Uomo bianco alla periferia dell'Impero

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DESCRIZIONE: Alla vigilia di Tangentopoli è facile, se sei un giovane cronista rampante, fare favori alla persona sbagliata. E Raimondi, appena iniziano a cadere le prime teste sotto ai colpi della magistratura milanese, è costretto a darsi alla fuga per evitare la galera. Si ritrova alla periferia dell’impero, in una “Jamaica no problem” di reggae, sole, marijuana, belle donne, loschi traffici e criminalità stagnante. Un far west noir di fine ventesimo secolo, dove ricominciare. Forse. L'AUTORE: Umberto D'Agostino è nato a Roma il 19 aprile 1964. Giornalista professionista dal 1989, si è occupato di politica, economia ed esteri. Appassionato di musica, viaggi e questioni internazionali, questo è il suo primo romanzo. Leggi l' anteprima Leggi altro su questo libro nei BFile Scopri le nostre iniziative

Titolo: Uomo bianco alla periferia dell'Impero Editore: 0111edizioni Pagine: 148

Autore: Umberto D'Agostino

Collana: Selezione Prezzo: 13,00 euro

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IL CASSETTO DEI SOGNI A differenza di "Parlando di (prima trasmissione libri a casa di Paolo", questa prevista a FEBBRAIO 2010) trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice. VAI AL SITO

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le Gioca con la Banda del Booko vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei (che si legge quali è richiesto un riscatto all'autore. BUCO) all'ANONIMA Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In SEQUESTRI VAI AL SITO

questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO. In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.


Umberto D’Agostino

Uomo bianco alla periferia dell’Impero

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com

UOMO BIANCO ALLA PERIFERIA DELL’IMPERO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2010 Umberto D’Agostino ISBN 978-88-6307-287-7 In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Maggio 2010 da Digital Print Segrate - Milano


Prologo

“C’è finito in mezzo pure Salvini”. Ecco fatto, prima o poi doveva succedere, pensi quando senti fare il suo nome dal redattore di turno alle agenzie. Ci mancava solo Salvini all’appello. Quei giudici a Milano stanno facendo un bel casino, era ora di un po’ di pulizia, avrebbe pensato l’uomo della strada. Ma tu? Stavolta dove sei tu? Dalla parte dei buoni? Potresti mai abitare in centro, vestire alla moda, portare quel cazzo di Rolex al polso che ti dà anche fastidio, pagarti la migliore cocaina e le migliori vacanze con lo stipendio che ti guadagni scrivendo stronzate su un pessimo quotidiano? Un giornale che spesso si traveste da paladino della giustizia, alimentando campagne razziste contro lavavetri e tossici della stazione, ma in cui la metà della gente che vi lavora le mani nella merda che le ha rimestate parecchio. E ora ti specchi anche tu nella frustrazione di tanti scribacchini falliti, costretti a vomitare insulti contro i loro padrini di un tempo, in nome di una finta moralità ritrovata. Vale anche per te, naturalmente, che ora magari dovrai scrivere qualcosa su Salvini, l’uomo che nel bene e nel male ha cambiato la tua vita. “Che gli è successo?”, chiedi con un distacco che puzza di finto lontano un chilometro. “E’ un’Ansa. Dice: ‘L’ex senatore Salvini è stato raggiunto oggi da un avviso di garanzia nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti. Il reato ipotizzato è quello di concussione e truffa aggravata ai danni dello Stato’. C’è scritto ‘segue’. Non dice altro”. “Ormai è un gioco al massacro. Tre righe e… zac! Sei finito”. “Già… chi lo avrebbe mai detto? Cazzo, di scandali ce ne sono sempre stati, ma insomma… uno alla volta. Saltava qualche testa e finiva lì”, fa lui con un’aria veramente triste. Ma c’è qualcuno in Italia che può gioire davvero per un casino simile, ti chiedi cercandoti il solito alibi da disperato. O non sono forse tutti colpevoli, dalle signore che vanno a piangere dal primo porta-


borse per evitare che il figlio finisca a fare il militare a Cuneo, fino a quelli, molto più comprensibili, che il voto lo hanno barattato con il posto di lavoro. Ma colpevoli ugualmente perché poi il loro lavoro lo fanno di merda, visto che nessuno può cacciarli via a calci nel culo. Un bell’esercito di complici. Lo avresti voluto trovare adesso un vero innocente, per poterlo guardare negli occhi e chiedergli come aveva vissuto fino a quel momento. Come aveva fatto a sopravvivere in questa giungla senza sporcarsi neanche un po’? Faceva l’eremita? Provava forse orrore per tutti i simboli del consumismo, a partire dalle belle donne fino alle belle macchine? Insomma, come aveva fatto a resistere alla tentazione della “Locomotiva Italia” che volava verso l’Europa, neanche Bruxelles fosse il paese dei balocchi? A Bruxelles c’eri stato diverse volte. Un posto di merda, se non fosse per gli immigrati e i ristoranti indiani. Quando si sono accorti che gli italiani non andavano più in Belgio per lavorare in miniera, ma che anzi qualcuno di loro stava tentando una folle scalata alla più grossa compagnia del paese, l’hanno presa come un’offesa personale. Proprio un bel simbolo dell’Europa. Ma te lo ricordi come hai conosciuto Salvini? Eri proprio un nessuno, allora. Ventuno anni passati a credere nelle belle favole e quella fessa idea di voler fare il giornalista. In quel periodo lavoravi per un’agenzia (serie B, metà classifica) e eri molto distante da tutto quel mondo che ti toccava raccontare. Il tuo stipendio non era certo un granché, per pagarti la macchina (una Fiat Uno) avevi dovuto sottoscrivere tre anni di rata e meno male che vivevi ancora da tua madre. Sennò manco le rate, a piedi. Eri innamorato, no? Antonella. Cotto come eri te la saresti pure sposata e meno male che visto che ti ha lasciato lei fra tutte le cazzate della tua vita non ci hai infilato anche questa. Ti mandarono a intervistare Salvini, che allora era presidente della Commissione Lavori Pubblici del Senato, su una questione di secondaria importanza, qualcosa che, ti dissero, aveva a che vedere con i fondi per il mezzogiorno. Uno degli argomenti più bistrattati dai giornalisti, perché tanto non ci si capisce mai un cazzo e si finisce sempre con lo scrivere di cifre esagerate, con le quali si potrebbero risolvere i problemi dell’intera Africa, altro che Calabria e Sicilia, ma che poi non si sa mai dove diavolo vadano a sparire. O forse si sa benissimo. Anche nelle tasche di gente come te.


Salvini fu gentile, ti disse che apprezzava i giovani cronisti, che erano puliti e che credevano nel loro lavoro, ti rilasciò un’intervista rassicurante (intervista? Fu quasi un monologo…), piena di parole come privatizzazione, sviluppo, infrastrutture, joint venture, job creation. E tu ti sei bevuto tutto, come avrebbe fatto qualunque tuo collega. Il diversivo fu però che Salvini ti invitò a cena, quella sera stessa, a casa sua. “Per scrivere di certe cose e di certe persone bisogna conoscerle. Venga stasera da me. Avrà occasione di vedere da vicino un po’ di quei nomi che lei scrive senza neanche sapere chi c’è dietro”. Era il diavolo a parlare, e tu il suo Faust, ma non potevi saperlo e ci andasti. Salvini si fregiava del titolo di più giovane senatore della Repubblica e non a caso. Molto più semplice essere eletti a Palazzo Madama che a Montecitorio. Bastava che il partito ti assegnasse un collegio sicuro. E così anche un perfetto sconosciuto come Giacomo Salvini era asceso all’Olimpo dell’immunità parlamentare. Peccato che alle ultime elezioni non si sia ripresentato. Magari adesso le manette le rischia sul serio. Era giovane, dicevamo, sui quarantotto, ma portati bene e gli piaceva vivere da giovane. Abitava in una villa sull’Appia antica che avrebbe fatto l’invidia di qualche cinematografaro di Beverly Hills. E quante donne, ti ricordi? Tante, belle e pure un po’ puttane. La prima cosa che ti chiedesti fu quanto potesse costare tutto ciò. Una deformazione professionale, destinata a rimanere delusa. Visto che il calcolo era impossibile. Tranne che per le puttane, gente da una milionata a sera, a occhio e croce. Eri il benvenuto nella sede dell’unico vero partito trasversale italiano. Quello della mazzetta. Cinquanta milioni di tesserati. Ti squilla il telefono. E’ il caporedattore. “Raimondi, tu lo conosci Salvini, no? Cercalo al telefono, fatti dire qualcosa e scrivimi una trentina di centimetri, okay?”. “Sempre che lo riesco a beccare…”. “Beh, tu vedi di riuscirci”. Te lo dovevi aspettare, stai pensando mentre componi il numero dell’ufficio del senatore. Ora è un bel casino. Ti risponde la segretaria per dirti che Salvini non si sa proprio dove sia, lo stanno cercando tutti, probabilmente anche la polizia. Se si farà vivo gli dirà che hai chiamato.



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1. Quella sera di dieci anni fa

Quella sera di dieci anni fa c’era un gran bel mondo a casa di Salvini. Parecchi deputati e senatori, ministri e soprattutto dirigenti di società di costruzioni, grandi manovratori di appalti miliardari. E lui era lì, davanti a un quadro di quelli che si vedono nelle case di buona famiglia, raffigurante un qualche antenato nobile. “Suo nonno?”. “Ma che dice Raimondi?! Mio nonno faceva il manovale… figuriamoci”, ti rispose marcando tutto il suo accento napoletano. “Quello l’ho comprato, come quasi tutto quello che vede in questa casa, compresa la gente… ah, ah, ah!”. “Lei deve essere parecchio ricco”, azzardasti tu e quasi ti saresti mangiato la lingua, dopo. Ricordi cosa rispose? “Non è esatto dire che sono ricco. Diciamo che sono molto rispettato e ho parecchi amici. Quelli sì… ricchi. Immagino che si stia annoiando con queste vecchie cariatidi, ma sa com’è, ogni tanto mi tocca invitarli e fare un po’ di scena. Scorre un po’ di champagne, le donne mostrano un po’ di culo e tette e i bavosi ringiovaniscono di vent’anni. Comunque sono sicuro che anche lei apprezzerà una cosa. Venga con me”. Ti portò in una stanza ancora più esagerata della precedente, piena di arazzi e quadri, a prima vista parecchio costosi. Da un cassetto tirò fuori all’improvviso un piccolo specchio e un sacchettino pieno di coca. “Questa viene dritta dalla Colombia. L’ha cacata un corriere proprio un paio di giorni fa”. “Perché mi mostra queste cose? Non ha paura che potrei raccontarlo in giro?”. “E a chi, Raimondi? Ma non lo sa che qui tirano tutti? E poi sono convinto che lei è uno di quelli che le cose buone le sanno apprezzare senza complicarsi troppo l’esistenza, no? Su, si faccia un bel tiro”, disse allungando sullo specchio due righe generose.


