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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura. Questa pagina, oltre a essere una specie di "mappa", le raggruppa per nome e per tipo. I link riportano ai siti dedicati alle rispettive iniziative.
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Un camice bianco, immune dai colori sporchi dell'interesse personale e della politica, questo è l'ideale di Marco, giovane chirurgo dalle mani fatate. Così, quando il suo primo maestro, medico integerrimo, lo invita a raggiungerlo in un ospedale di provincia, Marco non se lo fa ripetere due volte. La nuova esperienza, esaltante per la professione, è resa poi oltremodo piacevole da frequentazioni mondane. Ma dietro le quinte è in agguato la vita con le sue miserie e i suoi drammi. L'AUTORE: Roberto Menaguale è nato a Roma nel 1946 e, sempre a Roma, si è laureato in Ingegneria nel 1972. Dopo il servizio militare, nel 1974, si è trasferito per lavoro a Milano, dove tuttora vive con la moglie. Ha due figli, anch'essi ingegneri. Ha pubblicato altri due libri, entrambi nel 2007: “Ancora agosto" e "Il sole fuori Il sole dentro", Edizioni Il Melograno.
Titolo: Quando comanda il mare Editore: 0111edizioni Pagine: 244
Autore: Roberto Menaguale Collana: Gli Inediti Prezzo: 15,00 euro
12,75 euro su www.ilclubdeilettori.com
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E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro. Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.
PARLANDO DI LIBRI A CASA DI PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro La trasmissione di Paolo
BOOKINO il CONTASTORIE
Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale OnDemand
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IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO
E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.
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Con EasyReader puoi dare un'occhiata ai nostri libri prima di acquistarli. Sono disponibili online in corpose anticipazioni (circa il 30% dell'intero volume), che ti consentiranno di scegliere solo i libri che preferisci, evitando di acquistare "a scatola chiusa". In più, con l'iniziativa Adottaunlibro, puoi richiedere in regalo il libro che sceglierai. VAI AL SITO
CONCORSO IL CLUB DEI LETTORI VAI AL SITO
Se hai letto un libro di un autore italiano (edito da qualunque casa editrice), votalo al concorso Il Club dei Lettori e partecipa all'estrazione di numerosi premi. La partecipazione al concorso è gratuita.
In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le Gioca con la Banda del Booko vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei (che si legge quali è richiesto un riscatto all'autore. BUCO) all'ANONIMA Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In SEQUESTRI VAI AL SITO
questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.
Roberto Menaguale
Quando Comanda Il Mare
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com
QUANDO COMANDA IL MARE Copyright © 2010 Roberto Menaguale ISBN 978-88-6307-275-4 In copertina: foto fornita dall’autore
Finito di stampare nel mese di Aprile 2010 da Digital Print Segrate - Milano
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Sudore e profumo
L’asfalto viscido e la nebbia, sempre più color latte sotto l’insolenza dei fari, mi suggerirono di accettare l’invito di un’insegna, non proprio luminosa, giallastra, dove la parola trattoria, a causa di un paio di lettere spente, più che leggersi, si indovinava. Se non altro, avrei fatto riposare gli occhi e calmare lo stomaco. La porta, non grande, massiccia, legnosa, appena appena alleggerita da un vetro ellittico, opaco, da cui la luce faticava a uscire, si aprì indecisa, dando fiato ad un campanello tanto stonato, quanto squillante. Non ero ancora entrato del tutto, quando un odore unto, ma gradevole, si impossessò del mio naso e vampate di calore umido cominciarono a condensare sulla pelle fredda del mio viso. Il locale era ampio, praticamente quadrato, i tavoli distribuiti con disordine, quasi tutti affollati da corpi sudati, di camionisti all’apparenza, alcuni già alle prese con pietanze fumanti, altri con vino e grissini, altri ancora in attesa, chi in attesa composta, chi un po’ meno. Mi colpì subito il contrasto del bianco delle tovaglie, accecante quello dei tavoli dove ancora non si mangiava, imbarazzante quello degli altri e non solo per le inevitabili macchie di vino rosso. Quell’odore, prima svolazzante, era adesso forte e pregnante, sputato fuori da una specie di grossa finestra sullo sfondo, sul davanzale della quale un concerto di mani posava, senza sosta, piatti stracolmi. Evidentemente la generosità non doveva far difetto ad una griglia, che pur invisibile, si faceva indovinare con i suoi scoppiettii. Stavo guardando se c’era un tavolo libero, quando un cameriere, giacca bianca sgualcita e pantaloni neri, spuntato non so da dove, mi intercettò con modi gentili. “Il signore è solo?...” “Sono solo…” Con decisione e con un fare che voleva essere elegante, mi fece sistemare in un tavolo d’angolo, dove l’aria calda si concentrava e il chiacchiericcio, fastidioso, risuonava. Mi tolsi la giacca, con un certo sollievo, ma dovetti rassegnarmi a quei graffi sui timpani. “Faccio io o preferisce ordinare?...” Dato l’ambiente e il tono della sua voce, la risposta mi sembrò obbligata.
4 “Faccia lei, ma mi raccomando, qualcosa di leggero…” Leggero, non mi era venuto un altro aggettivo. “Ci penso io, non si preoccupi, intanto le porto del vino, abbiamo un rosso niente male…” “Anche dell’acqua minerale…gassata, grazie…” Solo quando si girò, dirigendosi verso la bocca dell’inferno, mi accorsi dell’immancabile tovagliolo appeso ad un braccio e di un codino di capelli nerissimi. Non mi fece aspettare molto. “Vedrà che resterà soddisfatto…” Aveva ragione, rimasi più che soddisfatto, il rosso era morbido e la sua interpretazione dell’aggettivo leggero non avrebbe potuto essere più azzeccata. Avevo appena finito quando un donnone dall’età indefinibile, lardi in libertà, il grembiule a quadri a stento trattenuto dai lacci, il viso gonfio ma ingentilito da un sorriso accattivante, mi chiese se potevo far accomodare gli ultimi arrivati, due tipi con i baffi in prima fila, pelle olivastra e profumo non proprio di violetta. “Sa…anche stasera siamo al completo…” Concentrato su quella cenetta inattesa, su quella carne tenera arrostita con cura, il palato solleticato da carezze a tredici gradi, non mi ero accorto che c’era perfino qualcuno che aspettava sulla porta. ”Ci mancherebbe signora, lascio subito il tavolo libero…devo arrivare in serata al residence Le Torri, ho prenotato…” “Ma lei vuole scherzare, ogni minuto che passa è peggio, la nebbia diventa sempre più fitta…” ”Ma sono solo pochi chilometri…” “Aldo diglielo tu…” Aldo era uno di loro e loro erano i camionisti, adesso non c’erano più dubbi sul mestiere di quegli uomini così diversi eppure, per qualche verso, decisamente uguali. E si, adesso che ci avevo fatto caso, trovare una donna in quella fauna umana non era facile, ce n’erano solo due infatti, tutte e due in un gruppetto che festeggiava qualcosa. Così almeno si capiva da un residuo di torta e dalle bottiglie di spumante, tante, parcheggiate in ordine sparso. Aldo mi guardò pigramente, con la faccia di chi la sa lunga ma non ha voglia di parlare, poi liberò la sua saggezza. “Certo, quando comanda il fiume ci fermiamo perfino noi…” “Quando comanda il fiume?!...e che vuol dire?...” “Quando comanda il fiume…ah…si…”
5 Sembrava sorpreso che non avessi capito, ma fu roba di un attimo. “Quando comanda il fiume certo…vuol dire che sul mare c’è calma piatta, che l’aria non ha neanche voglia di starnutire…e così la nebbia la fa da padrona…domani sarà anche peggio vedrà…” “Ma allora che faccio…” Sembrava che il donnone non aspettasse altro. “Abbiamo delle stanze comodissime, tutte con bagno, televisione, lenzuola sempre fresche…servizio anche al piano…si troverà benissimo, vedrà…” Accettai, non mi sembrò di avere altra scelta e poi quell’odore mi aveva un po’ stordito, ci stava di dormire lì. Mano a mano che salivo le scale mi spogliavo di quel caldo condito e il mio naso cominciava a desiderare nuovamente l’aria fresca. Così, non appena in camera, aprii la finestra, lavandomi il viso con il semplice gesto di affacciarmi. Tagliando la nebbia con gli occhi, aiutato dagli sfarfallii di due lampioni ricurvi, mi riempii le pupille d’acqua nel tentativo di vedere qualcosa. Alcune parole in libertà e lo sbattere di portiere pesanti, mi fecero capire, più che vedere, che la camera guardava, si fa per dire, su un piazzale affollato di Tir. Avevo viaggiato per non più di tre ore e questo era bastato a far cambiare il mondo intorno a me e non solo per la nebbia, che pure conoscevo bene, anche se mai avrei immaginato che potesse diventare anche solida. Erano state quelle facce, quei corpi troppo grassi o troppo magri, quel modo di mangiare, avido ma non volgare, era stato quell’alzarsi continuo di bicchieri, quel roteare delle mani per spezzare il pane, era stato quel vociare continuo, quell’orchestra di voci appagate, quel teatrino casereccio, a scaraventarmi in una dimensione diversa dalla mia e che pure mi aveva acchiappato, che aveva asciugato, nel giro di un niente, il sudore vanitoso della mia pelle. Una dimensione diversa, certo. Già, ma qual’era la mia dimensione? Non ebbi il tempo di cominciare a pensarci perché non mi andava e poi perché qualcuno stava bussando alla porta. “Avanti, è aperto…” Avevo ordinato dell’acqua minerale, pensai fosse in arrivo. La porta si aprì con un movimento prima deciso, poi lento. Mi ero sbagliato, la ragazza non aveva nulla in mano. “Il signore ha bisogno di qualcosa?...” Se prima mi era sfuggito il senso di quelle parole, adesso non mi ci volle molto per capire.
6 Il servizio al piano doveva essere lei, una brunetta ruspante, truccata pochissimo, due seni a stento trattenuti dai bottoni di uno strano camicione, corto quanto bastava per lasciar immaginare qualcosa di più di due gambe. “Grazie, ma non credo di aver bisogno di nulla…o forse…si…avevo ordinato dell’acqua minerale…” “Solo l’acqua minerale?...” “Beh…si…” “Va bene…” Intanto però, con la scusa di chiudere la finestra, era entrata, sfiorandomi quel poco, o quel tanto, che bastasse a farsi assaggiare. “Certo che fuori non si vede proprio niente…” “E quando non c’è la nebbia?...” “Niente di particolare…da qui si vede solo l’autostrada…” Non so perché, ma quelle frasi buttate lì, così banali, mi solleticarono, accendendomi come un fiammifero. Ma forse non erano state le parole, forse mi avevano acceso i suoi movimenti per afferrare le persiane, il vederla di spalle, il camicione che inseguiva, su e giù, i movimenti delle braccia. “Allora vado a prendere l’acqua minerale…peccato però…” “Perché peccato?...” “Perché una persona come lei…” “Come me?!...” “Si come lei, così fine, così elegante…da queste parti non capita spesso…” Fece per girarsi verso la porta, fu un attimo, l’afferrai per un braccio. “L’acqua può aspettare…” “Vuol dire?!...” “Vuol dire che c’ho ripensato, vieni…” Non se lo fece ripetere due volte, chiuse subito a chiave la porta poi, avvicinatasi nuovamente alla finestra, accostò le tende con cura. “Che bisogno c’era…” “Niente è l’abitudine…e poi così è più intimo, mi piace di più…” Si tolse il camicione, indugiò quel tanto che bastava e si infilò nel letto. Le lenzuola erano pulite, un po’ consumate, ma proprio pulite. Pochi chilometri possono anche essere tanti quando la voglia di arrivare è troppa e io invece non solo non avevo adesso voglia di arrivare, ma neanche voglia di muovermi. Quel bagno nella carne mi aveva rigenerato, anche perché la carne trovata lì era molto diversa da quella cui ero abituato.
7 La carne cui ero abituato io, infatti, era quella preziosa dei ristoranti a la page, quella indifesa, tagliata e sanguinante di un corpo sul tavolo operatorio, quella lisciata di Michela, tanto cremosa, tanto profumata, da non sembrare neanche carne. Niente a che vedere con la carne bruciacchiata, speziata di legna, con la carne aspra di sudore, ma viva, con la carne asciutta, odorosa di se stessa, carne di femmina. Fu lo squillo del telefonino a chiudere il sipario alla mente. “Dottore l’aspettavamo per stamattina…ha avuto problemi?...” “Nessun problema, solo la nebbia…sto arrivando…dica al professore che sarò li fra meno di un’ora…” “La strada se la ricorda…” “Penso di si…e poi adesso ho il navigatore…” Il professore, lui comincia alle sette, non dovevo dimenticarlo. C’eravamo conosciuti nel reparto di chirurgia di uno di quegli ospedali all’americana, dove bisogna pregare che gli ascensori non si guastino mai. Credo che avesse apprezzato da subito le mie capacità di apprendista stregone, anche se poi dovevo essere entrato definitivamente nelle sue simpatie per il fatto di essere l’unico ad arrivare prima di lui, la mattina e l’unico ad andarmene dopo di lui, la sera. Non lo facevo certo apposta, solo che dopo anni passati sui libri avevo voglia di bruciare le tappe, di usare le mani per operare su qualcosa di vivo e non per girare le pagine, di usare la testa per capire quello che vedevo e non per mandare a memoria fiumi di inchiostro. E poi nel reparto c’era un’infermiera che mi piaceva da morire e quello era l’unico modo di incontrarla anche quando faceva il turno di notte, salutandola la sera quando lei arrivava e io me ne andavo e offrendole il caffè la mattina, quando io arrivavo e lei se ne andava. Un giorno mi resi conto che non c’era niente da fare, che era fidanzatissima, prossima a sposarsi, continuai però con gli stessi orari. D’altra parte abitavo a due passi dall’ospedale e fin da piccolo ero abituato a svegliarmi prestissimo, complice la sirena della fabbrica di birra, che mi aveva insegnato ad amare i colori e i rumori del mattino. Quando Odorici lasciò l’ospedale, dopo una lite furibonda col direttore sanitario, mi salutò con un arrivederci a presto, tanto presto che per tre anni buoni non l’avevo più né visto né sentito. Avevo però avuto notizie di lui dalle riviste specializzate e un paio di volte anche dai giornali.
8 Quando mi aveva finalmente chiamato, una domenica sera, non avevo riconosciuto nemmeno la sua voce. “Lorenzi, sei tu?...” “Sono io…si…” “Finalmente, è da ieri che ti cerco…” “Ma chi parla, scusi…” “Sono Odorici…” “Certo…adesso la riconosco…buonasera professore…mi scusi, ma lì per lì…dopo tanto tempo…” “Senti Lorenzi, vengo subito al dunque, se hai voglia di trasferirti ho un posto che fa per te…” “Trasferirmi…da lei…” “Certo, da me…non ti spaventeranno mica trecento chilometri di autostrada…” “Lei lo sa in che situazione mi trovo…” “So tutto di te Lorenzi…” Aveva sparato quella frase con un tale tono di voce, da farmi sbavare di orgoglio. “Quanto tempo ho per decidere…sa…non…” “Puoi chiamarmi domani mattina, non dopo mezzogiorno, però…” Michela non l’aveva presa molto bene, anzi non l’aveva presa bene per niente. Quando gliel’avevo detto mi aveva guardato come se fossi ubriaco, come se le mie parole le fossero arrivate impastate, poco comprensibili, stonate. Poi aveva fatto mezzo giro della stanza, fermandosi dall’altra parte del tavolo, quasi volesse trovare un pulpito dal quale lanciare il suo anatema. Era appena stata dal parrucchiere, ma i suoi capelli, massacrati ora dalle dita nervose, se ne erano già dimenticati. “E tu una decisione così la prendi senza neanche parlarmene, come se fossero solo cazzi tuoi…ma che razza di bestia sei…” “Calmati…non ho avuto tempo di parlartene…ho dovuto decidere in poche ore…e poi lo sai…” “So che cosa…sentiamo, che cosa dovrei sapere…che di me te ne sbatti…” “Lo sai che cercavo un’altra occasione, che non ne potevo più, che ne avevo i coglioni pieni…” “Poverino…se sei tanto bravo potevi cercartela qui un’altra occasione…qui ci sono più ospedali che chiese…” “Se è per questo ci sono anche le cliniche private…come quella di tuo fratello e dei suoi soci…”
9 “Certo…e con lui potresti guadagnare anche bene…” “Ma che cazzo stai dicendo…mi stai rompendo, hai capito…io non sarò mai una sanguisuga come tuo fratello…” “Che vorresti dire…che mio fratello…” “Lo sai benissimo quello che voglio dire…” “Sei solo invidioso perché lui guadagna in un giorno quello che tu porti a casa in un mese…sei un fallito, ecco che sei…” “Mi hai stufato…vorrei sapere che cazzo ci stai a fare con un fallito…vattene…” “Vaffanculo…me ne vado, certo che me ne vado…e per scopare trovati un’altra, che con me hai chiuso…” “Vattene t’ho detto…” Se ne andò senza chiudere la porta, tornando poi subito indietro, questa volta per prenderla a calci. Il giorno dopo fui tentato di chiamarla, non lo feci e al momento di partire quasi quasi non ci pensavo più. Non mi chiesi il perché. ”Allora signori, visto che la squadra è nuovamente al completo, non mi resta che augurarvi buon lavoro…” Odorici non era cambiato, sotto l’aspetto voluminoso del professorone c’era un medico sempre pronto a inginocchiarsi davanti al malato. “Lorenzi, mi aspetto molto da te…ricordati di tenere sempre acceso il cellulare…noi siamo sempre in servizio…” “Professore, lo sa che io…se si tratta di orari…” “Lo so, lo so…ma qui le infermiere sono tutte stagionate…” “Ho capito, non si preoccupi…” “Lorenzi, patti chiari, io le scommesse sono abituato a vincerle, per questo ho puntato su di te…mi sono spiegato?...” “Perfettamente professore…perfettamente…” “Ti sei già sistemato…” “Per ora sono al residence Le Torri…ma è troppo lontano…” “Troppo lontano certo…ti voglio a un tiro di scoppio, con te sarà come se avessi quattro mani…” Stavo sul punto di alzarmi in volo, gonfio come una mongolfiera, quella frase mi ripagava del troppo amaro inghiottito. “Cercherò una sistemazione qui vicino…” “Rivolgiti alla signora Teresa…” “La caposala…” “Si lei, ci penserà lei…”
10 Prima di infilarsi nel corridoio, mi salutò con un buffetto. Più si allontanava, più la sua sagoma bianca mi sembrava grande. Non era stato facile conquistare la stima di Odorici. In quella palude di Chirurgia, dove avevo imparato a scalare le montagne, era più facile incontrare una spia, che incontrare un medico. Si, incontrare una spia, perché se il camice di tutti poteva sembrare bianco, quello che contava era il colore che c’era sotto. Colore sporco, colore politico. Come stare in ospedale il minor tempo possibile, come procurarsi le visite private, come comprare da quella ditta anziché da quell’altra, come lavorarsi gli informatori scientifici, come farsi invitare a convegni, come partecipare a congressi e, peggio del peggio, come manovrare le liste d’attesa. C’è sempre qualcosa da arraffare, c’è sempre qualcuno da imbucare. E poi, chi più ne ha, più ne metta. E soprattutto guerra ai diversi, diversi di colore si intende, l’isolamento, la calunnia le armi più usate. E i malati? Un impiccio, una pratica da sbrigare, una rottura di scatole, in tutti i sensi. Qualche volta un limone da spremere, un assegno circolare. Ecco perché dava fastidio Odorici, perché davano fastidio le sue giornate senza fine, il suo non guardare in faccia nessuno, i suoi sgambetti a chi correva soltanto per sé. Dava fastidio a tutti ma non a me, che volevo soltanto imparare, che ero capitato in quel reparto per caso, a tappare un buco, spinto solo dalla voglia di fare, di imparare e non dai calci nel sedere di qualche barone o di qualche amico degli amici. Odorici se ne era accorto presto e cominciò così a torturarmi, per mettermi alla prova, per vedere di che pasta ero fatto. Mi spaccai le ossa, mi svuotai il cervello, ma rimasi attaccato al suo camice. Naturalmente, quando se ne andò, me la fecero pagare, rendendomi la corsia una specie di girone dell’inferno. Ancora qualche tempo e quella telefonata sarebbe arrivata su un binario morto, dopo più di tre anni, infatti, mi stavo per arrendere. La signora Teresa non faticò a trovarmi una sistemazione. Nella pensioncina, gestita dalla sorella, erano state infatti ricavate, nel sottotetto, tre graziose mansarde, cui si accedeva dal cortile dell’adiacente casa di ringhiera, ristrutturata con gusto, sfruttando una scala qua e là ancora ostruita da calcinacci e attrezzi da muratore. “Fra qualche mese avremo anche l’ascensore…”
11 Un lussuoso angolo di antica povertà. “Questa è l’unica libera, è la più grande delle tre…va bene anche per due persone e poi guardi che panorama…” “Molto bella veramente…comunque sa…in caso di…” “Ho capito, ho capito…ha bisogno di un altro letto, domani provvedo…” “Senza fretta…non c’è fretta…” “Si troverà bene vedrà…le altre due sono occupate da una commercialista e da un professore universitario…” Una voce soffiò su di noi. “Non sono ancora una commercialista Gina, devo ancora dare l’esame di stato…sto facendo pratica…” Era arrivata così, con passo felpato, infilata in una giacca a vento blu, aperta su una tuta rossa, i capelli tenuti insieme da una fascia, sudatissima eppure profumata, affannata, il respiro ancora spezzato, due occhi felini, accesi. “Dottor Lorenzi, le presento la signorina Alessandra…” “Piacere…mi chiamo Marco…” Si strofinò le mani su una parte asciutta della tuta, si tolse la fascia dalla fronte e si ravvivò i capelli, prima scuotendo la testa, poi con le dita a pettine. “Sono impresentabile…sudata…” “Cosa dice…” Le strinsi la mano, anche la mia era adesso sudata. “Scusate ma io devo andare…” “Grazie Gina, buonasera…” “Buonasera…” Le nostre mani si erano appena staccate. “Un po’ di movimento è proprio quello che ci vuole…mi rimette al mondo…” “C’è una palestra qui vicino?...” “Si, ce n’è una molto bella, ma io preferisco correre nel parco, sulle mura…” Già, le mura, le avevo notate subito, una cintura lunghissima di mattoni rossi, dove la gente brulicava, a piedi o in bicicletta, mura ancora vive, vestigia di un passato cui piaceva farsi toccare. “Sa che mi ha fatto venire voglia…magari sabato o domenica ci provo anch’io…” “E perché no la sera…potremmo farci compagnia, in due si fatica di meno…o preferisce stare da solo…” “Che solo e solo…è che i miei orari…” “Perché, che orari fa…” “Ah già, non gliel’ho ancora detto…lavoro all’ospedale, qui vicino…” “Non capisco…oppure si, capisco…le visite private…”
12 “No, no…niente visite…è che il lavoro è tanto…vengono pazienti anche da fuori…” “Va bene, ma la sera…” “La sera guardiamo gli esami, prepariamo gli interventi…e poi c’è sempre l’emergenza, siamo in pochi…anche il sabato, la domenica…ogni tanto saltano…” Si era tolta la giacca a vento e adesso qualcosa del suo corpo si indovinava. “Comunque…se magari qualche sera si libera presto…” “Certo, perché no…ma sabato e domenica proprio niente?...” “Niente, nei week end sono sotto sequestro…” “Il fidanzato…giusto…” Non mi rispose, quasi non avesse sentito, fingendosi impegnata a tirar fuori le chiavi da un tascone della giacca. O forse non aveva finto, forse non aveva proprio sentito. “Adesso mi scusi, ma se non mi infilo sotto la doccia…” Era sudata è vero, ma profumata. “Allora a presto…” “A presto…” Vedere quella porta chiudersi mi lasciò un po’ spento, avrei voluto chiederle di lasciarla aperta, la fantasia a volte corre troppo. O forse era soltanto un primo attacco di solitudine. Una mansarda quasi quadrata, molto spazio in attesa di un letto, una finestra affacciata sulla storia, un ospedale cucito addosso ai malati, telefonini spenti. In pochi giorni il mio mondo si era rivoltato. Non sapevo neanche se era quello che volevo, sapevo soltanto che non mi andava di pensarci, che mi bastava aver tirato fuori la testa dal fango. E Michela? Forse quell’odore di sudore alla colonia mi aveva già fatto dimenticare la sua scia di Chanel. Così presto? Non lo sapevo, non mi andava di pensarci. Provai quindi a chiudere lo sportello della memoria e decisi di andare a farmi un giro, ma fu già tanto se riuscii a trovare il ristorantino dove mi ero accasato per la cena. La nebbia si tagliava e dentro la nebbia soltanto ombre. Da quando ero arrivato aveva comandato quasi sempre il fiume, ma non mi ci ero ancora abituato. Quando comanda il fiume, mi era piaciuto quel modo di dire.
