Obscuram

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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura. Questa pagina, oltre a essere una specie di "mappa", le raggruppa per nome e per tipo. I link riportano ai siti dedicati alle rispettive iniziative.

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Una terra senza stagioni, dove il tempo sembra scorrere senza mai mutare il suo corso. Una maestosa e lugubre città che, in silenzio come un predatore, attende di poter balzare sulla sua prossima preda. Una spedizione archeologica che porterà alla luce qualcosa di arcano e potente. Uomini, elfi, gnomi e nani vivono in simbiosi forzata con creature misteriose e insidiose; quando l'equilibrio si incrinerà, tu da che parte starai? L'AUTORE: Diego De Vita è nato a Torino nel 1974 e Alfredo Drago è nato a Milano nel 1976. La loro esperienza letteraria inizia per scherzo, su un forum dedicato a una chat che hanno frequentato per anni, scrivendo a quattro mani un racconto horror. Visto il "successo" e le potenzialità di questo metodo, decidono di unire definitivamente le forze per dedicarsi a qualcosa di più serio. Dopo tre anni di sforzi nasce Obscuram.

Titolo: Obscuram. Il Presagio Editore: 0111edizioni Pagine: 208

Autore: Diego De Vita - Alfredo Drago Collana: Guest Book Prezzo: 15,00 euro

12,75 euro su www.ilclubdeilettori.com

Leggi questo libro e poi... - Scambialo gratuitamente con un altro oppure leggilo gratuitamente IN CATENA[leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di un PC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che si legge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto per liberarlo [leggi qui]



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PARLANDO DI LIBRI A CASA DI PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro La trasmissione di Paolo

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Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale OnDemand

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IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO

E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.

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Se hai letto un libro di un autore italiano (edito da qualunque casa editrice), votalo al concorso Il Club dei Lettori e partecipa all'estrazione di numerosi premi. La partecipazione al concorso è gratuita.

In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le Gioca con la Banda del Booko vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei (che si legge quali è richiesto un riscatto all'autore. BUCO) all'ANONIMA Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In SEQUESTRI VAI AL SITO

questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.


Diego De Vita Alfredo Drago

OBSCURAM Il Presagio

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

OBSCURAM. IL PRESAGIO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Diego De Vita – Alfredo Drago ISBN 978-88-6307-277-8 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Aprile 2010 da Digital Print Segrate - Milano


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CAPITOLO PRIMO OMBRE SULLA NEVE

Luce. Il candore nitido del cielo gli feriva gli occhi. Cominciò a sentire sotto i polpastrelli gelati una superficie dura, troppo regolare per essere di origine naturale. Quello doveva essere lo spigolo di qualcosa, assolutamente. Per tutta la giornata precedente era caduta una nevicata insistente e nervosa, che aveva lasciato parecchi cumuli di biancore stantio su quella landa brulla e senza dei. Il freddo gli era penetrato nelle ossa e lo mordeva, affamato, ma la voce dentro alla sua testa gli diceva che finalmente aveva scovato quello che per forza doveva trovarsi lì sotto. Alzò per un attimo il capo e si guardò attorno. Tra le mani aveva probabilmente la scoperta della vita, e la scena davanti a lui parve congelarsi come in un cristallo di ghiaccio: sbuffi di fumo bianco, denso come latte, uscivano quasi a fatica dalle narici dei cavalli; i militari semplici perlustravano intirizziti la zona degli scavi, più preoccupati di combattere il freddo atroce che di difendere la spedizione; gli altri soldati, quelli con la tunica rosso sangue, scandagliavano la radura con sguardo incattivito, mentre i suoi pochi collaboratori lavoravano come se nulla fosse, gli unici a essere soddisfatti di trovarsi laggiù nel Mourn Labyrinth. Una nebbia dall’aspetto minaccioso e incombente si impigliava tra i rami nudi degli alberi, quasi sorta da terra e intrappolata da quella rete scheletrica, mentre poco più in alto un sole timido ed emaciato risaltava su un cielo di un bianco insopportabile. E a un tratto i suoi occhi entrarono in contatto con quelli del suo assistente, inginocchiato qualche metro più in là. Fu un attimo, ma gli bastò per rendersi conto che lui aveva intuito qualcosa. Il giovane fece per alzarsi e raggiungerlo, e allora si sentì prendere da un sentimento di gelosia quasi omicida. La scoperta doveva essere solo sua, suo il merito.


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Tornò a concentrarsi sullo scavo ai suoi piedi, fece scorrere le dita sulla pietra screpolata e rosa dal tempo, e solo allora si accorse che alcuni di quei graffi erano periodici. Sbattè un paio di volte gli occhi per lo stupore, poi avvicinò il viso e comprese che quello che sentiva sotto la punta delle dita poteva essere una sorta di cartiglio. Una specie di spirale rozzamente intagliata era il motivo ricorrente di quello che sembrava essere un pilastro di roccia. Si diede da fare con ulteriore vigore, e pulì meglio che poteva quei simboli arcani. Sì, era decisamente una spirale, e si ripeteva circa ogni venti centimetri lungo la sua scoperta. -Serve aiuto, Professore? Ha trovato qualcosa?Con un misto di terrore e furia cieca alzò gli occhi verso la fonte di quelle parole, e si ritrovò a fissare quelli limpidi del suo assistente. Per un istante si immaginò di fracassargli la testa col suo piccone, ma subito passò. Ormai la scoperta era sua, e il giovane sarebbe stato solo un testimone. -Guarda, Pentaldrin- rispose con voce amabile -Credo di aver trovato una specie di pilastro, con delle decorazioni.Il giovane elfo si sporse verso lo scavo, poi annuì lentamente. Se aveva notato il luccichio assassino nello sguardo del professore, non lo diede a vedere. -Avevate ragione, allora. Qui devono esserci veramente i resti di un’antica civiltà.Fece una pausa. -Diventerete l’archeologo più importante dell’imperoaggiunse poi con tono piatto. -Si, lo sapevo… doveva esserci qualcosa! Dovremmo... dovremo organizzare una grossa spedizione, ma prima… portiamo alla luce questo tesoro!- vaneggiò il vecchio professore parlando più a se stesso che a Pentaldrin. -Fai venire qui tutti i lavoranti, bisogna che puliscano questo sito, oggi stesso! Non vorrei che venisse buio presto, o che addirittura riprendesse a nevicare!L’elfo annuì, poi si avvicinò al gruppo di nani aggregato lì per i compiti di fatica. Mentre si dirigeva verso il loro capoccia, passò vicino a un militare dalla tunica rossa, che lo trattenne rudemente per il mantello. -Cosa ha trovato il vecchio, elfo?- sbottò il soldato con arroganza. -Quello che stavamo cercando, uomo- rispose Pentaldrin, cercando di non mostrare troppo risentimento.


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-Forse se ti lasciassimo legato a quel tronco tutta la notte, domattina risponderesti con più rispetto!- disse l’uomo afferrandolo con due mani per la tunica e quasi sollevandolo da terra. Prima che l’elfo potesse rispondere, emerse come uno spettro dalla foschia una donna piuttosto alta e muscolosa, con un armatura a bande e una tunica rossa. Era completamente calva, eccetto per una coda di cavallo che gli partiva dal centro del cranio come una virgola dispettosa. -Mettilo giù, idiota- disse con voce sommessa. -Si capitano, mi scusi- rispose l’altro soldato lasciando Pentraldrin immediatamente -Cosa ha trovato il Professore?- proseguì il comandante delle Guardie Rosse con lo stesso tono basso di voce, squadrando Pentaldrin con occhi attenti. -Crede di aver trovato parte di una costruzione, capitano Malnock. Mi ha chiesto di far venire i nani per aiutarlo a scavare.-Va bene, procedi pure, elfo. Se davvero avete trovato qualcosa di importante, fai segnare alle due cartografe la posizione. Questo non è certo il tempo per uno scavo in grande stile, bisognerà attendere la stagione migliore.-Sarà fatto, Capitano.La Malnock passò tra i suoi uomini, che si scostarono quasi avessero paura di scottarsi, e scomparve di nuovo nella nebbia. Pentaldrin rimase un attimo a guardarla, metà spaventato e metà incuriosito, poi vide l’occhiata del soldato di prima che non prometteva nulla di buono e si diresse quindi dai nani, per indirizzarli poi dal Professore. Le due cartografe invece non si vedevano in giro, perciò avanzò deciso e infreddolito verso la loro tenda. Le gnome si trovavano lì dentro, in un ambiente stantio e maleodorante, e solo di poco più caldo dell’esterno. La più giovane era seduta e lavorava assorta a una carta stesa su un tavolaccio di legno imputridito, mentre l’altra le stava alle spalle e guidava con la voce la mano della compagna, che guizzava veloce con la penna stretta delicatamente tra le dita tozze. Erano talmente concentrate sulla loro opera che quasi non lo sentirono arrivare, ma la folata di aria fredda e rabbiosa che portò dietro di sé le fece sobbalzare.


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-Scusate, ma forse il Professor Burby ha fatto un ritrovamento- disse senza convenevoli Pentaldrin. -Il capitano Malnock vuole che voi segniate la posizione. E’ meglio se vi vede farlo subito, non è di buonumore- concluse poi. -Mai vista quella strega di buonumore- osservò la gnoma più vecchia. -E’ vero Glyfa- convenne l’altra. -Quindi è meglio non provocarla. Esco io.-Usciamo assieme, gelo o non gelo, non ce la faccio più a restare qui dentro con quest’odore… sembra di essere in una conceria!- esclamò Glyfa. E il freddo li attendeva appena fuori della tenda, invadente e spietato. Pentaldrin guidò le gnome dal professore, che era ancora visibilmente eccitato, e si era addirittura messo a discutere con il capitano Malnock. Attraverso la coltre di nebbia, l’elfo vide il vecchio archeologo gesticolare come uno spaventapasseri scrollato dal vento, mentre la donna lo fissava a braccia conserte, apparentemente in silenzio. -Ma lei... lei non capisce! Questa è una scoperta sensazionale! Noi dobbiamo proseguire subito gli scavi, far venire altra gente, far venire i miei colleghi dalla città, e anche altri nani per ampliare la zona di ricerca! E’ inammissibile ogni ritardo! Lei deve fare...-Io mi atterrò agli ordini del mio comando, Burby- lo zittì il soldato, col suo tono inespressivo. -E lei si atterrà ai miei. Sono io che comando qui, non lei. Ogni azione di ricerca e sviluppo deve essere approvata e pianificata dall’Ordine, non da lei. Compito mio e dei miei soldati è solo far si che tutto si attenga a queste decisioni-Ma questo è un caso straordinario, nessuno credeva veramente che avrei trovato qualcosa qui! Bisogna…-Se davvero nessuno non avesse ammesso una anche minima possibilità di riuscita alla sua spedizione, Burby, lei sarebbe ancora nel suo ufficio a spolverare le sue anticaglie. E’ proprio perché ha avuto successo che io sono qui, per prendere il controllo della situazione. Concedo a lei e ai suoi assistenti il resto della giornata per portare alla luce quanto più materiale potete, domattina si riparte per la città. Non sta nè a me nè tanto meno a lei organizzare il resto dei lavori- concluse la Malnock. -Anche se sono sicura- proseguì con un tono vagamente suadente -Che visti i suoi indiscutibili meriti e la sua abnegazione, le verrà concesso di avere una posizione di rilievo nella prossima spedizione.-


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Le ultime parole del soldato parvero rinfrancare in parte l’archeologo, dai cui occhi scomparve quella luce folle che lo aveva animato fin da quando aveva scoperto il pilastro. -Va bene, capitano. Farò come dice lei. A questo punto sono ansioso di tornare in città per condividere con i miei colleghi e con l’Ordine le mie scoperte.-E sono sicura che loro saranno altrettanto ansiosi. Ora, se mi scusa, inizio a organizzare il nostro rientro per domani- concluse la donna, quindi gli voltò le spalle senza attendere una replica e scomparve nella nebbia. Pentaldrin si era tenuto a distanza assieme alle due gnome, e solo in quel momento Burby di accorse di loro. -Oh, benissimo- esordì -Grandi novità. Domani si torna in città, dove vedrò finalmente riconosciuta l’esattezza delle mie teorie. Un’antica civiltà abitava questi luoghi, ed è fondamentale ritrovare quanti più reperti possibile. Ho convenuto con il capitano di rientrare al più presto per organizzare una nuova spedizione.-Molto bene, professore, sono contento per lei. Ho portato le cartografe.-Splendido. Accompagnale dove io ho trovato il primo reperto, bisogna documentare tutto, fai presto!- esclamò Burby, e andò via ancora gesticolando verso un punto imprecisato della zona degli scavi. I lavori stavano procedendo allargandosi in cerchi concentrici a partire dal primo ritrovamento del vecchio archeologo, mentre un paio di robusti nani barbuti stavano ultimando di liberare da secoli di terra l’antico pilastro. Pentaldrin accompagnò le gnome in quella direzione, poi andò verso la sua tenda per prendere dei guanti di ricambio, visto che i suoi erano ormai fradici e gelati. Come ogni volta da quando si trovava nel Mourn Labyrinth, evitò di dare le spalle alle desolate montagne in lontananza. I monti Snake Towers lo avevano messo in soggezione man mano che vi si erano avvicinati, quasi si sentisse osservato da occhi acuti e non proprio benevoli. Decise di mettersi all’opera vicino al suo superiore, un po’ per tenerlo sotto controllo, un po’ perché gli dava fastidio la presenza della Guardia Rossa. Burby stava supervisionando la pulizia dei contorni del pilastro, e il giovane elfo gli si affiancò. La gnoma più giovane era lì che copiava sulla sua pergamena l’esatta collocazione del ritrovamento e iniziava a


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riprodurre con mano abile le incisioni a spirale. Pentaldrin stava per dirle qualcosa, quando alle sua spalle la voce di un nano si levò al di sopra dei rumori di scavo. -Per tutte le fucine, cos’è questo?Burby si voltò con rapidità verso la voce, ma Pentaldrin fu più veloce e lo superò, raggiungendo il gruppo di nani che lavorava qualche metro oltre il pilastro, alla base di una sorta di piccola collina. Il giovane archeologo vide che uno dei due nani reggeva in mano un oggetto brillante come un lampo e lo fissava con una riverenza quasi mistica. -Cosa avete trovato?- disse trafelato, cercando di capire cosa tenesse in mano l’altro. -Se ci fosse ancora un re dei nani, questa dovrebbe essere sua- rispose il nano, porgendogli l’oggetto. Pentaldrin si ritrovò in mano un lungo pugnale, ricurvo e molto tagliente. La prima cosa che gli venne in mente guardandolo era l’artiglio di un qualche felino di dimensioni gigantesche, ma quello che lo lasciò davvero senza parole era la sua lucentezza. L’arma, affilatissima e leggera, era di un metallo ancora più splendente dell’argento più puro e lucidato, tanto che il viso dell’elfo vi si rispecchiava alla perfezione. Al tatto era quasi tiepido, nonostante la temperatura rigida nella quale si trovavano. Pentaldrin non aveva bisogno della perizia del nano per comprendere che però di argento non si trattava, ma di un qualche materiale sconosciuto, o magari di una lega della quale si era persa la memoria. Era stato fuso tutto d’un pezzo, evidentemente con una tecnica diversa dalla loro, e in fondo all’impugnatura era riprodotta la spirale che ornava il pilastro. In quel momento sopraggiunse Arion Burby, che gli sfilò l’arma senza una parola, ferendogli superficialmente il palmo della destra nella foga. Pentaldrin sentì un dolore urticante, quasi come un’infezione, e gli rimase una sottilissima linea rossa sulla mano. -Chi può averlo perduto, professore? Qui non ci viene mai nessuno.Burby era assorto nella contemplazione dell’oggetto appena rinvenuto, con gli occhi velati e la bocca aperta, quasi in trance. Poi si riscosse e disse: -Certamente lo stesso popolo che ha costruito quel pilastro, giovane elfo.-Non può essere tanto vecchio- sbottò il nano che l’aveva scoperto Non vede com’è splendente? Sembra appena uscito dalla forgia.-


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-Mio ignorante amico, quello che vedo io è che lo avete disotterrato da uno strato di terra uguale a quello che nascondeva il pilastro, quindi era coperto da materiale che gli si è depositato sopra in almeno trecento anni. Inoltre porta lo stesso simbolo del pilastro. Forse è un’arma sacrificale. Questo è quello che credo io. Lo terrò e lo studierò con molta attenzione- rispose il professore con un ghigno avido. -Credo invece che lo terrò io.La voce piatta del capitano Malnock spense tutto l’entusiasmo dell’archeologo. -Lei è un archeologo, si accontenti della sua colonna di pietra. Questa arma verrà portata nei quartieri dell’Alambicco, dove verrà esaminata dagli esperti dell’Ordine. Non sono una scienziata, ma dalle vostre parole mi rendo conto che si tratta di un metallo sconosciuto. Me lo dia.La Malnock allungò con fermezza una mano guantata verso Burby, che tentennò per qualche istante. Un paio di Guardie Rosse alle spalle del loro capitano strinsero con aria significativa le mani sull’elsa delle loro spade, e questo parve convincere l’archeologo, che obbedì. -Ha ragione, ho il mio pilastro e l’onore della scoperta.- Poi si voltò verso i nani fermi con gli attrezzi in mano e li apostrofò con rabbia Tornate al lavoro, non abbiamo tempo da perdere!Il piccolo capannello di curiosi, che si era formato quando il nano aveva levato al cielo il pugnale, pian piano si disperse. Pentaldrin notò che anche le due gnome si erano avvicinate, e gli sembrò che la più giovane -Garwen, Garwyn, non ricordava bene- avesse fissato con palese attenzione il pugnale. La vide allontanarsi scarabocchiando qualcosa sul suo plico di pergamene. Liquidò l’evento attribuendolo alla curiosità e alla voglia di riprodurre un oggetto straordinario, ma pensò che l’Ordine non sarebbe stato altrettanto condiscendente e si augurò per la gnoma che il suo disegno non capitasse sotto gli occhi della Malnock. Tutto quello che cadeva sotto l’attenzione dell’Alba Rossa diventava di sua esclusiva proprietà, e la censura era sempre fulminea e totale. Non si sarebbe stupito se i due nani autori del ritrovamento fossero stati in seguito assegnati ai nuovi scavi nei corridoi più pericolanti delle miniere di carbone. Quanto a lui, non aveva bisogno di disegnare per fissare nella memoria i dettagli, e guardando il palmo della mano scorse ancora la traccia rossastra lasciata dalla punta di quel pugnale. Arion Burby aveva parlottato col caposquadra dei nani, per far spostare gli scavatori e concentrarli nella zona dei lavori più lontana dal luogo


