Come Artemisia

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Gli otto racconti contenuti in questa raccolta sono diversi per contenuto e genere, ma in qualche modo collegati tra loro da fili di una memoria antica e fantastica, dove la realtà e i sogni si confondono e si amalgamano. Come l’artemisia genera l’assenzio dorato esalante fumo assuefacente, così la memoria da ricordi annebbiati riporta alla luce fantastiche chimere. Ognuno dei racconti è figlio sia dell’immaginario, sia del vero, come del resto lo è l’uomo. L'AUTORE: Maria Adele Popolo è nata nel 1964 a San Severo (FG) e dal 1995 vive a Nova Siri Marina (MT). È biologa e contitolare con il marito di una Farmacia Agricola. Amante del teatro, costituisce nel 2003, con un gruppo di amici, la compagnia teatrale “I Fuochi Fatui” di cui è tutt’ora regista e direttrice artistica. È l’autrice di molte commedie che la compagnia ha portato in scena con successo e apprezzamenti di pubblico e di critica. Alcuni lavori teatrali sono stati premiati in concorsi nazionali. “Come Artemisia” è la prima pubblicazione.

Titolo: Come Artemisia Autore: Maria Adele Popolo Editore: 0111edizioni Collana: Selezione Pagine: 100 Prezzo: 11,30 euro

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Maria Adele Popolo

COME ARTEMISIA

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COME ARTEMISIA 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright Š 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright Š 2009 Maria Adele Popolo ISBN 978-88-6307-209-9 In copertina: San Severo, vico Formile. Foto di M.to Michele Monaco

Finito di stampare nel mese di Settembre 2009 da Digital Print Segrate - Milano


Dedico il libro alla mia famiglia tutta, che ringrazio.



COME ARTEMISIA

"come l'Artemisia mi ergo dal suolo arido e dispenso assenzio per far riemergere, tra vapori dorati, antichi ricordi che, ovattati di odori e sapori, radicano nell'animo mio".



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IL LAGO Altra epoca

Clementina aveva finalmente sputruzzatë, come diceva la nonna Ester, notevolmente con ritardo dato che aveva compiuto già quindici anni. - Megghië tardi ca mai! Clementina si era alzata e, come tutte le mattine, era andata nel bagnetto situato al lato della loro camera. Era un bagno piccolo, ma ad uso esclusivo e personale delle ragazze, valeva a dire di Clementina e suo. Bel privilegio se si considera che la mamma aveva dato la vita a ben nove figli, sette maschi e due femmine, e che i loro fratelli dovevano arrangiarsi con il bagno del piano terra. Per loro due il padre, sotto stretta pressione della nonna Ester, aveva ricavato da un rientro del corridoio quel bagnetto. Non c’era la finestra ma pazienza. Lei era una brava disegnatrice e dopo aver chiesto il permesso alla nonna e poi alla mamma, aveva preso i suoi colori a tempera e i pennelli e aveva dipinto sul muro proprio di fronte alla tazza un’ampia finestra spalancata sul più bel panorama che aveva mai visto: il lago. Clementina si era seduta sulla tazza e aveva immerso il suo sguardo verde brillante nelle acque color falso-turchino del lago, poi si era alzata e si era asciugata con la sua salvietta personale, così come voleva la nonna Ester, e… aveva urlato. Un urlo agghiacciante che riecheggiò per tutta la casa. Eppure era grande la loro casa. Un vecchio enorme casolare di campagna che aveva vissuto tempi migliori e rigogliosi in un non molto lontano passato. Al piano terreno c’era un enorme ingresso il cui pavimento era fatto di mattoni consumati dallo scalpitare d’innumerevoli piedi e ricoperto da un grandissimo tappeto orientale anch’esso consumato. Ai lati dell’ingresso si aprivano tre corridoi ad angolo retto tra loro. Ogni corridoio portava ad aree della casa adibite ad usi specifici, quello di destra portava alla zona cucina dove c’erano delle enormi dispense a muro in cui si poteva nascondere chiunque, alla sala da pranzo dove c’erano due lunghi tavoli di legno nero con i piedi scorticati dalle pestate di tutte le vite che erano transitate tra quelle mura e in fondo, dove prima c’era il


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gallinaio, il papà aveva ricavato un bagno e uno stanzino per Marisa l’ l’aiutante-domestica-amica-della-mamma-bambinaia. Quello a sinistra portava alla zona dormitorio dove c’erano le camere dei fratelli, la stanza da letto dei genitori e un bagno, questo già c’era, per grazia di Dio, diceva il papà che aveva dovuto ingegnarsi in quella enorme casa a costruire gabinetti. È già nu miraculë ca l’ammë truvetë! Dicevano la nonna e la mamma e alludevano al prezzo. Una casa grande a buon mercato doveva pur avere qualche difetto! Il corridoio centrale portava allo studio, al salotto e ad un’altra camera: la stanza dei trasciugghi come la chiamava nonna Ester perché, affermava, se n’erano dette e fatte di cattiverie e brighe tra quelle mura. Il piano terreno non era proprio un basso perché a rialzarlo dalla nuda e scura terra che circondava la casa c’erano tre grossi scaloni e ciò permise ai costruttori di ricavare degli scantinati in cui si nascondeva senz’altro la mùria della casa, uno spirito benevolo cui bisognava portare rispetto come spiegava nonna Ester. La casa aveva anche un primo piano dove in origine c’era solo una soffitta e dove adesso c’era la stanza delle ragazze, di Clementina e sua, e la stanza della nonna che aveva anche un bagnetto personale perché i vecchi e i giovani non s’anna miscà, diceva sempre la nonna. C’era anche un'altra stanza di fronte al bagnetto, quella dove dormiva la zia Silvia quando veniva a trovarli… cosa che succedeva sempre più di rado. Quella mattina che Clementina urlò zia Silvia, miracolosamente, c’era. Miracolosamente perché in casa c’era solo lei, Clementina e zia Silvia che ancora dormiva nella stanza di fronte al bagnetto. Nonna Ester era fuori nel giardino dietro la casa a curare le sue rose, ma sentì ugualmente l’urlo anche se attutito. Il suo udito era ancora ottimo, erano i suoi occhi che la stavano abbandonando, povëre ‘e ciechi Signorë! Ripeteva sempre. Malgrado la sua vista confusa si precipitò in casa e dal fondo della scalinata, fatta di legno scricchiolante, chiamava ripetutamente, preoccupata. Zia Silvia era già nel bagnetto con Clementina che piangeva con disperazione. -Vattene! - Le gridava Clementina. -Vattene via! Lei stava con i suoi occhi acquamarina, grandi occhi da bimba, spalancati sulla macchia rossa ai piedi di Clementina e ad un tratto per uno strano effetto ottico, come in un’esplosione, aveva visto un balenio e le acque turchine e immobili del lago dipinto erano diventate rosse e vorticose. -Dai! Gisella non ti preoccupare, non è successo niente… vai giù dalla nonna- le stava dicendo la zia Silvia.


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-Vattene!- continuava a gridare Clementina. Il fiatone e la concitazione la precedettero giù per le scale. - Nonna, nonna… La nonna Ester piccola piccola, era da basso alla ripida scalinata con il naso per aria, gli occhiali storti, le mani sporche di terra e le gote rosse. -Cosa è successo Gisella? Perché queste urla?-Nonna, nonna! E’ successo che Clementina è andata al bagno e al posto della pipì è uscito sangue, anche il suo letto è tutto sporco…-. -Ah ah ah!- La risata grassa e spontanea della nonna le colpì le orecchie come uno schiaffo. -Finalmente! Ha sputruzzatë!Si voltò e se ne tornò alle sue rose lasciando alle sue spalle una ragazzina sbalordita e confusa. Miracolosamente c’era la zia Silvia! Clementina si era calmata. Era accovacciata sulla poltroncina verde pensierosa e forse un po’ spaventata mentre la zia rifaceva il letto. Lei era rimasta appoggiata allo stipite a fare capolino con un occhio spalancato sulle lenzuola sporche e su Clementina che sembrava una scultura moderna nel riverbero della luce mattutina che attraversava il vetro della finestra. Zia Silvia sorrideva e parlava. La sua voce era calma e rassicurante, arrivava calda al cuore per sgelarlo dallo spavento e farlo ricominciare a pulsare con regolarità. Su Clementina aveva già fatto effetto perché se ne stava lì immobile a fissare chissà cosa fuori della finestra; anche il suo piccolo cuore che prima sembrava volesse saltare fuori del torace e le martellava forte contro il petto, stava ricominciando a battere piano e regolare. Quello che era accaduto a Clementina era normale, diceva zia Silvia, a tutte le giovani donne avviene alla fine. È un passaggio importante: è la trasformazione della bambina in donna. Com’era brava zia Silvia a spiegare le cose, peccato che veniva così raramente a trovarle! Aveva lasciato lo stipite della porta e si era infilata nella stanza strisciando lungo la parete, avvicinandosi, piano e invisibile, a Clementina. Clementina non era più una bimba, ora. Era diventata una donna. La guardò attentamente. Era tale e quale la sera precedente, un po’ triste forse e preoccupata, ma la stessa. Lei immaginava questa trasformazione come quella dei bozzoli che si trovavano sui rami degli alberi nel giardino degli aranci. Bozzoli bianchi che diventavano farfalle bellissime. Peccato che morissero così presto! Tante volte lei e


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Clementina erano rimaste incantate a guardare il miracolo della trasformazione. -Anche le bambine si trasformano- diceva la nonna Ester -Un giorno diventerete come due bellissime farfalle e sarete pronte-. -Per cosa? -Per volare, per andare. Per vivere. Ecco, per Clementina era arrivato il momento della trasfigurazione. Si era trasformata durante la notte o durante le prime ore del mattino o mentre il sole sorgeva tenue dietro il lago finto. Si era trasformata e lei dormiva e non aveva assistito al miracolo di Clementina che diventava farfalla. Era triste perché pensava che neanche Clementina aveva assistito, perlomeno coscientemente, da sveglia, alla propria trasformazione. La scrutava intensamente e accuratamente, cercando di cogliere tutti i minimi cambiamenti dovuti alla metamorfosi, ma non riusciva proprio a trovarne. La zia Silvia si era seduta sul lettino e teneramente accarezzava i loro capelli lunghi e morbidi e parlava con una dolcezza diversa da quella della mamma, che pure era tanto dolce, ma tanto stanca! Raccontava della sua trasformazione e poi di quella della mamma, ricordava che erano terrorizzate e che per giorni e giorni non uscirono da casa ma che si abituarono perché capirono che era giusto così, se la natura aveva stabilito che così doveva essere. Era un miracolo per noi donne, poiché era il segno che si era pronte per volare, che il nostro corpo era pronto a mutare per prepararsi al suo compito: dare la vita. La mamma aveva adempiuto pienamente a questo compito, nove vite aveva dato! Certamente la sua trasformazione era stata fruttuosa ma tanto dolorosa. Forse aveva quattro o cinque anni e le stanze al piano terreno erano fredde e buie, solo un fascio di luce giallognola proveniente dalla camera da letto della mamma, tagliava il nero del corridoio come uno squarcio nella notte fonda. Le grida della mamma, le grida della nonna Ester, le grida di Marisa, la faccia distrutta del papà. E quella donna. Quella orribile donna! Era sicuramente uscita da un incubo con quella sua faccia rugosa e le grigie mani nodose e quegli occhi neri e piccoli. Era lei che faceva del male alla mamma. La mamma aveva partorito; solo questo, spiegava nonna Ester con quel suo modo sbrigativo e spiccio di dire le cose: ammo accattato natu criaturo! Santo Martino, che abbuddanza!


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E lo diceva al plurale, non tanto per dirlo, ma perché davvero lei soffriva tutte le doglie insieme alla figlia e dopo ogni parto erano entrambe stremate e deboli. Così era successo ancora e ancora e ancora e la mamma e la nonna avevano comprato altri tre bambini dopo di lei. È stato dopo l’ultimo acquisto che il papà aveva accompagnato lei, Clementina e gli altri fratellini a trascorrere qualche giorno dalla zia Gilda: un donnone alto e grosso come un armadio ma con una vocina sottile che le fischiava tra i denti. Zia Gilda aveva un aspetto orribile e probabilmente, come aveva sentito dire dalla zia Silvia alla mamma, origliando dalla porta del bagno, con lei la trasformazione non aveva funzionato, poiché non aveva dato nessuna vita. In compenso zia Gilda abitava in una casa bellissima. C’era un giardino profumatissimo e coloratissimo colmo di fiori e alberi, con due fontanelle di marmo bianco. Il vialetto di ghiaia partiva dal porticato e arrivava ad un gazebo di ferro battuto dove c’erano due tavoli con sedie e poltroncine. La zia Gilda invitava spesso le sue consorelle della parrocchia con cui organizzava feste e sagre di beneficenza sempre per bambini poveri e abbandonati o cose del genere; le signore portavano dolci e torte fatte in casa e la zia preparava caffé e succhi di frutta. Era una festa per lei e i suoi fratelli che sporadicamente mangiavano dolci e cioccolate perché facevano male ai denti e i dentisti costavano parecchio! La zia Gilda permetteva ai suoi fratelli maggiori e a Clementina di bere una tazzina di caffé, una vera pacchia considerato che a casa la nonna Ester preparava solo caffé d’orzo per il papà e la mamma. Ma la vera prelibatezza era il cioccolato caldo! La zia Gilda lo preparava il mattino, per la colazione, perché dava energia e calore. Il suo povero marito, morto da anni ormai, non si alzava mai dal letto senza la sua tazza di cioccolato fumante. Lei pensava che il povero marito di zia Gilda non dovesse essere tanto povero, in fondo, dato che le aveva lasciato quella bella villa con un giardino meraviglioso e il più bel panorama del mondo, per meglio dire del mondo conosciuto da lei: il lago. È stato allora che lo ha visto per la prima volta. Il lago. L’estate precedente, prima che comprassero l’ultimo fratellino, il papà li aveva portati al mare. Lei e i suoi fratelli erano montati tutti eccitati sul cassone del camioncino preso in prestito dal compare, mentre la nonna Ester e la mamma si erano sedute nella cabina di guida con il papà.


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La nonna e la mamma avevano preparato frittata di patate e polenta e il papà aveva comprato due bottiglie di coca cola. Una festa! Il mare era sempre in movimento, a guardarlo veniva mal di testa e gli occhi strabici e borbottava continuamente. Il mare era possente e forte, sicuramente pieno di vita perché conteneva tanti pesci diversi, come aveva spiegato la maestra a scuola, ma era pericoloso, come diceva la nonna, perché non stava mai fermo e non si era in grado di sapere cosa poteva capitarti in mare. Era vero perché lei e Clementina non riuscivano a fermare le onde schiumose che, sornione, lambivano i loro piedini nudi cercando di trascinarsele in quella massa d’acqua verde e profonda. E poi l’acqua del mare era salata e amara e a berla veniva il mal di pancia. Lei e Clementina lo avevano scrutato a fondo, il mare, avevano ascoltato la sua voce profonda, avevano sorvegliato il movimento cadenzato ma sempre diverso delle sue onde e se n’erano innamorate. Il mare era la vita. E come la vita era affascinante e pericoloso. Il rumore sordo del mare, il suo odore, il suo moto erano rimasti impressi nei ricordi e nei sensi, fino a quel giorno: il giorno in cui il papà li aveva portati dalla zia Gilda, dopo quella orribile notte in cui le urla della mamma erano state più forti, dopo l’ultimo fratellino. Quel giorno lei e Clementina videro il lago. Non era come il lago dove il papà andava a pescare le ranocchie; quello era uno stagno, un fosso colmo di acqua fangosa e marrone. Questo era immenso, ma non come il mare che era sconfinato all’orizzonte e in moto perpetuo. Questa estesa massa di acqua era cheta e silenziosa, muta. Immobile. Gli occhi grandi spalancati ad accoglierla tutta, gli orecchi all’erta ad ascoltarne il silenzio, le narici tese per percepirne l’odore. All’orizzonte si innalzava, come un titano, il monte. Acqua limpidissima, trasparente in cui il monte si specchiava con vanità e orgoglio. Non una grinza su quella superficie liscia e tersa che pareva levigata come il piano di marmo opalino sul comò della nonna Ester. Il mare era la vita. Il lago era l’essenza della vita. Nella sua immobilità era più possente del mare, più inquietante. Clementina non si era avvicinata alla riva. Era rimasta discosta aggrappata al ramo di un ulivo trapiantato su quella sponda da chissà quale audace contadino; lei invece sì. Si era avvicinata all’acqua cristallina e, sfidando il monte dirimpetto, si era specchiata, aveva immerso le mani ed era raggelata, non tanto per il freddo quanto per il contatto intimo con l’immutabilità.