13
Il bar Centrale
Il bar Centrale era il ritrovo più chic della città. Sotto i portici, grandi e preziose vetrate, color anice oltre l’altezza d’uomo, lasciavano ammirare soltanto gli splendidi lampadari di Murano e gli stucchi d’oro del soffitto, mentre le finestre della sovrastante sala da tè, calde di luce velata, si affacciavano sulla piazza, rubando buona parte del primo piano dello splendido palazzo rinascimentale. Peccato per le smisurate insegne luminose, che deturpavano, invadenti, l’artistica facciata. Fuori, sotto i portici, tanta vita, gusto misto, tutti i sapori. Dentro quasi soltanto crema, tanta crema. C’ero capitato per caso una domenica sera, assetato di acqua tonica e limone, i piedi carichi di chilometri, gli occhi gonfi d’arte e di pietre, le mani stanche di sfogliare la guida turistica. Ero alla cassa, con lo scontrino in mano, ma una presa decisa mi impedì di mettere mano al portafogli. “Dottor Lorenzi buonasera…sono Bonfanti, mi riconosce?...” “Non so…forse…” “Ci siamo visti l’altro ieri in ospedale…abbiamo parlato di mia madre, dell’operazione…degli altri esami richiesti dall’anestesista…” “Certo…certo…adesso ricordo…mi scusi sa…” “Ci mancherebbe…che ne dice di un aperitivo insieme a noi, stasera siamo quasi al completo…” “Veramente è tardi…grazie, magari un’altra volta…” “Dottore, la prego, mi farebbe veramente piacere…” L’invito, ripetuto, mi sembrò caloroso, sincero e poi, a dirla tutta, mi ero già stufato di stare da solo. La mattina, infatti, sia pure contro voglia, avevo fatto un paio di volte il numero di Michela, ma poi il dito mi si era fermato, che ne so, paralizzato, sul tasto di chiamata. Il perché non lo sapevo. Avevamo litigato, è vero, anzi era lei che aveva litigato con me, ma in fondo una lite ci può stare, quante liti erano finite con la benedizione del letto. No, il perché non lo sapevo e non lo volevo sapere, non mi andava di pensarci. “Beh…se insiste, se proprio non disturbo…”
14 Mi prese sottobraccio e schivando pellicce e cappotti di cachemire, mi guidò in una specie di area riservata, una sorta di recinto, delimitato da poltroncine in circolo attorno a due tavoli e da un divanetto ad angolo. “Ragazzi, vi presento il dottor Lorenzi, il nuovo braccio destro del professor Odorici…sarà lui ad operare mia madre…” “Buonasera a tutti, mi chiamo Marco…” “Un dottore, giusto quello che ci mancava…un dottore, bravo…” Una voce femmina, appena appena roca, mi orientò verso una bambola viva, una gatta. “Vieni qui Marco, siediti vicino a me…non ne posso più di questo noioso…” Chissà che faccia dovevo aver fatto. “Obbedisci Marco, Milena ti vuole annusare…fa sempre così con gli ospiti…” “Questa sera mi è andata bene, noioso è quasi un complimento…” Si alzò inciampando. “Sono Bruno, il sopportato…” “Non ci far caso…” Bonfanti, sbuffando, si allentò il nodo della cravatta. “Fa caldo qui dentro…” “Quante storie, togliti la giacca e presentaci…” “Allora dottore…” “Marco…niente dottore, Marco…” Allora dottore, cioè Marco…a proposito, io mi chiamo Marcello…” “Detto il vecchio…” “Il vecchio?...” “Si, qui ognuno ha un soprannome…” “Io mi presento da sola, sono Marina…” “Ciao…” “Detta coca…dillo…” “Stupido…” “E a noi, non ci presenti?…” Quando i due si alzarono in piedi, mi colpì prima il loro abbigliamento stravagante, roba da bohemiens, anche se firmata Moschino, poi la differenza di statura, lui le arrivava al mento, a malapena. “Lui è Mario l’artista…e lei Vera, la strega…pardon, la maga…” “Sempre spiritoso…” Alle mie spalle una presenza improvvisa, due braccia lunghe, un profumo d’altri tempi. “E io sono Stefania, la vedova…”
15 Mi stampò un bacio sulla guancia, la sua voce attrasse gli sguardi di tutti, come una calamita. Alta, rossa, efelidi qua e là, in parte nascosta da un elegante pellicciotto, sinuosa, per quello che si vedeva, labbra morbide, tutta roba da far male agli occhi e non solo. “Non ti aspettavamo più, da dove sbuchi?...” “Avevo lasciato indietro del lavoro…” “E noi ci dovremmo credere…” “Lascia stare…piuttosto presentami…” “Marco, Stefania è il nostro capo…” “Quando manca Fabio, naturalmente…” “Naturalmente, ma Fabio è sempre in giro…il padre lo sbatte qua e là e se non torna a casa con un affare…” Guardandoli da vicino, in quel recinto di velluto nero, ebbi subito la sensazione di essere salito su una giostra. Su una giostra infatti tutti ruotano intorno allo stesso punto, tutti sono vicini e pure lontani, nessuno capisce se è il mondo a cercarti o se sei tu a cercare il mondo. E poi, per far girare tutti, alla giostra basta un solo motore. Qual’era il loro motore? Chissà, non certo l’età, che le facce confessavano diversa per tutti. Stefania infatti era una donna fatta, Marina quasi una bambina, Bonfanti, cioè Marcello, mio coetaneo o quasi, gli altri un ventaglio intorno ai trenta. Non riuscivo pertanto a capire come fili così diversi potessero essersi intrecciati, quale telaio fosse riuscito a tessere la tela, magari quel Fabio che non c’era, magari un po’ tutti. Certo è che, a prima vista, neanche un ragno avrebbe potuto fare di meglio. Una bella rete, proprio una bella rete, decisi quasi subito di farmi acchiappare. “Scusatemi, ma per ricordare tutti i nomi, mi ci vorrà un po’ di tempo…” “Basta che non ti scordi il mio…dai siediti…” “Milena non cominciare, Marco è una persona seria…lo sai che il professore si circonda solo del meglio del meglio…” “A proposito, dove ti ha pescato Odorici…” “Ho lavorato con lui alcuni anni fa…mi ha fatto da maestro, praticamente gli devo tutto…non speravo proprio che si ricordasse di me…” “Lo sai che per lui vengono da ogni parte d’Italia…e qualcuno anche dall’estero…” “Stefania dì qualcosa, il discorso comincia a puzzare di lavoro…”
16 Prima di aprire bocca si liberò del visone, si accomodò accavallando le gambe, forse per farle vedere, poi si voltò un paio di volte, come se cercasse qualcuno. “Marina ha ragione, a noi interessa l’uomo, non il dottore…dico bene…” “Certo che dici bene, siamo tutte single…al massimo ex fidanzate…” “O ex sposate…” “Che dici, il suo matrimonio è stato annullato dalla Sacra Rota…Stefania non è stata mai sposata…” “Hai ragione, è ritornata signorina…” “E magari è ancora vergine…” “Certo che sono vergine, il matrimonio non è stato consumato…” Lo disse con un certo compiacimento, quasi volesse farlo credere veramente. “Il matrimonio no…” “Adesso basta, a me interessa sapere di Marco…Marco, fuori la verità, tutta la verità…” Ci pensai un po’ prima di rispondere. “Per il momento niente…niente di niente, sono single anch’io…” “Allora Milena sbrigati, altrimenti ti scappa anche lui…” Milena, con fare serio, aprì la borsetta, vi infilò la mano, rovistò per qualche istante, poi tirò fuori il pugno chiuso e con il pugno chiuso si chinò verso di me, come volesse baciarmi, in realtà cercando, senza farsi vedere, una tasca della mia giacca, dove infilarlo e aprirlo per lasciar cadere qualcosa. “Cos’è?...” Un soffio nell’orecchio, la sua risposta. “Niente, adesso fai finta di niente…” “Milena, non ti sembra di esagerare…Marco, non ci fare caso…” E invece ci avevo fatto caso eccome e mi sembrò che la giostra prendesse a girare più forte. Un quarto d’ora, può essere eterno un quarto d’ora. Un quarto d’ora e mi era passata la sete. Un quarto d’ora e la mia solitudine era poco più di un ricordo. Perché si, adesso che ci pensavo, erano anni che ero solo, solo in ospedale, dove dagli aspiranti baroni ero considerato alla stregua di un appestato, solo in sala operatoria, dove il malato, che pure era con me, non poteva parlarmi, solo in casa mia, una casa troppo grande, solo con Michela, con la sua vita sotto i riflettori, così distante dalla mia. Si, solo con Michela, anche quando mi riempiva il letto. E solo anche adesso, con Odorici e gli altri, tutti in lotta contro il tempo, tutti spremuti nel frullatore di Ippocrate, tutti vicini, troppo vicini per potersi anche guardare, per conoscersi.
17 Solo anche nella mia mansarda, perché dopo la prima sera solo la mia porta si apriva, di quell’Alessandra nessuna traccia. La solitudine è un buco nero, che da dentro lentamente ti svuota, fino a renderti l’involucro di te stesso, un involucro fragile, che si protegge vivendo di paura. E la paura ti uccide, prima o poi ti uccide. Un quarto d’ora e, miracolo, il mio involucro si era riempito, si era dissetato con un’acqua che mai avrei pensato di bere. E adesso che ci pensavo era la seconda volta, in poco tempo, che questo mi capitava, la prima era stata con la brunetta della trattoria, che mi aveva fatto succhiare dai suoi seni materni la pappa reale di una voglia inattesa. Che ci facevo io in mezzo a camicie di seta, iniziali ricamate e gonne griffate, pellicce e jeans coi ghirigori, battute stupidotte e risatine ironiche, seni mostrati e gambe nascoste, gambe mostrate e seni nascosti, che ci facevo io in mezzo a quei bicchieri d’epoca, davanti a quell’orgia di aperitivi dai colori diversi, a quei piattini con frutta esotica, a quelle tartine simili a gioielli. Non so che ci facevo, ma da un quarto d’ora ci stavo e già mi piaceva. “Mister, abbiamo un ospite, un altro giro…” “Anche lo spumante…” “Soprattutto lo spumante…” “Vedrai che sciccheria…aperitivi così non li trovi da nessuna parte…” “E perché, lo spumante?...è un prodotto esclusivo, bollicine afrodisiache…”. Il tempo di un giro di valzer e il mister fece atterrare, prima su un tavolo, poi sull’altro, due vassoi d’argento, colmi, ai limiti del tutto esaurito. Delizie rare, era vero, carezze per il naso e il palato, il lusso con il quale venivano presentate mi sembrò del tutto adeguato. “Ragazzi, sono veramente contento di avervi conosciuto, ma adesso devo andare…” “Andare dove, non ci lascerai mica sul più bello…” Milena, una mano sulla mia gamba, mi impedì di alzarmi. “Devo andare a cena, ho prenotato…” “E allora?...telefona e disdici, stasera ci aspetta la salama da sugo…” “La salama…” “La salama da sugo…mai sentita nominare?...è una specialità…” “Si, mi sembra…ma…” “Niente ma, da Peperosa la fanno da favola, la serata finisce lì…telefona dai…” Milena aspettò che avessi disdetto, poi mollò la presa, peccato però, mi era piaciuto quel contatto caldo. “E va bene…ma ricordatevi che domani mattina…”
18 Marcello mi chiuse la bocca. “Devi essere in camera operatoria, lo so…stai tranquillo, ci tengo io a mia madre…” Li salutai, non senza rammarico, poco dopo mezzanotte, portandomi via un quasi bacio di Milena. La loro serata finì da Peperosa, almeno credo, la mia no.