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dell’ultimo ritrovamento, quindi di rivolse a Pentaldrin: -Cosa ne pensi, giovane assistente? Nemmeno io, come dice quella “donna”- ma nel dirlo, pur con tono disprezzante, si guardò bene attorno per assicurarsi di non essere a portata di orecchio della Malnock, -Sono un esperto del settore, però quello non mi sembrava un metallo conosciuto.-Sono d’accordo con lei, professore. Basta solo lo stato di conservazione a escludere tale ipotesi. E poi la leggerezza e… il calore che aveva. Avrebbe dovuto essere quasi gelidoconvenne l’elfo. -Mmm, si. Beh, inutile parlarne. A meno che... non ne troviamo un altro esemplare. Che tu mi dovrai portare all’istante, senza far sapere nulla agli scagnozzi dell’Ordine.- aggiunse l’archeologo guardando fisso Pentaldrin. Ora non sembrava più un folle delirante, era molto sicuro e determinato, anche se conservava una traccia di pazzia nello sguardo. L’apparente razionalità spaventò ancora di più l’elfo, che notava i sempre più frequenti segni di squilibrio nel suo superiore e temeva che ormai fosse arrivato al limite dell’ossessione. -Io devo averne uno per me. Subito. Non parlarne con nessuno, non farti aiutare da nessuno. Ho fatto allontanare un poco gli scavatori, quindi in questa zona sei relativamente solo. Non mi interessa come, anche a mani nude, ma mi devi trovare un altro di quei pezzi!Aveva quasi alzato la voce nel concludere quell’ordine, poi si zittì e fissò l’elfo negli occhi limpidi per qualche istante, come a imprimergli la sua volontà, infine si voltò e si allontanò nella foschia. Per qualche momento Pentaldrin guardò verso il punto dove era scomparso, poi controllò i dintorni e si accorse che effettivamente, per un area di circa venti metri quadri, non c’era nessun altro al lavoro. E si trovava più vicino alle Snake Towers, più vicino di quanto gli piacesse. Il timore profondo e inspiegabile che lo aveva accolto la prima volta che le aveva viste lo assalì con rinnovato vigore. L’elfo si strinse maggiormente nel pesante mantello come per rincuorarsi, quindi si mise sulle ginocchia per cominciare a sondare il terreno con i suoi attrezzi di scavo e i suoi sensi, badando bene a non voltare le spalle alle montagne incombenti. Le Snake Towers troneggiavano qualche chilometro più a sud, impossibile dire quanti, attraverso quel filtro nebbioso che appiattiva tutte le distanze. Pentaldrin le guardò di nuovo, ma l’impressione che ne ricavò fu la stessa della prima volta: sembravano i denti neri e rotti di qualche creatura mostruosa e arcaica. E si sentiva osservato, non sapeva dire


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perché. Decise di concentrarsi sul suo lavoro, non poteva lasciarsi intimidire da sensazioni così infantili anche se, in quanto elfo, era educato a prestare orecchio a ciò che la Madre Terra gli sussurrava, e adesso lo stava mettendo in guardia da quel confine naturale che nemmeno la potenza dell’impero umano aveva ancora osato sfidare. Gli umani avevano soggiogato gnomi e nani con l’inganno e il tradimento, e quindi si erano rivoltati contro i loro antichi alleati elfi, approfittando della loro era oscura, e avevano reso schiava anche la sua gente. E ora, in base alle disposizioni dell’Ordine dell’Alba Scarlatta, sguinzagliavano le loro spedizioni ai margini dell’impero, ma ancora non avevano avuto il fegato di confrontarsi con le Snake Towers. Forse perché ancora non ne avevano il pretesto, riflettè cinicamente Pentaldrin, poi ebbe un sorriso obliquo realizzando che magari quel pretesto glielo aveva appena fornito il buon vecchio Arion Burby con la sua scoperta. Improvvisamente sentì un brivido corrergli lungo la schiena, e fu preso da un’irrefrenabile voglia di scappare via di lì. Mollò i suoi arnesi e tentò di mettere meglio a fuoco le ombre che si stagliavano oltre lo schermo di nebbia, ma vide poco o nulla. Eppure sentiva che c’era qualcosa che lo guardava, che lo aspettava, e lui era lì isolato, a portata di voce con i nani sull’altro versante della collinetta, ma forse non abbastanza vicino da poter essere soccorso in caso d’aggressione. Strinse nervosamente i pugni, facendo sbiancare le nocche, e fu quasi sul punto di... dovette farsi forza, ricordando chi era e dove si trovava, quindi tentò di rilassarsi, e scelse la strada della meditazione per entrare in comunione con la natura. Chiuse gli occhi e si mise in ascolto. Percepì sempre più a fatica il rumore secco e metallico dei nani alle prese con gli scavi, le voci rudi e sgradevoli degli umani che li tenevano al guinzaglio, si estraniò da tutto questo e tentò di isolare i suoni naturali e di passare al livello successivo. Adesso tutto il resto era brusio, e c’era solo il gelido ululato del vento che faceva ondeggiare i suoi lunghi capelli, il gocciolio pesante della neve che si scioglieva dai radi arbusti e cadeva in terra, il richiamo delirante di qualche uccello lontano. Mise da parte anche questo, e ascoltò ancora più a fondo il battito del cuore della natura. Individuò una moltitudine di insetti che vivevano sotto di lui, incuranti del gelo della superficie, rintracciò il rapace autore del grido solitario, e il fremere atterrito della sua preda. E c’era dell’altro. Non era molto lontano, e gli sembrava fosse in direzione delle montagne, anche se non


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poteva certo esserne sicuro. Non sapeva riconoscerlo, era qualcosa di nuovo, una presenza vigile, in attesa. Se l’aveva percepita a quel livello, doveva trattarsi di un qualche animale, eppure c’era una nota stonata nelle sue sensazioni, e un certo timore recondito cominciò a far presa sul giovane elfo, quando all’improvviso le presenze divennero due, o forse anche tre. Lo stato di semi-trance consentiva a Pentaldrin di mantenere un certo sangue freddo, altrimenti sarebbe fuggito a rotta di collo, tanto era il terrore che stava provando. Lontano, oltre la foschia che lo separava dalla realtà, gli parve di sentir bruciare il graffio che si era fatto col pugnale arcano. Poi, all’improvviso, percepì che le presenze si stavano allontanando, e si ritrovò a fissare con occhi sbarrati il vuoto davanti a sè… Si sentiva completamente intirizzito e stremato, e decise di fare una pausa nella tenda per scaldarsi un poco. Non era sicuro di quello che aveva sentito, però era sicuro che ci fosse davvero qualcosa che li sorvegliasse, e non voleva neppure pensare se per caso non fosse lì per lui. Riteneva che qualunque cosa fossero, perché non avrebbe giurato che si trattasse di animali, si erano ormai allontanati, comunque si affrettò verso la tenda. Incrociò prima qualche nano, che guardò quasi con gratitudine, ricevendone occhiate perplesse e quasi ostili, ma non gli importava molto. Non aveva voglia di discutere ancora con Burby, dopo la sua maniacale esortazione a procurargli dell’altro metallo splendente, quindi evitò di passare per il centro del campo e tagliò invece per il settore periferico, dove alloggiavano nani e gnomi. Stava per raggiungere il suo ricovero quando notò una cosa insolita: vicino alla tenda della cucina, nella zona dove venivano accatastati i rifiuti, le due cartografe stavano parlottando con aria misteriosa, e dopo qualche istante la più giovane fece per estrarre un oggetto da una tasca del pesante cappotto, ma l’altra le mise una mano sul braccio, bloccandola, e le disse qualcosa con aria grave, al che la più giovane annui e lasciò l’oggetto dove si trovava. Pentraldrin si accorse che era rimasto allo scoperto a spiarle, e adesso che si stavano separando probabilmente lo avrebbero notato, quindi si gettò dietro alla tenda più vicina, e rimase fermo qualche secondo, in ascolto. Gli sembrò di sentire i passi ovattati di qualcuno che si allontanava sulla neve, e poco dopo un’altra serie di passi, quindi decise di arrischiarsi a uscire. Non c’era più nessuno in vista, quindi, dopo un’ultima occhiata di controllo, si diresse nella sua tenda per riflettere un poco sulla strana giornata che stava volgendo al declino.


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Garwyn Underforrows aveva un dono: le bastava osservare per qualche istante un oggetto, anche complesso, per essere in grado di riprodurlo su carta nei minimi dettagli. E ora, nel gelo della piana del Mourn Labyrinth, stava tentando di riportare sul suo taccuino quello strano pugnale, con il suo pomolo a spirale. Le dita le si stavano congelando, ma non poteva usare appieno la sua arte adoperando dei guanti. Di tanto in tanto si guardava attorno, per assicurarsi che non si avvicinasse nessuna Guardia Rossa; nell’evenienza, aveva già pronto un altro foglio con una mappa approssimativa della zona est degli scavi. La sua collega, Glyfa Froghall, si era diretta all’altra estremità del campo, e Garwyn sospettava che non avesse nemmeno visto il pugnale. L’aveva finito, ed era perfetto in tutti i dettagli. Però su carta non dava la stessa sensazione arcana: l’aveva visto per pochi momenti, eppure le aveva dato un senso di mistero che andava oltre al fatto di essere un oggetto antico. Quel pugnale aveva una storia, la sua lucentezza era inspiegabile, così come il suo calore, e tutte queste cose non le poteva trasmettere sul suo quadernetto, per quanto fosse dotata. Rimaneva comunque una testimonianza preziosa, e quindi doveva conservarla con cura. Decise che poteva fare una puntata nella sua tenda, con la scusa di scaldarsi un poco, per mettere al sicuro il suo disegno, così si mise in cammino. Doveva percorrere solo un centinaio di metri, e non c’erano uniformi rosse in vista, quindi se la prese con comodo, osservando il gelo che teneva saldamente i suoi artigli su quella landa disperata. Alberi e arbusti erano coperti di uno strato cristallino e luccicavano come gioielli, e l’aria, così fredda da respirare, sembrava quasi densa e dava un senso di immobilità. Chissà com’era, vivere sempre al contatto così stretto con la natura, coi boschi, e non invece relegati nel cuore della Città. Se lo chiedeva spesso, e spesso fantasticava di fare un viaggio nel tempo, di visitare la terra dei suoi antenati. Glyfa una volta gliene aveva parlato, lei c’era stata, nella loro terra natale; non ne rimaneva gran che, le aveva detto, più che altro una voragine che apriva in due un complesso di piccole colline, come se fosse stato calato un colpo un’immane mazza chiodata. Macerie la loro patria, morti i loro antenati, incatenata ai piedi degli umani la loro storia. Era talmente persa nei suoi pensieri che quasi andò a sbattere contro un nano, che stava inginocchiato a una decina di metri dalla sua tenda. Non aveva seguito molto le indicazioni dell’archeologo circa la disposizione degli scavi, ma a quanto ricordava


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quella zona era stata vagliata e abbandonata quattro o cinque giorni prima. Il nano alzò di scatto la testa, con un’espressione mista di colpevolezza e furia, poi la riconobbe e parve rilassarsi. Era veramente giovane, tanto che non portava la barba folta peculiare della sua razza, ma un paio di baffetti sottili molto scuri, che facevano da contrasto ai denti bianchissimi. -Dottoressa Underwood, mi scusi- disse con voce profonda, chinando il capo. Garwyn lo conosceva di vista, come tutti i partecipanti a quella spedizione, ormai, visto che erano già passati quindici giorni dalla partenza dalla Città. Le parve che il nano, ancora inginocchiato con le palme a terra, stesse cercando di coprirle col corpo la visuale sul punto dove stava scavando, ma la gnoma fu più scaltra, e lasciò cadere la penna davanti ai propri stivali, e con un gesto assolutamente naturale si chinò rapidamente per riprenderla, non prima di aver lanciato un’occhiata molto attenta. Quello che le stava nascondendo era un piccolo foro, quasi perfettamente circolare. Il nano, colto alla sprovvista da quella mossa apparentemente casuale, tentò goffamente di cambiare posizione, tradendo così il suo intento, quindi sbuffò e allargò le mani, in segno di resa. Garwyn si limitò a sorridere, passandosi la penna sul naso con noncuranza. -D’accordo dottoressa. Fare la spia non è il mio mestiere- capitolò il nano. -Nemmeno il mio, se è per questo- replicò serena la cartografa, -Quindi è meglio se smettiamo. Tanto più che qui- continuò Garwyn, guardandosi attorno prudente, -Qui c’è chi le spie le sa davvero trattare. Puoi alzarti e seguirmi nella mia tenda, o quello che stai facendo te lo impedisce?-No, no… ormai avevo finito, stavo solo coprendo un po’ le tracce- rispose il nano. -Mi dia ancora mezzo minuto-Bene. Intanto, che ne dici di iniziare a dirmi come ti chiami? Tu il mio nome lo sai, mi sembrerebbe corretto, no?-Direi di si- ammise il nano, mentre con le mani riempiva di terra il buco e lo copriva sommariamente con della neve. -Il mio nome è Kordaq Ashfoot, e sono un semplice tagliatore di pietre.Nel frattempo il nano aveva terminato e si era rialzato, quindi i due si diressero verso la tenda della gnoma. Si guardarono intorno, ma la nebbia si era fatta più fitta, quindi non si scorgeva quasi nulla oltre i dieci


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metri. Garwyn si godette qualche istante di calore all’interno della piccola tenda, prima di voltarsi verso il nano e fare la sua domanda. -Un semplice tagliatore di pietre, con un’innegabile dose di iniziativa, a quanto vedo.Il nano tentò di farsi piccolo, di nuovo conscio di essersi fatto scoprire, ma poi i suoi occhi si fecero duri come pietra. -E’ nostro dovere opporci in ogni modo alla dominazione umana, anche se questo non significa per forza dargli battaglia in campo aperto!- esclamò. -Sono d’accordo con te, Kordaq- annuì tristemente Garwin. -Purtroppo non tutti la pensano così, tra la Piccola Gente. C’è chi vorrebbe lanciarsi armi in pugno per le vie della città, facendosi fare a pezzi dagli imperiali, e chi addirittura collabora con gli umani.- la gnoma finì la frase guardando con apparente interesse il terreno della tenda. Vide con la coda dell’occhio il nano irrigidirsi e borbottare qualcosa a proposito dei collaborazionisti, poi lo sentì sputare con disgusto e rabbia. -Lasciamo perdere questi discorsi.- disse seriamente Kordaq. -Tanto vale che sia franco: ho trovato qualcosa... qualcosa di prezioso, che deve arrivare alla Mano di Pietra.- Si mise una mano in tasca, frugò un poco e poi estrasse un frammento triangolare argentato. Sembrava una punta di freccia, fatta apparentemente dello stesso incredibile metallo del pugnale, e altrettanto ben conservata. La porse a Garwyn, che prese a fissarla meravigliata nel suo palmo, assaporando il calore che emanava sulla sua pelle. -Dopo che i miei compagni hanno ritrovato il pugnale, mi è venuto in mente che te o quattro giorni fa, facendo dei sondaggi nel terreno, avevo trovato una cavità in questa zona, ma il professore aveva già deciso di abbandonare l’area per portarsi sulla collina, quindi non ho potuto continuare, e me ne sono scordato. Oggi mi è tornato in mente, e così, senza sapere perché, ho pensato che se qui sotto c’è davvero una città sepolta, forse quella cavità non era poi così naturale, quindi ho pensato di dare un’occhiata. Qualcuno deve aver guidato la mia mano, perché dopo pochi minuti che avevo iniziato a usare la sonda per cercare un buon punto per scavare, ho sentito un rumore metallico, e quando l’ho sfilata c’era sotto questa meraviglia. Io non sono uno specialista dei metalli, ma credo che i nostri capi in Città debbano essere messi al corrente… e con questa punta di freccia possono studiare questo metallo, e magari scoprirne le caratteristiche prima degli umani.-


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Garwyn aveva ascoltato con attenzione il racconto del nano, e alla fine annuì. Si era sempre sentita patriottica, legata alle sue origini, ma si rese conto che in realtà non aveva fatto mai nulla attivamente per risollevare il suo popolo. Quella poteva essere un’occasione per dare il suo contributo. -Se gli umani hanno il loro giocattolo da studiare, anche la Mano di Pietra l’avrà- disse convinta. -E sarà molto più sicuro se terrò io la punta di freccia, visto che noi scienziati non veniamo quasi mai perquisiti, a differenza vostra.Kordaq la fissò per qualche istante, come se volesse leggerle l’anima, quindi annuì. -Lo penso anche io. Se ho capito bene, domani si torna in Città; domani sera devi assolutamente consegnarla, io vedrò di passare parola per facilitarti le cose, ma non sono sicuro di essere libero di accompagnarti. Niente di più facile che mi tocchi stare nel Ghetto domani.- Fece una pausa, poi riprese, sempre guardando fissamente la gnoma -Non una parola con nessuno.-E Glyfa? Lei mi può aiutare, e sarebbe difficile nasconderle qualcosa. Per il nostro lavoro ci muoviamo sempre in coppia.Il nano si prese un’altra breve pausa prima di rispondere. -Hai ragione. Ma stai attenta agli umani. E all’elfo. Non mi piace quel tipo- e senza aggiungere altro, Kordaq sollevò un lembo della tenda, e sparì con passi pesanti nella foschia. -Nemmeno io mi fido di lui… o forse si?- sussurrò Garwyn, poi uscì a sua volta decisa a trovare Glyfa per raccontarle tutto. Trovò Glyfa quasi subito, visto che la collega, infreddolita, stava tornando verso la tenda per godere di un po’ di tepore. -Garwyn, finito anche tu? Io...- ma la giovane gnoma non le diede tempo di finire, e, dopo essersi guardata rapidamente intorno, la trascinò per una manica del pesante giaccone verso la zona delle cucine. -Ma che succede, Garwyn, stai bene?- chiese allarmata Glyfa. -Seguimi senza dire niente, è importante!- le sussurrò Garwyn avvicinando la bocca al suo orecchio. La cartografa anziana non capiva, ma era amica di Garwyn da molti anni, per lei era come una nipote, quindi decise di fidarsi e fare come diceva. Garwyn la mollò solo quando si ritrovarono sul retro della tenda delle cucine, proprio dove venivano ammassati i rifiuti. Anche in quel freddo