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Tirò su la sua in un attimo, come qualcuno abituato a farlo spesso, e ti passò la tua. E tu non rimanesti a guardare, perché in fondo era vero, tiravano tutti ma era un bel po’ che nessuno ti offriva roba simile. La gente che frequentavi, i ragazzini come te che giocavano agli yuppie, spesso pagavano fino a duecentomila lire una cartata di pastiglie tritate che bruciavano nella gola e nel naso. Quella invece era davvero buona. In un attimo sentisti salire su l’euforia, mentre lui ti spiegava che quelle cose costavano un sacco, ma che non erano poi così difficili da ottenere, di torte da spartire ce ne erano per tutti e un giovane giornalista poteva fare comodo. Hai fatto male a rimuginare per ore su tutto quello che è successo in passato. Adesso sono le sei, il giornale sta chiudendo le pagine e non hai ancora concluso un cazzo. Quando la centralinista ti avverte che c’è Salvini in linea, salti sulla sedia. “Allora senatore, che dice di questa storia? Ce le rilascia due battute per il giornale?”. “Raimondi non faccia lo stronzo”, taglia secco lui con una voce di ghiaccio. “Non mi sembra il momento di parlare delle fesserie del suo lavoro. Qui c’è da salvare il culo, lo sa? Se lo ricorda quell’imbecille di Piombi, no? Beh, sta già al fresco e se apre bocca fino in fondo le manette non ce le toglie nessuno, a me come a lei”. Piombi. Ecco come si chiama il tuo scheletro nell’armadio. L’amministratore delegato della Costruzioni Piombi spa, al quale tu, per conto di Salvini, hai estorto una mazzetta da un miliardo di lire. Tutte banconote da centomila, che riempivano una Samsonite di media grandezza. Nelle tue tasche sono finiti ottanta milioni, solo per una consegna. In quanti avrebbero rifiutato? “Per ora non le dico neanche dove sto, ma non si preoccupi, non la lascio nella merda. Lei mi sta simpatico, lo sa. Mi rifarò vivo presto e le darò istruzioni”. “D’accordo, ma io adesso che scrivo?”. “Quello che vuole. Mi raccomando, mi faccia fare bella figura. Lei è bravo a inventare, in fondo la pagano per questo, no?”. Clic. E’ brutto risvegliarsi così, dopo dieci anni di bengodi. E lo sono stati, accidenti. Ti sei fatto succhiare da una spirale senza fine pur di alimentare i tuoi vizi, le uniche cose capaci di farti sentire vivo. La droga, le donne, i viaggi… quanti ne hai fatti… a spese della società


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a partecipazione statale di turno, sempre nei migliori alberghi per giunta. E le donne? Oh, cazzo, quante donne hai avuto in questi anni, tutte quelle che volevi, no? Non importa che si facessero pagare o meno, costavano tutte molto care. Come le donne, insomma. E giù regalini, sniffate, fiori freschi e stanze d’albergo a cinque stelle. Tanto c’era sempre un pozzo dove attingere. Ora ti stanno portando il conto. Butti giù il pezzo in nemmeno un quarto d’ora, scrivendo le solite cose che si dicono sulle persone indagate e ti limiti a siglarlo. Poi fai la prima cosa sensata da stamattina: chiedi il permesso, accordato, di andartene a casa. Bastano cinque minuti a piedi per tornare, una comodità che ti permetti di pagare quasi due milioni al mese, ma tanto è di un ente pubblico e tu si e no paghi un mese su quattro. Sei come tutti gli abitanti del Centro, sorta di extraterrestri, metà ereditieri, metà ladri. Altrimenti non si spiegherebbe. Forse solo Tokyo, in tutto il mondo, risulterebbe più cara. Ma gli abitanti del Centro non è che si riescano a distinguere facilmente. Per il Centro ci passa troppa gente a tutte le ore, troppi disgraziati costretti ad arrivarci ogni mattina solo perché nessuno ha mai pensato a sbattere ministeri e uffici in qualche altro fottuto posto. Anche i privati, che spendono i loro soldi peggio degli enti pubblici. Ci sono società che non pagano i contributi ai quattro dipendenti che hanno, ma sono disposte a spendere quindici milioni al mese per un’inutile sede di rappresentanza a piazza di Spagna. Tutti si vedono in Centro, vanno al cinema in Centro, corrono a prendere un gelato in Centro. Ma alle nove di sera, come adesso, ci sono solo pochi turisti e militari in libera uscita. Solo quelli meridionali, però. Gli altri, o sono imboscati a casa loro, o sono così depressi che nemmeno escono più dalla caserma. Se si tenta l’avventura di un cinema o un teatro, all’uscita non si sa nemmeno dove andare a prendere un cappuccino. Eppure la stronza vita di questa città morta si svolge tutta qui, nella tristezza immensa dei palazzi del Centro, costretti a dividere e poi ancora dividere quei begli appartamenti di una volta, solo per colpa della speculazione edilizia. E’ un cantiere senza sosta, il Centro, chiunque fa i soldi compra, ristruttura, affitta, quasi solo in nero. I lavori sono spesso vere e proprie deturpazioni. Ma a chi frega un cazzo? Casa tua però non è niente male. Via del Pozzetto, ultimo piano, due camere e salone, terrazzo e doppi servizi, cucina e tinello. Qual-


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cuno di quelli che vivono in sei in quarantacinque metri quadrati la chiamerebbe una reggia. E se dentro è arredata semplicemente è solo perché tu detesti qualunque cosa assomigli a un mobile di valore. In segreteria ci sono le bellezza di sei messaggi, un record. Bip. “Ciao, sono Enrica. Non ti sei fatto più vivo… chiamami”. Stronzo che sei. Da quando in qua ti dimentichi di chiamare una fica simile? Bah. Bip. “Oh! Sono Fabrizio… possibile che per vederti bisogna prendere un appuntamento? Telefonami quando puoi venirti a mangiare una pizza”. Nemmeno Fabrizio hai più richiamato. L’unico dei tuoi vecchi amici che si fa ancora vivo. Bip. “Peccato che non ci sei… avevo trovato il coraggio di dirti quanto sei figlio di puttana…”. E questa era Monica. Senza dubbio. Bip. “Dottor Raimondi? E’ la banca… volevamo avvisarla che è arrivato quel bonifico…”. Ehi… tutti che se la prendono con te, ma i soldi non mancano mai. Bip. Nessun messaggio. Bip. “Raimondi! Sono Terzi. Il pezzo faceva veramente cacare. Ti sei schifato pure di firmarlo. E non mi è piaciuto affatto che te la sei filata così presto. Domani parliamo”. Terzi. Quell’idiota del caporedattore. Come si permette? Quanti coglioni ha alle sue dipendenze? Proprio con te se la deve andare a prendere? Il pezzo sarà pure uno schifo, ma domani sulle pagine di quel giornalaccio farà comunque la sua figura, almeno di questo dovrebbero darti atto. Sarai pure un raccomandato di merda, ma diamine, un po’ di classe ce l’hai. E forse proprio per questo Terzi i coglioni li può rompere solo a te, perché dagli altri non caverebbe nulla. Sono teste vuote, hanno messo su le loro brave famiglie, chiedono in continuazione permessi per la vaccinazione dei figli e poi magari vanno a giocare a golf, non sono bambocci come te, che hai visto al


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cinema che i giornalisti si fanno svegliare nel cuore della notte, fanno le valigie e partono per chissà dove. La maggior parte dei giornalisti italiani passa le sue grigie giornate col culo sulle poltroncine girevoli delle redazioni o a passeggiare su e giù per i corridoi della Camera. Il mondo fuori potrebbe pure rivoltarsi e loro niente. Se scoppiasse una bomba a piazza Montecitorio lo leggerebbero sulle agenzie. Sono uguali ai politici, si vestono nello stesso fesso modo e parlano lo stesso fesso linguaggio. E chiacchierano tanto, sicuri di avere in tasca le soluzioni migliori per i problemi dell’intera umanità, mentre prendono il caffè al bar della Camera dove costa cinquecento lire e forse per questo lo offrono a tutti. Diciamo che tu sei una spanna sopra gli altri, un po’ scoglionato, un po’ troppo preso dai tuoi piccoli affarucci, ma migliore. Ciò non toglie che domani Terzi ti farà due palle così lo stesso. Ma tu vuoi un consiglio? Mandalo a fare in culo stavolta. Metti su un bel disco, dai. Magari i Ramones, non quelle cacate acid-jazz che ogni tanto ascolti per darti un tono, e vatti a fare una doccia, che oggi non è stata proprio un granché come giornata. Dopo però pensa, pensa a quello che potresti fare… e continua a ricordare quella sera di dieci anni fa. E’ iniziato tutto da lì. *** “Raimondi… lei è ‘nu bravo guaglione. Simpatico, sveglio, le piacciono le cose che piacciono a me. E mi dispiace vederla guadagnare quattro soldi in quello schifo di posto”. Ti disse proprio così, vero? “Insomma… non è che me la passo poi così male… i soldi non sono tanti, è vero, ma…”. “Diciamo che io potrei farla guadagnare molto meglio”. “Per fare cosa?”. “Per darmi una mano. Io purtroppo sono circondato da gente troppo fessa. E non posso nemmeno cacciarli via perché sono amici… di amici. Mi spiego?”. “Non molto”. “Vabbuò… insomma mi serve qualcuno che mi dia qualche consiglio sul come comportarmi con la stampa, che umore tira, cosa si chiacchiera su di me, come potrei reagire di volta in volta. Solo con-


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sigli, Raimondi… per i quali sono disposto a offrirle tre milioni al mese. In nero, naturalmente”. Quelle parole ti fecero un bell’effetto. Quanto guadagnavi tu? Ottocento? No, no… sette e cinquanta, vero? Eri un pezzente e tre milioni al mese rappresentavano un prezzo ragionevole per farsi comprare. Anzi, forse anche troppo. “Sono parecchi soldi. Per me andrebbe benissimo… ma non sono sicuro di potermeli guadagnare… in fondo non sono un esperto”. “Vedrà che se li guadagnerà. E poi anche se non fosse… chissenefotte… tanto che crede, mica la pago io”. “No, eh?”. “E che sono il più fesso d’Italia? Diciamo che… come tutti gli altri che occupano un posto come il mio… posso disporre di un certo quantitativo di liquido non dichiarato con cui pagare i miei collaboratori”. “E questi soldi da dove vengono?”. Fu quella la domanda che aprì anche l’ultima delle porte dell’inferno. Lui sorrise, era completamente ubriaco, ma con tutta la coca che si era tirato stava dritto in piedi con gli occhi da allucinato. Ti squadrò per alcuni lunghi attimi e poi probabilmente decise lì per lì che tu saresti stato il complice ideale. Forse perché quando si parlava di soldi gli occhi brillavano anche a te. “Raimondi… lei fa il giornalista e quindi è pure giusto che sia curioso… ma non è che poi questi siano dei segreti, sa? Comunque… lei è giovane e glielo voglio spiegare. Ci sono un sacco di persone che abbiamo aiutato che… si sdebitano, diciamo, regalando soldi al partito. Naturalmente cerchiamo di non denunciarli, se no ce li mangiano le tasse. Sono i soldi che poi utilizziamo per mantenere in piedi un certo apparato”. “E che tipo di favori fa lei?”. “Oh… sapesse! Ci sta un po’ di tutto… da quello che ci chiede di aiutare il figlio a passare un concorso a quello che aiutiamo per un appalto. Ma non si faccia prendere da eventuali attacchi di moralismo, mio caro. Dia retta a me. Le cose funzionano così e tutti contribuiscono a farle funzionare così”. “Una bella combriccola…”. “Ma che si crede? Io mi faccio un culo così e quello che tengo per me è solo la minima parte di quello che passo al partito. Io non cor-


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rompo, né mi faccio corrompere. Casomai… si tratta di una violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti… una cazzata”. Sì, era un bandito. Tu lo avevi capito benissimo eppure ti sei lasciato convincere. All’inizio era facile. Bastava solo scrivergli qualche dichiarazione e avvisarlo se qualcuno era sul punto di pubblicare qualcosa contro di lui. Una marchetta tipica per una bella fetta di iscritti all’Ordine dei Giornalisti, senza che nessuno ci trovasse molto da ridire. Poi si vede che Salvini si è fidato sempre di più, perché ha cominciato ad appiopparti qualche lavoretto un pochino più scottante. E la tua vita cambiò… oh, se cambiò. La prima cosa che ti comprasti fu una Mercedes 190 megaccessoriata, una quarantina di milioni, anche se sempre a rate. Poi iniziarono i viaggi. Il primo fu a Bermuda, a spese di una società di telecomunicazioni. Spese di rappresentanza, ovviamente. Quindici giorni al sole al Southampton Inn di Hamilton, imbottito di coca e erba. E un sacco di ragazze disponibili intorno. La tua devota passione nei confronti del sesso e degli stupefacenti ti fece chiedere e ottenere parecchi voli del fine settimana per Amsterdam, dove alloggiavi al Sas Royal Hotel, cinque stelle in pieno centro e ti sfondavi di canne dal venerdì pomeriggio al lunedì mattina, passeggiando per ore senza meta lungo i canali della città. Il paese dei balocchi, l’Europa civile che garantiva alla gente assistenza, lavoro e soprattutto il sacrosanto diritto di fare della propria vita lo schifo che si vuole. Amsterdam la vedevi come uno straordinario porto di mare, un misto di razze e culture tenute insieme da una virtù che è sempre di pochi, la tolleranza. Ti piaceva camminare pigramente per Leidseplein, la piazzetta che al tramonto si accende dei mille colori dei pub e dei ristoranti, nemmeno fosse sempre Natale. Caraibi e Oriente si trovano un po’ ovunque, malgrado il freddo, al quale la gente non sembra tuttavia fare molto caso. Nei locali si viene serviti da gente giovanissima, magari un po’ impacciata, ma così bella da vedere nei suoi modi di fare che non fa rimpiangere i camerieri romani, bruschi e antipatici, scontenti di una vita passata fra i tavoli… vecchi, in una parola. E poi le donne… biondissime, con le tette grandi, senza mai un filo di trucco, vestite come gli uomini, con giacconi di pelle e blue-jeans. Le preferisci alle italiane, perché ancora non riesci a sopportare quelle che alle sette del mattino hanno già un chilo di fard sul viso, rimmel, rossetto,