19
Le colonne d’Ercole
Gina aveva sistemato l’altro letto a fianco del mio, troppo vicino per pensare a letti separati, troppo lontano per pensare a un letto matrimoniale. Li lasciai così, una piccola spinta sarebbe bastata per passare dall’una all’altra soluzione. Avevo caldo addosso, malgrado la serata fredda e umida, ma l’alcool che avevo imbarcato continuava evidentemente a bruciarmi dentro, come pure sulle labbra continuava a bruciarmi il sapore di quelle di Milena, che chiuse si erano poggiate sulle mie, un sapore indecifrabile, un misto di infantile trasporto e di voglia di donna. Ma forse a bruciarmi le labbra era solo il desiderio di un bacio, desiderio che quel quasi bacio aveva ravvivato. La brunetta, sesso in offerta speciale, Alessandra, sudore e profumo, Milena, innocenza o malizia, tre donne diverse in tutto, punte opposte della rosa dei venti, eppure tutte e tre in grado di shakerarmi, di frullarmi istinti sconosciuti, una voglia d’altri tempi, fisica, da adolescente. Ma forse era colpa del fiume, che ancora comandava, regalando all’aria le gocce di nebbia in grado di risvegliare la carne, nebbia diversa dalla solita nebbia, nebbia viva, nebbia da bere. Si, era colpa del fiume, di quel fiume che si divide in cento, era come se, uscito dal casello dell’autostrada, fossi uscito da una vita, per entrare in un’altra. E era colpa anche della brunetta, forse era a lei che avevo pagato il pedaggio. Se una nuova vita era cominciata, allora la mansarda non era l’ultima mia casa, ma era la prima, e come prima casa mi piaceva, perché era come se mi fosse stata cucita addosso, anche quel letto in attesa sarebbe stato l’inizio di qualcosa. Ma quanto sarebbe durata l’attesa? Quando sentii bussare alla porta e, prima di aprire, la maniglia già in mano, riconobbi un profumo bagnato, pensai che l’attesa sarebbe presto finita. “Scusami, magari dormivi…” Lo sapeva che non dormivo, le chiavi mi erano cadute un paio di volte, la porta l’avevo sbattuta, mi aveva aspettato, era questa la verità. “Scusarti di cosa, entra…” Il suo profumo era bagnato, ma non di sudore stavolta. “Scusami, forse non dovevo…” “Ma hai pianto…ti è successo qualcosa…”
20 “Si…no…non lo so neanch’io…” “Non ne vuoi parlare…” “Ho sbagliato, me ne vado, non dovevo disturbarti…” “Ma che disturbo e disturbo…” “Che stupida, ci conosciamo appena…non dovevo, me ne vado…” Fece il gesto di andarsene, ma poi si fermò sulla porta, guardando verso il pianerottolo, la testa chinata indietro, come avesse paura del vuoto che non c’era. Rimasi per un po’ come un cretino, altro che attesa finita, poi mi avvicinai a lei, la presi per un braccio, tirandola dentro quel poco, quel tanto, che mi bastasse per chiudere la porta. “E adesso piangi pure…e se vuoi, sfogati…” “Scusami…” “Basta con le scuse, fuori il rospo…” Spalancò due occhi lucidissimi. “Ho bisogno d’aiuto…” “Va bene, puoi contare su di me…sempre se posso…” “Certo che puoi, sei un medico…” “Che vuoi dire, che stai male?...” “Sto benissimo…” Strapparle un dente sarebbe stato più facile, provai a fare il duro. “Allora, ti decidi si o no…se vuoi che ti aiuti, sono qui…altrimenti…” “Scusami, hai ragione…” “Ancora, ma mi stai prendendo in giro?…” “Non ti sto prendendo in giro…è che non è facile…” “Non è facile cosa…adesso basta…” Si lasciò cadere sulla poltrona, mi chinai allora verso di lei e con un gesto deciso, le sollevai il mento, costringendola a guardarmi negli occhi. “Allora…” “Devo abortire…” “Devi abortire…tutto qui…” “E ti sembra poco…” “No, ma non capisco che c’entro io…” “Mi devi aiutare, sei un medico…” “Sono un medico, ho capito, ma basta andare in ospedale…c’è la fila per certe cose…è un intervento di routine, normale…” “Non ci voglio andare in ospedale…” “Ci sono anche le cliniche private…ma si paga…” “Non è per i soldi, è che non voglio parlarne con nessuno, non voglio andare al consultorio…non voglio che nessuno lo sappia…”
21 “Ma che dici, nessuno saprà niente…c’è la legge sulla privacy…in che mondo vivi…” “Qui lo verrebbero lo stesso a sapere tutti…te ne accorgerai presto anche tu…” “Mi sembra di aver capito, ci sei arrivata finalmente…” “Arrivata dove…che dici…” “Potevi dirmelo subito, senza tanti giri di parole, vuoi che ti aiuti a trovare una mammana…ma hai sbagliato porta, sono un medico io…” “Appunto, sei un medico…potresti farlo tu…”. Feci fatica a raddrizzare i pensieri, quei pensieri azzardati, che già la vedevano cullata sul mio letto, la sua femminilità scoperta dolcemente, aperta con baci e carezze, goduta. Feci fatica si a tirarli su quei pensieri, prima rassegnati, per non averla più veduta, poi resuscitati dal suo profumo dietro la porta e adesso schiantati. E no, non poteva finire così la speranza di un sogno, non poteva finire così, con due gambe spalancate, con lo stupro a una vita. “Ma sei impazzita, ti rendi conto di cosa mi stai chiedendo…e poi…come dovrei farlo, dove dovrei farlo…” Si era coperta il viso con le mani, come si vergognasse. “Hai capito?!...secondo te cosa dovrei fare…” “Non lo so, non lo so…” “E poi io non ho mai praticato aborti…ma guarda che roba…” “Hai ragione…me ne vado…” Si alzò di scatto e con un moto di orgoglio raccolse se stessa. Gli impedii di andarsene, mettendomi fra lei e la porta, guardandola sentii gli occhi bruciarmi. Un ricordo di lacrime spegneva invece i suoi. “Si può sapere perché non vuoi tenerlo…” “Sono disperata…” “Dì la verità, è lui che non lo vuole…” “Lui non sa niente…” “Ma allora perché, non sei una ragazzina, sai come si fa…potevi pensarci prima…” “Non potevo pensarci, non avevo mai preso quella roba…” “Ho capito…comunque dovresti dirglielo…” “No, non voglio…aiutami tu, ti prego, nessuno deve sapere niente…voglio tornare quella di prima, libera, come se quella notte non ci fosse mai stata…” “E va bene, fammi fare una telefonata…” Chiedere aiuto a lui, pregarlo come si prega un santo, sentirlo vomitare la sua superiorità, firmargli una cambiale in bianco.
22 Mi faceva schifo, mi sarei sporcato, ma poi chissà, mi sarei lavato con profumo e sudore, anch’io avrei dimenticato tutto. ”Pronto…” “Pronto Walter, sono io, Marco…” “Senti senti, ma ti sembra questa l’ora…” “Scusami ma è una cosa importante…se hai cinque minuti…” “Guarda che mia sorella mi ha già raccontato tutto…a me non me ne frega niente delle vostre storie, ho altro cui pensare…” “Non si tratta di tua sorella…devo chiederti un favore, un favore grosso…” “Il luminare che chiede un favore…a me poi…” “Non è una cosa sulla quale scherzare…se una volta tanto riesci ad essere serio…” “Ammetterai che con te… a meno che tu non abbia cambiato idea…” “Non ho cambiato idea, non verrò mai a lavorare con te…” “A te i soldi fanno schifo, vero…” “Sempre lo stesso ritornello, mi hai stufato…ho sbagliato, non dovevo chiamarti…” “E va bene parla…ma sbrigati…” Mi preparai a ingoiare fiele, tanto schifoso fiele, fino a farmi scoppiare lo stomaco, non avevo altra scelta se volevo strappare il suo si. Mi fece parlare, fra uno sputo di veleno e l’altro, ancora un minuto e mi sarei impiccato. “Ti rendi conto di cosa mi stai chiedendo…” “Non mi dire che non l’hai mai fatto…” “Solo in casi eccezionali…e non per soldi, come pensi tu…” “Anche questo è un caso eccezionale…” “Va bene, io ti metto a disposizione quello che serve…e poi te la vedi tu…” “Mi vuoi umiliare, lo sai che non potrei mai…” “Già…tu sei un medico…” “Lo sapevo che ci saresti arrivato…” “Te la sei cercata…” “Hai finito?…” “Ho finito, rilassati…portamela domenica mattina…” “Ce l’hai fatta…ti ringrazio…sinceramente…” “Piuttosto…non crederai mica che l’abbia bevuta…” “Bevuta cosa…” “Che si tratta solo di un’amica…” Un’amica, quanta delusione, per me, in quella parola, non sapevo che farmene di un’amica, un’amica sudata e profumata, il cui sudore avrei voluto bere,
23 un’amica con le lacrime agli occhi, lacrime versate per un altro e che io non potevo asciugare. Un’amica che non avrei mai voluto che fosse un’amica. Non mi era mai successa una cosa simile, anche perché non sapevo neanche io cosa mi era successo. Prima di lei, col sudore nel naso, avevo sempre pensato a una doccia, il profumo mi era sempre piaciuto, ma sulla pelle asciutta, altre cose umide mi attiravano di una donna. Un’amica, non era certo un’amica che aspettava quel letto, così vicino al mio, così distante dal mio. Il tempo di un niente, avevo il cellulare ancora in mano, quando due braccia mi si avvinghiarono al collo, due frutti morbidi si schiacciarono sulla mia schiena e due labbra appiccicose trovarono la mia guancia. “Non saprò mai come ringraziarti, sei proprio un amico…” Un amico, certo, se mai mi fosse venuto un dubbio. Aspettai che fosse lei a lasciare la presa, poi mi sedetti sul letto, togliendomi la cravatta. “Non lo so perché l’ho fatto, sono sempre stato contrario…” “Anch’io sono sempre stata contraria…ma quello che è successo non l’ho voluto, te l’ho detto…” “Si fa presto a dirlo…potevi non prenderla quella roba…” “Hai ragione, ma avevo bevuto…e comunque è stata la prima volta…e sarà l’ultima, credimi…” “Me lo auguro per te…comunque adesso è inutile parlarne, quello che è fatto è fatto…il mio amico ti aspetta domenica…” “Accompagnami tu…” “Ma…” “Accompagnami tu, ti prego…” “Non ho voglia di rivederlo…hai sentito al telefono, si è fatto pregare…” “Accompagnami…ho paura…e poi…non ti va proprio di stare con me…” Mi venne incontro, lentamente, le dita di una mano nervose, un bottone della camicetta che si arrendeva. “Se…se vuoi…posso restare qui stanotte…” La guardai, l’amica era diventata una femmina e la femmina era la ricompensa che lei mi offriva, come se lei e il suo corpo fossero due cose diverse. No, non mi interessava il suo corpo, pronto per l’uso, me ne resi conto accarezzandole il seno, sentendo le mie mani scaldarsi, la mia mente, invece, raffreddarsi. Senza di lei, il suo corpo non mi interessava, era la prima volta che con una donna mi succedeva una cosa simile.
24 “No…è meglio di no…” “Perché…non ti piaccio…” “Non è questo, anzi…è che tu mi stai offrendo un ex voto…ma io non sono un santo, non ti ho fatto nessuna grazia…” “Ma io mi sento in debito…con te…” “E invece sei in debito con te stessa…” “Non capisco, che vuoi dire…” “Voglio dire che tu sola…lascia stare…lascia stare…” “Mah…un bacio almeno te lo posso dare…” “Certo…da amica…” Due seni fra le mani, il letto vicino, una femmina pronta, tutto quello che cercavo e invece niente. Mi sentii un cretino. La mattina mi si offrì come una donna sotto la doccia, calda e bagnata. Più che piovere, infatti, diluviava, ma a me sembrava che lasciandomi innaffiare avrei trovato il suo corpo già rimpianto, l’avrei trovato già pronto, perché con una donna, sotto la doccia, può finire in un modo soltanto. Non c’è tempo di pensare, in due, sotto la doccia, pensare come invece avevo fatto io vicino a un letto orfano, due seni nelle mani. E no, sotto la doccia sarei bollito con lei, la mente non mi avrebbe tradito. Ma poi, la mia mente, mi aveva veramente tradito? O mi aveva salvato? Il telefono non mi diede il tempo di cercare una risposta. “Pronto Marco, sono Marcello…Bonfanti…” “Bonfanti…ah si…Marcello, dimmi…” “Hanno portato mia madre in terapia intensiva…” “Ma sei sicuro, che cosa è successo?...con chi hai parlato…” “Con la caposala, è lei che mi ha chiamato…” “Ma che cosa è successo?...” “Ha perso conoscenza…ha detto che i parametri sono alterati…” “Ma quali parametri?...” “Non lo so, mi ha detto i parametri…vieni tu, ti prego…” “Il tempo di prendere la macchina, sono già in strada…” Quei due chilometri che mi separavano dall’ospedale mi sembrarono cento, come se il tempo si fosse fermato, più cresceva la mia ansia di arrivare, più la strada sembrava allungarsi. Non era la prima volta che provavo una sensazione del genere.
25 Ogni volta che qualche imprevisto bussava alla mia porta, i miei pensieri restavano orfani, non riuscivo più a guidarli, anzi, erano loro che guidavano me, portandomi in tanti posti meno che in quello in cui avevo fretta di arrivare. Mi era successo con Michela, quando la vidi sorridermi dalla passerella sulla quale sfilava. Poiché tutto mi aspettavo, tranne che una modella mi sorridesse in quel modo, mi attorcigliai talmente su me stesso che poi, per ritrovarla, dovetti appassionarmi alle sfilate di moda. Mi era successo dopo la telefonata di Odorici, quando passai non so quanto tempo a pensare come dirgli di no, mentre avrei voluto già essere da lui. E in fondo era quello che mi era successo con Alessandra, che chissà come avrei potuto nuovamente afferrare. L’unica volta che non mi era successo, adesso che ci pensavo, era stato con la brunetta, eppure era stata la prima volta che mi ero trovato in una situazione simile. Ma forse la colpa era stata di quella nebbia strana, nebbia di fiume, nebbia aromatizzata dal sapore della carne. L’imprevisto, chissà perché, mi faceva sbandare, come una macchia d’olio fa sbandare una macchina e dopo ogni sbandata mi ci voleva del tempo, per riprendere la strada. Dopo un giorno sprecato ci vuole almeno una notte per ritrovare l’alba e non è detto che il nuovo giorno sia come quello perduto. Avrei dovuto operare subito la madre di Marcello, avevo capito che era grave, che era inutile aspettare altri esami, quel macigno era mio e io avrei dovuto sollevarlo, ma le regole sono regole, l’anestesista comanda. Stavolta l’imprevisto non era un sorriso, una telefonata, due seni in mano o una puttanella da scopare, stavolta l’imprevisto l’avevo previsto, stavolta a sbandare era la mia coscienza, un testa coda pericoloso sull’olio delle regole, stavolta l’imprevisto non c’entrava niente con il collasso della mia mente. Quando ripresi a pensare ero fermo a un semaforo verde, fu un coro di strombazzate a farmi ripartire. Marcello mi aspettava davanti la porta della stanza vuota, il volto sfatto, la giacca sgualcita, un papavero appassito. “Come è andata…” “Come va in questi casi…” “Ce la farà?...” “Speriamo…ma è in rianimazione, non resta che aspettare…” “Ma perché non è stata operata prima…” “Il cuore, l’anestesia era a rischio…”
26 “Tu non ci credi che ce la farà, dì la verità…” “L’emorragia era seria, speriamo non si ripresenti…” Non so se la causa fu una nuova emorragia o l’ultimo morso di quel male avido a portarsi via la madre di Marcello, so solo che quella morte si portò via buona parte di me stesso o almeno buona parte di quello che io pensavo di essere. Ero sempre stato sicuro delle mie mani, della loro capacità di riparare qualsiasi danno, come ero stato sempre sicuro della mia mente, della sua determinazione nel rispettare la vita, costasse quello che costasse. Adesso, in poco meno di ventiquattro ore, sia le mani che la mente mi avevano tradito. Le prime non riuscendo a fermare quei rigagnoli rossi, la seconda facendomi accettare un cammino di morte. Cominciai a pensare di essere stato fregato da quella nebbia bianca, adesso che ci pensavo dovevo aver attraversato le mie colonne d’Ercole quella sera, non un casello d’autostrada. Dei giorni che seguirono non ricordo quasi nulla, è come se non li avessi vissuti, è come se un lungo sonno mi avesse preso a braccetto e mi avesse guidato come un cane da ciechi, fino a farmi risvegliare esausto, senza sapere il perché, alla guida di una macchina, sempre un casello da passare. Nel sedile accanto una ragazza profumata, nel cuore ancora il buio della notte, sulle dita il ricordo dei suoi seni, in gola parole frenate, in testa aghi roventi. Trecento chilometri, trecento rimorsi, qualche sorriso di lei, la ricerca di un possibile alibi. Un alibi che non serviva a Walter, che ci accolse con le braccia spalancate, che mi salutò come se il favore glielo avessi fatto io. “Non c’è niente da ringraziare…anzi…ricordati che qui un posto per te ci sarà sempre…” Ancora trecento chilometri, in due adesso, un silenzio assordante. Poi il pianto di lei, una sosta forzata all’autogrill. “Adesso va meglio…” Poi ancora le colonne, cioè il casello, sulla sinistra una trattoria, poi un pianerottolo con tre porte, la voglia di aprire la prima, la chiave nella toppa della seconda. Poi più niente. Il tempo non ritorna.
27
Il fossato
“Ma insomma, si può sapere che fine hai fatto?...” Marcello mi aveva chiamato più volte, la prima prestissimo, verso le otto, poi quasi ogni mezzora, strozzando il mio cellulare con la sua insistenza, costringendomi alla resa quando il tramonto era ormai cosa fatta. “Sono stato quasi sempre in sala operatoria, ho finito da poco…” “E va bene, ma è una settimana che non ti fai vedere…almeno la sera, al bar Centrale, potevi fare un salto…” Rimasi muto, la lingua legata, asciutta. “Lorenzi…Marco, mi senti?...” “Ti sento, ti sento, scusami…ma dopo quello che è successo…” “Che vuol dire dopo quello che è successo…” “Lo sai benissimo…tua madre…è stata colpa mia…” “Ma sei impazzito?!...di che colpa parli…del tuo coraggio, di questo si che dovresti parlare…” “Ma quale coraggio e coraggio…” “La stavano lasciando morire, tu almeno hai tentato…” “Dovevo operarla prima, fregarmene dell’anestesista…questo dovevo fare…” “Ma stai scherzando, guarda che mia madre erano mesi che era più di là che di qua…il rischio che ci lasciasse le penne durante un’operazione c’era…altro se c’era…l’anestesista ha fatto il suo dovere…” Le parole di Marcello furono come un brodino caldo, mi rimisero a posto lo stomaco, ma non la mente, perduta in chissà quale di quei seicento chilometri, andata e ritorno di un viaggio col vomito in gola. Forse della madre aveva ragione lui, in fin dei conti non avrei potuto fare altro, ma con Alessandra no, la ferita ancora sanguinava e il sangue cambiava continuamente colore, rosso vivo quando pensavo a lei, alla sua vita ritrovata, nero come la pece, quando pensavo all’altra vita perduta. Quale delle due vite contava di più? Avevo sempre pensato che le vite fossero tutte uguali, ma adesso il dubbio cominciava a corrodermi le budella. “Forse hai ragione, ma è la prima volta che…si…insomma…hai capito…” “Senti, non so se la cosa può consolarti, ma sai che ha detto Odorici a mio padre…gli ha detto che ci sarebbe voluto un miracolo e che tu ci sei andato vicino…che neanche lui avrebbe potuto fare di più, capito?...” “Ho capito, ho capito…Odorici mi sopravvaluta, da sempre…”
28 “Odorici sa quello che dice…a proposito, mio padre vuole conoscerti…se rinunci a fare l’eremita, sabato è l’occasione giusta…” “Veramente sabato…” “Veramente un corno, sabato i genitori di Fabio festeggiano trent’anni di matrimonio, ci sarà anche lui, con la fidanzata…finalmente la conosceremo…” “Veramente avevo pensato di…” “Penserai un’altra volta…e poi, uno nella tua posizione…ci sarà la crema della città, anzi, la crema e la panna…e poi basta, se dici di no, con me hai chiuso…” “Ma non è per dire di no, è che…” “Allora?!...” “Allora…allora va bene…” “Era ora, neanche i santi si fanno pregare tanto…” Io non volevo essere pregato, io volevo rimanere solo, volevo andare a correre, si, a correre come un cretino, lungo le mura, a rincorrere il profumo di Alessandra, il suo sudore. Correre si, anche per risvegliare il mio battito cardiaco assonnato. Da quella domenica solo odore di pulito sul pianerottolo, odore di pulito e la sua porta muta e così, giorno dopo giorno, senza il suo profumo, mi spegnevo. Cercavo un profumo, ne era arrivato un altro, anche questo inconfondibile. “Dottore, in reception hanno chiesto di lei…” “Chi è?...te l’hanno detto?...” “No, non ho chiesto, se vuole mi informo…” “Lascia stare, sto scendendo…ci vediamo domani…” “Ma domani non è il suo giorno di riposo?!...” “Hai ragione, ma che vuoi farci…la forza dell’abitudine…” “Se il numero quattordici si lamenta…” “Il numero quattordici…e dagli, quante volte ve lo devo dire…” “Ha ragione dottore, mi scusi, volevo dire l’avvocato Merici…se si lamenta, che faccio…” “Digli che sta sprecando il fiato, che tanto prima di lunedì non lo opero…” “Allora buonasera…e mi scusi…” “Niente, niente, buonanotte a te…” Feci le scale a piedi, lentamente, poi, una volta nella hall, mi infilai insieme ad altri nell’enorme porta girevole, mi ero già dimenticato che qualcuno mi stava aspettando. Il portiere mi acchiappò quando già cominciavo a masticare la nebbia, rientrare e respirare il suo Chanel fu un tutt’uno. “Che ci fai tu qui?!...”