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pungente e insistente il tanfo che ne veniva era disgustoso, e ancora una volta Glyfa si ritrovò a rimpiangere la vita semplice e libera dei suoi avi. Ora la sua amica la guardava fissa negli occhi, per assicurarsi di avere la sua completa attenzione, quindi Glyfa la guardò di rimandò e annuì. -Senti, lo so che noi lavoriamo per gli umani- esordì Garwyn tutto d’un fiato, come se temesse che, fermandosi, le sarebbe mancato il coraggio di finire -Ma so anche che c’è chi lavora per tornare a dare una speranza alla nostra gente. E questa volta io... noi, possiamo fare qualcosa.Fece una pausa, ma Glyfa le sorrise, come a significarle il suo assenso e la sua comprensione. Sarebbe stata dalla sua parte. Lo immaginava, ma le diede coraggio vedere quel sorriso. -Un nano, un certo Kordaq, questo pomeriggio ha trovato una punta di freccia, realizzata con quello stesso metallo straordinario. Io l’ho “sorpreso”, diciamo, e mi sono offerta di aiutarlo. Lo sai anche tu, lo avrebbero perquisito e avrebbero trovato quello che nascondeva. Loro trovano sempre quello che cercano. Ma non cercano mai addosso a noi scienziati.-Quasi mai, è vero- assentì gravemente Glyfa. -Lo so, lo so!- sbottò Garwyn, quasi alzando la voce, ma poi trattenendosi. -Non posso essere sicura, ma di certo ho più speranze io di introdurre questa cosa in città e farla avere alla Mano di Pietra!-Non volevo mettere in dubbio niente, mia cara. Solo essere sicura che avessi ben presente i rischi. Se sei convinta tu, lo sono anche io. Sono con te, lo sai.- disse con un tono dolce Glyfa. Garwyn accennò un sorriso, poi si mise una mano in tasca, come per estrarre un oggetto, ma Glyfa la fermò mettendole una mano sul braccio. -No. Non qui. Anzi, ormai non devi più togliertelo di dosso- l’ammonì la gnoma. -Non temere, io sarò sempre vicina a te, vedrai che andrà tutto bene. Ora andiamo via di qui, siamo rimaste fuori anche troppo tempo, e io mi sto gelando.-Vai tu, Glyfa. Io devo ultimare la mia parte di mappa, poi ti raggiungo nella tenda.-Sta bene. Fai al più presto, e sii tranquilla.Le due gnome si separarono, e ognuna si incamminò per la sua strada, entrambe ignare della figura sottile che si era appena riparata dietro a


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una tenda a una decina di metri da loro, dopo averle osservate per tutta la loro discussione. Qualche tempo più tardi, in un’altra zona ai margini del campo, Arion Burby stava ridendo. Era il riso estasiato di una mente senza controllo. La sua ambizione era ai livelli massimi ormai. Aveva appena trovato quello che sembrava il frammento di una sorta di idolo, presumibilmente in terracotta. Si trattava di una statua di forma umanoide che riproduceva un animale feroce, un orso o un lupo, non avrebbe saputo dire. L’archeologo era stato chiamato qualche minuto prima dal nano che lavorava in quel punto, il quale si era reso subito conto di aver trovato qualcosa di importante. Burby aveva poi voluto proseguire personalmente lo scavo e aveva ormai quasi totalmente liberato la statuetta dal terreno, ma adesso le mani cominciavano a fargli male e le dita si erano irrigidite. Nonostante l’eccitazione, decise allora di far finire il nano. -Finisci tu- disse raggiante al nano -Io sono stanco.Il nano si inginocchiò ubbidiente, e si mise a lavorare con un piccolo arnese di metallo per finire di pulire i contorni dell’idoletto dalla terra e poterlo così estrarre, mentre l’archeologo lo osservava con crescente agitazione standogli di fronte, in piedi. La sua fortuna era fatta. Aveva trovato i resti di un’antica civiltà proprio dove le conclusioni che aveva tratto dai suoi decennali studi lo avevano indirizzato. Aveva faticato anni per farsi ascoltare e farsi assegnare una spedizione, ma quella giornata lo ripagava di tutto. Anzi, no, per mettersi in pari gli mancava di vedere i suoi oppositori umiliarsi mentre l’imperatore lo avrebbe onorato. Aveva un pilastro, parte sicuramente di un vasto colonnato che avrebbe dissotterrato in primavera, aveva quel meraviglioso pugnale, anche se poco gli importava di che metallo fosse, e ora aveva un idolo, che sicuramente avrebbe aperto orizzonti per lo studio della religione di quella civiltà aliena. Proprio in quel momento, il rumore come di un piatto in frantumi lo riportò alla realtà. Ci mise qualche istante a mettere a fuoco la scena, poi vide distintamente il nano, ancora inginocchiato, che gli porgeva nelle mani giunte il suo idolo, frantumato in tre pezzi e quasi irriconoscibile. -Mi spiace professore. Era molto rovinato, ed estraendolo si è spezzatoborbottò con voce bassa il nano.


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Burby lo fissò inespressivo per qualche istante, senza accennare un movimento. Poi, veloce come un lampo, si chinò alla sua destra per recuperare il suo piccone e vibrò un colpo tremendo sul capo del nano, che si sfondò con un rumore secco e cattivo. Il nano allargò le braccia in un gesto inconsulto, facendo cadere i resti della statuetta, e poi cadde su un fianco come un sacco vuoto. L’archeologo si guardò attorno con apparente calma, ma la foschia lo avvolgeva come un sudario. Tutto era durato solo qualche secondo, e la sua vittima non aveva emesso alcun suono. Tenendo il cadavere fermo con un piede, lo liberò dal piccone, lo afferrò sotto le ascelle e lo trascinò fino a uno dei tanti piccoli crepacci che caratterizzavano l’area e lo gettò di sotto. Probabilmente se lo sarebbero disputato i predatori notturni, la cui opera avrebbe nascosto la vera causa della morte. L’indomani mattina quei miseri resti sarebbero stati trovati e aggiunti senza una parola alla fossa comune dell’accampamento, un’altra vittima dell’ostilità di quella landa. Tutti questi pensieri attraversarono in un lampo la mente di Burby, assolutamente lucida nella sua follia omicida. Tornò allo scavo, ansioso di recuperare i frammenti della sua ultima scoperta. Mentre puliva il piccone con dell’erba cominciò a fischiettare un motivetto allegro. Ancora più tardi, all’interno della sua tenda, Embira Malnock stava finendo di pettinarsi la lunga coda di cavallo. Si era liberata della pesante armatura e della tunica dell’Ordine, e ora aveva solo una veste leggera, che ne metteva in risalto il fisico asciutto e muscoloso. Un paio di bracieri tenevano caldo l’ambiente, e sul suo tavolo c’erano i resti di un pasto appena consumato. Nello scrigno borchiato aveva rinchiuso quello strano pugnale, che per lei valeva sicuramente più di tutti i palazzi che quel vecchio idiota di archeologo avrebbe mai potuto dissotterrare assieme ai suoi amici. All’Alba Scarlatta interessava solo il potere, ed era innegabile che quell’arma ne possedeva. Il Guardiano dell’Ordine l’avrebbe sicuramente elogiata e premiata, quindi era ansiosa di far ritorno in città. Ma le restava ancora quella notte. Battè due volte le mani, e la sua servitrice elfa entrò rapidamente per sparecchiare. Contemporaneamente Embira Malnock, capitano delle Guardie Rosse, prese un sacchetto dal cassetto del tavolinetto accanto al letto da campo. Ne tirò fuori una manciata di polvere finissima, che fece cadere lentamente in uno dei


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bracieri; la tenda fu subito pervasa da un profumo esotico e inebriante. Embira si sdraiò lascivamente sul letto e attese. Mentre la serva usciva, fece il suo ingresso la figura di un uomo piuttosto alto e snello. Era già la terza volta che quel militare montava la guardia nella sua tenda, ed Embira ricordò a se stessa che non doveva esagerare, ma intanto voleva goderselo. A notte fonda, Pentaldrin era nella sua tenda, di nuovo in meditazione. La giornata era stata piena di eventi strani, e sentiva la necessità di tornare in città e vedere diverse persone per raccontare tutto e farsi aiutare a fare chiarezza. Forse erano solo una serie di coincidenze e fatti insoliti, ma non poteva permettersi di ignorare tutto. Burby sembrava sull’orlo della crisi, con i suoi scatti incontrollati. I soldati dell’Ordine erano sempre pronti a cogliere la minima occasione per schiacciare la sua gente, e ora anche gnomi, e probabilmente nani, parevano avere i loro piani segreti. Si stava ancora chiedendo cosa si fossero dette le due cartografe dietro alle cucine. Ma quello che più lo spaventava era il senso di terrore che gli ispiravano le Snake Towers, e l’aver avvertito quelle presenze, non precisamente ostili, ma di certo non benevole, a poca distanza da lui, in osservazione. Provò a ribaltare il problema: forse non erano stati loro, a scoprire qualcosa quel giorno, ma era stato qualcosa a venire a conoscenza della loro esistenza. E poi c’era quel graffio, che aveva ripreso a bruciargli il palmo della mano. Anche se nella tenda era solo, non si fidava a occuparsene con tutte quelle guardie rosse in giro, quindi tentò di approfondire il suo stato di trance per isolarsi da tutto, dolore e preoccupazioni, e riposare almeno un poco. Nel cuore della notte, nel cuore della nebbia che avvolgeva le Snake Towers, la prima presenza si fermò a pensare. Forte era il richiamo del sangue, e grande la voglia di lanciarsi su quel campo e passare come una falce. La seconda presenza si avvicinò, intuendo i suoi pensieri dalla direzione del suo sguardo. -Non è tempo adesso. Che il giovane abbia pazienza, non è detto che se hanno trovato la Città Perduta, trovino anche noi.-Anziano, stai dicendo che forse è meglio aspettare che ci trovino, per essere sicuri che sospettino della nostra esistenza?-


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-La tua mente è veloce, e la tua lingua è abile, amico mio. Ma non importa quello che penso io, o che pensi tu. Gli altri Anziani devono essere informati, e assieme verrà deciso cosa è meglio fare. Per ora abbiamo tempo per riflettere e prepararci. Anche alla guerra, se necessario.-Non abbiamo bisogno del consiglio, per spazzare via quei cani!-Il giovane parla da stolto. Li uccideremmo tutti, ma non faremmo altro che alimentare la loro curiosità e paura. Il giovane crede che nella loro città non sappiano dove sono? Crede forse che non li verrebbero a cercare? Manderebbero qui un esercito la prossima volta, e non per esplorare, ma per invadere e uccidere.-Il Grande Popolo non ha paura di quei miserabili.-E invece ne ha. Ed è per questo che siamo ancora vivi. Temere il nemico serve a non fartelo sottovalutare e ad agire sempre con saggezza. Che il giovane rifletta sulle mie parole. Il guerriero impetuoso fa strage dei suoi nemici, ma inevitabilmente prima o poi commette l’errore di lanciarsi in una battaglia che non può vincere. Il guerriero saggio, invece, sceglie sempre dove e quando affrontare i suoi avversari, e nessuno di loro rimane vivo, se lui non vuole.-Si Anziano. Sia come vuoi.-Che il giovane non tema: se il consiglio deciderà per la guerra, avrà un posto in prima fila. Ma non è detto che il campo di battaglia debba essere qui, nella Città Perduta. Non sarebbe forse meglio combatterli nella loro, di città?La prima presenza fece per rispondere, poi si fermò di nuovo a pensare. Immaginò la Capitale dell’impero umano, un nemico temuto e non troppo lontano, e provò a immaginarla in fiamme. Gli piaceva come idea, e decise che valeva la pena avere pazienza, se quello poteva essere il risultato.


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CAPITOLO SECONDO IL MARTELLO DEL NORD

Una neve impalpabile come farina cadeva leggera ormai da diverse ore, e uno strato splendente ricopriva ogni cosa sotto il suo sguardo. Il Lost Lake era gelato da quasi due settimane, anche se nessuno osava affrontare la sua gelida superficie azzurro cupo. Pesanti sbuffi di fumo color cenere arrancavano fuori dai camini anneriti delle segherie sulla terra ferma, dove figure annichilite di elfi portavano incessantemente i tronchi appena tagliati. Ogni tanto qualcuno di loro si rifiutava ancora di prestarsi a quel lavoro, così contrario alla loro indole naturista, e non si perdeva tempo ad approfittarne per una lezione sul senso imperiale del dovere. Qui non c’erano certo le segrete come per la capitale o la torre delle torture, ma una fustigazione nella piazza del mercato faceva sempre un certo effetto. Erano diversi anni che il popolo elfico giaceva ai piedi dell’impero, vivendo solo delle briciole, e ancora non era del tutto domato. La famiglia reale era stata deportata nella capitale umana per rappresentare gli elfi, si diceva, mentre in realtà non era altro che una sorta di ostaggio per impedire la rivolta. I migliori intellettuali e guaritori venivano ugualmente trasferiti, facevano da tutori e medici presso gli umani per pagare l’onere di una guerra mai combattuta realmente, ma perduta in modo atroce. La foresta degli elfi veniva altresì spogliata delle sue ricchezze; marmo verde, cristalli, legname, oro, insomma tutto quello che di buono e prezioso si poteva ricavare dalla Quiet Forest era stipato sui massicci carri carovanieri e indirizzato alla capitale lungo l’Eye Road. Tanto ormai il commercio non esisteva più per gli elfi: nani e gnomi non avevano più una città natale, e gli umani non avevano bisogno di comprare quello che si erano garantiti con la forza. Certo, in città era rimasto il cugino del sovrano, ma il vero potere era nelle mani del Vicerè umano, colui che disponeva di tutti questi beni e garantiva che la loro ricchezza aumentasse lo splendore dell’impero. Guardò di nuovo la città che si stendeva ai suoi piedi, riparato dalla ve-


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trata in cristallo verde smeraldo del palazzo reale. Ovunque c’erano i segni della dominazione umana, primo fra tutti il forte difeso da aguzze palizzate di legno che si ergeva dal terreno come un animale minaccioso irto di aculei, proprio dove un tempo svettava il Grande Obelisco di giada, simbolo del popolo elfico, anch’esso finito fra le avide mani dell’impero. Però la città aveva anche un aspetto florido, e si notavano appena i segni della guerra; le case malmesse erano state ricostruite, quelle troppo danneggiate abbattute, erano stati edificati laboratori, cave di estrazione e segherie per alimentare il flusso di materie preziose verso la capitale. Probabilmente nemmeno sotto i loro originali regnanti la città di Elmoral aveva conosciuto tanta prosperità; poco importava se a goderne non era il suo popolo, ma chi li dominava. Dopo tutto, era stato lui a prenderla in mano quando non era altro che un grosso falò appena spento, era stato lui a far venire nani e gnomi per progettare la ricostruzione, lui aveva diretto i lavori tra mille avversità, e ora era lui a governarla spremendone le risorse. Gli elfi si erano limitati a chinare il capo e a obbedire, quindi era giusto che fossero gli umani a godere dei benefici. Anche se, sempre lui era stato, anni prima, a guidare l’ultimo assalto alla grande isola sulla quale era edificata la città elfica, l’aveva prima bombardata con proiettili incendiari, e poi, dopo aver sparso nel lago una ingente quantità di liquido infiammabile, gli aveva dato fuoco, causando un numero imprecisato di morti. A fronte di tutti questi fattori e della sua innegabile qualità di governatore, il Vicerè Thar Warbridge si domandava sempre più di frequente perché dovesse comportarsi da tributario nei confronti dell’impero, quando gli sembrava più giusto che trattassero in termini quantomeno di parità. Era un pensiero pericoloso, specie con tutti quegli uomini dell’Ordine a spasso per la città, con i loro occhi cattivi e inquisitori, ma ci voleva ben altro per spaventarlo. Sapeva benissimo perché il Decano dell’Ordine e Gran Consigliere dell’imperatore lo avesse proposto come vicerè: non era tanto per i suoi meriti militari o le sue competenze, ma per allontanarlo dalla capitale, perché lo temeva. A Thar la cosa era andata bene, finalmente aveva l’occasione di gestire qualcosa senza che nessuno ci mettesse in naso, nemmeno l’Ordine, quindi aveva accettato di buon grado, ma di certo non temeva il Decano e i suoi intrighi. Aveva rimesso in sesto la città e il territorio circostante, si era reso autosufficiente per merci e viveri, aveva un gran numero di schiavi elfi, aveva fatto progressivamente trasferire presso il suo comando tutti i militari a lui fedeli. Non restava al-


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tro che prendere la decisione, e spazzare via dalla città quegli sciacalli con la divisa rossa. Thar Warbridge si accorse che stava stringendo i pugni facendo sbiancare le nocche, e vide il ghigno feroce riflesso nel cristallo verde, quindi decise di calmarsi. Quando avrebbe preso la decisione, sarebbe stato fulmineo e senza scrupoli, ma non era ancora tempo. Si allontanò dalla vetrata per andare a sedersi nel trono elfico intagliato nel marmo verde acqua. Era un uomo basso e magro, di mezza età, pallido e con grandi occhi sporgenti come quelli di una rana, e nemmeno la barbetta rada e i baffi sottili riuscivano a dare un po’ di spessore a quel viso smunto, ma nonostante l’aspetto emaciato, era un valente stratega. Benchè schiavo di un’indole fredda e calcolatrice, non era mai inutilmente crudele, e aveva davvero reso Elmoral una città fiorente. Quantomeno per gli umani. Accanto al trono, una gabbietta d’oro purissimo era montata su un treppiede; al suo interno c’era una casetta simile a quelle che si usavano per gli uccelli, da cui proveniva una luce azzurrina molto tenue. -Avanti, Lelien, vieni fuori- disse con voce stanca. -Pensieri tristi e feroci mi stanno attraversando la mente, ho bisogno che mi canti qualcosa, mi voglio rilassare.In risposta alla sua voce, la luce azzurra parve scintillare a intermittenza qualche secondo, poi aumentò d’intensità, e una figurina sottile, alta non più di dieci centimetri, venne fuori dalla casetta. Si trattava di una ragazza, apparentemente di non più di vent’anni secondo gli standard umani, con delicati lineamenti elfici, e lunghi capelli avorio talmente sottili da sembrare impalpabili. Portava una veste azzurro cielo,appena più scura della sua pelle, e non si capiva che cosa emanasse quella luce cristallina e sfuggente. Si librò in volo spiegando le ali color argento con un leggero rumore di campanelle, e si accomodò sul trespolo, tenendo una gambina a penzoloni. -Cosa devo cantare al mio padrone?- chiese con voce flautata. -Quello che vuoi, basta che sia rilassante- rispose Thar trasognato. Nonostante la tenesse nella gabbietta da anni ormai, rimaneva sempre abbagliato dalla bellezza misteriosa della fatina. Questa sua passione era condivisa da tutti gli umani, e ogni ricco o nobile pagava cifre spropositate per avere una di loro in casa, non fosse altro che per poterle ammirare. Il popolo delle fate aveva convissuto per millenni con gli elfi, in libertà e reciproco affetto, e ora ne subiva lo stesso destino di prigionia.