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Il paesaggio che lo circondava era in perfetta armonia come se esso stesso lo avesse creato per accompagnarlo nel corso della sua essenza; era fatto di cose solide, salde e immutevoli: il monte dai colori cangianti che si stagliava verso il cielo con la sua vetta appuntita e affondava le sue fondamenta nella profondità della grassa terra dai colori rubicondi. Gli alberi sulla riva erano assurdamente millenari con tronchi ruvidi e contorti, con rami tesi verso il lago in una sorta di riverenza perenne e con foglie immobili e taciturne, neppure un soffio di vento passava a disturbare l’equilibrio che il lago tanto diligentemente e pazientemente aveva creato. La zia Gilda era l’unico elemento di disturbo con la sua mole da ippopotamo e la sua vocina fischiante, ma per fortuna non scendeva mai al lago perché, diceva, l’umidità le faceva male alle ossa. In realtà non si poteva sapere se dicesse il vero oppure se era il lago a non volerla. A lei il lago la voleva. Si erano capiti subito, al primo colpo d’occhio e mentre Clementina era andata a bere caffé e a mangiare ciambella lei era rimasta lì, trattenuta dal lago. Una massa d’acqua racchiusa nella perfetta forma geometrica: il cerchio; come ha spiegato la maestra, il cerchio è simbolo di perfezione perché è simmetrico. Forse il lago non era proprio una circonferenza perfetta, ma era avvincente lo stesso. La nonna Ester avrebbe certamente trovato un modo di dire, se fosse stata lì in quel momento, per tenerla lontana da quello specchio di acqua limpida e invitante, ma non c’era e lei sentiva il richiamo della immortalità. La superficie del lago non fece una piega, non un’increspatura, come se lei le appartenesse intrinsecamente, da sempre. Non c’era rumore, non c’erano grilli, uccelli, rane, cani, bambini; non c’era vento, brezza, bisbigli, soffi. Il lago aveva creato il silenzio e la quiete assoluti, aveva rallentato il tempo a tal punto che sembrava fermo. Nel silenzio totale una voce ovattata la stava chiamando; era una voce leggera e dolce, dolce come le acque del lago, più dolce delle acque del lago, la voce della mamma. E poi altre voci, quella di zia Silvia e della nonna Ester e di Clementina e tutte insieme la chiamavano ripetutamente e insistentemente. Non aveva raccontato mai ciò che le era capitato al lago, nemmeno a Clementina, anche perché non aveva capito bene cosa le era accaduto, ma sicuramente il lago le era rimasto dentro, nell’intimo e lei lo aveva dipinto sulla parete del bagnetto. Zia Silvia stava pettinando i lunghi capelli di Clementina mentre lei, rapita dai ricordi e immobile, ammirava il dipinto; poi le mani morbide e calde


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della zia si erano posate sui suoi capelli e il tempo aveva ricominciato a battere il suo passo cadenzato con una precisione infallibile. Aveva pregato perché il tempo si fermasse, come quel giorno al lago, aveva pregato perché non arrivasse mai quel momento, il momento della trasformazione perché sapeva che più niente sarebbe stato come prima per lei e per Clementina. Ma ora Clementina era una donna. A niente era servito dipingere il lago nel loro bagnetto, il tempo aveva continuato il suo cammino e continuava a camminare e continuerà inevitabilmente e inesorabilmente, come un aguzzino spietato. Guardava Clementina che ormai sembrava adattata al suo nuovo stato e piano piano si andava rasserenando, poiché aveva imparato che la staticità del lago era subdola come lo era la vita e aveva capito che si sarebbe assuefatta, seppure pigramente e con lentezza, a qualsiasi cambiamento come era sempre stato per noi donne.


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IL VOLO A chi mi ha amata incondizionatamente.

Nulla era cambiato eppure sentiva, stranamente, che tutto era diverso. Sul treno, tra il rumore delle rotaie, le chiacchiere dei passeggeri, il fumo delle sigarette, aveva cercato nei i ricordi più lontani quelli più nitidi e i suoi occhi avevano brillato di gioia. Ora era qui sulla banchina della stazione e guardava oltre la piazza quel lungo viale che conosceva così bene, e poteva scorgere in fondo ad esso la nera fontana che, nei suoi ricordi lontani di ragazza, era sempre stata così. S’incamminò lungo quel viale, leggera, come se il suo corpo galleggiasse su aerei banchi di nebbia avvolgenti e penetranti, tali da ovattarle il cervello; non riusciva a pensare ma percepiva che tutto era così familiare e così estraneo. Dove era stata, durante il trascorrere degli anni? Quanti anni! E come avevano potuto quel viale esistere e quegli alberi esistere e quella nera fontana esistere, senza di lei. Non era forse lei a farli esistere quando, passeggiando con i suoi amici, li guardava con gli occhi, li toccava con le mani e li viveva con l’anima? I suoi amici. Dove erano adesso? Esistevano ancora? Anche loro, come il viale e la fontana e tutto il resto, avevano continuato ad esserci senza di lei. Com’era stato possibile? Forse lei non aveva continuato ad esistere senza di loro! Già. Sorrideva e il suo sorriso rimaneva impresso lungo il viale su quegli alberi, com’era stato tanti anni prima. A poco a poco, d’istinto, il suo cammino diventava sempre più svelto finché si rese conto che non percepiva più ciò che la circondava, la sua mente era impegnata a guidare i passi che la stavano conducendo a casa. A casa. Non aveva avvisato del suo arrivo. Una sorpresa. Se non avesse trovato nessuno? Forse avrebbe dovuto prendere con sé le chiavi; no, sicuramente sua madre era lì, come sempre, come nel passato. Questo pensava nel momento in cui si trovò davanti il portone della sua amata casa. Quanti ricordi tra quelle mura.


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Suonò il campanello mentre il cuore accelerava i suoi battiti. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era stata lì? Da quanto non vedeva i suoi genitori? La voce di sua madre, al citofono, la fece trasalire; era forte e salda. La mamma. Non vedeva l’ora di riabbracciarla eppure aveva timore di lei, dei suoi bellissimi occhi celesti; come li aveva desiderati quegli occhi! Il portone si aprì. Non ricordava di avere risposto al citofono, ma se il portone si era aperto doveva averlo fatto. Si sentiva in estasi; si trovava lì e non sapeva in che modo c'era arrivata, era come se il mondo intero le girasse intorno e al contempo fosse tutto compresso nelle sue viscere. Le mancava il respiro come ad una ragazzina al suo primo appuntamento. Sorrideva, e questa volta il suo sorriso s'imbeveva di quell’atmosfera familiare e di quel profumo di pietanze che, abitualmente, le pervadeva i sensi su per quella scalinata. L’odore della sua casa! Saliva e mentre lo faceva sfiorava delicatamente, con la punta delle dita, le pareti e il corrimano come se fossero così fragili, a guisa dei suoi ricordi, da essere vulnerabili anche ad un lieve mutamento. Saliva lentamente, un gradino dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, fino sopra dove sua madre stava ad aspettarla sull’uscio. Quegli occhi, quei bellissimi occhi ora erano lì fissi nei suoi; un impulso la induceva ad abbracciare e baciare quella donna e non riusciva a ricordare se lo avesse fatto; sicuramente sì poiché ora stava entrando in casa con lei, cingendole le spalle con le sue braccia. Non ricordava di avere chiuso il portone prima di salire le scale. Strano come i ricordi più antichi fossero così vivi in lei, mentre eventi e gesti accaduti pochi attimi prima sfuggivano al suo controllo mentale. Era l’agitazione, sicuro. Che importava. Era lì, a casa, nel nido. Nulla era cambiato. I mobili, i quadri, le tende, sempre gli stessi, ma soprattutto quell’aroma che di nuovo le invadeva i sensi, sempre lo stesso. Entrò in tutte le stanze desiderosa di rintracciare le sue memorie e poi si ritrovò in quella che era stata la sua camera. Qui era tutto diverso; non c’erano più i suoi mobili, i vecchi manifesti, i disegni, la sua giovinezza. Ogni oggetto era scomparso. La tristezza, rispecchiata nelle bianche pareti, in un divano letto e un armadio, ora arredava quella stanza. Ricordò improvvisamente, come un lampo rischiara la notte, che i mobili della sua camera li aveva portati via, con sé, quando se n' era andata; ma non conservava memoria del perché lo avesse fatto. A volte aveva la sensazione che qualcuno, passando con una spugna, avesse cancellato via dei ricordi, a frammenti, così come si cancella una


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parola sbagliata dalla lavagna, per sostituirla. Poteva lei sostituire questi vuoti? Avrebbe davvero potuto tornare indietro e rimpiazzare i frammenti perduti con dei ritagli nuovi? Sedette su di una poltrona e chiuse gli occhi, sentiva in lontananza il suono della voce della madre e ricordò un suo scritto, chissà che fine aveva fatto… Oramai viveva solo della nostalgia di quella casa, di quel paese e di pochi anni successivi. Il presente, attimo per attimo, le sfuggiva dalla mente e quel vuoto, quel nulla le rimbombava nel cuore e nello stomaco, amplificato come i passi in una casa vuota, disabitata. Ricordi. Seduti al tavolo in cucina, perplessi, i suoi genitori discutevano sulla scelta di andare a studiare fuori, in città, sperando forse in un ripensamento. Era una tortura. Ogni giorno si ripeteva, lo ricordava bene, anzi succedeva sempre nella sua mente, di continuo. La irritavano con i loro sguardi speranzosi e i loro moniti. Era irascibile. Tutti i ragazzi lo sono a quell’età, e lei forse più degli altri. Era di carattere ribelle; amava molto, amava di un amore doloroso e per questo non riusciva a perdonare gli errori agli altri e nemmeno a se stessa. Desiderava tanto l’indipendenza, non permetteva intrusioni e si rifiutava di accettare la realtà, non la sua, circoscritta alla propria vita, bensì quella dell’intera umanità, con le pene e le angosce universali. Viveva solo di speranze che ben presto sarebbero crollate, ma allora non lo sapeva ancora. E nemmeno adesso. Ciò che la faceva sentire diversa, e che in realtà la rendeva uguale a tutti gli altri ragazzi, era la sua eccessiva allegria nei fulgidi attimi d’entusiasmo, e l’angosciante dolore nei momenti di crollo, una altalena di umori che la costringevano ad amare tutti e ad odiarli come se fossero irrimediabilmente indispensabili alla sua esistenza. Così era con chiunque: amici, familiari e genitori. Rimaneva per ore sdraiata sul letto, pensando a come sarebbe stata la sua vita lontano da quel paese così bigotto e troppo limitato per la sua smania di vivere. Sentiva il sangue ribollire e avrebbe voluto gridare, volare, fare qualcosa. La voce di sua madre: “fuori di qui ci sono solo due possibilità, o si vince, o si perde, non c’è via di mezzo!”. O forse era solo la voce della sua paura. Non lo poteva sapere. Lei non voleva vincere né perdere, voleva solo vivere; comunicare alla gente le sue emozioni, troppo irrequiete, troppo tormentose per essere trattenute nella sua mente, nel corpo, in quella casa, in quel paese. La testa le andava in pezzi ogni volta che ci rimuginava. Perché?


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Perché non poteva essere come gli altri, perché li avrebbe voluti possedere tutti, sentirli intimamente suoi; perché non poteva vivere senza di loro? Eppure loro vivevano benissimo senza di lei, senza dover sentire il bisogno di possederla. Amava e odiava, avrebbe rischiato tutto; la vita stessa per amore loro e allo stesso tempo li disprezzava. Che cosa, chi c’era nella sua testa, nel suo cuore? Cosa la tormentava così? Chiuse gli occhi e respirò profondamente. Li riaprì e si trovò nella stanza della madre. Com’era arrivata lì? Non si era forse seduta sulla poltrona e sdraiata sul letto della sua camera? Viaggiato e dispersa con la mente nei meandri della sua adolescenza? Che cosa diceva la mamma di quelle foto? Suo padre su quelle foto era diverso da come lo ricordava lei. Più sereno, con uno sguardo dolce e le sorrideva soddisfatto. Soddisfatto che lei fosse tornata? O che lei avesse perso? Perso tutto, sconfitta. Aveva perso soprattutto il contatto con la realtà. Non era riuscita a dominarla e si era fatta sopraffare. Che ci faceva la madre con tutte quelle foto sparse sul letto? Non ricordava, non riusciva neanche a ricordare perché si era seduta sul letto con lei e perché stesse piangendo. Sentì la pendola che suonava. Quella vecchia e stupida pendola! Si rivide tutte le volte che in piena notte era entrata nel salotto per fermarla. Odiava quell’orologio; odiava il ticchettio degli orologi. Come poteva vivere pensando che non ci fosse abbastanza tempo per pensare, perché era già passato? Ora era lì seduta in poltrona davanti alla televisione. Perché era lì? La televisione era spenta ma lei vedeva le immagini, si muovevano come ombre velate, come i ricordi nella sua mente. Ad un tratto si ricordò di aver preso un treno. L’ultimo aveva detto, era stanca di viaggiare. Il suo ultimo treno l’aveva condotta lì, in quella stazione, su quel viale, in quella casa. Poteva ricominciare adesso. Ecco, era una ragazzina e non aveva più voglia di scappare, di cercare le risposte ai gravosi quesiti sulla vita e sulla morte. Era stanca di corse, di bivi e svolte. Voleva solo accucciarsi sul grembo di sua madre e guardare il suo volto e i suoi occhi, quei meravigliosi occhi lucenti e limpidi come acquemarine, che per anni aveva temuto e amato; voleva solo possedere se stessa, seduta su quell’ampia poltrona. Sentiva che ormai non aveva più bisogno d’amare e odiare, che la sua mente era cosparsa di spazi vuoti dove lei era niente e gli altri erano tutto, in passato. E ora?


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Si chiedeva se tutto quel tempo fosse effettivamente trascorso. Nella sua testa aleggiavano voci sconosciute che le consigliavano di tornare nel suo paese, al passato, per riprendere padronanza di se, dicevano sarebbe stato vantaggioso per lei il ritorno. In ogni caso non le poteva nuocere. Riprendere padronanza di se, riprendere i contatti con la realtà! Voci sconosciute, fluide e plasmodiali che non riuscivano a prendere forma, a solidificarsi, ad assumere un volto. Chi erano quelle voci? I contatti con la realtà lei non li aveva mai avuti, mai cercati, mai voluti. Stava così bene nella sua nicchia dove tutto era solo perché lei era. Questo le bastava. Era consciamente consapevole che al di fuori di questa nicchia nulla più poteva essere in funzione del suo esistere. Perché aveva abbandonato quella casa, quel suo intimo rifugio e si era buttata nella concretezza della realtà? Allora era giovane e appassionata, sentiva di poter possedere tutto ciò che avrebbe incontrato sulla sua strada. Avrebbe potuto assorbire e contenere tutto nell’animo, nella mente. Era stato puro slancio verso il mondo che non ancora conosceva e che l’avrebbe accolta fra le sue braccia e condotta per la via, rendendola consapevole, insegnandole la vita. Così anche lei, insieme a tutti gli altri, con la luce si muoveva vorticosamente, assetata di vita. La amava, la vita e la divorava ingordamente, credendo così di possederla. Col buio tutto finiva e lei, la vita, rimaneva posseduta da nessuno e amata da tutti. Il mondo non l’aveva abbracciata, ma ingoiata e lei era sprofondata nel suo grembo a fondo cieco. Qui aveva vissuto tutti quegli anni e niente e nessuno aveva più un senso per lei, cercava solo di ritornare su, di aprirsi un varco. La sua mente, la sua anima non riuscivano più a contenere nulla. Non esisteva. Viveva ma non esisteva più. La madre stava parlando, sentiva la sua calda voce arrivare direttamente al suo cuore. Si riprese dal torpore in cui era caduta, si rincuorò di essere lì e poi, come per incanto, quelle voci sconosciute smisero di parlarle, di rimbombarle nella testa. Stava aiutando sua madre ad apparecchiare la tavola, non si spiegava come mai, perché un istante prima era in un buio sacco senza uscita, al centro della terra. I posti a tavola erano due. E suo padre? Ah, sicuramente era da quel suo amico commerciante, come si chiamava? Non lo ricordava. Era lì che andava suo padre, a passare il tempo diceva sempre lui, a non annoiarsi pensava lei, a non morire.


