; non vi era più l’ombra di Federico in quella piazza. Cominciò a cercarlo tra la folla senza nessun esito. Che stranezze!


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IV Dove l’uomo diventa bambino

Si ritrovò nel vicoletto adiacente la chiesa, quasi fosse stato scaraventato, era stupito e attonito, non capiva come in pochi secondi avesse potuto attraversare la piazza. Non si accorse di nulla, o forse non si ricordava – cosa molto improbabile – d’averla attraversata. Comunque si ritrovava là, e il silenzio della stradina lo confortava. La tremenda confusione della piazza scemava piano dietro di sé; iniziò a respirare un’aria migliore. Ma non vi era più nessuna traccia di quella visione; per la stradina rimase un profumo denso e inebriante, che aveva impregnato le pareti delle case, la stessa strada, e che ora inebriava anche lui. Chissà dov’era andata? E chissà perché era passata proprio di là e proprio in quel momento? Era convinto che fosse passata per lui, era una sensazione che gli nasceva dentro; sì, quella donna era lì per lui. Era una giornata strana, e così voleva che continuasse, lontano da quella monotona vita fatta solo da insoddisfazioni, lontano dai ripetitivi, insignificanti, incessanti, meccanici gesti, che lo accompagnavano per giornate intere: centinaia di volte al giorno ad abbassare quella maledetta leva della macchina del caffé; un mistero quando era piccolo. Gironzolava per il bar, cercando di carpire i segreti che si celavano dietro quei gesti; era veramente impressionato da quei rumori, da quei rituali meravigliosi, e voleva sapere, sapere proprio tutto. Era un continuo far domande a suo padre, il quale, con estrema pazienza, rispondeva ogni volta che un giorno sarebbe arrivato anche il suo momento; così l’ingenuo apprendista si rivolgeva al giovane garzone: era uno strazio quel bambino; gli gironzolava attorno, non dandogli lo spazio per respirare, e spesso una voglia omicida gli cresceva dentro; ma in fin dei conti aveva pure il diritto, quel giovane apprendista, di chiedere e sapere o almeno di assistere ai quei misteriosi gesti. Ora Federico sapeva benissimo quali intrinseci significati nascondevano quei gesti; avrebbe tanto voluto non apprenderli mai.


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Continuò a camminare per quelle stradine e si ritrovò in un cortile. Le persiane delle case erano tutte chiuse: non c’era nessuno. Solo lui, unico essere vivente in quella desolazione. All’improvviso si accorse d’essere osservato: uno splendido gatto bianco. Rimaneva seduto sulle zampe posteriori, davanti a una persiana verde, oramai tutta corrosa dalla furia del tempo. Guardava proprio lui. Mai in paese si era visto un gatto così bello: non una macchia offendeva il suo candido manto bianco. Federico era stranamente attratto da quel gatto, come se un fluido trasparente lo avesse costretto a osservarlo contro la propria volontà. Non era mai stato un grande ammiratore degli animali, e poi di gatti il paese n’era pieno; ma quel felino era diverso, non sapeva perché ma doveva osservarlo con molta attenzione. Un senso di fiacchezza s’impadronì del suo corpo; tutto una dolce stanchezza si stava spandendo dentro di sé. «Federico, Federico, la pasta è pronta, vieni, altrimenti diventa brutta», quella voce rimbombò per tutto il vicolo, arrivò agli orecchi del piccolo Federico e lì perse tutto il vigore iniziale. Poteva mai abbandonare una partita di biglie solo per andare a mangiare? Un certo appetito l’aveva in verità. Era stata una giornata faticosa. Quella mattina si era alzato molto presto, e, senza nemmeno avere il tempo di fare colazione, era uscito, così in fretta che non era riuscito a vestirsi bene, ancora per strada cercava, con fatica immane, d’infilarsi la camicia dentro ai pantaloncini. Non poteva ritardare all’appuntamento. Era una questione di vita o di morte! Meno di un minuto ed era già fuori dal paese. Che giornata memorabile doveva essere quella! Certo la costruzione di una casa su un albero era alquanto faticosa, ma con l’entusiasmo che Federico sprigionava da tutto il suo corpo, la fatica si sarebbe sentita poco. Il giorno prima era avvenuto il sopraluogo; la scelta non era semplice, ma inevitabilmente cadde sul “grande albero”, era questo un grandioso carrubo. In paese, e non solo tra i ragazzini, quell’albero era considerato millenario, il più antico di tutta la Sicilia! “Il grande albero” si trovava a circa un quarto d’ora di cammino dal paese, nella proprietà del solitario Paolino il vaccaro; scorbutico e taciturno, quell’uomo aveva vissuto tutta la vita in compagnia della sue amabili vacche. Poco si sapeva, ma molto si fantasticava su Paolino. Il paese per lui era qualcosa da tenere a distanza, un luogo peccaminoso che avrebbe potuto traviare la sua pastorale e casta coscienza. Era nato fra


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la purezza della campagna e in mezzo a essa sarebbe morto, avendo conosciuto soltanto l’amore delle sue vacche, condividendo con loro ogni cosa, almeno era quello che si vociferava in paese. Federico era arrivato, accaldato e sudato: ma nel luogo destinato all’appuntamento non c’era nessuno; tutta fatica sprecata! Avrebbe potuto prendersela con comodo. Il sole era ancora sonnacchioso, ma sulla fronte di Federico scendevano certe gocce di sudore… figurarsi a mezzogiorno. Tutt’intorno non v’era niente, sembrava un deserto arido, del quale non si vedeva né la fine né l’inizio. Chissà perché ritardavano, si chiedeva spazientito e sbuffante. A volte, come un improvviso fungo, gli cresceva nella testa l’idea che fosse solo lui ad avere sempre vivo quell’entusiasmo e quella voglia che gli davano la forza e l’energia per poter fare ogni cosa. Forse si sbagliava, forse no: come si poteva ritardare a un appuntamento così importante. Non era mica uno scherzo costruire una casa su un albero; certamente, se avessero ritardato parecchio, non l’avrebbero di certo finita di costruire quella mattina, così sarebbero dovuti ritornare anche il pomeriggio. Il sole cominciava a picchiare con più energia, e la sfiducia di Federico verso i suoi amici era diventata enorme, e cominciava a crescere a dismisura anche la noia di restare là senza avere nulla da fare. Ad un tratto, quasi un miraggio, si avvicinarono, in lenta processione, le vacche di Paolino. Erano eleganti nel loro camminare, quasi nobili animali che si recavano a una regale festa. Povere bestie, costrette alla furia cieca di Federico il guerriero, giovane Don Chisciotte in preda alle visioni, paladino fiero e senza paura, lì a tirare con tutta la propria forza, come dardi infuocati, delle pietre contro quelle gentili signore, pietre che rimbalzavano sulla spessa pelle delle vacche, come se fossero state tirate contro un muro di gomma. Il gioco poteva continuare perché ancora Paolino non si vedeva; ma nonostante tutti gli sforzi di quel novello e giovane crociato, che con ardimento si batteva contro quel pericolo incombente, l’eleganza e la raffinatezza di quelle signore rimanevano intatte, quasi non si rendessero conto o non volessero notare la presenza di quel valoroso guerriero. All’improvviso, come una furia scatenata, imprecando in una lingua quasi sconosciuta e minacciando con un bastone, avanzò Paolino Curvo su se stesso, come alla perenne ricerca di qualcosa persa molti anni prima, si avvicinò a enormi falcate. Le sue vacche erano in pericolo e le avrebbe difese fino all’estremo.