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L’esserino appoggiò un gomito sulla gamba piegata, e si sostenne stancamente il capo, poi cominciò a cantare una melodia con la sua voce sottile a arcana, un canto che ricordava il lento fluire del fiume nella foresta, un lambire eterno e riposante, che suscitava immagini di erba soffice e profumata, di foglie che volteggiavano pigramente nella luce morbida del tramonto, e il Vicerè Thar Warbridge, il Martello del Nord, si assopì dolcemente preso da quel flusso incantato. Se avesse potuto capire le parole di Lelien, questo è quello che avrebbe sentito: ”Terra gentile... terra gloriosa terra di montagne e foreste terra di libertà Terra usurpata Popoli estinti dall’odio Terra di lacrime Valle di morte L’uomo crudele ci ha divisi L’uomo crudele ci ha annientati Ma noi risorgeremo Madre terra attendi per noi” Benchè il rintocco argenteo di campanelle prodotto dalle ali di farfalla di Lelien fosse lento e delicato, il suo ritmo si fuse con la voce aliena della fatina, avviluppando il Vicerè in un bozzolo di pace e tristezza che lo isolò da mondo esterno. Gli accadeva sempre così, e sapeva che un uomo del suo stampo non avrebbe dovuto abbandonarsi a simili pratiche, pericolose per la saldezza del suo spirito e che oltretutto offrivano il fianco alle sinistre illazioni dell’Ordine, ma non poteva farci nulla, il canto delle fate era divenuto anche per lui come una droga esotica e irrinunciabile. Entrando nell’antica sala del trono elfica, l’uomo con la pesante pelliccia di volpe rossa non sembrò essere influenzato da quella melodia, nè tantomeno dalla bellezza di quel salone. Non era davvero molto vasto come ambiente, perché il popolo elfico non dava poi così importanza


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all’ostentazione di ricchezza, ma era decorato e affrescato con una perizia e un’arte incomparabili. Si trattava di una stanza rettangolare, lunga una dozzina di metri, e larga appena cinque, con tutta una serie di sottili archi in marmo verde acqua che incorniciavano le tre pareti, mentre la quarta, uno dei due lati lunghi, era costituita interamente dalla vetrata in cristallo verde smeraldo cui era affacciato fino a poco prima il Vicerè. Il pavimento era a mosaico, di un tenue azzurro, da cui il trono di marmo verde acqua sembrava sgorgare come una fonte, invece il soffitto, sempre a mosaico, era blu cielo, mentre le pareti oltre le delicate arcate erano dipinte in modo tale da simulare alberi e cespugli. L’impressione che si aveva percorrendo quella sala era di trovarsi in mezzo a un fiumiciattolo limpido che scorreva nel cuore di una verdeggiante foresta. Ma tutta questa poesia era sprecata per la figura torva che era appena entrata. Calpestò con stivali infangati le piccole mattonelle azzurre e si piantò a gambe larghe e braccia incrociate sul petto a due passi dal trono. Aveva i capelli lunghi e arruffati, oltre a una barba folta, il che dava alla sua persona un’aria scontrosa e disordinata. Sotto la pelliccia di volpe, si intravedeva una pesante tunica rosso sangue, con il simbolo del sole nero calante che risaltava sul torace. L’uomo fulminò con uno sguardo cattivo la fatina, che smise all’istante di cantare e scomparve con uno scampanellio spaventato dentro alla sua casetta. Thar Warbridge si riscosse dallo stato di torpore e fissò il nuovo entrato, dapprima con occhi cisposi, quindi con uno sguardo ai limiti del furioso. -Non si usa bussare, tra voi confratelli, Basilius?- sbottò… -L’Ordine non ha bisogno di farsi annunciare, Vicerè; per noi tutte le porte sono aperte- sibilò l’ecclesiastico. -Altrimenti come faremmo a scoprire chi agisce in contrasto con i nostri comandamenti?- aggiunse guardando con disprezzo malcelato la gabbietta dorata rifugio della fata. -Non è certo violando i miei appartamenti che troverete i trasgressori, fratello- replicò ugualmente seccato Thar. -Anche se voi non apprezzate l’arte del popolo delle fate, mi è giunta voce che il vostro stesso superiore ha una serra con decine di esemplari, ragion per cui non ne ha vietato il possesso.-Dite il vero- sputò tra i denti Basilius -Ma dubito che il Decano ne subisca il fascino al pari di molti altri, e di certo la sua mente non ne esce ottenebrata come la vostra.-


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-Se fosse vero che il canto delle fate mi oscura i pensieri, dubito che sarei in grado di governare questa città- rispose ora più calmo il Vicerè. Basilius parve riflettere qualche istante, quindi rivolse all’altro un leggero cenno di assenso col capo, come a terminare la disfida verbale. Soddisfatto, Thar Warbridge gli indicò uno scanno di legno con un gesto ampio del braccio, quindi tornò a fissarlo con attenzione. -Sentiamo, cosa vi porta qui da me, oggi?-Gli elfi.-Gli elfi. Bene. Un po’ generico come problema, non trovate? Pensate di potervi spiegare meglio?- lo stuzzicò il Vicerè. Basilius gli lanciò un’occhiata che avrebbe potuto incenerirlo, ma Thar non mosse un muscolo e attese in silenzio, fin quando l’altro, sconfitto, non riprese a parlare. -L’Ordine è insoddisfatto del grado di controllo che esercitiamo su di loro. Continuano a propagandare le loro assurde ed empie usanze, come la comunione con la natura, i riti maledetti di magia, i loro costumi perversi... e l’amicizia con quegli esseri degeneri che voi chiamate “fate”.-Se non sbaglio, la questione “popolo delle fate” era già stata discussa e archiviata in questa sede- sentenziò freddo Thar. Alle parole dell’ecclesiastico, gli era parso di notare con la coda dell’occhio un pulsare più intenso proveniente dalla gabbia di Lelien. -Quanto al resto, cosa mi state chiedendo di fare? Abbiamo soggiogato gli elfi un decennio fa, ora vivono solo per servirci, chi come manodopera qui a Elmoral, gli altri come intellettuali e curatori nella capitale, il tutto a gloria dell’impero. Siete sicuro che non sia un problema solo vostro?-Non è abbastanza!- tuonò Basilius. -Dovete costringerli ad abbandonare questi loro costumi indecenti ed eliminare chi non si adegua al volere dell’Ordine!-Li ho combattuti, vinti e resi schiavi, ma come pensate che io possa modificare una cultura vecchia di millenni in pochi anni? La cosa importante è che non si possano sollevare contro di noi, e per questo abbiamo tutte le precauzioni. In quanto a eliminare chi non si adegua al volere dell’Ordine, ricordate che io obbedisco all’Imperatore, non all’Alba Scarlatta. Se voi vi sentite frustrato perché siete stato allontanato dalla capitale, non è un problema mio. Ma se intralcerete il mio lavoro, allora diverrete un mio problema, e dovreste sapere come sono abituato a risolvere gli imprevisti.-


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Thar aveva sussurrato l’ultima minaccia sporgendosi dal trono verso Basilius, il quale aveva abbandonato il suo contegno duro e intimidatorio, mostrando di temere le parole del Vicerè. Tutto durò solo un momento, poi l’uomo dell’Ordine si alzò in piedi con fare teatrale, facendo sventagliare i lunghi capelli e la ricca pelliccia. -Prendo atto della vostra condotta, Vicerè, e non mancherò di riferire al mio superiore, il Decano.- Calcò di proposito sull’ultima parola, ma Warbridge non parve essere impressionato. -Fate un po’ come vi pare, basta che non vi mettiate in mezzo, come vi ho già spiegato. Io non mi disturberò a riferire all’Imperatore.Basilius lo fissò per qualche istante ancora negli occhi, quindi abbassò lo sguardo e si diresse verso l’uscita, facendo risuonare come colpi di martello gli stivali infangati sulle delicate mattonelle azzurre. Thar Warbridge restò a guardare qualche secondo le macchie di terriccio che avevano imbrattato il pavimento, poi il suo sguardo si fece duro. -Non è ancora tempo, ma fra poco mi libererò di tutti questi burattini, e il primo sarai proprio tu, Basilius- promise con tono di voce tetro. Alzando solo leggermente la voce, il Vicerè si rivolse a un’alcova alla sua sinistra, mirabilmente mimetizzata con un gioco di ombre delle pitture affrescate. -Cosa ne pensi, Adonis?Dall’oscurità che si celava sotto il piccolo porticato di marmo, scivolò alla luce una figura sinuosa e silenziosa. Si trattava di un uomo piccoletto, con folti ricci rossi che sembravano tante fiammelle, e piccole lentiggini sul naso; il suo volto era impassibile e sfuggente, e la prima cosa che veniva in mente guardandolo era un felino pronto a balzare alla gola dei suoi avversari. Era vestito completamente in morbido panno nero come la notte, con le maniche rinforzate fino al gomito, e portava due pistole fissate basse sulle cosce, come i professionisti, e due lunghi pugnali alla cintola. -Non è mia abitudine pensare, Vicerè. Io sono solo un esecutore- disse scandendo le parole con la sua voce bassa. -Ti conosco da una vita, Adonis, a me non puoi mentire. Ti ho messo a capo del mio corpo d’elite proprio perché so che, oltre a essere un eccellente combattente, hai anche la mente pronta. Avanti, cosa dovremmo fare con il... fratello Basilius?-


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Fino a quel momento, l’uomo in nero aveva guardato fisso davanti a se, verso la vetrata in cristallo; ora si volse lentamente e piantò gli occhi verdi in quelli del suo superiore. -Di certo sconsiglio di fare quello che lei vorrebbe fare… almeno per il momento. Tagliare la gola a Basilius sarebbe piacevole, ma creerebbe più problemi di quanti non ne risolverebbe. L’Ordine manderebbe qui un distaccamento di suoi uomini, e sottoporrebbe tutti all’inquisizione.-Lo vedi che pensiamo allo stesso modo?- convenne Thar alzandosi dal trono e dirigendosi di nuovo verso la vetrata. Fuori aveva smesso di nevicare, ed era calato un buio spesso come il fumo di un poderoso incendio; non distingueva più nessuno al lavoro, ma era certo che per almeno un’altra ora i suoi uomini avrebbero spremuto gli elfi impiegati nei vari laboratori e stabilimenti. Aveva creato un meccanismo ai limiti della perfezione, e non poteva rischiare di metterlo in gioco prima di essere pronto a calare la mano vincente. Ci sarebbe stato tempo per pareggiare tutti i conti, e con gli interessi, senza dubbio. -Lasciamo tutto come sta, ancora per un po’. Come procedono i tuoi soldati con il loro compito?-Tutto secondo i termini, signore. Saremo pronti al momento stabilito.-Perfetto. Solo pianificando attentamente e senza fretta tutti i dettagli, si può trasformare un’azione violenta e sanguinosa di pochi minuti in una battaglia vittoriosa.Thar era soddisfatto, si voltò verso il soldato e stava per congedare Adonis, quando questi alzò la mano destra con l’indice puntato, come ad ammonirlo. -Solo una cosa. Abbiamo notato una maggiore attività degli emissari dell’Alba Scarlatta, Basilius sta ricevendo e inviando più messaggeri del solito.-Probabilmente quell’idiota si sta lamentando come un bambino dai suoi superiori, che per tenerlo buono lo rassicurano con altrettante missive.-No. Non mi chieda perché, ma non ho questa sensazione. Se fosse come dice lei, beh, userebbero altri uomini. Il mio ruolo richiede anche di conoscere molte persone, e i messaggeri che stanno facendo la spola con la capitale sono di primo livello, come se portassero informazioni davvero importanti.-Non posso pensare che sospettino qualcosa, altrimenti mi sarei già trovato le Guardie Rosse nella camera da letto.- esclamò Thar.


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-Sono d’accordo. Credo piuttosto che invece stiano preparando qualcosa, che non ha direttamente a che fare con la nostra operazione, ma che inevitabilmente la condizionerebbe.Thar cominciò a camminare avanti e indietro, prendendosi qualche secondo per riflettere, mentre Adonis attendeva simile a una statua. -Potrebbe essere come dici. E se così fosse, dobbiamo saperlo prima, per modificare i nostri piani per tempo- decise il Vicerè. -Voglio che tu indaghi di persona sulle attività di Basilius, e che mi venga a riferire ogni minimo dettaglio.Il capitano Adonis Stockton annuì lentamente, sia per accettare l’incarico, che per approvarlo, quindi si diresse in silenzio verso la pota. Anche dopo che fu uscito, Thar proseguì a passeggiare nervosamente sulle mattonelle azzurrine, non trovando pace nemmeno in quell’ambiente così rilassante, quindi si sprofondò di nuovo nel trono. Proprio ora che si sentiva quasi pronto per l’azione che avrebbe radicalmente cambiato il suo destino, dopo anni di progetti, tutto poteva sfumare per un imprevisto. Ma se questo imprevisto si fosse rivelato essere solo quel seccatore di Basilius, Thar Warbridge, il Martello del Nord, si ripromise di schiacciarlo come una formica. Personalmente. Fratello Basilius oltrepassò le porte del palazzo reale elfico con l’eleganza di un macigno che rotola rovinosamente a valle. I fucilieri di guardia all’ingresso sobbalzarono e abbozzarono un’intimidazione iniziando a incrociare davanti a lui le loro armi, ma non appena lo ebbero riconosciuto, e non appena si resero conto del suo umore tempestoso, si affrettarono a togliersi di mezzo dal suo passaggio. Il religioso non li degnò nemmeno di uno sguardo, ma si infilò senza una parola in mezzo al picchetto di guardie rosse che lo attendeva ai piedi della scalinata e imboccò con la stessa furia il sentiero che portava al tempio. I suoi soldati non batterono ciglio, come se fossero abituati a simili eccessi, e si disposero a bozzolo protettivo intorno a lui, come se l’aria stessa di Elmoral potesse contaminarlo. Il sole era finalmente tramontato, e una sottile falce di luna, simile al ghigno di un folle, aveva preso il suo posto, gettando luce argentea sulla città elfica apparentemente addormentata. Nonostante la guerra fosse terminata da svariati anni, vigeva ancora il coprifuoco, una misura che il Vicerè riteneva necessaria per tenere sotto controllo la popolazione. Le strade erano fiocamente illuminate dalle piccole pattuglie che facevano avanti e indietro con le lanterne e sembravano tante lucciole im-


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pazzite, e le uniche altre luci che interrompevano quel buio così scuro venivano dalle finestre dei vari edifici occupati dagli umani, perché ben pochi dei legittimi proprietari di Elmoral potevano permettersi di procurarsi il necessario per rifornire le loro di lanterne, mentre il calore dei focolari era custodito gelosamente tra le mura domestiche. ell’oscurità, come in un sogno, si rincorrevano voci di sottoufficiali che davano disposizioni a semplici soldati, risa e rumore di stoviglie dalle abitazioni eleganti degli umani, voci soffocate e fievoli da quelle ben più misere degli elfi. Come aveva constatato una volta di più il Vicerè, Elmoral era tornata a essere una città fiorente ed efficiente, se si stava dalla parte giusta della realtà; se disgraziatamente ci si trovava dall’altra, non era altro che un campo di lavoro di vaste dimensioni. Agli elfi era stato permesso di rimanere nelle loro abitazioni e nelle loro terre, in cambio del lavoro e dei prodotti che dovevano fornire ai loro conquistatori, ma quelli tra di loro che avevano una certa competenza o intelligenza venivano spediti nella capitale, quindi quelli rimasti in città non erano altro che manodopera di scarso valore, e per loro non era il caso di sprecare troppe risorse, benchè non fossero trattati con crudeltà gratuita. Dopotutto, Thar Warbridge non intendeva sterminarli, anzi, aveva tutto l’interesse nel mantenere viva e numerosa la popolazione indigena, ma non poteva permettere che il popolo elfico alzasse troppo la testa e prendesse coscienza del suo passato splendore, e dell’umiliazione in cui si trovava a vivere adesso. Il modo migliore per dominare una civiltà è quello di privarlo della sua dignità e dei suoi sogni, e Thar era convinto che ci fossero ben pochi elfi in città che avessero ancora abbastanza energie per poter sperare in qualcosa. Tutte queste considerazioni erano aliene dalla mente di Basilius, che invece ribolliva di una rabbia silenziosa, tanto che pareva potesse quasi sciogliere la neve al suo passaggio, da quanto era furibondo. Il piccolo soldato a capo di quella città era un maledetto idiota, e, peggio ancora, un sacrilego arrogante. Lui qui rappresentava il Decano e l’Ordine, e tutti avrebbero dovuto piegarsi alla sua parola. E invece, che cosa? Quello sgorbio prima lo aveva rimbrottato, poi gli aveva sbattuto in faccia la sua obbedienza all’imperatore, che l’inferno se lo prendesse, e poi era arrivato al punto di minacciarlo… lui! Aveva provato un forte impulso di balzargli addosso e cavargli gli occhi con le mani, ma non poteva permetterselo, non lui. Tanto più che era sicuro che Thar non fosse così sprovveduto da abbandonarsi all’empio canto di quella stre-


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ghetta senza che nessuno fosse lì a proteggerlo. Si credeva tanto furbo, con il suo servizio di spionaggio, che non immaginava che anche l’Ordine ne avesse uno, figuriamoci! Pazienza. Quella era la parola. Pazienza. Se il contenuto dell’ultimo messaggio diceva il vero, al suo rientro nel tempio Basilius avrebbe trovato la soluzione ai suoi problemi. Una soluzione finale, senza sbavature, come piaceva all’Ordine. Per amore della collaborazione, come avevano insistito i suoi superiori, era andato un’ultima volta da Warbridge per manifestargli lo scandalo della situazione, e pretendere da lui la giusta reazione, e per che cosa? Per farsi minacciare impunemente. No, no, un momento. Impunemente per il momento. Tutto si sarebbe risolto, e molto presto. Salì quasi a balzi i gradoni del tempio dell’Ordine, un edificio in marmo rosa tenue che prima era il centro focale dove operavano i curatori elfici, ormai deportati in massa nella capitale, e puntò dritto come una pallottola verso quella che era divenuta la sua sala delle udienze, lasciando appena il tempo alle varie guardie di aprire i portoni sul suo percorso. A differenza del resto della città, il tempio era illuminato quasi a giorno anche all’esterno, con lanterne che erano disposte con una cura quasi maniacale per non lasciare in ombra nessun angolo della struttura, a manifestare come l’Ordine fosse il faro dell’umanità. Però non veniva nessun suono dal suo interno, nemmeno qualche voce sommessa o il rumore di qualcosa caduto accidentalmente; questo invece forse significava la cappa di oppressione che il movimento religioso aveva calato sul mondo, soffocando o cercando di soffocare tutto ciò che non rientrava nei suoi binari. Basilius si proiettò nel salone quasi schiacciando una guardia contro il portone e si ritrovò in una stanza rettangolare immensa illuminata solo da bracieri ai quattro angoli; un tempo era il locale dove i curatori si riunivano la mattina in preghiera per supplicare i loro falsi idoli e farsi concedere i presunti poteri di guarigione, e al religioso era sempre piaciuta l’idea di purificare quel luogo facendone il centro del culto dell’Ordine. Fece un cenno alla sua scorta, e i soldati ruppero la formazione e s’affrettarono a lasciarlo solo, chiudendosi la porta alle spalle. Basilius prese un respiro profondo, intenso, mentre abituava gli occhi alla nuova oscurità quasi invadente. Adesso che era il momento ebbe un attimo di... panico? No, non era paura o indecisione, diciamo che si sentì per