29 “Niente, passavo per caso…” “Spiritosa…” Era elegantissima, un giaccone di nappa morbidissima, sbottonato, si apriva su un abito di maglia blu, corto e morbido, quanto bastava per esaltare le sue gambe. La scollatura, impreziosita da un serpentello di brillanti, appeso a un girocollo di oro bianco, era generosa, in grado di accontentare gli occhi più avidi. Capelli corti, sapientemente disordinati, punti luce sui lobi, un neo malizioso, labbra rosso corallo, solo una cosa mancava sul suo viso, mancava quel sorriso che, dall’alto di una passerella, mi aveva stregato. Si, perché appena mise in piedi il suo corpo, mi ricordai di quell’indossatrice, di quel fulmine lanciato mentre sfilava. “Se vuoi me ne posso anche andare…” “Non ti aspettavo, ecco tutto…” “E già, magari aspettavi quell’altra…” “Quell’altra quale?...che dici…” “Certo che non hai perso tempo…che credevi, che mio fratello non mi dicesse niente…” “Tuo fratello…per fortuna che dei fatti nostri non gliene frega niente…comunque, pensate quello che vi pare, ma quella è un’amica, solo un’amica…hai capito…” ”Allora potevi presentarmela…oppure, mentre mio fratello l’aggiustava, potevamo vederci…” “Dimentichi come ci siamo lasciati…anzi, che mi hai lasciato…e in che modo, poi…” “Che dovevo fare, ringraziarti?...” “Adesso basta, stiamo dando spettacolo…” In effetti il portiere, i gomiti appoggiati al bancone, guardava verso di noi con la faccia di uno appassionato del grande fratello. “Non mi hai neanche salutato…” “Ti invito a cena, ti va bene come saluto?....” Da Peperosa era tutto esaurito, ma il nome di Marcello fece spuntare, come un fungo, un tavolo per due, nell’angolo più intimo del locale. “Questo è sempre riservato…” “Grazie…” “Desidera la carta o faccio io, abbiamo del pesce freschissimo…” “Vada per il pesce…” “Per il vino ha preferenze…” “Quello che ci sta meglio…”
30 Lei intanto aveva spostato i fiori dal centro del tavolo e mi guardava sgranando gli occhi, come se trovasse in me qualcosa di strano, di diverso, qualcosa che non conosceva. Io invece la guardavo come per riscoprirla, per ricostruirla nella mia memoria. Incredibile, ma pochi giorni, neanche un mese, l’avevano come rimossa dai miei ricordi, ma evidentemente non dal mio cuore, che adesso infatti, davanti a quegli occhi, accelerava il suo battito. E così la sua immagine si affiancava a quella di Alessandra e nuovi battiti si aggiungevano ai vecchi, crisi cardiaca di un cuore sdoppiato. Quanti casini può combinare la nebbia. “Vedo che ti sei già ambientato, quel Marcello deve essere uno importante…” “Ho operato sua madre…” “Ho capito, il tuo solito miracolo…” “La madre è morta…” “Strano…” “Mi stai stufando, si può sapere che cosa sei venuta a fare…” “Hai ragione, sono una stupida…non credevo di darti così fastidio…” “Non mi dai fastidio, vorrei solo sapere se sei venuta per provocarmi…” “Io almeno sono venuta…tu invece, neanche una telefonata…” “Sei tu che te ne sei andata, che hai sbattuto la porta…” “Ah, sono stata io…tu decidi di cambiare città da un giorno all’altro, senza dire niente…e io sono quella che se ne è andata…” Il suo volto si era indurito, come se la pelle fosse diventata di plastica, anche le sue mani si erano irrigidite, una stringeva il tovagliolo, l’altra si era incollata al tavolo. “Ehi!...guarda guarda, ecco perché sei sparito dalla circolazione…” La mano che mi premeva sulla spalla era quella di Bruno, appiccicata a lui, con una mini da infarto, Marina, più indietro il capobanda sexi, quella del matrimonio annullato, uno schianto di donna, le curve sfumate dalle luci soft del locale. “Potevi anche farcela conoscere, mica ce la mangiavamo…” “Michela, ti presento Marina, Bruno e…e…si…” “Stefania…” “Giusto, Stefania…” “Perché non vi accomodate con noi…se poi arriva qualcun altro ci stringiamo…” “Grazie, ma io…appena mangiato qualcosa, devo ripartire subito…” “La stazione è a due passi, non c’è problema…” “Veramente sono in macchina…e trecento chilometri sono tanti…”
31 “In macchina, trecento chilometri, stai scherzando…con questa nebbia sarebbe un suicidio…e tu non dici niente…” “Bruno ha ragione, partirai domani…” Dopo qualche minuto arrivò anche l’artista, il cui nome naturalmente non ricordavo, la faccia raggiante sotto la barba incolta, gli occhialetti in equilibrio instabile. “Ragazzi, questa sera offro io, ne ho venduti due…due in un colpo solo…quattro svanziche, mica pizza e fichi…” “Quattro svanziche?!...” “Quattromila euro, niente male no?...” Quando il suo sguardo cadde su Michela, si stropicciò gli occhi e si sistemò gli occhiali. “E quella chi è …una nuova?…complimenti…” “Mi chiamo Michela, sono una sua amica…” “Un’amica?!...allora sei libera, io sono Mario, scapolissimo…” “Michela, alzati, fagli vedere quanto sei alta…” Bruno si rivolse a Michela come se l’avesse conosciuta da sempre, mettendola subito a suo agio, aiutandola con un braccio ad alzarsi. “Insieme sareste come l’articolo il…un po’ come con Vera…” Un sorriso le addolcì finalmente lo sguardo poi, piano piano, si lasciò catturare dalla spregiudicatezza di Bruno, dalle fanfaronate a sfondo artistico di Mario e dai miagolii di Marina, che strusciandosi come una gatta, cercava di intrufolarsi in ogni discorso. Marina detta coca, la memoria mi si accese all’improvviso e allora cominciai a scrutarla ogni volta che potevo, credendo alla fine di trovare, nella confusione dei suoi occhi e nel languore di certi suoi atteggiamenti, una qualche conferma della giustezza di quel soprannome. “No, per me niente dolce, grazie…” “Guarda che ti perdi una specialità, sembra che sia anche afrodisiaco, vero Marina?...” “Non sembra, è afrodisiaco…” “Se lo dici tu, tu di afrodisiaci te ne intendi…” “Piantala…” “Va bene, mi avete convinto, farò un’eccezione…” Al cameriere non parve vero, chinarsi su di lei, sbirciare nella sua scollatura, poggiare gli occhi sulle sue gambe. ”Di meno, di meno…grazie…” Non mi ricordavo di averla mai vista mangiare una fetta di torta, guai attentare alla sua linea, oppure si, una volta, ma a un matrimonio, la torta nuziale, per buon augurio.
32 Adesso, a parte la torta, stava bene in compagnia, il suo umore era in risalita, come se avesse dimenticato il motivo per cui era lì, come se io non fossi seduto allo stesso tavolo. E dire che se c’era una cosa che non mi era mai andata a genio di lei, era proprio la sua voglia di stare sempre da soli, voglia che, da me quasi sempre subita, aveva finito col rendere patologico il mio senso di solitudine. La solitudine, d’altra parte, è come quelle malattie subdole, dai sintomi poco riconoscibili, ma che, se trascurate, finiscono col diventare croniche e allora resta ben poco da fare, devi tenerti il male, le cure diventano palliativi. Quando decidemmo che s’era fatto tardi, il locale era praticamente deserto, i fiori sui tavoli addormentati, le candele più piccole della loro fiamma allungata. “Allora peccato per sabato…” “Sarebbe piaciuto anche a me, sarà per un’altra volta…” Le loro macchine, parcheggiate davanti al ristorante, sopravvissute, come sempre, alla rimozione forzata, sparirono in un attimo, inghiottite dalla nebbia, la stessa nebbia che mi fece faticare a ritrovare la mia, parcheggiata più lontano, dove la sosta era consentita. “Peccato che non si veda un accidente, avremmo potuto fare un giretto…” “Sono stanca, portami in un albergo…uno qualsiasi…” “Guarda che hai lasciato la macchina fuori l’ospedale…” “E allora portami in un albergo vicino all’ospedale…” “Senti, è inutile comportarci come dei cretini…se hai fatto tutti questi chilometri, sarà stato per parlare…o no?...” Aprì un po’ il finestrino, poi lo richiuse, tirò la gonna verso le ginocchia, quindi prese a rimirarsi nello specchietto di cortesia, inumidendosi le labbra, come le piacesse assaggiare il rossetto. “Allora, non mi rispondi…” “Più che per parlare, sono venuta per capire…” “Capire cosa, non c’è niente da capire…sono qui per lavorare, solo per lavorare, per fare il medico…in mezzo ad altri medici…” “Certo, che c’è da capire, sei qui da neanche un mese e già conosci mezzo mondo…e che mondo poi…dopo quindici giorni vieni da mio fratello per far abortire una in segreto…io, come se non fossi mai esistita…certo, c’eravamo lasciati male, come se poi, in tre anni, fosse stata la prima litigata…ma forse hai ragione tu, hai proprio ragione…non c’è niente da capire…” “Senti, è tardi…adesso vieni a dormire da me…” “Non ci penso nemmeno, scordatelo…” “Ho detto a dormire, solo a dormire…poi domani è il mio giorno di riposo, possiamo parlare con calma, a mente fredda…”
33 “Domani ho le prove…” “Allora sai che facciamo, ti accompagno, andiamo con la tua macchina…io poi torno col treno, che ne dici…” “Dico di no, voglio sapere dell’altra, di quella che hai portato da mio fratello…” “Se vieni a dormire da me ti renderai conto che non c’è nessun’altra…” “E va bene, se proprio ci tieni, vengo da te…ma a dormire e basta, sia chiaro…” “Chiarissimo, a dormire e basta…” Dormire e basta, una cosa assurda con lei vicino, ma che adesso non mi procurava brividi. Scendendo dalla macchina fu come se il ghiaccio mi stesse aspettando, tanto freddo fu il contatto con milioni di goccioline, pungenti come spilli. Ma forse, quella sensazione di gelo era dovuta al gran calore, che nel frattempo mi aveva riempito la testa e che la nebbia divorò in pochi istanti, risciacquandomi le idee, da troppo tempo impantanate nell’unto. Aveva ragione lei. Quando aprii la porta, restò per un po’ impalata sull’uscio, poi, dopo essere entrata, cominciò a guardarsi intorno, a girare qua e là, fermandosi alla fine davanti ai due letti separati, uno vivo, l’altro soffocato da un copriletto verde. “Volevi farmi vedere questo…” “Non ti sembra abbastanza…” “Va bene, vuol dire che non dorme qui…e poi per fare l’amore un letto è anche troppo, dovresti saperlo…” La notte si trasformò in una specie di labirinto del tempo, parole che rincorrevano se stesse, ragionamenti, pacati o violenti, ma che portavano sempre allo stesso punto, qualche accelerazione dei cuori, improvvise frenate delle menti. Le prime parole decise, taglienti, sparate dall’egoismo. “Io non posso lasciare il mio mondo…” “Io qui posso fare il medico…” “Ci sono altre alternative…” “Anche per te…” Poco dopo, come da copione, un bagno nell’orgoglio, nell’amor proprio. “Seppellirmi qui, vorrebbe dire rinunciare alle sfilate…” “Lavorare con tuo fratello, finirei col vergognarmi di me stesso…” Inevitabile un qualche sputo di veleno. “Ma allora di me non te ne frega proprio niente…” “Perché, a te di me?...” Le ore passano, la nostalgia lascia qualche graffio, affiora il rimpianto, gocce di sincerità.
34 “Possibile che hai dimenticato tutto…” “Non è vero che ho dimenticato…” A notte fonda un po’ di luce, di speranza, mi venne voglia di riattaccarmi a lei, ma forse era solo il digiuno. “Adesso mi credi, non c’è nessun’altra…siamo due stupidi, possiamo ricominciare…” “Ricominciare va bene, ma non così…” ”Troveremo una soluzione…” Alla fine un passo indietro, inatteso, forse non voluto. “Allora ricominceremo quando l’avremo trovata…la soluzione…” Quel diluvio di parole ci aveva travolto, l’alba ci sorprese esausti, sfiniti, affogati dalla nostra stessa saliva, reliquia salata del nostro interminabile sproloquio. Chissà, se avessimo avuto la forza di fermarci, se avessimo avuto la voglia di spogliarci, i due letti avrebbero potuto unirsi, qualcosa di noi, non solo i nostri corpi, avrebbe potuto ritrovarsi. Ma quella forza, quella voglia, non l’avevamo avuta. Magari perché non avevamo niente da ritrovare. I due letti rimasero divisi, un fossato profondo fra di loro, la nostra stupida cocciutaggine in quel fossato. Ma forse era meglio così, le nostre anime, appese a un chiodo, avrebbero avuto il tempo di asciugarsi, di scoprire il loro vero colore. Le persiane erano rimaste aperte, cosicché il mattino poté entrare nella stanza, abbagliandola con la sua luce ritrovata, della nebbia, infatti, neanche il ricordo, ma un sole esplosivo a testimoniare l’inaspettata vittoria del mare. Tirava vento. Mi ero svegliato prima di lei e così, per la prima volta, la vidi alzarsi da un letto vestita, un letto che per giunta non avevo diviso con lei. Il vestito di maglia, già corto, arruffandosi in vita, aveva lasciato le sue gambe scoperte. Lei, muovendosi per sistemarlo, forse non si era accorta che la parte più calda di lei mi stava bruciando gli occhi. O forse se ne era accorta, forse l’aveva fatto apposta. “Sei sicura di voler partire…” “Ho le prove, te l’ho detto…” “Non vuoi proprio che venga con te…” “Sarebbe inutile, le prove andranno per le lunghe…” “Durante il viaggio potremmo pensare a una soluzione, non è detto che io debba invecchiare con Odorici…”
35 “Io sicuramente non potrò invecchiare come indossatrice...” “Potremmo fare i pendolari…per un po’, a turno…che ne dici?...potrebbe essere questa la soluzione…” “Non lo so, prendiamoci un po’ di tempo…dobbiamo pensarci bene, capire perché stavamo insieme…” Aveva ragione lei, dovevamo pensarci bene, fare quello che finora non avevamo avuto tempo di fare o che non avevamo voluto fare, leggere dentro di noi. Come se fosse facile. Il letto è una colla che attacca la carne e con noi quella colla aveva funzionato, forse anche troppo. Adesso avevamo capito che, per stare insieme, c’erano altre cose di noi che dovevano essere attaccate e che per riuscirci quella colla non bastava, c’era bisogno di un altro tipo di colla. Ce l’avevamo? Arrivammo all’ospedale passeggiando lungo le mura, tanto per svegliarci meglio, a volte distratti, a volte allontanandoci, d’un tratto quasi attaccati, bevendo odori freschi di muschio e di terra. “Però, col sole sembra un’altra città, proprio bella…” La macchina si era nascosta nell’ampio parcheggio. “Non ti ricordi dove l’hai messa…” “Che ne so, ieri sera era quasi vuoto…mi sembra vicino all’ingresso…” E infatti era lì, poco distante dalla portineria, in un cono d’ombra, infreddolita e ancora bagnata dall’umidità della notte. Ci pensò lei a scaldarla col suo calore intenso. Dopo essersi accomodata sul sedile, senza curarsi di sistemare quel vestito di maglia ribelle, accarezzò il volante con voluttà, quasi volesse ricordarmi come accarezzava me. Poi mise in moto, chiuse con forza lo sportello e dopo un indugio di molti secondi, tirò giù lentamente il finestrino, guardando verso di me, come si fosse dimenticata di dirmi qualcosa di importante. “Almeno è servito per capirci, no?...” “Io spero che sia servito anche a qualcos’altro…” “Anch’io lo spero…” “Allora ciao, a presto…” Al momento dei saluti ci si ammorbidisce sempre. “Magari ci sentiamo…” “Mi faccio vivo io…” “No, casomai ti chiamo io…”
36 Il fastidio che mi procurò quel casomai, detto col sorriso sulle labbra, non l’avevo mai provato, un fastidio strano, che non riuscivo a localizzare, che mi faceva male, non ero abituato ad aspettare, a non avere io l’iniziativa. Ma forse aveva ragione lei, dovevamo leggere dentro di noi e a me di tempo ne serviva tanto, non erano ammesse scorciatoie. O forse non aveva ragione lei, forse lei si sentiva già vicina a una conclusione. Leggere il libro di me stesso, il libro più ostico, soltanto pensare di aprirlo mi procurava un senso di angoscia. Scomparsa la macchina dopo il primo incrocio, mi voltai verso l’ospedale. Al di là dello spropositato cancello, le palme facevano bella mostra di se, ma a differenza del primo giorno, non mi sembrarono esattamente quelle di un’oasi.
37
Gioco di società
La saracinesca della tintoria era quasi completamente abbassata, ma la luce era ancora accesa e si vedeva lo scopettone con lo straccio andare di qua e di là sul pavimento. Bussai senza troppa convinzione, pensando fosse rimasta soltanto la donna delle pulizie. “Chi è?...” “Sono Lorenzi…” La saracinesca si alzò quasi subito, stritolando i timpani con un cigolio insopportabile, ma liberando il volto rotondo e sorridente della proprietaria. “Oggi devo fare tutto io, la donna è malata…” “Mi scusi signora Giulia, ma non ce l’ho fatta a passare prima…” “Non si preoccupi dottore…per lei, ci mancherebbe…” Posò lo scopettone, si tolse i guanti di gomma e azionò quella specie di teleferica cui sono aggrappati i vestiti. “Ecco qui, un abito e tre camicie, tutto come nuovo…” “Non so come ringraziarla…” Mentre contavo i soldi per pagare, tirò fuori un piccolo oggetto dall’enorme cassetto del bancone. “A proposito dottore, lei sa che prima di lavare controlliamo, in una tasca della giacca abbiamo trovato questo…” Visto da lontano, sul palmo della sua manona, poteva sembrare un accendino. “Sicuro che l’avete trovato nella mia giacca?...io non fumo…” “Ma dottore, non è un accendino…” Non era un accendino infatti, era una chiavetta elettronica. Per tutto il percorso mi torturai le meningi cercando di capire come quella chiavetta potesse essere finita nelle mie tasche, poi, non trovando di meglio, arrivai alla conclusione che in ospedale qualcuno doveva aver scambiato la mia giacca con la sua. Nello spogliatoio, infatti, quasi nessuno usa il proprio armadietto, gli attaccapanni gonfi e il disordine sono molto più comodi. Concentrato nella soluzione dell’enigma, avevo intanto continuato a girare nell’estenuante ricerca di un parcheggio. Quando lo trovai, il bar Centrale era talmente lontano che, per essere sicuro di ritrovare la macchina, mi segnai il nome della strada.
