La Luce della Notte

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Nycholas, o meglio, Nyx, è un ragazzo sicuro di sé e del suo modo di vedere la vita. Nelle relazioni con le donne, invece, è una frana, perché terrorizzato dall’idea di poter perdere una partita, di rimanere scottato. Ma sarà proprio un incontro casuale con una ragazza, Aurora, a stravolgergli la vita. Aurora è il suo esatto contrario. Non ha paura di amare e non risparmia emozioni. Tra i due nasce subito una forte sintonia, al punto che Nyx si ritrova completamente spiazzato dalle nuove sensazioni che prova. Decide comunque di fidarsi, di lasciarsi andare. Dopo questo primo incontro, tra Nyx e Aurora sembra però che diventi impossibile ristabilire ogni sorta di contatto. I due si rivedranno solo dopo molto tempo, in un giorno dell’anno che sembra celare un preciso significato. Sarà una vecchia chiromante, interpellata per gioco, a fornire una possibile chiave di lettura e a far notare a Nyx che il suo nome, in greco antico, significa Notte. Nyx però dà ascolto solo alla sua razionalità e prosegue ostinato nella ricerca di Aurora, anche se la Notte e l’Aurora sembrerebbero destinati a un inseguimento perenne…

L'AUTORE: Vito Cinque è nato nel 1977 in provincia di Napoli, ma è cresciuto e vive nei pressi di Salerno, a due passi dalla costa d’Amalfi, suo rifugio dallo stress di città. Dopo aver conseguito nel 2003 la laurea in Ingegneria Gestionale, inizia la sua carriera lavorativa operando nel settore industriale. Porta però sempre con sé la necessità di esprimere anche il suo lato meno tecnico e tecnologico, forse la sua parte più autentica. Tale irrequietudine è condensata in questo suo primo, travolgente romanzo.

Titolo: La Luce della Notte Editore: 0111edizioni Pagine: 182

Autore: Vito Cinque Collana: Selezione Prezzo: 14,00 euro

11,90 euro su www.ilclubdeilettori.com


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IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le Gioca con la Banda del Booko vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei (che si legge quali è richiesto un riscatto all'autore. BUCO) all'ANONIMA Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In SEQUESTRI VAI AL SITO

questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.


Vito Cinque

LA LUCE DELLA NOTTE

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

LA LUCE DELLA NOTTE Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Vito Cinque ISBN 978-88-6307-281-5 In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Maggio 2010 da Digital Print Segrate - Milano


A mia moglie



PRIMA PARTE

A tutti è dovuto il mattino, ad alcuni la notte. A solo pochi eletti la luce dell'aurora. (Emily Dickinson)



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I

Stanco e mezzo fradicio, entrai nella hall dell’aeroporto di Linate. Alzai gli occhi verso lo schermo delle partenze e scoprii che, causa maltempo, tutti i voli erano stati sospesi. La mia prima sensazione fu un accenno di irritazione, ben presto soppiantata dalla tipica piacevolezza che legavo agli avvenimenti inaspettati. “Okay, partenza posticipata” pensai. “E adesso cosa faccio?” Iniziai a scorrere la rubrica del cellulare, nel tentativo di scovare il numero di qualche vecchio amico trasferitosi da quelle parti, ma lasciai perdere. Decisi allora di incamminarmi verso l’uscita, in modo da poter volgere lo sguardo al cielo e cercare di capire quali fossero le sue intenzioni. Non lasciava adito a molte interpretazioni: una fitta pioggia, le gocce grosse come chicchi d’uva, rendeva tutto il panorama sfocato e velato di grigio, come accade nelle vecchie foto, quando i colori sbiadiscono e i contrasti sfumano. Non mancavano pungenti folate di vento, attenuate dalla mia fedele sciarpa grigia gradevolmente impregnata di Fahrenheit. E pensare che nemmeno dovevo starci in quell’aeroporto. La causa di tutto fu un errore di digitazione sulla tastiera del pc. Una banale inversione di cifre all’interno di un codice, con la conseguente consegna di merce errata che mi costrinse a lasciare l’ufficio di corsa, e a prendere il primo volo disponibile per Milano. L’incontro con il cliente, le solite riunioni durante le quali il tutto si sarebbe potuto risolvere nella metà del tempo, era terminato da poco. Riuscii a convincerlo che, dopotutto, non era una tragedia se le diecimila camicie consegnate avevano il doppio bottone al collo, piuttosto che quello singolo. A sera inoltrata di quel giovedì di metà Novembre, ero quindi pronto a ritornarmene a casa, la testa ormai sgombra da preoccupazioni e tanta voglia di liberarmi dalle costrizioni di giacca e cravatta. C’era però qualcosa di indecifrabile in quella atmosfera surreale che non mi convinceva del tutto. L’aeroporto e lo spiazzo antistante


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l’ingresso erano stranamente deserti. Sembrava quasi che fossi l’unico idiota a non essere al corrente della cancellazione dei voli. Tuttavia, quella quiete non faceva altro che accrescere la mia serenità. Appoggiai le spalle al muro dell’ingresso e scelsi di starmene tranquillo per un po’, in compagnia di una sigaretta. Non fumavo molto, e infatti il pacchetto da dieci era ancora quasi pieno, ma farmene una ogni tanto mi aiutava a ritrovare me stesso e a riorganizzare la massa di pensieri che affollava la mia testa a fine giornata. Mi incantai a guardare il lucore del tabacco che bruciava, con il suo intenso e tremolante color arancio, così in netto contrasto con l’ambiente circostante da sembrare vivo. Sarei potuto rimanere in quello stato di grazia per ore. La mia attenzione fu risvegliata da un rumore di tacchi che avanzava nella mia direzione. Non mi voltai, ma lo sentivo sempre più vicino. «Scusi, saprebbe dirmi quando riprenderanno i voli?» chiese una voce femminile. La domanda mi infastidì e confezionai una risposta nel mio solito stile irriverente. «Spiacente. Mi si è appena rotta la sfera di cristallo», ribattei senza nemmeno voltarmi. Poi mi girai con aria seccata in direzione di quella voce. «Ma non si preoccupi. Quando ne troverò una nuova, sarò lieto di darle una risposta.» Mentre pronunciavo la mia irritante frase, iniziai ad analizzare chi mi stava di fronte. Era una ragazza di circa 25 anni, dal corpo snello e di altezza media. Il viso era circondato da capelli color miele, leggermente mossi, che superavano appena le spalle. Indossava un tailleur semplice ma elegante. Lo stile mi parve quello di Armani. Una camicetta bianca, le prime tre asole sbottonate, dava evidenza a un collo tonico e delicato. Non mi diede l’idea di essere molto truccata, però notai un piacevole ombretto color bronzo sulle palpebre. Il suo sguardo era sereno, ma lo vidi cambiare repentinamente mentre ultimavo la mia infelice replica alla sua cortese domanda. Mi accorsi di aver esagerato. Sfoderai quindi il mio classico sorrisetto da colpevole, e azzardai a proseguire la conversazione dandole del tu. «Scusami. È stata una giornata intensa…» «Dai, figurati. Anche per me è stata dura oggi», disse lei prima che potessi continuare. «Sei perdonato, ma dovrai offrirmi una sigaretta». Le porsi il pacchetto. Lei sfilò la sigaretta con tale grazia che non riuscii neppure a percepirne lo sfregamento. Durante quell’operazione,


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ebbi modo di guardarle le mani: dita affusolate, unghie non troppo lunghe ma con una french perfetta e un piccolo neo alla base del mignolo. Lei si portò la sigaretta alla bocca e io non persi l’occasione di accendergliela. Al bagliore della fiamma, la pupilla si contrasse mettendo in evidenza le sfumature color cannella dei suoi occhi. Anche le labbra, gradevolmente carnose, si accesero di un rosa intenso, forse merito di un velo di lip-gloss sopravvissuto alla giornata. «Grazie», disse guardandomi negli occhi. Le risposi con un accenno di sorriso, mantenendo il suo sguardo. Un attimo prima che l’incrociarsi dei nostri occhi diventasse troppo ostinato, ci voltammo entrambi verso l’esterno ad ammirare la pioggia. «Sembra proprio che non voglia smettere…» esordì lei. «Sì, forse sta anche peggiorando», confermai. «Accidenti», proseguì con finta stizza. «Devo avvisare una mia amica per dirle che stasera non potrò cenare con lei.» Si allontanò di qualche metro per poter fare la sua telefonata, ma senza perdermi d’occhio e non dandomi mai le spalle. Sbrigò la cosa in un paio di minuti, lasciandomi il tempo necessario per riflettere su quale frase formulare per un invito a cena. Non volevo sembrare troppo avventato, ma nemmeno potevo lasciar cadere il messaggio che lei, con astuzia, mi aveva appena inviato: non potrò cenare con lei. Venni però assalito dal dubbio che mi stessi solo illudendo. “Possibile che questa ragazza già si fidi così tanto di me?” pensai. “Oppure è un suo modo abituale di comportarsi?” Decisi di non pormi troppe domande, e di lasciare che il caso facesse il suo corso. «La tua amica, come l’ha presa?» le chiesi. «Mi ha subito rimpiazzata con un altro», rispose lei con aria maliziosa. «Io le renderei pan per focaccia», dichiarai mostrandomi indifferente. Lei finse un passo all’indietro. «Guarda che io non esco con gli sconosciuti!» Ebbi l’impressione che, alla fine, mi avesse fregato. Mi lanciò l’occhiatina tipica di chi lascia intendere di aver ottenuto ciò che voleva, e nel modo preferito. L’invito era spudoratamente partito da me, e lei aveva ancora la possibilità di declinarlo. Ma non lo avrebbe fatto, le lessi in faccia che aspettava ansiosa la mia prossima mossa. «Hai ragione, mai uscire con gli estranei. Quindi, sappi che io sono Nyx.» Lei mi tese il palmo aperto. «Piacere, Aurora», disse con fare cerimonioso.


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Le strinsi la mano. «Lieto di fare la sua conoscenza», risposi usando un tono forzatamente impostato, prendendo in giro quell’approccio un po’ troppo formale per i miei gusti. «Cosa ti aspettavi?», replicò lei, tanto fintamente irritata, quanto realmente divertita dalla scenetta. «Guarda lì, sembri l’omino delle torte nuziali tanto che sei preciso!» Stava diventando sempre più palese che nessuno dei due amasse gli approcci formali. Dopo questo primo scambio di battute, si era anche delineato che, per quanto riuscissimo a dissimularlo, l’abbigliamento e la compostezza iniziale non rispecchiavano la reale essenza di noi due. “Noi due?” mi domandai sorpreso. “Com’è possibile che per questa estranea, che conosco meno della cassiera del supermercato, abbia già concepito un ‘noi’? No! Devo aver pensato in modo frettoloso, senza riflettere bene sulle parole. Le ho piazzate in modo avventato, con il solo scopo di concludere il concetto che avevo in testa. Sì. Deve essere così, altrimenti non sarebbe da me!” Il sussulto di quel pensiero arrivò direttamente all’espressione del mio viso, senza attraversare i soliti filtri. Aurora mi lesse subito in faccia che qualcosa mi aveva turbato. «Cosa c’è che non va, Nyx?» mi chiese. «Dai, scherzavo riguardo al tuo abbigliamento.» «Scusa, figurati… Effettivamente è difficile darti torto», risposi incerto. «Mi sono appena ricordato che avevo una notizia di lavoro da appuntarmi.» In quel momento arrivò, provvidenziale, un forte lampo. Un istante dopo, esplose il suo fragoroso tuono. La pioggia stava aumentando e il temporale era ormai in piena. Entrambi venimmo distratti dall’evento e io approfittai di quei preziosi secondi per rientrare in possesso del mio solito autocontrollo. “No, Nyx. Il fatto è che sei stanco. La giornata è stata difficile e adesso non hai né forza né voglia di questi giochetti psicologici che, di solito, ti divertono tanto”, dissi a me stesso. Incredibile. Quella ragazza mi aveva già messo in difficoltà due volte in pochi minuti, e avrei giurato sul fatto che lei non avesse alcuna intenzione di farlo. Aveva qualcosa nell’espressione dei suoi occhi, nel suono della sua voce, nelle movenze dei suoi lineamenti, che mi disarmavano. La scusa della notizia di lavoro era stata davvero pessima, e di certo lei la prese per tale.