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In ogni caso meglio così, desiderava stare con lei, con la madre. Desiderava sentirle dire sempre le stesse cose, quelle da cui anni prima era fuggita; desiderava sentire il suo odore di vestiti conservati negli armadi e aromi di cucina, di aglio e origano mescolati alla fragranza del profumo dei suoi sogni. E poi desiderava sedere a tavola con lei, una accanto all’altra come ai tempi del liceo; ed era come allora, finalmente, il tempo si era fermato. Sperava che il padre tardasse in modo che lei potesse saturarsi di quell’amore materno che per tanto tempo, troppo tempo, le era mancato. La madre le parlava e lei contemplava le sue labbra muoversi e le rughe che cambiavano direzione ad ogni movimento del viso. Sentiva il calore della sua voce arrivarle al cuore e di qui essere pompato in ogni sua cellula, come ossigeno lo inalava e se ne compiaceva. Si rilassò al suono di quella voce amica, tanto diversa dalle voci sconosciute che la tormentavano. La madre la scrutava ammirata con i suoi occhi bellissimi amorevoli e benigni e lei rivisse tutte le volte che quegli occhi si erano posati su di lei, arrabbiati a volte, ma spesso dimessi e dispiaciuti; compiacenti e spesso rassegnati. Ricordò tutte le incomprensioni e i litigi, la sua era testardaggine pura e doveva avere sempre l’ultima parola, la madre lo sapeva. La madre, solo lei la conosceva e la perdonava. Lei la amava. Si chiedeva se glielo avesse detto o almeno se glielo avesse fatto capire in qualche modo. Così, le prese la mano calda e morbida e grande, gliela strinse forte e la mamma le sorrise e prese la sua piccola mano, esile e fredda, tra le sue. Ecco! La solita frase stava per arrivare e lei già si crogiolava al piacere di udirla ancora una volta: “come sei fredda, non ne hai sangue; sei senza sangue!”. Stringeva le mani fredde tra le sue grandi e calde, quasi a volerle dare un po’ del suo cuore, della sua vita. Chiuse gli occhi e quando li riaprì si ritrovò per strada. Camminava con la mamma tenendole la mano, come da bambina, tra una folla fitta e asfissiante. Che ci faceva tutta quella gente intorno a lei? Odiava la folla, si sentiva soffocare, schiacciare, ma la mamma le fece largo e lei poté vedere. Era la festa della Madonna. Era la festa dei colori, dei petali di rosa gettati dai balconi adornati da coperte variopinte. Era la festa delle ciaramelle, dei pulcinella ballerini, del torrone e dello zucchero filato. Era la festa degli odori. L’odore della polvere da sparo dei fuochi d’artificio, l’odore delle mandorle tostate e l’odore della madre, che aveva indosso il suo profumo preferito.


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Questa era la vita! Si voltò sorridente a cercarla e la vide che si allontanava rapidamente da lei, leggera, quasi sfiorando l’asfalto della strada. Com’era possibile? La mamma, che camminava sempre lentamente, che considerava il suo corpo ingombrante e indesiderabile, adesso sembrava volare tra la folla e, sorridente, le faceva cenno di seguirla. Non sapeva come, ma era con lei, accanto a lei. La sensazione meravigliosa della leggerezza, del volo. Questa era la morte! Ora erano entrambe negli aromi della festa. Nella brezza che spirava spostando lievemente i palloncini colorati, nelle nuvole che si formavano e mutavano leste nel cielo di maggio. Non più voci, non più vuoti. Ora ricordava. Il dolore, gli scopi falliti, le svolte sbagliate, le follie, la ricerca disperata della stupidità. Tutto. Il suo ultimo treno l’aveva condotta li, dove era sua madre, dove tutto tornava ad essere solo perché lei era.


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VICO DEGLI EBREI Rimembranze (quasi)metafisiche Questo testo è nato dall’esigenza di rendere immortale, almeno nei miei ricordi e in quelli dei miei cari, il nostro tanto amato e tanto odiato centro storico che molto sta cambiando! Lo dedico alla mia famiglia d’origine che qui ha palpitato e vissuto per lungo tempo: mia madre, mio padre, i miei fratelli ed io, siamo nati qui. A mio figlio.

I pensieri sono come anelli di fumo, nell’attimo stesso che prendono forma svaniscono, dissolvendosi e rimescolandosi come la vita degli uomini e salendo al cielo diventano aria. Così la mia vita, così i miei sogni, così i miei ricordi. Mi sforzo di trovare le parole giuste, quelle che tra milioni più si avvicinano all’aria per raccontarmi e descrivermi a te e, allo stesso tempo, per illuderci entrambi e riadattarci al corso degli eventi. E così ti racconto quello che forse è la mia realtà o forse è la mia illusione, il perenne inganno dei sensi. La mia esistenza. Nel borgo antico, racchiuso un tempo lontano da una possente muraglia e da sette porte romaniche, irriconoscibili ad un occhio estraneo, esiste ancora un intreccio di strettoie tipicamente medioevali: vie, viuzze e vicoli. Una ragnatela di canali che s’intersecano, si toccano, si confondono gli uni negli altri, come le vite degli uomini che li popolano. Sono tanti i vicoli racchiusi nel giro interno del paese e tanti di più gli uomini che li abitano. Vie irregolari e stradine tortuose di cui molte senza uscita, come le trame aggrovigliate e senza varco delle storie degli uomini. Questi uomini, pur essendo dotati di forte intelligenza, capacità di linguaggio e di comunicazione, come tutti gli esseri umani, pur avendo capacità di sensibilità e coscienza, restano intrappolati nell’intreccio delle loro vicende in questo borgo antico, tanto amato e odiato. Qui i bambini nascono, crescono, vivono e per sorte muoiono, convinti che le mura esistono ancora. Mura invisibili ad occhio nudo, ad occhi nemici, ma pronte a manifestarsi in caso di pericolo, per proteggerli.


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E lì sulle mura, in groppa al suo destriero, c’è sempre San Severino nella sua armatura lucente che brandisce la spada con la sua destra e mette in fuga gli estranei, coloro che sono avulsi al ghetto. Il ghetto è una città nella città. Anche chi vive di là dal giro interno, oltre il giro esterno, è considerato nemico perché non partecipe alle leggi di questo borgo. Ma perché continuo a chiamarlo borgo? Per dare ad esso un’onorabilità, probabilmente. In realtà questo groviglio d’intestini spasmodici è un vecchio ammasso di case e casupole scalcinate a cui manca la dignità del “borgo antico”. Si potrebbe chiamarlo centro storico, come lo chiamano quelli che non ci vivono, gli esterni, ma coloro che qui vivono, sperano e muoiono, sanno che ogni viuzza o rione dà il nome alla zona e ai suoi abitanti. Così capita che un compaesano “estraneo” chieda: - dove abiti? - o quartë i bbréjë (al quartiere ebreo) - e dove sarebbe? A questo punto se u’ bbréjë è, tutto sommato, una brava persona ci scappa una fragorosa e ricca risata plebea, ma se u’ bbrejë è un tipo permaloso, ci potrebbe scappare una mazzata o addirittura una coltellata. Per chiarezza, in generale, lo continuerò a chiamare borgo. Qui nel borgo la vita è diversa, come se la si guardasse scorrere a rallentatore e attraverso una costante presenza di fumo. Una nebbiolina, celeste e grigia, tende ad appiattire le immagini e a renderle simili tra loro, tende ad eliminare i rilievi e i chiaroscuri così che non ci sono differenze notevoli tra le porte, le case, le persone. Qui la contadina con la zellë che le copre i capelli, vive in una casa a piano della strada, con una facciata pittata di calce bianca ingrigita dal fumo e dalla sporcizia, con una camera e un gabinetto, con un marito e almeno sei, sette figli. ui la signora che quando esce porta il cappello, vive in un palazzotto, un quartino che ha un piano terra con i magazzini, un primo piano fatto di camere che si aprono una nell’altra, ognuna con la sua finestra o il suo balcone, con una facciata pittata di calce bianca ingrigita dal fumo e dalla sporcizia. Il passante occasionale non può distinguere il palazzotto, compresso tre le altre case. L’occhio inesperto non coglie le differenze tra le due donne se entrambe sono affacciate alla porta di casa. I loro sguardi e i loro volti sono simili, livellati dalla nebbia azzurrina che sale dall’asfalto della strada o che scende dai fumaioli. Perché le vite sono affini, accomunate dal principio


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immateriale del senso del quartiere. Il rispetto e la protezione sono totali e reciproci. Qui le donne raccontano le gesta dei Santi Patroni, tre addirittura e assolutamente paritari tra loro da un punto di vista curiale. Ma la preferita del borgo è lei: la Madonna Nera. Arrivata a questo paese attraversando deserti infuocati, proteggendo il Bambinello Gesù con il suo manto dorato e lasciandosi bruciare il volto da un sole irriverente. Lei ha scelto questo luogo, ha fermato il suo passo su queste terre daune. La sua dimora è una chiesa meravigliosamente decorata in stile barocco e sorta rigorosamente nel giro interno, di Lei si prendono cura i confratelli di S. Agostino e tutti gli abitanti del borgo. Per Lei, in suo onore, durante i cerimoniali della Sua festa, nel dolce mese di maggio, i cittadini tutti, interni ed esterni, attendono frementi il penultimo fine settimana e per tre giorni la festeggiano e la onorano. Lei, la Signora Nera con lo sguardo magnetico, grazia i suoi fedeli percorrendo le strade della cittadina preceduta dalla schiera dei Santi e degli Angeli e affiancata dagli altri due Protettori. Per Lei sono tutti uguali, esterni ed interni. La folla la segue fra strilli e schiamazzi, risate e gioia, e al suo passaggio piovono dal cielo petali variopinti di rose e luccicanti foglietti; alzando lo sguardo al cielo sembrano milioni di farfalle che volteggiano, caoticamente, nella brezza maggese. Le bande seguono il corteo: la bianca e la rossa. Suonano e gareggiano a chi suona meglio per Lei. I sacerdoti e i parroci sfoggiano le vesti migliori e, attorniando il prelato, gareggiano con larghi sorrisi a chi più è onorato dai fedeli. Gli assessori in doppio petto e brillantati sgambettano alle calcagna del Sindaco, fasciato tricolore, ostentando sorrisi e dignità e gareggiando a chi ha la carica più importante. Alla testa vi è un messo del municipio che porta il gonfalone della città con i suoi colori e l’effigie di S. Severino. Ma l’onore più grande Le è dato dai quartieri. È la festa delle gare e anche i quartieri gareggiano sparando al Suo passaggio le battarjë. C’è chi le chiama bolognesi, gli esterni ovviamente, ma gli interni le chiamano battarjë. Certamente hanno ragione loro, le battarie non sono come le bolognesi, non ci somigliano nemmeno lontanamente. Solo chi le ha viste e sentite può testimoniare. I quartieri gareggiano a chi le fa più lunghe e più forti e potenti.


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E la gente del borgo antico, popolino e signori, se le godono fino all’ultimo colpo a distanza ravvicinata, fieri e orgogliosi: i primi di far parte del quartiere e i secondi di avere speso bene i loro soldi. Sicuramente è notevole vedere poi i ragazzi, figli di contadini e figli di signori, correre davanti alle battarie insieme tenendosi per mano, coprendosi naso e bocca con i fazzolettoni. Questa usanza, di correre davanti al fuoco che avanza rapidamente e pericolosamente alle spalle, è una caratteristica tipica della città, anche se è ritenuta barbara e incivile, ovviamente dagli esterni. Chi non lo ha mai fatto non può capire. Se vuoi essere considerato del luogo, un interno, almeno una volta nella vita devi correre davanti alla battarjë. È un’esperienza esaltante e, sì, sicuramente selvaggia perché l’unica parte del corpo che funziona in quel momento è il sistema neurovegetativo che, attraverso l’olfatto, avverte il pericolo e la quantità esponenziale di feromoni sprigionati dalla folla impazzita e fa emergere l’istinto animale della fuga e dell’eccitazione. Il rituale può sembrare pagano e contro le leggi cristiane, ma provate e dirlo ad un interno, ad un vecchio abitante del ghetto. Scusate, del borgo antico. I vecchi! La loro saggezza è proverbiale, non c’è vecchio nel borgo che non sappia raccontare storie. Infatti qui i vecchi siedono su seggiole impagliate fuori delle porte, alla frescura della sera d’estate, e raccontano di gesta memorabili d’arditi cavalieri e grandi principi mentre sgusciano e sgranocchiano ceci freschi. Le raccontano così bene che i bambini restano per ore ad ascoltarli a bocca aperta, e le raccontano a puntate. Così se, per pura fatalità, il vecchio durante la notte passa a miglior vita il seguito della storia, ignoto, rimane aleatorio nell’aria e magari fra quei bambini ce ne saranno un paio con più fantasia degli altri che si creeranno un finale personale e differente cosicché la storia originale è alterata, trasfigurata, divenendo due storie o tre o quattro e così via! Il borgo antico sa, ancora oggi, di sapori arcani. Le mura, durante la notte, evaporano misteriose ombre a cui fervide menti hanno assegnato nomi e caratteri. Le mura delle case del borgo antico sono vive. Chi non lo sa non può difendersi, corre il rischio di restare intrappolato, preso nella rete filamentosa e appiccicosa del ragno: il ragno della angoscia che ti assale di sera, quando attraversi le strade e i vicoli bui e umidi. C’è sempre qualcuno con te, nei vicoli. Non si è mai soli nei vicoli, anche se così si crede.


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Solo chi è nato qui lo sa, è consapevole degli occhi invisibili che lo scrutano, mentre, con il cuore a mille, percorre il vicolo sveltendo e allungando ogni passo per accorciare la distanza che lo separa dalla porta di casa. Entro le pareti c’è il tepore della famiglia che da conforto e, anche se gli sguardi invisibili ci sono sempre, non fanno più paura. - sono del quartiere; sono uno di voi. Non mi farete del male. - che c’è? Hai il fiatone. Che è successo? - niente ma’. Ho corso. Ho visto un’ombra che m’inseguiva… - e dove? - mentre passavo da Via Normanni, davanti alla casa di Sing sing. - lo vedi! Ci ho ragione io! Tu di là non devi passare, vai a fare il giro per Via Roma, ci sono i lampioni e la gente che ci abita è brava gente. A Via Normanni abitano i pinturicchi, tutti galeotti e pregiudicati… Ma tu mi vuoi far morire a me! - no, ma’. Quella era un ombra mica un cristiano. Quello era un fantasma… - fantasma? Qua fantasmi non ce ne sono, tu non capisci che dei vivi devi avere paura e non dei morti? Se era un fantasma, buono, ma se invece era uno di quei delinquenti… - tanto non mi fanno niente, lo sanno che abito qua, mi conoscono. - e perciò devi stare attento. Noi abitiamo a Vico degli Ebrei… quelli sono invidiosi e malamente. Ti acchiappano e ti fanno nu paliatonë numero uno. - capirai che differenza… - come che differenza. Vuoi mettere la strada nostra con la loro? Quello è nu lariumë senza uscita; la ci abita tutta la marmaglia del quartiere. La strada nostra è lunga e collega il giro interno con il giro esterno. È una strada di passaggio. È via ebrei, qua un tempo ci abitavano gli ebrei che erano tutti ricchi e perbene. Ma lo sai o no che in questa strada siamo gli unici ad avere una casa di proprietà e pure bella grande? - grazie a dio! Comunque quello che m’inseguiva era un fantasma… io di là non ci passo più. - meno male. Noi siamo protetti, io e tutti i figli miei. Questa casa è protetta dalla mùrejë. - che pure della mùrejë tengo paura… mi si gela il sangue ogni volta che vado a dormire nella stanza di sopra. - non devi avere paura della mùrejë, quella è la nostra fortuna, è la fortuna della casa, ma se si accorge che teniamo paura se ne va e addio fortuna. Nel borgo antico l’immaginazione diviene reale e la realtà è distorta dalla credenza popolare.


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Qui, di notte, si aggira la mùrejë delle case e lo scazzamurellë e le lampade restano accese per fare luce alle anime dei defunti durante le notti di novembre. Qui si mangia l’acquaselë con i pomodori e la cipolla spunzelë; qui si dorme sul pavimento nelle afose notti d’estate e su materassi di lana nelle fredde d’inverno. Qui ci si siede attorno all’asciugapanni di ferro battuto vestito di maglie bucate e calzoni logori, al calore fievole del braciere che intanto cuoce lentamente patate e castagne sotto la cenere di carbonella. Qui si nasce e si muore con l’anima anche se non con il corpo. È unico l’odore della terra bagnata. La terra battuta dei vicoli catramata e muschiata, altrove si chiamerebbe puzza, ma qui è l’odore di casa, le donne lavano le strade con acqua e lusscijë, le lavano come i pavimenti di mattoni grezzi delle loro case, perché qui la strada è la casa. Ogni via, ogni vicolo è un mondo. Chi ci vive ne è padrone indiscusso, gli altri, passanti occasionali o abitanti di altri vicoli, possono transitare solo se a loro piacenti. È la legge del quartiere antico. Chi non ci nasce non può saperlo. Spesso i vicoli ciechi, all'inizio stretti come budella, si slargano in un cortile e qui terminano nel lariumë. Il lariume è territorio privato. Rigorosamente accessibile ai soli residenti. I lariumi sono luoghi misteriosi e pericolosi, sono strade senza uscita, insidiose trappole in cui è facile cadere e difficile uscirne. Dal lariume si esce solo dopo aver pagato un pegno. La natura del pagamento è a discrezione degli abitanti. A volte basta poco, qualche soldo per un gelato, un fermaglio d’osso per i capelli, i bottoni dorati della giacca; a volte ci vuole di più e se ti rifiuti oppure non hai di che pagare paghi con la pelle. Qualcosa la devi comunque lasciare, nel lariume. C’è chi vuole uscirne. Evadere da questo carcere fatto di stradine incavate e rigagnoli puzzolenti. Scappare. Non ci sono cancelli con catene o muraglie, ma uscire dal borgo per chi ci è nato, è più difficile di quel che sembra. C’è chi è andato lontano, chi è riuscito ad abbandonarlo, fisicamente, solo fisicamente perché separarsene è impossibile. Quando hai camminato per i vicoli umidi ed evaporanti l’esalazione del catrame fuso all’odore degli umori di uomini e donne passati di lì prima di te, vissuti lì prima di te e con cui hai condiviso la vita e la genetica e hai inalato tutti gli istanti e le storie dei tuoi avi tra le pareti scalcinate di queste fatiscenti abitazioni.