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unghie laccate e spandono intorno a loro quantità industriali di profumi dolciastri e stomachevoli. Le segretarie. Eppure tu, di segretarie, te ne sei fatte diverse. A cominciare da quella di Salvini, Laura, che non era proprio niente male. Ma non ci può essere mai una grande storia con una che si è rimorchiata per merito della cocaina. Le piaceva proprio troppo. Le piaceva farsela cospargere lì e farsela leccare. Uscivate da quei tour de force con la bocca impastatissima, il cuore a duemila e il rischio di rimanerci secchi. Il tutto sapeva parecchio di finto, ma sembrava uscito dritto dritto da quei copioni torbidi che tanto ti piacevano. E ti piacciono tuttora. Non c’era mai un vero e proprio giro di soldi, diciamo che avevate le spese pagate. E che spese. Ma soldi… non proprio. Lui si sdebitava in altro modo. Per esempio, facendoti assumere da quel foglio di carta igienica che è il tuo giornale, con la qualifica di inviato speciale a cinque milioni e mezzo al mese, provocando le invidie di tutti quei manichini che ci lavorano. Tuttavia non hai mai avuto vita difficile in quel posto, ammettilo. Gli altri sono veramente troppo scarsi e tutti, comunque, super lottizzati. Alcuni sono degli analfabeti irrecuperabili, altri piuttosto che lavorare si farebbero amputare un piede, altri sono volenterosi, ma completamente inetti. Terzi ancora oggi ti scassa il cazzo in continuazione perché non riesce a sopportare di guadagnare a cinquant’anni meno di te che ne hai trentuno. Se sapesse in che modo ti sei fatto strada, andrebbe dritto alla polizia. Ti sei sempre chiesto se gli avrebbero mai dato retta a uno che raccontasse che il tale onorevole è un corrotto. Gira che ti rigira a qualcuno hanno creduto e si sono fatti più furbi. Appostamenti, pedinamenti, intercettazioni ambientali e poi… le manette. Alla sera verso l’ora di cena li vedi sfilare tutti in tv. Un massacro. In fondo, dì la verità, ti dispiace non poterne gioire. Gli onesti, o almeno quelli che ritengono di meritare l’iscrizione ad honorem al club, hanno già coniato slogan, inventato barzellette, stampato t-shirt e adesivi con il faccione sorridente e contadino del Grande Giudice Vendicatore. Hanno dato vita a una festa contro quelli come te. La folla tradisce sempre, lo dovresti sapere. I puzzoni, prima o poi, finiscono appesi per i piedi, a prescindere dal fatto che chi ce li appende sia migliore di loro o meno. E’ vero che sembrava proprio che a tutti il sistema piacesse così, ma i tempi cambiano, la gente salta sul carro


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di quello che guida la corsa e voi vecchi lobbisti di regime la partita stavolta sembrate averla persa davvero. Il primo affare poco pulito che Salvini ti propose fu una fesseria. In qualche sperduto paesino dell’Abruzzo, un appalto di variante stradale approvato in Commissione, cinque miliardi che nessuna persona sensata avrebbe mai speso in quel modo, ma che in fondo avevano dato lavoro a una ventina di poveri disgraziati e un bel po’ di grano a qualche asfaltatore pubblico. Tanto per coprire quelle famose spese di rappresentanza, se no poi con la Corte dei Conti erano cazzi. Erano già diversi anni, dallo scandalo dei fondi neri dell’Iri, che le società dello Stato non riuscivano a tenere più tanto facilmente contabilità occulta. Tutto doveva in qualche modo essere giustificato e allora si faceva una strada, oppure un ponte, si piazzavano un centinaio di semafori inutili, i costi lievitavano e c’era lo spazio per la… cresta. Il tuo ruolo era di contribuire a far sì che la stampa non se ne accorgesse. Sai che sforzo. Erano più di quarant’anni che la stampa italiana non si accorgeva di nulla. Con l’eccezione di un comico, che lo disse in tv e sparì per sempre, nessuno si sarebbe mai sognato di insinuare che il partito del tuo mentore era solo una volgare associazione a delinquere. Ma quel giorno sei stato davvero bravo. Con una dichiarazione un po’ forzata di un senatore che la mattina a colazione era solito allungare col cognac il suo cappuccino, passata a un collega della tua vecchia agenzia, riuscisti a scatenare un tale casino a proposito del bilancio di non so quale società, al punto che tutti i colleghi che normalmente bivaccano nella sala stampa di Palazzo Madama si scordarono del tutto di quella insignificante riunione della Commissione per gettarsi alla ricerca di altrettanto inutili reazioni alla sparata della mattina. Salvini fu molto contento. Che il gioco fosse anche più sporco di quello che pensavi te ne accorgesti il giorno in cui il segretario del partito nel quale militava Salvini ingaggiò una battaglia parlamentare che durò oltre un anno per approvare una legge che si rivelò come una delle più grosse cazzate della storia. La nuova legge sulla droga, che fecero opportunamente firmare da un anziano giurista che nel suo curriculum vantava soprattutto il fatto di essere stato l’amante di un’attricetta di quart’ordine e da una orrenda bacchettona dalla voce insopportabile. Con mezzo grammo di hashish si poteva finire in galera. Roba da i-


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slamici ortodossi. Anzi, peggio. Tu ti lamentasti con Salvini. Ma come? Proprio loro che di droga ne consumavano a chili? “Raimondi! Mi meraviglio di lei… credevo che avesse una sensibilità politica maggiore. Non si è accorto che in Italia si sta dissolvendo il voto della destra? Se ce li vogliamo accaparrare bisognerà pure dargli un contentino a questi ex fascisti trinariciuti”. La legge passò. E a parte il fatto che un bel po’ di ragazzini pescati con un paio di spinelli in tasca dovettero far ricorso allo sciacallaggio di qualche avvocato per evitare il carcere, l’unico effetto apprezzabile fu che si trattò dell’unico provvedimento della storia patria a dar vita a un partito di opposizione alla legge stessa, che si conquistò pure qualche deputato, anche a Strasburgo, e diversi consiglieri comunali. Tanto per voi, di droga, ce ne era sempre tanta. Come sempre. Poi venne la metropolitana e l’affare della Piombi spa che adesso ti tocca rimpiangere. Quel giorno Salvini ti fece chiamare al giornale, dandoti appuntamento a Sant’Eustachio. Lì ti disse molto semplicemente che avresti dovuto ritirare dei soldi per lui, di lì a un’ora, da Canova a piazza del Popolo. Ti chiese se conoscevi Michele Piombi e aggiunse che per te c’erano ottanta milioni. Tu, manco a dirlo, andasti. Piombi era bianco cadavere e sudava freddo. Quando lo avvicinasti facendogli capire che eri tu a dover ritirare la valigia, si spaventò ancora di più. Ma poi ti riconobbe. Lo avevi intervistato un paio di volte, quando la sua azienda aveva comprato le cementerie statali, quello che i giornali, anche e soprattutto il tuo, fecero passare come il primo grande esempio di privatizzazione, un’asta miliardaria alla quale avevano partecipato due dei più grossi nomi della finanza nazionale e che invece, caso strano, l’aveva vinta Piombi, poco più che un palazzinaro, ma con amicizie importanti. Tra l’altro si rivelò un pessimo affare per lui. Da allora non ha più smesso di pagare debiti. “Lei lavora per Salvini?”. C’era un’aria delusa sul suo volto. Forse gli crollava il mito della stampa libera e indipendente. Ma no. Non poteva essere così coglione. “Siamo tutti sulla stessa barca”, aggiunse in tono un po’ rinfrancato passandoti la valigia. “Mi saluti il senatore”. Con quegli ottanta milioni ci finisti subito di pagare la macchina, ti comprasti un bello stereo nuovo, casse da 200 watt, un’autentica dichiarazione di guerra nei confronti di quell’arteriosclerotica della tua


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vicina, e un bel biglietto andata e ritorno per New York. Il resto in Bot. Perché non si sa mai. Bisogna rimpinguarla sempre la voragine del debito. Manhattan aveva un fascino tutto particolare in quel periodo. E non era solo quel senso di deja-vu che ti travolge mentre cammini, solo perché hai visto quei palazzi e quelle strade decine di volte in decine di film. Passasti una settimana a consumare la tua American Express in tutti i negozi della Quinta, riempiendo due valigie di roba, soprattutto polo e camicie comprate nel negozio di Ralph Lauren a Madison e orologi Swatch, gli odiosi Crono e Scuba, che in Italia erano introvabili, o costavano un occhio della testa, e regalarli a qualcuno ti faceva acquistare un milione di punti. Da quelle parti si faceva i conti con una crisi mica male. Erano parecchi i posti che esponevano i cartelli di svendite colossali per fine attività, in particolare le gioiellerie e i negozi d’alta moda. Gli unici a resistere sembravano i rivenditori di elettronica, con tutte le ultime diavolerie, made in Japan naturalmente, a prezzi ridicoli, almeno in quel periodo in cui il dollaro valeva poco più di mille lire. Nelle vetrine campeggiavano eloquenti scritte (“Si parla italiano”) che davano bene il senso della situazione. Eravate voi, ex immigrati, spaghetti, pizza e mandolino, a mandare avanti la baracca. Arrivavate riempiendo i voli della Twa, che offriva il passaggio a quasi la metà della tariffa della compagnia nazionale italiana, piombavate a New York e ve ne andavate con pacchi e pacchetti nascosti alla meglio per evitare guai con la dogana. E i newyorchesi? Sembravano un po’ nei guai a giudicare dal numero di bancarelle lungo le vie che cercavano di sensibilizzare i passanti sul problema degli homeless. E c’era Alessandra, che viveva lì da anni, che ti portò tutte le sere a fare il giro dei locali, per finire a Brooklyn a comprare erba e anfetamine dai suoi due amici gay che vivevano con sei gatti in un appartamento di due stanze. Fui lei, italiana di Reggio Calabria, a salvare un pochino il tuo mito americano. Niente sesso, ma un sacco di droga e di rock’n’roll. ***


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Sta squillando il telefono. E’ di nuovo Fabrizio che ti cerca per andare insieme a mangiare qualcosa. Non gli dire di no. Forse ti fa bene uscire. “Tra un’ora al fioraio di piazzale degli Eroi. Andiamo da Candido”. C’è un sacco di gente in giro in questa serata di autunno. Fa ancora caldo e il traffico è sempre intenso. I ristoranti sono pieni, alla faccia della crisi. Dicono che solo i negozi di abbigliamento non fanno più una lira. Finalmente. Così magari qualcuno chiude. Per strada il solito casino di macchine in cerca di un varco. Casse che battono ritmi incessanti a volumi al limite della sopportazione umana, tanti ragazzi con le tasche apparentemente piene, al fianco di ragazzine truccatissime che ciancicano gomme americane a bocca aperta, vigili al lavoro senza sosta per respingere l’assedio. E giù bestemmie, imprecazioni, lei-non-sa-chi-sono-io, non-me-ne-frega-uncazzo-cambi-strada-dio-cane, blocchi stradali con guardie in assetto di guerra solo per fermare quelli che vanno in due in motorino o senza casco, tutti girano e girano, premendo sugli acceleratori e sui freni, una nevrosi collettiva alimentata dalle macchine, senz’anima, senza meta, senza ragioni, spinti tutti dal desiderio di abbandonare per poche ore i ghetti di periferia, dove non c’è mai una luce, uno spiraglio, una possibilità, un angolo di Roma dove potersi sparare un cannone in pace e farsi venire sonno guardando le insegne come se fossero gli special di un flipper. Candido è come sempre. E’ la vostra vecchia trattoria, con le tovaglie di carta, i bicchieri di rosso dolce di Olevano, la matriciana in bianco e le polpette al sugo, l’alcol che sale insieme al buon umore. “Cazzo, Michele… ma perché non ti fai più vedere?”. “Non lo so. Forse mi manca la faccia di incontrare i vecchi amici. Io ho fatto cose diverse”. “Diverse? Diverse da cosa?”. “Diverse da come la pensi tu. Non ti piacerebbe sapere fino in fondo quello che faccio veramente”. “E vabbè… ma che c’entra? Che ti credi che gli altri si sono fatti frati? Oh… bello! Io lavoro nella pubblicità… sai che merdaio è? Molto peggio della politica… e poi… visto? Adesso i politici li beccano pure”. “Embè… non sono io quello che può rallegrarsene. In quella giostra ci sto dentro con tutte le scarpe”.