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Aurora si voltò verso di me con un delizioso sorriso e disse: «Sembra proprio che non ci sia speranza di decollare stasera. Forse davvero sarebbe il caso di andare a mangiare qualcosa.» Iniziavo a sentirmi un burattino nelle sue mani. “Possibile che mi abbia già letto così nel profondo da intuire che il prossimo passo io non lo avrei mai fatto, e che adesso doveva essere il suo turno? E sia. Sfida accettata! Sarai un altro bell’esemplare da aggiungere alla mia collezione!” «Okay. Prendiamo un taxi e andiamo a cercare qualche bel locale al centro», proposi. «Almeno concludiamola bene questa giornata. Tu hai qualcosa in mente? Io non sono poi così pratico della zona…» «A esser sincera, nemmeno io. Mi affido a te.» «Allora andiamo verso i Navigli. Lì ce n’è per tutti i gusti.» Aurora rispose, ancora una volta, sorridendo. Era adorabile quel suo modo di fare. Doveva essere ben cosciente delle potenzialità delle sue espressioni. In poco tempo, mi aveva già dato dimostrazione che riusciva a trasmettere parte dei suoi pensieri, e delle sue sensazioni, anche senza l’uso delle parole. Ma usava questa sua comunicazione in maniera sapiente e ben calibrata. Forse ingannato da una memoria non formidabile, mi accorsi che non mi era mai capitato di trovarmi di fronte a una ragazza così intrigante da tanti punti di vista. Quella situazione stava iniziando ad attrarmi sempre di più. Salimmo sul taxi. Il tassista non si rivelò appartenente alla classe degli ‘intervistatori’, per cui si limitò a chiederci dove fossimo diretti. Durante il viaggio restammo quindi in silenzio, sopraffatti dalla stanchezza e dal cullare dell’auto in movimento. O forse eravamo solo un po’ imbarazzati dalla stretta vicinanza. Tuttavia non ci scostammo troppo l’uno dall’altra, ma dissimulammo il desiderio di cercare il contatto reciproco voltando il viso ognuno verso il proprio finestrino. All’esterno, l’insistente pioggia aveva lavato con cura le foglie dei tanti platani disseminati per i viali di Milano, rendendole lucenti e accendendone i tipici colori autunnali. Molte erano cadute, formando ai bordi della strada dei binari di sfumature che variavano dal giallo paglierino all’arancio scuro; sembrava quasi che ci stessero accompagnando chissà dove… Le grosse gocce d’acqua tamburellavano sul tetto del taxi, ma il loro martellante sottofondo non riuscì a coprire le graffianti note di una canzone che andava in radio in quel momento. Era Nothing Else Matters


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dei Metallica, e istintivamente sia io che Aurora rivolgemmo il nostro interesse verso quel brano che, con evidenza, piaceva a entrambi. Never opened myself this way Life is ours, we live it our way All these words I don't just say And nothing else matters Trust I seek and I find in you Every day for us something new Open mind for a different view And nothing else matters Sentendo quelle parole, Aurora si girò verso di me, nel tentativo di incrociare il mio sguardo. Io invece decisi di alzare la guardia, e mi voltai di nuovo in direzione del finestrino.


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II

Scesi dal taxi, ci incamminammo verso un locale dove ero già stato in passato. Si trattava di un tex-mex accogliente e con una buona cucina. Scelsi un tavolo piuttosto defilato, sebbene non ci fossero molte persone in quel momento. Prima di sedermi, mi tolsi la giacca e la mia affezionata sciarpa. Un attimo dopo, Aurora fece un passo verso di me. «Avvicinati», disse stendendo le braccia al mio collo. «Ti aiuto a togliere la cravatta. Ormai non ne hai più bisogno.» Me la sfilò in modo soave ma deciso. Con riflesso incondizionato, mi sbottonai i primi due bottoni della camicia. Aurora mi prese alla sprovvista, e non riuscii a fare altro che dirle: «Grazie.» Anche se abituato a certa intraprendenza femminile, rimasi colpito dall’abilità e dal fascino di un gesto che, fin a quel momento, era stato compiuto unicamente dalle mie mani. Mentre Aurora appendeva il giacchino alla spalliera della sedia, riuscii fugacemente a scorgere, attraverso la scollatura della sua camiciola, il pizzo della lingerie che raccoglieva un seno rotondo e fiero. Quella che avevo di fronte era indubbiamente una bella ragazza. Il piacevole aspetto fisico aveva come alleata anche una vivace intelligenza. Un connubio per me fondamentale. Come se non bastasse, era anche sexy, ma la sua non era una sensualità forzata. Riusciva a esserlo, seppur consapevolmente, in modo del tutto naturale. Aurora, con un tipico cenno femminile della testa, smosse i capelli facendoli fluire da un solo lato. Poggiò i gomiti sul tavolo, intrecciò le mani e le usò come sostegno per il mento. Mi fissò con aria soddisfatta per un paio di secondi. «Cosa mangiamo di buono?» mi chiese. «Questo tempaccio mi ha messo addosso una fame da lupi.» «Facciamo così», le proposi. «Tu scegli un piatto per me, e io ne scelgo uno per te. Ovviamente spiegandone il motivo.» «Bella idea! Ci sto!» accettò divertita.


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Iniziammo a scorrere il menù e, poco dopo, lei esordì compiaciuta dicendo: «Ho trovato! Per te ordinerò dei tacos.» «Buoni, ma ho la faccia da tacos?» le domandai con un finto broncio e sottolineando l’assonanza per il facile doppio senso. «Un po’, ma li ho scelti perché anche se duri in superficie, sono morbidi all’interno. Il ripieno poi è sempre una piacevole sorpresa, ma che si fa apprezzare solo dopo il primo morso. Da bere invece prenderai una birra alla spina rossa, perché una bionda sarebbe banale e una scura troppo forzatamente diversa.» “Niente male! Anche stavolta ha colto nel segno. Ed è perfino ferrata sulla birra. Dai Nyx, adesso è il tuo turno. Stupiscila!” mi dissi. Prima di svelarle cosa avessi scelto, creai un po’ di suspance, stropicciandomi le labbra e passandomi la mano sulle guance irruvidite da una barba di due giorni. Poi distolsi lo sguardo dal menù per rivolgerlo, con aria soddisfatta, verso di lei. «Io invece per te ordinerò una paella, perché è un piatto apparentemente semplice, ma in realtà è una rara armonia di aromi e di colori. Da bere prenderai una sangria, perché è la bevanda che meglio rappresenta, in modo semplice e sincero, la gioia di vivere.» Il sorrisetto che le si stampò in faccia mi lasciò intendere di aver fatto centro. Poco dopo, arrivò la procace ragazza delle ordinazioni. Lei si rivolse, con fare accattivante, unicamente a me, suscitando in Aurora uno sguardo di sufficienza. Non credo di esser mai stato particolarmente attraente o di aver avuto chissà quale irresistibile fascino. Infatti, ciò a cui stavo assistendo era solo un caso, da manuale, di competizione femminile. Decisi allora di calcare la mano e di usare quella situazione per stuzzicare un po’ Aurora, aggiungendo benzina a quella fiammella di gelosia. «Avete già scelto?» mi chiese la ragazza. «Sì. Prendiamo una paella, dei tacos misti, una pinta di sangria e una di birra alla spina rossa.» «Ti avverto che ci vorranno una ventina di minuti, perché la paella la facciamo al momento. Ti suggerisco di prendere un antipasto per ingannare l’attesa.» «Okay. Cosa ci consigli?» le chiesi senza nemmeno guardare Aurora che intanto, indispettita, aveva girato la testa dalla parte opposta, fingendo disinteresse. «Bruschette miste con le nostre salsine tex-mex», propose la ragazza sorridendo.


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Confermai. Poi rivolsi nuovamente la mia attenzione ad Aurora. E lei non perse occasione di vendicarsi. «Scusami, vado un attimo alla toilette», disse senza degnarmi di uno sguardo. La vidi avvicinarsi al bancone delle bevande e chiedere indicazioni al barman. Dopo uno scambio di battute e qualche sorriso, vidi lui passarle un foglietto di carta dove aveva appena scritto qualcosa. Prima di dirigersi verso la toilette, Aurora lo piegò in due e lo infilò vistosamente in tasca. “Cosa sarà mai quel foglietto?” mi chiesi. “Possibile che lui le abbia dato il suo numero di telefono? E che lei lo abbia accettato? Attento Nyx. Se è questo lo scenario, sai già cosa fare. Succhia il nettare dal fiore e vola via!” Aurora ritornò dopo pochi minuti. «Ti sono mancata?» «Come la pioggia al deserto.» «Allora potevi farti portare un po’ d’acqua dalla tua cameriera preferita!» «Sì, infatti l’ho cercata, ma anche lei era impegnata a farsi dare bigliettini dal barman.» Assurdo. Ero partito con l’intenzione di farla ingelosire, ma alla fine lei riuscì abilmente a ribaltare la situazione. La sua soddisfazione era evidente e accrebbe ancor più quando, con aria trionfale, prese il bigliettino e lo aprì. «Come questo?» domandò Aurora. Era davvero un numero di telefono, con prefisso 02 e seguito da quattro cifre. Un numero che mi era familiare. Il taxi! Cercai di non far trapelare il mio stato d’animo, mi sentivo decisamente stupido, e di proseguire la conversazione provocandola. «La mia compagnia è così sgradevole che già pensi alle possibili vie di fuga?» dissi facendo la vittima. «Tutt’altro», rispose Aurora con convincente convinzione. «Sei la cosa migliore che mi sia capitata oggi.» «Be’, allora non vorrei essere nei tuoi panni», sorrisi. «Il resto deve essere stato davvero terribile…» «Ma dai!» rise anche lei. «Il fatto è che io adoro questo tipo di serate, quando all’esterno diluvia e tira vento mentre all’interno di un locale ti senti al sicuro e rilassata, e hai come unica preoccupazione quella di gustare un buon piatto in piacevole compagnia.» «Sono contento che tu pensi questo di me, e sono ancor più contento che i voli siano stati cancellati.»


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Eravamo sinceri. Quello scambio di battute avvenne senza che mai nessuno dei due avesse smesso di guardare l’altro negli occhi. Eppure il mio istinto seguitava a bisbigliarmi di stare attento, di non fidarmi di quella ragazza, di non abbassare la guardia. Più volte in passato lo avevo seguito, e per altrettante aveva avuto ragione. Finalmente, arrivò l’antipasto. In effetti anch´io avevo un certo appetito. Per il poco tempo a disposizione, il mio pranzo ebbe come unico rappresentante un misero toast rinsecchito, accompagnato da una finta premuta d’arance e da un caffè annacquato. Il mix di bruschette, disposto su di un piatto di portata dalle tipiche decorazioni messicane, ispirava un´allegria che finì per contagiarci. Sollevai il panciuto bicchiere di birra. «Brindiamo!» proposi ad Aurora. «A cosa?» domandò lei. «A questa piacevole serata, nonostante sia figlia di una pessima giornata.» Aurora guardò per un attimo attraverso la vetrata che dava all’esterno. «Io invece brindo al temporale, senza il quale non ti avrei mai incontrato.» Complici anche la birra e la sangria, inizialmente sorseggiate a stomaco vuoto, l’atmosfera iniziò a diventare sempre più intima e disinvolta. Trascorso qualche minuto, arrivarono i miei tacos. La scelta di Aurora fu davvero azzeccata. Era un tris con diversi ripieni: manzo e guacamole, pollo con panna acida e ananas, chorizo con formaggio fuso. Subito dopo, fu la volta della paella servita, cosa rara, in una vera paellera. L’aspetto era particolarmente invitante: il giallo carico dello zafferano creava un piacevole contrasto con il verde acceso dei piselli. Era apprezzabile anche la disposizione geometrica dei frutti di mare che creavano, unitamente ai gamberoni, una sorta di fiore dal sapore esotico. Nessuno dei due resistette alla tentazione di assaggiare la pietanza dell’altro. Vedere Aurora mettere la forchetta nel mio piatto non mi infastidì minimamente, anzi. Ed era strano, perché quell’intrusione la concedevo solo a poche persone e con le quali c’era grande confidenza. Capii ben presto che Aurora riusciva sempre a mettermi a mio agio. La naturalezza e il garbo dei suoi modi di fare erano tali da demolire qualsiasi sedicente buona maniera da galateo. «Uff…» sbuffò mentre armeggiava con un gamberone. «Non riesco mai a sgusciarlo con le posate.» «Passamelo qui», le ordinai. «Lo sistemo io.»


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Ne tagliai prima la testa, conficcando la punta del coltello appena sotto l’attaccatura con l’addome, poi le zampe. Una volta separata la coda, le infilai il coltello tra il carapace e la polpa. Con un lento ma deciso movimento rotatorio e spingendo la lama gradualmente fino all’estremità, iniziai a separare il guscio dalla bianca e compatta polpa. Al termine dell’operazione ottenni, soddisfatto, una succulenta coda di gamberone, pulita e pronta per essere gustata. «Bravo!» dichiarò Aurora. «Chi te lo ha insegnato?» «É una lunga storia. Diciamo che la cucina è una delle mie passioni.» Stavo per passarle il gamberone infilzato e lei, invece di prendere la forchetta, afferrò il mio polso, invitandomi a imboccarla. «Be’, le cose o si fanno bene o non si fanno affatto…» disse prima di mangiare. Dopo essersi portata il gambero alla bocca, indugiò a lasciarmi il polso e io non feci nulla per impedirlo. «Molto buono. Poi servito in questo modo è davvero speciale. Meriti una ricompensa», stabilì Aurora. Mi sfilò la forchetta e ruotò la mia mano. Mi diede un delicatissimo bacio appena al di sotto del palmo. Scoprii, per la prima volta, che quella parte del corpo è tanto sensibile quanto sottovalutata. Ricca di vasi sanguigni e dalla pelle particolarmente sottile, ai più nota come punto ideale per farla finita, mi accorsi che era in grado di profondere soffici sensazioni. Improvvisamente, ebbi l’impressione di trovarmi sulla ribalta di un teatro, con un unico fascio luminoso puntato esclusivamente su di noi. Ormai null’altro contava. Tutto ciò che figurava oltre quel tavolo, me e Aurora, era destinato a svanire nella più tetra oscurità. I miei sensi furono catalizzati da una ragazza della quale, fino a pochi minuti prima, ignoravo totalmente l’esistenza. Non ero sicuro di come dovessi sentirmi. Talvolta ero estasiato, poi intimorito, talvolta ancora confuso. Di certo ero disorientato, e non avvezzo a esserlo. Avevo bisogno di tempo per riflettere, per capire. Dovevo uscire fuori da quell’empasse emozionale e decidere, una volta per tutte, quale strada avrei dovuto percorrere. Fu Aurora a riprendere le redini della situazione. Come se nulla fosse successo, come se quel lieve bacio fosse stato il più naturale e scordevole degli accadimenti, lei esordì chiedendo: «Quindi la cucina è una delle tue passioni. Quali sono le altre? Cosa si nasconde dietro i tuoi occhi verde smeraldo incastonati in quell’aspetto mediterraneo? Dai Nyx, parlami un po’ di te.»