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Quando, camminando lungo i vicoli, hai partecipato, sbirciando dalle griglie delle porte aperte, alle vicende più intime e personali dei tuoi simili. Quando sei nato e cresciuto e vissuto in quest’intrico di sospiri d’uomini e di spettri, non puoi abbandonarlo del tutto, il quartiere. Perché il tuo corpo è fatto della polvere aspra e leggera che in estate si alza quando le strade sono secche e asciutte; è fatto di nebbia azzurrognola e vapore caldo che fuoriesce dalle case straripanti di spiriti vitali, di voci di donne allegre e di bambini piangenti; è fatto di aromi di muffa, di urine e di pietanze antiche; è fatto di racconti arcani e oscure presenze di spiritelli burloni e strane comari avvezze alla magia nera. Il tuo corpo è fatto di ataviche memorie a cui non puoi sottrarti e forse, col tempo lo capirai, non vuoi sottrarti. Ma tutto questo comprendere, percepire e assorbire è solo per coloro che nel borgo antico hanno visto la luce, per chi qui ha radici profonde e ataviche. Per chi viene da fuori, dall’esterno delle mura invisibili, non può esserci conoscenza e la loro permanenza qui, nel borgo antico, sarà obliata dall’ignoranza e di loro non si serberà ricordo alcuno. Eccomi. Soffiata dalla brezza mattutina tra le viuzze strette del mio quartiere. È qui che mi troverai confusa tra i vapori esalati dal catrame nero e molle e i fantasmi del passato, del mio e del tuo. Ed è piacevole, rassicurante sapere di avere una meta, uno spazio dove fare ritorno in seguito il peregrinare di una vita, un luogo sicuro e caldo dove approdare, infine, dopo le mille illusioni e le tante svolte e i difficili adattamenti al corso degli eventi. Parole banali e comuni che si avvicinano all’aria, dove io sono, e al mio cuore… dove tu sei.


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Glossario a Vico degli Ebrei Asciugapanni: attrezzo in ferro battuto circolare fatto apposta per essere posto su un braciere e per stendere la biancheria ad asciugare. Battarijë: fuochi pirotecnici sparati a pochi centimetri da terra, ad altezza d’uomo. Molto rumorosi e potenti. Cipolla Spënzelë: cipolle giovani e verdi ottime da mangiare crude. Larjumë: slargo di un vicolo, solitamente cieco. Un cortile o corte. Lusscijë: soluzione con acqua e cenere o sapone fatto in casa. Mùrejë: spirito solitamente benigno della casa. La credenza popolare lo vede abitante nei muri. Paliatonë: carico di botte con un palo. Scazzamurellë: spiritello maligno e molesto. La credenza popolare lo indica come un bambino con la faccia di un vecchiaccio, uno gnomo con un berretto rosso simile ad un fungo, che si aggira di notte per le case a chiedere soldi e a fare dispetti. Zellë: copricapo usato da donne per svolgere lavori domestici o nei campi.


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SOFFI DI TERRA! a Coloro che s’illusero di “amare”* la terra! *(amare nel doppio significato del verbo amare: io amo, tu ami, egli ama… e dell’aggettivo amare: aspre, dolorose)

Fino a qualche mese fa non mi sarebbe neanche passata per la mente l’idea di tornare a Grecarco, perché poi? Per visitare il vecchio palazzo dei miei nonni: gloriosa costruzione di fine ottocento, che un tempo troneggiava sul corso principale, oramai ingobbito dagli anni, semidistrutto, come vecchio uomo stanco, con il suo stemma annerito e scalfito dagli innumerevoli colpi di antichi rancori e ataviche frustrazioni. Per rivedere la mia amata tenuta con l’antica villa dai muri dipinti un tempo di calce bianca, e dal tetto ricoperto d’embrici grigi, alla cui ombra nidificavano passeri che mi risvegliavano nel fresco mattino con i loro richiami assordanti. La candida villa dagli antichi splendori, ridente con i davanzali ricoperti di gerani e ortensie e con le fresche tende di lino al vento, era come una beneamata matrona che dominava le bianche casupole dei salariati poste tutte in fila, ordinate così come era ordinato mio nonno. Il suo ordine mentale così assoluto, matematico. Povero nonno! Era certo d’essere benvoluto dai suoi braccianti e indubbiamente alcuni di loro lo stimavano, quei pochi che non gli si rivoltarono contro, ma gli altri… Gli altri, quelli che lo temevano, che avevano covato anni e anni d’invidia e malevolenza ereditate dai loro padri e dai loro nonni, quelli che fanno dei natali una colpa, che non giudicano per le opere e le gesta, ma per il nome che porti o per la terra che possiedi. Quegli altri lo assaltarono come cani feroci e fecero di lui melma e dissero di lui bassezze che rispecchiavano non il suo operato di galantuomo, ma i loro animi di malvagi, animi rinsecchiti dalla rabbia e dalle grettezze morali. Chissà perché mi sono messa in auto ed ho deciso di tornare a Grecarco, erano anni che non ci venivo. Qui sono nata, qui sono vissuta fino a che mio padre è stato trasferito a causa del suo lavoro, o si è trasferito? Non saprei dirlo. In realtà né io né mia madre lo abbiamo mai capito, ma era ciò che desideravamo e non abbiamo fatto domande. Qui ho vissuto la mia infanzia, tra queste stradine strette senza coltri d’indifferenza tipica dell’affollata città in cui vivo, tra le mura del palazzo dei miei antenati. Mura storiche piene d’umori e di respiri notturni, mura vive e vigili.


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Tra passato e presente fluttuavo nelle stanze del palazzo a confondere i miei respiri con quelli dei miei avi che lì erano nati e vissuti e il cui sangue ora mi fluiva nelle arterie e pulsava nel mio corpo. Ma era la tenuta la mia preferita. La tenuta del mio statuario nonno, così lo ricordo io bambina: statuario. Imponente come un bronzo di Riace e, anche se mio padre afferma che era più basso di lui, tesi comprovata dalla visione di alcune foto a persona intera del nonno, io preferisco ricordarlo così, statuario. Ogni volta che penso a lui il mio sguardo volge verso il cielo a cercare il viso barbuto e i suoi occhi penetranti. Mio nonno! È morto di delusione. L’avvilimento di colui che concede, non per beneficenza, ma per cognizione di causa. L’amarezza di chi è stato travisato, che ha dato per amore ed è stato frainteso. Il dolore che attanaglia un animo sconfitto può uccidere. Sono arrivata alle ore diciassette e quarantacinque; il sole era alto sulla collina e i lastricati delle strade lucidi e infuocati. Le mura scalcinate dei bassi sanguinavano i colori iridescenti del tramonto e i vetri delle finestrelle facevano occhiolini maliziosi. Grecarco era silenzioso alle diciassette e quarantacinque, in uno stato di pennichella pomeridiana, con il ritmo delle pulsazioni al minimo e con il respiro leggero; differentemente ero io. Alle diciassette e quarantacinque ero al massimo dell’eccitazione, le pulsazioni battevano ad un ritmo afrocubano ed ero in debito d’ossigeno per l’iperventilazione. Il motore dell'auto era più silenzioso del mio cuore. Perché ero tanto agitata? Il nonno avrebbe trovato la risposta giusta: è il richiamo del sangue. Il richiamo delle tue origini. Della tua terra! Avrebbe avuto ragione lui, innegabilmente. La piazzetta con il monumento ai caduti e i due pini marittimi era ancora come la ricordavo, piccola ed angusta. Di forma esagonale aveva il lato centrale occupato dalla facciata in stile rococò della chiesa dell’Assunta, la chiesa madre, con il suo famoso ed elegante campanile maiolicato ed era attorniata sugli altri quattro lati dalle mura degli antichi e nobili palazzi delle famiglie blasonate del paese; edifici oramai morti, disabitati, i cui occhi vuoti guardavano sinistramente sulla piazzetta. Il sesto lato frontale alla chiesa, era occupato da un muretto piastrellato sormontato da una ringhiera di ferro battuto che si affacciava sull’ampia e vasta piana di Grecarco. La terra! Un tempo, quando i palazzi erano vivi, i loro occhi brillavano al sole di primavera e si soffermavano ad osservare con amore e dedizione la sottostante piana dipinta con i colori della natura: il giallo del grano maturo che si accompagnava al rosso dei papaveri, il verde degli aranci che si


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tesseva con il rosa dei boccioli di pesco, l’arancio delle albicocche che si rimescolava con l’amaranto delle ciliegie. Un tempo la gente di Grecarco si sedeva all’ombra dei due pini marittimi e restava assorta nei colori e nei profumi della natura, un tempo la gente di Grecarco era semplice e felice. Un tempo anch’io mi affacciavo a scrutare la piana e ascoltavo la natura, ma quella interiore. Quella che nei primi tormenti adolescenziali mi portava con la mente altrove, oltre la pianura, verso luoghi più frastornanti di voci e di gente. Luoghi più movimentati e lontani. Non vedevo e non sentivo i colori e i rumori della piana, non distinguevo il cinguettio dei passeri da quello dei pettirossi e non discernevo i colori delle ciliegie da quello dei papaveri. Il nonno sì. Lui aveva orecchio fino e occhio di falco e un olfatto da segugio. Mi diceva: - Ascolta. Questo è il pettirosso che al tramonto canta una canzone d’amore. Guarda. Laggiù verso est, c’è la villa e il nostro cane sta giocando nell’erba. Avrà trovato un topo!Il nostro cane! Come faceva a vedere il nostro cane che giocava nell’erba? Io non vedevo nulla. Non ero interessata a vedere. Io guardavo lui con il mio viso al cielo e scorgevo solo il suo sorriso, e leggevo nei suoi occhi altre parole. Parole diverse costruite con lettere non di questo mondo, pronunciate con astrali fonemi non percepibili ad orecchio umano. Il suo immenso amore per quella piana non aveva nulla a che fare con la terraneità, era un amore sublime, platonico, profondo. E stava già morendo. Avevo appena varcato la soglia del rigido edificio scolastico, rigido nel significato figurato della parola, frequentavo il primo anno di liceo in un paese vicino Grecarco e dovevo svegliarmi ad orari assurdi per andare a scuola. Generalmente prendevo una circolare di colore blu, ma quel giorno ad aspettarmi lì di fronte c’era l’auto di mio padre. Cosa? Come? Perché? Il nonno era stato portato in ospedale, in città, dove il suo amato figlio, mio zio, lo avrebbe meglio assistito. Mio zio era primario del reparto di chirurgia, allora. Inutilmente. Lui stava già morendo da tanto, lentamente, inesorabilmente. Dolcemente è partito per una destinazione ignota, per terre lontane ed estranee, dove gli odori e i colori della natura si fondono ai pensieri e ai ricordi degli uomini, dove tutto torna al suo posto e le cose vanno esattamente come devono andare. Ne era certo, e oggi lo sono anch’io, dopo la morte ogni corpo o essenza o idea torna ad occupare il suo spazio nell’universo.


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Sapevamo che la sua morte era principiata anni prima, quando accadde quell’orribile tragedia, laggiù, nella nivea masseria imbrattata per sempre dal carminio colore del sangue. Il sangue ha un odore strano e il sapore è unico. Spesso mi leccavo le ferite, quando da bambina mi sbucciavo un ginocchio o una mano giocando per le timpe della tenuta. Leccavo le ferite; il nonno sosteneva che il sangue è la nostra vita, in esso scorre tutto il tempo che ci è appartenuto e quello che ci apparterrà e allora pensavo che il sangue era troppo prezioso per perderlo e quindi lo riprendevo leccandolo accuratamente dalle lesioni. E mi piaceva, mi piaceva il sapore del sangue. Del mio sangue. Era un sapore dolce e ferrigno, come l’acqua sulfurea e terrosa perché era sangue misto alla terra rossa e grassa della masseria, alla mia terra. Il sangue che lecco adesso dalle mie lievi ferite dovute a piccoli incidenti domestici, è dolciastro e… e basta. Dolciastro, quasi ambiguo e nauseante. Non cerco neanche di riprenderlo e non mi lecco più le ferite. Il mio tempo presente ha questo sapore. E non mi piace. Camminando tra i filari dei palazzi, in città, per le vie brulicanti di rumori e voci di persone sconosciute, ripenso spesso al calore intrinseco che la grassa terra emanava e con cui mi accarezzava le gambe nude mentre passeggiavo tra i filari d’albicocchi e di peschi. Allora sentivo il sangue ribollire in un flusso tumultuoso pieno di vita passata e futura; invano ricerco le perdute passioni nel calore effimero riflesso dall’asfalto. Forse sono tornata per questo, per ridare al mio sangue la spinta giusta a riprendere il suo getto, per ridare un valore alla mia esistenza, per rendergli soffio vitale e sapore. Il soffio vitale della terra! Mi immagino tra gli alberi di pero ricolmi di fiori bianchi, poggio i piedi sulla grassa terra, solida e morbida allo stesso tempo, la stessa terra che ha assorbito il sudore di mio nonno, dei suoi avi e dei miei, dei contadini che hanno rassodato e zappato queste zolle rosse inzuppate con le lacrime e con il sangue. Quell’orribile giorno. Gli uomini: così diversi nell’aspetto, nel lignaggio, nel nome e nell’animo, ma uguali nel sangue. Il sangue versato aveva lo stesso colore e lo stesso sapore, e si è mescolato e si è confuso ed ha irrorato le candide mura della villa e la scura terra impregnandola e fecondandola con il seme dell’odio e della morte. Terra rossa, grassa e fertile che per secoli aveva creato, dato vita e solo vita a fiori variopinti, ad alberi e a frutti succosi, a passeri ed usignoli, a serpi e lucertole, a vitelli, pecore e puledri. Vita a uomini giusti e vigorosi, a ragazze leggiadre e allegre. Vita! Ma il seme dell’odio e delle rivendicazioni sociali aveva messo tali radici nelle profondità della terra che in superficie non erano visibili e quel


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giorno spuntarono improvvisamente, come gramigna e si avvinghiarono agli animali, alle cose e agli uomini che, indemoniati, come sotto l’effetto della malerba artemisia, hanno causato morte e distruzioni in nome dell’uguaglianza e dei diritti sociali e di una riforma fondiaria di cui a malapena sapevano pronunciare il nome. Erano i figli dei salariati che avevano visto la luce tra le pareti della villa, e avevano assaporato l’abbraccio caldo e morbido di mia nonna e le carezze amorevoli di mio nonno. Due di loro, giovanissimi e dagli animi infervorati, sparsero il loro sangue e il loro alito vitale sulla terra dove avevano corso e giocato fin da bambini, in nome di qualcosa che non avrebbero nemmeno saputo spiegare. Quelle morti, il sangue, l'inutile lotta per ottenere ciò che in ogni caso mio nonno avrebbe loro dato, distrussero la tenuta. Come una pianta assetata e inaridita lentamente la vita scivolò via dalla villa, dagli alberi, dai tetti, dalle stalle, dall’aia, da mio nonno. La sua morte è principiata quel giorno. La corsa in ospedale, la sala di rianimazione, le lacrime sul suo letto di morte sono state solo l’epilogo di un finale annunciato. Ora sono qui, nonno, e dalla piazzetta di Grecarco osservo la piana, come facevi tu. Cerco la nostra tenuta e la villa e finalmente la vedo. Non è più così nivea come un tempo, ma è sempre imponente e troneggia tra le siepi e i filari dei vigneti. Ai riformati è andata solo una piccola quota delle proprietà, quella peggiore, quella che tu, nonno, di tua iniziativa non gli avresti mai donato perché lontana e paludosa. Ma, come tu spesso mi ripetevi, le cose vanno esattamente come devono andare e non c’è niente che possiamo fare, soltanto accogliere l’inevitabile. Un giorno spartiremo nuovamente gli spazi e il tempo, se mai ci saranno spazi e tempi dove siamo destinati ad andare e quel giorno, alzando il mio sguardo al cielo, rivedrò i tuoi occhi profondi e lucenti e il tuo sorriso rassicurante e condividerò con te le parole diverse, quelle non udibili da orecchio umano. Per questo sono qui. Ho spento il motore dell’auto, sono scesa e ho percorso il viale fino alla piazzetta dove i due pini marittimi lentamente crescono con le chiome al vento. Ho ammirato la facciata della chiesa dell’Assunta e il campanile maiolicato, i palazzi antichi e muti e la piana. Laggiù verso est c’è la villa, i ricordi e il mio sangue. Sì. Il mio cuore si è quietato e il mio respiro è normale come le mie pulsazioni. Ho capito che il legame di cui tu nonno parlavi, era intangibile. Io lo cercavo tra gli alberi di pero, tra i filari dei vigneti, nel grano verde e non lo trovavo, semplicemente perché non riuscivo a vederlo. Ora lo vedo,


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lo sento e riesco perfino a toccarlo, con le mie percezioni mentali, quelle del ricordo e dei soffi della terra.


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IL GIOCATTOLO A chi pensa di essere nel giusto, sempre!