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Quell’orco infuriato, quel feroce saracino, quel Polifemo brutalmente accecato, era troppo spaventoso e troppo forte anche per un ardito Ulisse come Federico. E così, speditamente e senza nemmeno pensarci tanto, fuggì come una lepre impaurita dal cane d’un cacciatore, e come la lepre, anche Federico cercava un nascondiglio: “il grande albero”, abbastanza grande e alto da potere difenderlo e tenerlo lontano dal caotico campo di battaglia. Lì avrebbe potuto aspettare, senza correre nessun rischio, che l’ira di quel mostro si calmasse; per qualche minuto Paolino non aveva la minima intenzione di placarsi, anzi sembrava infuriarsi di più, tanto le sue grida si facevano più minacciose e sempre meno comprensibili. Alla fine, stanco forse per tutte quelle grida, decisamente buttate al vento, se ne andò lentamente, proseguendo dietro alla processione delle sue care e amate vacche, e con esse si dileguò piano piano, continuando il tragitto sulla stradina sterrata e sassosa che cingeva il pianoro sul quale si ergeva il “grande albero”. Che avventura! Non vedeva l’ora di poterla raccontare. Finalmente arrivarono. Scorgendoli da lontano balzò a terra tutto eccitato e corse loro incontro, cadendo un paio di volte e rialzandosi sempre più euforico. Fece una corsa tremenda – vedendoli dall’alto dell’albero li aveva creduti più vicini, non rammentandosi che la stradina che portava al pianoro si trovava su una collina, per cui bisognava fare una salita, poi una discesa e poi un’altra salita che portava in cima al pianoro; ma tutto questo dal “grande albero” era appiattito e così non si aveva la cognizione della distanza. Gli si tuffò addosso, raccontando, quasi con una sola emissione di fiato, la sua breve avventura. Dopo avere finito il racconto e aver ripreso fiato, risorse in lui la rabbia per quell’inaccettabile ritardo; come già aveva sospettato la colpa era di Giovanni, che aveva perso tempo per prendere gli attrezzi che servivano alla costruzione: un martello, una tenaglia, un rotolo di fil di ferro; Nicola invece aveva portato altro materiale indispensabile: chiodi, corde ecc…; Luigi aveva portato la sua adiposa zavorra, e tanto bastava. Giovanni cercò di difendersi, raccontando la rocambolesca impresa per riuscire a prendere quegli attrezzi, gelosamente custoditi dal padre; e si pavoneggiava, sottolineando il fatto di non aver provocato il minimo rumore. La squadra finalmente era al completo, e così si avviarono verso il “grande albero”. Lì vicino, il giorno prima, avevano trovato, abbandonate, molte tavole di legno, che sarebbero servite proprio per costruire la casa.


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Il lavoro procedeva abbastanza velocemente. Si voleva finire la costruzione prima di pranzo, in modo tale che nel pomeriggio la casa si sarebbe potuta utilizzarla. La collaborazione dei quattro amici era destinata a durare poco. Il sole era arrivato nel punto più alto nel cielo, e cominciava a fare sul serio, indebolendo la loro voglia di fare e compromettendo la buona riuscita del lavoro; infatti, il sodalizio lavorativo si interruppe: Nicola e Giovanni erano stati colti da una fame improvvisa, e invece di aiutare Luigi e Federico, i quali si trovavano sull’albero intenti in un’infaticabile e a dir poco perfetta costruzione, si misero a raccogliere e a lanciare pietre cercando di colpire un barattolo di latta arrugginito posizionato su una roccia affiorante dal terreno. Potevano mai i due costruttori stare lì a guardare senza proferire parola? In verità Federico avrebbe preferito continuare, evitando di far scoppiare una disputa che avrebbe messo a repentaglio la costruzione della casa, la quale a dire il vero era già a buon punto; ma non era questo quello che premeva di più Federico: a lui interessava la pace comune, non voleva, in nessun modo, che per una stupidaggine si dovesse litigare, e così per lui era molto più conveniente fare finta di non vedere e continuare la solita vita. Certo bei pensieri, degni d’un animo nobile, ma completamente estranei al carattere d’un siciliano; e se Federico sembrava essere un atipico siciliano, Luigi rispecchiava in tutto e per tutto lo stereotipo classico, la perenne iconografia del focoso siculo; già in quel piccolo corpo, in quella giovane mente risiedeva il germe tipico dell’isolano, di questa strana razza, amante e prigioniera di quest’isola. Era terribilmente infuriato, ma si conteneva grazie alle preghiere di Federico. Sarebbe bastata un’inezia, un qualsiasi pretesto, e quella bomba sarebbe scoppiata. A volte sembra proprio che il destino non aspetti altro, e così fu. All’improvviso, quando sembrava che Luigi si fosse calmato, un pezzo della casa si staccò dall’albero distruggendosi completamente: questo provocò nei due lanciatori di pietre un’immediata e provocatoria risata. E così Luigi non poté più trattenersi; era come un vulcano nel suo momento di maggiore attività; sputò fuori tutta quella sua lava bollente, sembrava proprio volere coprire quei due scansafatiche con tutto il suo astio. Iniziò ad accusarli di non aver fatto nulla, di essere sempre stati con le mani in mano, lasciando a loro tutto il lavoro pesante. Dal canto loro i due accusati si difesero con tutte le forze, dicendo di essere stati loro ad avere portato tutta l’attrezzatura, senza la quale, difficilmente avrebbero iniziato la costruzione della casa; a loro volta accusarono i due onesti lavoratori di non aver portato nemmeno


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un misero chiodo. Luigi controreplicava con infuocata foga e con un infuriato gesticolare, cosa che amplificava ancor di più la sua rabbia. «Vi sembrano attrezzi buoni quelli che avete portato?», diceva l’infuriato Luigi. «I chiodi sono talmente arrugginiti che manco gli dai due colpi che si rompono tutti», era tutto un terremoto, che non poteva essere calmato, e Federico nemmeno ci provava. Continuava con animata agitazione quel battibecco fra i quattro amici, e sembrava proprio non potere trovare una soluzione quella disputa, anzi, continuava a ingrossarsi, fin quando non arrivò a un punto tale che, con tutta la buona volontà che ci si poteva mettere, non si sarebbe più potuta fermare, ed era lì lì per esplodere; Federico, che era rimasto per tutto il tempo in religioso silenzio, lasciando, vigliaccamente, tutto l’arduo compito all’infervorato Luigi – il quale, dal canto suo non s’era minimamente accorto d’essere solo nella lotta, ma continuava senza tregua – a un certo punto, spinto dall’accaloramento di vivido entusiasmo di Luigi, e dalla sua oratoria impeccabile, si sentì alquanto mortificato della sua immobilità, della sua inettitudine, che avrebbe compromesso tutta la battaglia; uno spirito battagliero s’impadronì del suo animo – spirito che lo avrebbe abbandonato subito dopo quel giorno –, con una furia inattesa, con un impeto da guerriero medievale, che fece persino paura a Luigi, che per nulla al mondo avrebbe mai immaginato una reazione tanto violenta da parte del mite Federico. Quel giovane uomo, in preda all’estasi guerriera, iniziò a scagliare, con tutta la violenza virile del suo corpo, le sole armi che possedeva: le carrube; era addirittura aiutato dalla natura, che gli metteva a disposizione centinaia di proiettili. Luigi fu subito contagiato da quel fervore violento e inaspettato, e anch’egli si unì all’offensiva; i due scansa fatiche, investiti da quella pioggia turbinosa, iniziarono anche loro una controffensiva, che ben presto si rivelò inadeguata, e per niente efficace: infatti, era più faticoso lanciare le carrube verso l’alto che non verso il basso; e così, avendo capito a quale conclusione andavano incontro, ritennero opportuno ritirarsi, e lo fecero con molta velocità, poiché i due lavoratori, ormai travolti dalla battaglia, non contenti della vittoria, volevano infierire sui due sconfitti, continuando, fra soddisfatti sghignazzi, nel loro impazzito lanciare. Fu una giornata indimenticabile, poco importava che la casa non fosse stata portata a compimento, almeno ci avevano provato. I due vincitori se ne ritornarono felici anche se si ritrovarono tutti gli indumenti macchiati dall’appiccicoso succo delle carrube ancora verdi; ma non volevano nemmeno pensare al momento in cui, arrivati a casa, sarebbero stati sicuramente sgridati dalle loro madri, e poteva anche scapparci uno