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Mentre mi stavo accingendo a farlo, entrambi ci accorgemmo che lo scroscio della pioggia, dopo averci accompagnato fin dall’aeroporto, cessò bruscamente. Il nubifragio si era placato, lasciando spazio alla classica quiete dopo la tempesta. Con la stessa velocità con cui le gocce d’acqua smisero di piombare dal cielo, i nostri volti si adombrarono. Il miglioramento delle condizioni meteorologiche portava, come ovvia conseguenza, il ripristino dei voli. Malcelatamente, ci sforzammo di ignorare quell’indesiderato e assordante silenzio. «Bene Aurora. Se è ciò che vuoi, ti parlerò di me, ma sappi che la notte intera potrebbe non essere sufficiente», dissi mentendo spudoratamente. Detestavo raccontarmi. Lei finse di trovare una postura più comoda e disse: «Non ho altri impegni.» L’aria che stava per uscire dai miei polmoni, e che ormai era prossima a far vibrare le corde vocali, fu strozzata all’istante, lasciandomi in apnea per qualche secondo. Solo in quel momento mi accorsi che il locale era dotato di filodiffusione e che era sintonizzato su di una frequenza locale. Uno speaker annunciò l’ufficiale ripresa dei voli di linea, e la disposizione di partenze speciali per rimediare ai disagi del blocco. Ebbi la stessa sensazione che si prova la mattina quando suona la sveglia, e infrange un piacevole sogno dal quale non saresti mai voluto uscire. A quel punto, avevo un unico timore: che Aurora potesse dire, prima di me, «Devo andare.» Forse lei non l’avrebbe mai detto. Forse avremmo potuto passare l’intera notte insieme. Forse mi sarei pentito della scelta che stavo per compiere. Soggiogato dal mio orgoglio e dal fatto che preferivo ferire piuttosto che essere ferito, ruppi gli indugi. «Sembra che i voli siano ripresi», dissi guardando verso l’altoparlante incassato nell’angolo della parete. «Sì, sembra di sì…» confermò lei con un filo di voce, come a sminuire e prendere le distanze dalla sua asserzione. La risposta di Aurora mi fece capire che ero stato troppo avventato. Capii di aver perso di certo un’occasione e chissà cos’altro. Ma ormai era tardi e il mio egoismo aveva avviato, forse inesorabilmente, il suo decorso. Per l’ennesima volta, la reazione di Aurora fu tanto sorprendente quanto disarmante. Io ero chiuso a riccio, pronto ad assorbire il colpo di ogni suo sfogo alla mia freddezza. Invece lei, col sorriso negli occhi, propo-


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se: ÂŤFiniamo in fretta di mangiare, cosĂŹ ci resta almeno il tempo di fare due passi lungo il canale.Âť Accettai, sollevato, il suo invito.


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III

L’impatto iniziale con l’esterno fu traumatico. Avevamo appena lasciato un posto caldo e raccolto, per ritrovarci a contatto con un’aria pungente ma limpida. Feci un profondo respiro, per consentire alla brezza di risvegliare anche il mio animo intorpidito. L’acqua dei Navigli fluiva con insolito vigore ed esalava un odore misto di foglie martoriate dalla violenza della pioggia e di asfalto bagnato. L’illuminazione pubblica, a luce calda, macchiava la visuale di riflessi ambrati, mentre la luna stendeva omogeneo il suo argenteo chiarore. Negli spazi più bui, riprendevano vita migliaia di stelle, che poterono finalmente riaffacciarsi al mondo, dopo esser state a lungo coperte dalla coltre di nubi. Io e Aurora rimanemmo incantati alla vista di quella cartolina. «Guarda!» esordì lei entusiasta. «Quella è la costellazione di Pegaso. Si vede benissimo!» Non sapevo nemmeno in che direzione guardare. «Dove?» le chiesi disorientato. «Lì! Ti faccio vedere.» Aurora prese l’indice della mia mano e mi invitò a stendere il braccio verso il cielo. Poi si mise alle mie spalle, allineando le nostre prospettive. «La vedi adesso? É la formazione che ha quelle quattro stelle a forma di quadrato», mi disse mentre muoveva il mio dito. Lo usava come fosse un pennello che dipingeva quell’insieme di punti luminosi su di una tela oscura. «Sì, eccola!» «Quella con le sembianze di una croce invece è il Cigno», proseguì lei continuando a dirigere il mio braccio verso la volta celeste. Mentre scrutavamo il cielo, Aurora si avvicinò sempre più a me, fino a farmi percepire il calore del suo corpo e il rigonfiamento del suo seno. Con finto imbarazzo ci discostammo, e proseguimmo la nostra passeggiata. «Dimmi qualcosa di te che non hai mai detto a nessuno», le proposi.


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«Che strana richiesta. Come mai?» «Perché credo che le persone si conoscano meglio ascoltando ciò che non raccontano. Può sembrare un concetto paradossale…» «No, ha senso invece. Vediamo…» rispose Aurora con aria pensierosa. «Ecco, nessuno sa che mi commuovo ogni volta che guardo il film Notting Hill. Succede quando Julia Roberts dice a Hugh Grant: Sono solo una semplice ragazza, che sta di fronte a un ragazzo, e tutto ciò che gli chiede è di essere amata. L’avrò visto almeno una decina di volte, ma l’effetto è sempre lo stesso. Trovo la storia molto romantica. Adesso però è il tuo turno…» «Restando sul sentimentale, piuttosto che qualche film, ho sempre considerato dei veri eroi i miei genitori, che stanno insieme da più di trent’anni e si danno ancora il bacio della buonanotte. Non capisco come possano riuscirci…» La mia frase sincera o forse il riferimento a quel bacio, fecero cambiare improvvisamente lo sguardo di Aurora. Istantaneamente divenne penetrante, sicuro, quasi aggressivo. Lei si fermò e mi fermò, afferrandomi per l’avambraccio. Mi spinse spalle al muro. I suoi occhi prima si posarono sui miei, poi scesero a guardare le mie labbra. Risalirono e riscesero ancora, ma stavolta fissarono più a lungo la mia bocca. Capii le sue intenzioni, e non opposi la minima resistenza. Aurora avvicinò prima lentamente il suo viso al mio, guardandomi negli occhi con intensa fermezza. Poi, quando eravamo a distanza di pochi centimetri, precipitò le sue labbra sulle mie. Ci unimmo in un bacio irruento, profondo, gustoso. La passionalità di quel contatto fu tale da farci spudoratamente comprendere che, dal primo istante in cui ci eravamo incontrati, non aspettavamo altro che l’attimo giusto per dar sfogo al nostro istinto. Le sue mani, che ancora premevano le mie braccia al muro, iniziarono a salire prima verso le spalle, poi verso il collo, e infine si posarono sul mio viso. Ora liberate dalla debole presa, le mie braccia cinsero con vigore la sua sottile e tonica vita. Fremente ed eccitata dalla mia morsa, Aurora iniziò a premere il suo ventre contro il mio, in cerca dei puntuali effetti di tanto ardore. Per reazione, le mie mani continuarono a scendere, fino a raccogliere le sue sode natiche. I nostri movimenti diventarono sempre più convulsi, sostenuti da un desiderio che cresceva irrefrenabile e che ci stava bru-


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ciando anima e corpo, portandoci fino alla perdita della cognizione del tempo. Restammo uniti in quell’intreccio di passione finché lei, lentamente, discostò il suo viso dal mio. Con gli occhi ancora chiusi, si morse il labbro inferiore, come a non voler farsi scappare nemmeno la più piccola stilla del mio sapore. Aurora riaprì gli occhi e sussurrò: «Nyx, ho un’incredibile voglia di passare tutta la notte con te.» «Pari alla metà della mia», le riposi. Dopo questo scambio di confessioni, ci baciammo ancora, finché lei non smise nuovamente. Aurora assunse una contrastata espressione di appagamento e colpevolezza. «Non farti un’idea sbagliata di me, è la prima volta che provo un’attrazione tale da non riuscire a resisterle», ammise. Mi era già capitato di ascoltare frasi del genere. Con il tempo imparai che quell’espressione aveva il significato esattamente opposto. Realizzai che ero stato abbordato fin dal primo incontro in aeroporto, e che tutto si sarebbe concluso con la solita effimera storia di sesso. Il finire a letto al primo incontro aveva sempre avuto la conseguenza di un inesorabile e definitivo addio. “E quale opinione mi sarei dovuto fare di te?” le chiesi con il pensiero. “A conti fatti io sono solo la consapevole preda di un’abile cacciatrice. Dovrei forse credere che tanta audacia non abbia mai mietuto altre vittime?” Il mio istinto, ancora una volta, mi stava dimostrando di aver avuto ragione. Aurora dovette leggermi in faccia tale perplessità, perché all’improvviso mi fissò con aria interrogativa. Fece un passo indietro e si staccò da me. «Si sta facendo tardi», disse lei con un filo di voce, per nulla convinta. «Sì, hai ragione. Arriviamo fino alla Darsena, intanto chiamo un taxi per l’aeroporto.» Riprendemmo la nostra passeggiata, ma stavolta la luminosità che Aurora aveva sempre avuto in viso appariva spenta. Decisi quindi di ricorrere a un collaudato gesto scenografico, nella speranza di recuperare punti ai suoi occhi. Feci qualche passo più svelto e mi misi di fronte a lei, camminando all’indietro. «Perché cammini al contrario?» chiese Aurora, sorpresa.


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Era proprio la domanda che aspettavo. La risposta era già confezionata. «Per due motivi. Il primo è legato al fatto che non so quando ci rivedremo, e voglio sfruttare tutto il tempo che mi resta per poterti guardare negli occhi. Il secondo è che ho deciso di fidarmi di te, per cui sarai tu la guida di questo mio percorso verso l’ignoto. Ma se cado anche una sola volta, sappi che non potrai mai più farmi rialzare.» «Fermati!» mi ordinò Aurora. Si avvicinò e disse: «Se tu cadrai, io cadrò con te…» Le nostre labbra si incontrarono ancora, ma stavolta il frutto della loro unione fu un bacio profondamente diverso dal primo. Il contatto fu soffice, morbido, delicato. Le stesse labbra che prima sembravano violentarsi, adesso si stavano accarezzando, dolcemente. Ci accorgemmo subito della differenza e per un attimo ci separammo, per cercare, nei nostri sguardi, una risposta a quanto stava accadendo. I nostri corpi avevano avuto, prima che ce ne rendessimo conto, percezione che forse in gioco c’era ben altro. Erano riusciti a vedere più lontano di quanto mi sarei aspettato, e avevano fatto una scommessa che, accidenti a loro, stavano vincendo. La nostra intesa, partita da un piano meramente fisico, stava quindi evolvendo in una coinvolgente corrispondenza di teste, di modi di fare, di gusti. Nello sguardo di Aurora si accese un bagliore nuovo. I suoi occhi mi scrutavano tremolanti, carichi di un’intensità tale da trasmettermi un brivido lungo tutto il corpo. La mia trovata si ritorse contro di me, come un vorticoso boomerang. In quella fredda notte di Novembre, il soffio del vento spazzò via le spesse e torbide nubi che impedivano alla Luna di irradiare la sua limpida luce. Allo stesso modo, Aurora, con quel suo sguardo indefinibile, raggiunse il mio animo in profondità, incrinando la crosta in cui era vissuto, scalfendo la fortezza in cui era arroccato. Qualcosa era cambiato, in una manciata di ore…


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IV

Quando il taxi ci lasciò all’ingresso dell’aeroporto di Linate, notai che stavolta l’atmosfera era diversa. Sembrava che quel luogo avesse ripreso improvvisamente la solita vitalità. Adesso lo riconoscevo, con il suo abituale viavai di persone, bagagli, auto e con quel tipico sottofondo di voci continuo e confuso. Non mancavano alcuni stereotipi di passeggeri riscontrabili negli scali di tutto il mondo: il viaggiatore solitario con zaino in spalla e abbigliamento alla Indiana Jones, il manager impettito con tanto di 24 ore e l’espressione di chi sa viaggiare meglio degli altri, la coppia di anziani coniugi spaesati e incerti sul da farsi, il gruppetto di ragazzi capaci di divertirsi anche durante le lunghe file al check-in. Il mio volo per Napoli sarebbe partito a distanza di un paio d’ore. Istintivamente cercai di capire anche quando era previsto il decollo di Aurora. In quel momento realizzai che, fin dal primo istante, avevamo ignorato i nostri dati anagrafici senza sentirne la mancanza. «Qual è il tuo volo?» chiesi ad Aurora. «Quello per Roma.» «Allora partirai circa mezz’ora prima di me. Il mio è diretto a Napoli.» Non ci restava altro che aspettare. Effettuammo i controlli di routine attraversando il metal-detector, per poi sederci su delle poltroncine poste in prossimità del gate di Aurora. Mentre stavamo seduti, lei adagiò la testa sulla mia spalla destra, si raggomitolò come se si stesse preparando per dormire ed ebbe un fremito di freddo. Svolsi la sciarpa dal mio collo e gliela adagiai sulle spalle. «Che buon profumo ha la tua sciarpa. All’inizio sembra dolce, poi emergono delle forti e rassicuranti note di fondo che sanno di cuoio», descrisse Aurora mentre aveva gli occhi chiusi. Poi sbadigliò. «Ti stai addormentando?» le chiesi. «Credo di essermi svegliata soltanto adesso», mi rispose ruotando il viso per guardarmi negli occhi. Lasciò le sue labbra leggermente schiuse. Sarebbe stato impossibile resistere alla tentazione di baciarla, e infatti cedetti. Come fosse un bacio della buonanotte, lei si addormentò, la-