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“Come sarebbe a dire?”. “Sarebbe a dire… ti ho parlato di Salvini, no? Ho fatto qualche lavoretto per lui non proprio lecito”. “Rischi qualcosa?”. “Ancora no, ma potrebbe anche succedere”. Fabrizio sembra colpito, quel sorriso beone che aveva gli svanisce in un attimo. Tremi. Però poi lui sorride di nuovo, alza il bicchiere e tracanna una bella sorsata. “Okay… sei diventato uno stronzo, ma a cosa servono gli amici?”, ti dice sembrando quanto mai sincero. “Perché non ce ne andiamo?”, ti fai uscire tu senza pensarci. “Ma no… perché? Beviamoci un’altra cosa…”. “Che hai capito?! Intendevo dire… ce ne andiamo, mandiamo tutti a fare in culo e andiamo a vivere da qualche altra parte. Io qualche soldo ce l’ho… potremmo…”. Lui adesso ride forte e ti guarda con occhi increduli. “Non si è mai veramente coraggiosi da diventare vigliacchi del tutto”, dice… e chissà a chi l’ha rubata quella battuta. “Ah, ah, ah… no, Michele, io non me ne vado. Io qui ci sto bene. E i guai di questo posto non sono diversi da quelli che affliggono tutti gli altri stronzi posti del mondo”. Al tavolo a fianco il discorso si accanisce su un giocatore della Roma. Le opposte fazioni, chi lo considera una pippa e chi invece un genio del calcio, quasi vengono alle mani. Quando uscite ti ricordi che Fabrizio non ha mai disdegnato un po’ del più tipico dei prodotti sudamericani e lo inviti da te. Un po’ di sane chiacchiere fino al mattino non ti dispiacerebbero affatto. Ma lui, a sorpresa, declina l’offerta. “Ho smesso di tirarmi nel naso tutto quello che mi capitava da un bel pezzo e devo dirti che sto proprio meglio. Dovresti farlo anche tu”. Sul Lungotevere di ritorno a casa ti imbatti nelle puttane del dopo mezzanotte. Un paio sono carine, tipo slavo, la voglia ce l’avresti pure, ma proprio in questi giorni hai letto sui giornali che la polizia per scoraggiare il carosello notturno ha deciso di sequestrare le macchine dei clienti. Meglio evitare ulteriori complicazioni. Sei solo. E con tutto il vino che ti sei bevuto non fatichi ad addormentarti. ***


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E’ stato un sonno agitato. Il tuo fegato ha dovuto smaltire il macigno del rosso dolce, la tua coscienza invece deve fare i conti con qualcosa di più pesante. Quel senso di oppressione ti è rimasto addosso, te ne accorgi subito mentre ti alzi e vai a pisciare, ti lavi, ti infili una tuta e esci, malgrado siano solo le nove. Praticamente l’alba per uno come te. Sui giornali il chiasso non è ancora molto. I titoli di apertura sono dedicati all’alluvione in Toscana e alla nuova legge che abolisce il fumo nei locali pubblici. Che vuoi farci? Nei periodi di piena vengono a galla gli stronzi. Salvini compare solo in titoli di taglio basso, senza foto, che rimandano a pagine interne. Il tuo giornale non si è distinto dagli altri e ora che lo rileggi ti accorgi che il tuo pezzo era tutt’altro che orrendo. Prosa asciutta, chiara, immediata. Quello che ci vuole. Piuttosto è il resto che è da buttare. Un fogliaccio per solleticare i pruriti reazionari di classe, quella dei “valori tradizionali da rispettare”, tanto per intenderci. Il presidente del Consiglio, naturalmente dello stesso partito di Salvini, se la prende con le banche accusandole apertamente di strozzinaggio, ma è come dirselo da soli visto che un bel po’ di banche importanti sono di proprietà pubblica. Lo fa per conquistarsi l’approvazione degli industriali come se questi ultimi, che per assumere un dipendente li devi trascinare in tribunale, fossero meno strozzini dei banchieri. Le tangenti sembrano aver perso consistenza come notizie. Ma è ancora pericoloso girarci attorno, perché ogni testata nazionale ha ormai un giornalista che si occupa solo di questo e basta un niente, un avviso di garanzia a qualche bel nome… e giù di nuovo i titoli di scatola e le immagini della gente in manette al telegiornale. Ci vorrebbe un’alluvione al giorno e forse nemmeno basterebbe, visto che qualche furbacchione di cronista comincia già a scrivere che sono state proprio le tangenti ad aver impedito lavori pubblici seri e ora a ogni minimo acquazzone si verificano catastrofi di dimensioni bibliche. Il cappuccino del bar non ti aiuta granché. Hai freddo, fame, sonno, voglia di andartene da questa città di zombi, di stupidi impiegati e bottegai. Tu e Salvini sarete pure dei ladri, ma questa gente putrefatta, che si preoccupa solo delle condizioni del ginocchio dell’idolo pallonaro del momento e dell’ultimo modello di Bmw, malgrado non possa assolutamente permetterselo, come definirla?


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Non c’è nemmeno gusto a sputtanarsi per questi quattro coglioni, a spasso con il cane la domenica mattina, o chiusi in casa in adorazione di Pippo Baudo. Perché si dovrebbe essere onesti con un popolo così? “Io me auguro che li sbattono tutti in galera, st’infami. Hanno rubato pe’ anni alle spalle de’ noialtri. Ora deve da finì la pacchia”, dice a voce alta uno, che non sembra proprio il tipo del proletario sofferente. “Sti magnaccioni. Pure nell’apparti dei cimiteri so’ iti a rubbà. Manco li morti arispetteno. Però… ahò… io so’ preoccupato. E se mo se bevono puro er presidente della Roma come famo?”, risponde un altro, che fa l’autista di qualche pezzo grosso e passa la giornata a tenere comizi da bar dello sport in attesa che il suo boss si decida a uscire. Il contatto con gli inneggianti al Giudice Vendicatore e alla Maggicaroma ti sta facendo venire l’orticaria. Meglio tornare a casa. Cammini, lento, passando davanti a una scuola di preti, fermandoti a guardare le ragazzine del liceo, che una volta avevano la camicetta bianca e la gonna pieghettata e adesso sfoggiano trucchi ridicoli e mostrano culi e tette che è una bellezza. Forse era colpa della segregazione, ma pensi che le liceali erano molto più perverse un tempo. E’ mentre ricordi le calze bianche delle alunne della scuola solo femminile, che si trovava nell’isolato a fianco della tua, rigorosamente solo maschile, che si materializza dal nulla una di quelle situazioni che spesso si sognano, ma con la quali non si sa mai se si è in grado di fare i conti veramente. Uno di quei lampi che squarciano la vita di un uomo e dopo non è più lo stesso. Sulla soglia di casa ti affronta il portiere porgendoti una busta raccomandata urgente. Dentro c’è un biglietto aereo, a tuo nome. Destinazione Miami, domani. Solo andata. Resti in uno strano limbo per alcuni minuti, prima che la tua mente cominci anche solo a ragionare sulla possibilità di prenderlo o meno, quell’aereo. Non credevi che la situazione fosse così grave. Squilla il telefono. Naturalmente è Salvini. “Raimondi, sono io. Dovrebbe aver ricevuto il biglietto. Lo usi, mi dia retta. Prenda con sé quello che può portare e non si preoccupi dei soldi”. “Lei si trova a Miami?”.


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“Non lontano da lì”. “E’ così seria la faccenda?”. “Senta un po’… non la fucileranno mica, sa? Ma qualche notte al fresco la rischia sì. E non credo che quando uscirà le cose si metteranno tanto bene per lei. Salga su quell’aereo, senta a me, si lasci dietro quel paese di merda… io qui ho tanti amici e le assicuro che non rimpiangerà di essersene andato”. “E una volta arrivato a Miami?”. “Troverà qualcuno che le darà istruzioni. Lei prenda quell’aereo, al resto ho pensato tutto io. Ora la saluto… ci vediamo presto e se così non fosse le auguro comunque buona fortuna”. Clic. *** Nonostante continui a bere caffè da un paio d’ore, non riesci proprio a ripristinare un briciolo di ragionamento. Miami? Fuggire via così? Apri il cassetto e tiri fuori la tua boccetta con la riserva di coca e allunghi una bella striscia sul marmo del tavolo della cucina. Tiri su tutto di slancio e usi le briciole per addormentare denti e gengive. Il tuo cervello riprende a funzionare con la sicurezza di sempre. No, in galera proprio non è il caso di finirci. La prima cosa da fare è in banca. Ti presenti dal direttore alle nove e trenta e spieghi che devi assolutamente effettuare un prelievo consistente, circa venti milioni, la metà in dollari, e ti servono subito. Ti guarda come se fossi pazzo, ma tu ti inventi una bella storia su un anticipo di mutuo da pagare e un viaggio improvviso di lavoro. Lui tentenna un po’, ma poi, siccome ti deve qualche favore, ti dà appuntamento per le tre del pomeriggio. Il passaporto è a posto. Stai pensando di chiamare in ufficio per darti malato, quando invece decidi di andarci lo stesso. Per strada ti imbatti nell’ennesima manifestazione. Stavolta sono commercianti e artigiani, protestano perché in alto qualcuno avrebbe deciso di far pagare le tasse anche a loro. E fanno un casino di inferno, con gli striscioni e tutto il resto. In mezzo a una calca impressionante, ti muovi con un certo distacco, incuriosito dalla folla che va a protestare contro il governo come se facesse una gita in campagna. Di solito in queste occasioni i sindacati riescono facilmente a carica-


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re un po’ di gente dalla provincia su treni e pullman speciali. Gita a Roma, gratis, manifestazione inclusa. Un affare. Un sacco di vecchietti dal naso rubizzo che soffiano nei fischietti e agitano le loro belle bandiere, sorridenti in favore di telecamere. Quando facevi il cronista ne hai seguite parecchie di fiere di paese simili. Finivano tutte con il comizio a piazza San Giovanni e la solita guerra delle cifre sulla partecipazione. La piazza diventava ogni anno più grande, 400 mila, mezzo milione, un milione, quando un banale calcolo matematico aveva più volte dimostrato che in quello spazio, anche una sopra all’altra, non sarebbero entrate che 2-300 mila persone. Alle ultime manifestazioni, però, i leader del sindacato hanno preso qualche bullonata sui denti e la polizia ha ripreso a far roteare i manganelli. Non vorranno mica ricominciare a spararsi e farci finire un’altra volta a parlare bene dei carabinieri? No, stamattina la sagra è proprio paesana. Niente bulloni. Però ci sono salame e vino rosso e si bivacca senza ritegno davanti alla sede del governo, proprio sotto il tuo giornale. “Lei è un giornalista? Lo scriva che siamo stufi di farci derubare da questi signori qua”, ti apostrofa uno, visibilmente brillo. Magari è del partito di quelli che vorrebbe i drogati al muro, ma poi sbaglierebbe la mira perché abitualmente fa colazione con la grappa. Sulle tue labbra, anche se non te ne rendi conto, è dipinto un sorriso di disprezzo. Guardi la folla in piazza un’ultima volta prima di infilarti nel rassicurante androne del palazzo. Un bello spettacolo. I commercianti, che dichiarano meno degli operai, gridano che il governo è ladro. La lobby della saracinesca è ignorante quanto potentissima. Ha sempre manovrato centinaia di migliaia di voti edoperato in una pressoché totale assenza di controlli. Ma il governo adesso è costretto a raschiare il fondo del barile e bussa a tutte le porte con il piattino. Inutile far finta di non essere in casa. “Uè… Raimondi! Già qui? Sei cascato dal letto?”. “Buongiorno Santucci bello. Il mattino ha l’oro in bocca”. “Sì, sì… come no… sarà perché ha i denti finti”. A Santucci è difficile dare torto. Arriva in ufficio tutte le mattine alle sei. Sai che palle. “Ci sono sviluppi sul caso Salvini?”, chiedi tu con un’indifferenza che sembra quasi vera. “Su chi?”, fa lui realmente sorpreso.