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schiaffo… il sole era caldo, e nessun pensiero fastidioso era ancora nato nelle loro piccole teste, soltanto visi allegri e squillanti risate piene di fresco e vivido entusiasmo animavano quei due valorosi eroi, dopo quella struggente e intensa lotta, così camminavano lietamente ridendo… “Si allontana tutto… perché non sento più le risate…”; cadeva tutto in un buio sconfinato nella mente di Federico, tutto si allontanava, piano in un lento vortice, un lento e definitivo buio… l’albero non c’era più, e non vi era più nemmeno il ricordo, nemmeno l’ombra del suo ricordo, svanito, cancellatosi nelle profonde pieghe della sua mente… e quei visi allegri, quelle dolci espressioni di una felicità remota, si deformavano come maschere di cera al colore insopportabile e diabolico di una fiamma inimmaginabile, una fiamma estranea che s’intrometteva nei suoi ricordi, così, quasi con perversa intenzione… o forse era lui stesso quella fiamma, era lui che, inconsapevolmente, stava distruggendo tutto. Voleva fermare quel vortice distruttivo, quell’uragano intenso e nero come una notte senza luna, come un giorno senza sole, come una vita senza vita… ma non riusciva nemmeno a pensare, tutto era fermo: il suo respiro, i suoi pensieri, faticavano a gridare, volevano, ma era tremendamente difficile. Sentiva tutto il suo corpo pesante, un blocco di marmo che aspetta d’essere scolpito per poter finalmente vivere, per poter finalmente respirare e gridare… ma non poteva, non riusciva a trovare un briciolo di forza, tutto era stato risucchiato da quel distruttivo vortice sconosciuto. Ricordi di vera vita vissuta, oppure soltanto un dolce sogno? Ormai era tutto troppo lontano per poterlo capire, ed erano state così belle quelle immagini, calde, vive, che non aveva nessuna importanza se fossero vere o soltanto immagini che affioravano dall’interno. Vere o false, quelle immagini erano scomparse. Non erano più sue, non le ricordava più, come se non fossero mai esistite, come se non li avesse mai vissuti quei momenti. “Mi sento talmente fiacco… vorrei alzarmi, aprire gli occhi… ma non ci riesco, chi sa perché? No, devo alzarmi… che stanchezza… e quel gatto… che occhi strani che aveva, così intensi…”, pensava con una stanchezza infinita. Si alzò lentamente e si sedette sul bordo del letto. Aprì gli occhi e si ritrovò davanti a se stesso, davanti alla propria immagine; sembrava talmente vecchia quell’immagine, era veramente la sua? Non la riconosceva più; si toccò il mento, le tempie, il naso, le gote… era proprio lui! Forse era passata una notte più lunga del solito, un


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eterno disperarsi tra certi sogni che non ricordava più; persistevano ancora in lontananza echi rarefatti di risate puerili, ma erano lì lì per scomparire definitivamente ed essere per sempre dimenticate. Era ancora spossato. Con lentezza disumana si alzò e si sistemò meglio sul letto; si passò le mani sulla faccia, così forte che sembrava volesse cambiare pelle, staccarsela da dosso squama dopo squama, rinnovare se stesso, ripulirsi dal passato, dal presente, e prepararsi al futuro, se mai ci fosse stato un futuro migliore. Si guardò intorno. Non era la sua casa. Aveva passato la notte in un’altra stanza, in un altro letto… ma non ricordava d’esserci entrato in quella stanza, l’ultimo ricordo era l’immagine di quell’inquietante gatto, quel bianco felino che ancora roteava davanti ai suoi occhi. E chissà perché e come era finito in quella stanza… Il letto era ricoperto da un morbido lenzuolo di seta blu, che gli carezzava la pelle, ed era bello stare seduto su di esso. Si accorse che il letto era molto disordinato, sembravano quasi i postumi di una lotta, una lotta contro se stesso, o contro quei ricordi, che con ostinazione continuava a cercare tra le folti spirali della sua mente. La stanza non aveva finestre, ma non era nemmeno buia, quasi la luce provenisse dalle pareti, o qualcosa di simile, comunque molto difficile da spiegarsi. Le pareti erano tutte coperte da enormi tende di pesante velluto, anch’esse blu come il lenzuolo, e davano un senso di pace, di calma, di calore profondo, era come trovarsi dentro al grembo di una donna, una grande madre, un ritorno alle origini, e aveva quasi voglia di mettersi in posizione fetale e rimanere lì lasciandosi coccolare da quella stanza, galleggiando in quel fluido invisibile, in quel caldo fluido. Si alzò e cominciò a carezzare quei tendaggi, quasi a sincerarsi che tutto in quella stanza fosse vero, che non era stato solo un sogno o una visione scaturita dalla sua mente; erano morbidi, era piacevole sentire quel velluto sulla sua pelle; fu preso da una strana smania d’avvolgersi con quei velluti, dimenticare il mondo che nel fra tempo continuava a correre lì fuori e che, a sua volta, si era sicuramente dimenticato della sua esistenza, o forse non se n’era mai accorta, lui sempre fermo a guardare quella frenetica vita che gli schizzava davanti senza mai fermarsi; forse unico spettatore in un mondo fatto solo da attori. Continuava a guardarsi attorno cercando una spiegazione a tutto ciò che stava avvenendo, ma naturalmente una semplice spiegazione razionale non esisteva; cercava di ragionare, comprendere, trovare le soluzioni possibili, ma ogni volta che tentava di ricostruire ciò che era successo prima del suo risveglio in quella misteriosa stanza, gli spuntavano, con