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sciando scivolare la testa dalla mia spalla al torace. L’abbracciai e la strinsi a me. Non sapevo cosa pensare e decisi di non farlo. Ebbi appena il tempo di ripercorrere con la mente quell’assurda giornata: la mattina in ufficio, l’improvviso volo per Milano, la riunione con il cliente, il viaggio di rientro sospeso, l’incontro con Aurora. Rilassai corpo e mente, e mi abbandonai a un lieve dormiveglia. Il mio labile sopore fu scrollato dal querulo e odioso annuncio della speaker dell’aeroporto, relativo all’apertura degli imbarchi per il volo di Aurora. Una vecchia oca starnazzante sarebbe stata più melodiosa. «Dovresti andare al gate», sussurrai ad Aurora. «Non voglio più partire»», protestò lei. «Voglio restare così per sempre.» «Non rendere la cosa ancora più difficile. Dai, ti accompagno.» Durante la fila, restammo in silenzio. Un silenzio che esprimeva molto più di quanto non avrebbero potuto fare le parole più intense. Poco prima che lei si avviasse verso l’uscita, mi diede il suo numero di cellulare. Lo memorizzai in rubrica e le feci uno squillo, assicurandomi che anche lei avesse il mio. «Come si scrive il tuo nome?» chiese Aurora mentre mi aggiungeva ai suoi contatti. «N, y, x», dettai. «Cosa farai adesso, Nyx?» «Ti lascerò prendere l’aereo, e subito dopo rimpiangerò di averlo fatto.» «Chiamami…» «Lo farò. Non mi scappi.» «Sicuro che ci rivedremo?» domandò Aurora con un tono che tradiva una brutta sensazione. «Hai ancora la mia sciarpa…» «Oh, scusa…» disse mentre faceva per togliersela. «No, aspetta. Portala con te. Le sono molto affezionato. Così dovremo rincontrarci per forza.» «È una promessa?» chiese dubbiosa. «Sì, è una promessa», ribadii. Aurora si allontanò. Prima che potessimo perderci di vista, mi guardò sorridente e mi salutò lanciandomi un bacio con la mano.


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V

Il giorno successivo, la sveglia mi fece sobbalzare puntualmente alle sette. Dopo vari tentativi, riuscii a trovare il tasto giusto per zittire l’insopportabile suoneria. Il mio primo pensiero cosciente volò dritto verso Aurora, avendo però l’impressione che la sua immagine non mi avesse lasciato per tutta la notte. Al rientro in ufficio, mi ritrovai immerso in relazioni, statistiche, email. Sembrava che avessi lasciato la scrivania per mesi. Con insolita foga, mi buttai in quel caos, forse anche per evitare che la mia testa venisse monopolizzata dalla ragazza conosciuta la sera prima. Così facendo, la giornata per fortuna trascorse in fretta. Nonostante fosse venerdì, la sera non avevo molta voglia di uscire, un po’ per stanchezza, ma soprattutto perché avevo bisogno di metabolizzare quanto accaduto a Milano. Decisi quindi di mangiare qualcosa, restandomene a casa in compagnia di un DVD d’azione. Erano quasi cinque anni che abitavo da solo, una condizione in cui mi trovavo particolarmente a mio agio. Il mio appartamento, di circa 60 metri quadri, era composto da una camera da letto con quest’ultimo che rifacevo non più di una volta a settimana, un’ampia cucina che fungeva anche da salone e una sala pc caratterizzata da una parete attrezzata zeppa di cd e di libri di vario genere. L’arredamento era a dir poco minimalista, quasi asettico. C’era solo l’essenziale, non un soprammobile, non una mensola con ninnoli o vasetti. L’unica concessione l’avevo riservata alle pareti del corridoio. Erano ravvivate da una serie di quadri in acrilico su tela, tutti allineati e contornati dalla stessa cornice in ciliegio scuro con passe-partout avorio, raffiguranti i monumenti principali delle capitali visitate durante i miei viaggi. Alcune delle ragazze frequentate mi avevano regalato degli oggetti d’arredo, forse per dare calore alla fredda atmosfera del mio appartamento, o piuttosto per lasciare un segno tangibile di presenza femminile volto a scoraggiare altre visitatrici. Tali oggetti giacevano chiusi in un armadio.


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Ogni angolo dell’appartamento rispecchiava una parte di me stesso. Era diventato il mio rifugio, al cui interno erano ammesse solo poche persone. Eppure, per la prima volta, mi sentivo davvero solo. Qualcosa strideva in quella serata. Avevo uno strano senso di vuoto, di incompletezza. Non ci misi molto a capire che Aurora iniziava già a mancarmi. Quando aprii il frigorifero, mi accorsi che era talmente vuoto da temere per un attimo che fosse lui a voler mangiare me. Fortunatamente, incastrata tra quintali di brina, riuscii a estrarre dal freezer una pizza surgelata e un misto da friggere composto da mozzarelline, olive all’ascolana e chele di granchio. Insomma, la mia luculliana cena si sarebbe fondata su di una pletora di ‘schifezze’, consolato dal pensiero che quella era una delle gioie di quando non si è più bambini: comprare e mangiare tutto ciò che da piccoli veniva negato dai genitori, senza incorrere in sgridate di sorta. Mentre ero pronto ad addentare l’ennesima oliva rovente all’esterno e ancora congelata all’interno, squillò il cellulare. “É lei!” pensai. Sullo schermo apparve però il nome Michi. Rimasi deluso, ma solo per pochi istanti. Sentire una voce familiare non poteva farmi altro che piacere. Michi era uno dei pochi amici fidati che avevo. Con lui c’era un rapporto tale che, anche senza vederci e sentirci per mesi, riuscivamo a riprendere discorsi lasciati in sospeso come fossero passati solo pochi minuti. «Ciao Nyx, come stai?» «Tutto okay, Michi. E tu?» «Uno schifo come al solito, grazie. Anche tu però mi sembri strano. Stavi già dormendo o c’è qualcosa che non va?» Ormai Michi riusciva a decifrare i miei stati d’animo dal tono della mia voce. «Non saprei. Nemmeno io riesco a capirlo, ma è una storia lunga», gli risposi lasciandogli interedere che mi avrebbe fatto piacere parlarne. «Domani mattina avrai tempo per raccontarmi tutto. Ho visto le previsioni e sembra che le condizioni meteo siano ideali per una bella battuta di pesca: sole caldo e mare piatto. Ci vediamo al porto di Amalfi e salperemo mezz’ora prima dell’alba», stabilì. «Okay, contaci. Ma quindi a che ora ci vedremo?» «Alle sei in punto», disse fiero, sapendo che avrei protestato. «Alle sei? Merda! Dovrò svegliarmi alle cinque per essere puntuale.»


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«Chi dorme non piglia pesci! Se poi vuoi fare solo la passeggiatina in barca, puoi sempre raggiungermi con un pedalò», rise soddisfatto. Mediando un orario, ci accordammo. Michi riusciva sempre a tirarmi su di morale. Le pescate in barca in sua compagnia avevano per me un effetto rigenerante, oltre a consentirmi di conservare un velo di abbronzatura fino ad autunno inoltrato. Date le circostanze, e per tener fede al piacevole impegno, non mi restava altro che lasciarmi cadere sul divano davanti al televisore, e attendere che il sonno mi raggiungesse. Eppure non riuscivo ad abbandonarmi. Continuavo a pensare ad Aurora, a chiedermi perché non mi avesse ancora chiamato o almeno inviato un sms. Ero consapevole che non mi stavo comportando in maniera differente, ma mi ero già esposto fin troppo con lei. La tentazione di chiamarla era comunque forte, sebbene le mie regole mi imponessero di non farmi mai risentire entro le prime 48 ore, per non dare l’impressione del disperato. In altre occasioni tale intervallo non mi era mai pesato, anzi. Spesso le 48 ore finivano per tendere al mai. Stavolta però l’attesa mi snervava, l’impazienza mi bruciava dall’interno. Avevo una voglia incredibile di sentire il suono della sua voce, di sapere cosa stesse facendo e provando. “Ieri a quest’ora ero a cena con lei. Perché adesso non posso averla?” pensai, temendo di impazzire. Dovevo ritrovare me stesso. Avevo l’assoluta necessità di ridimensionare il tutto e di convincermi che si era trattato solo di una breve storia, e che quell’incontro si sarebbe presto tramutato in un innocuo ricordo. “Dai Nyx, vedrai che ti passerà!” mi dissi sforzandomi di crederci davvero. “Adesso devi rilassarti. Domani sarà una bella giornata!” Mi forzai al riposo, ma in realtà stavo andando incontro a una delle mie tipiche notti insonni, durante le quali avevo necessità di calarmi un po’ di vino. Allungai quindi il braccio verso il mobiletto-bar e aprii l’anta afferrando la maniglia con due dita. All’interno c’erano una decina di bottiglie del mio rosso preferito. Versai quindi del Falerno primitivo in un largo bicchiere. Ne bevvi uno con due lunghi sorsi, poi un altro. Dopo pochi minuti, l’effetto dell’alcool funzionò da fluidificante per tutto il mio organismo. Prima sciolse il sangue, poi districò la mente. Anche i miei strani pensieri andarono in piena e iniziarono a susseguirsi, scorrevoli e incessanti, con una facilità fuori dall’ordinario. E iniziarono a girare e rigirare, generando un microcosmo di immagini dalle quali mi feci sommergere.


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In quello spazio, angusto ma personale, finii con il rivivere i momenti passati con Aurora, prefigurando, nel contempo, cosa fare, come e se continuare, se lasciar perdere o se combattere, se comportarmi da finto vigliacco o se mostrare tutto me stesso. Sarà che da qualche tempo non ero stato così bene, sarà che la magia di quel giorno ha contribuito ad accrescere e ad amplificare l’aura particolare in cui eravamo perennemente immersi, sarà che non mi ero mai sentito tanto desiderato in vita mia, ma… …ma dovetti ammettere che Aurora mi mancava, tanto, troppo. Sicuramente più di quanto avrei mai immaginato. Se io fossi riuscito a ipotizzare che quell’incontro avrebbe potuto prendere una tale piega, lo avrei evitato. O forse no. Finalmente, più confuso e frastornato che prima, mi addormentai.


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VI

La stessa sveglia che il giorno prima avevo trovato intollerabile, stavolta sembrava stesse eseguendo la Primavera di Vivaldi. Balzai dal letto e feci una rapida colazione a base di caffè e residui di pizza. In verità fui anche attratto da un’ultima mozzarellina fritta, ma la sua consistenza gommosa, sperimentata con un dito, mi fece desistere. Mi vestii velocemente, ma in modo adeguato, perché decisi di sfruttare l’occasione per concedermi un giro in moto. Il tragitto era particolarmente favorevole, considerato che il mio appartamento di Salerno e il porto di Amalfi erano separati da una decina di chilometri di autostrada, e da altrettanti di curvosa strada statale. L’autostrada mi avrebbe consentito di portare alla giusta temperatura gli pneumatici, mentre la statale mi avrebbe regalato delle divertenti pieghe. Indossai il giubbotto in cordura e il casco integrale, per poi montare a cavallo della mia rabbiosa naked. Nonostante fosse trascorso quasi un mese dall’ultima messa in moto, l’accensione del propulsore, supportata da un’infaticabile batteria Yuasa, fu secca e puntuale. Il rombo del motore a tre cilindri mi svegliò di botto, più di quanto non avesse fatto la caffeina. All’esterno tutto era ancora buio e silente. Attraversai le strade con andatura rilassata, per non perdermi quell’insolita e affascinante atmosfera: la città completamente deserta e senza il solito traffico, chiassoso e maleodorante Dopo un paio di chilometri, raggiunsi la sbarra del casello autostradale. Appena si sollevò, non resistei alla tentazione di concedermi una staccata a tutto gas, come se l’asta fosse stata la bandiera a scacchi del Moto GP. L’accelerazione furiosa della moto mi dava sempre scariche di emozioni tali da non consentirmi mai di farci l’abitudine. Prima, seconda, terza… Le vibrazioni salivano, il rombo si amplificava, l’attenzione cresceva. In poco più di cinque secondi la lancetta del tachimetro si piazzò sui 140 all’ora. Ai lati della strada ogni cosa perdeva la sua forma originaria, per dar vita a delle lunghe scie indefinite.