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“Dai… Salvini, l’ex senatore. Quello dell’avviso di garanzia dopo le confessioni di Piombi…”. “Ma che cazzo ne so? Ormai chi le segue più le storie sulle tangenti? O arrestano il papa o sono destinate alle cronache regionali”. “Troppe pressioni?”. “Maddeché… io personalmente mi sono rotto di scrivere sempre le stesse cose. Sono sei mesi che scomodiamo sociologi, pensatori zombi che tutti speravamo ormai di non dover intervistare mai più, marchettari professionisti… solo per spiegare il motivo de tutto ‘sto casino. Ma che cazzo de motivo ce deve sta’ in un paese dove l’affitto medio è di un milione al mese e lo stipendio medio poco de più? Se la gente qui non muore di fame è perché tutta, nel suo piccolo, imbroglia. Pe’ campà bisogna arrotondà. Chi più chi meno. Sai c’è sempre chi arrotonda pe’ pagasse le vacanze a Saint Moritz…”. “Santucci! Non ti facevo un filosofo…”. “Ma quale filosofo… io sono un metereologo. Registro gli umori del popolo… che non se vo’ più sentì fa la morale. Ce vorrebbe un bell’uomo di spettacolo, uno di quelli… sai… la figura dell’imbonitore. Secondo me vincerebbe le elezioni”. “Santucci non sei un filosofo. Sei un pervertito…”. Scoppiate a ridere tutti e due proprio mentre passa Terzi, il quale ti saluta appena e non si meraviglia affatto che tu sia lì così presto. Magari pensa che è perché ti ha cazziato per interposta segreteria telefonica. Ti manda a dire dal caposervizio che dovresti intervistare Franco Tempestini, ex segretario cittadino del più grande partito italiano, espulso e inquisito dopo essere stato beccato con le mani nella marmellata degli appalti. Ora vorrebbe vuotare il sacco. Pensi che potrebbe essere un gran bel pezzo da scrivere come tuo personalissimo commiato dal mondo della carta stampata. Un’altra bella palata di merda in faccia al regime. Fissi un appuntamento con Tempestini per le quattro del pomeriggio. Poi esci. Vai a guardarla ancora un po’ questa Roma che ti sta mangiando vivo e che fino a ora hai alimentato come se fosse un vampiro dalla sete insaziabile, con la tua notevole possibilità di spendere. Pensa a quante discoteche, quanti ristoranti orribili, quanti locali “in” hanno prosperato grazie agli stronzi come te. A quest’ora in giro è pieno di ragazzini che hanno fatto sega a scuola. Si vestono in modo ridicolo e hanno delle capigliature assolutamente improbabili, ma sono giovani, cazzi loro.


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Ci sono molte guardie in giro, ma non hanno le facce truci. Alcune turiste giapponesi si fanno la foto con due carabinieri in alta uniforme che sembrano quelli di Pinocchio. Passa anche una poliziotta a cavallo. E’ bionda e sembra una fica pazzesca. Sta pur sicuro che se ti dovessero arrestare non ti capiterà il culo di trovare lei. Ora c’è il sole. La scalinata di piazza di Spagna è piena di gente seduta a far nulla. Due vecchi hippy stanchi e depressi suonano Dylan con la chitarra. Ad ascoltarli ci sono anche un po’ di pischelli, ma solo perché la canzone è “Knockin’ on heaven’s door”, rifatta di recente dai Guns and Roses. In un altro angolo due neri fanno risuonare ritmi africani con i soliti odiosissimi bonghi. Gira qualche canna e tutti chiedono soldi. I posteggiatori abusivi, gli eroinomani, i lavavetri ambulanti, i suonatori di strada, i negozianti che fanno volantinaggio per promuovere i saldi, gli stranieri di tutte le razze. Biondi come i polacchi, caffelatte come i marocchini, neri come senegalesi e nigeriani. Non funziona niente, né le biglietterie automatiche, tanto meno i telefoni, né i mezzi pubblici, tanto meno i bancomat. Però hanno delle belle facce allegre, gli italiani. Non sembrano sentirsi a bordo del Titanic. Quanto ripassi in banca il direttore ti guarda sempre meno convinto. Ha messo tutto in una bella valigetta, omaggio dell’istituto alla migliore clientela, quella insomma che fa versamenti e prelievi per i quali serve la valigetta. E tu ti ritrovi a sperare di non dover mai più avere a che fare con un direttore di banca, figura tipica della civiltà del cotone. Sarebbe già un risultato. *** Ha la faccia buona questo Tempestini. Ha gli occhi umidi come quelli delle bestie indifese e sembra sincero. Rasato di fresco, con quei suoi capelli bianchi bianchi, ti spiace un sacco che lo abbiano sputtanato in quel modo barbaro. Rischia tre anni, di farseli tutti e i suoi ex compari lo guardano come un appestato. “Vede”, ti fa lui con uno sguardo strano, quello di uno che ha finalmente trovato il modo per riscattarsi, “sono proprio dei bastardi quelli là. Adesso mi fanno passare per un ladro e mi hanno fatto buttare fuori dal partito. Ma io mi sono rovinato la vita per loro, lo sa? La direzione nazionale inviava alla nostra federazione un contributo di nemmeno cinquanta milioni l’anno. Noi spendevamo quasi tre mi-


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liardi e mezzo. Tutto documentato. Pranzi, cene, comizi, campagne elettorali… dove pensavano che prendessimo tutti quei soldi?”. Non c’è odio nelle sue parole. E’ convinto nella sua parte di capro espiatorio. Ma non vuole proprio passare per ladro. “Le giuro su mia moglie che è malata che io non mi sono messo in tasca neanche una lira”. Bel coglione. “Ho versato tutto al partito. Erano una macchina succhia soldi, lo sa? E ora mi hanno mollato come una scarpa vecchia, mentre in giro vanno raccontando di aver imboccato la strada del cambiamento, citando ad esempio la mia espulsione… si rende conto?”. “E lei che farà?”. “Spero tanto di non tornare in galera”. Povero Tempestini. Nell’articolo provi a non farlo uscire proprio male, cercando di puntare sul fatto che evidentemente non ha rubato per sé. Poi al telefono provi a rintracciare Enrica, nella speranza di aggiungere anche una bella scopata alle tue celebrazioni d’addio. Tutto inutile. Ma forse è meglio così. Quando esci dal giornale c’è un altro assembramento davanti al palazzo del governo. Stavolta sono gli extracomunitari senza casa. Poveri cristi, venuti qua da posti lontanissimi, convinti di trovare un mondo simile agli spot della vostra tv, dove tutti si vogliono bene, sono biondi con gli occhi azzurri e hanno dei bagni in casa grossi come campi da tennis. E invece hanno trovato un popolo di gran bastardi, piccoli, neri e incattiviti, che ha comprato sempre tutto a buffo e a cui i negri stanno anche un po’ sul cazzo. Possibile, ti chiedi, che da loro stiano peggio di così? Superi anche questa folla e ti dirigi verso casa. In cuor tuo pensi che andarsene, anche per sempre, non sarà poi così doloroso. *** Ci sono poche cose al mondo più false della gentilezza stereotipata delle hostess. Forse il cinismo mestierante dei dottori, la cortesia di plastica delle assistenti dei dentisti. Tutti coloro che insomma devono “per forza” farti sentire a tuo agio. Salvini non ha badato a spese. Sul volo Roma-Miami hai un posto in top-class, anche se probabilmente lui non lo avrà nemmeno paga-


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to. Trattamento d’eccezione, con il personale di volo che praticamente non ti dà pace, visto che sei l’unico passeggero al piano di sopra del jumbo. Ma in realtà ti fa piacere che qualcuno si prenda cura di te. Stamattina, al tassista che ti portava a Fiumicino, hai chiesto di passare un attimo per Fregene. Qualcosa nella tua testa diceva che non avresti rivisto più certi posti. E allora, con il tassametro che scorreva, ti sei fermato a prendere un caffè allo snack di via Castellammare. Proprio come tanti anni fa, quando questo posto valeva qualcosa, soprattutto perché lo bazzicavi tu, con i tuoi amici, con il tuo gruppo, il tuo agglomerato sociale di contestatori in pillole. Eravate in tanti e sognavate un mondo migliore. Adesso non c'é più nessuno. Quelli delle serate all'insegna del "che bello, due amici una chitarra e lo spinello", come diceva una canzone scritta in tempi non sospetti, ora dirigono aziende, tagliano appendiciti, compilano 740 e tu il mondo migliore lo stai andando a cercare altrove. Ti dispiace per Fabrizio. Vuol dire che da Miami gli manderai una bella lettera per spiegargli tutto. Nella sala delle partenze internazionali la polizia girava con i cani antidroga. Non ne sai un granché, ma ti ricordi sempre di quando quei bastardi di cani pescarono un tuo amico con soli due grammi di hashish in una valigia piena di vestiti e gli fecero passare un sacco di guai. Hai avuto paura, provando rimorso per la decisione di portare con te quei due pezzi di coca che ti rimanevano, ma i cani non hanno sentito nulla quando ti sono passati vicino. Forse anche la loro infallibilità è una leggenda metropolitana, uno spauracchio per evitare che i drogatucci come te si portino dietro da paesi strani qualche illegale souvenir. Contento di aver evitato il pericolo, sei corso subito alla toilette a tirarti su un paio di strisce, tanto per ammazzare la monotonia dell'attesa. Ora, mentre la hostess ti serve lo champagne di rito prima del decollo, ti senti il naso colare, stuzzicato da troppa polvere. Trangugi due coppe per scaricare la tensione e cominci a sudare allacciato alla tua cintura di sicurezza. E' allora che, sopraffatto dall'agitazione, mandi giù due Alcyon che ti stroncano del tutto, sprofondandoti nel sonno. Salti i pasti, il film, i liquori e ti svegli che l’aereo sta già scendendo di quota verso il Miami International Airport. Sono ormai anni che per entrare negli Usa non serve più il visto. Basta firmare un modulo che contiene delle domande un po' inquie-


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tanti, del tipo "Avete contratto qualche malattia contagiosa? Siete dei trafficanti di droga o ex nazisti?", fino alla piú classica e ancora non abolita "Siete iscritti al partito comunista?". A te fanno subito una storia perché non sai dire per quanti giorni ti fermerai, poi però si accorgono che sul tuo passaporto compare un visto speciale per la stampa, con intorno decine di timbri di ingresso negli Stati Uniti e ti fanno passare chiedendoti anche scusa. La sala d'aspetto é enorme e piena di gente, tutti latinoamericani. Di conversazioni in inglese nemmeno l'ombra. Parlano tutti castigliano, come la quasi totalità dei tassisti e dei camerieri di bar e ristoranti qui a Miami, città che racchiude in sé le ipocrisie di un continente arricchitosi per metà sulle spalle dell'altra metà. Per molti di loro, che adesso magari staranno aspettando i parenti in fuga da posti troppo poveri per poter provare il fascino di sopravviverci, questa città è stata l'emblema di una nuova vita, all'ombra dello zio Sam e lontani da regimi fantoccio, squadroni della morte, favelas. Non c'é riscatto qui per questa gente dalla carnagione olivastra, vociante e contenta per il suo tanto ambito passaporto con su scritto "U.S. Citizen". Si sono venduti per un piatto di minestra ai loro nemici, perché nella vita molto spesso basta un piatto di minestra per comprare l'anima della gente. Non come voi, che per corrompervi sono servite centinaia di milioni, macchine di lusso, telefonini e carte di credito "gold". C'é un tizio che sembra messicano, con due baffoni alla Pancho Villa e un vestito elegante, che ha in mano un bel cartello, tenuto leggermente nascosto sotto la giacca, con su scritto il tuo nome. “Mister Raimondi?”. “Sono io”. “Buongiorno. Ho l'incarico di accompagnarla all'albergo”. Fuori ad attenderti c'è una limousine, ma qui non è propriamente un simbolo di ricchezza. Affittarle con l'autista costa molto meno di un taxi italiano. Sembra un film di spionaggio. Pancho Villa non parla e tu hai meno voglia di lui, con la bocca impastata dal sonnifero che ti ritrovi. La macchina percorre una lunga autostrada a sei corsie. Intorno un paesaggio desolante di fast-food dove si entra direttamente con la macchina, concessionari di auto e distributori di benzina grandi come cattedrali. Il mito del motore e tutti i suoi feticci.