38 La macchina di Marcello era invece parcheggiata proprio davanti ai portici, protetta da un contrassegno passepartout in bella mostra sul parabrezza, come del resto molte delle le altre macchine parcheggiate lì. Solo il posto riservato agli handicappati era vuoto. Il locale era come al solito stracolmo di crema e muoversi era un’impresa, anche perché lo spazio davanti alla pasticceria era stato colonizzato da panettoni infiocchettati, cesti faraonici, scatole e scatolette in confezione regalo e da una vetrinetta, che sembrava quella di una gioielleria, tanto era piena di vassoi, porta bon bon, anche d’argento, vasi di cristallo e altri oggetti impreziositi da cioccolatini, frutta candita e altre prelibatezze. Visto che era ancora novembre, il Natale dei ricchi presentava per tempo il suo biglietto da visita. Chi ha tempo, non aspetti tempo, tanto più se ha soldi da spendere. Le poltroncine nere, nell’angolo riservato, erano invece, stranamente, quasi tutte vuote, c’erano infatti solo Marcello, Marina e Vera. Dell’ultima, ovviamente, non ricordavo il nome. “Era ora…Marina, Vera, guardate chi c’è…” Fu Marcello il primo ad accorgersi di me e a togliermi dall’imbarazzo di aver dimenticato il nome della maga. “Scusatemi, ma faccio degli orari impossibili…” “Dì piuttosto che hai altro da fare…” “Giusto, la fata dove l’hai lasciata…guarda che lei e Bruno c’hanno detto tutto…” “La fata?!…” “Si, la fata, la miss, come la vuoi chiamare…” “ Ma è una mia vecchia amica, passava da queste parti, mi è venuta ha trovare…” “Non ce la racconti giusta, dì piuttosto che non ce la vuoi far conoscere…” “Che stupidaggine, è partita ieri…perché poi non dovrei presentarvela…” “Allora falla tornare sabato, c’è la festa, lo sai…” Vera si alzò pigramente, venendo a sedersi vicino a me. “Guarda che io so tutto, vedo tutto…non per niente mi chiamano la maga…” “Sai tutto?…ma non c’è niente da sapere…” “La fata è la tua donna…” Marina sospirò, accavallando le gambe. “Dai, portala alla festa…a me le belle donne piacciono più degli uomini…” “Ti credo, a furia di stare con Bruno…” Era allegro Marcello. “La fata è la tua donna, confessa…”
39 Sarà stata la suggestione per quello che aveva detto, ma mi sembrò di vedere negli occhi di Vera una luce intermittente, psichedelica, un dilatarsi delle pupille strano, un non so che di troppo nero, in quelle pupille. “Dai, portala…” Anche Marina adesso si era seduta vicino a me. “Non c’è che dire, è dalla prima sera, le attiri tutte come il miele…” La voce di Bruno, arrivato in quel momento, mise fine al siparietto, si era accorto dei tavoli deserti. “Ho la gola secca, non avete ancora ordinato niente…” “Abbiamo ordinato il solito, ma non per te, non t’aspettavamo più…” “Già, oggi mi ci mancava solo Milena, mi ha fatto diventare scemo…io li vendo i computers, non ci sto mica dentro…” “Un altro computer, ma che ci fa…” “Deve fare un regalo, ha detto…un portatile, di quelli piccoli…” La chiavetta, Milena, il computer, un flash mi accese la memoria. Milena, le sue mani nella borsetta, il suo pugno chiuso, quelle sue labbra a sfiorarmi, qualcosa che cade nella mia tasca. La curiosità di capire cominciò a sequestrarmi i pensieri. Chissà cosa c’era in quella chiavetta, sicuramente non il suo indirizzo o il suo numero telefonico, troppo costosa una chiavetta, per essere usata come un biglietto da visita. Con la mente intrecciata, non mi ero accorto che intanto era arrivata anche Stefania. “Per lui devo essere proprio trasparente…” “Scusami Stefania, sono fuso…” Gli aperitivi arrivarono in quel preciso momento, quando ormai non ci speravamo più. “Ma…siete in sei…” “Bravo, visto che sai contare, portane altri due, prima che si faccia notte però…” “Mi scusi, ma con questo casino…” Un ordine perentorio fece sussultare il cameriere, che avendo riconosciuto quella voce, si girò ossequioso. “Portane otto… e una bottiglia, che ci siamo anche noi…” Insieme a Mario, tirato e laccato, atletico, abbronzato, bracciale d’oro, cellulare in mano, era arrivato lui, il capo. “Fabio, che sorpresa, t’aspettavamo per sabato…” “Sono venuto per i vecchi, devo pensare al regalo…” Mi accorsi che mi aveva già adocchiato. “Sono Marco, piacere…”
40 “Fabio…mi sei simpatico…” “Lui è il dottor Lorenzi, il braccio destro di Odorici…” “Un chirurgo, perfetto…però per voi sarebbe stato meglio uno psicologo…” “Ci volevi tu per far correre il cameriere, lo spumante è già arrivato, brindiamo, che ci siamo tutti, finalmente…” “Veramente manca Milena…” “Ah…di lei te lo ricordi il nome…” “Lei non conta…sarà a caccia, come al solito…” Quelle parole aumentarono la mia smania di scoprire cosa c’era su quella chiavetta, per cui cercai di inventarmi una scusa per non cenare con loro. Niente da fare. “Se sei dei nostri, non puoi disobbedire al capo…” Sul pianerottolo c’era il suo profumo, stavolta asciutto, nessuna gocciolina di sudore a evaporare nell’aria. Aspettai che la lampada a tempo si spegnesse, per vedere se la sua luce era accesa e quando una linea luminosa, tenue, disegnò l’irregolare fessura, mi avvicinai con le orecchie spalancate alla porta, in cerca di un qualche rumore, che mi parlasse di lei. Soltanto qualche soffio, forse lo sfogliare delle pagine di un libro, forse lo sfregarsi delle lenzuola con la sua pelle. Aprii allora la mia di porta, facendo suonare le chiavi e una volta dentro cominciai a muovermi come un elefante in una cristalleria, cercando di comunicarle la mia presenza inquieta, sperando in chissà che cosa, magari di trovarmi nuovamente coi suoi seni nelle mani. Mi fossi mosso come un ladro, nel silenzio più assoluto, non avrei fatto altro che aggiungere silenzio al silenzio. La sua vicinanza invisibile mi aveva già privato della curiosità di far parlare quella chiavetta, di scoprire per quale motivo una ragazza, molto disinvolta, ma appena conosciuta, avesse pensato di intrufolarsi subito nella mia vita, in un modo a dir poco originale. Qualche momento di vuoto, qualche pensiero incompleto, poi il computer, accendendosi, riaccese la mia smania e le mie orecchie, chiudendosi, lasciarono posto ai miei occhi, perché si aprissero. E gli occhi, più che aprirsi, si spalancarono, visto che la chiavetta, più che una chiavetta, si rivelò per quello che era veramente, una piccola cornucopia gravida di fotografie. E che fotografie, tutte sue, di Milena, anche se il viso era sempre da indovinare, una volta velato dai capelli, un’altra ingabbiato dalle dita, un’altra ancora nascosto da un vestito che si sfila.
41 Alcune foto erano romantiche, come lo sguardo malinconico da una finestra o l’abbraccio a un pupazzo di pelouche, altre maliziose, con una calza che sale o una camicetta che si apre, altre infine eccitanti, come quella di un corpo che si spoglia davanti allo specchio, che è nudo sotto la doccia, come quella di una mano sul ventre, sulla parte più calda e accogliente del ventre. Un viso quasi negato e poi un corpo sbandierato, offerto, come se l’effetto cercato fosse quello di solleticare la fantasia, per poi far correre veloce il desiderio, di scaldare la mente, per poi far bollire il sangue. E alla fine, per dar vita alle foto, ecco un numero magico, non la combinazione di una cassaforte, ma dieci cifre, quanto serve per far squillare un cellulare. Insospettabile Milena, tecnologia, fantasia e classe, un genio del marketing, dietro la voglia di vendere se stessa. Incredibile Milena, nella fiera del bar Centrale, suo lo stand più chic. Senza che me ne rendessi conto, la mia mano già stringeva il cellulare e un dito dell’altra imprigionava quel numero, che mi ballava davanti agli occhi. Dopo quel rifiuto ad Alessandra e il freddo con Michela, anche Milena poteva andar bene, anzi andava sicuramente bene. Troppo lontano, infatti, ma ancora vivo, il ricordo di quella brunetta. Provai allora a chiamare una, due volte, ma sempre la segreteria telefonica, poi un’altra ancora, finché non decisi di spegnere il computer e mettermi a letto. L’idea che Milena stesse in un altro di letto e non nel mio, cominciava a darmi fastidio, ci avrei buttato via la notte per capire il perché. Ma forse era ancora il digiuno, per fortuna mi addormentai quasi subito. Ero arrivato alla funzione in chiesa praticamente per ultimo, vista la mia abitudine di parcheggiare dove non si rischia la multa e mi ero fermato vicino all’acquasantiera, in piedi, accontentandomi di vedere qualcosa quando la folla degli invitati si sedeva o si inginocchiava. Ultimo ad entrare, fui così il primo a uscire, rimanendo impalato finché non fui avvistato da Marcello e prelevato per la tradizionale foto di gruppo. “Vera dai, vieni vicino a noi…” “Mario, già sei basso, se poi ti nascondi…” “Marina dov’è finita?...” “Siamo qui…ah…ciao, io mi chiamo Stefania…” “Non c’è più bisogno che me lo ricordi…” Stefania mi lanciò un’occhiata fra l’ironico e il provocatorio, poi mi prese per un braccio, spostandomi, per far posto a Marina.
42 Approfittai di quel movimento per guardare indietro, per cercarne un altro di sguardo, quello di Milena, curioso di scoprire nei suoi occhi che colore ha la complicità, quel tipo di complicità. Chi cerca trova, dice il proverbio, ma non dice se quello che si trova è quello che si cercava, così lo sguardo che io trovai era quello che lì non avrei mai cercato, uno sguardo debole, uno sguardo morbido, uno sguardo che mi aveva un giorno intenerito e che adesso si specchiava in quello duro, metallico, di Fabio. Certo che lo conoscevo bene quello sguardo, era stato l’unico a strapparmi un certo tipo di si. L’unico a farmi dire un certo tipo di no. “Finalmente, ti presento Alessandra…” “Ciao Alessandra…” “Ciao Marco…” Dopo attimi di ghiaccio, accompagnò quel ciao con due baci disinvolti, sulle mie guance, due baci distanti dalla bocca, due baci da amica. Che fosse chiaro per tutti, come era chiaro per me, che i suoi baci da amica già li avevo provati. “Ma allora vi conoscete…” “Certo, siamo vicini di casa…” “Più che di casa, di mansarda…” Una tempesta di flash mise tutti a tacere, poi il rompete le righe, finché un andirivieni di macchine di lusso non riuscì a catturare, uno dopo l’altro, tutti gli invitati. Mi trovai così, senza volerlo, in macchina con Bruno e Vera. “Veramente ero venuto con la mia di macchina…” La villa, circondata da alberi secolari, da fuori non si vedeva. Solo dal lungo fiume, buttando gli occhi oltre il muro di cinta, una fascia luminosa di una ventina di metri, in parte macchiata, in parte nascosta da rami e foglie, lasciava indovinare un immenso salone a vetri, una specie di gigantesco acquario, per pesci molto speciali. Comandava il mare quella sera, luna e stelle erano libere di partecipare alla festa. Il cancello di ingresso in ferro battuto, stile fiorito, era aperto a ventaglio sul giardino, più che un giardino, un parco. Fiaccole a terra disegnavano la rampa d’accesso, macchine da gran sera spopolavano in una specie di anfiteatro, sulla porta due livree imparruccate invitavano gli ospiti a liberarsi di cappotti e pellicce.
43 Dominavano i colori scuri, come si addice ad una serata di gala, anch’io ero in scuro, fuori e anche dentro, visto il mio umore, frustato dal sorriso di Alessandra. Appena dentro, l’aria che si respirava era quella di un museo, tanti erano i quadri, le statuette e i soprammobili, che facevano bella mostra di sé, riempiendo pareti, vetrine e tavoli antichi di una sala quadrata, nel suo centro così alta da avere per soffitto un lucernario d’altri tempi, con vetri colorati, come quelli delle chiese. Pagato questo pedaggio all’arte, altri tavoli, altre esposizioni, attendevano di essere ammirate nelle stanze apparecchiate per il rinfresco. Non ricordo quante erano, anche perché Marcello mi trascinava dall’una all’altra, presentandomi con enfasi a cavalieri e commendatori, a damigelle e dame ingioiellate, neanche fossi un nobel della medicina. Ancora non avevo capito se quella di Marcello nei miei confronti era solo una simpatia spontanea o se c’era dell’altro, magari ammirazione, perché no, visto come ci teneva a mostrarsi mio amico. E il perché di tutte quelle sviolinate? Non che la cosa mi turbasse più di tanto, ma qualcosa sotto doveva pur esserci, che ne so, una qualche forma di interesse. In fin dei conti eravamo quasi due estranei e infatti non mi aveva ancora detto che cosa faceva nella vita, né mi aveva dato occasione per chiederglielo. Era ricco, ma questo si vedeva. Ma forse questi pensieri erano solo frutto di bioritmi inversi, anzi, quella sera sicuramente era così. Mi risvegliai sulle note di un valzer, davanti a me la figura imponente di un signore severo, in doppio petto gessato, intorno eleganza e signorilità. “Papà, ti presento Marco…il dottor Lorenzi…” “Piacere giovanotto, la ringrazio per quello che ha fatto per mia moglie…” “Che ho tentato di fare…” “Niente modestia, Odorici mi ha parlato di lei in termini entusiastici…” Ecco, anche i peana di Odorici, il mio orgoglio non ne avvertiva più il bisogno, non come una volta, almeno. “Odorici mi sopravvaluta, l’ho già detto a Marcello…” Già, Marcello, ebbi la sensazione che il padre ignorasse volutamente lo sguardo del figlio. “Balle, Odorici non sopravvaluta nessuno…” Un cameriere imbalsamato si intrufolò fra di noi con un vassoio scoppiettante di bollicine, fatto apposta per sciogliere ogni residua forma di austerità. “Ragazzi, i medici possono dire quello che vogliono, ma io allo champagne…a questo di champagne, non rinuncerò mai…prosit…”
44 “Cin cin…” “Io ci annegherei nello champagne…” “A chi lo dici…” Due statue di cera, inghirlandate, capelli scolpiti dalla lacca, prima immobili come cariatidi, si unirono così al brindisi, finendo per impadronirsi del vecchio, ingabbiandolo con moine e complimenti di ogni genere. “Non faccia il modesto commendatore, che noi sappiamo tutto…” Marcello sembrò prendere la palla al balzo. “Marco, tanto perché tu lo sappia, quelle lì non esagerano, mio padre è una vera potenza…qualunque cosa ti dovesse servire, è chiaro?…” “Ti ringrazio, ma per il momento non credo di aver bisogno di niente…” ”Guarda che insieme al padre di Fabio…non c’è cosa che loro…” Una serie di applausi scroscianti, provenienti dal giardino, coprì le parole di Marcello, risucchiato come me, dallo sciamare di tutti verso il museo di ingresso. “Che sta succedendo, non vedo…” “Niente, gli sposi stanno salutando…” “Ma come, se il ricevimento è appena iniziato…” “L’aeroplano non aspetta…e poi da qui all’aeroporto ci sono più di cento chilometri…” La festa bruciò in fretta, troppo ricca per essere vera. Così, finito l’inventario di abiti e gioielli, consumati tutti i possibili brindisi, soddisfatti i palati più esigenti, spente le arsure, ci ritrovammo con chi aveva voglia di restare, nel salone di sopra, quella specie di acquario, il luogo ideale per dar sfogo a un finale ancora da inventare. Fra i pochi o i tanti, a seconda dei punti di vista, c’eravamo mischiati anche noi, non tutti però, perché mancavano all’appello Milena, Bruno e Marina. Chiesi di Bruno e Marina, in realtà per sapere dell’assenza di Milena. “Quei due si saranno infilati in una camera da letto…a loro le feste fanno sempre lo stesso effetto…” “E Milena?...” “Non si vede da qualche giorno…pensavamo che oggi…” “Lei è fatta così, ogni tanto scompare, ormai non ci facciamo più caso…” Milena, quelle foto mi facevano il solletico, digiuno o non digiuno, cominciavo ad averne voglia. Me la spense Alessandra quella voglia, chinandosi verso di me, quasi volesse ricordarmi i suoi seni. “Non avrei mai pensato di trovarti qui…” “Se è per questo, nemmeno io…”
45 “Posso spiegarti…” “Non devi spiegarmi niente…” “Non vuoi sapere…” “Non voglio sapere niente…” Non era voluto quel mio tono duro, ma non riuscivo a cambiarlo. “Io ci tengo alla tua amicizia, non ho mica dimenticato…” “Non capisco quello che vuoi dire…” “Adesso sai perché, per chi l’ho fatto…” “Sono affari tuoi, solo affari tuoi…” Adesso sudava un po’, adesso il suo odore era quello che avevo conosciuto, adesso la fasciava un abito da sera, ma io la rivedevo dentro una tuta bagnata, adesso era lei. “Allora siamo amici…” Fabio stappò la milionesima bottiglia di champagne. “Ancora?!...” “Era solo per svegliarvi…e per proporvi un gioco…” “Ottima idea, giochiamo alla posta privata…” “Si, così finisce come l’ultima volta, a parolacce…” “Decido io, si gioca all’assassino…” “All’assassino…e che gioco sarebbe…” “Ve lo spiega Stefania…” Già Stefania, in abito da sera stretch, si indovinava praticamente tutta, uno schianto. “Allora, è semplicissimo…si danno le carte, chi ha l’asso di picche è l’assassino, chi ha l’asso di cuori è il detective…il gioco comincia quando il detective esce e si spegne la luce…” “Si spegne la luce, interessante…e per quanto rimane spenta?...un’ora?...” “Comincia a piacermi questo gioco…” “Ti pareva…” “Mario, un’occasione così non ti ricapita, Vera, se non lo sai, ha paura del buio…” Stefania mi investì con uno sguardo provocante, come se le fosse venuta un’idea maliziosa e volesse farmelo capire. “Allora, dove eravamo rimasti?...” “Che si spegne la luce…” “Vai avanti Stefania…” “Allora, l’assassino ha il tempo di una canzone per scegliere la sua vittima…” “E quando l’ha scelta che fa, la bacia?...” “Certo, il famoso bacio dell’assassino…” “Voglio essere io l’assassino, so già chi uccidere…”
46 “Insomma, la fate finire o no…” Adesso ero io a guardarla, a chiedermi come mai una donna così fosse sola e senza nessuno che le facesse la corte, almeno per quello che avevo visto io finora. “Dunque, la vittima emette un urlo e a questo punto si riaccende la luce…il detective entra e inizia a indagare…” “Perfetto…le carte, se non vi dispiace, le do io…” “Vera, se l’asso di cuori viene a te, non vale…” “E perché a lei no…” “Strano, c’è ancora chi non sa che sei una maga…” Sorrisi, ammiccamenti, battute, con l’idea di quel gioco Fabio era riuscito a ravvivare e coinvolgere anche chi era già un tutt’uno con la sua poltrona. “Che ne dite, chiamiamo anche Bruno e Marina…” “Ma allora non hai capito niente…” “Cominciamo dai…dai le carte…” “Io intanto scelgo la colonna sonora…” “Fabio, per piacere, vai a dire ai camerieri di non salire…” “Avvocato, come vorrei essere uccisa da lei…” “Lo farei con molta delicatezza…” E si, la voglia di tutti si era proprio riaccesa, mentre la mia si stava improvvisamente spegnendo, dopo aver visto come Fabio stringeva Alessandra e come lei si modellava per lui. Decisi di andarmene. “Marco, ma che fai…” “Devo andare, domani devo essere in ospedale prestissimo…fra l’altro ho lasciato la macchina vicino la chiesa…” Dell’ospedale non era vero, ma l’avevo detto in modo convincente, Marcello ci aveva creduto. “E va bene, ma finiamo il gioco dai, poi ti accompagno io…” “Subito dopo il gioco però…” “Promesso…” “Ce l’ho io…l’asso di cuori ce l’ho io…” L’annuncio di Mario fu, a dir poco, trionfante. “Perfetto, così l’assassino può stare tranquillo…bene che vada faremo l’alba…” “Come sei spiritoso…” “Si comincia, esci…” La luce si spense lasciando il palcoscenico alle ombre, ombre subito in movimento, ombre deformate dal chiarore proveniente da fuori, chiarore velato, miscela imperfetta di fiamme, lampioni riflessi e raggi lunari.