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impressionante vivido realismo, quei profondi occhi felini, che lo avevano drogato, gli avevano offuscato la mente, e poi… chissà cosa era successo. Portava avanti quella sua meticolosa ispezione delle tende, ormai rapito completamente dalla morbidezza di quel tessuto, quando all’improvviso la sua attenzione fu catturata da qualcos’altro, da un’inaspettata immagine; il pavimento di quella misteriosa, ma ormai intrigante stanza, era coperto da un enorme tappeto che non lasciava scoperto nemmeno un pezzetto di pavimento. Ma più che dalla grandezza del tappeto, lo stupore di Federico nacque alla visione delle immagini riprodotte su quel tappeto; era qualcosa d’inconcepibile per la sua mente, “o forse per la mente d’ogni uomo”, pensò atterrito. Quella strana immagine era di una così straordinaria fattura che sembrava quasi una fotografia, tale era stata la bravura dell’artigiano, un pezzo unico; tutto era perfetto nel ricamo di quel tappeto. Al centro v’era stata riprodotta una scena da potersi definire raccapricciante e sensuale allo stesso tempo: un bellissimo angelo, o almeno era quello che sembrava, con stupende ali bianche, aperte in tutto il loro splendore, con eccezionali lunghi capelli dorati, con membra morbide e di un candore indescrivibile, ma era strano il fatto che, quell’artista, avesse dato fattezze femminili a quell’angelo, inconsueto rispetto all’iconografia cristiana, “o forse sono proprio così gli angeli? Certamente non lo potremo mai sapere… e se non esistessero?… che domande assurde!”. Quelli erano istanti d’estrema confusione, di tremenda angoscia per qualcosa che proprio non riusciva a essere comprensibile, e come poteva, se gli ultimi due giorni li aveva vissuti in bilico tra la monotona realtà di quel paese e l’assurda fantasia dei suoi sogni e di ciò che aveva davanti agli occhi in quel momento. Un altro personaggio era protagonista in quella scena, in antitesi a quel magnifico essere dal bianco candore, sì, proprio così, un demone reso in tutta la sua aggressiva malvagità, dal corpo violaceo e lucido, dal ghigno malefico, dall’occhio profondo in cui si vedeva un mondo nuovo; ma ciò che atterriva, ciò che provocava un raccapriccio indescrivibile, non era l’accostamento di quei due esseri, ma il loro atteggiamento: erano avvinghiati, complici negli sguardi, l’uno dentro all’altro e compiaciuti per quel loro atto, quasi a volere sfidare le volontà divine, e in quell’amplesso demoniaco e angelico si graffiavano e si mordevano a vicenda con efferata violenza, aumentando sempre più il loro piacere, e in quel loro erotico e perverso atteggiamento, sembrava che con gli sguardi volessero invogliare lo spettatore a unirsi a loro, in quel rito


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strano e affascinante, in quel rito che andava contro ogni legge naturale, in quel rito che era il sogno nascosto d’ogni uomo, bene e male insieme, l’uno dentro all’altro, mischiati in un’anomala armonia, il bianco e il nero di ogni animo umano, che in quel tappeto erano usciti fuori a mescolarsi come in una tavolozza di un misterioso pittore, che si divertiva a confondere le carte in tavola, a giocare con le forze della natura, così senza pensarci su, ma con un compiacimento tale da rendere la cosa quasi naturale e ingenua. Federico rimase a lungo attirato da quell’immagine, e non riusciva a capire se provava disgusto o piacere; era molto disgustato sì, ma allora perché continuava a guardare quel disegno? Perché non riusciva a distogliere gli occhi da quell’immagine? Forse proprio perché ne era affascinato, sì, inconsciamente affascinato. Perché vergognarsene… d’altronde era solo in quella stanza, chi poteva giudicarlo se non se stesso… ma lui non aveva nessuna intenzione di giudicarsi, e non se ne stupiva nemmeno. Ad un tratto si mise persino a ridere al pensiero, inconsueto e imprevisto, che se quel tappeto, malauguratamente, fosse capitato sotto gli occhi della zia Vincenzina, si sarebbero dovuti iniziare i preparativi del suo funerale; che strano pensiero, forse era affiorato per stemperare un po’ la tensione di quel momento, o forse era affiorato e basta. Ma in fondo il mondo è così, così è tutto l’universo, tutto insieme godendo e sbavando in questo enorme ed eterno orgasmo, che ci ha creati per godere anche noi… e forse l’abbiamo voluto relegare in uno dei più bui sgabuzzini del nostro inconscio, abbiamo voluto dimenticare questo perenne orgasmo primordiale, per dar spazio e trionfo a una troppo nera ragione che, despota incontrastata, ha costruito attorno a noi – che facevamo noi nel fra tempo? – una recinzione di purezza e di finto perbenismo, con affilatissime e aguzze punte di cristallina bontà, d’esasperata educazione, di limpida timidezza della vita, incastonate sul bordo, a squarciare qualsiasi sguardo che fosse andato al di là del muro; ci ha bucato gli occhi, ci ha cucito le palpebre, ci ha strappato le labbra e ha messo al loro posto delle labbra di creta, così friabili che ci viene difficile urlare senza che esse si sgretolino… non abbiamo reagito, abbiamo ritenuto che fosse tutto giusto; invece Federico aveva davanti ai suoi occhi cuciti la primordiale verità, quella che é stata scaraventata nei recessi della terra, a far compagnia ai giganti ribelli, lì a mescolarsi col sangue incandescente, fagocitata dalle nostre paure, paure di vivere, di morire in piena libertà!


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Stava assaporando un’aria nuova, che sapeva di molto vecchio, d’inizio del mondo, quando forse l’angelo rosso giocava ancora sulle nuvole o forse già inseguiva quella neonata idea nera… quando ancora l’uomo era un pulviscolo che nuotava nell’universo facendo lo slalom tra Giove e Saturno. Federico era in una strana contemplazione; lì, imbambolato, dimenticandosi della stanza, delle lenzuola di seta blu, del gatto bianco, dell’albero che sprofondava nel vortice nero, dei suoni del mondo, del brulichio della piazza, del suo bar, della sua vita… ed era placidamente immerso in quella mummificazione violenta. Fu un colpo di martello quella voce, un colpo che ruppe il guscio d’argilla che aveva imprigionato Federico: era lei. Non la vide entrare – e a pensarci bene, non si ricordava di aver visto porte – ma era lì, sorridente, quasi il sorriso di una madre che sorprende il figlio intento a qualche piccola malefatta, ma che non ha nessuna intenzione di rimproverare. « Sa, è molto antico. Alcuni pensano persino che è stato fatto proprio dalle mani di Eva, dopo esser stata scacciata dal giardino divino; si dice anche che rappresenti proprio quello che vedeva in quel giardino… naturalmente io ci credo poco, sono solamente leggende, più antiche dell’uomo, più antiche del mondo. «Spero che si sia riposato bene… era in preda alle allucinazioni, vaneggiava di alberi, di vacche… di altre cose che non ricordo. E non la smetteva più, sa? Sarà andato così tutta la notte credo». «Ma io che ci faccio qui?», iniziò a parlare molto lentamente, preso dall’imbarazzo, dalla voglia e dalla paura di sapere cosa era successo. «Non capisco… mi sono ritrovato qui… ma non capisco come… l’unica cosa che ricordo è un gatto bianco…»; rimase così, quasi bloccato, con le parole sbriciolate nella bocca, che cadevano a terra senza nessun suono, perse per sempre. Lei, raggiante come quel giorno, rideva: una risata quasi di compassione per la confusione di Federico, per quel suo infantile panico, per quel suo disperato tentativo di ricostruire le circostanze che lo avevano portato lì, in quella vellutata stanza, davanti a colei che cercava nei suoi sogni, che rincorreva tra i suoi pensieri. «Quello è il mio gatto. L’avevo perso, ed ero andata in giro a cercarlo… ci sono molto affezionata e non volevo perderlo. Alla fine mi sono persa io… veramente da stupidi… Ma è colpa di questo paese, sembra piccolo… in realtà è più intricato di un labirinto. Se non ci si sta attenti si può rimanere qui dentro, tra queste strade, a vagare per giorni interi. E poi, alla fine, eccolo lì, accucciato tranquillamente, quasi aspettasse il