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Le case sono basse, anche in periferia, sembrano tanto più belle di quegli orribili casermoni che si vedono a Roma. La gente è più ricca, si vede subito. Anche il tuo messicano sta sicuramente meglio ora, in giacca e cravatta al volante della limousine, che sulla spiaggia di Cancun a vendere braccialetti ai turisti. Magari manda soldi alla moglie, magari sogna di diventare un giorno cittadino americano, probabilmente i gringos li adora. Miami è l'ultima frontiera dell'impero, a un’ora di motoscafo da uno degli ultimi esempi di socialismo reale, Cuba. Qui un sacco di gente ha fatto i soldi con l'immigrazione clandestina e con il traffico di stupefacenti. La droga arriva dappertutto, da ogni singolo paese del Sudamerica e prende le strade più diverse all'interno degli Stati Uniti, un paese che ha una delle leggi piú severe contro il consumo di droga e che ne ha imposte di simili in tutto il circondario solo per fare in modo che il prezzo non crolli mai. Sono passati solo sei o sette anni, ma sembra un secolo, da quando gli yuppie di Wall Street consumavano fiumi di polvere bianca per mantenere certi ritmi di lavoro e passare dopo la notte in discoteca. Oggi l’ottimismo di un tempo sembra completamente superato, la paura di ritrovarsi con le pezze al culo e di non potersela più prendere con nessuno ha giocato un ruolo fondamentale anche alle ultime elezioni presidenziali, la coca ha preso più facilmente le rotte europee, ma i chicanos che si presentano qui nel tentativo di cambiar vita sono sempre tanti. Miami ha solo un secolo, ma é già una città complicata, difficile, specchietto per le allodole di un turismo pacchiano e sciupone, piena zeppa di conflitti sul punto di esplodere. C'é la comunità cubana di Little Havana, quasi tutti ex seguaci di Batista, spacciatori e mafiosi, e quella afroamericana di Liberty City e Overtown, dove la miseria si avverte a ogni passo. Ultimamente poi, la guardia costiera deve fare i conti con le migliaia di profughi che arrivano da Haiti per ributtarli a mare senza tanti complimenti. Qui, come noto, accettano solo chi scappa dal comunismo. L'albergo si chiama Palmer House e sta proprio sulla spiaggia. Ha un’aria moderna, quasi asettica nella sua funzionalità. Il personale é giovane, ma si sforza di essere molto professionale. Naturalmente d'obbligo l'’aria condizionata effetto Siberia. “Sono Michele Raimondi. Ci dovrebbe essere una prenotazione”. “Sì. Solo per una notte, vero?”.


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Una sola notte? Mentre sali in ascensore pensi che era ovvio che Salvini non lo avresti trovato qui. Gli Stati Uniti non sono un buon posto dove nascondersi e Miami è lo scalo per tutto il centro-sud. Forse si è rifugiato da qualche pazzo dittatore, di quelli particolarmente cattivi e a te ti arruoleranno nella polizia segreta. In camera trovi la soluzione dell'enigma. Dentro a una busta gialla c'é un altro biglietto aereo, partenza domani alle quattro del pomeriggio, destinazione Montego Bay, Giamaica. Il viaggio non è finito. La giornata americana si trascina via stancamente. Una passeggiata lungo Ocean Boulevard, una cena a base di cibo cubano niente male, tanta noia a osservare la folla che sciama lungo questa pista d'asfalto che ha il potere di trasformare il posto in un gigantesco villaggio vacanze per boss della nuova famiglia. La musica é alta dappertutto, la gente talmente ubriaca da dar fastidio anche a te. Si avvicina un tipo, scuro di pelle, anche lui con i baffi. “Italiano... spinello?”. Non sai resistere. Compri un po’ d’erba e te la fumi beato, accompagnandola con un paio di bottiglie di birra, seduto sulla spiaggia a pochi passi da un gruppetto di ragazzi con la chitarra. Cantano anche loro Bob Dylan, come quelli di ieri a piazza di Spagna. Una ragazza bionda, dalle tette enormi, ti fissa sorridendo, ma avrà si e no diciassette anni. La canzone sembra dedicata a te. Times, they are a changin’.


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2. Yo! Taxi?

“Yo! Taxi?”. E’ l’urlo che ti senti rivolgere almeno dieci volte prima di guadagnare l'uscita dell'aeroporto Sir Donald Sangster di Montego Bay. A ripeterlo, come se tu di taxi ne potessi prendere quattro o cinque insieme, è una folla variopinta di neri, molto diversi fra loro. Alcuni sono alti e filiformi, sembrano somali, altri invece sono più bassi e tozzi, con il cranio più schiacciato, sembrano proprio dell'Africa nera. Fuori dalla sala degli arrivi il mercato continua. In un angolo un tipo con i capelli lunghissimi, annodati in delle trecce pazzesche che sembrano rami di un albero, ti fa strani gesti e sbatte gli occhi, poi porta le dita alla bocca facendo il gesto come se fumasse. Una bella canna... pensi subito tu, proprio un attimo prima che un altro tizio ti tolga letteralmente di mano la valigia caricandola su una vecchia Escort. “Dove andiamo amico?”. “Se hai già deciso cosi... Andiamo a Negril, all'Hepicureism”. E' il nome che ti ha indicato Salvini ed è proprio un nome del cazzo per un albergo. “Yaman”, fa lui. “E' un bel posto”. “E quanto mi costa arrivarci?”. “Niente che possa ucciderti!”, risponde il tassista con una gran risata. La radio della macchina gracchia nelle casse un reggae ossessivo, la strada che avete imboccato, mentre il sole comincia a calare, è di quelle mozzafiato. Le curve si inseguono per la città mostrando di tanto in tanto spicchi di oceano, ville da miliardari americani piene zeppe di palme, un circolo del golf in cima a una collina, dietro la quale spunta all'improvviso una valle chiamata Canterbury, che il muro di cinta di uno degli alberghi più cari della città non riesce a coprire del tutto. Migliaia di minuscole baracche di legno in equilibrio precario su un fianco del pendio, senza strade asfaltate. Sono ca-


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se di compensato, di cartone, di lamiera, di calcestruzzo e di qualsiasi altro materiale facile da trovare e a buon mercato. “E’ la prima volta in Giamaica, uomo?”. “Sì”. “Oh... sai, è un posto meraviglioso, è il paradiso, no? Ma non per loro”, dice lui indicando le baracche. “Quelli che vivono lì sono gli stessi che poi si mettono la loro bella divisa per servire nei grandi alberghi. Ma come vedi non guadagnano bene per potersi permettere qualcosa di meglio qui a Mo’ Bay”. “E tu guadagni bene?”. “Yaman, non male. E poi mi piace andare in giro con la mia macchina e conoscere i turisti. Sei italiano, vero?” “Sì”. “Ne sono venuti tanti qui negli ultimi anni. Siete tutti uguali. Vestite eleganti anche per andare in spiaggia, anche se normalmente avete meno soldi da spendere di americani e canadesi Quello che è buffo è che vi sforzate di farci capire che non avete pregiudizi contro i neri. Ah! Ah! Ah! Anche se non è vero, siete simpatici, molto più degli americani”. “Non ti piacciono gli americani?”. “E' anche colpa loro se questo posto è lo schifo che è”. Il tuo driver, che si chiama Corfield, comincia a esaltare a gran voce la magia della sua isola, piena di ricchezze naturali e di strane leggende, dove il popolo nero ha lottato a lungo contro la schiavitù, ma dove nonostante l'indipendenza e la democrazia c'è ancora gente che patisce la fame. E ti racconta la storia di una bella villa in stile coloniale del XVI secolo, accanto alla quale passate uscendo dalla città. “E' la Rose Hall. Fu costruita da un certo John Palmer, rappresentante della Regina Britannica in Giamaica, nel 1770. Ma non gli portò fortuna. Sposò una giovane irlandese diciottenne, Annie, che era stata iniziata al voodoo da una sacerdotessa di Haiti, sai? Tre anni dopo lei lo uccise e poi fece fuori anche il secondo marito. Ah! Ah! Era una strega, sai, e si accoppiava anche con gli schiavi e poi uccideva anche loro. Alla fine sono stati gli stessi schiavi a ucciderla. Ma il suo spirito vaga ancora per quella casa, credimi”. Ormai è buio. Fuori dal finestrino dell'auto si vede solo una fitta vegetazione e poi, ogni tanto, come per magia, il mare. Corfield accosta in una piazzola vicino a un chioschetto che vende frutta e bibite.


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“Di un po'... ti piace la ganja?”. “Cosa?”. “Ganja. Marijuana”. Fai un sorriso che non ammette equivoci. Bastano due o tre tiri dello spliff (così chiamano le canne quaggiù) che Corfield ha comprato al chioschetto per farti immediatamente crescere quell'euforia tipica che ti sa infondere solo l'erba. Poi tossisci anche l'anima. Corfield se la ride beato mentre trangugia una birra, la "Red Stripe", uno degli orgogli nazionali qui in Giamaica. “Yaman! C'é un'altra cosa che distingue voi italiani... vi piacciono le droghe, bere e le belle donne! Proprio come a noi in Giamaica! Ah! Ah!”. Il viaggio prosegue attraverso una cittadina di nome Lucea, centro amministrativo del distretto di Hanover, con la piazza del mercato che ancora brulica di gente. Ma è buio e le loro facce scure sono praticamente invisibili. Non riesci a capire come faccia a vederli Corfield e a non metterli sotto. La Ford sfreccia veloce con la musica a tutto volume. ARE YOU RULED, RAGGAMUFFIN? COME MONEY RULE RAGGAMUFFIN' YES YOU RULE RAGGAMUFFIN... BIG ALL AROUND! “Questo è Gregory Isaacs, il re del reggae”, annuncia lui con aria trionfante. “Ma non era Bob Marley il re del reggae?”. “Yaman... ma Bob è morto. Come si dice... morto un re se ne fa un altro”. “Siete cinici voialtri...”. “No, siamo pratici”, risponde Corfield e spara subito un’altra risata delle sue. “Ti è piaciuto lo spliff?”. “Certo”. “E' Alaska. Qualcuno la chiama lambsbread, è una delle qualità migliori di ganja”. “E qual è la migliore?”. “La migliore si chiama cotton, ma é rarissima da trovare. Tu puoi avere un’intera coltivazione e vedere uscire una pianta sola. Comunque tutti i tipi sono buoni, occhio però a non farti fregare”. “Potresti aiutarmi tu a non farmi fregare”. “Yaman. A Negril posso presentarti una persona fidata”. “Si sta bene a Negril?”.