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qualche istante a disagio, ma gli bastò richiamare alla memoria la faccia beffarda del Vicerè mentre lo minacciava per spazzare via tutto come un tornado. -Allora... siete arrivati?- si schiarì la voce, tentando di assumere un tono fermo, non riuscendoci del tutto. Il silenzio durò solo pochi secondi, ma fu devastante come una valanga. -Noi veniamo in pace- sussurrò una voce da un punto imprecisato della stanza. Basilius pensò che le anime degli infedeli, se avessero il tempo di gridare la loro disperazione quando si rendono conto di stare per cadere nell’Abisso, avrebbero quella stessa voce morta. Deglutì a vuoto un paio di volte, poi si fece forza e parlò di nuovo. -E’ bene che i Cacciatori siano tornati a Elmoral. Abbiamo tante cose da fare.-


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CAPITOLO TERZO FRAMMENTI DI PENSIERI

La carovana di carri si snodava lenta e spossata lungo l’accidentato territorio del Mourn Labyrinth; fortunatamente, la zona del ritrovamento non era poi molto addentro quel luogo così inospitale, e presto avrebbero raggiunto le rassicuranti pianure del Dawn Meadow. Il viaggio di ritorno era iniziato da due giorni, e già si erano dovuti fermare una dozzina di volte per sostituire ruote andate in pezzi o cavalli azzoppati per via di qualche buca nascosta. A contribuire ad appesantire l’atmosfera opprimente di quel terreno alieno e cattivo c’era la presenza guardinga dei soldati in uniforme rossa, che si muovevano come tanti spettri silenziosi apparentemente senza meta, ma tenendo sulle spine tutti i presenti. In un certo senso, la loro vista rendeva possibile ciò che anni di guerra e dominazione avevano compromesso, e cioé accomunare in qualcosa popoli tanto diversi e in difficili rapporti. La verità era che il passaggio delle Guardie Rosse metteva in soggezione soldati imperiali, studiosi elfi e gnomi, manodopera nanica. Ma nella mente del giovane tagliatore di pietre c’era un altro timore che aveva preso piede e dominava i suoi pensieri, sia nei momenti di relativo riposo quando viaggiava sul carro scoperto, che mentre era occupato con i suoi compagni nei lavori di fatica. Non era stato del tutto sincero con la cartografa gnoma, e un po’ a dire il vero gli spiaceva. Tutta quella faccenda, in realtà, sembrava essere partita con i peggiori auspici. Tanto per cominciare, proprio nel momento in cui si rallegrava con se stesso per aver scoperto una cosa che poteva rivelarsi importante, si era fatto scoprire come un principiante. Non sapeva perché, era un tipo d’azione, non di pensiero, ma intuiva, questa era la parola, che il ritrovamento di quella civiltà avrebbe presto aperto nuovi scenari nelle terre di Obscuram. Poteva apparire romantico e infantile, ma la sensazione che qualcosa stesse per scuotere violentemente la dominazione imperiale era così forte che quasi ne sentiva il sapore acre. Forse il tempo degli


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uomini stava per concludersi, con aspettativa ma anche incertezza si domandava chi avrebbe preso il loro posto. Percepiva una sorta di potere arcano provenire dal terreno degli scavi, e si era sempre più convinto che più o meno tutti lo avessero avvertito; l’archeologo dava evidenti segni di follia, il suo assistente elfo aveva uno sguardo vuoto come un’anima persa, e tutti comunque si comportavano in maniera nervosa, erano tutti ansiosi di allontanarsi di lì. Probabilmente era stata questa sensazione così intossicante a guidare i suoi passi, a farlo tornare a scavare nel luogo dove aveva poi rinvenuto le due punte di freccia. Come si era sentito! Esaltato, importante! Non aveva la minima idea del perché, ma sentiva che nelle sue mani stringeva qualcosa di potente. La sua gente lottava da generazioni contro gli umani, ma più che altro si trattava di causare contrattempi o disordini, non c’era speranza di sollevarsi, figuriamoci di riconquistare la libertà. Ed ecco che aveva trovato la chiave per aprire una nuova speranza per il suo popolo. Ed ecco che la gnoma lo aveva sorpreso come un bambino. Solo gli anni di spionaggio operato per la Mano di Pietra gli avevano consentito di mantenere il sangue freddo necessario per non tradirsi completamente. L’aveva guardata negli occhi, e si era reso conto che non era una stupida, quindi era impensabile farle bere la favola che non stava facendo proprio nulla, e che in quel buco comunque non aveva rinvenuto nulla. In pochi istanti aveva preso una decisione e rischiato, fingendo di fidarsi di Garwyn le aveva raccontato una storia verosimile e le aveva consegnato una delle due punte di freccia, tacendole il fatto di averne un’altra. Se fosse stata al soldo dell’Ordine, improbabile ma possibile, ormai sarebbe già morto. Forse avrebbe deciso di tenere quel reperto per sé ma, se era sincera come gli era sembrato, poteva essere una risorsa. Non le aveva mentito dicendole che era molto più facile che le Guardie Rosse trovassero addosso a lui il metallo, piuttosto che a lei, quindi le probabilità che almeno una delle due armi arrivasse alla Mano di Pietra erano raddoppiate. Erano due giorni che Kordaq Ashfoot cercava di convincersi di aver preso la decisione giusta, ma la sensazione di avere tra le mani qualcosa di eccezionale che poteva incrinare il potere degli uomini era pesante come un macigno, e altrettanto poderoso era il timore che tutto gli sfuggisse tra le mani all’ultimo momento. Aveva nascosto la sua punta di freccia nel tacco dello stivale destro, ed era ragionevolmente convinto che non avrebbero mai imposto una per-


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quisizione tanto accurata, ma la premura di mettere a parte i suoi superiori di quella faccenda lo stava dilaniando. Perso in queste riflessioni fosche, si accorse appena del verde che ormai dardeggiava sul terreno ai lati del sentiero; anche il cielo aveva mutato aspetto, aprendosi in un profondo blu oceano. La temperatura restava rigida, ma si cominciava a scorgere qualche segno di vita animale, oltre gli alberi ancora radi che avevano preso il posto di quelli spettrali del Mourn Labyrinth. Kordaq sbattè le palpebre un paio di volte, quindi mise a fuoco quel cambiamento di paesaggio, e capì che la carovana aveva ormai raggiunti il Dawn Meadow; era pomeriggio inoltrato, e lo aspettava una notte di sonno al gelo, ma l’indomani avrebbe riposato al sicuro nel suo quartiere, e forse addirittura nella sua casa. Decise che l’ingresso in questo territorio più florido e ospitale, proprio mentre era immerso in pensieri lugubri, fosse un buon segno, e lasciò che il suo sorriso si allungasse sul volto, quindi richiuse gli occhi per riposare un poco, desiderando di sognare il suo ritorno nella Mano di Pietra, e magari anche la futura riscossa della Piccola Gente. Arion Burby era assolutamente insensibile alla bellezza semplice e appagante del Dawn Meadow; l’erba verde smeraldo, che frusciava possente come un’onda seguendo le carezze del vento, non catturava la sua attenzione, e nemmeno ci riusciva lo spettacolo del sole arancione che scompariva basso all’orizzonte, tingendo tutto di colori forti e marcati. Un paio di daini troppo curiosi erano stati avvistati vicino a un gruppetto di querce, e subito un drappello di soldati si era staccato dal lento serpente formato dai carri per andare ad arricchire la cena, ma al vecchio archeologo non interessava se avrebbe mangiato arrosto davanti a un borbottante fuoco da campo, o ancora le insipide razioni militari che avevano consumato nei gelidi bivacchi del Mourn Labyrinth. La luce folle che animava gli occhi del vecchio archeologo non bruciava se non per l’aspettativa di mettersi al lavoro sull’iscrizione che aveva scoperto sull’idoletto l’ultima sera di scavi. Quando aveva lavorato col nano. Quando aveva ucciso il nano. Quando aveva esultato nell’uccidere il nano. Se lo meritava, le sue mani maldestre avevano rotto la statuetta. Maledetto idiota! L’aveva colpito con ira e gioia assieme, assaporando il rumore e la sensazione. E poi aveva recuperato i frammenti di terracot-


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ta, disperando di poterli ricostruire, ma mentre era intento a far combaciare i vari pezzi alla luce della sua lampada nella tenda, ecco l’illuminazione! Sotto il piedistallo, un’iscrizione arcana si snodava ipnotica, circondata ancora da quei simboli a spirale. Doveva essere di certo un’invocazione, un modo per chiamare in questo mondo la divinità dalla testa di lupo. Avevano cominciato a tremargli le mani, immaginando che potere gli era capitato così inaspettatamente, e tutto per colpa di un nano sbadato. Gli aveva rotto la testa in cambio, ma non se ne pentiva per nulla: sarebbe stato il primo sacrificio offerto al suo nuovo nume protettore. Si, ne era sicuro, era sicuro di poter interpretare quei simboli oscuri. Li aveva già visti. Li aveva già visti, maledizione, maledetto l’Ordine! L’epurazione concepita dagli adepti dell’Alba Scarlatta era passata come una falce a decapitare tutti i riti, i culti, le conoscenze mistiche che non rientrassero nel credo dell’Ordine. Ma la lunga mano del Decano non poteva arrivare ovunque, e nell’università erano rimasti conservati volumi antichissimi, vergati da dita ormai scheletriche da secoli, custodi di saperi perduti. E lui era uno di quelli che poteva attingere a questi tesori, era quella la sua vita Ed era lì, infatti, che aveva trovato le indicazioni, seppur lacunose e spesso contradditorie, per ritrovare quella civiltà sepolta dalle sabbie del tempo. Ovviamente non aveva rivelato nulla all’Ordine, si era mantenuto sul generico, parlando di studi decennali che lo avevano portato a una traccia, seppure flebile. Ma invece lui sapeva, e ora ne aveva la prova Anzi, di più, ora aveva la chiave per passare al livello successivo: impadronirsi di quel potere troppo a lungo sopito. Non si era fidato a portare con se quei libri dalla copertina in pelle, troppo rischioso. Tanto meno si era fidato a mettere il suo assistente a parte delle sue informazioni, proprio perché era così intelligente. Lo avrebbe dovuto uccidere, si! Si, anche se non sapeva nulla, lo avrebbe ucciso. Sentiva di poter fare qualunque cosa. Doveva solo raggiungere il suo studio, immergersi nei suoi libri e immagazzinare tutte quelle informazioni. Si sarebbero occupati gli altri di organizzare la seconda spedizione, l’imperatore stesso gli avrebbe messo a disposizione i mezzi per tornare nel Mourn Labyrinth ed evocare il potere che lo avrebbe spazzato via assieme a tutti i suoi lacchè. Arion Burby sogghignava in silenzio, perso nei suoi pensieri deliranti mentre i carri s’incuneavano nel verde del Dawn Meadow; presto il


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comandante avrebbe ordinato l’alt per la notte e si sarebbe disposto l’ultimo campo, prima di rientrare nella capitale. Ma l’archeologo non vedeva e non sentiva nulla, se non il calore bruciante che gli veniva dalla bisaccia che conteneva i frammenti dell’idolo, un calore che gli si trasmetteva nel corpo e divampava come febbre. Garwyn stava fissando il cielo color inchiostro sopra di lei. Il fuoco del bivacco palpitava sommesso a poca distanza, e le piaceva la sensazione di calore che la avvolgeva. Si mise a sedere, stretta nella coperta, e si tenne strette le ginocchia al petto, poi buttò la testa indietro per contemplare di nuovo lo spazio infinito. La luna tinta di pesca troneggiava bassa all’orizzonte, quasi come se stesse per balzare sulle luci fioche delle stelle e divorarle. Di tanto in tanto, un’ombra stanca di una sentinella di ronda fuori dal cerchio dei carri si proiettava in terra, e a Garwyn veniva in mente il gioco che faceva da bambina con i suoi fratelli, di cercare di calpestarsela a vicenda. Erano altri giorni quelli, giorni che erano finiti. E forse erano finiti anche i giorni di studi nella sua facoltà. Nella facoltà degli umani, si corresse. Non sapeva bene cosa sarebbe successo, e cosa sarebbe stata in grado di fare, ma di sicuro la sua vita aveva preso una piega diversa ormai. Aveva deciso di non fare più da spettatrice mentre l’impero soggiogava la sua gente; allungò una mano sopra la testa e provò a coprire la luna, ma si rese conto che questa era davvero troppo grossa. Si, di sicuro da sola non avrebbe potuto fare molto, ma almeno avrebbe dato il suo contributo. Come sembravano più vivide le stelle, quando la luna non era così invadente! Al suo fianco, Glyfa russava leggermente. Forse era più tranquilla di lei perché la sua scelta l’aveva fatta già anni prima, anche se a Garwyn era sempre sembrato, anche nei momenti in cui si sforzava di immaginarsi la compagna come un’attivista delle lotte clandestine, che Glyfa si fosse ritirata da certe situazioni da parecchio tempo. Ma chi poteva dirlo, certe cose cambiano la vita, e forse la vecchia cartografa aiutava la Mano di Pietra in modi che lei nemmeno poteva concepire. In effetti, benchè non si facesse pregare a raccontare i tempi della sua gioventù, Glyfa evitava abilmente qualunque riferimento a coinvolgimenti più recenti. Garwyn aveva sempre pensato che ciò derivasse dal fatto che non ne sussistevano, di coinvolgimenti recenti, ma da quando aveva sorpreso il nano a nascondere quella punta di freccia, si era trovata a ricredersi di molte cose.


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Durante il viaggio di ritorno non era stata molto occupata, quindi aveva lasciato riflettere la sua mente in totale libertà, cercando di cambiare punto di vista su molte cose. Forse la realtà, le persone, erano diverse da come le aveva sempre percepite. Nei mesi di lavoro in comune, Glyfa aveva più volte tentato di aprirle gli occhi riguardo al comportamento dell’impero nei confronti della sua gente. Forse non era proprio vero che aveva fornito una casa agli gnomi senza terra, forse non era proprio vero che aveva dato loro uno scopo cui impegnarsi, incaricandoli di progettare nuovi ritrovati per la crescita dell’impero. Magari la verità stava nelle parole della sua amica, magari l’impero invece aveva crudelmente privato gli gnomi della loro casa natale, li aveva deportati e obbligati a lavorare nei suoi laboratori. Glyfa si rigirò nelle coperte con uno sbuffo spazientito, poi trovò una nuova posizione comoda e riprese a russare. Garwyn la fissò qualche istante, figurandosela molto più giovane, mentre passeggiava per la città costruita sotto le colline, in compagnia di tanti altri gnomi, liberi come lei, immersi in un paesaggio verde e confortante, caloroso come quel fuoco da campo. Adesso la rivide camminare per i corridoi neutri e impersonali dell’edificio che dividevano con altri gnomi, sempre col solito sorriso dolce, ma con un luce malinconica negli occhi. Provò anche a immaginarla con le armi in pugno, mentre compiva azioni di sabotaggio insieme ai famigerati guerrieri-fantasma, il gruppo di rivoltosi gnomi che imperversava ogni tanto per le vie della capitale, salvo poi svanire come fumo nell’aria. Si chiese se fosse stato quello il passato della sua amica. Si chiese se sarebbe stato quello il suo futuro. Sentì la punta di freccia, che si era cucita dentro al bavero del soprabito, bruciare come se fosse un tizzone, ma probabilmente era solo la sua immaginazione. Sicuramente era quello il problema, fantasticava troppo, e adesso che aveva preso una decisione, temeva di metterla in atto. Si rimise sdraiata e pensò che l’indomani sarebbe rientrata in città, avrebbe portato il suo tesoro alla Mano di Pietra, e si sarebbe compiuto quello che doveva accadere, avrebbe lasciato che la sua vita prendesse il suo corso. Posò ancora un istante lo sguardo sulla luna color pesca, quindi chiuse gli occhi, e qualche minuto dopo il suo leggero russare si confondeva con quello della sua compagna. Pentaldrin sedeva a cassetta nel carro che divideva con Arion Burby, e fischiava un motivetto soffuso e malinconico. Il professore lo aveva


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cacciato fuori, dicendogli che doveva riordinare e catalogare dei reperti con la massima tranquillità, senza che lui gli gironzolasse attorno a curiosare come un robivecchi del mercato. Robivecchi, proprio così l’aveva chiamato. Non aveva nemmeno provato ad accennare al vecchio che lui era in effetti il suo assistente da qualche anno, e che suo compito era proprio aiutarlo a classificare reperti, tra le altre cose. E invece era stato trattato come un ragazzino che in testa aveva solo il pensiero di ficcanasare nei suoi affari, e magari appropriarsene. Lo aveva fermato la luce folle che dominava gli occhi di Burby quando questi lo aveva ammonito di non sognarsi di provare a entrare nel carro, prima di sprangarsi dentro. Il giovane elfo era praticamente certo che il professore fosse decisamente scivolato di parecchie spanne lungo la china che porta al delirio, e ora anzi temeva che questo processo lo stesse portando a divenire un individuo pericoloso, per sé e forse anche per chi lo circondava. Non appena fosse rientrato in facoltà, avrebbe dovuto fare pressioni perché Burby fosse tenuto sotto controllo, o addirittura sollevato dall’incarico e curato. Ovviamente avrebbe dovuto muoversi lungo i tortuosi canali della burocrazia elfica prima, imperiale poi, sperando che nel frattempo il vecchio archeologo non perdesse completamente il senno e desse fuoco all’università, ad esempio. Ma prima di questo, doveva riferire delle stranezze di quest’ultima spedizione agli altri suoi superiori; c’erano troppe cose, troppi campanelli dall’allarme che suonavano stonati laggiù, nel Mourn Labyrinth. Lui era uno di quelli, ed erano la maggioranza in città, dopotutto, a non aver avuto molta stima nelle conclusioni di Burby, quindi già il fatto che le vestigia di un’antica civiltà si trovassero sommerse da secoli di sabbia e sassi in mezzo a quella terra brulla e inospitale era inaspettato e importante. Sicuramente bisognava indagare e saperne di più, capire se si poteva ricavare qualcosa, qualche sapere perduto da quel cumulo di rovine. Una civiltà in grado di lavorare e produrre un’arma come quella dissepolta dagli scavatori era decisamente da conoscere meglio, quella perizia presupponeva una scienza di grande portata, e se loro fossero riusciti a impossessarsi di quei segreti avrebbero potuto forse contrastare l’impero proprio sul loro campo. Sempre che il consiglio approvasse. Sempre che. Già altre volte era stato proposto di battere la via della tecnica per opporsi e magari rovesciare la dominazione umana, ma il consiglio non aveva mai dato il suo beneplacito. Per le due solite motivazioni, ovviamente. La prima di natura