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Sopraffatto dall’eccitazione e dal motore in coppia, diedi ancora un po’ di gas, per poi decelerare e godermi, in solitaria, quel tragitto. Alla riduzione di velocità conseguì il calo di adrenalina, lasciando spazio al ricordo di Aurora. In quel momento non desideravo altro che averla in sella con me, fino al punto che per un attimo ebbi l’impressione di sentirmi stringere dalle sue braccia, e di poter condividere con lei la tipica sensazione di libertà che è in grado di infondere una moto. Terminato il tratto di autostrada, imboccai la statale pregustando l’imminente divertimento. L’attenzione richiesta dalla strada che percorreva la costiera, fortunatamente era tale da non consentirmi altri pensieri. Mi precipitai in quel serpente di tornanti aggredendo l’asfalto con insolita rabbia. Alla mia destra la roccia viva scorreva veloce, mentre alla mia sinistra un incantevole panorama, unito da cielo e mare, fluiva lentamente rispetto all’orizzonte, laddove l’oscurità stava cedendo il passo a un inesorabile e incalzante chiarore. Arrivai al porto. Era quasi deserto. I pescherecci avevano già preso il largo, mentre le imbarcazioni da diporto erano state tirate in secca per il rimessaggio, oppure ormeggiate in baie più protette. Insensibili alla corrente, giacevano silenziose come palazzi disabitati le enormi navi utilizzate per la pesca del tonno, in paziente attesa della prossima tonnara. La vista di Amalfi dalla banchina era uno spettacolo di bellezza impareggiabile. L’acqua era ancora cupa e liscia come l’olio. Sembrava reggere magicamente la lingua di roccia, distesa come un’amante appagata, su cui erano arroccate le decine di bianche abitazioni dal tipico stile amalfitano. Poco più in alto, vegliava la Torre saracena dello Ziro, un tempo usata come punto d’avvistamento, ma che ormai sembrava aver fatto pace col mondo e godersi un beato riposo. Ruotai lo sguardo e, nella calma di quella insenatura, subito spiccò l’imponente figura di Michi. Lui era alto un metro e ottanta, quasi quanto me. Ma ciò che maggiormente impressionava era la sua stazza robusta e massiccia. La sagoma di Michi faceva apparire il gozzo, sul quale stava armeggiando, come una barchetta giocattolo. Eppure quell’imbarcazione poteva vantare dimensioni tutt’altro che ridotte: la lunghezza superava di gran lunga i sette metri, mentre la larghezza ne faceva misurare almeno due e mezzo. Il fasciame dello scafo era in compensato marino, materiale che consentiva a quella barca di dimostrare molto meno dei suoi trent’anni di età e di migliaia ore di navigazione. Inoltre la rendeva par-


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ticolarmente stabile e tenace, e in grado di affrontare, senza timore, mare formato e con onde alte anche un paio di metri. Quell’anno Michi verniciò la carena di una livrea azzurra sormontata, lungo tutto il perimetro, da un brillante profilo bianco sul quale spiccava il nome della barca: Drunk Shark. Macchie della stessa vernice ravvivavano anche i jeans che Michi stava indossando e che facevano il paio con una felpa blu scuro con stampata sopra la sorridente faccia di Sampei. Lui doveva essere a bordo già da tempo perché notai l’attrezzatura, che ci sarebbe servita per la nostra imminente battuta di pesca, già pronta per l’uso. «Buongiorno Sampei!» lo salutai. «Ciao Nyx. Hai portato i cornetti?» mi chiese lascando una cima. «Certo, eccoli!» risposi alzando un sacchetto di carta bianco. «Appena sfornati e con una fragrante crema al limone.» Sapevo che me li avrebbe chiesti, era un nostro rito propiziatorio. «Salta a bordo che salpiamo!» disse entusiasta. «Oggi voglio fare una strage!» Michi avviò il motore entrobordo che iniziò a borbottare con regolarità. Si trattava di un innesto effettuato da lui stesso. Un paio di anni prima trascorse un mese intero per espiantare il vecchio propulsore, ormai esausto, e per trapiantare quello nuovo: un vigoroso diesel Nanni da 37 cavalli che, dopo varie messe a punto, frullava in modo impeccabile. Michi era in grado di auscultare quella macchina come un cardiologo. Aveva una cura estrema di ogni pezzetto del gozzo, al quale era anche affettivamente molto legato: era l’unica cosa che gli restava di suo padre. Prendemmo lentamente il largo, e quando raggiungemmo una distanza dalla costa di circa un miglio, notammo che il sole aveva iniziato ad affacciarsi, mostrando il suo primo timido arco. Michi spense il motore, come a non voler disturbare la religiosità di quel momento spettacolare, lasciando che la barca beccheggiasse lentamente. Il disco avanzava inesorabile, diffondendo una cascata di luce che, istante dopo istante, cominciava a illuminare un mare che si accendeva di riflessi e di colori, e che sembrava prendere gradualmente vita. Era l’alba. La somma espressione di una nuova nascita, la massima manifestazione di rinnovate speranze, la suprema occasione per esprimere sogni. Le sensazioni che l’evento riusciva a trasmettermi, erano tali da farmi preferire, di gran lunga, l’alba al tramonto. Quest’ultimo è la fine


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di un ciclo, è il tempo dei bilanci, sancisce il momento in cui si contano i sogni realizzati e quelli abbandonati, i progetti compiuti e quelli falliti, le passioni appagate e quelle deluse. Davanti a quello spettacolo, decisi che era meglio vivere mille volte un’alba, con l’illusione di poter realizzare tutti i propri sogni, piuttosto che vivere un tramonto in cui si ha la certezza di averne concretizzati pochi. «É sempre spettacolare l’aurora», esordì Michi. «Ma adesso prepariamoci!» Non sono mai riuscito a spiegarmi il motivo per cui Michi fu così inspiegabilmente poetico da dire aurora piuttosto che alba. Sentirlo pronunciare quel nome mi scosse nel profondo. Si addiceva a quella ragazza in modo sconcertante. Quanto avrei desiderato condividere quel momento con lei… Mi girai verso di lui, e non dovetti avere un bell’aspetto. Michi mi fissò sorpreso. «Nyx, cos’hai?» Finalmente avevo la possibilità di raccontare quanto accadutomi. Ero diventato come un fiume in piena costretto all’interno degli argini di una soffocante diga. Sbloccai le chiuse, e in pochi minuti riversai sul povero amico una cascata di fatti, parole, sensazioni. Ero sempre stato discreto e introverso su certi aspetti della mia vita e infatti, con quel comportamento atipico, presi alla sprovvista anche Michi. La sua prima reazione fu quella di passarmi una fiaschetta di metallo, invitandomi a berne il contenuto. «Ti farà bene», mi disse allungandomi il suo scacciapensieri prediletto, un rhum proveniente dal Guatemala. Gli effetti dell’ambrato nettare non tardarono a manifestarsi, donandomi un diffuso senso di rilassatezza e benessere. Michi poi volse lo sguardo verso il mare. «Ogni abisso ha il suo fondo», sentenziò, come a voler intendere che Aurora avesse raggiunto la parte più remota e ascosa del mio animo.


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VII

La pesca a traina prevedeva delle esche costituite da semplici piumette bianche che, applicate in prossimità degli ami, a contatto con l’acqua fluente assumevano una forma simile a uno sguazzante ma micidiale avannotto di pochi centimetri: un boccone irresistibile per pesci predatori come tonnetti, ricciole e lampughe. Calammo le lenze ai due fianchi opposti della barca, svolgendole per una decina di metri dal sughero a cui erano avvolte, e lasciandole andare in mare. Michi fissò la velocità a quattro nodi, e il Drunk Shark azzurro poté iniziare la sua fluida processione. Incominciammo a percorrere il tratto che porta da Amalfi a Cetara: circa cinque miglia di incantevole costiera fatta di spiagge nascoste tra rocce a strapiombo, macchia mediterranea, e abitazioni dall’architettura caratteristica. La prima ora di navigazione si concluse con un clamoroso nulla di fatto. Io ero solito sedermi a tribordo del gozzo, anche per bilanciare il peso di Michi che sedeva al lato sinistro del timone posto a poppa. Mentre, per l’ennesima volta, stavo controllando con il dito la tensione della lenza, all’improvviso arrivò una violenta toccata. Il filo andò in tensione e, trascinato dalla preda, scese in profondità. «Michi, ecco il primo!» gridai. «Dal tiro sembra un tonnetto!» Lui subito scattò a controllare la sua lenza: i tonnetti si muovono in branco per cui c’era un’elevata probabilità che contemporaneamente anche la sua esca avesse ingannato la preda. «Ha abboccato anche qui! Nyx, aiutami a tenere la rotta!» In quegli istanti, era fondamentale che la barca continuasse ad andare dritta. Se avesse virato, le lenze avrebbero potuto impigliarsi tra loro, con il conseguente rischio di perdere i pesci. Iniziammo a recuperare le lenze in modo costante ma non troppo veloce, fino a quando non tirammo in barca due dimenanti e lucenti esemplari di Tonnetto Alletterato, caratterizzati dal dorso blu scuro a strisce


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nere rassomiglianti, per l’appunto, a delle lettere. Li slamammo, per poi metterli in un largo e alto secchio pieno d’acqua di mare. Michi guardò uno dei tonnetti stringendo gli occhi e lo misurò usando il solito metro di legno. Dopo aver notato che la sua lunghezza era di 28 centimetri, sciorinò un elenco di imprecazioni e lo restituì al mare: la legge protegge gli esemplari al di sotto dei 30 centimetri, perché troppo giovani. Il secondo invece ne misurava 32, e restò nel secchio. Michi si guardò attorno. «Nyx, hai notato a che punto abbiamo incontrato il branco?» mi chiese. «Sì, all’altezza della Spiaggia dei Limoni.» «Okay, allora caliamo le lenze e ripassiamoci!» Battemmo quell’area più volte. Il branco era rimasto nelle vicinanze e riuscimmo a pescare altri quattro tonnetti. Il sole intanto si stava levando con continuità e si iniziava a percepirne il gradevole tepore. Ritenemmo apprezzabile il bilancio della prima tornata di pesca, e decidemmo quindi di concederci una pausa di qualche minuto. «É strano vederti così», esordì Michi. «Vi siete risentiti da quella sera?» «Conosci le mie regole, ma ciò che mi rode è che nemmeno lei si sia ancora fatta viva.» «Nyx, sinceramente devo dirti che tu non ispiri molta fiducia in certe circostanze. Azzarderei che ti sei comportato in modo distaccato e sospettoso», indovinò. «Sì, forse è vero…» ammisi. «Mettiti nei panni di quella ragazza», proseguì Michi. «Probabilmente è interessata a te, ma attende una tua conferma, un tuo passo avanti. Se davvero tieni a lei come dici, una volta tanto metti da parte il tuo solito orgoglio e le tue regole assurde. Chiamala, o quantomeno inviale un messaggio.» Michi aveva perfettamente ragione, e da quel giorno apprezzai ancor più la sincerità della sua amicizia. Ebbe il coraggio di mettermi di fronte all’insensatezza delle mie posizioni e all’ostinatezza dei miei comportamenti. Decisi allora di seguire il suo consiglio. Ne avevo bisogno, anche perché in quel modo la scelta di fare il primo passo non sarebbe stata del tutto mia, ma fondata su di un suggerimento. Vigliaccamente, non avrei sopportato un fallimento di cui fossi stato ideatore e realizzatore. Mi feci coraggio e inviai un sms cercando di mostrarmi interessato ma non troppo invadente:


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CIAO AURORA, COME STAI? SPERO CHE IL TUO RIENTRO SIA ANDATO BENE. FATTI SENTIRE. A PRESTO, NYX. Due sorsate dalla fiaschetta del rhum e riprendemmo la navigazione. Una decina di minuti dopo, la mia attenzione fu attratta da un convulso movimento verso il largo. Un gruppetto di gabbiani stava eseguendo una strana danza: prima salivano in volo di qualche metro, per poi scendere giù in picchiata, fino a immergersi con la testa in mare. «Michi, guarda lì! Gabbiani!» dissi con il dito puntato, allertandolo. Quel particolare comportamento dei gabbiani indicava la presenza di un branco di alici. «Passami il guadino, mi metto a prua!» Michi, gli occhi strizzati e il viso proteso in avanti, puntò come un falco verso la preda. Spinse la manetta dell’acceleratore e mandò il motore al massimo. Il gozzo impennò, fendendo il mare con vigore e lasciandosi alle spalle una spumosa scia bianca. Facemmo prima un veloce ma largo giro di ricognizione, per poi rallentare e passare affianco a quel subbuglio. Notammo, poco più in profondità, anche delle sagome grosse e scure. L’ammasso di pesce azzurro era tra due fuochi: voraci pesci predatori sotto e ingordi gabbiani sopra. Stabilimmo allora di divederci i compiti. Io sarei restato disteso a prua con il grosso retino, pronto a fare razzia di alici salite a pelo d’acqua, mentre Michi avrebbe continuato la traina, sperando che qualche affamato predatore, nella mangianza e nell’agitazione del momento, attaccasse anche la nostra esca. Quel cruento spettacolo aveva un fascino particolare. Straziate da più parti, le alici rilasciavano nel mare brandelli della loro argentea pelle che, sotto i raggi del sole, iniziavano a brillare come diamanti, dando vita a riflessi e giochi di luce di rara bellezza. Ci avvicinammo sempre di più al branco, finché non ci passammo sopra. Mi sporsi e affondai in acqua il guadino, che si riempì subito e completamente, al punto da renderne impossibile il sollevamento. Michi spense in motore, ma la barca continuava ad avanzare lenta. La forza delle mie braccia divenne insufficiente per vincere la resistenza del mare e reggere il peso del pescato. «Michi, è pieno! Aiutami!» Michi, con due balzi felini, passò da poppa a prua. Con il solo braccio destro e senza il minimo sforzo apparente, issò a bordo il guadino strabordante di saltellanti alici. La sua forza era incredibile. Per mia fortuna non lo avevo mai visto menare qualcuno.