“Le nuvole qui non sono bianche… cioè sono bianche, ma non bianche bianche! Capisci cosa intendo dire? Sono sporche, come se si fossero rotolate in una pozzanghera di fanghiglia grigia. Anche il cielo qui non è azzurro. È infangato anche lui. Ingrigito, senza luce e macchiato dalle nuvole sporche; e il sole? Oh il sole non è giallo! E’ come un punto sbiadito e riflettente nel cielo grigio. Anche i miei occhi non sono più del loro colore, acquamarina trasparente, come mi dicevi sempre tu. Ho gli occhi grigi adesso, qui.” Irina solleva lo sguardo al cielo, gli occhi a fessura, raggrinziti, per proteggerli dalla luce pungente del sole mattutino di luglio. Sta scrivendo sul suo piccolo quaderno con tratti cirillici leggeri e minuti, scrive alla sua famiglia lontana perché sente un gran peso nel suo piccolo cuore di bambina. Scrive perché non riesce a sorridere se non pensando a loro e raccontando una sua personale percezione dell’ambiente che la circonda. In realtà non si è mai avuta stagione più bella in Lucania, le spiagge sono piene di villeggianti e il mare Jonio è meravigliosamente cristallino. È una splendida giornata, il cielo è terso e pulito, le nuvole sono leggere e trasparenti e il sole è caldo e carezzevole. E poi c’è il mare. Verde brillante vicino alla riva acciottolata, azzurro e blu più lontano, all’orizzonte. Il mare Irina non lo aveva mai visto, solo sulle foto delle riviste di Katia, sua zia, che a volte riusciva a prenderne qualcuna dalla hall dell’albergo in cui lavorava come accompagnatrice. Era bella Katia con gli occhi azzurri e luminosi e lunghi capelli biondi. Aveva trovato quello strano lavoro in uno dei nuovi alberghi, dopo la rivoluzione. Durante il regime, quando Kiev era ancora sovietica, Katia lavorava all’università, era una ricercatrice, ma ora faceva ben altro. Un giorno anche lei sarebbe diventata come Katia, chissà. Ma non ora, non ancora. La mamma sarebbe stata fiera di lei, se fosse viva le direbbe: - Brava Irina! La vita bisogna affrontarla e viverla prendendo ciò che si può e si deve. Anche se a volte ti sembra di subirla, non è mai così. Ricordalo, tesoro mio-. La mamma era un’interprete, parlava sei lingue e lavorava al ministero per gli affari esteri, prima. Poi c’è stato un agguato. Sono morti tutti. Il papà,


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dopo la rivoluzione, dopo la morte della mamma, è partito per l’occidente in cerca di fortuna inebriato dalla libertà e dal sogno americano. Lo stanno ancora aspettando. Ora lei è con Katia, con la nonna, Babuska, e con il fratello Karl di due anni più grande. Ora proprio no. Ora lei è qui, dove il cielo e le nuvole sono sporchi e i suoi occhi sono diventati grigi. Per fortuna c’è il mare. È stata la sua prima volta. C’è sempre una prima volta per tutti i bambini. La prima volta che vai al cinema, che mangi i pop corn, la prima volta che vai ad un luna park e fai un giro sulla ruota panoramica, la prima volta che osservi, che assaggi, che annusi, la prima volta che sali su un treno che ti porta lontano da chi ami, la prima volta che sali su un aeroplano e voli, voli fino sopra alle nuvole che sono candide e bianche come quelle del cielo di Kiev e che sembrano panna montata. La prima volta che parti. C’è sempre una prima volta per tutti i bambini ucraini. Tocca a tutti, prima o poi. Sostengono che sia per il loro bene. Sì, a causa dei residui radioattivi, eredità della centrale nucleare di Cernobyl esplosa decenni avanti e finalmente chiusa per sempre da anni, ma continuamente presente come un’ombra maligna, una condanna annunciata sulla loro testa. I risultati delle analisi fatte sulla tiroide d’Irina dichiaravano che tutti i valori erano nella norma, per questo non capiva perché a distanza d’anni bisognava ancora temere le radiazioni, ma sapeva quanto poco guadagnava Katia e quanto misera era la pensione di sua nonna, perciò a soli sette anni salì sull’aereo senza fare domande e nemmeno capricci, con il cuoricino gonfio e gli occhi di ghiaccio. Per suo fratello Karl fu la seconda volta. Fecero il viaggio insieme fino a Roma dove furono separati. Karl fu spedito con un treno a Napoli, dove lo attendeva la stessa famiglia dello scorso anno, la famiglia Capasso. Irina aveva visto le foto fatte da Karl, avevano facce simpatiche e allegre, erano quattro paffuti e rubicondi napoletani: il padre, la madre e i figli Eleonora e Filippo. Karl parlava di loro con entusiasmo ed era sinceramente impaziente di rivederli, di starci insieme e di far vedere quanto era diventato bravo con il game boy che gli avevano regalato e tutti gli sforzi che aveva fatto per imparare l’italiano. Karl parlava benissimo italiano dopo solo un’estate passata a Napoli. Sapeva articolare anche frasi complesse come: figghie e chi ‘te mmuorte! Oppure: t’aggia scamazzà comme a no porco co’ ‘e mmani mie! La traduzione in ucraino non la sapeva, ma erano frasi d’uso comune e molto utili in Italia! Per questo le fece imparare ad Irina pazientemente e con meticolosità. Irina pianse quando Karl partì per Napoli, ora era davvero sola, qui.


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Lei non prese un treno. Salì insieme con altri bambini su un pullman rosso a due piani, si sedette in silenzio con la schiena diritta e lo sguardo fiero e duro. Vicino a lei si sedette Sonia, occhi verdi e vispi, le lentiggini sul naso e capelli giallo paglia. Non proveniva da Kiev, ma cominciò a parlare e a parlare finché Irina non si decise a guardarla. Un sorriso largo e senza incisivi la colpì intensamente e positivamente. Sonia la guardò negli occhi ancora acquamarina e capì che non doveva fare domande. Però non smise di parlare. Così Irina seppe che: Sonia proveniva da Beliki, in provincia di Poltava, aveva i genitori che lavoravano saltuariamente come camerieri, ma che erano stati entrambi professori di musica, aveva due fratelli piccoli e un nonno invalido e che vivevano tutti insieme in due camere con un bagno nel corridoio in comune con un'altra famiglia e che prendevano un misero sussidio dallo stato per l’invalidità permanente del nonno che fu importante dottore d’agraria durante la federazione. Irina ascoltò tutto in silenzio pensando che Sonia fosse fortunata, tutto sommato aveva ancora i genitori. E poi Sonia glielo chiese, della sua famiglia, e lo fece con un suo sorriso largo e sdentato infilando una mano in tasca e tirando fuori una caramella di vetro al miele, una di quelle caramelle fatte in casa, quelle che anche Babuska faceva un tempo. Così Irina aprì la mano e la prese e finalmente accennò un lieve sorriso. Raccontò a quella strana bambina chiacchierona che non aveva più la mamma e che il papà era partito, ma in compenso aveva una zia bellissima ed una nonna eccezionale. Purtroppo era dovuta partire anche lei come tutti gli altri e già sentiva la nostalgia. Sonia le indicò un gruppo di bambini seduti poco più avanti e le spiegò che erano completamente soli. Non avevano parenti, poiché erano orfani di guerra, oppure erano stati abbandonati e ora vivevano in un istituto a Kiev. In fondo loro due erano fortunate perché possedevano una casa dove tornare, una famiglia, un rifugio. Irina posò i suoi occhi trasparenti sui quei bambini seduti più avanti e sentì tutto il vuoto dell’orfanilità, il totale senso dell’abbandono, quello che le stava gonfiando il cuore. Il nulla totale attraversò i suoi occhi fino al petto e fu in quel momento che il colore delle sue iridi cambiò e divenne grigio. Sonia continuò a parlare, ma Irina non la ascoltò più per tutto il resto del viaggio. Lungo, lunghissimo viaggio! Qui. “Sul pullman ho conosciuto Sonia, che bimba chiacchierona! A Babuska non piacerebbe, ma a me piace. Spero di incontrarla ancora nel viaggio di ritorno. Le persone sono strane, qui. Hanno tutti gli occhi scuri e qualcuno ce li ha gialli. Sorridono sempre e usano abbracciarsi e baciarsi, molto. A


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me da fastidio, ma non è facile farsi capire e riuscire a capirli. Le frasi che Karl mi ha insegnato non servono qui, pare che non parlano la stessa lingua della gente di Napoli. Per fortuna c’è Eva che mi viene a trovare e con cui posso parlare un po’. Non penso che imparerò a parlare italiano, non m’interessa!” Irina guarda di nuovo l’orizzonte strizzando gli occhi al sole, continua a scrivere sul suo quaderno pensando a come meglio esprimere le sue sensazioni di bambina dispersa. Sì, dispersa in un luogo così diverso e così lontano. Sul pullman, oltre Sonia, aveva incontrato Eva. Eva era una bella ragazza di sedicenne che oramai faceva quel viaggio da sette anni. Parlava benissimo italiano e fortunatamente aveva la sua stessa destinazione, un piccolo paese sul mare Jonio. A Potenza Irina si separò da Sonia che fu accolta da due vermigli esseri umani probabilmente un maschio e una femmina, probabilmente marito e moglie, ma che sembravano asessuati e gemelli per quanto erano uguali di mole e di fattezze. Chiuse gli occhi, spaventata e ansiosa, escludendo così il mondo sconosciuto che la circondava, allontanando qualsiasi pensiero sui suoi probabili anfitrioni. Stette così, seduta immobile con gli occhi serrati per tanto tempo. Meditò su tante cose. Pensò alla piccola casa di Kiev dove viveva con la zia e la nonna e Karl. Al soffitto della camera da letto dipinto d’azzurro e di viola; pensò alle crepe delle pareti e anche al pavimento fatto di mattoni grezzi quasi tutti scheggiati e scoloriti. Percepì addirittura l’odore della naftalina che emanava la cassa della nonna, quando la apriva per sbirciare tra vecchi ricordi e perduti affetti; e il sapore del gulasch ungherese che Babuska preparava durante le feste. Si trovò nel parco dell’hotel dove Katia lavorava e dove, a volte, le permetteva di entrare per giocare all’altalena e allo scivolo e, eccezionalmente, per un tuffo nell’acqua limpida e clorurata della piscina. “Non credo che potrai capire, ma cercherò di spiegartelo meglio che posso. Come Eva lo ha spiegato a me. Le persone con cui vivo qui non hanno figli, la casa è così pulita e ordinata che sembra la sala operatoria dell’ospedale di Kiev, quella dove mi hanno tolto le tonsille l’anno scorso, ma almeno quella era calda. Questa casa è fredda, eppure mi ha detto Eva che ci sono 37 gradi all’ombra in questo paese e che se stai sotto il sole troppo a lungo ti puoi ustionare come se toccassi il fuoco. A Kiev fa freddo fuori, ma in casa c’è il tepore che costantemente emana il bricco dell’infuso con le radici della nonna che mi scalda con le sue vecchie storie e le morbide carezze e poi ci sei tu che mi riscaldi con il tuo sorriso. Loro sorridono, sorridono sempre e tanto, ma è un sorriso strano, mi spaventa


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perché è come il sorriso di quel brutto pupazzo a molla che sbuca fuori delle scatole. È finto. Io vorrei sorridere, ma non posso. Loro parlano, parlano sempre e tanto, ma io non li capisco e voglio che smettano, che mi lascino tranquilla, ma non so come spiegarlo. Così ho chiesto ad Eva di tradurlo per me. Eva mi ha detto che sono preoccupati perché parlo pochissimo, non sorrido mai e la notte piango sotto le lenzuola. È vero, tutto vero. Però non piango, te lo giuro. Poi mi ha riferito che volevano comprarmi un regalo, a mio piacere, potevo scegliere. Già mi hanno comprato tante cose e poi le scarpe, sono belle sai. Hanno i lacci argentati e poi i sandali rosa con la faccia di Barbie. Mi hanno comprato anche i vestiti, e il costume per fare il bagno nel mare. Un regalo! Ho pensato di non desiderare niente, solo tornare a casa. Fare il bagno nella piscina dell’albergo, dove tu lavori e salire sul terrazzo del gran magazzino per vedere tutta Kiev e il fiume. L’ho detto ad Eva. Lei ha parlato con loro e loro con lei. A lungo. Le cose qui non vanno esattamente come da noi. Credo. Eva mi ha spiegato che potevo chiedere un vestito oppure una videocassetta, addirittura una bicicletta, un giocattolo qualsiasi, ma non potevo chiedere di tornare a casa. Lei non ha detto la verità, perché saperla li avrebbe morsi…, no come ha detto? Mortificati. Che significa di preciso non lo so, ma credo che abbia a che fare con il dispiacere. Devo stare più attenta. Un giocattolo? Posso avere una Barbie? Una bicicletta? Una bambola parlante? Fossi stata a Kiev non avrei avuto dubbi, avrei preso una bicicletta. Non so cosa scegliere, qui.” Una voce estranea chiama il suo nome, dopo quasi un mese le orecchie d’Irina non hanno familiarizzato con il suono suadente e mieloso emanato dalle corde vocali di quella donna logorroica con cui passava le sue giornate fatte di mattinate al mare, pomeriggi noiosi davanti alla televisione, visite a strambe persone che avevano la pessima abitudine di baciare, abbracciare, sorridere, parlare. Stordirla. Quella donna la sta chiamando, urlando e gesticolando di raggiungerla. Irina sospira e volge lo sguardo altrove, sperando invano di sfuggirle. La donna inesorabile si avvicina sorridente e stucchevole, con i suoi grandi occhi color camomilla, le gambe arcuate e i seni penduli e la afferra per mano costringendola ad alzarsi. Irina come un automa la segue, assente e priva d’interesse per qualsivoglia cosa, oggetto, avvenimento o persona. La trascina verso un gruppetto di persone, tutte con la stessa faccia rotonda e con gli occhi gialli e con il solito sorriso prestampato. Vezzi, baci, carezze, abbracci. Irina chiude gli occhi e per un breve attimo riesce ad estraniarsi da tutto quel trambusto. Si ritrova sospesa nell’aria fluttuante sulle loro teste, ascolta le


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parole, fino allora sconosciute e finalmente capisce i misteri di quella lingua, fatta di gesti più che di vocaboli. Non era così difficile dopotutto, comprenderli. Comprendere cosa si aspettavano da lei, cosa le chiedevano, capire perché era qui. Quella donna a lei sconosciuta sta parlando di lei alle sue amiche usando gesti e toni carichi d’autocompiacimento e mentre lo fa la guarda con un’espressione di fierezza e di possesso. Irina precipita, spaventata, in quel mucchio d’estranei e precipita tra le sue braccia. Le braccia di quella donna la stanno stringendo, stritolando, come un serpente e lei si sente soffocare e allora urla. Urla davvero, un urlo terribile che spaventa tutti. “Ho la febbre, da due giorni. Forse è stato il sole, troppo sole, forse no. Penso di dovertelo chiedere, te lo chiederò, quando tornerò a Kiev. Perché tornerò a Kiev prima o poi. E te lo chiederò. Cosa vuoi farne di me e di Karl. Cosa? Eva mi ha raccontato di Mascha, una bambina di Cernobyl che non è più tornata a casa sua, mi ha raccontato d’altri bambini, quelli che vivono negli istituti, quelli orfani, quelli che hanno gli occhi spenti, bui. Quelli che vengono qua e non tornano più. Te lo chiederò perché è importante per me saperlo. Quel giorno in spiaggia mi sono sentita male, la testa mi girava e ho urlato così forte che mi sono tornate le tonsille. Ho la febbre da quel giorno, ma non è stato il sole. Ho visto tutto e ho capito tutto. Non so se tu lo comprenderai, ma cercherò di spiegartelo come meglio posso, come tu mi hai insegnato. Potevo scegliere un regalo, uno qualsiasi, ma non ho scelto nulla. Eppure mi hanno comprato tante cose. Cose che tu non potrai comprarmi mai. Quel giorno ho avuto paura; paura di non vederti più, di non tornare. Quel giorno ho capito che loro stanno comprando me, si stanno impossessando di me. Vorrei farlo capire anche a te che i vestiti, le scarpe, i giochi non sono regali per me, ma una merce di scambio. Ora so quello che vogliono e perché sono qui. Non per me, non per te, non per la mia salute. No. Io sono qui per loro, per rallegrarli, per divertirli, per soddisfarli. Sono come un giocattolo. Il loro giocattolo. Questo siamo noi bambini dell’est: giocattoli! Quando finalmente tornerò a Kiev io te lo chiederò e poi ti pregherò. Non farmi tornare più, qui.”


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GLI EPIGONI DI RAIMONDO Leggenda, Storia e Fantasia: sorelle e amanti.