47 Alcune sagome scivolarono sulle pareti fino a scomparire, altre misero in scena uno strano balletto, fatto di poltrone piene, poi vuote, poi nuovamente, ma diversamente, piene. Una canzone cominciò a scandire i secondi, coprendo sussurri, rumore di passi, apertura e chiusura di porte. Ah…che sarà…che sarà… che vanno sospirando nelle alcove… Mi sembrò di vedere l’ombra di Mario inseguire quella di Vera, quella di Fabio confondersi con quella di Alessandra. che vanno sussurrando in versi e strofe… che vanno combinando in fondo al buio… Mi sembrò di vedere alcune ombre, prima lontane, avvicinarsi, altre, prima vicine, allontanarsi, altre ancora, ma non molte, rimanere ferme. La voglia di sesso si respirava nell’aria, affogando la gola, insieme al fumo delle sigarette. Sesso da rubare. Ah…che sarà…che sarà… che gira nelle teste e nelle parole… Non mi accorsi invece, non subito almeno, dell’ombra che si era avvicinata a me. che vive nell’idea di questi amanti… che cantano i poeti più deliranti… “Che fai, stai pensando alla tua fata lontana?...” “Stefania…” “Finalmente, l’hai imparato il mio nome…” “Non stavo pensando a nessuno…” “Nemmeno a Marcello…” “A Marcello, che dici…” “State sempre insieme, siete proprio una bella coppia…” Ah…che sarà…che sarà… quel che non ha decenza…né mai ce l’avrà…
48 Intanto, scivolando, si era impadronita di un angolo della poltrona, schiacciandosi fra il bracciolo e le mie gambe, la testa girata verso di me, il suo naso che quasi toccava il mio. Non profumava come Michela o Alessandra e nemmeno di carne, come quella brunetta, profumava semplicemente di donna. “Devi essere ubriaca, che c’entra Marcello…” “Mah, sai, ormai non mi sorprendo più di niente…” “Si, devi essere proprio ubriaca…” “Non più di te, senti…” Mi alitò sul viso, portando le sue labbra pericolosamente vicine alle mie. “D’accordo, non sei ubriaca…ma non vorrai mica insinuare che Marcello…” “Io non voglio insinuare niente…” Non so come, ma una mia mano cominciò a scaldarsi fra le sue gambe, in quella specie di limbo, lasciato libero dalla sua gonna. “Bravo, parliamo un po’ di noi…” Si mosse appena, ma quanto bastava per invitarmi a un contatto bollente. Accettai il suo invito all’istante e, mettendoci del mio, mi intrufolai subito fin dove voleva farmi arrivare. Ah…che sarà…che sarà… quel che non ha vergogna né mai ce l’avrà… La sentii aprirsi, offrirsi alle mie dita indiscrete, dita presto inumidite dalla sua voglia. Intanto le sue labbra aperte si erano appiccicate alle mie, la sua lingua era impazzita. Un’alta marea improvvisa, anche la sua mano, adesso, sapeva cosa fare. quel che non ha giudizio… L’urlo della vittima soffocò i nostri respiri affannosi, per fortuna le luci opposero resistenza alla fretta di Mario. “Accidenti, sono tre volte che vado su e giù per il corridoio, finalmente l’ho trovato l’interruttore…” ”Perché, si era spostato?...” “Stupido, vorrei vedere te al buio…” Tutte le ombre, o meglio, quasi tutte, ebbero così il tempo di trovarsi un posto, vecchio o nuovo che fosse. Noi ci alzammo dalla poltrona con fare discreto, restando un po’ in piedi, per poi conquistare un divano, solo dopo che le luci si erano riaccese.
49 Anche adesso che aveva guadagnato centimetri di divano, che il suo corpo poteva rilassarsi, Stefania tardava a riacquistare un equilibrio, che non fosse apparente. Me ne ero accorto subito, quel contatto intimo l’aveva scossa dal di dentro, le mie dita avevano avvertito dei fremiti violenti, come se cercasse di trattenersi, di frenare un orgasmo, che non chiedeva di più per scatenarsi. “Scusami, ma…” “Ma quali scuse, ancora qualche secondo e…” “L’ho sentito, peccato…” “E tu?...” “Anch’io, sarebbe bastato un niente…” “Allora troviamola insieme una scusa per andarcene…” “E gli altri, che penseranno…” “Niente, faranno finta di niente…anche se a qualcuno dispiacerà…” “Alludi?...” “Alludo…” “Mah!...” “Non c’è bisogno di nessuna scusa, avevo già detto a Marcello che dovevo andarmene, domani mattina devo essere in ospedale prestissimo…” “E lui si è offerto di accompagnarti a prendere la macchina, ho sentito…gli dirò che sono stanca, che ti accompagno io…” Una mano un po’ curiosa e la complicità fra me e Stefania era già totale, neanche fossimo due adolescenti alla loro prima esperienza, quando uno dei due finalmente trova il coraggio di arrivare dove l’altro lo aspettava. Stefania era una donna matura, sapeva quello che faceva, con lei non ci sarebbero state complicazioni né conseguenze, aveva voglia, mi aveva scottato, magari aveva intuito la mia di voglia e aveva fatto di tutto per tirarmela fuori. La mia voglia certo, che cominciava a fare i conti con quei letti ancora divisi, con i seni di Alessandra, con la lontananza di Michela e con le foto di Milena. Decisi di non farmi sfuggire l’occasione. Ma non sempre prendere una decisione basta, la mano di Marcello mi tirò su dal divano trascinando insieme a me Stefania, che si era attaccata alla mia mano, quasi avesse paura di perdermi. “Vieni con me presto…” “Si può sapere che ti prende, cosa succede…” “Vieni anche tu, se vuoi, ma cerchiamo di non dare nell’occhio…” Nella stanza si respirava a malapena.
50 Bruno era seduto su una poltroncina, la testa fra le mani, la cinta dei pantaloni penzolante, gli ultimi bottoni ancora slacciati, la giacca e la cravatta sotto di lui, schiacciate dal suo fondoschiena. Marina era sul letto, le gambe abbandonate, coperta, neppure tanto, da un lenzuolo bagnato di sudore, che accompagnava i movimenti a stantuffo del suo petto e si appiccicava, scolpendolo, al suo ventre depilato. Era nuda, la bocca spalancata nel tentativo di catturare l’aria, la carne tremante, scossa da sussulti improvvisi, gli occhi sbarrati, lo sguardo incollato al soffitto. Sul comodino, vicino a un cellulare, una scatoletta, di quelle usate per portarsi dietro le pasticche, vuota, sporca di cipria, una cipria speciale. “Aprite quella finestra, subito…” Stefania rischiò di inciampare sugli indumenti di Marina, sparsi davanti alle tende. “Si può sapere cosa sta succedendo…” Era arrivato anche Fabio e si era piazzato sulla porta. “Chiudila la porta!...” La chiuse Marcello, dopo aver tirato dentro Fabio, allungandogli un braccio. “Allora, come sta?...” “Non c’è tempo da perdere, chiamate il 118…” “Si, il 118, subito…” “Mah…così lo sapranno tutti…” “Porca puttana, ho detto di chiamare il 118…” “Non possiamo, la portiamo noi all’ospedale…e tu alzati!...siete sempre i soliti stronzi…” La voce di Fabio era priva di emozioni e Bruno si alzò, come obbedendo a un ordine. “Ti assumi tu la responsabilità…” “Vuoi darci una mano o no…” “Certo…” “E allora fai uno sforzo, cerca di capire…” Certo, cercai di capire e ci riuscii subito, il perbenismo ha un odore inconfondibile, la facciata deve essere sempre lucente, costi quello che costi. Avvertii dei conati di vomito, ma mordendomi lo stomaco, feci quello che potevo fare. “Pronto, Mariani…sono Lorenzi…” “Si, dottore, mi dica…” “Sono in arrivo con un codice rosso, overdose…prepara tutto…” “E il 118?…loro sono attrezzati…” “Niente 118…e massima discrezione, mi raccomando…”
51 “Non capisco…” “Capirai, non ti preoccupare…” “Se lo dice lei…” “Mariani, mi raccomando…” Fuori la serata era limpida, fredda e limpida, della nebbia nemmeno il ricordo. Anche il mio cuore era freddo, ma non limpido e la mia mente non mi riconosceva, la nebbia dentro il cranio cominciava a essere fitta, troppa e troppo fitta. “Come sta?...” Stefania mi aveva aspettato nello stesso posto dove mi aveva aspettato Michela. “Meglio, è fuori pericolo, ma poteva andare peggio…” La presi per mano, era calda. “Mi devi accompagnare a prendere la macchina…” “Certo che ti accompagno…domani mattina, però…” “Che vuoi dire?...” “Che adesso andiamo da me…o da te…dove vuoi tu…” “Andiamo da me…” Non sopportavo più l’idea di quei letti divisi. Ma i letti restarono divisi, i sedili della macchina si offrirono per primi. Non ci fu neanche bisogno di abbassarli, le nostre bocche e le nostre mani erano troppo impazienti, fecero tutto loro.
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Domande e risposte
Stefania fermò la macchina proprio davanti alla mia, dopo una serie di manovre degne di un fuoriclasse del volante. “Così non hai neanche il tempo di bagnarti…” L’acqua veniva giù violenta, infatti, con cattiveria, come se volesse ripulire il mondo, vendicarsi di tutto e di tutti. Vendicarsi del fiume e della sua nebbia, vendicarsi del mare e della sua aria azzurra, vendicarsi di me, di quello che ero adesso, del Marco che, in meno di un mese, aveva cancellato l’altro di Marco, il Marco delle certezze. Le certezze certo, la certezza che la vita non ci appartiene e che nessuno, meno che meno un medico, può strapparla via. La certezza che una donna può bastare, anche perché, per capire una donna, a volte, non basta una vita e allora, finché a letto funziona, per capirsi c’è sempre tempo. La certezza che la donna non è qualcosa da pagare, quello che una donna può veramente dare, non è mai in vendita. Il Marco delle certezze queste cose, giuste o sbagliate, le aveva ben chiare in testa. Quel Marco lì lottava contro l’aborto, quel Marco lì non era mai andato a puttane, quel Marco lì si godeva la storia con la sua fata, chi per primo si liberava dell’abito di scena, aspettava l’altro. Via il camice bianco e spenti i riflettori, il posto dell’appuntamento era sempre lo stesso. E il matrimonio? Forse una logica conseguenza e allora, un domani, chissà, magari avendo tempo per fare dei figli, chissà. Possibile che un tipo di nebbia diverso, un diverso tipo di carne, un profumo misto a sudore, una sequenza di foto maliziose, la voglia di una femmina, fossero riuscite a frantumare, in meno di un mese, quel blocco di granito? Possibilissimo, il granito in fin dei conti è duro ma fragile, l’acido lo scioglie friggendo, una martellata ben data gli spacca l’anima. Il sudore è acido, anche mischiato al profumo, la sua azione è corrosiva, si attacca alle mucose ingannandole, scava nella mente annullando la ragione, due corpi, quando si fondono, sudano, l’amore fuso è il trionfo del sudore.
53 Io non sudavo, Michela non sudava, Michela profumava e basta o forse erano i nostri corpi che si univano senza fondere, la fusione è un’altra cosa, è la fusione che li fa sudare. La carne, quando ti cerca, è morbida, calda, umida, ma il cervello è ancora più morbido, non resiste ai suoi colpi, mascherati da carezze. La carne di Michela non mi cercava, aspettava la mia e a me questo piaceva o, più che piacermi, lo trovavo comodo. Nebbia diversa, sudore, carne vogliosa, troppo, anche per le certezze di Marco. “Che fai, non scendi?...meglio di così…” “Scendo, scendo, grazie…” “Grazie, solo grazie, mi saluti così…” “Hai ragione scusami, è che stavo pensando, è stato bellissimo…” Cercai di dare credibilità alle mie parole baciandola e infilando una mano fra le sue gambe. Tremò un po’. “Allora quando ci vediamo…” “Quando vuoi…” “Quando vuoi tu, tieni…” Aprì lo sportellino del portaoggetti e mi consegnò un mazzo di chiavi. “Ma tanto ci vediamo al bar…” “Certo, ma a me piacciono anche le sorprese…però prima mi devi telefonare…” “Che vuoi dire?...” “Che non sempre sono sola…” Non chiesi di più, troppo presto per essere geloso. “Dimentichi un particolare…” “Cosa?...” “Non so dove abiti…” “Giusto…” Dopo aver rovistato a lungo, tirò fuori dalla borsetta una minuscola agendina, segata in due da un biglietto da visita. “Eccolo finalmente, è l’ultimo, devo farmene fare degli altri…” Gli diedi subito uno sguardo, rimanendo a dir poco sorpreso. “Così tu saresti…” “Quello che c’è scritto…” “L’amministratore delegato dell’Arcobaleno spa, quella che sta costruendo i nuovi reparti dell’ospedale, un’impresa importante…” “Appunto, quella…il proprietario è il padre di Fabio…” “Però…e Fabio?...normalmente certi posti restano in famiglia…”
54 “Non so che dirti, chiedilo a lui…” Mi decisi ad aprire lo sportello. “Allora a presto…” “Mi saluti così…” Mi avvicinai alle sue labbra. “La tua mano, fammela sentire ancora…” Chiusi lo sportello, il diluvio ci isolava dal mondo. Odorici non era di buon umore, lo avevo capito già prima di entrare in sala operatoria, ma che avesse anche il coraggio di farmi delle osservazioni, dopo i casini che aveva rischiato di combinare, questo no, non me lo sarei mai aspettato. Certo, le mie mani avevano fatto fatica a seguirmi, ma tutto sommato, se l’intervento era riuscito, il merito era soltanto della mia volontà di tentarle tutte. Lui invece avrebbe richiuso, per lui non c’era niente da fare. “Allora Lorenzi, un chirurgo non può portare i propri problemi in camera operatoria…non ti avevo mai visto così indeciso…” “Veramente professore…” “Ti avrei sostituito, capita…non è un problema…” La chiusi lì, anche se ci ero rimasto veramente male. “Nervoso il capo eh?!...” Mariani aveva la faccia di chi la sa lunga e che non vede l’ora di raccontarla. “Troppo lavoro, troppo stress…neanche lui è d’acciaio…” “Io non credo che sia solo per il troppo lavoro, secondo me c’è dell’altro…” “E che altro ci sarebbe, sentiamo…” “A lei dottore non è giunto niente all’orecchio?...” “Mariani, per cortesia, taglia corto, che oggi non è aria…” “Le dice niente questo nome, Gironi…” “Gironi…no, non mi dice niente, chi è questo Gironi…” “Era il primario di chirurgia, prima di Odorici…” “Non esistono più i primari…” “Va bene, ma ci siamo capiti…” “Ci siamo capiti, e allora?...” “E allora, e allora…si vocifera che sarà il primario di chirurgia due…” “Chirurgia due?!...” “Sono solo delle voci, ma per me sono più che fondate, con l’ampliamento ci sarà un nuovo reparto di chirurgia…” “Sei sicuro?...” “Ho detto che sono delle voci, ma mia moglie lavora alla Asl…”
55 “E questo Gironi, se prima non era considerato all’altezza…” “La politica fa di questi miracoli, questi e altri…” La caposala mi venne incontro trafelata, ponendo fine all’arzigogolo di Mariani. “Dottore, c’è l’architetto Ravasi che chiede di lei…” Pronunciò quel nome, Ravasi, con enfasi, come si trattasse di un’autorità. “L’architetto Ravasi?...” Mi venne in soccorso Mariani. “Il figlio del cavalier Ravasi, Fabio, era con lei ieri sera quando…si insomma…” “Ah Fabio, certo, Fabio…per cortesia, gli dica di aspettarmi, il tempo di cambiarmi e scendo…” Scendevo sempre le scale a piedi, per sentirmi subito libero, odiavo infatti quei finti dialoghi stiracchiati, quei saluti di maniera, che rendevano i sette piani in ascensore una specie di recita indigesta. La hall dell’ospedale poi era una specie di cubo di cristallo per cui, atterrando lì, ci si sentiva già fuori. Il blocco ascensori era invece più interno, lontano dall’uscita. Invece di contare i gradini quella sera mi trovai a ripensare alle congetture di Mariani, alle sue considerazioni sui miracoli della politica. Pur cercando di non dargli peso, non sempre la storia si ripete, non potevo non pensare agli ultimi tre anni, al purgatorio nel quale mi ero fritto per non aver voluto colorare il mio camice. Anche allora era andata come Mariani adesso elucubrava. Un vice con i colori bene in mostra, un direttore che non si piega, la truppa che si schiera, un direttore che se ne va, il vice che sale sul trono. E me ne sarei andato anch’io se l’unica mia alternativa non fosse stata la voglia che Walter aveva di imbarcarmi sulla sua nave, una nave che non faceva per me. Mi augurai con tutto il cuore che Mariani stesse fantasticando, cosa poco probabile conoscendo il tipo, chiacchierone ma non fanfarone, capace anche di tenersi abbottonato, come la sera prima con la storia di Marina. Malgrado l’ora, nella hall c’era ancora un sacco di gente, ma di Fabio nemmeno l’ombra. “L’ho mandato fuori, voleva fumarsi una sigaretta…” E infatti Fabio era fuori, in piedi, la sigaretta fra l’indice e il medio, il collo della camicia bianca sporgente da quello di un cappotto attillato, la testa avvolta in una nuvoletta blu, che si mischiava col fiato gelato dal freddo pungente. Sullo sfondo i lampioni tristi dell’ospedale.
56 Una scena da film. “Come mai da queste parti?...è tanto che aspetti?...” “Quasi un’ora, finita la sigaretta me ne sarei andato…” “Ero in sala operatoria, volevi parlarmi?...” “Volevo ringraziarti per la storia di Marina…nessuno ha saputo niente, un bel lavoro, veramente…” “Però abbiamo rischiato grosso…” “A volte è necessario…” “Se lo dici tu, il mio dovere era quello di chiamare il 118…” “Il dovere, che parola grossa, riempie la bocca…io so solo che dovevamo fare in modo che non si sapesse cosa era successo e che ci siamo riusciti…” “Mah, per me questa è solo ipocrisia, perbenismo…” Aveva da poco finito la sigaretta e già se ne era accesa un’altra. “Se ancora non l’hai capito, qui funziona così, da sempre…” “Dì un po’, sei nervoso?...” “Perché?...” “Ti sei acceso un’altra sigaretta…” “Hai ragione…” La buttò via, schioccando le dita, facendola diventare una lucciola. “Va bene, salutami Marina…piuttosto, come sta?...” “Bene, ma una volta o l’altra finisce che ci lascia le penne…è tutta sballata, come quell’altro…” “Vuoi dire Bruno…” “Si lui…fra noi la coca si respira nell’aria, ma quei due esagerano…” “Fra voi chi…” “Voglio dire nel nostro ambiente…anch’io ogni tanto una sniffata me la faccio, ci può stare…” Il cellulare gli scoppiò fra le mani. “Scusami…” Si allontanò per una decina di minuti, tornando poi con passo veloce, come avesse urgenza di dirmi qualcosa. “Mi devi fare un favore…” “Anche due, se posso…” Risposi in automatico, come si fa fra amici di lunga data. “Mi devi dare un passaggio a casa, mi serve una macchina…” “Sei a piedi?...” “Si, la mia l’ho portata a fare il tagliando, pensavo di non aver niente da fare stasera…” “Non c’è problema, magari passiamo anche al bar Centrale, così ci facciamo un aperitivo…”
57 Non mi rispose subito, fece un numero sul cellulare, si allontanò verso il parcheggio e quando tornò indietro sembrava sudato, malgrado il freddo. Era entrato in uno stato di agitazione fisica, si muoveva a scatti, come se gli fosse capitato fra capo e collo qualcosa di atteso, di desiderato, ma nel momento sbagliato. Si accese un’altra sigaretta, ma stavolta però non glielo feci notare, sarebbe stato inutile, visto come la mordeva. “Allora?...” “Meglio di no, preferisco che mi accompagni direttamente a casa, ho fretta…” “Allora sai che ti dico, prenditi la mia di macchina, a me domani non serve…” “E se poi ti serve?…” “Domani sono di riposo, dormirò tutto il giorno…sono distrutto…” Tirò fuori il portafoglio, tirò fuori un bigliettino poi, dopo aver indugiato con lo sguardo, come per contare i soldi, se lo rimise in tasca. “Va bene, mi prendo la macchina e ti lascio al bar, lì qualcuno che ti riporta a casa lo trovi…” “Perfetto, così ci scappa anche l’aperitivo…” “Io non entro, ho fretta, te l’ho detto…” Mi lasciò all’inizio dei portici, come se non volesse farsi vedere, un comportamento strano, anche se io ero l’ultimo a poter giudicare, in fondo che ne sapevo io di Fabio, praticamente niente. In quei pochi passi sotto i portici cercai di capire in quale brodo mi stavo cuocendo. La sensazione dei primi giorni, quella di essere capitato nel classico giro di gente bene, ricca, inseguita dalla noia, ma tutto sommato spontanea, magari un po’ snob, ma simpatica, stava ora lasciando il posto ai primi pensieri in controluce, al sospetto di aver messo i piedi, anziché nel brodo, in un pantano. Pantano o pozzanghera che fosse, resta il fatto che non mi sembrava di essermi sporcato, anzi avevo cominciato a sguazzarci, prima con la storia di Alessandra, poi con il prurito per Milena, infine giocando sulla la pelle di Marina, in mezzo quel freddo provato per Michela. E l’averci sguazzato era la cosa che adesso mi inquietava di più. Stefania ecco, con lei non era stato uno schizzo di fango, con la sua voglia di carezze mi aveva riconsegnato all’amore più tenero, dimenticato da sempre, anche se era stato il primo. Arrivato davanti all’ingresso del bar fui tentato anch’io di non entrare, poi ci ripensai, meglio il pantano che una nuotata in solitudine.