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Provammo ancora, ma invano, a proseguire con la traina. Eravamo comunque soddisfatti, per cui non insistemmo troppo e decidemmo di rientrare. Michi iniziò a dismettere l’attrezzatura, lasciandomi il timone e la possibilità di ammirare quell’incredibile scenario al quale era impossibile assuefarsi. Al largo il mare aveva ormai assunto il suo tipico colore blu cobalto. Nei pressi della costa invece, virava verso tinte verde smeraldo, mostrando un infinito gradiente di sfumature. Il sole, prossimo allo zenit, spargeva scaglie d’oro sul mare increspato. Con il suo tepore mi riscaldava tiepidamente spalle e viso, mentre il sottofondo generato dallo sciabordio delle onde e il placido beccheggio del gozzo, fungevano da ninnananna per corpo e mente. Una mattinata perfetta. Pur tuttavia il mio animo continuava ad avere delle ombre di irrequietezza. Controllai per l’ennesima volta il cellulare, ma inutilmente. Aurora ancora non aveva risposto al mio messaggio.


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VIII

Chiusi la porta di casa con un piede, e lanciai le chiavi sulla mensola dell’ingresso, graffiata lungo tutta la superficie dalla consuetudine del mio gesto. Subito dopo, mi dedicai all’eviscerazione del pescato. La vista del tonnetto, ormai spento e privo del suo vitale guizzo, generò in me, come ogni fine pesca, un velo di rimorso. Pensai che dopotutto non fossimo così diversi. Lui era stato catturato con l’inganno e aveva pagato amaramente il prezzo della sua voracità. Ugualmente, anch’io mi sentivo braccato, vittima delle mie stesse scelte. Mi sentivo congiunto a un filo invisibile, senza riuscire a capire in quale direzione mi stesse trainando. Un filo dal quale non riuscivo a liberarmi, nonostante i miei continui tentativi di divincolarmi. Non avevo ancora ricevuto notizie da Aurora, non una telefonata, non un sms. “Perché non mi chiama?” mi domandai risentito. “Forse aveva qualcuno ad aspettarla? Oppure sono stato solo il passatempo di una serata? Lo sapevo. Non dovevo espormi così tanto, non dovevo darle tanta soddisfazione. Avrei dovuto portarla in una squallida stanza d’albergo, per darle ciò che voleva e che meritava. Che sgualdrina!” La rabbia nei confronti di me stesso stava aumentando. Decisi quindi di andare al supermercato a fare un po’ di spesa: distrarmi mi avrebbe fatto bene. Dopo aver pellegrinato per una decina di minuti, finalmente riuscii a trovare una nicchia nello stipato parcheggio del centro commerciale. L’ingresso del supermercato aveva due larghe porte automatiche scorrevoli. Quella di destra era affollatissima e le persone, come un liquido nell’imbuto, avanzavano a spintoni per poi fluire lentamente verso l’interno. Io entrai dalla porta di sinistra, completamente sgombra perché libera dall’effetto gregge. All’interno ebbi la solita impressione di trovarmi in una catena di montaggio. Le persone si muovevano come degli automi, ciondolanti e con lo stesso ritmo, in due sole direzioni: fila di entrata e fila di uscita.


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Mi divertiva studiare i loro comportamenti, caratterizzati da una forte naturalezza. La presenza della moltitudine dava a quelle persone la sensazione di essere paradossalmente sole, o meglio, inosservabili e di nessun interesse altrui. Tra gli scaffali strabordanti di merce colorata e inframmezzati da sgargianti cartelloni urlanti di offerte strepitose, una coppia di donne stava disquisendo, da chissà quanto tempo, circa il potere pulente di un detersivo con le scaglie di sapone rispetto alla variante con le microsfere di ossigeno attivo. Due uomini, forse i loro mariti, poco più avanti stavano decantando l’efficacia del rasoio a cinque lame rapportata al modello che ne aveva ‘soltanto’ quattro. Nugoli di persone sciamavano da una corsia all’altra, e come cavallette aggredivano gli espositori piazzati sotto le vistose frecce rosse con scritto sottocosto. Ciò che ne restava, era uno spoglio scheletro di cartone. Una promoter mi tagliò la strada. Sparò parole a raffica: «Vuole provare la nostra nuova pasta fatta con…» «No, grazie.» La dribblai. Inutile. Me ne trovai davanti un’altra. «Prenda il bagnoschiuma in tre per due. È imperdibile!» Scansai anche questa. Riuscii a opporre resistenza alle leve del marketing per non molto tempo. Il bombardamento di messaggi, espliciti e subliminali, imposero le loro ragioni, anche coadiuvati dal momento di sconforto in cui versavo. In breve mi accorsi di aver riempito un intero cesto con roba della quale, fino a pochi minuti prima, non sentivo la minima esigenza. Immerso nell’accozzaglia di prodotti, notai persino un panettone. Facendo appello alle mie facoltà mentali residue, lo restituii al suo scaffale. D’altronde mancava ancora più di un mese al Natale, ma ciononostante le corsie erano già vigilate da enormi Babbo Natale dall’aria inquietante, che non avrebbero affatto sfigurato in un film dell’orrore. Tutto avevo comprato fuorché ciò di cui avevo realmente bisogno: pomodorini, olio extravergine di oliva, e un po’ di odori. Nient’altro che gli ingredienti necessari per cucinare il pescato della mattina. Trionfale come il vincitore di una caccia al tesoro, riuscii a rintracciare il tutto. Mi armai di pazienza e puntai alle casse. Mentre ero in fila, notai che le due coppie di prima erano ancora nello stesso identico punto a cianciare sempre delle medesime cose. Dopo una processione di circa mezz’ora, arrivò il mio turno. «Tessera socio?» chiese meccanicamente la cassiera senza nemmeno guardarmi. Intanto continuava a picchiettare numeri sulla tastiera. Era


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grassottella, sulla quarantina. Portava lunghi capelli scuri arrotolati attorno a una penna Bic senza tappo. «No», risposi caustico. «Peccato», disse lei, per nulla dispiaciuta. «Avrebbe risparmiato diciotto centesimi.» «Sopravvivrò…» Stavolta si girò a guardarmi. «Se vuole può farla anche qui. Adesso», propose. «Bastano cinque minuti.» Mi avvicinai a lei di qualche centimetro, e lessi il suo nome sulla scintillante targhetta metallica appuntata alla divisa. «Anna, ho solo voglia di uscire da questo posto», dissi sforzandomi di sembrare cortese. «Sono domande standard. Ho l’obbligo di farle. Spesso la direzione manda degli ispettori in incognito, per accertarsi che venga fatto tutto quanto previsto per fidelizzare la clientela», spiegò la cassiera. «Anch’io non vedo l’ora di alzarmi da questa sedia.» «Tranquilla, non sono un ispettore.» Presi la mia busta e oltrepassai la barricata di casse. Mentre camminavo nel corridoio della galleria, in direzione dell’uscita, da un negozio di abbigliamento sportivo risuonò una musica. Le note si fecero strada tra voci, rumori, confusione, e mi trafissero anima e corpo. Era Nothing Else Matters, un brano che ormai si era legato indissolubilmente ad Aurora. Sembrava fossero passati mesi da quella sera, ma non erano trascorsi che un paio di giorni. Sembrava tutto così distante, così distaccato, così dissolto. Eppure, in un istante, fui violentemente risucchiato in un vortice di ricordi. Il potere di quelle note fu tale da farmi ritrovare immerso nell’atmosfera dei Navigli e mi fece rivivere, per un attimo, le stesse sensazioni, le stesse emozioni, ridonandogli forza e intensità, riaccendendole come un tizzone rovente ricoperto da uno strato di cenere, ma ridestato da un deciso soffio di vento. “No! Non posso essermi sbagliato! Negli occhi di Aurora ho letto qualcosa di indecifrabile, ma sincero.” Mi ero sempre vantato di riuscire a capire le persone, di saperle pesare e valutare in modo corretto e affidabile. Non potevo aver fallito così miseramente. Se mi ero fidato di quella ragazza, un motivo doveva pur esserci. Era ancora nitido il ricordo della luce e dell’espressione del suo sguardo, delle sue parole, del nostro bacio così intenso e carico. “Perché mai avrebbe dovuto mentirmi?” mi domandai. “Quali sarebbero le ragioni di un simile inganno?”


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E poi c’erano quei momenti. Degli istanti in cui avevo la netta percezione che il mio pensiero e quello di Aurora si incontrassero, cortocircuitando e restituendoci la sensazione che ognuno era cosciente della presenza dell’altro. Decisi di concedermi un'altra possibilità. Non volevo che tutto si sciupasse e venisse già riposto nell’ennesimo cassetto di un dimenticatoio ormai pieno. Mi sedetti sulla prima panchina libera del corridoio, appoggiai a terra la busta di plastica, ed estrassi il cellulare dalla tasca dei miei jeans. Il brano dei Metallica, intanto, continuava a far opera di convincimento nei miei confronti. Selezionai il numero di Aurora dalla rubrica, poi chiusi per un attimo gli occhi come a volerle inviare un messaggio con il pensiero: “Aurora, rispondi. Questo sarà il mio ultimo tentativo.” Lanciai la chiamata. Il suo cellulare risultava spento. Riprovai subito, ma invano. Rimasi immobile a fissare il display. Una bambina mi passò vicino e si fermò. «Scusa signore, perché piangi?» chiese rattristata. «Brava. Anche a te piace osservare le persone», risposi. «Fai bene, però io non sto piangendo.» «Lascia in pace questo ragazzo!» rimproverò la madre mentre la trascinava via tenendola per mano. Sorrisi, pensando che per la bambina ero un adulto, mentre per sua madre solo un ragazzo. Poi, per istinto, mi toccai le guance. Quando vidi il luccichio dell’acqua sulle mie dita, stentai a crederci. Una lacrima aveva davvero solcato il mio viso senza che me ne accorgessi. Aveva deciso di lasciare i miei occhi, dimostrandomi che a nulla sarebbe valso il mio solito autocontrollo. Era la prima volta che mi capitava una cosa del genere, e dovevo capirne il perché. Iniziai a scandagliare il mio animo, la mia mente e tutte le sensazioni in cui erano immersi: forse avevo pianto perché mi ero accorto che quella storia era finita senza mai iniziare, forse perché il mio orgoglio era ferito, forse perché sapevo che non avrei mai più cercato Aurora, forse perché ero deluso e arrabbiato con me stesso, forse perché avevo capito che non l’avrei mai più rivista. In verità, quella lacrima si fece carico di tutti i miei forse messi assieme. Avevo deciso di ignorare il mio istinto e ne stavo pagando lo scotto. Promisi a me stesso che non sarebbe mai più successo. Scelsi di tornare alla mia solita vita e mi imposi di dimenticare. Iniziai a farlo cancellando il numero di Aurora dalla rubrica del telefono.


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Con il cellulare ancora in mano, chiamai Martina. «Nyx!» mi rispose con tono sorpreso dopo appena due squilli. «Ciao Marty, come stai?» «Io bene! Tu invece? Sono tre giorni che provo a chiamarti», replicò seccata. «Non mi hai degnata neppure di una risposta!» Martina aveva ragione, ma solo in quel momento realizzai di aver ignorato le sue telefonate, forse perché avevano avuto il solo torto di non essermi arrivate dalla persona che speravo. «Sono stato a Milano per lavoro. Mi ero ripromesso di chiamarti al mio rientro», mentii. «Hai impegni stasera?» aggiunsi lasciandole intendere che stavo per farle una proposta. «Certo che ho da fare!» rispose piccata. «Devo uscire con delle amiche di università.» «Dai, non fare la vendicativa. Mi farebbe davvero piacere vederti.» «Voglio concederti una possibilità», disse Martina a mo’ di sfida. «Cosa avresti da proporre?» «Stamattina sono stato a pesca con Michi. Non è andata male. Quindi lo chef consiglia una cenetta a base di tonnetti al pomodorino e alici fritte.» Martina rimase in silenzio. «Chi tace, acconsente?» incalzai. «Sei il solito bastardo…» dichiarò lei, facendomi capire che era allettata. «Allora ti aspetto da me per le nove.» «Bastardo!»