L’aria è irrespirabile sia per la rarefazione dell’ossigeno sia per il tanfo. Il cunicolo è illuminato da rare lucciole tremolanti che servono ad incutere solo ansia. Per fortuna si è portata la torcia. Il priore della congregazione ha assicurato loro che il cunicolo è provvisto di luci e che non ci sono pericoli lungo il tragitto. Lo stretto viottolo si snoda lungo un sentiero prestabilito già tante volte percorso e per questo sicuro. Dovrebbe essere lungo circa seimila metri e terminare con una piccola sacca a fondo cieco. Lungo il cammino s’incontrano nicchie e insenature in parte profonde che sembrano, alla tremula luce delle lampadine, popolate da ombre eterne ora disturbate dal loro passaggio. “Una caccia al tesoro nelle segrete dei Celestini! Che balordaggine. Tipiche di Gigi queste iniziative con ambientazione noir”. - Che bella idea questa caccia al tesoro! E io, idiota, che ti vengo dietro. Qui sotto c’è una puzza!- Per me è eccitante! Di cosa hai paura?“Paura? Che cretino. Non si tratta di paura. Di claustrofobia, forse”. - Il punto è perché lo stiamo facendo… che centra la paura!La risata improvvisa e canzonatoria di Gigi le rimbomba alle spalle, macabra e terribile, facendola sussultare. - Hihihi! E’ paura. È paura… -Smettila, scemo. Questo gioco si poteva organizzare all’aperto, in un bosco. E’ insignificante farlo qui- Questo posto è chiuso al pubblico, inaccessibile. Mi sono fatto in quattro per convincere mio zio a farci avere l’autorizzazione… E’ il luogo ideale per la caccia al tesoro. Comunque, a titolo ufficiale, siamo qui per la ricerca di storia che stiamo svolgendo con la classe e con il professore- Sei un incosciente Gigi. Il priore potrebbe accorgersi che stiamo nascondendo i messaggi con gli indizi per una caccia al tesoro- E come? Non scende quaggiù; stai tranquilla… è un cacasotto!Emette una sonora e orrenda risata che echeggia lungamente nel tunnel.


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Sandra si volta a guardare il suo accompagnatore puntandogli la torcia sul viso che, illuminato dal giallognolo fascio di luce, appare color ocra e madido di sudore, quasi deforme e un brivido, come un alito gelido, le passa lungo il corpo. Vede il volto di Gigi trasformarsi, gli occhi svuotarsi, la bocca allargarsi e tutto il viso raggrinzirsi, come i mascheroni che si vedono sui portali delle antiche case gentilizie di Casteldrione. - Che hai? Stai male? Sei tutta sudata…Poi il buio. Le lucciole si sono spente, la torcia ha esaurito le pile. Il buio. Gigi dove sei? Che sta succedendo? Aiutami! L’aroma dell’aceto arriva direttamente al cervello, trasportato dai recettori sensoriali attraverso le sue narici. Piano ricomincia a vedere, ritorna la luce. Così com’era andata via, nebulosamente ritorna… Quando alla fine vede nuovamente, si ritrova nella sagrestia della chiesa di S. Agostino, sprofondata nella poltrona del priore che le siede di fronte con il suo bel faccione rubicondo e sorridente. Prima del black out aveva visto il viso di Gigi trasformarsi in un mostro e ora è lì mutato nuovamente, tornato alla normalità con i suoi bei tratti greci e i profondi occhi verdi che la osservano con biasimo… Forse era meglio il mostro! - Gigi. Che succede?- Sei svenuta figliola, una crisi di panicoLa voce sottile e femminea del priore, in netto contrasto con la mole, la risveglia completamente. - Potevi dirlo che soffrivi di claustrofobia, che problema c’è a dire le cose?“Nessun problema scemo. Solo che non lo sapevo di essere claustrofoba… claustrofobica… o come accidenti si dice! Va bene, la sotto non ci torno. Tornaci da solo e fatti il tuo percorso da solo, brutto maniaco perverso”. Gigi farfuglia qualcosa al priore che si allontana compiacente, poi si avvicina con un’espressione divertita, le poggia una mano sulla fronte e con l’altra le sfila, segretamente, i messaggi per la caccia al tesoro rimasti nella tasca del suo bomber. - Torno giù, finisco di sistemare i messaggi. Stai tranquilla. Ho chiesto al priore di portarti un po’ di “elisir di lunga vita”… ti farà bene. È un ottimo vino prodotto da mio zioDetto fatto. Gigi scompare dietro la massiccia porta di massello di rovere portandosi i biglietti e la torcia più che mai eccitato e convinto, dopo il suo svenimento, di portare a termine la sua bizzarra iniziativa.


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Sandra beve il vinello rosso intenso dal bicchiere che il priore le porge e pensa a Gigi e a come stia prendendo in giro il povero frate e lo zio. E capisce di essergli complice, suo malgrado. - Va meglio? Non è strano che si sia sentita male, signorina. Nel cunicolo c’è poca aria e molta umidità. Lei, evidentemente, soffre di pressione bassa, ma con questo vinello si sentirà meglio, vedrà. - Sto bene, la ringrazio padre. - Non ho potuto dire di no all’avvocato Tascia e ho dovuto fare opera di convincimento con il vescovo e i confratelli per farvi avere il permesso. Si sono convinti solo perché l’avvocato ci ha riferito che è per una documentazione di storia che state svolgendo con il vostro docente, per la pubblicazione di un libro sulle antiche opere architettoniche di Casteldrione. Ah, certo le segrete dei Celestini sono un opera maestosa, nascosta purtroppo agli occhi della gente. È bello vedere voi giovani interessarvene. Sandra è confusa, il vino dal carattere deciso ha viaggiato veloce attraverso il suo intestino vuoto ed è arrivato al sangue, intorpidendolo e rallentando il suo cammino. Qualcuno o qualcosa si è seduto sulla sua testa rendendola pesante e incapace di intendere. Il rubicondo priore sta ancora parlando con lei, sicuramente, perché muove le labbra e la guarda e fa lievi cenni con il capo e sorride, ma lei non riesce più a sentirlo. - Ma figliolo mio, potevi evitare di portare questa ragazza nei cunicoli… E’ svenuta di nuovo, poverina!Il priore è seriamente dispiaciuto mentre Gigi se la ride sotto i baffi sadicamente. - Consideri che lei è la più coraggiosa della classe!- Ma non si tratta di coraggio, la ragazza deve avere qualche problema con i posti chiusi. Su da bravo riaccompagnala a casa e riferisci al tuo professore che le visite alle segrete sono chiuse… definitivamente-. Detto questo il priore serra la pesante porta di massello di rovere che porta ai cunicoli sottostanti e cautamente chiude a chiave con doppia mandata tutte e quattro le serrature. - Non vogliamo responsabilità… Esistono decine e decine di testi in biblioteca che parlano ampiamente e dettagliatamente delle segrete dei Celestini. DocumentateviSandra percepisce i tonfi delle pesanti serrature di ferro battuto e riapre gli occhi. Gigi è in piedi di fronte a lei, ma di profilo girato di novanta gradi verso il priore che depone le grosse chiavi in un cassetto, a sua volta provvisto di serratura, in un armadio a muro. Gigi non si accorge che Sandra ha ripreso i sensi e ora sta osservando come egli, abilmente e


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lestamente, sfila dalla tasca dell’ampia tonaca del priore la piccola chiave yale con cui ha chiuso il cassetto. “Ma che diamine sta facendo ‘sto deficiente. Ci metterà in un bel casino!” - Oh ti sei ripresa figliola. Sarà meglio che adesso tu ritorni a casa e magari consulti un dottore. Non è bene: due svenimenti in dieci minuti-. “Due svenimenti? In dieci minuti! Ma è assurdo, non sono mai svenuta in vita mia. E cos’è quest’odore che mi è rimasto nel naso, no, non è aceto. È diverso… sembra, sì quella sostanza che si usa in laboratorio di chimica per conservare le cose… No, non le cose ma le sostanze organiche, sì la formaldeide! Io qui non ci rimetto piede neanche a pagarmi! Stronzo di Gigi che mi ci ha trascinato… Che mal di testa!” - Non contare su di me per questa stronzata! Sappilo!- Ma che ti è preso, si può sapere… Guarda che tipa! Ma perché non me lo hai detto che sei una scamorza, io pensavo che tu fossi una tosta. Adesso per colpa tua il priore ci ha revocato il permesso…- Sta zitto! Ti ho visto che hai rubato la chiave dalla tasca del priore… Andrà a finire male vedrai. Io non voglio avere niente a che fare con questa storia- Tu pensa a tenere la bocca tappata con gli altri e con il priore… e non fare la stronza “Grazie mille Gigi. Gigi Tascia… del cavolo! Vedo che ti sei preoccupato parecchio per la mia salute, perché dovrei preoccuparmi per te”. - Va a quel paese!“Non m’importa se mi guardi così, con i tuoi occhi verdi trasparenti e profondi, non m’importa un bel niente di te”. - Vai! Vai Sandra; sei fuori!Sa bene cosa significa: sei fuori. Non dal gioco, ma dalla mia vita, questo significa… E’ doloroso dopo tre anni di lacrime veraste sul cuscino, d’inseguimenti e telefonate e sguardi languidi per farsi notare da lui: Gigi Tascia. Gigi Tascia. Gigi Tascia. Cento, mille, un milione di volte: Gigi Tascia! “Perché? Perché loro hanno sempre tutto! Sono belli, perfetti, audaci e incoscienti, l’incoscienza che solo il potere può dare. E ricchi”. Che bel colpo Sandra! Entrare nella compagnia di Gigi Tascia: gli Epigoni; roba da privilegiati. Come hai fatto a farti notare? Dai racconta… Tina è tutta eccitata per lei, la sua amica del cuore. Figurati che guadagno! Una massa di deficienti figli di papà. Gli Epigoni! Che cavolo vorrà dire poi! Anna è la solita invidiosa… o forse solo più obiettiva. Alberto non parla. Lui disapprova in silenzio… è geloso.


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“Come ho fatto? Semplice, ho passato gli ultimi due anni della mia vita a chiedere, indagare, inseguire Gigi, i suoi amici, i suoi parenti. Ho perfino rischiato una querela da una sua vecchia zia per essermi introdotta in casa sua dichiarando di essere un’inviata della Gazzetta di Casteldrione. Quella vecchia befana ha chiamato il direttore… Conoscono tutti e tutti conoscono loro, figurati. Comunque sono riuscita a sapere, da amici di amici di cugini, di procugini di secondo grado di Gigi, che Gigi è un patito dei noir, dei gialli di ogni tipo e soprattutto di quelli a sfondo macabro. Orribile! Io dormo ancora con la luce accesa e mia madre, da buona mamma del popolo-ceto medio-borghese, viene a darmi il bacio della buonanotte. Appartenere al ceto medio a volte ha i suoi vantaggi! Da completa deficiente mi sono finta interessata e appassionata alle sue spedizioni perverse nel reparto horror della biblioteca comunale o della biblioteca scolastica o della libreria in centro. Mi trovava sempre lì. Arrivavo perfino prima di lui. Così mi ha notato. Un pervertito come lui non poteva rimanere indifferente al fascino di una pervertita. Io ero maniaca sì, ma di lui. Ed eccomi qui a fare la fine che merito. Sì perché se questa storia viene fuori, e verrà fuori, quel vermiglio priore si ricorderà molto bene della sciapetta ragazzina che sveniva a cadenza di dieci minuti, mentre dimenticherà completamente, grazie all’elisir di lunga vita dello zio Tascia, chi fosse il suo accompagnatore! Oh no! Penserà che sia stata io a rubare la chiave! Maledizione il giorno che mi sono iscritta al liceo… Potevo iscrivermi alla scuola magistrale, come tutte le brave figliole della classe media di Casteldrione!” - L’afa è insopportabile, basta Gigi. Voglio uscire! Non respiro. Non respiro!Gigi ride sardonicamente e fa paura! Il suo volto è trasformato come i mascheroni dei portali, di nuovo. Giallo e paonazzo e gli occhi non sono più verdi e cristallini. Sono due buchi neri e luccicanti… e ride, ride! - Ahahahah! Stupida pezzente, cosa credevi? Sei scappata e me la pagherai… me la pagherai!- No, Gigi. Smettila di ridere; smettila! Ma chi sei? E quest’odore! Cos’è quest’odore? Lasciami uscire, lasciami uscire!Spalanca gli occhi, presa dal panico. La stanza è in penombra e solo la tenue luce della fedelissima lampada buonanotte la attraversa. L’aria è fresca piena d’ossigeno e del delicato profumo di lavanda nebulizzato dal Glade assorbiodori. La sua stanza. Lentamente il cuore si placa e il respiro torna normale.


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“Che incubo! Non avrei mai creduto che il ragazzo dei miei sogni sarebbe diventato “Freddy” il mostro di “Nightmare”! Ma perché l’odore della formaldeide mi è rimasto addosso… E poi, perché la formaldeide? Nelle segrete dei Celestini! Cunicoli, passaggi chiusi da anni e anni che puzzano di formaldeide? Una puzza strana! Sì strana per dei sotterranei abbandonati che dovrebbero puzzare d’umido, di muffa… non di formaldeide. La formaldeide…” Sandra approfitta del papà di Tina, che è farmacista e gli chiede informazioni sulla formaldeide. “Com’è possibile che si senta l’odore della formaldeide nelle segrete dei Celestini?” Il farmacista è perplesso e confuso. Che ci facevi tu nelle segrete? Chi è stato a farti entrare? Con chi sei andata? “Ma insomma, le domande le devo fare io! Che gliene frega a lei di sapere come, quando e con chi sono stata li. Non posso dirlo. Io voglio solo capire”. Il farmacista tentenna il capo e disapprova, poi preoccupato si arrabbia con Tina ammonendola a non andare mai e poi mai nelle segrete. Sandra è confusa. “Che sarà mai! Le segrete sono chiuse da anni, inutilizzate, che pericolo ci può essere”. - C’è eccome. Siete così giovani e non potete saperlo. Almeno avete mai sentito parlare di don Raimondo, principe di Casteldrione?“Ma chi? Il diabolico stregone che faceva strani esperimenti? Già! E allora?” - Tutti sanno che le segrete dei Celestini, pur essendo d’origini medioevali, come le porte di Casteldrione, sono state scoperte in epoca piuttosto recente. Nei secoli diciassettesimo e diciottesimo erano usate dalle comunità religiose dei Celestini, delle Benedettine e dei Francescani i cui meravigliosi monasteri in stile rococò furono edificati sulle segrete. Erano state tenute celate dai frati e dal clero, probabilmente perché usate come prigioni o come depositi di vivande o tesori, ma è opinione quasi certa che le segrete dei Celestini mettessero in comunicazione le antiche chiese del centro storico e che le fitte viuzze sotterranee conducessero tutta ad una chiesa in particolare: la chiesa della confraternita dei Morti, fatta costruire proprio dal principe Raimondo. È evidente come questa piccola chiesa, unica per le decorazioni barocche e i marmi policromi, occupa il centro di un cerchio formato dalle chiese dei monasteri.


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Era il tempo in cui Raimondo regnava su Casteldrione e sulle zone limitrofe. Qui egli era nato e qui ritornava periodicamente, seguito da fedeli amici tra cui dottori eccellenti, architetti di notevole abilità e famosi scultori. Di lui sono state dette cose tremende, che è stato uno stregone e che avesse fatto patti con il demonio. In realtà era appassionato di scienze e di filosofia e divenne un seguace dei Rosacroce, un movimento esoterico attraverso cui egli raggiunse conoscenze elevatissime di chimica e di scienze, ma per esercitare i suoi esperimenti, la maggior parte ritenuti riti diabolici a quel tempo, dovette crearsi dei laboratori segreti. Non era un pazzo allora? Era uno scienziato! Proprio così, ma troppo avanti con i tempi: forse un genio della chimica e della meccanica-. “Ovviamente incompreso”. - La fitta rete di cunicoli e vie sotterranee spesso erano usate in passato da una classe privilegiata, come passaggi segreti o come rifugio per i signori della cittadina e gli adepti della Massoneria. Sono ben noti molteplici episodi a matrice massonica narrati nei documenti storici di Casteldrione dai tempi più antichi ai più recenti: dalle lotte dei briganti ai moti del risorgimento, alla prima guerra mondiale, alle colonne del fascio, alla seconda guerra mondiale, ai moti del sessantotto, ai sit-in degli anni settanta alle ferrovie, alla processione del santo patrono e di tutti gli altri santi. E potremmo continuare… Raimondo era principe di Casteldrione, ma era anche un massone e soprattutto era un genio della scienza o della fantascienza o meglio ancora della scienza occulta! Raimondo fece ben altro uso delle segrete dei Celestini… forse!Il farmacista fa una pausa, una signora anziana è entrata con una ricetta scritta in “geroglifico”, classica scrittura medica, e per riuscire ad interpretarla il povero papà di Tina ha dovuto fare ricorso a tutto il suo sapere. Alla fine l’anziana donna è uscita trionfante con il suo bel pacchetto di medicine senza scopo di salute ma con molto scopo di lucro! Miracoli della scienza medica e della farmacopea. Poi il farmacista ritorna al suo narrare, come se non lo avesse affatto interrotto. - Dunque. La storia, intesa come narrazione d’eventi cronologici realmente accaduti, si confonde con la leggenda e con la fantasia fervida di chi racconta perché, di fatto, Raimondo viveva a Napoli, nel suo bel palazzo che oggi tutti possono visitare. Casteldrione e i territori dei dintorni erano la sua tenuta di caccia…- No, no, no! Un momento. Ma perché mi racconta queste storie? Nessuno parla del Principe Raimondo… chi se ne frega! Io le ho chiesto informazioni sulla formaldeide-.