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mio arrivo, e lì c’era anche lei, sdraiato per terra… mi ha fatto prendere un colpo Non sapevo cosa fare, ma alla fine mi sono decisa a portarla a casa mia». Si sedette sul letto, leggera, con il suo vestito rosa e macchiato di fiori, che la rendevano simile a una ninfa, e i suoi piedi, liberi da ogni costrizione, erano bianchi, morbidi, sottili, immacolati. Non smetteva di guardare l’azzurro dei suoi occhi, quasi a volersi tuffare in quei due laghi e nuotare fino al suo cuore, così da potere confidare, soltanto a lei, tutta la sua angoscia, quel gran turbamento che la sua visione gli provocava, quel senso di libertà che i suoi occhi gl’infondevano… ma sarebbe servito soltanto a rendersi ridicolo; e perché mai doveva comunicare a una sconosciuta, della quale non conosceva neppure il nome, ciò che fermentava nel suo animo; ma sembrava che quella donna la conoscesse da tanto tempo… che stupidaggini! «Scusi signurina non riesco ancora a capire…»; venne interrotto da una solare risata che lo pietrificò: ogni volta che quella donna rideva, nella sua mente apparivano una gamma di colori infiniti, a formare mille arcobaleni… e quei mille arcobaleni diventavano mille camicie di forza, che lo bloccavano in una morsa asfissiante. «Mi deve perdonare se rido… il fatto è che lei continua a chiamarmi “si-gnu-ri-na”… e una parola che mi fa ridere… oh, non vorrei averla offesa… mi chiedevo soltanto… se io fossi sposata, lei continuerebbe a chiamarmi signurina?…no, non faccia quell’espressione, anzi per dirle la verità mi fa persino piacere, mi toglie molti anni… se mi avesse chiamata signora, avrebbe rivelato la mia età… ma “signurina” è una parola così leggera, sembra rivolta a una ragazzina». Era giovane, era bella, aveva un’espressione da non rivelare nessuna età; vagava quella bellezza tra il tempo e lo spazio, sembrava guardasse il loro fluire inesorabile e lento dal di fuori, un fuori che non aveva tempo e spazio, un fuori che era anche il suo dentro, tutt’uno mescolato, fuori e dentro in un unico essere. Sì, era bella, era decisamente bella, e lui l’avrebbe per sempre chiamata signurina, e cento volte le avrebbe detto che era bella, e cento volte avrebbe gridato al mondo che era la sua signurina, ma quelle grida, quelle cento affermazioni rimanevano dentro di sé, rimbombando in un’infinita eco al suo interno, sarebbero rimaste lì, sepolte per tutta la sua vita. « Questo paese mi meraviglia ogni giorno. Quando sono arrivata credevo fosse deserto, e oggi a guardarlo di domenica sembra scoppiare di vita. È una caratteristica della Sicilia, vero? Siete straordinari, avete un’energia dentro… una carica così positiva e quando la sprigionate


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sembra che il mondo sia lì lì per esplodere. È proprio tutto il contrario di quello che si dice». Era così disinvolta e lui così confuso e a disagio. Non sapeva proprio come comportarsi; dopo tutto quello che gli era capitato non sapeva se ridere o piangere. Certo quella sua naturalezza, quella gaia espressione nel parlare lo rassicurava, aveva quasi l’effetto di un ricostituente, di un dolce medicinale che si vorrebbe prendere anche quando non se ne ha bisogno. «Mi dispiace contraddirla, ma è in errore. Tutto questo lei lo pensa perché non è siciliana, perché non è nata in questa terra e da questa terra. La nostra è una terra ambigua… mortale, vitale, triste, gioiosa… non so come spiegarvela. È mille maschere in una o se vuole una maschera che raccoglie mille espressioni, e non basta una vita a conoscerle tutte. Ognuno di noi siciliani nasce con una di queste espressioni, con una di queste maschere appiccicate al volto… Noi siamo un popolo sfuggente, e chi non è nato qui non ci potrà mai capire. Non potrà mai capire l’effetto devastante che ha il sole in Sicilia – e non mi riferisco al suo effetto sul territorio – ma a quello sulle nostre anime… quando lo scirocco ti brucia la pelle, ti s’insinua all’interno, è come una droga che ti provoca uno stato inebriante e malefico… a volte toglie la voglia di respirare, di camminare, di pensare…»; erano molto amare quelle frasi, ma gli uscivano fuori così senza che se ne accorgesse; uno sfogo interiore che era diventato uno sfogo esteriore; e lei era scomparsa mentre lui parlava; quelle frasi non erano rivolte a quella sconosciuta donna, ma, con tutta la sua violenza, erano scagliate contro tutti i siciliani, erano pesanti lance di risentimento che sfregiavano il volto della Sicilia, voleva quasi tagliarla in due, voleva sprofondarla, dopo milioni di anni voleva annegarla, voleva che non se ne parlasse come una seconda Atlantide e che fosse elogiata per i secoli avvenire, ma desiderava invece che se ne perdesse ogni traccia, che fosse dimenticata per sempre e per sempre dimenticati i suoi abitanti. E lui con loro voleva esser dimenticato, per quel poco che di lui si poteva dimenticare; cos’era se non un’arida zolla in quel territorio arido, soltanto un filo d’erba secco, che era nato e sarebbe morto nello stesso punto, senza avere avuto la possibilità di maturare e spandere per l’aria i suoi semi. «Perché è così duro con la sua terra?» quella tremenda e tanto semplice domanda interruppe i pensieri di Federico, domanda alla quale non sarebbe riuscito a dare nessuna risposta sensata. «Io la trovo meravigliosa. Non si dovrebbe mai rinnegare la propria terra. In fondo, cosa le ha fatto?».


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Cosa gli aveva fatto? Che domanda terribile. Tutto. Rimase lì a guardarla cercando di spiegare con il solo sguardo tutta la sua angoscia, tutta la sua tristezza. I suoi occhi erano divenuti così profondi che avrebbero angustiato chiunque; ma lei no, lei non era minimamente turbata; il suo volto era calmo, sereno, come se non fosse per nulla sorpresa dall’espressione di Federico… sembrava quasi essere a conoscenza dei suoi turbamenti… ma com’era possibile! Sembrava ma non era verosimile. «Vuole sapere proprio cosa mi ha fatto?… Mi si è aggrappata addosso. Sì, proprio come una piovra. E più io cerco di svincolarmi, più lei stringe la morsa. È soffocante. e io non resisto più qui… vorrei proprio fuggire, togliermi da dosso la polvere di questa terra». I suoi occhi erano pieni di fiammeggianti lingue di fuoco, le mani senza controllo gesticolavano impazzite e gocce di sudore scivolavano sulla fronte. Lei lì impassibile, come se ascoltasse una storia ripetuta mille volte, e di cui ne provava soltanto nausea, solo nausea! Né un briciolo di compassione vi era su quel volto, né un momento di turbamento: un volto di porcellana, una bambola con gli occhi spalancati. Lui allora smise di guardarla; non riuscì più a sostenere il suo sguardo, e dovette rivolgere la sua attenzione a qualcos’altro. “Chissà perché quell’espressione?” pensò tra sé cercando una qualche spiegazione. “Forse mi sono reso ridicolo… ma è ridicola questa situazione. Che ci faccio io qui?… e perché raccontarle tutto?… quel suo sguardo… vorrei proprio baciarla. Ah che idea… se appena ci provassi sono sicuro mi prenderebbe a schiaffi.“ «Sapeste quante volte ho tentato di farlo…», riprese all’improvviso Federico con un’amarezza profonda, con il volto rabbuiato e spento, «ma è così difficile. Fuggire da qui per sempre non è possibile. E come se fossi attaccato a un elastico… più corro e più velocemente ritorno al punto di partenza. Ed è sempre lo stesso: quattro case, una strada, una chiesa, il mio bar… e poi… e poi mi dica lei cosa c’è dopo…?!». Smise di parlare e rimase immerso nel silenzio ad aspettare una sua risposta, voleva da lei una risposta… qualsiasi cosa: una frase fatta, un farfuglio di parole, un semplice monosillabo; voleva qualcosa che riempisse quel vuoto, qualcosa che non fossero le sue parole. Aveva già parlato abbastanza, perché continuare, e poi cosa poteva dire in più… ora toccava a lei… ma perché non rispondeva? Sembrava meditare sui pensieri che Federico aveva srotolato, che aveva messo alla berlina senza nessun timore, e lì per lì a sputar qualche sentenza che lo avrebbero ferito, che gli avrebbero negato la ragione, ma cosa gliene importava…