58 Certi tipi di fango fanno bene alla pelle e poi il prurito per Milena non mi era passato e la voglia di Stefania mi bagnava ancora le mani. Sembrava che tutti non stessero che aspettando me, tutti quelli che c’erano naturalmente. Nessuno nominò Fabio, si parlò soprattutto di Milena. “C’è nessuno che l’ha vista o perlomeno che l’ha sentita…” Nessuno l’aveva vista, nessuno l’aveva sentita, nessuno l’aveva chiamata. “Questa volta è stata via più del solito…” Presi l’occasione al volo, per saperne di più. “Perché, va fuori per lavoro?...” “Per lavoro?...certo, lei dice per lavoro, pubbliche relazioni…” “Perché, dove lavora?...” “La madre è proprietaria di alcuni alberghi sul litorale, i migliori, quattro e cinque stelle…” “Se mi dai il numero del suo cellulare, provo a chiamarla io…” Vera aveva già in mano un’agendina. “Se sei una maga, indovinalo…” Mario lo scrisse su un pezzo di carta. “Lo sai a memoria eh?…” “Sei gelosa?...” “Lo sai che lei è la mia consulente per il computer…” Prima che Vera lo afferrasse, il foglietto rimase sul tavolo per poco più di un attimo, ma feci lo stesso in tempo a leggere le prime cifre del numero. Anch’io sapevo a memoria il numero del cellulare di Milena, ma non era quello che aveva scritto Mario. “Se lo date anche a me, a volte anch’io sono in difficoltà col computer…” “Puoi chiedere a me, guarda che anch’io ci capisco abbastanza…” Stefania aveva voglia, ne ero sicuro, feci in modo che fosse lei a darmi un passaggio, senza dire che avevo prestato la macchina a Fabio. Andammo a casa sua, i letti, da me, li avremmo avvicinati un’altra volta. Piangeva Stefania. La testa sul cuscino, girata verso di me, i capelli sciolti a coprirle una guancia e il collo, un braccio fuori della coperta, l’altro abbandonato. “Scusami, ma non ci riesco…” “La colpa è mia, dovevo capirlo prima…” Certo che dovevo capirlo prima. La casa di Stefania era una bomboniera per due, due gli ingressi, due le camere da letto, due i bagni, due le poltrone in salotto, per due il divano davanti la televisione.
59 Due le sdraie, due le sedie intorno a un tavolo tondo, per due il dondolo sul terrazzo. Due i volti sorridenti, due i corpi abbracciati, due le mani che salutano, sempre loro due in tutte le foto incorniciate, piccole e grandi, sparse qua e là in ogni angolo, perfino sui mobili della cucina e sul frigorifero. La casa di Stefania era una bomboniera per due, una bomboniera per lei e Milena. “Milena è la mia migliore amica…” Adesso capivo che Milena non era solo un’amica, adesso capivo perché Stefania si apriva alle carezze e mi cercava con le mani, adesso capivo perché il suo ventre si chiudeva all’amore. Adesso però non capivo più niente di Milena e meno capivo di lei, più lei mi si insinuava nella mente. “Ma io ti desidero, credimi…ti voglio…” “Devi dare tempo al tempo…l’hai lasciata tu o ti ha lasciato lei?…” “Non ci siamo lasciate…” “Allora scusami tu, ma non riesco proprio a capire…” Mi si avvicinò dopo aver scansato la coperta, mi baciò sul petto, poi lentamente si mise sopra di me, strofinando il suo corpo sul mio, portandomi nuovamente lontano. “Dai riproviamo…” Ci mise anche l’anima, prima scaldandosi, poi piano piano cominciando a sciogliersi, alla fine allagandosi. Ci misi l’anima anch’io, l’anima e qualche altra cosa. Riuscii a prendermela qualche attimo primo di sentire la mia volontà squagliarsi. La sua di volontà, l’aveva già abbandonata. Perché il suo matrimonio era stato annullato, perché viveva con Milena, chi era veramente Milena, c’era stato qualcuno o qualcuna prima di Milena? E se con Milena non si erano lasciate, perché nuovamente il desiderio di un uomo, per ritrovare cosa? E poiché era impossibile che gli altri non sapessero della sua storia con Milena, perché quel suo attaccarsi a me davanti a tutti? Perché, perché, perché? La mia testa era piena di perché, eppure non riuscivo a farle nessuna domanda, non riuscivo a far altro che guardarla, provando qualcosa che non avevo mai provato a letto con una donna. Mi ero commosso, si, commosso fino al midollo.
60 La commozione per averla fatta risentire femmina, la commozione per aver ravvivato quel corpo da dentro, quella commozione aveva di fatto cancellato la mia voglia di sapere. “Non mi ero sbagliata, poteva succedere solo con te…” “Non è merito mio, sei tu che sei stata eccezionale…” “Tu hai pensato a me, non a te…” “Pensando a te, ho pensato anche a me…non mi ricordo di un’altra volta così…” Era ancora sopra di me, rilassata, leggera, il suo petto a scaldare il mio, il respiro ancora affannoso, gli occhi vivi, le labbra modellate da un sorriso profondo. “Promettimi che lo rifaremo…” “E Milena, m’hai detto tu che non vi siete lasciate…” “Promettimelo…” “Non mi hai risposto, e Milena?...” “Non stiamo insieme per il sesso, non siamo lesbiche…” “Che vuoi farmi credere…” “Non voglio farti credere niente, certo che qualche volta lo facciamo, ma non siamo lesbiche…” “Allora non capisco…” “Siamo libere, tutto qui, anche lei l’avrebbe…” “Ho capito…cioè, non ho capito, ma non importa…ti prometto che lo rifaremo…” “Lo vedi, solo con te poteva succedere…” Stefania e Milena, due donne, due misteri, ma le donne, si sa, sono tutte un mistero. Il mistero più mistero era perché tutte e due, in un modo o nell’altro, avessero puntato su di me. Decisi di non pensarci più, o almeno non subito, troppe le domande in cerca di una risposta. Stefania mi piaceva, Milena mi intrigava, siamo due donne libere aveva detto Stefania e niente è più contagioso della libertà, magari mi stavo liberando anch’io. Già, perché chi ero io? Ero quello di adesso o quello di prima? O magari un altro ancora? Questa si che era una bella domanda, una domanda che non poteva restare senza risposta, se una risposta esisteva. Se una risposta esisteva, non mi bastò quella notte per trovarla.
61 “Se rivuoi la tua macchina devi venirtela a prendere da Peperosa…” Era Fabio certo, ma nella sua voce c’era qualcosa di sconosciuto, un tono che non gli apparteneva, come se la stesse imitando la sua voce. E quando ci incontrammo da Peperosa, anche nel suo sguardo mi sembrò di vedere qualcosa di strano, qualcosa che mi ricordava lo sguardo di un ammalato fuori della sala operatoria, prima di essere addormentato, quando cerca di nascondere la paura. Gli chiesi se si sentiva bene. “Mai stato meglio…” Mi rispose così anche in chiusura di serata, dopo essersi imbottito di fumo e di alcool. “Dai monta che ti accompagno a casa…” “Lascia stare, lo accompagno io…” Vera lo prese sottobraccio, ce n’era bisogno. Rientrando incontrai Alessandra sul pianerottolo. “Stavo scendendo, ho dimenticato le sigarette in macchina…” “Se vuoi ti accompagno…” “Se ti va certo, magari ci facciamo anche due passi…” “Vada per i due passi, anche se sono distrutto…” “Sei stato di guardia?...” “Perché?...” “Non ho visto la tua macchina…e poi ti avrei sentito rientrare, mi ero portata a casa del lavoro, sono stata sveglia fino a tardi…” Non era stata con Fabio, non era lei l’impegno della serata. “Si sono stato di guardia…” Non lo so neanch’io perché risposi con una bugia.
62
Casomai
Mi ricordo che era di domenica, l’ultima di marzo o la prima di aprile, una giornata calda, troppo calda per la presentazione delle collezioni autunno inverno. La mia storia con Michela era cominciata quindi con l’euro nelle tasche, non per niente il primo regalo che le feci fu un borsellino dal prezzo stratosferico. Tre anni e mezzo di storia quindi, una storia normale, ricca di certezze e poi a lei piaceva essere la donna di un medico, a me piaceva essere l’uomo di una indossatrice. Ce n’era abbastanza, anche di più, per un amore tranquillo. E di tranquillità avevamo bisogno, perché i ritmi della nostra vita in comune non ci appartenevano, troppo diversi i nostri impegni, una candela quasi sempre accesa i miei, fuochi d’artificio i suoi. Avevamo così imparato presto ad aspettarci. Certo, ogni tanto qualche sbalzo di umore, è fisiologico. “Che cazzo dici, non ti capisco, mio fratello è un medico come te…” “Cazzo, cazzo, quando parli di tuo fratello ci metti sempre di mezzo un cazzo…certo, è laureato in medicina, ma un medico è un’altra cosa…” Ogni tanto qualche eclissi della ragione. “Domani ci vai da sola al dopo sfilata, in mezzo a quella mandria di culatoni…” “E tu da domani ti cerchi un’altra con cui scopare…” Ma le eclissi, per fortuna, sono eventi rari e fra un’eclissi di sole e una di luna, sono tante le giornate d’oro e le notti d’argento. Non avrei mai potuto immaginare, quindi, un freddo così improvviso. Certo, avevo sbagliato, l’avevo fatta grossa, avrei dovuto parlarle della proposta di Odorici, era il minimo che avrei dovuto fare. Forse una soluzione l’avremmo trovata insieme, prima di decidere e adesso non ci troveremmo a inseguirla, in affanno, con la frittata servita in tavola. Quello che adesso mi era chiaro è che non avevo fatto nulla per evitare lo sbaglio, anzi, più ci pensavo e più mi convincevo che non mi era passata neanche per l’anticamera del cervello l’idea di mettere in discussione la mia scelta. Come se si trattasse di una questione solo mia, come se scendere dal letto per andare a comprare le sigarette e non farsi più vedere, fosse una cosa normale, che ci può stare e non una tragica barzelletta.
63 E dire che se quello che avevo fatto io l’avesse fatto lei, il mio orgoglio sarebbe andato in frantumi, sarei scappato via senza neanche raccogliere i miei pezzi. E magari l’avrei presa anche a schiaffi. Lei invece si era sfogata con la porta e poi mi era venuta a cercare, anche se io non me ne ero voluto accorgere. Chi ero prima, chi ero adesso, chi stavo diventando. Una cosa era certa, mi stavo rosolando. Possibile che un po’ di bagni nella nebbia avessero lavato via le croste di una vita? Possibile che adesso ogni femmina, con la sua carne in vendita o con il suo sudore, con le sue foto o con i suoi segreti, riuscisse ad accendermi i pensieri, come mai mi era capitato da quando stavo con Michela? Anzi, come non mi capitava più dai giorni delle fantasie. Se una risposta esisteva dovevo trovarla, a costo di consumare le notti. Se una risposta non esisteva, dovevo inventarmela, a costo di consumare neuroni. Non si può stare davanti a uno specchio senza riconoscersi, meglio allora sputarsi in faccia. Decisi così di telefonare a Michela. “Pronto, pronto, mi senti?...” “Ti sento, non urlare…” “Non mi sembrava…” “Non me lo aspettavo…eravamo rimasti che avrei chiamato io…” “Che casomai avresti chiamato tu…” ”Appunto…casomai…” Nella sua voce c’era qualcosa che mi sfuggiva, era come se quella mia chiamata se l’aspettasse, ma non così presto. Forse anche lei si stava rosolando, solo più lentamente. “Senti, prima di tutto vorrei chiederti scusa, ammetto di aver sbagliato…” “Mamma mia, credevo fosse impossibile…” “Impossibile cosa?...che io potessi sbagliare?...” “No, che tu potessi ammetterlo…” “Non ho voglia di scherzare…” “Figurati io…” No, non si stava rosolando, quel figurati io l’aveva buttato lì con una durezza da brividi. “Senti, stasera sono di guardia, ma domani sono libero, posso venire io da te…”
64 “Venire tu…e a fare cosa…” “Voglio parlarti, a mente fredda, con calma…” “Perché, l’altra volta come abbiamo parlato, a mente calda?…se vuoi farti una scopata, scordatelo…” “Non voglio farmi una scopata…” “E allora, di cosa dobbiamo parlare…hai forse trovato una soluzione?…” “Possiamo provare a trovarla insieme…” “Mah…le mie idee non sono cambiate, comunque se proprio ci tieni…” “Ci tengo…dove ci vediamo?…diciamo verso mezzogiorno, anche prima…” “L’atelier sta ancora lì…a mezzogiorno va bene…” Iniziai il viaggio ascoltando la radio, come quando si parte per una vacanza e con la musica si cerca di ingannare il tempo, di accorciare la strada. Ma quello stato di apnea mentale durò poco, ci pensò il telefonino con la sua mandolinata. “Ciao, alla buonora…” “Sono in macchina, ho la radio accesa…” “Accosta, che ti devo parlare con calma…” “Sono in autostrada, ma ho il viva voce…” “In autostrada?....” “Allora non hai parlato con tua sorella…” “Io parlo sempre con mia sorella, ma che c’entra…” “C’entra, sto venendo da lei…” “Vi siete già rimessi insieme, ci avrei giurato…” “Avevamo litigato, non c’eravamo lasciati…” “Va bene, come ti pare, sono affari vostri…comunque, visto che sei in arrivo, vediamoci anche noi, a quattr’occhi si parla meglio…” “Non credo che avrò tempo, vorrei andare a fare un giro…” “Ho capito…solo mezz’ora…” “Non hai capito niente…dimmi di che cosa si tratta…” “Visto che con te non c’è niente da fare, sto cercando di acchiappare Lami, lo conosci?...” “Lami, quello del San Carlo, chi è che non lo conosce…ma io che c’entro…” “Potrebbe aprirsi una prospettiva…il San Carlo è il San Carlo…” Certo, il San Carlo è il San Carlo. “Una prospettiva, non vedo come…” “Ho in cura la moglie di un pezzo grosso…” Quel grosso detto da lui aveva gonfiato il telefono. “Già, dimenticavo i tuoi metodi…”
65 “Sono gli unici che funzionano, da sempre…comunque per ora il problema è ancora Lami…ma se riesco a convincerlo quel posto potrebbe essere tuo…” “Come mai tutto questo interesse nei miei confronti…” “Cerca di scendere dal pero…” “Poi dici che degli affari miei e di tua sorella non te ne frega niente…” “Se questa occasione ti si fosse presentata prima…prima che ti chiamasse Odorici, voglio dire, l’avresti accettata?…” “L’avrei accettata certo…” “E allora?...cos’è cambiato?...” “Con Odorici ho preso un impegno…e io gli impegni…” “Tu gli impegni li mantieni, certo…ma guarda che Odorici potrebbe fare la stessa fine di tre anni fa…” L’aveva detto con il tono perentorio di chi sa tutto e di più. “Se sai qualcosa, sputala…” “Non so niente, cosa dovrei sapere…” “L’ampliamento dell’ospedale è quasi finito, si parla di una chirurgia due, del ritorno del vecchio primario…” “Hai visto, la storia si ripete, vedrai che andrà a fare il don Chisciotte da un’altra parte…se tu vuoi continuare a fare il Sancho Panza, affari tuoi…per quanto mi riguarda, amici come prima…” Quelle parole mi fecero male, ma male dentro, per la prima volta mi sentii un rimorchio e un rimorchio da solo non cammina. “A Michela l’hai detto?…” “No, te lo ripeto, non voglio impicciarmi dei fatti vostri…” “Non dirmi che non hai pensato a lei…” “Insomma, se vuoi camminare con le tue gambe il San Carlo è un’occasione irripetibile…se questo poi serve anche a sistemare certe cose…” “Forse stavolta hai ragione…” “Io toglierei il forse…comunque l’altra strada è sempre aperta…” “Quale altra strada...” “Quella di lavorare per me…con te e Lami, non so se mi spiego…” “Ancora!...il mio camice sarà sempre bianco, quante volte te lo devo dire…” “Guarda che il bianco è anche il colore della resa, soprattutto quando sventola…” “Finiamola qui…comunque vada, ti ringrazio…” “Vuoi dire che accetti…” “Ci penserò su, il San Carlo è il San Carlo…l’hai detto tu…” Mi ero impantanato in mezzo al guado e la telefonata di Walter era come una corda che mi riportava a riva.
66 In cuor mio avevo già deciso e questa di decisione era solo mia, l’altra l’aveva presa Odorici per me, adesso me ne rendevo conto. D’accordo, negli ospedali c’è più puzza che odore di pulito, ma il mare è quello e bisogna sfidare le onde, evitare gli squali, bisogna cercare il bianco anche nel camice altrui, non tutto lo sporco è uguale. Troppo comodo nuotare in piscina, nel cloro, così già mi solleticava l’idea di riportare indietro le lancette del tempo. Avrei cambiato il mio orologio certo e avrei chiuso una parentesi che mi frullava la materia grigia, mi sarei ripreso Michela e con lei la mia vita senza sorprese. Ero pronto a tuffarmi fra gli scogli, Odorici avrebbe capito, anche lui una volta aveva detto che si, insomma, il San Carlo è il San Carlo. Per il resto del viaggio non pensai ad altro e man mano che passavano i chilometri, mi assolvevo anche da tutti i miei peccatucci di carne. In fin dei conti non era successo niente, una puttanella ci può stare, con Alessandra, malgrado mi si fosse offerta, non avevo fatto niente, Milena era sparita. Magari sarei caduto anche nella sua rete, come ero caduto in quella di Stefania, ma sfuggire a due pescatrici così abili e per giunta misteriose, è praticamente impossibile. I misteri delle donne sono un’esca ghiotta, infallibile. D’altra parte, prima di Stefania, stavo quasi per dimenticare come è fatta una donna, anche il digiuno ci aveva messo del suo. Solo peccati veniali quindi, un atto di dolore, tre pater, ave e gloria e tutto sarebbe stato cancellato. Il vero peccato, quello si, l’avevo riservato a Michela, trattandola come una cosa che si può usare e poi buttare. Adesso mi era chiaro il perché di quel freddo nei suoi confronti, l’egoismo mi aveva sopraffatto e l’egoismo distrugge gli altri, li cancella dalla tua vita. Adesso che avevo capito avrei trovato il modo di farmi perdonare. Ma avevo capito o mi stavo illudendo? Avevo aperto il mio libro o ne stavo leggendo un altro? Avevo capito, ne ero certo. O forse no. Se anche lei fosse stata come me? Arrivato sulla tangenziale il cuore cominciò a sbandare, le mani a tremare, gli occhi a stravedere, già fissi sul mio letto di sempre, nella mia casa di sempre, a far l’amore con la mia donna di sempre. Ma non andò così.