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“Tu, turista, starai senz'altro bene”. E giù l’ennesima risata. Parlano uno strano inglese questi giamaicani. Meno male che tu te la cavi. Sa molto di africano, con questo "yaman", una versione nera di "yes man", che ripetono di continuo ogni volta che esprimono approvazione. Corfield è simpatico. Ha l'aria dell'uomo scaltro, ironico, ribelle. Un tipo orgoglioso. Siete arrivati in un posto che si chiama Green Island. Nuova sosta, ma stavolta non per bere e fumare. C'è una pozza enorme in mezzo alla strada, sarà larga venti metri e chissà quanto profonda. Altre macchine sono ferme e da ognuna di esse esce musica reggae a tutto volume. Un sacco di gente intorno. Sembra una festa. Ridono, parlano, guardano la pozza con gli occhi di chi se ne frega anche se farà tardi. E tu, unico uomo bianco, fissi i tuoi occhi su una ragazza che ti sta guardando da prima che lo facessi tu. Sarà che sei sconvolto come una scimmia ubriaca, ma la trovi bellissima. Ha al massimo sedici anni e il viso di Whitney Houston, però é scalza, indossa una maglietta bianca sporca e un paio di jeans strappati. Le sorridi, lei ricambia schernendosi un po'. “Bombo-clot!”, urla Corfield. “Saranno dieci anni che devono riparare questa fottuta strada e ogni volta che fa un temporale finiamo sott'acqua. Amico mio, questa é la Giamaica... scommetto che da voi queste cose non succedono”. Tu pensi alle strade di Roma. E ti viene da ridere. Intorno a voi il party prosegue. II tuo nuovo amico ha acceso un altro spliff e tutti sembrano rimandare ogni decisione su come superare la pozza. Cerchi con gli occhi la piccola Whitney, ma è sparita nel buio. “Yo! Italian?”. “Yes”. “Ah! Italian! Mafia, spinello, Mussolini...”. Il tuo interlocutore è piccolo, ha i capelli bianchi e ride proprio come Corfield. Passi per mafia e spinello, ma perché Mussolini? “Abbiamo un sacco di altre cose in Italia...”, dici tu ridendo come lui. “Yaman! Lo so! Schillaci, spaghetti...”. Cristo.


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A un certo punto qualcuno si fa venire un'idea. Spuntano fuori da non si sa dove due lunghe assi di legno, con le quali viene tirato su un pontile di fortuna. Ti sei sporcato le Tod's di fango. Riprendete la marcia. Sono bastate tre canne e hai già le allucinazioni. Strano posto la Giamaica per scapparci. Ma che culo, diciamolo pure, a non dover rimanere in quel merdaio che é Miami. Dai finestrini entra un bel vento a scompigliare i tuoi capelli già troppo lunghi e a scacciare via i cattivi pensieri. “Certo che muoversi qui é un'avventura...”, dici tu guardando la strada totalmente priva di illuminazione. “Yaman. Non bisogna mai avere fretta. Qui la gente in genere muore per due motivi. Un bel colpo di pistola o un incidente stradale”. “In Italia non è poi cosi diverso... e inoltre mica è estate tutto l'anno come qui...”. “Ah! Ah! Ah! Yaman, lo so. Ed è per questo che sei qui a passare le vacanze”. “Non è esattamente una vacanza per me. E penso che rimarrò qualcosa in più delle solite due settimane”. “Bene. Allora avremo sicuramente occasione di rincontrarci di nuovo. Mi piacerebbe avere un amico italiano”. Corfield sorride con tutti i suoi bei dentoni bianchi. “Non so a quanto ti servirà, ma diciamo pure che te lo sei trovato”. “Yaman. E' un onore”. Quando la macchina imbocca uno stradone che si chiama Norman Manley Boulevard, appare un altro mondo. La strada è illuminata. Su un lato si intravedono casette in legno ben ordinate, dentro a un recinto chiuso con su scritto "Craft Market". Poi uno spiazzale pieno di gente ferma sul ciglio della strada. Sono soprattutto donne, vestite con gonne semplici, t-shirt e sandali. Ce ne sono un paio che indossano però dei completini aderentissimi e hanno le unghie laccate, ed é facile intuirne il mestiere. Ma non c'é differenza. Parlano fra di loro come se facessero parte dello stesso gruppo. Anche gli uomini ti appaiono strani. Ce ne sono un paio con i capelli cortissimi e le scarpe da rapper americani e altri due con le trecce lunghe, proprio come nelle poche foto di Bob Marley che hai visto in vita tua. Corfield svolta destra e entra in una strada privata. “Ehi! Che fa tutta quella gente?”.


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“Siamo arrivati, amico. Questo è l'Hepicureism e quelli erano per la maggior parte dipendenti che hanno finito il turno e aspettano l'autobus. C'era anche qualche puttana e un paio di pusher. Qui, amico, sesso e droga ti aspettano fuori dalla porta. Non hai che da chiedere al cameriere di turno”. “Non mi piace”. “Perché?”. “Perché sembra troppo americano”. Corfield ride di nuovo, Stavolta quasi si strozza. “Yaman! You're a good guy, you will be a good friend!”. Prima di scaricarti il bagaglio davanti a una reception suntuosissima, Corfield ti sorride un’ultima volta. “Se vuoi cercarmii, vieni domani a mezzogiorno al Plaza di Negril e chiedi di me al primo affitta motorini che incontri”. “Che cos’è il Plaza?”. “E' solo una piazzetta con un paio di supermercati a circa quattro miglia da qui. Non ti perderai”. “E come ci arrivo?”. “No problem, man. Esci in strada, alzi il braccio e ti ci fai portare dal primo che si ferma. Non dargli più di cinquanta jal”. Tremila lire. I taxi sono a buon mercato, pensi tu, ma cambi idea quando Corfield ti chiede trenta dollari americani. Che cazzo te ne frega poi non si sa, visto che sei abituato a buttare via ben altre cifre e questo poveraccio ha dovuto attraversare la giungla con la sua scassatissima Ford per portarti fino qui. Lo stile del posto è un terribile falso caraibico, grandi palme, aiuole curatissime, fiori sgargianti. Un cameriere scurissimo, praticamente invisibile al buio dentro la sua bella giacca bianca, prende la tua valigia con evidente impaccio. Sorride anche lui. Lo capisci quando dal buio emergono tutti i suoi denti. Ti hanno riservato una stanza che è un appartamento. Rigorosa aria condizionata a tutta manetta, cesto di frutta da quindici porzioni, frigobar. Il tutto a pochi metri dalla spiaggia. “Il signore gradisce qualcosa?”. “Per esempio?”. “Oh, non saprei... da mangiare? Da bere? 0 magari sta cercando compagnia?”.


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“No, no, per carità! Sono stanco morto. Piuttosto”, fai tu con aria circospetta mettendogli un braccio intorno al collo, “non è che si può avere un po' di questa vostra famosa ganja, eh?”. “Certo”, risponde lui sorpreso da tutti i tuoi giri di parole. “Vanno bene venti dollari?”. Il posto ti piace, dì un po'... Quando torna, oltre all'erba, un po' scarsa a dire il vero per venti dollari, il cameriere ti consegna anche un biglietto. E' di Salvini. La caccia al tesoro sembra finita. BENE ARRIVATO. SI METTA A SUO AGIO E POI SCENDA A CENA. CI VEDIAMO PIU' TARDI. S. Hai capito Salvini dove si è piazzato? Fatti una doccia prima di farti un'altra canna, va là, che se no non ti alzi più. *** Li hanno portati qui dall'Africa tanti anni fa, questi poveri cristi che per guadagnare un tozzo di pane sono costretti a suonare calypso per ore e, vestiti come deficienti, guardarsi ballare luride ciccione americane sudate, molli come budini e arrostite dal sole. Li hanno strappati alla loro terra, prima per farli lavorare al vostro posto e poi per assistere impassibili agli eccessi di decadenza dei figli del capitalismo in ferie. Il ristorante è molto chic, ma tu, che pure hai solo una polo, le Tod's dalle quali non sei riuscito a mandar via i segni del fango e un paio di pantaloni Emporio Armani, sembri fuori luogo. La gente indossa calzoncini, magliette colorate e fazzoletti intorno alla fronte. Sono quasi tutti scalzi, sia uomini che donne si sono fatti intrecciare i capelli con le palline a colori. I pochi giamaicani in sala assistono in silenzio allo scempio. Si tratta di un buffet pantagruelico, self service, eat and drink all you can, ovvero mangia e bevi finché non ti strozzi. Ci sono aragoste da un paio di chili l'una, polli arrosto in salsa jerk e frutta che sembra uscita dal giardino del re. E la gente intorno mangia da schifo, con la vista già annebbiata da troppi "rhum and coke". Ridono. A crepapelle. Un'euforia etilica davvero disgustosa a vedersi. Eccoli i conquistatori del nuovo mondo, gli eredi di Colombo cinquecento anni dopo. Commercianti d'armi, politici corrotti, megatrafficanti di droga. Vengono qui a svernare, o a nascondersi. Salvini è


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in un angolo della sala, attorniato da tre ragazze nere bellissime, tutte sotto i vent'anni. Quando ti vede sembra davvero felice. “Raimondi! Bene arrivato! Meno male che ha scelto la cosa migliore da farsi. Sa, per un attimo avevo creduto che lei sarebbe rimasto laggiù a fare l'eroe e a beccarsi gli insulti della gente cosiddetta perbene. Abbiamo fatto appena in tempo, sa? Un paio di giorni e sarebbero venuti a cercare anche lei. Mi deve dare atto che non l'ho lasciata nella merda…”. Sarà, ma non riesci proprio a condividere il suo entusiasmo. “Mica potremo nasconderci qui per tutta la vita...”. “E perché no? Volendo... vede, questo posto é come se fosse mio...”. “Suo?”. “Diciamo in comproprietà. L'Hepicureism è stato uno dei primi alberghi costruiti qui a Negril alla fine degli anni settanta. Si figuri un po' che era dello Stato! Ah! Ah! Ah!”. “E allora?”. “E allora il Primo Ministro era un fessacchione, un certo Michael Manley, amico di Castro... un comunista, insomma. Pensi che per rovesciarlo non c'è voluta nemmeno una rivoluzione. E' andato semplicemente in bancarotta. Il Fondo Monetario non aiuta gli amici di Castro. Per concedere prestiti chiesero come contropartita una svalutazione del quaranta per cento del dollaro giamaicano e un ampliamento delle esenzioni fiscali per gli investimenti esteri. Una mossa che gli ha attirato le antipatie proprio della gente che lo aveva eletto. E così prima che tornassero i conservatori hanno svenduto a prezzi stracciati un po' di roba... come si dice da noi… hanno privatizzato, capisce? Insieme a tre o quattro soci americani lo abbiamo comprato a una fesseria. E mo' ci frutta parecchi milioni di dollari l'anno. lo ho il quindici per cento”. “Si è dato al turismo”. “Oh... molto di più. Questo è un gran posto per combinare affari. Per quest'isola passano un sacco di soldi e ci sono nemmeno due milioni e mezzo di abitanti. Se fossero equamente distribuiti questi negri sarebbero ricchi. Ma non sono proprio capaci a fare affari, lo sa? E' gente pigra, fumano erba dalla mattina alla sera, sono sempre rincoglioniti, ne servono quattro per fare il lavoro che da noi fa una sola persona. Le uniche veramente buone... sono le donne. Vero Charlene?”.


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Ti fa un po' schifo vederlo fare lingua in bocca con una delle due ragazzine. Sembrano così smarrite con le loro lunghe trecce e gli occhioni neri. Ma probabilmente sono considerate delle fortunate, a fare le puttane all'Hepicureism, con un uomo bianco pieno di soldi come Salvini. “Non mi guardi con quell’aria da allupato, Raimondi. Gliela troveremo anche a lei una bella negretta, veramente pulita, garantisco io... sa di questi tempi... e se non le piace la pelle nera, qui ha disposizione un vasto assortimento di ereditiere americane, particolarmente viziose. Adesso si vada a mangiare qualcosa e si goda la serata… avremo modo di riparlare di tutto”. Il fatto che ti congedi lo vivi come un’autentica liberazione. Hai molta fame e troppa poca voglia di porti domande esistenziali, del tipo: “che cazzo ci faccio io qui?”. Assaggi con le mani un’aragosta saporitissima nonostante sia solamente bollita e ti si apre una voragine nello stomaco, al punto che finisci con il mangiare di tutto. “Italiano?”. A rivolgerti la domanda è una bella signora sui quaranta, abbronzatissima e praticamente nuda sotto un caffetano stile arabo, per giunta mezzo trasparente. “Si. Anche lei?”. “Sono di Milano. Ma vivo qui”. “Si è stabilita qui?”. “Qua posso avvelenarmi come voglio. Ho a disposizione gli uomini che desidero e vivo alla grande con poco”. “Con poco?”. “Diciamo due milioni di lire al mese, quelli che è costretto a passarmi quello stronzo del mio ex marito. Lui è un tipo da cinquecento milioni l'anno e io a Milano facevo la fame. Pensi che un milione e due se ne andava solo per l'affitto. Avevo cominciato a bucarmi, lo sa? E ho smesso”. “Conosce l'onorevole Salvini?”. “E chi non lo conosce? Ha parecchi affari in zona. In Giamaica è facile. Uno costituisce una società a intero capitale estero, presenta al governo un piano di investimento, che so… un ristorante, poi assume tutto personale del posto e lo Stato gli garantisce il rientro dell'investimento in due o tre anni, a seconda della cifra, con sgravi fiscali davvero interessanti”. “Una sorta di cooperazione allo sviluppo...”.