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anzi, meglio così. e inorgoglito rimase anche lui fermo in quella statica atmosfera; era in ansia e aspettava quella fatidica ma inevitabile fucilata, senza benda, così sfrontatamente a guardare le canne dei fucili… mille fucili silenti che aspettavano un ordine solo. Il suo sguardo era ancora perso fra i bui dei suoi pensieri, e quel silenzio ormai si prolungava da qualche minuto. Si ritrovò di novo solo. Esterrefatto guardava la stanza. Era entrata senza fare nessun rumore e così se n’era andata. Lo aveva lasciato senza nessuna risposta. E se fosse la sola persona a potergli dare l’unica risposta giusta? Perché era rimasta in silenzio? Perché non aveva voluto rispondergli? Domande inutili. Rimase senza pensare. A un tratto due occhi gialli lo guardarono fisso, il bianco felino, unico ricordo al suo risveglio, stava lì accanto, seduto sulle zampe posteriori, in nobile posa, come se in esso si fosse risvegliata la coscienza di essere stato un dio. Quelle due brillanti lune entrarono negli occhi di Federico, fino al cervello, fino alle viscere…


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V Il meraviglioso viaggio

La testa penzoloni dondolava assecondando il ritmato movimento del treno. Il viaggio era durato parecchie ore, e il sole quel giorno faceva gli straordinari. Federico si era addormentato quasi subito; quella notte, infatti, la forte eccitazione per l’attesa della partenza dell’indomani, non gli aveva fatto chiudere occhio; era rimasto tutta la notte seduto sul letto con le gambe incrociate, come gli indiani d’America, leggendo e rileggendo fino alla nausea un piccolo libricino che illustrava le bellezza di Palermo. Certo era un’idea bizzarra quella di recarsi a Palermo, ancor più bizzarra perché non ne venne fatto partecipe il padre: “Che idea assurda! Che diavolo ci devi andare a fare a Palermo?! Pensa a studiare invece, che i soldi non cadono dal cielo… o pensi forse che io vado a rubare?”, questo è ciò che avrebbe detto. Federico conosceva tutte le frasi ricorrenti di suo padre: quelle che amava di più, quelle che diceva più frequentemente. Quelle pronunziate in un italiano più o meno corretto, anche se dette ad alta voce, erano innocue… ma quelle in un siciliano così oscuro, che, forse, nemmeno il padre ne capiva il significato, quelle sì erano terribili, bisognava stare attenti alle risposte da dare, pesare parola per parola, e ancor più terribili perché accompagnate da un gesticolare folle, da un incredibile innalzamento della pressione del sangue che gli faceva diventare gli occhi e la faccia di un rosso terribile e veramente spaventoso, che sembrava dovesse di lì a poco eruttare lava dagli orecchi. No, non gliel’avrebbe potuto dire; si era talmente intestardito e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. Tutti i suoi amici prendevano il treno, facevano scampagnate, facevano gite… ma lui no; l’unica risposta che poteva dare ai molti inviti che gli venivano proposti era: no; un no categorico e pieno di rammarico; si sentiva umiliato ogni qual volta pronunciava quella parola, una parola così piccola ma così piena d’astio per suo padre. Quella mattina passò davanti al cancello della scuola senza entrare; cercò di non farsi notare: voleva che nessuno sapesse che stava per andare a Palermo, non per paura che qualcuno andasse a raccontarlo a suo pa-


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dre – non v’era di questo pericolo, una sorta di giovane omertà proibiva a quei ragazzi di farsi la spia a vicenda – ma voleva andarci solo, voleva assaporare quel viaggio da solo, rimanere per qualche ora con se stesso, pensare, riflettere, guardare con calma ciò che voleva, esaminare ogni singolo monumento. Non avrebbe potuto fare tutto questo con i suoi compagni di scuola; cosa poteva importare loro dell’ebbrezza del viaggio, abituati com’erano a viaggiare, della bellezza e del fascino di secolari palazzi, di mura vecchie millenni… no, per loro sarebbe stato solo motivo di schiamazzo, un’occasione per spezzare la monotonia della settimana, ma per Federico era il viaggio della vita, la prima volta che lasciava il paese alle sue spalle… no, doveva andarci solo. La piccola stazione del paese quella mattina era semivuota: meglio così, poche persone avrebbero notato la sua presenza. Si avviò con falsa naturalezza verso la biglietteria, fece il biglietto – spese quasi tutti i soldi raccolti la settimana prima, proprio quelli che avrebbe dovuto utilizzare per comprarsi la colazione ogni mattina; sei giorni di digiuno, un sacrificio tremendo! Per fortuna gli rimanevano diecimila lire, regalo di suo padre per un otto ottenuto nel compito d’italiano – e rimase ad aspettare l’arrivo del treno, seduto su una delle panchine di legno verde della stazioncina. Finalmente il metallico serpentone arrivò alla sua tana, dopo aver attraversato mezza isola, paesini piccolissimi, campagne deserte, montagne coperte da enormi boschi… La stazione di Palermo parve gigantesca agli occhi di Federico, che rimase a contemplarla, appena sceso dal treno, come un babbeo, imbambolato lì in mezzo, mentre la gente che camminava con una certa fretta lo spingeva qua e là. “Che confusione! Sicuramente c’è più gente in questa stazione che in paese!”, pensò sorridendo, un sorriso che gli dava un senso di pace. Non era per nulla impaurito o confuso, aveva la situazione sotto controllo. “Ricapitoliamo: il biglietto di ritorno l’ho in questa tasca;” e lo estrasse dalla tasca di destra dei pantaloni per esserne certo, “le diecimila lire che mi sono rimaste le ho nell’altra tasca…”, anch’esse le estrasse per assicurarsene. Così, dopo aver fatto gli accertamenti dovuti, s’incamminò verso l’uscita. Una confusa babele di migliaia di convulsi e isterici suoni lo abbagliò. Urla e clacson nevrotici si mescolavano in un vortice micidiale. Interminabili fila d’automobili sembravano coprire come un metallico tappeto il nero asfalto: non gli uomini ma le auto i veri padroni della città e i rumori le loro voci. Si sentì ubriaco; lo smog d’improvviso gl’invase il corpo, entrò nei polmoni, fino allora puri e bianchi come gesso, e gli