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etica: il consiglio e tutto quello che rappresentava non si schieravano da nessuna parte, quindi nemmeno contro gli umani, e perciò non c’era nessun motivo di ricercare un potere per combatterli. Anche se gli umani, dal canto loro, troppi scrupoli non se ne facevano, e l’Ordine gongolava feroce ogni volta che uno di loro cadeva nelle loro mani crudeli. La seconda motivazione era in qualche modo sempre etica: la tecnologia era un ramo del sapere che a loro non interessava, e quindi non volevano immischiarsi. Ma se i presentimenti che Pentaldrin sentiva scorrere nella sua spina dorsale come tante scariche si fossero rivelati esatti, allora probabilmente queste due motivazioni sarebbero state spazzate via, e il giovane archeologo si augurava solo che non fosse troppo tardi. Se gli umani si fossero impadroniti di un’ulteriore fonte di sapere, dopo aver usurpato quello di nani e gnomi, non ci sarebbe stato più scampo per nessuno, nemmeno per i componenti del consiglio, forse nemmeno per il Venerabile. Non si può rimanere neutrali nei confronti di chi ha intenzione di estirparti come un’erbaccia malsana, e ha gli strumenti per farlo. A quel punto, si sarebbe dovuto combattere l’impero e l’Ordine con ogni mezzo, lasciando l’Etica su di uno scaffale impolverato. Un sole pigro di metà mattina si era affacciato attraverso nuvole color latte, e avendo preso un po’ di fiducia, spandeva i suoi raggi irrequieti, scaldando ulteriormente quel paesaggio campestre così verde e riposante. La capitale sorgeva proprio oltre quello sterminato prato di smeraldo, e si allungava dolcemente fino al White Ocean. Pentaldrin sbattè due volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco meglio, ma la città ancora non era in vista, quindi si costrinse ad avere pazienza. Era una vita che doveva dominarsi e avere pazienza, e adesso cominciava a faticare in questo. Si stava anche convincendo che non era più il momento di temporeggiare, persone e cose si muovevano incontrollate e ansiose sotto la superficie, e qualcosa di possente stava per accadere. Lo aveva percepito fin da quando era stato in vista delle Snake Towers, ma non sapeva ancora dire il perché. Quelle montagne lo ossessionavano ancora adesso, sentiva le loro propaggini protendersi verso di lui come tentacoli e tastarlo cieche sulla schiena, dove le sue mani non potevano arrivare per scacciarle. Sapeva benissimo che se si fosse voltato, avrebbe visto che non c’era niente che gli stava puntando contro, ma era altrettanto sicuro che, oltre la distanza, oltre la nebbia,


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oltre tutto avrebbe anche scorto i neri contorni di quelle montagne maledette, quindi strinse con ancora più forza le redini e cercò di concentrarsi solo sulla strada, benchè il rosso graffio che si era procurato col pugnale avesse ripreso da poco a bruciargli leggermente. La brezza orientale portava con sé i profumi intensi del mare, e seppe così di essere quasi giunta alla capitale; poco dopo, infatti, si iniziarono a delineare le mura cittadine oltre il leggero pendio che portava il Dawn Meadow a bagnarsi nel White Ocean. La strada in terra battuta si incuneava tra quei verdi avvallamenti e andava a finire dritta sul portone sud della città, mentre ai suoi lati quell’immensa distesa di erba si apriva a perdita d’occhio, da un lato verso la lontana foresta degli elfi, dall’altro quasi a picco sulla Stone Bay. Embira Malnock strinse più forte le redini della sua cavalcatura, godendo della rigida consistenza delle briglie nei suoi guanti in pelle nera, quindi si diede una postura se possibile ancora più marziale, nonostante le ore di cavalcata. Avvertiva sul corpo ogni singola parte della sua armatura, gli alti stivali da cavallerizza, le armi da taglio e da fuoco che indossava, assaporando la sensazione di potere sconfinato che le dava il suo ruolo. Voltò un attimo la testa in direzione del suo silenzioso attendente e gli rivolse un secco cenno col capo, quindi spronò fino a portarsi in testa alla colonna; dietro di lei, le guardie rosse si disposero a formazione sui lati, andando a formare un sinistro cuneo scarlatto che sembrava incidere in profondità quel terreno così indifeso. Con la coda dell’occhio verificò l’assestamento delle truppe regolari, e prese mentalmente nota anche della loro efficienza e precisione; senza che fosse dato un solo ordine vocale, la carovana di scienziati si era trasformata in un manipolo di guerrieri perfettamente in assetto e pronti a respingere un qualsiasi attacco. Sempre che restasse ancora qualcuno di così folle da volersi misurare in campo aperto con delle truppe imperiali. A dire il vero, qualcuno c’era ancora, ma non si potevano definire “battaglie” le incursioni sporadiche di quelle bande di guerriglieri gnomi che prendevano di mira convogli di merci diretti verso il cuore dell’impero. Il solo pensiero di quei piccoletti bastardi la fece infuriare, e solo quandò sentì le redini quasi graffiarle i palmi delle mani nonostante i guanti riprese il controllo. Se appena il comandante in capo le avesse affidato l’incarico di spazzar via quella feccia, glielo avrebbe fatto vedere lei! Avrebbe trovato ogni singolo mostriciattolo verde, anche quelli che si


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nascondevano nelle buche del terreno come orridi topi, e li avrebbe schiacciati. Senza pietà. E invece era stata incaricata di fare da badante a quello squinternato di Burby e alla sua banda di scavaossa. Con orgoglio sconfinato si ricordò però di cosa aveva trovato quel mezzo imbecille: uno splendido pugnale, affilato come un rasoio e scintillante come una stella. Il suo comandante aveva visto giusto, c’era bisogno di controllare quella spedizione, e infatti adesso lei gli stava riportando quell’arma impareggiabile. Non era tanto per quel singolo pugnale, quando per le conoscenze che presupponeva. L’impero si trovava in pieno sviluppo dal punto di vista dei ritrovati scientifici, e mai c’erano stati tanti progressi da quando gli alchimisti dell’Ordine avevano potuto avvalersi dell’ingegno degli gnomi e delle capacità tecniche dei nani. Avrebbero presto sviscerato qualunque segreto di quel metallo sconosciuto, ed era sicura che ben presto sarebbe cominciata la produzione di armi forgiate con esso. E allora nulla si sarebbe più potuto opporre all’impero, e non stava pensando ai banditi gnomi, quanto ai nemici giurati dell’Ordine, ai nemici che l’Alba Scarlatta e le Guardie Rosse avevano giurato di sterminare. Non c’era niente di peggio di un cancro che attaccava la città dal suo interno. Si immaginava afferrare uno di quei maledetti infedeli per i capelli, e piantargli nella gola il suo pugnale splendente. Non sapeva perché, ma non appena l’aveva avuto in mano era stata presa da un senso di onnipotenza mai provato. Era semplicemente sicura che con armi come quella avrebbe potuto fare qualunque cosa, uccidere chiunque senza difficoltà. Erano due notti che combatteva con la bramosia di tenere per sé quell’arma, e non era stata la consapevolezza che tutti al campo sapevano che era lei ad averla a farle decidere di consegnarla al suo comandante, quanto l’innato senso di fedeltà che la rieducazione ricevuta dall’Ordine le aveva inculcato in fondo al cranio. No, non poteva tenerlo. Ma di sicuro il comandante le avrebbe affidato, in ricompensa, qualunque incarico avesse voluto, e quindi presto o tardi il suo sogno si sarebbe avverato; niente più missioni di scorta a miseri esseri inferiori, ma la caccia vera e propria, e con a disposizione degli strumenti che la facevano sentire una dea spietata e inesorabile. Le mura color cenere della capitale si erano fatte più vicine, e ormai qualcuno degli edifici più elevati spuntava oltre il loro profilo, ma niente era più marcato della nube densa come pece che eruttava dal quartie-


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re della Forgia; i fumi di combustione si stendevano come un pesante coperchio sopra quell’area della città, sede della produzione di tutti i manufatti nanici, e neppure i venti provenienti dall’oceano riuscivano a dissiparli. Mentre procedeva nella sua trionfale avanzata, Embira Malnock vide le piccole figure di uomini affannarsi sul camminamento delle mura meridionali, quindi fece un altro cenno al suo attendente, e subito dopo il portabandiera si mise al suo fianco e segnalò col loro stendardo i riconoscimenti prestabiliti. Ormai si trovavano a poche decine di metri dal pesante doppio portone, e sentirono distintamente gli ingranaggi messi in azione per permettere loro di entrare in città. Proprio nel momento in cui il capitano Malnock raggiunse le mura, le porte borchiate ruotarono sui cardini con un urlo straziante, e la spedizione archeologica fece finalmente il suo ingresso nella capitale dell’impero.


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CAPITOLO QUARTO QUANDO IL SOLE MUORE

Palain Heregate finì di archiviare giudiziosamente gli ultimi due reperti che aveva sulla scrivania, un vaso di coccio quasi integro, risalente a due secoli prima, e un ciondolo di rame di fattura elfica. L’indomani, o al più tardi il giorno successivo, era atteso il rientro della spedizione archeologica del professor Burby, e il direttore del Museo aveva intimato a tutti di non farsi trovare con del lavoro arretrato da evadere. Palain aveva subito la predica abbassando il capo come tutti gli altri, benchè la sua figura muscolosa sovrastasse lo snello e poco atletico Dottor Falcambe, responsabile emerito del Museo di scienze naturali. Il motivo era semplice: l’ordine e il metodo erano il suo stile di vita, e la severità e le precisione con le quali affrontava il lavoro le riversava anche al di fuori di esso, quindi era decisamente l’uomo cui servisse di meno quell’invito. Il suo ufficio era impeccabile e sciatto quanto la sua persona, con tutti i libri ben riposti per argomento e autore, i pezzi da registrare in fila sul lato destro della scrivania, quelli registrati già riposti nei loro provvisori contenitori, in attesa dell’addetto che li portasse in magazzino, prima di essere esposti secondo i dettami e l’estro di Falcambe. Persino gli oggetti da cancelleria avevano una disposizione quasi marziale, tanto che si sarebbe detto che l’archivista non li usasse da anni. Palain finì di vergare con la sua scrittura chiara e spigolosa le ultime informazioni nel suo registro, quindi depose la penna nel suo astuccio di legno, solo dopo averla scrupolosamente pulita con l’apposito straccetto. Si alzò con movimenti lenti e rigidi dalla sedia di ciliegio e richiuse il pesante tomo che stava consultando per identificare il ciondolo elfico, quindi avvolse il gioiello in una pezza di cotone pulita e lo adagiò nel suo contenitore con delicatezza.


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Verificò l’ora gettando uno sguardo piatto all’orologio sulla parete di fronte, e non si meravigliò affatto che fossero le sette di sera in punto, quindi indossò l’anonimo soprabito grigio scuro e si mise sottobraccio il librone per renderlo in biblioteca sulla via del ritorno a casa. Appena fuori dell’ufficio, incrociò Falcambe che parlottava con quello che pareva essere un mercante, o comunque un pezzo grosso della città, probabilmente un possibile finanziatore; il direttore lo stava spingendo verso la sala riunioni, come un ragno che attira la preda nella sua ragnatela per disporne a piacimento, e Palain era sicuro che prima di sera una consistente somma di denaro sarebbe passata di mano in mano, e il Museo l’indomani si sarebbe potuto permettere di acquistare nuovi strumenti dagli gnomi, giù al Genio. Era quasi arrivato in fondo al corridoio, quando gli arrivò la voce ironica di Falcambe: -Non ti chiedo nemmeno se hai finito il tuo lavoro, Heregate!Palain voltò rigidamente il capo, per vedere il volto vergognosamente ghignante dell’altro fare capolino da dietro alla porta della sala riunioni. -Domani è il gran giorno, vedrai quanto ci sarà da fare, e da scoprire!terminò, abbozzando una sorta di sinistro occhiolino. L’archivista non disse nulla, e aspettò solo che la porta si richiudesse per riprendere la strada verso l’uscita del Museo. Passò vicino a qualcuno dei suoi colleghi, ma nessuno diede segno di notarlo, e Palain si limitò a qualche cenno col capo, ma tanto nessuno gli badava mai. Lo chiamavano l’ “uomo grigio”, o l’ “uomo ombra”, perché la sua specialità era passare inosservato. Non che lui lo facesse di proposito; semplicemente, aveva un modo di fare che lo rendeva totalmente anonimo come una tappezzeria delle case popolari, nonostante fosse abbastanza alto e ben piantato. Fuori il sole era già calato da qualche tempo, la luce dei lampioni a gas illuminava fiocamente le strade, e Palain si godette con l’usuale piacere la disposizione simmetrica e lineare di quei piccoli soli sfocati, calcolando mentalmente quanti ne avrebbe superati prima di raggiungere la porta della Biblioteca. Doveva aver piovuto nel pomeriggio, perché l’aria era carica di umidità, e gli sembrava di intravedere qualche piccola pozzanghera nelle irregolarità della strada. Anche se non intendeva passare vicino al teatro, non potè fare a meno di imbattersi nella folla di benestanti, nobili e mercanti che fluiva verso quel luogo di mondanità e spensieratezza inconsapevole. Le donne sembravano fare a gara per es-


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sere una più appariscente dell’altra, coi loro vestiti elaborati e dalle tinte più disparate, che spesso facevano a pugni con l’ombrello che usavano per ripararsi dalle ultime gocce di pioggia; si muovevano apparentemente senza badare alla strada o alla gente, e a Palain ricordarono, non sapeva perché, delle libellule che veleggiavano nei prati estivi. Gli uomini erano vestiti pressochè tutti uguali, nei loro abiti eleganti, i mantelli scuri come la notte e i cappelli a cilindro, e il severo archivista si domandò se una volta tanto non fosse lui a spiccare in mezzo a quegli individui nell’apparenza e nei modi tanto simili tra loro. Proseguì la sua camminata verso la biblioteca passando di lampione in lampione, scomparendo totalmente nelle zone d’ombra ormai fitta che si erano create dopo il tramonto; il sole aveva lasciato i cieli di Aberkirk e si era andato a riposare in occidente nella terra degli elfi, lasciando la notte nera dietro di sè. Palain svoltò l’ultimo angolo senza fretta, senza guardarsi attorno, e si diresse indisturbato verso l’edificio abbastanza imponente di fronte a lui. In quel punto la Mid Way era quasi deserta, ma dall’isolato alla sua sinistra sentiva ancora provenire il cicaleccio svagato e confusionario della nobiltà che andava a mettersi in mostra a teatro. Era ben bizzarro che due ambienti così dissimili tra loro avessero trovato posto uno accanto all’altro nella cittadina imperiale; il teatro rappresentava il punto di ritrovo più modaiolo e in vista, frequentato dalla crema della società umana, mentre la biblioteca, fin dall’algida facciata in pietra grigia, richiamava allo studio e la ricerca. In realtà vi erano altri luoghi dedicati alle diverse scienze e punto di raccolta delle menti più brillanti, ma ognuno di essi, per così dire, era ad appannaggio di una certa razza o casta: l’università, con l’appendice del Museo in cui lo stesso Palain lavorava, per gli umani; l’Alambicco, dove operavano gli alchimisti dell’Ordine; il Genio, sede dei progettisti gnomi, e infine il quartiere dei curatori, in cui risiedevano gli elfi deportati per fungere da curatori ed educatori per gli umani. Ognuno di questi fari del sapere era gelosamente custodito e difeso dai suoi adepti, in particolar modo quello degli alchimisti era assolutamente precluso a chi non vestisse gli abiti dell’Alba Scarlatta, anche se ovviamente gli umani potevano recarsi ovunque, ma elfi e gnomi ci tenevano a preservare un minimo di territorialità, anche nel luogo in cui si trovavano esiliati. La biblioteca invece era realmente un luogo aperto a tutti, di qualunque condizione o razza: nani, elfi e gnomi avevano il permesso di recarvisi,


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se dimostravano ai loro controllori la necessità di consultare qualche volume conservato in quei polverosi scaffali, e pure i nobili in grado di leggere si servivano di quella risorsa per ampliare la loro cultura. Questo faceva della biblioteca una vera zona franca, l’unico luogo in cui avveniva, probabilmente a livello inconscio, una reale convivenza pacifica tra popolazioni che si facevano guerra da secoli. Non c’era nulla di strano di vedere allo stesso tavolo di lettura uno gnomo, un elfo e un umano, assolutamente a loro agio, quando invece in qualunque altro posto della città i non umani venivano trattati alla stregua di servi, e questi a loro volta avrebbero volentieri aggredito i loro carcerieri. Una cosa c’era, in fondo, che accomunava il teatro, con i suoi sfarzi, al pacato ambiente culturale offerto dalla biblioteca: entrambi erano quasi per nulla frequentati dall’Ordine, che fuggiva e deprecava i costumi frivoli quanto la contaminazione, anche se solo culturale. L’unico motivo per il quale non veniva adoperata una mano pesante per regolamentare queste due apparenti anarchie era che il Decano aveva pensato di dover concedere delle piccole valvole di sfogo alla popolazione, per evitare una sommossa. In questo modo, gli umani più in vista potevano esibire il loro benessere in un luogo che ripeteva loro quanto fossero ricchi e fortunati, mentre le genti sottomesse si godevano la consolazione di potersi ogni tanto rifugiare in un posto in cui la loro dignità sembrava essere conservata. La guida dell’Alba Scarlatta sapeva di concedere ben poco in realtà, ma è molto più facile controllare chi è convinto di avere comunque uno spiraglio di libertà, e non ha intenzione di far nulla che possa farglielo perdere, piuttosto che avere a che fare con chi si rende conto di trovarsi in una gabbia dorata, o addirittura con chi sa di non avere nulla da perdere. Questi pensieri affollavano la mente ordinata e precisa di Palain ogni volta che giungeva in vista della biblioteca, e poi, mentre saliva gli imponenti scalini di marmo, ripensava anche alla sua particolare condizione, domandandosi sempre se anche lui non stesse vivendo nell’illusione di poter lottare per la sua causa, di essere solo uno schiavo, con il guinzaglio al collo lasciato un po’ lasco perché non si accorga di averlo. Non era mai riuscito a darsi una risposta soddisfacente, e quindi continuava nella sua opera, con la stessa dedizione. Spinse con forza uno dei pesanti portoni in bronzo borchiato, e attraversò lentamente l’atrio buio, dirigendosi verso il bancone in legno scuro