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Il farmacista la guarda con disappunto e continua il suo racconto. - Dicono, e badate questa potrebbe essere leggenda o fantasia, che nessuna ragazza volesse andare a servizio nella sua tenuta. Lui prima abusava di loro e poi le usava per i suoi esperimenti… macabri!- Noir!? Già. Esisteva la formaldeide nel millesettecento?- Formaldeide! Certo. È proprio così che conservava i pezzi dei cadaveri!“Bella fantasia. Che Raimondo è stato un pazzo alchimista e che facesse strani esperimenti con cadaveri e sostanze chimiche varie è risaputo, ma è roba di tre secoli fa”. - Ci racconta le leggende dell’orrore per farci paura? Per dissuaderci ad andare in giro di sera da sole? Per quelle storie sui ragazzi scomparsi… Guardi che non serve…- No, ragazza mia. Raimondo amava impressionare il popolo con atti di magia, ma non nera. Si trattava più che altro d’illusionismo. La sua residenza era fuori Casteldrione, fuori dalle mura della cittadina. Eppure egli riusciva ad essere presente, senza che nessuno lo vedesse arrivare, alle funzioni religiose che si tenevano nella chiesetta dei Morti. Come ci riusciva rimaneva un mistero per la popolazione che era incosciente dell’esistenza delle segrete, ed egli usava questi trucchi per incutere timore. In realtà da un famoso scultore e suo carissimo amico, certo Sammartino, fece costruire una complicata e ingegnosa macchina d’altare all’interno della chiesa, da lui stesso progettata, da cui emergeva immerso in una nuvola d’incenso. Un esaltato furioso questo era! Aveva centinaia di seguaci e, qui è il bello, ce li ha ancora. Vi racconto storie o leggende che hanno talmente influito sulla popolazione o meglio su membri di alcune tra le più importanti e potenti famiglie di Casteldrione, che sono considerati tra i seguaci di Sua Altezza. Pazzi fanatici che hanno proseguito a modo loro le idee del principe, travisando la sua passione per la scienza in atti sadici e macabri costituendo una vera e propria setta di privilegiati, gli Epigoni, seminatori di morte…- Come ha detto? Gli Epigoni?- Sì. Gli Epigoni di Raimondo. I suoi seguaci o meglio, come loro si definiscono, i suoi eredi. Pochi eletti, degni di continuare le sue opere. Molti dei suoi servi sono morti per cause oscure o addirittura scomparsi e si narra che lui abbia usato i loro corpi per i suoi esperimenti. Il punto è: sarà davvero andata così? A quell’epoca si moriva davvero per mali oscuri, pensate alla polmonite, oppure alla tubercolosi, o alla brucellosi, mali oscuri appunto, di cui non si sapeva nulla. Era molto probabile che i suoi giovani servi morissero e... basta-.


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- Forse lui, dopo la morte usava i loro corpi per gli esperimenti… e quelli scomparsi?- Chissà, forse. Quelli scomparsi, magari scappavano via e basta. Succedeva spesso a quei tempi e succede ancora oggi, guardate “Chi l’ha visto?”. Insomma, si creò una storia mitologica attorno alla figura di Raimondo, sfortunato e anacronistico genio-. Sandra non è convinta, esitante guarda Tina, che ha ormai rivolto l’attenzione a ben altre occupazioni: lo scaffale dei cosmetici. Disapprova la sua futile amica e ribatte seccata: - Scusi, ma allora perché ha avuto quella reazione? Da come parla lei mi sembra un estimatore di sua Altezza!- Lo sono, infatti. Come vi dicevo… Tina! Io sto parlando anche con te.Tina sbuffa e si siede sullo sgabello dietro al bancone. - In realtà il pericolo è venuto dopo, con i suoi discepoli. Gli Epigoni hanno preso alla lettera il mito facendosi portatori di morte. Molti ragazzi scomparsi nel corso degli anni sono stati ritrovati ammazzati nelle campagne circostanti e questo lo sapete benissimo. Sono stati usati come vittime sacrificali a lui. Quando io ero ragazzo, frequentavo il liceo classico ed ero al secondo ginnasio, mi pare. Beh, scomparvero due ragazze del magistrale e due ragazzi dell’industriale. Scuole ritenute di livello inferiore e pertanto frequentate da inferiori. Quei poveretti sono stati ritrovati alcune settimane più tardi, morti per fame e per le torture che gli erano state inflitte! Lo stesso è successo qualche anno dopo, esattamente due anni più tardi. Mio nonno mi raccontava che ogni due anni, nel mese di febbraio, sparivano alcuni ragazzi, generalmente un maschio e una femmina e i più poveracci, figli di braccianti oppure di servi di famiglie autorevoli e potenti. I loro corpi erano ritrovati deturpati e mutilati nelle campagne e nei boschi vicini. Un anno ritrovarono due cadaveri, ormai scheletri, ammassi d’ossa in un pozzo ricolmo di sassi. Il pozzo era secco da anni e nessuno si era mai preso la briga di andarci a guardare. Poi l’appezzamento fu venduto e il nuovo proprietario fece rimuovere il pozzo. Quei due poveretti chissà chi erano… fra tutti quelli scomparsi e mai più ritrovati. A quell’epoca non c’era ancora il test del DNA o la scientifica-. - Ma ora sì. Ora è tutto più facile per la polizia, e più difficile per i matti pervertiti… Secondo lei anche quei ragazzi scomparsi due anni fa anche quelli possono essere vittime degli Epigoni?- Temo proprio di sì. Hanno ritrovato i loro corpi deturpati ed evidentemente seviziati. Ragazze mie, temo proprio di sì. Spero che riescono a catturare gli esecutori di tale scempio, magari per sempre!-


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- Non hanno arrestato mai nessuno però, nemmeno un sospettato o un indagato, niente!- Gia! Credi che sia facile? Hai idea di chi sono gli Epigoni? Potere, danaro, consorteria e terrore. Meglio stare alla larga da loro e rimanere rintanati nel nostro piccolo mondo medio borghese-. Sandra deglutisce saliva, sente di stare per svenire, di nuovo, poi sente un rumore strano, simile ad uno scalpitio di zoccoli, come un cavallo che corre impazzito. Si guarda alle spalle e si accorge che il rumore non è fuori, ma è dentro di lei, nel suo petto e nella sua testa. - Mi scusi, lei crede che gli Epigoni esistano ancora?Fermo e deciso, il farmacista la guarda negli occhi e poi afferma con certezza. - Sì, ancora e sempre finché ci sarà un erede dei Tascia, ci sarà un Epigono di Raimondo!Entrambe, Sandra e Tina, per un brevissimo istante cadono in uno stato di apnea. Sandra sente il flusso sanguigno che le scalcia alla tempia così veloce da udirne il rumore, e i polmoni collassarsi. È in acque profonde, scure e torbide. Affetta da apnea, da afasia e da abasia, tutti termini che ha appena studiato alla lettera “a” del suo vocabolario. Potrebbe anche scomparire, affetta da abiotismo, mentre Tina mormora impercettibile il nome. Quel nome: - Gigi Tascia!

Postfazione A PROPOSITO DI RAIMONDO Devo fare una piccola postilla al racconto per chiarezza. È un racconto di fantasia, la mia ovviamente, ma che ha radici in eventi storici reali. Casteldrione è l’antico nome di San Severo (FG), mia natale città in cui è possibile visitare le bellissime chiese che menziono, tranne le segrete, di cui tutti parlano e che in realtà nessuno sa se esistono veramente. Raimondo è Raimondo di Sangro che tra i molteplici titoli fu Principe di San Severo, grande di Spagna, duca di Torremaggiore dove nacque nel 1710. Suddito e amico dei Borboni, fu gran maestro dell’ordine dei cavalieri di S. Gennaro. Adepto del movimento dei Rosacroce e della Massoneria lasciò strabilianti monumenti come il palazzo del principe di San Severo e la cappella di San Severo a Napoli con le straordinarie statue


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velate e le macchine anatomiche del famoso scultore Sammartino. Amante dell’arte oltre che della scienza, sceglieva personalmente i ragazzi da castrare per farli diventare eccellenti voci bianche, “comprandoli” dalle famiglie indigenti e chiudendoli in monasteri. Così ce lo descrive Antonio Genovesi nella sua «Biografia» : «E' di corta statura, di gran capo, di bello e giovanile aspetto; filosofo di spirito, molto dedito alle meccaniche; di amabilissimo e dolcissimo costume: studioso e ritirato; amante le conversazioni d'uomini di lettere. Se egli non avesse il difetto di avere troppa fantasia, per cui è portato a vedere cose poco verosimili, potrebbe passare per uno de' perfetti filosofi». Credo, amo credere, che la sua eredità consista più nella passione per l’arte, per la scienza e per la letteratura, come dimostrano i grandi ed eccelsi artisti a cui San Severo ha dato i natali nel corso dei secoli, piuttosto che nella passione per l’occulto e per il macabro, ma non si può mai dire… Di lui l’impronta sulle città daune e sulle campagne circostanti è rimasta!


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L’ORRORE DELLA REALTÀ Giallo canarino!

E’ stupefacente come la realtà superi notevolmente l’immaginazione, anche la più contorta e macabra come la mia. Io vivo in un piccolissimo paese di provincia nel sud, in una palazzina composta di due piani e sei appartamenti, di cui tre disabitati. Esiste in questa palazzina, ai piedi della rampa che discende nei box seminterrati, una fossa di scarico delle acque reflue piuttosto profonda, coperta da una grata. Il mio appartamento si affaccia sulla rampa e la fossa si trova proprio sotto la mia camera da letto. Era dalla fine d’agosto che avevo iniziato ad avvertire cattivo odore probabilmente, pensavo, proveniente da un terreno incolto lì vicino o dai resti di qualche animale morto. Feci presente la cosa all’amministratore che provvide a fare ripulire il terreno. L’odore sgradevole però divenne ancora più insopportabile, certe giornate addirittura nauseante. Stranamente mi ricordava quella stomachevole puzza della sala autoptica nel reparto di medicina legale. C’ero stata una sola volta, avevo assistito ad un’autopsia di un tizio morto in uno strano incidente. Ero a quei tempi in un centro di ricerca e stavamo allestendo un programma multimediale per l’istituto di medicina legale, era necessario riprendere con una telecamera l’autopsia per poi riportare le immagini migliori nel programma e perciò io ero lì, insieme con altri due colleghi, sbiancati, nauseati, più morti del morto. Ora la puzza che aleggiava da un paio di mesi in casa mia mi dava la stessa nausea. Chiamai l’amministratore e gli propinai l’idea che forse la carcassa di animale morto c’era se non nel terreno nella fossa delle acque reflue; in effetti la grata era a maglie abbastanza larghe da farci passare un gatto o un piccolo cane o un qualsiasi altro animale che poi ci ha rimesso la pelle.


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L’amministratore della mia palazzina mi è antipatico ed io a lui, per questo non si preoccupò più di tanto e decise di mandare un operaio a pulire la grata soltanto dopo un bel po’ di tempo: cinque settimane per l’esattezza. Era la prima settimana di dicembre. Quella mattina ero andata al lavoro, come tutte le mattine, e tornai a casa alle quattordici e trenta, come tutti i giorni. Alla svolta della curva che portava alla mia palazzina dovetti frenare bruscamente per evitare di tamponare, m’innervosii moltissimo e scesi velocemente dall’auto e solo allora mi resi conto della folla che c’era nel cortile, sulla strada, sui balconi delle palazzine vicine. Che cosa stava succedendo nel mio palazzo? Raggiunsi a piedi il cortile e la signora Morelli, che abita il secondo piano, mi venne incontro seguita dal marito e dalla signora Grimaldi. - Lo sa – mi disse tutta eccitata – che hanno trovato un cadavere nella fossa?Io sbarrai gli occhi, pensai certo che lo so l’odore era inconfondibile, solo perché tutta quella folla? Questa volta fu lei a sbarrare gli occhi ma non aprì bocca perché ci raggiunse l’amministratore con il commissario della polizia. - Buongiorno signora, aveva ragione lei, si trattava proprio di un cadavere in decomposizione…- Già – lo interruppe il commissario – solo che non è un animale, ma un essere umano!Mi puntò negli occhi i suoi occhi grigi, indagava: centra qualcosa costei con il morto? Pensai: che imbecille! - Come può starci un corpo umano in quella fossa? E come c’è arrivato?- Semplice, la grata è facilmente rimovibile e la fossa può contenere un corpo umano se… - si avvicinò di un passo e intensificò il suo sguardo plumbeo nel mio - … se fatto a pezzi!La Morelli si sconvolse a tal punto che si sentì male e io, mi rendo conto adesso, fui molto cinica perché mi soffermai solo a pensare che, effettivamente, il corpo di un uomo se fatto a pezzi occupa meno spazio di un corpo intero e non mi preoccupai minimamente di palesare, perlomeno, un senso di turbamento. Il commissario mi fissava ancora più insistentemente, io sostenni sempre il suo sguardo e infine dissi: - Se pensa che io sappia qualcosa si sbaglia di grosso. Io so soltanto che da parecchi mesi la mia abitazione che è lì al primo piano – e indicai la mia


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finestra – è appestata e di ciò avevo messo al corrente l’amministratore e gli altri condomini.- Sono certo che non sa niente, ma… Lei non è di qui, vero?Lo guardai di nuovo negli occhi pensando è un bell’uomo e osservai la sua mano sinistra, non portava la fede, ma era sicuramente sposato, il segno al dito era inconfondibile, lo fissai ancora e gli sorrisi ripensando, è un imbecille. - No, non sono autoctona, commissario; ma anche lei non lo è, il suo accento è … leccese?Mi sorrise tentennando il capo e io n’approfittai per entrare nelle sue grazie, non per i suoi begli occhi grigi, ma piuttosto per soddisfare la mia curiosità. - M’interessa questa faccenda, sa. Sotto casa mia, dopo essermi tenuta la puzza per tanti mesi, mi piacerebbe saperne di più. Lui asserì con la testa e spiegò a me e agli altri che avrebbe dovuto interrogarci tutti perché così era la procedura, poi in disparte mi disse. - Sarei ben lieto di ascoltare le sue idee in proposito, per ora le assicuro che il medico legale mi farà avere il suo rapporto al più presto, se vuole glielo farò visionare. Può venire quando vuole in centrale, arrivederci-. Ero davvero eccitata per l’avvenimento. Io sono una non violenta, odio la violenza, il dolore, le sofferenze fisiche, ma fondamentalmente sono una sadica, lo so. La mia vita è tutta una contraddizione intrinseca, sono e faccio quello che non vorrei essere e non vorrei fare, e questo deve bastare a spiegare perché m’interessai alla faccenda; volevo evitarlo, ma non ci riuscii. Il commissario non era un imbecille come pensavo, ovvio, io sbaglio sempre nelle valutazioni, sono un tipo impulsivo e non me ne faccio una colpa anche se a volte dovrei, come in questo caso: un uomo, ufficiale di parola, simpatico e solo, proprio come me, in questo paese estraneo. Andai in caserma qualche giorno dopo e lui mi accolse molto cordialmente, mi fece accomodare in una poltrona, mi fece portare un caffé e mi mise in mano il rapporto del medico legale. Lessi attentamente e avidamente, pensai, Gesù che schifo! Ma continuai a leggere. In breve: il cadavere era di una donna morta da circa cinque mesi, feci mentalmente e rapidamente il conto, in agosto; di età compresa tra i venti e i venticinque anni, alta circa un metro e sessantacinque centimetri, sicuramente bionda naturale, pensai, sicuramente carina. Era stata fatta a pezzi forse con un accetta: la testa, le braccia, le gambe, il tronco spaccato in due, c’era tutto il suo corpo; la causa della morte? Alzai gli occhi verso il commissario interrogandolo


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- La causa della morte?Lui fece un giro attorno alla scrivania dove finalmente si sedette. - Non è morta avvelenata, né per un colpo di arma da fuoco, probabilmente è morta così, mentre la facevano a pezzi-. Sentii tutto il dolore fisico e per la prima volta rabbrividii all’idea di quella morte orribile, esistono al di fuori della nostra immaginazione eventi simili? - Mi dica Silvia... posso chiamarla per nome?Lo guardai perplessa, poi feci cenno di assenso con la testa, lui continuò. - Mi dica, lei legge la cronaca nera, vede i telegiornali? Perché si stupisce di questa morte?- Una morte simile in questo paesino… e poi io sono sempre stata convinta che la coscienza che l’uomo ha del dolore fisico dovrebbe bloccare i suoi istinti violenti, anche se poi con l’immaginazione possiamo commettere i delitti più orrendi. Vede non è la morte che mi stupisce, ma il modo in cui è stata provocata; quello che mi chiedo è perché uccidere in questo modo, perché non usare un sistema più semplice, più “pulito” ecco. E’ follia pura e rabbia. E soprattutto… perché gettare i resti nella fossa del mio palazzo?- Questa è un ottima domanda. Precisamente è la prima domanda cui dovremmo trovare una risposta, non crede?A quel punto mi chiesi, l’assassino o gli assassini erano tra i miei coinquilini? Li ripassai mentalmente, i loro volti, il loro modus vivendi e vidi la Morelli, timorata di Dio, dolce signora con due figli sani e rosei, sempre in movimento e sempre disponibile, no. Scossi la testa e pensai a suo marito, chiacchierone, troppo per essere un assassino, no. Scossi la testa anche per lui. Il commissario stava seguendo i miei processi mentali in silenzio, lo guardai e gli chiesi così, d’impulso, senza averci pensato - Chi è la vittima?Lui sorrise. - Mi chiedevo come mai non mi avesse fatto ancora questa domanda. Non si sa. Niente vestiti, niente documenti, niente oggetti personali. Nessuna denuncia di persona scomparsa nella provincia; estenderemo le ricerche, ma potrebbe essere di fuori, sa d’estate il paese triplica la popolazione. Sono fiducioso, scopriremo chi è-. Mi commosse la sua fiducia, ma diedi un'altra occhiata al rapporto e tornai con la mente ai miei coinquilini: i Grimaldi erano giovani sposi in attesa di un bimbo, in ogni caso immotivati, pensai, mi potrei sbagliare, mi sbaglio sempre.