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avvelenò il sangue. Ma di lì a poco anche lui sarebbe diventato immune a tutto ciò, così com’è immune qualsiasi abitante di una città; già dentro al grembo delle proprie madri si diventa immuni, già là dentro s’inizia a respirare lo smog, nutrimento della nuova era, nero ossigeno della futura generazione. La gran massa d’uomini e donne sembrava seguire delle strisce invisibili: non un’esitazione nei loro movimenti, non un piede fuori posto o un gesto inconsulto, ma quasi comandati a eseguire azioni precise. Gli occhi di Federico sembravano impazziti, non riuscivano a concentrarsi su di un punto preciso, tutto era nuovo e straordinario; centinaia di persone si stipavano all’interno degli autobus come volessero diventare un’unica cosa, tutt’insieme ammassati, corpi su corpi, sudori che si mischiano, e sguardi fissi sui pochi vuoti che rimangono fra persona e persona. Tutta quella confusione così estranea provocò nel giovane Federico un fascino mai provato, si sentì ammaliato da tutta quella marea di gente che si muoveva a ondate regolari, flussi di correnti umane erano manovrate da chissà quale misteriosa luna: forse ognuna di quelle persone possedeva una personale luna al proprio interno, ed era proprio essa che ne regolava meccanicamente i movimenti. Ma Federico non possedeva quella particolare luna, egli poteva solo farsi trascinare dal flusso umano, poteva tuffarsi in quel mare di persone e lasciare che la corrente lo portasse in ogni angolo della città Il suo meraviglioso viaggio aveva inizio. Da che parte cominciare? Palermo è talmente grande… decise di camminare per via Roma per poi svoltare in Corso Vittorio Emanuele e proseguire così fino alla Cattedrale. Attraversò la piazza: impresa ardua: tutti quei semafori, che lo guardavano con i loro tre occhi multicolori, lo intimorirono. Aveva una tremenda paura di attraversare l’enorme strada che aveva davanti, al di là della quale inizia la larga via Roma. Aspettò con impazienza e molta paura che il semaforo gli desse il permesso, accendendo il suo occhio verde, di potere continuare il suo cammino. Attraversava lentamente e il rombo delle automobili, che sbuffavano impazienti, gli faceva tremare le gambe. Quelle bestie metalliche non vedevano l’ora di ripartire, e i loro padroni difficilmente riuscivano a tenerle buone per quei pochi secondi. Non appena mise il piede sul marciapiede opposto, un boato tremendo scoppiò d’improvviso alle sue spalle, i cavalli cromati non perdettero tempo: al verde del semaforo iniziarono a galoppare con i loro zoccoli di gomma a tutta velocità, nitrendo rabbiosi, per fermasi inesorabilmente all’ennesimo semaforo che distava non più di duecento


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metri, e continuando così, finché stanchi ed esasperati ritornavano alle loro stalle di cemento e catrame. Al via di quella corsa pazzesca il povero Federico fece un salto in avanti barcollando per qualche metro e quasi spiaccicandosi al muro. Alcuni passanti lo guardarono insospettiti, molti altri non si accorsero di nulla o fecero finta di niente; per Federico fu un’esperienza terribile. Dopo qualche secondo si riprese dallo choc, e lo dovette fare quasi per forza, per non destare sospetto, e anche per un po’ di vergogna. Via Roma sembrava interminabile, una strada infinita, a malapena ne scorgeva la fine; là in fondo la strada diventava così piccola che sembrava un quadro a olio, e le automobili e le persone sembravano tanti puntini dipinti con un pennello sottilissimo. Non aveva paura di perdersi o di non conoscere le strade, aveva studiato le cartine della città per mesi e mesi, conosceva tutte le strade principali a memoria, conosceva tutti i percorsi turistici possibili e li ripercorreva a mente decine di volte al giorno, insomma conosceva Palermo meglio degli stessi palermitani. E che invidia provava per tutte quelle persone che abitavano in una città così bella, ma che non erano in grado di apprezzarla. Camminavano per strada con una svogliatezza e una noncuranza disgustosa, non avendo un minimo spirito d’osservazione, né un po’ di curiosità artistica, camminavano senza rendersi conto su cosa camminavano, come se quei duemila e settecento anni di gloriosa storia si fossero persi per sempre al centro della terra; e forse sono veramente stati distrutti dall’indifferenza, dal quel torpore che ha assopito la memoria dell’uomo e secolo dopo secolo l’ha resa sempre più corta. Ma come dimenticare qualcosa che si ha sempre davanti agli occhi? È come dimenticare da un attimo all’altro la propria voce, la forma della propria faccia, l’essenza della propria anima; ed è proprio così? Tutti quegli uomini, che frenetici camminano su antiche strade, che costeggiano antiche mura, tutti questi uomini hanno dimenticato qualcosa della propria anima, oppure non vogliono neppure pensarci, nel timore di sapere che l’hanno scordata? Intanto Federico camminava, o per meglio dire, veniva trasportato dalla foga della massa verso l’incrocio con corso Vittorio Emanuele. Con molta fatica riuscì a divincolarsi dalla furia della gente, ad attraversare la strada e a immettersi per il corso. Lunghissimo e molto più stretto di via Roma, corso Vittorio Emanuele suscitò uno strano fascino su Federico; quegli eccentrici palazzoni barocchi che costeggiano tutto il corso lo facevano camminare con lo sguardo all’in su. Ammirava ogni singolo portone e ne vedeva uscire


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fuori carrozze laccate e cavalli bardati; salutava dame incipriate con le loro enormi parrucche, e scompariva intorno a lui il rumore senz’anima delle nuove carrozze metalliche; gli passavano davanti guardie armate con moschetti e lunghe spade dorate, schiere di nobili uomini che con eleganze sublimi si prodigavano in fastosi inchini togliendosi il cappello con ampio gesto di devozione, e le dame strette in quei loro vaporosi abiti ridevano maliziose dietro ai ventagli di piume bianche e rosa. Si specchiava, lui minuscolo essere in un mondo d’eccessi dimenticati, in enormi specchi affogati in sculture di legno dorato; e dall’alto dei e semi-dei, paffuti angioletti e mostruose creature lo guardavano sogghignando. «Senti ragazzino, devi stare molto qua davanti?». Si ruppe quel fantastico specchio. Federico era rimasto per circa cinque minuti immobile davanti all’entrata di un negozio impedendo così l’ingresso ai vari clienti. Il negoziante, con molta flemma, più che altro divertito da quello strano ragazzino dall’aria svagata e disorientata, si mise a ridere. «Scusi… mi perdoni. Me ne vado». Spaventato dalla visione improvvisa di quell’uomo si affrettò ad andarsene. Fu veramente una visione terrificante, resa ancora più spaventosa da quel sottile ed enigmatico sorriso che scopriva il brillare di un dente d’oro, e dal fumo della sigaretta che usciva copioso dalle narici. I Quattro Canti, invecchiati in quella loro pietra gialla, signori della città, padroni e depositari dei misteri più profondi; le quattro vite di Palermo, da dove forse nasce tutto e da dove forse è partito tutto. Il centro spirituale della città, porta mistica che immette nel più antico luogo di Palermo: la città punica, la città di quelle genti che dall’Africa vollero insediarsi nella nostra isola, diventando così la loro casa, consorella del nero continente e di tutto l’incantato oriente. Respirò improvvisamente intensi profumi, che gli solleticarono l’anima, e voci e suoni di un’ondulante melodia inondarono tutto il corso; quel flusso medioorientale, che solo in una città come Palermo si può riscontrare, approdo del Mediterraneo, porto franco d’ogni civiltà che abbia la fortuna di toccare la sua fertile terra e di esser abbagliato dalla dorata conca, valle incantata e culla materna, lo trascinava con dolcezza, e lui con dolcezza se ne bagnava intensamente, respirando a pieni polmoni quell’antica sensazione, quella ormai dimenticata aria pregna di balsamici profumi, di voci che, con cadenze ritmate e vischiose, coprivano gli occhi e gli orecchi con densi racconti di antichi periodi, quando gli dei giocavano con gli uomini, e gli uomini rincorrevano leggiadre ed esili dee, e tutto era leggenda e tutto era un mitico sogno.