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che dominava la stanza ovale. Attirò l’attenzione di una delle responsabili e appoggiò con delicatezza il pesante volume sul pianale. -Buonasera, signorina. Devo rendere questo, ma avrei una necessitàesordì con voce bassa e atona. -Salve. Mi dica pure, come posso aiutarla?- rispose la ragazza. -Lavoro per il Museo, come archivista. Ho utilizzato il volume per catalogare alcuni pezzi, ma avrei bisogno di... altro materiale sull’argomento.-Mi faccia vedere, controllo se trovo delle pubblicazioni simili, ma dovrà tornare domattina, siamo quasi in chiusura- disse la giovane conciliante. -Purtroppo non posso attendere domattina. Cortesemente, mi chiamerebbe la dottoressa Aiwendel? E’ stata lei a procurarmi questo libro, probabilmente sarà in grado di aiutarmi di nuovo- propose Palain, cercando di assumere un’espressione pressapoco cordiale e meno apatica del solito. La ragazza annuì col capo, come se la questione non la riguardasse per nulla, quindi scompaveì oltre il pesante tendaggio che si trovava dietro il bancone. Palain gettò uno sguardo noncurante alle sale di lettura ai lati dell’atrio, e vide che erano rimasti solo due uomini alla sua sinistra, ma ormai stavano riordinando le loro cose per avviarsi all’uscita. Con la schiena appoggiata al bancone, li osservò abbandonare in silenzio la biblioteca, mentre i pochi inservienti facevano il giro dei saloni coperti di scaffali stracolmi di libri per accertarsi che tutto fosse stato riconsegnato o riposto in ordine. Nonostante fosse rimasto l’unico visitatore, i dipendenti non parvero notare Palain più che se fosse stato un attaccapanni, e questi continuò ad attendere paziente, fino a quando non sentì un leggero brivido alla base della spina dorsale, e quindi si voltò, per vedere una figura esile emergere dal tendaggio. Si trattava di un’anziana elfa, pallida, con capelli sottili e un mento sfuggente, che gli rivolse un sorriso sardonico. -Heregate. E’ sempre un piacere essere d’aiuto al Museo. Mi segua, prego- lo invitò con fredda cortesia a precederla, tenendo sollevato un lembo delle tende. -La sua disponibilità è encomiabile, come sempre, Aiwendel- rispose sciatto lui. L’elfa lo sorpassò subito, prendendo il comando e guidandolo attraverso il dedalo di corridoi che si trovava nell’area più interna dell’antico


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edificio. Palain tentò come al solito di memorizzare il percorso, ma come al solito invano, ben presto colpito da un leggero fastidio alla testa che gli impedì di concentrarsi. -Non ti stancherai mai di giocare?- sbottò, molto più seccato di quanto non lo fosse in realtà… -Non prima di quando ti stancherai tu- rispose divertita Aiwendel. Palain fece per ribattere, poi ci ripensò e lasciò perdere. Quell’elfa era davvero l’unica persona che riuscisse a fargli perdere le staffe, e lei ne era consapevole, e se ne giovava. Si divertiva. L’uomo si era chiesto più volte se si rendeva conto di quello che facevano, dell’importanza e del pericolo. E si era sempre risposto che l’altra ricopriva quel ruolo da ben più tempo di lui, questo era quanto, e doveva accettarla, così com’era. Finalmente Aiwendel si decise ad aprire una porta, apparentemente uguale a tutte le altre che avevano superato, e lo introdusse nel suo ufficio privato. Ogni volta un tragitto diverso, e poi la porta si apriva nello stesso locale. Palain era addirittura arrivato a ipotizzare che esistessero una dozzina o più uffici uguali, e Aiwendel lo portava ogni volta in uno differente, ma pensò che nemmeno un folle si sarebbe comportato così. Sbuffando, si accomodò sulla poltrona in pelle, senza aspettare l’invito della sua ospite, che si limitò ad aggirare la scrivania nel mezzo della stanza per andare a occupare l’altro posto. Il tavolo, in legno nero e riccamente intarsiato, era ricoperto dai più stravaganti oggetti, di tutte le fogge e materiali, probabilmente un centinaio di pezzi, e Palain come al solito si perse qualche attimo a osservarli. C’erano statuine di fate in argento, quelli che sembravano essere i pezzi di una scacchiera in giada e ambra, i denti di qualche creatura, boccette piene di liquidi multicolori, monete, una tabacchiera dorata, e molto, molto altro. Alcuni oggetti se li ricordava, altri gli pareva fosse la prima volta che li vedesse, ma nonostante si vantasse d’avere una memoria eccellente, non riusciva mai a riportare alla memoria nessuno di essi appena abbandonava quell’ufficio dannato. Aiwendel lo fissava, sorridendo compiaciuta più con gli occhi che con la bocca, lasciandolo fare, lasciando che si sentisse confuso. Nonostante l’antico patto di non belligeranza tra le loro parti, la fiducia non era mai stata cieca tra di loro, e ogni parte del loro accordo li portava ad affrontarsi il più possibile ad armi pari. Lui era sicuramente più potente di lei,


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ma adesso si trovavano nel covo della vecchia elfa, quindi un po’ di parità era ristabilita. Alla fine Palain riuscì a distogliere i pensieri dagli oggetti che popolavano la scrivania di Aiwendel, e quindi il vampiro e la maga anziana si guardarono negli occhi, soppesando ciascuno il potere dell’altro in una vera prova di forza. -Bene, Aiwendel, saltiamo pure i convenevoli. perché hai chiesto questo incontro?- chiese serio il vampiro. L’elfa lo squadrò un attimo, andando oltre l’apparenza di uno scialbo impiegato del museo e vedendo la lunghissima linea della vita che apparteneva al suo antagonista, percependo tutti i sottintesi. -Diversi anziani hanno avuto delle premonizioni negli ultimi due giorni. Sono tutte funeste come un funerale, e il Venerabile è sembrato preoccupato.-Cosa dice Thesia? E’ il suo campo quello,no?-La Dama Nera è riuscita a interpretare qualche immagine, ma non a carpire tutti i dettagli. Anche se è il suo campo, come dici rozzamente tu, non è una vera e propria veggente- rispose seria la maga, poi rimase in silenzio. -E vorresti dirmi cosa ha capito la potentissima Dama Nera, o vuoi lasciarmi qui col dubbio?- chiese con tono ironico Palain. -Mi sarei risparmiato l’uscita, sai.-Puoi fare il gradasso con me, se vuoi, ma non ti consiglio di insultare Thesia. Non è una donna con molto senso dell’umorismo, come puoi immaginare.Palain allargò le mani come a discolparsi, quindi gli fece un cenno col capo per invitarla a proseguire, al che Aiwendel riprese a raccontare. -Ti farò un riassunto di quello che è riuscita a interpretare. Innanzi tutto, ha a che fare con la spedizione archeologica che è partita un mesetto fa. E’ stato ritrovato qualcosa, o qualcuno, e questo sarà fonte di molta sofferenza, di molto male per la nostra città.Ora il vampiro aveva abbandonato l’aria supponente, e ascoltava la vecchia con profonda attenzione. -Permettimi di obiettare una cosa, Aiwendel. Per il momento non mi stai dicendo nulla di veramente grave, o interessante. Come ben sai, la parte che io rappresento ha un concetto diverso dal vostro di “male” e “sofferenza”.-Lo so benissimo!- sbottò la maga quasi disgustata. -Lasciami finire.


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Thesia non è riuscita a capire la fonte di questo “male”, ma sa che qualunque cosa sia successo, ha già dato il via ad avvenimenti che sconvolgeranno drasticamente la nostra vita, e ha visto alla fine di questi la caduta dell’impero, il che, di per sè, è anche quello che noi vogliamo.Palain fece un cenno d’assenso, e la invitò di nuovo con un cenno del capo a proseguire. -Ora vengo alla parte che interessa più direttamente voi. Non abbiamo scoperto come questa caduta avverrà, ma prima che accada, succederà qualcosa che porterà la morte dentro alla città, ma non si tratta di guerra o assassinio. Sembra più che altro una piaga, un male incurabile. Come ti dicevo, la Dama Nera non è una vera e propria veggente, benchè guidi uno dei quattro collegi di magia. Però una visione l’ha avuta anche lei. Ha visto il portatore di questa infezione, il primo a esserne colpito. Non ha visto il volto, ma ha riconosciuto i simboli a esso collegati, senza ombra di dubbio.- Aiwendel prese fiato un istante, e fissò triste il pavimento, quasi non vedendo più nulla attorno a sè. Poi sussurrò:- Era uno dei quattro Antichi.Palain la fissò lungamente, in silenzio. Sul suo viso prima si lesse sconcerto, poi incredulità, ma piano piano un’ombra di cieco terrore si affacciò nei suoi occhi. -Non è possibile. Deve aver sbagliato. Lo sai benissimo che niente può uccidere uno degli Antichi, è un’eresia e una bestemmia!Il vampiro era fuori di sè, e l’elfa lo lasciò sfogare, poi lo interruppe: -Ti sto dicendo la verità. Thesia ha raccontato tutto al consiglio degli Anziani, alla presenza del Venerabile. Il suo primo ordine è stato quello di convocare questo incontro perché anche voi foste messi al corrente. Qualunque sia la cosa che è stata trovata dalla spedizione, darà prima il via a delle cose che porteranno sofferenza ad Aberkirk, e dopo ci sarà un male che partirà da uno degli Antichi e minaccerà di annientare completamente tutti noi. Senza distinzione di fazione o razza.La maga anziana e il vampiro si guardarono di nuovo in silenzio, consci della prospettiva terribile che si presentava davanti a loro. -E voi cosa contate di fare, adesso?- chiese con voce bassa Palain. -Con la spedizione c’era uno dei nostri. Dovrebbero rientrare domani, e parleremo con lui, cercando di capire l’origine della prima maledizione. Forse, intervenendo adesso e su di essa, sarà possibile evitare che la visione si avveri completamente. Voi dovrete invece tenere sotto controllo gli Antichi, Palain…-


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-Sei impazzita? Non sai nemmeno di cosa parli. Anzi, proprio tu che sei un’elfa, dovresti sapere bene che creature sono. Non si possono tenere sotto controllo, sarebbe come se io ti chiedessi di tenere legato il Venerabile, cosa mi diresti?- esclamò esasperato Palain. -Allora, se non potete agire così, bisogna che si controllino fra di loro. Non c’è altra via. Thesia è stata categorica: se questo male si impossesserà di uno di loro, non ci sarà scampo per nessuno.Uno dei quattro Antichi. Ridicolo. Meglio ancora, gli avevano chiesto di tenere sotto controllo quelle entità di una potenza inimmaginabile. Beh, se proprio non se la sentiva, bastava anche che riportasse loro l’ammonimento di sorvegliarsi a vicenda! Figuriamoci. Sarebbe come chiedere a un uomo di infilare la mano nella bocca di un orso e chiedere all’animale se gli andava di tenergliela in caldo. Palain era fuori di sè. Stava tornando al Museo, dopo l’incontro con la maga elfa, e faticava a non mettersi a correre, o a dare in escandescenze per la strada. Ormai era molto tardi, e in effetti di gente in giro non se ne vedeva, ma la sua qualità più grande era proprio quella di passare inosservato, in modo tale da poter circolare liberamente per la città senza timore di venire smascherato dai seguaci dell’Ordine o, peggio ancora, dai Cacciatori. Camminava tenendo i pugni piantati nelle tasche, lo sguardo fisso e vuoto di fronte a sè, tentando di mantenere un passo lento e strascicato, il suo solito, ma la mente era un turbinio di immagini e voci. Dopo le ridicole pretese che gli aveva avanzato Aiwendel, era rimasto poco da dire, e quindi la vecchia lo aveva riaccompagnato all’uscita, raccomandandogli fermamente di non sottovalutare gli ammonimenti suoi e del Venerabile. Palain aveva fissato a lungo gli occhi in quelli dell’elfa, e vi aveva visto una infinita saggezza, unita a sincerità, ma soprattutto terrore. Non c’era niente di più destabilizzante di vedere una persona di grande potere non riuscire a domare la paura, perché il sottinteso era che anche il gran consiglio della Loggia dei Maghi si trovava in quello stato d’animo, e nemmeno il Venerabile sembrava avere i mezzi per tranquillizzarli. A quanto aveva capito, anzi, il Venerabile stesso si era dimostrato parecchio preoccupato. Nonostante avesse cercato di mascherare le sue emozioni, lo stesso vampiro si era fatto prendere da quel timore irrazionale, e la maga lo sapeva; probabilmente proprio perché si era accorta che Palain l’aveva presa sul serio, lo aveva lasciato andare senza altre parole. A dire il vero, come le aveva candidamente confessato, la sua gente si


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curava ben poco di male e sofferenza, e quindi se le visioni si fossero fermate solo alla prima parte, di sicuro i vampiri se ne sarebbero disinteressati, anzi, avrebbero accolto con piacere qualunque cosa contribuisse alla morte dell’impero, visto che questo, con l’avvento dell’Ordine soprattutto, aveva dichiarato loro una lotta senza quartiere. Dato che lo stesso era avvenuto per la Loggia dei Maghi, le due “fazioni” avevano stretto un patto di non belligeranza e instaurato una sorta di collaborazione, più che altro a livello di scambio di notizie. Di sicuro i vampiri non avrebbero mosso un dito se l’impero avesse trovato e attaccato i maghi nei loro nascondigli, e allo stesso modo non si sarebbero preoccupati della sorte dell’impero, qualunque fosse quell’evento che s’era messo in moto durante la spedizione archeologica. La vicenda invece cambiava radicalmente, nel momento stesso in cui queste visioni avevano menzionato i quattro Antichi, ossia i progenitori di tutta la stirpe dei vampiri. Per quanto ne sapeva Palain, quegli esseri erano in vita da forse un paio di migliaia d’anni, e visto che solo il Venerabile sembrava avere un potere della loro stessa entità, ma era fortemente vincolato alla sua dimora, essi erano virtualmente immortali. Lui stesso, che era un vampiro anziano, aveva una linea della vita lunga qualche centinaia d’anni, nemmeno ricordava con precisione quando fosse nato, e nel mondo di Obscuram c’erano davvero ben poche creature che potessero impensierirlo, tolti appunto gli Antichi. Pensare che poteva esserci qualcosa in grado di uccidere uno di loro, anzi, addirittura in grado di usare uno di loro come veicolo per propagare la morte, lo lasciava senza parole, con solo un terrore folle e senza nome Se ne era andato dalla biblioteca senza promettere nulla ad Aiwendel, ma nello stesso momento in cui lei gli aveva illustrato con maggiori dettagli le visioni, una decisione l’aveva già presa: doveva assolutamente conferire con uno di loro, non se la sentiva di gestire un cataclisma di queste proporzioni da solo, benchè fosse solo ancora ipotetico. Sapeva bene che anche per i maghi quella alleanza era fragile e di comodo, ma non era mai stato neppure sfiorato dall’idea che fosse tutto un grande inganno, anche se intendeva indagare personalmente sulla spedizione, senza attendere notizie di seconda mano. Rimaneva da decidere con chi parlare, quale degli Antichi affrontare con simili notizie. Il loro potere e la loro immortalità era solo una faccia della medaglia: li avevano ottenuti dannando la loro essenza fin nel profondo dell’anima, se ancora ne avevano una, e la loro era un’esistenza


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cupa e maledetta. Palain aveva commesso nella sua lunga vita più di un’azione spregevole, per l’interesse suo o della sua gente, e nemmeno se ne pentiva, perché faceva parte del suo essere un vampiro. Ma l’aura di male puro e incalcolabile che permeava sempre gli Antichi lo atterriva, e temeva sinceramente che se avesse parlato con quello sbagliato, sarebbe stata la sua ultima azione, prima di una morte atroce. Se non avesse fatto nulla, secondo le visioni, gli avvenimenti avrebbero portato la morte nell’impero per tutti, nessuno escluso; d’altra parte, anche affrontare gli Antichi spesso significava la morte, se le notizie da riferire non erano ben accette, e dubitava che questa lo sarebbe stata; aveva preso velocemente in esame la possibilità di fuggire, ma sapeva che la sua assenza sarebbe stato presto notata e lo avrebbero braccato e riportato in città, con una conclusione più che ovvia. Impercettibilmente, rallentò il passo. In effetti non aveva più molta fretta di rientrare nel museo, non prima di aver preso una decisione. Aveva sempre considerato Falcambe un povero idiota, costretto a mantenere una facciata di rispettabilità, perché i vampiri potessero usare le ali più interne del museo come rifugio, un lacchè al servizio dell’impero, ma ora si trovò a invidiarlo, e questo lo fece infuriare. Era pure sempre uno dei più potenti e intelligenti vampiri, quindi avrebbe affrontato il suo fato, comunque andasse. In realtà era molto meno determinato di quanto non si ripetesse, e cominciò ad aprire e chiudere nervosamente le mani mentre camminava. All’improvviso notò una figura che gli veniva incontro sull’altro lato della strada. Cercò immediatamente di darsi un contegno, con il controllo che aveva sviluppato in centinaia di anni, e riprese la sua camminata incolore. Intanto stava studiando l’ombra che si stagliava un centinaio di passi avanti a lui. A dire il vero, sembrava barcollasse un poco, e gli pareva di distinguere un cappello a cilindro piantato di sghimbescio sul suo capo. Si rilassò un poco, non appena si rese conto di non trovarsi di fronte a una minaccia, ma questa sensazione fu ben presto spazzata via come da un’ondata di marea da un’altra sensazione, più primitiva e incontenibile: il desiderio di sangue umano. Quasi senza rendersene conto, scoprì i canini affilati e cattivi in un lento sorriso malizioso, e sentì le estremità farsi gelide come ghiaccio, mentre il suo appetito maledetto gli riempiva tutti i sensi. L’uomo avanzava con una camminata insicura verso di lui. Probabilmente era appena uscito dal salone dei rinfreschi del teatro, o era stato


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cacciato fuori dalla sorveglianza, il tutto dipendeva da quanto fosse importante in città. Il fatto che fosse visibilmente ubriaco e nessuno si fosse disturbato ad accompagnarlo a casa avvalorava l’ipotesi che fosse solo un modesto mercante, nulla di più. Aberkirk non era certo la città della fratellanza e dell’uguaglianza, ma Palain non aveva mai fatto della discriminazione una sua prerogativa di vita. Era spaventato, stanco, e quell’uomo gli aveva risvegliato sensazioni che potevano anestetizzare almeno per un poco la sua mente da tutte le preoccupazioni. Il vampiro si acquattò alla parete con un movimento fluido e silenzioso, e scomparve nelle ombre che si proiettavano tra due lampioni. Ora che si era fatto più vicino, osservò per qualche istante l’uomo. Era abbastanza anziano, o almeno lo era per quelli della sua razza. Questo pensiero fece increspare di nuovo il viso algido di Palain con un sorriso obliquo; tutte quelle macchinazioni, quella sete di potere irrinunciabile, e a settant’anni gli uomini si definivano vecchi. Cosa avrebbe dovuto dire lui, che di anni ne aveva circa settecento! Tutti i loro sogni, la loro avidità sarebbe scomparsa tra le sabbie del tempo, e lui ci sarebbe ancora stato. Sempre che la visione della Dama nera non si avverasse… Questo lo colpì come uno schiaffo in pieno volto, e cancellò l’ombra del sorriso ironico. Dopotutto, erano tutti uguali, vampiri, uomini, elfi. Per quanto si sentissero forti, poteva sempre arrivare qualcosa di più potente e spazzarli via. Non intendeva abbandonarsi all’autocommiserazione o alla sconfitta. Ormai l’uomo, dall’altro lato della strada, lo aveva quasi superato, e Palain poteva sentirne l’odore penetrante di alcol che lo permeava. Forse stava addirittura sussurrando una canzone sconcia, gli parve di distinguere un’aria da taverna cantata con una voce da baritono. Palain lo lasciò proseguire per una decina di metri, anche se era convinto che nemmeno un colpo di pistola sarebbe riuscito a distrarre il vecchio dalla sua sentita interpretazione, quindi scivolò lesto come un ragno sull’altro lato della strada e si immerse in un’altra pozza di oscurità, per controllare che nessuno l’avesse notato mentre attraversava lo spazio aperto. Il mercante di tessuti del Campo di Primavera era soddisfatto di sé e della serata. Era bello essere ricchi e importanti, e poco gli interessava se quegli insulsi del teatro lo avevano allontanato per così poco, solo perché aveva dato una tastatina a una delle ballerine. E niente da dire neppure sul vino, di prima qualità, sissignore. Peccato solo che fosse