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IX

Avevo a disposizione poco meno di tre ore. In quel lasso di tempo avrei dovuto pulire casa, pulire me stesso e cucinare. Rassettai il mio appartamento piuttosto velocemente, considerato che il mio metodo di pulizia fondava le basi sul concetto secondo cui ‘ciò che non si vede, non va pulito’. Mi limitai quindi a dare una parvenza d’ordine all’insieme, a gettar via bottiglie, lattine e confezioni vuote, e a spazzare il pavimento nei tratti più visibili e calpestati. Diedi anche una stesa al piumone del mio letto, ma ignorando del tutto le lenzuola. Tutto sommato, ritenni apprezzabile il risultato finale. Dopo essermi fatto una doccia, fui costretto a far tappa sull’asse da stiro. Decisi di indossare la camicia blu scuro Murphy & Nye che mi regalò Martina qualche mese prima, ma mi accorsi che aveva più pieghe di un cane di razza Shar-Pei. Per mia fortuna, il tessuto si rivelò particolarmente docile. Infilai la camicia e diedi un paio di giri alle maniche. Poi sostai per qualche secondo davanti allo specchio, assicurandomi che l’insieme fosse gradevole e che i jeans chiari si abbinassero bene. Apparecchiai la tavola in modo sobrio ma ricercato: tovaglia e tovaglioli in lino color avorio, flute, piatti a forma quadrata e posate in acciaio satinato. Come sottofondo musicale selezionai dei brani dei Keane e dei Massive Attack, in modo da creare un’atmosfera morbida ma non melensa. Passai quindi alla preparazione dei tonnetti, mentre le alici le avrei fritte al momento. Mi accorsi che stavo mettendo una cura particolare nell’organizzazione di quella serata. Forse mi sentivo in colpa perché, a conti fatti, stavo utilizzando Martina come uno scacciapensieri, come un antidoto al veleno dei miei errori. Questo era anche il bello del nostro rapporto: ci usavamo a vicenda, una sorta di patto di mutuo soccorso. L’uno non doveva mai mancare allorquando l’altro ne avesse avuto bisogno. Era una promessa che ci facemmo molto tempo prima, da piccoli. All’epoca, io avevo dodici anni e lei nove. Abitavamo nello stesso condominio. I suoi genitori litigavano quasi tutte le sere e Martina, pun-


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tualmente, scappava dal suo appartamento. Correva giù per le scale del palazzo per poi bussare alla mia porta. Io ero già pronto lì ad aspettarla, allertato dalle grida e dal rumore dei gradini fatti di corsa. «Mamma e papà stanno bisticciando di nuovo», ripeteva Martina. Nonostante tutto, ogni volta che le aprivo lei era sempre sorridente. «Andiamocene al lampione», ero solito proporre. Il lampione rappresentava il nostro angolo di mondo. Si trovava in fondo alla strada che percorreva il perimetro del palazzo. Faceva il paio con una panchina in ferro battuto su cui sedevamo per fare lunghe chiacchierate sui nostri sogni, su come immaginavamo la nostra vita futura, su cosa avremmo fatto da grandi. Una di quelle sere, quando aprii la porta, notai che il solito sorriso di Martina aveva lasciato posto a uno zigomo gonfio e tumefatto. Lei era singhiozzante per lo shock, ma si sforzava di non piangere. «Marty, cosa ti hanno fatto?» chiesi indignato e pervaso di rabbia. Martina mi prese per mano. «Sediamoci fuori», rispose con voce tremolante. Mi raccontò di essersi intromessa nella discussione per difendere sua madre. In cambio ricevette un manrovescio da quel corpulento mostro del padre che, quella sera, aveva bevuto più del solito. «Promettimi che quando ne avrò bisogno, tu sarai sempre vicino a me», implorò Martina porgendomi il suo indice piegato a uncino. «Te lo giuro, Marty», dissi agganciando il mio dito al suo. «Potrai contare su di me ogni volta che vorrai.» Il nostro intreccio di dita andò su e giù per tre volte, sancendo il giuramento. «Nyx, meno male che ho te», disse Martina sollevata. «Io ti prometto che farò la stessa cosa.» Da quel giorno, tra me e Martina si instaurò un rapporto in grado di resistere al passare del tempo e all’incedere degli eventi. Ognuno aveva la propria strada, i propri interessi, i propri affetti. Ma anche se le nostre vite scorrevano su binari paralleli, nel momento in cui uno dei due mostrava la minima necessità, quei binari convergevano, rendendoci reciprocamente disponibili. Ci legava quindi un’amicizia atipica, una sorta di evoluzione del concetto anglosassone di friends with benefits. Martina, quella sera, e a distanza di sedici anni, stava mantenendo ancora una volta la sua promessa. Ignara di quanto mi fosse accaduto, stava correndo in mio soccorso.


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X

Martina fu puntuale, come sempre. Quando le aprii la porta di casa, mi resi conto che stava diventando sempre più bella. Mi accolse con uno dei suoi soliti sorrisi accesi. I denti bianchi le illuminavano un volto dalla pelle ambrata e dagli occhi grandi e neri. «Buonasera Nyx.» «Ciao Marty. Ti trovo radiosa.» «Anche tu non sei messo male. Si vede che sei stato in barca oggi. A proposito, si sente un profumino…» disse Martina fingendo di fiutare verso l’alto. «Questa è per te», proseguì porgendomi una bottiglia di prosecco. «Sei provvidenziale come sempre», replicai indicandole i flute sul tavolo. «Ho avuto un discreto maestro», schernì. Martina si tolse il soprabito, e mostrò un vestitino a fantasie geometriche con colorazioni cangianti dal nocciola al panna, che dava risalto alla morbidezza delle sue forme e al nero dei suoi capelli lunghi e lisci. «Hai deciso di stupirmi stasera?» le domandai sorpreso. «Come potrei? Tu sei insuperabile con quella camicia. Dove l’hai presa?» chiese soddisfatta della mia scelta. «Non ricordo. Forse al mercatino dell’usato», sorrisi sprezzante. «Infatti la uso solo in casa.» Martina rise divertita. «Pezzo di cafone che non sei altro!» Impiattai i tranci di tonno decorandoli con degli spicchi di pomodorino a crudo e dei rametti di prezzemolo. Congiunsi il tutto con una spirale di olio extravergine. «Madame...» dissi servendo il piatto a Martina. «Merci beaucoup», rispose lei adagiandosi il tovagliolo sulle gambe. La cena iniziò a scorrere in un’atmosfera pregna di rilassatezza e complicità. Martina mi aggiornò sugli ultimi sviluppi della sua vita universitaria e amorosa, raccontandomi relativi successi e fallimenti. Io non avevo voglia di parlarle di Aurora. Ormai avevo messo una pietra sopra sulla vi-


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cenda, per cui mi limitai a dirle qualcosa del mio lavoro e soprattutto della mattinata in barca. «Davvero ottimo questo tonno», disse Martina. «C’era il mare dentro.» «E ancora non hai assaggiato le alici», aggiunsi compiaciuto. «Adesso le preparo.» Prima che mi apprestassi a friggere, indossai un grembiule da cucina a girasoli, scatenando l’ilarità di Martina. «Ma quanto sei carino!» dichiarò ridendo. «Be’? Cos’hai da ridacchiare? Le macchie d’olio per me sono ancora un ostacolo insormontabile.» Aprii le braccia e, fingendo di mettermi in posa, aggiunsi: «Poi trovo che questa mise mi doni.» Mentre stavo infarinando le alici, dando le spalle a Martina, lei si scostò dal tavolo e mi si avvicinò. «Ti ho mai detto che sei incredibilmente sexy quando cucini?» mi sussurrò in un orecchio. «No, tu ancora no», risposi presuntuoso. «Ma l’ho già sentita.» «Ti serve una mano?» proseguì lei, suadente. Prima che potessi risponderle, Martina mi slacciò il grembiule e si strinse a me poggiando le mani sul mio petto, per poi iniziare a scendere lentamente. «Perché non passiamo direttamente al dolce?» propose maliziosa. Reggendole il gioco, le risposi: «Speravo lo portassi tu…» Mi voltai lentamente verso di lei. Martina fece un passo indietro e si sfilò di dosso il vestito, lasciandolo scivolare sul pavimento e mostrando un irresistibile completino color champagne composto da un esile reggiseno e da un’invitante coulotte. «Eccolo qui…» dissi avvicinandomi a lei. «Il mio dolce preferito…» Martina iniziò a sbottonarmi la camicia, mentre le mie mani, ancora infarinate, puntarono al gancetto del suo reggiseno. In pochi istanti, eravamo mezzi nudi. I suoi capezzoli, scuri e turgidi, erano così invitanti che non potei resistere alla tentazione di baciarli e mordicchiarli, suscitando in lei mugolii di piacere. Le sue mani afferrarono la mia nuca, premendo il mio viso sul seno fin quando non fu paga del trattamento. Subito dopo, Martina si inginocchiò, mi sbottonò i jeans, e cominciò a ricambiare le attenzioni ricevute. L’aria si impregnò dell’afrore dei nostri corpi, tramutando la cucina in un’alcova.


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Martina era un’amante formidabile, forse anche per merito della complicità che ci legava da anni. In quei momenti, l’idea che lei non fosse completamente mia suscitava in me un pizzico di gelosia. Non accadeva spesso che facessimo sesso. Nella maggior parte dei casi, i nostri incontri erano delle lunghe chiacchierate. Ma c’erano momenti in cui non riuscivamo a controllare le nostre pulsioni, forse perché bisognosi di un’intimità talmente coinvolgente da permetterci di dimenticare qualche errore commesso. Quella volta passammo tutta la notte insieme, e fu piacevole ritrovare Martina, il mattino successivo, nel letto al mio fianco. Mentre stavo guardando i lineamenti del suo viso, lei, sentendosi osservata, dischiuse per un attimo gli occhi. Poi finse di sonnecchiare, miagolando e crogiolandosi nel tepore del piumone. Con un dito le spostai una ciocca di capelli che si era impagliata tra le labbra. «Buongiorno Marty», bisbigliai. «Dormito bene?» «Beatamente», rispose con voce arrochita dal sonno. «C’era però qualcosa che mi dava fastidio ai piedi…» Alzai il piumone e notai le lenzuola che giacevano in fondo al letto, più compresse e pieghettate di una fisarmonica chiusa. “La prossima volta sarà meglio che le stenda”, pensai. «Nyx, posso chiederti una cosa?» aggiunse Martina, perplessa. «Lo sai che per te non ho segreti…» «Ieri sera mi sei sembrato un po’ distaccato, come se avessi la testa altrove. In passato non mi era mai capitato di avere questa sensazione. C’è qualcosa, o meglio, qualcuna di cui mi vorresti parlare?» «Marty, ma come fai a conoscermi così bene? Non ti si può nascondere nulla», ammisi. «Comunque non mi va di parlarne. È acqua passata.» «Okay, come preferisci», disse guardandomi fisso negli occhi. «Ma sappi che potrai sempre contare su di me.» «E tu su di me», replicai mantenendo il suo sguardo.


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XI

La notte trascorsa con Martina fu terapeutica. Mi aiutò a lenire le ferite e a rinvigorire la mia autostima che ormai puntava verso i minimi storici. Le prime settimane, successive alla decisione di chiudere il capitolo Aurora, comunque non furono facili da digerire. In ufficio il mio stato d’animo, e il mio conseguente comportamento, oscillava tra l’irascibile e il depresso. Spesso me ne stavo in disparte in compagnia di una sigaretta, al punto che il pacchetto passò da dieci a venti e mi durava la metà del tempo. Quando sentivo parlare di Milano, di aeroporti o di taxi, i miei pensieri venivano rapiti da quella ragazza. Talvolta cercavo di opporre resistenza ai ricordi, mentre in altre occasioni mi lasciavo andare, facendomi sommergere da loro completamente. Le persone che mi conoscevamo meglio non facevano altro che chiedere il perché del mio strano comportamento, mentre io, con ingratitudine, non pretendevo altro che silenzio e quiete. In quel periodo ebbi modo di sperimentare il significato dello stare dall’altra parte, ad aspettare. In genere ero sempre stato io a comportarmi da stronzo egoista nei confronti delle ragazze che avevo conosciuto, senza curarmi dei loro sentimenti e delle loro emozioni. Adesso invece mi era tutto più chiaro, ma piuttosto che imparare dai miei errori, iniziai a comportarmi in modo ancora più efferato. Come un vampiro in cerca di sangue, cominciai sistematicamente a giocare tutte le mie carte per sedurre il maggior numero possibile di ragazze, concentrando la mia attenzione su quelle che assomigliavano ad Aurora. Le puntavo, le conquistavo e le usavo come delle bambole gonfiabili. Nella gran parte dei casi, il giorno dopo non ricordavo nemmeno il loro nome, ammesso che glielo avessi chiesto. Ero consapevole che si trattava di mera ritorsione, ma non aveva importanza. Stavo cercando la mia catarsi, dovevo dar sfogo alla mia vendetta, incurante degli effetti che questo comportamento avrebbe avuto sulle malcapitate vittime. Tutti dovevano provare ciò che io stavo provando.


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Mi ricordai, in quei giorni, di un episodio legato a una ragazza inglese, Claire, conosciuta tempo prima, in vacanza. A seguito della mia latitanza nei suoi confronti, protratta nonostante il suo arrivo in Italia per incontrarci, mi inviò un sms scrivendo una sola frase: LOVE IS A CAROUSEL! Era vero. La giostra dell’amore stava girando senza sosta, trasformando continuamente vittime in carnefici, e viceversa. Fortunatamente, con il passare del tempo i miei comportamenti ripresero a tendere alla normalità. Mi restava comunque sempre addosso l’impressione di aver vissuto una vita simile a quella di Robert de Niro nel film Risvegli. Aurora aveva incarnato il farmaco che ebbe l’effetto di risvegliarmi dopo aver vissuto per anni in uno stato di incoscienza. Mi fece scoprire un barlume di vita del tutto diversa dalla precedente, ma proprio come accadeva nel film, dovetti rassegnarmi al fatto che quello spiraglio era stato solo temporaneo. Durante l’inverno sentii anche la mancanza della mia sciarpa. Le ero così affezionato perché me la regalai la sera della mia laurea, per autocelebrare quel successo così inaspettato. La vidi esposta nella vetrina di un esclusivo negozio del centro, adagiata sulla spalla di un arcigno manichino. Aveva un prezzo che ritenni indegno per un simile accessorio. Con gli stessi soldi avrei potuto farci un week-end a Praga. Eppure il suo stile mi attraeva. “Me la merito!” mi convinsi. A tre minuti da quel pensiero, la sciarpa era avvolta al mio collo. Ciò nonostante, e senza comprenderne il motivo, non riuscivo a pentirmi di averla lasciata ad Aurora. Sebbene avessi imposto a me stesso di dimenticarla, per almeno tre mesi, ogni volta che squillava il cellulare o che arrivava un sms, speravo sempre fosse lei. Tale speranza si affievolì gradualmente, fin quando lo scorrere del tempo mi aiutò a smettere di illudermi. A distanza di circa sei mesi, ero completamente ritornato quello di sempre, mentre Aurora era diventata solo un ricordo sbiadito. Anche sforzandomi, stentavo persino a figurare le fattezze del suo viso.