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La normanna costruzione spuntò all’improvviso e Federico ammirò qualcosa d’inimmaginabile; strane e diverse architetture mischiate fra di loro a completarsi. Le cupolette verdi affogate in quei blocchi d’arenaria, e lassù, svettante in cima a tutto, la grande cupola, elemento estraneo e stonante ma ormai inglobato e accettato. Lo spiazzale antistante, circondato dal settecentesco recinto marmoreo – sul quale, seri e vigilanti a protezione del sacro luogo, immobili vescovi e papi e santi tutt’insieme, come esercito d’angeli, stanno a guardare centinaia di generazioni affannate a vivere le proprie vite sotto di loro – brulicava d’indaffarati turisti, e migliaia di lampi invadevano la Cattedrale. Stordito da tutto quel babelico pandemonio, piano e senza accorgersene s’allontanava da quella massa informe, – esasperazione di una vita che troppo in fretta si trasforma e tutto trasforma in torno a sé. Non più calma ma affanno, non più riflessioni ma frenetici pensieri, tutto ci assale e ci domina. Si allontanava dal rumore d’intricate voci, di lingue confuse, di vuote idee che in vuote teste si perdono, e la sua delusione, per un mondo che non conosceva, ma che immaginava diversamente, lo rattristava. Così tanto aveva disprezzato la ristrettezza del suo piccolo mondo, compresso in quelle poche case e racchiuso fra quelle colline, sempre identiche ogni qual volta apriva le finestre della sua stanza, come se non ci fosse aria… ma qui era peggio: la troppa aria, il molteplice poteva solo spaventare, e quella claustrofobica esistenza, che egli credeva di vivere nel suo piccolo paese, si centuplicava in quell’enorme città. E si palesava ancor di più quel grave senso di solitudine che è il peggiore malessere dell’uomo; proprio dentro a quella moltitudine, la solitudine si attacca alla pelle. Che vicoli bui e che calma. Il dietro-le-quinte della città. Si ritrovò nella cantina di quella grande metropoli. E lì poté respirare il vero odore della città, poté ammirare la sua vera essenza, sentire i suoi veri rumori, che non erano più metallici e meccanizzati, ma li sentiva umani: erano grida di persone, lamenti angoscianti di malati, strilli di bambini, godimenti di donne e di uomini… tutto un altro mondo, lontano dai flash turistici, dallo sguardo delle statue e dall’imponenza dei monumenti. L’aria era pesante e senza luce, e tutto era un brulichio di sottofondo. S’immerse in quel labirinto di viuzze che s’intersecano senza una precisa geometria. E stradine sbucavano da ogni parte.


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Aveva un po’ di paura Federico, e cercava a tutti i costi di ritornare sulla strada principale, ma senza riuscirci. Si era perso. Si racchiuse in se stesso, quasi per confortarsi di più, come se potesse, in questo modo, cercare un coraggio nascosto. In una piazzetta, di ciottoli divelti, ai cui lati rivoli di nera acqua scivolavano, un gruppetto di ragazzini giocava a pallone, se quello si poteva chiamare pallone: non era altro che un pallone di plastica inserito all’interno di uno di cuoio sventrato al centro. Quella piccola combriccola giocava con foga, e Federico rimase lì a guardarli. Il loro linguaggio era incompressibile, del quale ne poteva comprendere soltanto le parolacce, che erano espresse con una tale cattiveria che lasciava sbalorditi. Sembrava quasi che si stesse giocando, in quella piccola piazzetta, una partita di vitale importanza, il cui esito avrebbe determinato terrificanti eventi. Il pallone a un certo momento rotolò accanto ai piedi di Federico. Egli rimase fermo, quasi non si fosse accorto del pallone. «Ma cu è? Ma che è cretinu?», si udì. Ed era un tono non certo amichevole. Alcuni di loro si avvicinarono, con un’espressione arrogante e quasi minacciosa. «Ei cumpà, staiu parlandu cu’ tia. Chi fa’ un ci senti?». Federico rimaneva come pietrificato; riusciva a capire a stento quel dialetto – no che fosse tanto diverso da quello del suo paese, ma Federico non comprendeva neppure quello –, sicuramente quelle parole non erano rassicuranti. Non si era mai trovato in una situazione del genere, non sapeva in che modo avrebbe dovuto reagire e come a loro volta quegli sconosciuti individui avrebbero reagito. «Ciccio… è muto?», disse il ragazzino che per primo si era avvicinato, rivolgendosi a un altro, il quale a sua volta si avvicinò con passo lento, e nei suoi occhi v’era una flemma matura, come se in quel corpo da ragazzo risiedesse un’anima da adulto. Sì, era proprio così, Federico non solo provava paura per quella situazione, ma provava anche una sorta di reverenziale timore verso quei ragazzini, come se stesse per essere rimproverato da qualche adulto. «Sei muto allora?… Staiu parrannu cu tia. No Calogeru, ragiuni hai. Ma a mia mi sa che ci sta pigliannu pu’ culu. Allora mi vuoi rispondere o no? comu ti chiami?» si rivolse avvicinando aggressivamente il suo volto a quello di Federico, che ormai era completamente coperto da un lenzuolo di sudore.


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«Come?», rispose Federico tremando di paura; e quella paura non gli faceva aprire le labbra, e quel “come” tremante, uscì dalla sua bocca sottile, quasi un sibilo che con difficoltà si riusciva a udire. Ormai tutti i membri di quella terrificante banda erano accanto a lui e lo fissavano, ed egli si sentiva un piccolo pupazzetto in balia di quegli sguardi e del calore dei loro respiri. Erano trasandati, sudici, le mani e le unghia coperte da uno strato nero; anche i visi erano sporchi e i capelli unti e impolverati. Alcuni di loro, sicuramente i più anziani, fumavano alacremente e con una certa foga, e i loro volti mostravano delizia per quelle abbondanti boccate di fumo, e rimanevano in silenzio guardando i più piccoli, che ormai avevano preso il sopravvento su Federico. Si scambiavano risate maligne e già forse avevano deciso il destino della povera vittima, che per puro caso era entrato nel loro territorio. Sì, sembravano tanti animali affannati attorno alla propria preda. «Allora cumpa’ nenti ma’ dari?», disse uno di loro, forse Ciccio o Calogero; ma Federico non capì cosa mai avrebbero voluto da lui. «Ma io… io non ho niente…cosa volete da me». Finalmente uno dei più grandi, che sembrava anche il capo, poiché a un suo cenno tutto il gruppo rimase in silenzio e lasciò uno spazio per farlo passare, parlò: «Ma perché lo dovete spaventare così?», disse con una tale sufficienza; Federico non riuscì più a capire il meccanismo di quel gruppo di ragazzi; sembrava vi fosse una sorta di discordia all’interno della banda: forse quel ragazzo si era mobilitato per aiutarlo, forse gli aveva fatto pena… Federico sperò, con tutto il cuore, che le cose stavano proprio così, e che la tremenda situazione si fosse potuta risolvere presto. «Ma che fa… paura hai? Non ti preoccupare. Allora me lo vuoi dire come ti chiami?». Federico si rincuorò, si sentì a un tratto protetto da quello sconosciuto anche se non riusciva a capirne il perché. «Mi chiamo Federico…», rispose con molta più calma di prima. «Io mi chiamo Tony. Ma tu non sei di Palermo, vero? Un parri comu a nuautri». «Come… non ho capito». «Dico che non parli come noi. Va be’ ho capito, vieni da qualche paese. Ma che ci vinisti a fari a Paliemmo?». «Sono venuto per vedere i monumenti…», una fragorosa risata collettiva lo investì; erano risate crudeli, pugnalate inferte a quel povero corpo. «È venuto per vedere i monumenti…Tony ma ancuora tiempo ci pieddi, ma picchì un n’afinisci subito». ...CONTINUA...


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