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finito, ma a casa era sicuro di averne una buona scorta, se solo si fosse ricordato dove la teneva. A dire il vero, aveva la mente un po’ confusa, e faceva anche fatica a mettere a fuoco i dettagli. La serata era abbastanza fredda, ma il calore del vino gli faceva ancora compagnia, comunque decise di tentare d’affrettare il passo, quando un refolo di vento gli fece cadere il cilindro. Maledizione! Non sia mai che un uomo della sua importanza vada in giro senza il suo cappello! Gli era caduto praticamente sui piedi, e penso che chinarsi per raccoglierlo fosse una buona idea, e forse non troppo difficile da attuare. Ciondolò per qualche istante come un giunco, quindi riuscì a piegarsi leggermente in avanti, ma in effetti il cappello gli sembrava irraggiungibile con le mani, e in quella posizione lo stomaco gli stava dando dei segnali poco rassicuranti. Stava per abbandonare l’impresa e rimettersi diritto, quando qualcosa spinse il cilindro verso di lui, permettendogli di afferrarlo. Il vecchio si piantò di nuovo il cilindro sulla testa, quasi coprendosi un orecchio, e fece forza sulle reni per recuperare una postura sufficientemente eretta per camminare. Davanti a lui c’era un uomo sottile, pallido, vestito di scuro. Tentò di scrutarlo meglio oltre la foschia della sbornia, ma non gli sembrava un volto conosciuto. Gli sembrò che gli sorridesse e il mercante pensò bene di tentare un leggero inchino. La mano destra del vampiro lo raggiunse alla base del collo e lo tirò verso di sè. Era gelida come una notte senza luna, e il mercante pensò che forse avrebbe dovuto gridare, ma riuscì solo a grugnire qualcosa di incomprensibile, poi sentì un dolore acuto e istantaneo alla gola, poi un lento fluire caldo. La mano dell’altro si mosse verso i capelli, lì afferrò con decisione facendogli piegare il capo all’indietro, e il cilindro gli cadde di nuovo, ma adesso non gli sembrava così importante. A dire il vero, ora non gli sembrava importante neppure la serata, la ballerina, il vino che aveva a casa. Desiderava solo che quella sensazione di languido svuotamento non si fermasse, e non si oppose quando l’uomo lo trascinò quasi di peso contro il muro, nell’oscurità. Probabilmente, non ci sarebbe nemmeno riuscito, se anche avesse voluto. Dopo qualche minuto, si udì un leggero tonfo, quindi Palain emerse dalle ombre e riprese la sua camminata monotona, ma dopo qualche passo si fermò e fece marcia indietro. Ritornò verso il cilindro, abbandonato al centro della strada, e lo spedì con un calcio verso il suo pro-


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prietario, quindi si ficcò le mani in tasca e si diresse verso il museo, senza piÚ voltarsi indietro.


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CAPITOLO QUINTO LA CITTÀ SACRA

Le mani di Arion Burby si stavano contorcendo una sull’altra. Quel maledetto rettore non la finiva più di blaterare sull’importanza scientifica delle loro scoperte, e sui progetti per il futuro. Le LORO scoperte, per l’inferno! Lo avevano ostacolato e deriso fin dall’inizio, e solo adesso che la sua spedizione aveva avuto un successo inequivocabile volevano fare la parte dei lungimiranti. Ma mentre loro stavano in città a sghignazzare alle sue spalle e a sperare che ci restasse secco in mezzo al Mourn Labyrinth, era stato solo lui a seguire le tracce che aveva raccolto in una vita di studi, lui aveva scavato a mani nude e ritrovato il primo reperto proprio nella zona dove aveva previsto che ci sarebbe stato qualcosa. E adesso volevano prender parte alla sua gloria. Che facessero pure. La cosa lo faceva infuriare, ma ormai non gli importava più di tanto, presto sarebbe tutto cambiato. Aveva dovuto consegnare tutti i reperti nelle mani rapaci di Embira Malnock. Lo aveva ammonito, spettava solo a lei fare rapporto al Decano e lui avrebbe deciso se e quando Burby potesse ancora far parte di questa vicenda, o se fosse destinato a passare la mano. Il suo rapporto Arion lo aveva fatto al rettore dell’università, anche se in realtà questi sembrava già essere stato messo al corrente dei fatti salienti, almeno secondo il suo punto di vista, e quindi il tutto si stava risolvendo in un monologo su quanto la facoltà e i suoi professori avessero creduto nel suo lavoro e lo avessero appoggiato. L’archeologo non ne poteva più di stare a sentire tutte queste insulsaggini umilianti, e più di una volta aveva sentito la rabbia salirgli lungo la spina dorsale, e aveva dovuto farsi decisamente forza per non balzare in piedi a strangolare quell’idiota untuoso. Lo tratteneva il pensiero dell’oggetto che aveva conservato, e delle implicazioni che poteva por-


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tare, soprattutto alla luce di quello che avrebbe potuto scoprire nella sua biblioteca non appena lo avessero lasciato andare. -...in conclusione, professor Burby, voglio manifestare l’apprezzamento mio e di tutti i colleghi per l’opera svolta. Indubbiamente comprendo la sua volontà di partecipare agli scavi futuri, ma deve rendersi conto che queste decisioni ricadono sotto l’autorità dell’Alba Scarlatta- concluse il rettore con un’aria compiaciuta e falsamente partecipe. Arion si alzò lentamente in piedi, faticando ancora a controllare l’impazienza, quindi rivolse un cenno del capo al suo superiore. - Ringrazio lei e tutti i colleghi, rettore. Se non avete altro da domandare, vorrei ritirarmi nel mio ufficio per riprendere il filo dei lavori abbandonati prima degli scavi.-Lei è instancabile, Burby!- sbottò con un sorriso finto il rettore. -Vada pure, se avremo bisogno di lei, la faremo convocare. Ma si riguardi, se si stanca troppo, di certo non potrà partecipare ai lavori nel Mourn Labyrinth.-Non si preoccupi, rettore.Arion si era già voltato in direzione dell’uscita, e quindi il suo superiore non poteva vedere la luce avida dei suoi occhi. -Sarò pronto, quando verrà il momento. Buona giornata.Burby scivolò fuori dall’ufficio del rettore come uno spettro in caccia, pregando che nessuno gli causasse nuovi ritardi, o davvero non sapeva se sarebbe riuscito a trattenersi dall’ucciderlo. Fortunatamente la sua stanza era solo qualche decina di metri oltre, e nessuno lo incrociò. Strinse la mano sulla maniglia quasi volesse estirparla dalla porta, quindi vi si proiettò dentro come una furia. L’interno era illuminato solamente dal chiarore che proveniva dal corridoio, ma l’anziano archeologo non accennò nemmeno ad accendere la lampada a olio che si trovava sulla scrivania colonizzata da una serie di cartacce. Si diresse invece con passo lesto e sicuro alla sua destra, nelle vicinanza di quella che sembrava essere una piccola biblioteca privata, e infilò la mano ossuta nello spazio tra il mobile e la parete, a circa un metro da terra. Sentì sulle dita polvere e ragnatele stantie, e un po’ oltre incontrò una protuberanza sul legno, che premette solo dopo aver lanciato un’occhiata feroce alla porta semiaperta. Si sentì un leggero scatto nel mobile, che proveniva dalla sezione laterale più lontana dall’uscio. Burby si assicurò di sentire il massimo silenzio provenire dal corridoio, quindi percorse tutta la piccola libreria in direzione dell’origine del suono. Si era a-


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perto nel mobile un incavo grande circa come un pugno, e Burby vi infilò voracemente la mano, estraendone un oggetto avvolto in uno straccio anonimo. Non seppe resistere alla tentazione di guardare una volta ancora, quindi liberò la cosa avvolta nella pezza alla penombra del suo ufficio, e così ammirò di nuovo il piedistallo in terracotta della scultura ritrovata nel Mourn Labyrinth, le iscrizioni in quella lingua scellerata che danzavano lungo tutto quel pezzo di coccio. I suoi occhi rischiavano di cadere dalle orbite, e una bava lussuriosa era apparsa agli angoli della bocca. Arion Burby poteva fisicamente sentire il potere di quelle iscrizioni vecchie di secoli, e nella sua bramosia incosciente stava quasi per essere preda di un collasso, quando nei recessi della mente gli parve di avvertire una voce lontana, come di qualcuno che parlasse da in fondo un pozzo -Respira- disse solamente, e il vecchio archeologo ritornò in sè. Richiuse frettolosamente l’oggetto nello straccio e se lo ficcò in una tasca capiente del logoro soprabito, quindi uscì dall’ufficio. Aveva la sgradevole sensazione di aver perso per qualche istante il collegamento con la realtà, come se qualcosa lo avesse fatto muovere al posto suo, ma non riusciva a ricordare bene. Decise che doveva solo trattarsi dell’ansia che lo divorava, unita al disgusto per i suoi colleghi, quindi si diresse all’uscita dell’edificio, intenzionato ad andare nello studio privato a casa sua, per mettersi al più presto al lavoro sul piedistallo, servendosi dei suoi preziosissimi volumi rilegati in pelle. Per un istante ebbe ancora quella sensazione di distacco dalla realtà, assieme a una percezione aliena, come se qualcosa nella sua mente gli avesse manifestato di essere compiaciuta, ma senza usare parole; tutto durò solo il lasso di un secondo, e Burby si limitò a scuotere la testa, mentre divorava a lunghe falcate la strada verso casa sua. Embira Malnock procedette verso il Palazzo del Consiglio lungo l’imponente Kings Street, attraversando così la capitale per tutta la sua lunghezza in direzione sud-nord su quell’arteria lastricata con al seguito tutta la spedizione scientifica. La colonna dei carri, la scorta dei soldati imperiali, le uniforme color sangue delle Guardie Rosse e il fatto che giungevano quasi inaspettati diede a quella processione l’aria di una sfilata dei vincitori, ed Embira si godette fino in fondo quella sensazione, anche se si rendeva conto che non stava tornando in città a capo di un contingente militare, ma era anche ben conscia dell’importanza e delle ripercussioni delle notizie che portavano. Appena raggiunsero la Statua


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del Re, le truppe regolari voltarono a destra, scortando gli scienziati alla loro università; prima di tornare alle loro famiglie, infatti, era necessario che mettessero al sicuro reperti e strumentazioni, questa era la disciplina dell’Ordine. Il capitano invece tirò dritto seguita dalle Guardie Rosse e la via principale, benchè molto ampia e spesso trafficata, quasi si svuotò. Carri e cavalli scomparvero miracolosamente nei recinti più vicini, i mercanti si affrettarono lungo il loro cammino, badando bene di tenersi lontani dal centro della Kings Street, i pochi cittadini si infilarono nelle botteghe come uccelli sorpresi al di fuori del loro nido da un falco. Embira sapeva benissimo che non appena li oltrepassava, tutti alzavano gli occhi timorosi e trepidanti per ammirare quei cavalieri scarlatti, mano armata dell’Ordine, e dentro di sé sorrideva soddisfatta. La Piazza del Consiglio era la degna conclusione dell’ampio viale; di pianta rettangolare, si apriva per circa seicento metri quadri, ed era il centro della vita della capitale, almeno dal punto di vista del governo, benchè si trovasse in posizione decentrata. Sul lato nord della piazza, opposto a quello da cui stava giungendo Embira col suo contingente, si stagliavano il Palazzo Imperiale, la caserma delle truppe regolari e la prefettura, mentre al centro troneggiava il Palazzo del Consiglio, una sorta di piccolo castello fortificato sede delle riunioni che l’imperatore teneva appunto con i vari rappresentanti della variegata popolazione di Aberkirk. Nonostante il grande traffico di messaggeri e consiglieri e soldati, la piazza compiacque la Malnock per il suo innato ordine, mantenuto fieramente dai molti fucilieri imperiali distaccati lì. Assieme ai suoi uomini si diresse verso l’uscita destra della piazza, per imboccare il largo viale che li avrebbe portati sul Bridge Rock, il ponte in pietra color avorio che attraversava il fiume e portava al Fortilizio, sede dell’Ordine dell’Alba Scarlatta. I soldati della piazza controllavano chiunque entrasse od uscisse, ma le Guardie Rosse venivano ignorate e temute anche da loro, mentre invece furono fermate all’accesso del ponte da un picchetto di loro colleghi. L’Ordine bandiva l’uso di qualunque magia, e non vedeva di buon occhio nemmeno le armi da fuoco nei suoi uomini, e solo alcuni ufficiali come la Malnock potevano permettersi di girare con delle pistole alla cinta. Ciononostante solo un pazzo, anche se munito di fucili e quant’altro, avrebbe osato assalire il posto di controllo difeso dalle Guardie rosse; indossavano tutte armature complete scin-


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tillanti, ed erano armate di pesanti alabarde e lunghe picche, mentre dietro ai muretti ai lati del ponte e sopra le basse torrette vegliava un numero imprecisato di balestrieri, senza contare che dall’altro versante poteva sopraggiungere in meno di due minuti un contingente a cavallo. -Sono il capitano Malnock, di ritorno dalla spedizione scientifica nel Mourn Labyrinth. Devo mettermi a rapporto dal Gran Maestro- esordì Embira con alterigia, senza dare tempo all’ufficiale di picchetto di interrogarla. Al di là del comandante supremo del loro corpo, non aveva altri superiori, quindi sentiva di poter manifestare la sua autorità anche di fronte a procedure ben collaudate. L’ufficiale che le era venuto incontro scortato da due balestrieri la squadrò qualche secondo, quasi a tentare di decifrare le sue intenzioni, quindi annuì lentamente e alzò la mano destra; da dietro a una delle torrette sbucarono quattro guardie a cavallo, che si disposero ai suoi lati. -Bentornato capitano. I miei uomini la accompagneranno alla fortezza.Embira fece un cenno di approvazione al suo sottoposto, che l’aveva ovviamente riconosciuta, ma non aveva rinunciato per questo a far valere la sua posizione di responsabile del ponte; un ottimo esempio dell’efficienza dell’esercito dell’Ordine. Con l’aggiunta dei quattro cavalieri, si diresse alla testa dei suoi uomini lungo il ponte di pietra, una struttura massiccia ma al tempo stesso notevole artisticamente. L’unica arcata poteva essere percorsa da una ventina di cavalli affiancati, e le fortificazioni ai due estremi lo rendevano quasi impossibile da prendere con la forza, ma al tempo stesso i muriccioli laterali erano impreziositi da colonnine scolpite a foggia di soldati in alta uniforme, e si aveva quindi l’impressione di sfilare in mezzo a un contingente in assetto da guerra. Il capitano Malnock aveva percorso quel ponte innumerevoli volte, ma comunque con la coda dell’occhio non mancava mai di apprezzare tutti quei dettagli, mentre teneva lo sguardo fiero fisso davanti a sè, verso le pesanti porte in solidissima quercia che davano accesso al Fortilizio. Questo si ergeva con possenti mura alte dieci metri, mentre il corpo centrale, un torrione a pianta ellittica, raggiungeva quasi i trenta. All’interno di questo poderoso edificio trovavano posto tutte le attività dell’Alba Scarlatta, dagli alloggi dei soldati a quelli dei confratelli, dalle scuderie alle prigioni, dai luoghi di preghiera, a quelli di tortura. Il torrione centrale era proprio il cuore di tutto ciò con gli appartamenti


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del Grande Maestro e quelli del Decano, rispettivamente la mano armata e quella religiosa dell’Ordine. Leggermente scostata dalla fortezza, sulla sinistra, si ergeva come un’unghia maledetta una torre di pietra nera, alta quasi come il torrione. Embira la guardava sempre a disagio, probabilmente era l’unica cosa a lei nota che le avesse instillato una simile sensazione. Non era in grado di dire che forma avesse, o secondo che stile fosse stata edificata. A differenza del Fortilizio, non si vedeva nessuna attività, nè sui suoi camminamenti, nè attraverso le finestre cieche che si aprivano a intervalli irregolari sulle facciate ruvide. Voluta dall’attuale Decano dell’Ordine, era il luogo dal quale prendevano il via le incursioni dei Cacciatori. Un gelo profondo colpì Embira alla base della spina dorsale al pensiero di quegli esseri, ma soprattutto pensando al favorito, il Primo Cacciatore, guardia personale del Decano. Quell’essere la terrorizzava completamente, e poco la consolava pensare che la stessa sensazione la provavano tutti, Gran Maestro compreso. Cercò di mantenere il suo sangue freddo, pensando che non era a lui che doveva fare ora rapporto, ma al suo comandante supremo, un uomo terribile a volte, ma sempre e soltanto un uomo. I pesanti portoni borchiati si mossero lentamente e senza emettere suono, e il contingente del Labyrinth potè finalmente mettersi a disposizione. Le quattro guardie del picchetto fecero voltare le cavalcature e riguadagnarono la loro posizione, mentre gli altri le lasciarono alle scuderie. Embira fece un cenno al suo attendente, e mise tutti gli uomini in libertà nei loro alloggiamenti, ma pronti a ripartire col minimo preavviso, quindi si infilò nel corridoio che dava accesso al cortile interno. Appena terminato il passaggio, si trovò colpita in viso dal sole che filtrava attraverso lo spazio aperto, e non le riuscì di distinguere bene le tre figure che l’aspettavano all’altro capo del cortile, accesso per il torrione centrale. Pian piano mise a fuoco i tre uomini, e fu con un brivido ancestrale che riconobbe il Gran Maestro, il Decano, e soprattutto il Primo Cacciatore. -Bentornata, Embira Malnock…La voce del comandante la raggiunse quasi ovattata da quella sensazione di profondo terrore. -Si, bentornata- sibilò suadente il Decano. -Ti aspettavamo. Hai tante cose da raccontarci....CONTINUA...


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