67 Che avessi capito o che mi stessi illudendo, non andò così. Che fosse il mio di libro o quello di un altro, non andò così. Dal portone di quel palazzo ottocentesco uscivano solo persone con l’ombrello, chi ne era sprovvisto era costretto infatti a fermarsi nell’androne, tanta era l’acqua scaricata da un cielo livido, gravido di nuvole che promettevano il peggio. Dalla mia macchina, parcheggiata sull’altro lato della strada, il finestrino abbassato di quel tanto per poter vedere senza farmi la doccia, aspettavo di avvistare quell’ombrello a spicchi rosa e marrone, che lei portava sempre con se, a riempire le sue borse, quale che fosse la stagione. Il temporale finì non prima che mi stancassi di guardare l’orologio. Appesi così la mia speranza al telefonino, che mi ripagò col suo clacson, mentre infilavo la mano in tasca. Che strano, la suoneria del mio telefonino era da anni la stessa, ma da un po’ mi sembrava ogni volta diversa. “Scusami ma sono riuscita a liberarmi solo ora…” “Non importa, anch’io sono arrivato da poco, stai scendendo?…” Ero arrivato da tanto, invece, la telefonata di Walter aveva svegliato il mio piede, sempre pigro sull’acceleratore. “Non sono all’atelier, sono in Fiera, una prova improvvisa…” “Va bene, sarò lì fra una ventina di minuti…” “Se proprio ti va…” Quel se proprio ti va mi sforbiciò i pensieri, solo quando la vidi in piedi, guardarsi in giro, riuscii a riannodarne qualcuno. “Che ne dici di andare a quel ristorantino sul lago, siamo già sulla strada…” “Se ti va…” Ancora quel se ti va. “Se vuoi andare da un'altra parte, dillo…” “No, va bene il lago, ma per le cinque devo essere di ritorno, ho un impegno…” “Pensavo che ti saresti lasciata almeno mezza giornata libera…” “Per far cosa…hai detto che dovevamo parlare, fino alle cinque, hai voglia…” “Forse ho sbagliato a venire oggi, devi avere la luna storta…” Non mi rispose, per una ventina di minuti non fece altro che guardare fuori dal finestrino, come se fosse la prima e non la centesima volta che facevamo quella strada. Poi il suo telefonino squillò tre, quattro volte e lei sempre la stessa risposta, adesso non posso, ti richiamo io e cose simili. “Insiste, deve essere un ammiratore…”
68 L’avevo buttata lì, tanto per rompere il ghiaccio e di ghiaccio fu infatti la sua risposta. “Che vuoi farci, se ne sono accorti in tanti che sono sola…” Poi finalmente due parole da parte sua. “Allora cosa dovevi dirmi…” Ma ormai eravamo arrivati. Aveva ripreso a piovere, l’acqua del lago sembrava bollire, alcuni gabbiani agitavano le ali quasi volessero farsi una doccia. Il grigiore bagnato dell’aria e il giallastro delle foglie marcite non erano certo i colori di cui, in quel momento, avremmo avuto bisogno. Il cameriere ci aveva fatto accomodare nel solito posto e dopo i convenevoli di rito si era allontanato, soddisfatto dell’abituale pensaci tu. Michela sembrava rassegnata ad ascoltarmi, anche se aveva posato il cellulare sul tavolo. “Potresti anche spegnerlo per un paio d’ore…” “Aspetto delle telefonate…” “Lavoro?...” “Anche…” Quando i primi piatti atterrarono con il loro profumo, le avevo già chiesto scusa mille volte, cercando inutilmente, nei suoi occhi, un qualche accenno di luce. “In fondo Odorici non me lo sono mica sposato…e poi le cose possono cambiare dall’oggi al domani…” “Non soltanto per te…” Mi cadde il coltello dalle mani, dritto nel piatto. “Insomma, si può sapere cos’hai…” Il telefonino si attaccò al suo orecchio, qualche istante, il tempo di un paio di ci sentiamo dopo. “Se ti sei trovato un altro, dimmelo e la finiamo qui…” “Non mi sono trovata nessuno…” “Ma se il tuo cellulare non trova pace…” “Non posso mica impedire agli altri di cercarmi…” Il suo tono si era addolcito, la vanità l’aveva ammorbidita, cercai di cogliere l’attimo. “Sono disposto a venire da te ogni volta che sono libero…e poi…” “E poi?...” “Ma si, te lo dico, tuo fratello ha la possibilità di piazzarmi al San Carlo…mi ha telefonato mentre ero in viaggio, che ne dici…” “E per quando sarebbe…”
69 “Se ne parlerà dopo le feste, potrebbe essere la soluzione che cerchiamo…” Cercai la sua mano, non me la fece trovare. “Questa sarebbe la tua di soluzione…” “Che vuoi dire…” “Voglio dire che non sono Penelope…” “Ma si tratta di aspettare un mese, due al massimo…a Natale poi posso liberarmi per una settimana…o a Capodanno, quando preferisci…” “Io le feste le passo a Parigi…” “A Parigi?...” “Certo a Parigi, ci sono le sfilate dell’intimo…” “Le sfilate dell’intimo?!...Ma non le hai mai fatte, su questo almeno eravamo d’accordo…” “Su tante cose eravamo d’accordo…” Se non l’avevo ancora perduta, non mi restava che aggrapparmi a lei. “Sono disposto a tutto, dimmi tu che cosa devo fare…” Prese il bicchiere tra le mani, nascondendo col rosso del vino il rosso delle sue labbra, poi mi rispose facendo tremare la voce. “Non lo so che cosa devi fare…magari niente…magari mi passa…” “Ti raggiungo a Parigi…” Si mise quasi a piangere. “Non dovevi venire…voglio stare da sola, voglio pensare…” Alle cinque spaccate la lasciai davanti al cancello della Fiera. “Allora ci sentiamo…se ci ripensi…” “A cosa dovrei ripensare…” “Che posso raggiungerti a Parigi…” “Va bene, casomai mi faccio viva io…” Non fu come l’altro di casomai, almeno per me, stavolta fu più duro mandarlo giù. Non era andata come speravo, ma almeno avevo capito, qualcuno le girava intorno o era lei che girava intorno a qualcuno. Quello che non avevo capito era invece quanto di lei fosse rimasto dentro di me. Per capirlo avrei dovuto soffocare prima il mio orgoglio, ma questo, almeno in quel momento, mi fu impossibile. Ha sette vite l’orgoglio, come i gatti.
70
Due menti e l’anima
Avevo deciso di scomparire per qualche giorno e per questo avevo chiesto ed ottenuto di fare un turno al pronto soccorso e subito dopo uno di guardia. Pensavo così, stupidamente, di resettare la situazione al giorno del mio arrivo, come se la memoria, quella mia e degli altri, potesse spegnersi e cancellarsi azionando un timer. La mia testa aveva viaggiato in quel mese. Tanto viaggiato, senza dirmi dove andava, che adesso facevo fatica a ritrovarla. Quel mio pensiero era quindi un tentativo illusorio, la speranza ridicola di trasformare quei viaggi in un semplice giro di pista. Si va veloci sulla pista, ma non si viaggia, si gira. Non porta da nessuna parte la pista, finito il giro, tutto ritorna come prima. Magari solo la testa continua a correre, ma dopo un minuto anche lei si ferma. Al capolinea di quella ridicola speranza mi aspettava la sagoma di Marcello, in fondo al corridoio. “Scusami se sono salito ma mi ero stufato, il portiere avrà fatto dieci telefonate…” “Ero in rianimazione, un incidente con la moto poi uno che ha tentato il suicidio…mi sa che c’è riuscito…” “L’ho letto stamattina sul giornale, c’è anche l’ipotesi di un delitto…” “Mah, i giornali devono vendere…” “E di quella squillo, che ne dici, fra gli indagati ci sono fior di papaveri…” “Overdose, solo overdose, appena il medico legale firma il caso si sgonfia…” “Peccato, chissà quanti altarini si sarebbero scoperti…” “Senti un po’, non sarai mica venuto per parlarmi di cronaca nera…” Cercai di mischiare indifferenza e sorpresa, il mio pensiero era subito andato alle parole di Stefania. “Sono venuto a trovare l’avvocato e visto che sono quattro giorni che non ti fai vivo…il portiere mi ha detto che eri in reparto…” “Ho fatto due turni di seguito…” “Ma almeno una telefonata, dai…” “Hai fatto bene a salire, ma sarei passato stasera al bar…” Si scivola bene sulle bugie, cominciava a piacermi, basta solo stare attenti non cadere.
71 Intanto me lo scrutavo Marcello e cercavo di cogliere nei suoi occhi, nei suoi atteggiamenti, nel suo modo di parlare, qualcosa che giustificasse l’insinuazione di Stefania. Notai soltanto che si lisciava spesso i capelli, come fanno le donne, ma anche tanti uomini. “Ci devo credere…” “A cosa…” “Che saresti passato al bar…” “Certo che sarei passato…” “Va bene, allora ti aspetto, andiamo insieme…” “Ma io smonto fra un’ora…” “Fa lo stesso, ti aspetto…” “Ma tu non hai mai niente da fare…” Rimase come fulminato da quella mia frase, indugiò alcuni istanti, come se dovesse cercarla una risposta. Pensai nuovamente alle parole di Stefania, le insinuazioni sono acido per i pensieri. “Che c’entra, il mio lavoro non ha orari…” “Guarda che la mia era solo una battuta, che ne so che lavoro fai…” Sul suo viso si stampò un mezzo sorriso anomalo, molto simile a una smorfia, come se mi stesse confessando qualcosa. “Già, non te l’ho ancora detto, lavoro con mio padre, come gli altri…” “Stefania no…” Serrò le labbra, non rispose, forse si era distratto. “Lavoro con mio padre…lo dici come se ci fosse qualcosa di male, mi hai detto tu che tuo padre è una potenza…” “Appunto, con lui non si lavora, si esegue…” “Ma tu che fai…” “Curo l’aspetto legale dei contratti…” “Beh, mi sembra una cosa importante…” “Certo, ma ci deve sempre essere la firma dell’avvocato, anche adesso che è ricoverato…” “Magari è una questione di esperienza…” “Esperienza, no, è una questione di fiducia…potrei fare almeno quello che fa Fabio, lui almeno li porta ha casa i contratti…” “Ecco perché è sempre in giro…” Forse quella di Stefania era un’insinuazione infondata, forse Marcello cercava la mia amicizia per avere un biglietto da visita più ricco, un distintivo da mettere all’occhiello, qualcosa che luccicasse di più della medaglia di stagno che gli aveva appiccicato il padre.
72 Forse, più semplicemente, la sua era solo simpatia, magari condita da un po’ di invidia per chi non deve fare i conti con la potenza del padre. Forse cercava un aiuto senza ancora sapere quale. O forse aveva ragione Stefania, adesso che ci pensavo non l’avevo mai visto insieme ad una donna e mai un nome di donna sulle sue labbra. Che nel pentolone, nel quale mi stavo cucinando, stesse bollendo anche il desiderio di un gay? Lo guardai, continuava a lisciarsi i capelli. “Allora ti aspetto giù…” “Te l’ho detto, smetto fra un ora, è inutile…e poi sono in macchina, ci vediamo al bar…” Milena era di spalle alla porta, ma si voltò come se mi avesse sentito arrivare. Non saprei descrivere il suo sguardo, ricordo soltanto che mi accecò come un flash, dando fuoco alle sue pupille fino a liquefare le mie. Stavo già per chinarmi su di lei, quando si alzò stampando le sue labbra sulla mia barba di quattro giorni. “Sono contento di rivederti…” “Anch’io…” C’era tutto il sapore dell’attesa in quel anch’io. Stefania mi prese per un braccio, quasi fossi una cosa sua, inconfondibile la presa della sua mano, come se il mio braccio fosse nudo. “Non avrai mica dimenticato nuovamente il mio nome…” Più del suo nome temeva forse mi fossi dimenticato di lei, per come c’eravamo lasciati, pochi giorni o l’eternità sono la stessa cosa. Vera e Marina mi abbracciarono quasi con violenza, Bruno buttò lì una battuta, seguito a ruota da Mario. “Non me la sciupare…” “Per me fai pure, tanto con me non ci sta…” Marcello era rimasto da una parte, un prete fuori dalla chiesa. “Scusaci se te l’abbiamo rubato…” La battuta di Stefania arrivò puntuale, corrosiva per me, non per Marcello, che anzi, mi sembrò divertito. Fatto sta che mi trovai incartato, stretto nella spirale di due femmine. Cercai di pensare a Michela, di anestetizzare la mia pelle e non solo quella, ma il divanetto era stretto e le mani di Stefania calde, come le gambe di Milena, che accavallandosi da una parte e dall’altra, trovavano sempre il modo di strusciarsi alle mie, aprendo spiragli da sballo, autentiche calamite per gli occhi e il resto.
73 Lo spumante, freddo al punto giusto, rinfrescò la bocca per un attimo, prima di aggiungere calore al calore. Uscendo, al momento dei saluti, mi aspettavo, chissà perché, che mi chiedessero di andare con loro, il fatto che Milena non sapesse di me e Stefania e che Stefania non sapesse delle foto di Milena, mi intrigava, anzi, mi eccitava. Lo sguardo di Stefania accontentò la mia speranza. “Propongo una spaghettata, chi ci sta?…” “Lo sai che stasera c’è la partita…” “Anche tu preferisci la partita?...” “No…” “E allora vieni…” L’eccitazione mi spingeva ad accettare, chissà come sarebbe andata a finire la serata, ma qualche rotella in testa girò dalla parte opposta, quella giusta credo, costringendomi a strizzare il cervello, nell’affannosa ricerca di una scusa. “Sono quattro giorni che dormo a rate, sarà per un’altra volta…” Vederle andar via da sole, salire in macchina, vedere Stefania abbassare il finestrino per chiedermi se per caso non ci avessi ripensato, sentire quel ciao miagolato di Milena, niente mi avrebbe fatto più male allo stomaco. Magari non sarebbe successo niente, adesso che anch’io lo sapevo, mi ero reso conto che la relazione fra Stefania e Milena non era un segreto per nessuno. Magari altri segreti avrebbero potuto svelarsi. Ma forse questo era il frutto malato della mia fantasia, ancora e sempre ubriaca di nebbia. Comunque quando la macchina si perse dopo il primo incrocio, mi sentii improvvisamente solo, la mente scardinata da un rimpianto tardivo. Solo,si, solo. Ma tant’è, volevo riportare indietro le lancette dell’orologio e in un modo o nell’altro dovevo provarci, solo che già cominciavo a chiedermi se questo sarebbe stato possibile. Ma dovevo provarci. Intanto però, sotto sotto, cominciava a sfiorarmi il dubbio di essermi perso quattro giorni. Troppo freddo, infatti, adesso che ci pensavo, quel pianto di Michela. Non so perché, ma mi ritrovai a passare lungo la darsena. Quando comandava il fiume, cioè quasi sempre da quando ero arrivato, mi affidavo al navigatore, che mi portava in giro, a casa o all’ospedale, con gli ordini precisi di una vocetta femminile, decisa e suadente al tempo stesso.
74 Ma quella sera era limpida, un vento tagliente portava aria dal mare, aria salata, che seccava la pelle e le labbra. Decisi così di guidare a memoria, allungando il giro per gustarmi la storia imprigionata dalle mura bugnate, dalle torri del castello, dal muschio sulle pietre, dalla corteccia avvizzita degli alberi secolari. Alla darsena mi portò forse un senso unico sbagliato, un porticato sconosciuto, o una chiesa scambiata per un’altra. Comunque, visto che c’ero arrivato, decisi di fermarmi, attratto dall’intenso profumo di rubinia e da quello, non meno seducente, della cucina di un ristorantino. Mi dimenticai così della spaghettata perduta e di altre voglie e per un po’, prima di risalire in macchina, mi sentii in pace come le barche, cullate dall’acqua e accarezzate dalla luce opaca dei vecchi lampioni. E si, quella sera, a comandare era il mare. Anche su di me. Fabio era appoggiato alla macchina, il bavero alzato, la solita sigaretta ad andare su e giù, perdendo qua e là scintille. “Ciao, che ci fai qui?...aspetti Alessandra?...” “Si, sono quattro giorni che non si fa viva, al telefono non risponde…tu per caso l’hai vista?…” “No, sono stato sempre in ospedale…due turni, torno adesso…” “Volevo dire la sera…o la mattina…” “Ho dormito in ospedale…ma perché, è successo qualcosa, avete litigato…” Con un gesto stizzito del pollice e del medio fece volare la sigaretta in mezzo alla strada, poi si tirò su il bavero del cappotto, staccandosi dalla macchina. “Lascia stare…” “Affari vostri…certo…” “Non volevo dire questo…” “Cioè?...” “Ma si, a te lo posso dire…sei un dottore…” “Sono un dottore, che c’entra?...” “Che tu puoi capirmi…mi ha trovato quella roba in tasca…” “Vuoi dire…” “Si, la neve…la coca insomma…” Cercai di glissare, anche perché mi ricordai subito delle parole di Alessandra, quella sera, quando era venuta a chiedermi aiuto. Già, quella sera, poco meno di un secolo fa. “Certo, la coca…” “Le avevo promesso che non c’avrei più provato…”
75 “Provato a fare cosa…” “Mi stai prendendo in giro…lo sai che in certe cose aiuta…” Drogarsi per far l’amore con Alessandra, provai un senso di pena per Fabio e un brivido nella schiena. Malgrado mi sforzassi di non pensarci più, se del corpo di una donna c’era qualcosa che mi portavo addosso, quel qualcosa non era certo la pelle di Michela o la carne di quella brunetta. Non erano neanche le mani di Stefania. Erano i seni di Alessandra quel qualcosa, quei seni ancora imprigionati nelle mie mani. Il marchio a fuoco dei suoi capezzoli mi torturava ancora il palmo. Chissà, se quella sera il mio orgoglio si fosse sciolto nella nebbia, se mi fossi accontentato del suo corpo, come mi accontentavo ora di quello di Stefania, oggi forse saprei anch’io, anche senza neve, che cos’è un’overdose. Risposi così a Fabio con voluta ironia. “Io non so niente, per certe cose non ho bisogno di aiuti…” “Vedremo fra qualche mese, quando anche tu sarai strangolato dalla noia…tu come tutti noi…” Certo, non si può vivere di solo bar Centrale o di salama da sugo, di feste in villa per omaggiare i vecchi o di pietre spente. Non si può vivere soprattutto circondati da occhi e orecchie, occhi che vedono malgrado la nebbia, orecchie che sentono i sospiri più flebili. Adesso cominciavo ad accorgermene anch’io, in una città che tutto osserva, che tutto fotografa, che tutto ricorda, niente di meglio di una maschera, per nascondersi all’aperto, niente di meglio di una camera da letto, per tentare la fuga. Ma la mente, chiusa fra quattro mura, diventa schiava della fantasia e quando questa non basta, quando una donna nuda diventa solo una donna nuda, ci vogliono altre ali per riuscire a volare. La coca allora, ecco le ali per il sesso, ali di Icaro però, destinate a sciogliersi non appena ci si avvicina al sole. Quella frase di Fabio, sia pure sussurrata, mi aveva svegliato dal sonno, mi aveva fatto capire il perché dei miei troppi pensieri. Da quella sera in trattoria, alla seconda prima volta di Stefania, passando per le foto di Milena, era come se avessi dimenticato me stesso nella nebbia e chissà, continuando a bere nebbia, avrei presto avuto anch’io bisogno di ali speciali. La fuga da Alessandra era stata quindi una specie di momento nuovo, il primo momento in cui in una donna nuda avevo cercato, prima di tutto, una donna. ...CONTINUA...