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“Col cazzo. Qui un impiegato costa trecentomila lire al mese, mentre un ristorante per turisti incassa come un locale italiano. Le banche speculano sui depositi in dollari, gli stranieri si arricchiscono e fanno circolare un sacco di denaro. E il cambio col dollaro sale alle stelle. Altro che cooperazione... li sfruttano e li affamano sempre di più...”. “E Salvini è del giro?”. “Certo. Lui è amico degli americani e gli americani sono stati sempre interessati a questo posto, fin da quando nel 1962 è diventato uno Stato indipendente. Siamo molto vicini a Cuba, no? Ma soprattutto questo è uno degli snodi fondamentali per far arrivare a Miami la coca proveniente da Bolivia, Colombia e Venezuela. Sempre qui in zona ci sono le isole Cayman, piene di banche in grado di riciclare a prezzi modici grandi quantità di narcodollari. La vedo interessato a questi discorsi…”. “Faccio il giornalista”. Dà una certa sicurezza poterlo dire, vero? E' come se mostrassi l'autorizzazione a farti i cazzi degli altri. “Il giornalista! Ma pensa te... credevo che fosse una curiosità da semplice consumatore...”, fa lei e scoppia a ridere. Sembra simpatica. Una di quelle donne che hanno rifiutato a prescindere qualunque ruolo domestico e si sono perse a inseguire il libertinaggio maschile. Ha intorno agli occhi le rughe di chi non conduce una vita molto regolare, ma del resto ce le hai anche tu, che sei come minimo una decina d'anni più giovane. Lo sguardo è bello comunque, anche se un po' assente. Chissà cosa si è fatta. “E perché è qui? Scrive un reportage sulla Giamaica?”. “No. Sono In fuga, come lei”. “E da cosa, se non sono indiscreta?”. “Le domande non sono mai indiscrete. Lo sono le risposte, a volte”, dici tu citando a memoria una frase di un film di Sergio Leone che ti è sempre piaciuta tanto e che finalmente hai trovato il modo di riciclare. Te la sei giocata bene, perché ora lei ti guarda con maggiore interesse, e sei contento, perché in fondo è già da un po' che stai pensando di portartela a letto. “Comunque”, aggiungi, “ho molto tempo da passare qui e sarei contento se lei mi facesse un po' di compagnia. Mi chiamo Michele. Michele Raimondi”. “Elisabetta Provenzano”.


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“E a Milano che faceva, prima di venirsene via?”. “Prima di venire qui non facevo un cazzo. Prima di sposarmi, pensi un po', facevo la broker di assicurazione. Un mestiere di merda, ma all'epoca rendeva bene. Mio marito era il tipico industrialotto della Brianza, con il portafoglio gonfio e la testa piena di stronzate. Diceva di essere un imprenditore, ma quando qualcosa andava storto faceva come i vecchi padroni delle ferriere. Tirava giù due bestemmie e licenziava qualche operaio. E naturalmente io dovevo rimanere a casa a preparargli pranzo e cena. Meno male che non sono stata pazza al punto di sfornargli due o tre marmocchi come chiedeva lui, altrimenti era la fine”. “Ma lei vive qui all'Hepicureism?”. “Sta scherzando? Ho una casa. Non ci crederai... posso darti del tu, vero?...Non ci crederai, dicevo, ma me l'ha regalata un petroliere texano”. “Un bel regalo”. “Diceva che ero la femmina più calda che avesse mai conosciuto. Ah! Ah! Ah! E lui era un mezzo impotente. Ma mi ha risolto la vita”. Ride Elisabetta, e quando lo fa sembra più giovane, anche se é fattissima. Sta bevendo un drink dietro l'altro da quando avete iniziato a parlare. Tu accusi ancora gli effetti dell'erba, le tue risate sono isteriche, improvvise, immotivate, proprio come le sue. Una gran coppia non c'è che dire. “Bella musica, eh?”, fai tu ormai completamente partito, improvvisando un passo di danza. “Oh... qui il reggae è tutto. Hai mai visto un concerto?”. “No”. “Ti andrebbe? Stasera al Kaiser's suona Yellowman”. “E chi è?”. “Un tipo incredibile. Pensa, un negro albino, con la pelle bianchissima e i tratti di africano. I giamaicani lo adorano, anche se è difficile che le radio passino le sue canzoni. Troppo oscene”. “Mi piacerebbe... ma non è un po' tardi? Sono le undici...”. “L'artista principale qui non sale sul palco prima di mezzanotte...”. *** Infilate quasi di soppiatto l'uscita del salone principale dell’Hepicureism. Ormai vi reggete in piedi a malapena. Le guardie


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dell'albergo vi guardano malissimo. Uno di loro vi dice che è pericoloso uscire soli. Elisabetta lo manda a farsi fottere. Per strada tre o quattro macchine si fermano offrendosi di accompagnarvi. Lei parlotta veloce con uno di loro. Poi ti fa segno di salire su una Triumph bianchissima e pulita fuori, ma un vero immondezzaio dentro. La vedi allungare un paio di cento dollari giamaicani all’autista e ricevere in cambio un pacchetto di carta di giornale. “Ti faccio assaggiare una specialità del luogo”. “Che roba è?”. “Magic mushrooms. Funghi. Un po’ allucinogeni però”. Nel pacchetto ci sono proprio due funghi. Sembrano appena colti, ma puzzano terribilmente. Elisabetta ne prende uno e lo infila in bocca. “Dai! Butta giù...”. “Ma sei scema? Così... crudi?”. “Certo. Non fare lo schizzinoso”. “Hanno un sapore di terra vomitevole”, dici masticando lentamente. “Sapessi dove crescono...”. “Dove?”. “Nello sterco di vacca”, dice lei e ride. Tu riesci a non rigettare tutto solo facendo appello alle tue forze migliori. Il Kaiser's è un bar ristorante a picco sulla scogliera nella zona a ovest di Negril, vicino al faro. Da qui, via mare, c’è solo la penisola dello Yucatan, in Messico, a più di mille chilometri. Lo aprì diversi anni fa un austriaco, poi le autorità scoprirono che non aveva la licenza edilizia e lo costrinsero a vendere. Adesso ci stanno gli americani, naturalmente anche senza licenza. Pagato il biglietto di ingresso, un tizio vi stampa sulle braccia un timbro visibile solo attraverso una luce violetta. Ci sono parecchi turisti, bancarelle che vendono chincaglieria ed enormi chilum, pipe per fumare l’erba. L’odore della ganja è molto forte. I funghi cominciano a fare effetto, senti il cuore andare allo stesso ritmo sincopato della musica. Elisabetta sembra felice. Ride sempre più di frequente, saluta quasi tutti i venditori ambulanti che incontra. Bacia sulla bocca un nero di due metri con le trecce, poi bacia anche te, ti prende per mano e ti porta al bar dove ordina gli ennesimi rum-punch. “Chi sono quelli che portano le trecce lunghe come Bob Marley? Musicisti?”.


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“No. Sono Rasta. E' una setta religiosa... è gente strana, ma onesta. Ne conosco tanti”. Il bar sembra quello di Guerre Stellari. C'è gente di tutti i tipi e colori di pelle. In comune hanno solo il fatto di essere fatti fino al midollo. Una coppia di americani dallo sguardo spiritato stanno tirando su con il naso in modo inequivocabile, altri invece si distinguono per gli occhi arrossati e liquefatti e il sorriso da beoti. Come te, che stai sempre più lentamente perdendo il controllo. Non accadeva da anni, da quella volta che prendesti un acido ad Amsterdam e i tuoi amici ti ritrovarono al commissariato. Rumori e colori sembrano ovattati. La voce di Elisabetta ti arriva lontana. Tutti quei corpi intorno danzanti e sudati spandono nell'aria desiderio di sesso, di abbandono, di rigetto nei confronti della società progredita, fatta di efficientismo e presenza di sé. C'é chi lavora come un pazzo per undici mesi l'anno per venire qui a cancellarsi la mente, spegnere quella insoddisfazione latente di cui é vittima chiunque é costretto a vivere in mezzo al cemento e ai gas di scarico. Tre settimane al sole dei Caraibi, tutto compreso, magari pure a rate. Poi di nuovo un anno in ufficio, a leccare il culo al direttore e a pagare le tasse. Poi un'altra vacanza e un altro anno di merda. Ti sembra di vederli tutti nei loro panni abituali. Avvocati, medici, professionisti, o solo semplici impiegati, commessi di negozio, costretti a mettere sempre giacca e cravatta, che qui girano scalzi e con la bandana sulla fronte. Ridi, sempre di più, pensando a quanto sono deficienti gli uomini. “Ehi! Sei cotto, eh?”, urla Elisabetta nel frastuono generale. Tu le metti una mano sul culo e lei ti mostra la lingua. Un approccio facile. Quando Yellowman sale sul palco il delirio raggiunge livelli prossimi al parossismo. Saltano e ballano come se avessero il peperoncino al culo. Sembra un'orgia tribale. “Are you ready?”. “Yeah!”, risponde in coro questa specie di girone dantesco, prima che basso e batteria inaugurino una cascata di note ripetitive, una miscela esplosiva di calypso e rhythm and blues, con parole che raccontano storie di sesso. Anche una canzone sull'Aids, che ricorda a tutti coloro che hanno rimorchiato che in caso si concluda… è meglio farlo col preservativo. WHEN YOU MEET A GIRL, USE A CONDOM...


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Improvvisamente, chissà perché, non trovi più molto allettante l'idea di scoparti Elisabetta, che sarà pure la femmina più calda del mondo, come diceva il suo petroliere texano, ma a chissà quanti l'ha data senza troppi complimenti. Però lei insiste, ti si stringe addosso con foga, ti sbatte mezzo metro di lingua in bocca e il cazzo ti si indurisce immediatamente. Con lui non sei mai riuscito a ragionare. I rhum-punch che avete bevuto sono saliti a dieci. Dentro di te speri almeno che abbiano affogato quel maledetto fungo, ma la speranza è vana e te ne accorgi quando perdi l'equilibrio cadendo a faccia avanti dallo sgabello. YOU BETTA HOL’ ME, YOU BETTA SQUEEZE ME, YOU BETTA KISS ME, SO LIKKLE GIRL... YOU BETTA CONTROL ME. Faresti meglio a controllarmi piccola, canta Yellowman. Poi il buio. Riprendi conoscenza su un altro taxi che vi sta riportando all'Hepicureism. Vicino a te c'é Elisabetta che sorride. “Ehi! Bentornato! Sei andato proprio fuori, eh?”. “Che cazzo é successo?”, chiedi tu e quando senti la tua voce lontana e distorta capisci con terrore che il trip non é anco-ra finito. “Niente Michele. Hai solo collassato. Drink, get drunk, fall down... no problem, man! Sei di nuovo in pista ora e la notte è giovane”. La senti ridere e con lei anche il tassista. “Dove andiamo?”. “Sono le tre. Si torna all'Hepicureism per la parte migliore”. “E cioè?”. “Oh... Michele, non fare quella faccia, ho una voglia incredibile di farmi scopare da te. Sei proprio carino, sai?”. Ti ha messo una mano sul cazzo, che naturalmente ha risposto subito all’appello, non stai sognando, anche se sei ancora totalmente drogato. Lei è vera e le sue tette sotto il caffetano sono invitantissime. L’Hepicureism è ancora tutto illuminato. Lei ti conduce per mano fino alla discoteca e dentro alla toilette per gli uomini. “Ora bisogna tirarsi un po’ su”, dice con aria sorprendentemente lucida e tira fuori da un minuscolo marsupio sotto il vestito un contenitore per rullini fotografici. “Qui c'è un'umidità pazzesca e con la coca è un casino. Bisogna tenerla ben chiusa altrimenti ti si scioglie in un attimo. Ricordatelo”. ...CONTINUA...


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