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XII

Era estate inoltrata quando io e Michi, assieme ad altri amici, decidemmo di trascorrere un fine settimana a Roma. Quella volta anche Martina prese parte all’iniziativa: il giorno prima aveva sostenuto un esame all’università e colse l’occasione per farsi un regalo. Io mi sentivo particolarmente sereno, perché era appena terminato l’ultimo giorno di lavoro e finalmente mi aspettavano due settimane filate di mare, amici, serate in spiaggia. Partimmo nel pomeriggio del primo di Agosto 2008. Era venerdì, e avremmo soggiornato nella capitale fino alla sera della domenica successiva. Michi prese la sua auto, portando con sé tutti gli altri, mentre io e Martina li seguimmo in moto. Appena giunti in albergo, situato nei pressi di Piazza di Spagna, sistemammo velocemente i bagagli, per poi concederci una passeggiata in prossimità della celebre scalinata. Arrivati alla gradinata più bassa, ne approfittammo per metterci in posa e fare una foto di rito avente come sfondo la Chiesa di Trinità dei Monti, illuminata in modo magistrale da qualche lighting-designer. Mentre guardavo sorridente in direzione dell’obbiettivo, il mio sguardo fu rapito dalla figura di una ragazza che, dandomi le spalle, sedeva sul bordo della Barcaccia. Dall’alto notai che con una mano giocherellava nell’acqua della fontana, usando il dito come se stesse scrivendo qualcosa. La mia visuale venne però ostacolata da un gruppo sconfinato di turisti giapponesi che iniziarono a scattare, con incredibile simultaneità, così tante foto che i flash abbagliarono la mia vista. Fui costretto a chiudere gli occhi per alcuni secondi, per farli riprendere dallo shock. Subito dopo, saltai i gradini a quattro alla volta e mi precipitai verso la Barcaccia. Oltrepassai la cortina di turisti tutti uguali facendomi strada a spintoni e provocando le loro biascicanti proteste. La ragazza non era più lì. Iniziai a guardarmi intorno con movimenti spasmodici. I miei occhi correvano da una parte all’altra. I muscoli del collo erano tesi e pronti


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ai continui cambi di direzione. Il cervello straordinariamente recettivo ad analizzare tutte le immagini che gli stavano giungendo. Avevo bisogno di più tempo. Non riuscivo più a trovare quella ragazza. «Nyx, ma che ti prende? Dai, torna su!» disse Michi a voce alta. «Ancora non abbiamo scattato la foto.» «Dammi qualche minuto. Poi ti spiego. Iniziate senza di me.» Mi misi a camminare in modo convulso, ma senza una direzione precisa. “Fermati e rifletti!” mi ordinai. C’era troppa folla e non sarebbe servito a molto cercare una ragazza senza avere dei filtri, delle indicazioni che potessero aiutare vista e cervello a selezionare tutti quegli input. Chiusi gli occhi e mi sforzai di ricordare com’era vestita. Nell’immagine, che iniziava a focalizzarsi nella mia mente, sembrava indossare un top bianco e dei jeans blu scuro. Con questa figura impressa nella memoria, cominciai a percorrere la piazza più volte, in tutte le direzioni, scrutando tra la gente. All’improvviso mi parve di vederla. Era di spalle. I capelli e l’abbigliamento corrispondevano ai miei ricordi. Mi precipitai verso di lei e la raggiunsi. Le misi una mano sulla spalla, ruotandola verso di me. «Aurora!» la chiamai. La ragazza si voltò, gli occhi sbarrati per lo spavento. Non era lei. Continuai ancora a cercare per qualche minuto. Tutto inutile. “Davvero era lei?” pensai mentre facevo ritorno dai miei amici. “Forse mi sono solo illuso. Devo essermi sbagliato. Che stupido!” Giunto nei pressi della scalinata, mi accolse la voce di Martina. «Nyx, ma che fine avevi fatto? Facciamo una foto insieme!» propose. «Sì Marty, eccomi!» Poco dopo, ci incamminammo verso Via dei Condotti, in cerca di un locale dove poter mangiare qualcosa. Mentre gli altri chiacchieravano e commentavano modelli e prezzi degli abiti esposti in quel tipico susseguirsi di vetrine, io mi isolai ripiombando ancora nel silenzio dei miei pensieri. I ricordi che avevo soffocato mi si ritorsero contro, rinascendo vividi come non mai. I miei sforzi di dimenticare Aurora furono vanificati in un solo istante. Ero furioso con me stesso perché non riuscivo a gestire le mie emozioni. Si erano appena create le condizioni ideali per rovinarmi un weekend che, nelle intenzioni, doveva essere di puro divertimento. Accesi una sigaretta. Iniziai a fare boccate lunghe e intese, nella speranza che l’effetto della nicotina mi annebbiasse la mente, donandomi


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un barlume di serenità. Ciò nonostante, mentre camminavo tra la gente, i miei occhi inquieti continuavano a scandagliare, a indagare, finché non mi sembrò di scorgere davvero la ragazza che stava seduta sul bordo della Barcaccia. Lei camminava a distanza di una cinquantina di metri, nella mia stessa direzione, dandomi le spalle. Appena la notai, per istinto smisi di camminare. Dopo qualche istante, si fermò anche lei. Come trafitta dal mio sguardo, iniziò a voltarsi, lentamente, alla ricerca di qualcosa di indefinito ma tangibile. Quando i nostri sguardi si incrociarono, un brivido mi percorse la spina dorsale. La sigaretta mi cadde da mano. Era Aurora. Ed era bellissima, più di quanto ricordassi, molto più dell’immagine che avevo inconsciamente e gelosamente custodito nella mia memoria. Rimanemmo impietriti, l’uno di fronte all’altra, apparentemente immobili e inerti. Poi, iniziammo ad avvicinarci, passo dopo passo, senza mai smettere di guardarci. Fin quando non ci trovammo faccia a faccia. Ero combattuto sul modo in cui affrontarla. Mi ero sentito come un oggetto, come un passatempo, e non l’avevo perdonato a me stesso. Mi ero ripromesso che non ci sarei mai più ricaduto. Era mia ferma intenzione di non darle ulteriori soddisfazioni, di mantenere un atteggiamento gelido e distaccato, come se di quella ragazza me ne fossi già dimenticato da tempo. Cercai di non manifestare minimante che, in realtà, non avevo mai smesso di pensarla, che mi era mancata da morire, che non avevo desiderato altro che rivederla. «Ciao Aurora…» pronunciai freddo. «Nyx…» disse lei con voce scossa dall’emozione. Mi sforzai di apparire indifferente. «Come stai?» le chiesi. «Mentirei se ti dicessi che sto bene. E tu?» «Tutto okay», risposi fiero. Aurora spostava nervosamente la borsetta da una mano all’altra. «Nyx, vorrei dirti così tante cose che non so nemmeno da dove iniziare…» «Potresti cominciare dal fatto che non mi hai degnato di una telefonata», sbottai senza riuscire a trattenermi. «Ma ormai non ha più importanza.» «Sì, hai ragione. Ma non trattarmi così. C’è un motivo...» «Lascia perdere. Posso immaginare…» «No! Non è come pensi. La notte del volo ero talmente stanca e confusa che dimenticai la borsa sulla navetta che portava all’aereo. Dentro c’era anche il mio cellulare. Me ne sono accorta solo dopo il decollo e mi è


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sembrato di impazzire. Mi sono sentita impotente, avrei voluto fermare l’aereo, farlo tornare indietro. Ero disperata. Non appena atterrai a Roma, iniziai a telefonare al mio numero, sperando che qualcuno avesse trovato la mia borsa e mi rispondesse. Ma risultava spento. Contattai anche l’aeroporto di Milano avvisando il personale, raccontandogli quanto accaduto e che nel cellulare avevo numeri di telefono molto importanti, che potevano tenerselo, tenersi tutto, ma almeno mi dovevano restituire la sim. Nyx, fu tutto inutile, tutto per colpa della mia sbadataggine. Mi odiavo e iniziai a odiarmi sempre di più, man mano che passavano i giorni, man mano che mi accorgevo…» Durante il racconto, Aurora non smise un attimo di gesticolare, scuotendo la testa e agitando le braccia, come a enfatizzare la disperazione vissuta in quegli attimi. Prima di continuare, riprese fiato, e i suoi occhi si velarono di lacrime. «…mi accorgevo che mi mancavi, che avevo un’incredibile voglia di vederti, di sentirti. Mi restava solo la tua sciarpa e il suo profumo. Mi ha aiutata a convincermi che non si era trattato di un sogno, di un’illusione. Ero terrorizzata dal fatto che tu avresti potuto interpretare il mio silenzio in modo errato, che tu l’avresti considerato come un abbandono. Ti promisi che non saresti caduto a causa mia, ma temo sia successo.» Per diversi mesi mi ero sentito in collera con me stesso, per il modo in cui mi ero fatto trattare. Adesso mi sentivo in collera con me stesso perché avevo giudicato male Aurora. Non sapevo cosa dirle. Ero talmente impreparato a quella reazione che decisi di restare in silenzio. Mi avvicinai ad Aurora e la strinsi in un abbraccio. Lei si rannicchiò, poggiando la guancia sul mio torace e cercando di farsi avvolgere il più possibile. Ci unimmo in modo così serrato che sentivo il suo cuore battere sul mio petto. Il ritmo e il suono profondo delle sue pulsazioni rasserenarono l’irrequietezza del mio animo. Rimanemmo a lungo stretti in quella morsa. I nostri corpi avevano bramato per troppo tempo quel contatto. Ne avevano bisogno per comunicare tra loro, per raccontarsi tutte quelle sensazioni che non hanno parole adatte per essere descritte. «Nyx, non voglio perderti, ma ti capirei se tu mi dicessi che ormai è troppo tardi e che tutto è rovinato…» ammise Aurora. «Non ti permetterò di sfuggirmi ancora», le sussurrai. «Con le buone o con le cattive.» Incurante delle mie rassicurazioni, Aurora proseguì dando sfogo alle emozioni che aveva compresso per tutti quei mesi.


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«Credo di non aver mai smesso di pensarti per un solo istante. Avrei voluto condividere con te le mie passioni, i miei momenti di felicità e quelli di sconforto. Avrei voluto conoscere il tuo parere, il tuo punto di vista su ogni cosa. Avrei voluto sedere al tuo fianco mentre guidavi, accompagnarti a comprare una maglia. Avrei voluto…» «Ti capisco più di quanto tu possa credere. Ma adesso dimentichiamo il condizionale. Ciò che avremmo voluto fare, diventerà ciò che faremo.» L’equivoco era chiarito e non aveva più alcun senso tenere ancora la guardia alzata. Mi sciolsi da quell’abbraccio e con due dita ruotai il viso di Aurora, finché non ci trovammo l’uno di fronte all’altra. Lei non oppose resistenza. Socchiuse gli occhi e mi porse la sua bocca. Congiunsi lentamente le mie labbra alle sue. Loro iniziarono a stuzzicarsi timidamente e con circospezione, come se stessero rifacendo le reciproche presentazioni. Una volta riconosciutesi, lasciarono che quel bacio diventasse sempre più profondo e audace. Tutte le emozioni assopite riesplosero all’improvviso. Il bacio divenne un passionale incontro di lingue, un incontenibile litigio di labbra. La suoneria del mio cellulare irruppe bruscamente. Martina mi stava telefonando. «Nyx, dove sei?» chiese agitata. «Credo un centinaio di metri dietro di voi. Mi sono fermato un attimo.» «Nyx, mi hanno chiamata dall’ospedale!» disse preoccupata. «Mio padre si è sentito male. Io devo tornare a casa!» Ancora una volta, gli eventi si stavano intromettendo tra me e Aurora, ostacolandoci. Ero combattuto, indeciso. Non sapevo cosa fare. Avrei potuto dire a Martina di farsi accompagnare da Michi, ma scartai subito l’idea. No, non potevo negarle il mio soccorso. Martina non lo meritava. Aveva bisogno di me e io non potevo, né volevo, tirarmi indietro. «Marty, torna indietro e raggiungimi! Ti accompagno in moto. Faremo prima!» Aurora lesse nel mio sguardo, e nel tono della mia voce, che era successo qualcosa di spiacevole. Le dissi dell’accaduto e che sarei dovuto andare via. «Spero non sia niente di grave e che si rimetta presto il padre di questa tua amica.» Aurora pronunciò la parola amica come una domanda, quasi a indagare se il termine fosse davvero appropriato. «Vai Nyx, non preoccuparti», aggiunse. «Chiamami quando puoi. Okay? Il mio numero è sempre lo stesso.» ...CONTINUA...


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