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L’altro coinquilino ero io: avrei potuto commettere mai un simile scempio? Non dubitai nemmeno un secondo, mai! - Credo commissario che senza un indizio la sua fiducia non servirà a molto, possibile che non avete trovato niente in quella fossa, magari se date un'altra occhiata, più dettagliata, scoprirete qualcosa-. Dissi questa cosa pensando ad un telefilm della serie televisiva “la signora in giallo” in cui un purosangue era stato camuffato in un altro purosangue semplicemente usando della vernice nera per coprire le macchie naturalmente chiare, pensai, a volte non vediamo le cose semplicemente perché siamo distratti. Ecco stavo facendo confusione. La verità è che io avevo visto quel telefilm un paio di giorni prima e anche distrattamente tant’è che mi ricordavo solo il particolare della vernice. Mi voltai verso il commissario e mi accorsi che mi stava scrutando accigliato e dubbioso. - Crede che potremmo trovare qualcosa in quella fossa? Cosa, per esempio?Non capivo, stava giocando con me. Improvvisamente compresi che lui sospettava di me, di ciò che sapevo. La scoperta mi spaventò, come sempre la mia impulsività mi stava mettendo nei guai; cavolo, pensai, ma non potevo starmene in casa a bere una tazza di nescafé davanti al televisore e guardare quelle stupide trasmissioni che mandano in onda nel primo pomeriggio! Guardai l’orologio, era davvero tardi. - Non saprei – gli risposi – devo proprio andare; molto interessante ed istruttivo il suo rapporto-. Lasciai il rapporto sulla scrivania e mi avviai alla porta, lui mi venne dietro. - Le darò retta Silvia, farò ispezionare di nuovo la fossa, arrivederci-. Per tutta la notte maledissi la mia boccaccia e la signora in giallo. Dormii malissimo e il mattino dopo mi resi conto che, se avessero trovato qualcosa in quella stramaledetta fossa, il commissario avrebbe certamente sospettato che io potessi saperne molto di più. Ero quasi disperata, faccio sempre così, mi dispero facilmente, ma con la stessa facilità mi consolo, per fortuna. Uscii da casa alla mia solita ora, per andare a lavorare; in cortile trovai il commissario con due poliziotti. - Siamo venuti ad ispezionare la fossa. Lei se ne va?-


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-Beh, di solito vado a lavorare a quest’ ora - risposi bruscamente mentre mi avvicinavo alla mia auto, disturbata dal suo sguardo insistente, mi voltai a guardarlo. - Se dovessimo trovare qualcosa glielo farò sapere, non dubiti-. Gli avrei voluto dire che la cosa non m’interessava per niente, ma entrai in auto e me ne andai. In ufficio, seduta alla mia scrivania, fremevo dalla voglia di sapere. Pensai, troveranno qualcosa, lo sento; succede che gli assassini lascino una traccia, involontariamente. Non so spiegare perché ero certa che avrebbero trovato qualcosa, ma sapevo che l’avrebbero trovata. Così, quando squillò il telefono, non ebbi il minimo dubbio: era il commissario. - Silvia, lo sa cosa abbiamo trovato nella fossa, sotto uno spesso strato di melma?- No, commissario, dovrei saperlo secondo lei? – chiesi con tono rassegnato. Silenzio per qualche secondo poi, sinceramente mi rispose. - Le confesso che ho sospettato che avesse visto qualcosa-. - Davvero? Sa lo avevo capito, mi dice allora perché avrei dovuto tacere? Non crederà che io sia coinvolta e, sinceramente, non voglio esserlo. Sono solo molto curiosa e questo è tutto, ma non so assolutamente niente e lei non è obbligato a dirmi che cosa avete trovato, se non vuole-. - Andiamo, lei muore dalla voglia di saperlo e stia tranquilla so perfettamente che non è coinvolta – s’interruppe e sentii che stava parlando con qualcuno, poi riprese – abbiamo trovato un anello, eccolo qui, me lo hanno appena portato in una bella bustina di plastica. È un anello di oro, con una pietra e probabilmente apparteneva alla vittima, a meno che qualcuno del palazzo non lo abbia perso accidentalmente-. Mentre rientravo sperai di non trovarmelo sotto casa, avevo solo voglia di dormire. Parcheggiai, il cortile era vuoto, entrai nell’androne e sentii voci e voci, indistinguibili, provenire dal tunnel sottostante. Sono ancora qui, pensai. Stetti ferma per qualche secondo, ero tentata di raggiungerli, poi salii la rampa e me n’entrai in casa. Era meglio non immischiarsi, si, meglio; ma non ero più io a decidere, la faccenda mi era sfuggita di mano ed ecco il trillo del campanello. Ero terribilmente scocciata, ma aprii. Il commissario mi sorrise. - Ho visto la sua auto…-


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Già, pensai, l’auto. Lo feci entrare, si sedette e tirò fuori da una tasca una bustina di plastica trasparente, me la porse scrutando attentamente le mie reazioni. - Ecco qui l’anello, non è di gran valore ma la pietra è un brillantino autentico. Lo può toccare, abbiamo già controllato, c’erano solo impronte confuse ma della vittima-. - In che cosa si è laureato? Psicologia?Lui si accigliò perplesso, poi con calma mi rispose. - Lo sa che noi criminologi dobbiamo necessariamente essere anche ottimi osservatori e conoscitori della psiche, facciamo dei corsi per essere sempre aggiornati, non dia peso al mio modo di fare è deformazione professionale.Sorrisi rilassandomi, tirai fuori dalla bustina l’anello e lo guardai attentamente, all’interno c’era un incisione quasi illeggibile: “Anna per sempre”. Mi accigliai, uno dei miei tanti problemi è la memoria, ci combatto da una vita, ma niente, dimentico tutto, specialmente avvenimenti recenti, sono troppo distratta, troppo svampita, non so, il fatto è che quell’anello io lo avevo già visto, ma dove? Quando? Non ricordavo, pensai, è molto comune, niente di speciale, chissà quanti anelli simili ho visto in giro. Ad ogni modo meglio tacere i miei dubbi al commissario, sospettoso com’era mi avrebbe ammanettata seduta stante. Lo infilai meccanicamente al mio anulare sinistro, notevolmente enorme. - La ragazza doveva essere cicciottella – mi disse il commissario – a giudicare dal diametro dell’anello-. Non mi convinceva. - Sa – gli dissi sedendomi sulla mia poltrona preferita, verde e viola - io credo che l’anello non sia della vittima-. Alzai repentinamente lo sguardo su di lui preoccupata. - Non pensi che io sia a conoscenza di qualcosa, altrimenti non le dico altro-. - No, no, la prego, continui. Mi dica cosa ne pensa-. - Vede, è l’incisione. E’ strana, “Anna per sempre”, che senso ha? Quello che voglio dire è che se l’anello è della vittima, si deduce che il suo nome sia Anna. Qualcuno le ha regalato questo anello, ma perché sull’anello non è inciso il nome dell’altro, come si fa di consueto?-. Il commissario mi stava ascoltando con molto interesse. - Ha ragione e quindi?- Forse la vittima non era grassa, forse l’anello è di qualcun altro, un uomo per esempio – presi l’anello e lo porsi al commissario – se lo provi-.


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Lui lo infilò al suo anulare, vuoto e segnato da un altro anello, quello nuziale. - Un po’ strettino, ma effettivamente potrebbe entrare al dito di un uomo con una mano più affusolata della mia – commentò. Io tentennai la testa - Questo spiegherebbe anche l’incisione, il nome dell’innamorata sull’anello-. Il commissario si lisciò il mento pensieroso e rigirò l’anello tra le dita. - Si, potrebbe avere ragione, ma non pare anche a lei che questo sia un anello da donna?Effettivamente l’anello era da donna e questa frase bastò a inculcare nella mia testa un ragionevole dubbio tanto da mandare a monte la mia teoria. Stavo già facendo confusione tra le cose che avevo detto immediatamente prima e altre che mi affioravano nuove, alla mente. Poi ricordai: avevo sonno e dovevo assolutamente dormire. - Mi scusi commissario, ma adesso avrei da fare. Non vorrei sembrarle scortese ma…- Vado. La ringrazio per la collaborazione e… la terrò informata-. Chiusi la porta e piombai nell’oblio. Mi accorsi che stava arrivando Natale solo quando mi arrivò un biglietto di auguri da una amica lontana e mi prese il panico. Natale significava impazzire, come ogni anno, per trovare il regalo giusto per mio padre e scoprire, ancora una volta, di avere sbagliato; significava tornare in famiglia, come ogni anno, tra parenti felici e contenti e scoprirsi, ancora una volta, pungenti e velenosi l’uno con l’altro; significava, per me, la noia. Ma questo succede in tutte le buone famiglie borghesi e ciò mi consola. Quel Natale avrei avuto un problema in più: un cadavere nella mia vita. Il commissario mi lesse l’elenco delle persone scomparse, era sconsolato. Pensai, che fine ha fatto tutta la sua fiducia? La donna non era del luogo, non era dei luoghi limitrofi e, si era scoperto quella mattina, non era nemmeno dei luoghi lontani. Nessuno aveva reclamato il corpo, nessuno aveva denunciato la scomparsa. Quel cadavere non apparteneva ad alcuno; quel cadavere era nessuno. Pensai, ma il suo nome era Anna? Si, mi dissi, l’anello era la prova. - Delitto perfetto! – esclamai. - No! – il commissario era furioso – non sopporto l’idea di archiviare il caso-.


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Archiviare il caso? Una donna fatta a spezzatino e loro volevano archiviare il caso? A solo due settimane dalla scoperta del cadavere? Impossibile! Mi alzai e feci per andarmene. - Non c’è nessun indizio, Silvia, e l’anello non ci ha portato a niente. Non c’è nessuno scomparso che si chiami Anna e per il resto non si può fare altro. Sono arrabbiato quanto lei, più di lei-. Io non ero arrabbiata ero disgustata. C’era un pazzo assassino in giro che si divertiva a fare a pezzi la gente, il giornale locale aveva riportato la notizia per soli tre giorni: “Cadavere ritrovato in una fossa di scarico di acque reflue in un condominio di P., eccetera”; la televisione aveva dato la stessa notizia durante il telegiornale regionale e tutto era finito lì. Mi chiedevo in quanti l’avessero sentita e in quanti la ricordassero a distanza di due settimane appena. Mi chiedevo, e io? Io una notizia del genere udita al telegiornale l’avrei dimenticata seduta stante e non mi sarei posta tutte queste domande. Pensai alla Morelli, era svenuta il giorno della scoperta, poverina, ma adesso continuava a vivere tranquilla con i suoi figli e suo marito, non ci pensava più. Tutto finito dopo il breve interrogatorio per procedura cui furono sottoposti. Tutto, dopo i primi giorni, era tornato alla normalità. - Arrivederci commissario è stato interessante collaborare con lei-. - Se ci dovessero essere nuove svolte la informerò, il caso sarà archiviato, ma non abbandonato-. Tornata a casa mi costrinsi a pensare alle prossime feste e a concentrarmi sui preparativi per la partenza; il giorno seguente sarebbe stato l’ultimo giorno di lavoro prima delle festività. Volevo partire subito, tornare al più presto in seno alla famiglia, togliermi di dosso quel senso di solitudine e di impotenza e… la puzza del cadavere. In seno alla famiglia siamo tutti più forti, coraggiosi e invulnerabili. Già pregustavo questa sensazione di serenità e, pur sapendo che sarebbe durata poco, fremevo dall’impazienza di trovarmi fra le mura domestiche, mischiata ai miei consanguinei. Fu facile accantonare il ricordo dell’omicidio sotto strati di dolci natalizi, scatole di regali, zamponi, lenticchie e bollicine. Trascorsi le feste più o meno tranquillamente tra risate, cibo e punzecchiate varie e quando sentivo in me la voglia di scappare ripensavo allo stato d'animo che mi aveva portato lì tanto velocemente e mi tranquillizzavo. Il vero è che tutto dipende da noi, da come viviamo la vita e i suoi avvenimenti e quel Natale io lo vissi meglio di tutti gli altri, precedenti e futuri.


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Del fatto avvenuto in dicembre non se ne parlava più in paese. Appurato che la morta non era del luogo e così pure l’assassino, perché un essere così crudele non può essere uno di noi, il tutto venne dimenticato. Persino il commissario si rassegnò, aveva ricevuto ordini dall’alto, aveva altre faccende da curare: il caso era archiviato. La notizia me la diede lui stesso, in gennaio. - Ovviamente, se ci dovessero essere delle novità lo riapriamo subito-. Il commissario non era felice di chiudere il caso senza averlo risolto e ancora sperava che qualcuno si presentasse a reclamare il cadavere. - Che ne avete fatto del corpo? – chiesi. - Lo terranno ancora per un po’ in una cella frigo dell’obitorio del policlinico e poi lo sotterreranno. Io spero che qualcuno si faccia avanti a identificarlo-. - Non ci sono state le risposte che voleva, ma c’è l’ha messa tutta. Non è colpa sua se è finita così-. - Già, ma io non la penso come i paesani-. Lo guardai sbarrando gli occhi. - Crede che l’assassino sia di qui? Che stia qui da qualche parte, in mezzo a noi?Lui tentennò la testa pensieroso, poi emise un sospiro rassegnato. - Non so cosa credere. La prima domanda che ci ponemmo allora fu: perché in quella fossa, perché lì e non in un'altra? Ce ne sono in ogni palazzo; perché non nel canale, perché non nel mare? Insomma c’era un infinità di posti dove lasciare i resti di quella poveraccia-. Si interruppe e io lo guardai accigliata, dove voleva arrivare? Non riuscivo a seguire i suoi processi mentali. - Allora? – chiesi. - Allora o l’assassino è del luogo e ha premeditato il tutto e ha scelto quella fossa, per esempio perché più capiente o perché più lontana dalla sua abitazione, oppure l’assassino non è del luogo e la scelta è stata casuale, per esempio perché era più vicina al luogo del delitto o comunque perché era il primo posto che gli è capitato di trovare-. - Si – lo interruppi – ma se l’omicidio non fu premeditato, l’assassino, pur essendo del luogo, può avere fatto una scelta casuale perché preso dal panico, non crede?Lui borbottò e asserì col capo. - Purtroppo è così, per questo non escludo, come fanno i miei colleghi per campanilismo, che l’assassino potrebbe essere molto vicino a noi-. La discussione fu lasciata in sospeso, avremmo potuto parlarne all’infinito e non concluderla mai.


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La conclusione era lasciata ormai al caso, al destino, non dipendeva più da noi, dalla nostra volontà. Lasciammo che la faccenda andasse per suo conto, affondasse nell’oblio. Così tutto tornò alla normalità, il commissario con i suoi poliziotti riprese ad occuparsi delle normali beghe di paese, i Grimaldi divennero felicissimi genitori, sprizzagioia da tutti i pori, di una, a sentir loro, bellissima bambina; i Morelli continuarono ad occuparsi, bonariamente, degli affari di tutto il vicinato. L’intero paese dimenticò il terribile evento che aveva preceduto le festività natalizie ormai trascorse e anch’io tornai alle mie consuete faccende: letture, passeggiate, chiacchierate e cene con gli amici e noia. Ero tutta presa da un avventuroso romanzo di Wilbur Smith, avevo da un po’ cambiato genere, basta con i gialli, credendo che i romanzi di avventura fossero meno impegnativi. Beh, sbagliavo. Questo era così tramato che ti ci perdevi e per uscirne fuori non poteva bastare lo squillo del telefono, che non sentii subito perché si confuse con il barrito e lo scalpitio degli elefanti, messi in fuga da battitori di caccia, in uno scenario rosso fuoco tipico dei tramonti africani. Il telefono continuò a squillare fino a quando mi resi conto di non trovarmi in Africa e, scocciatissima, mi alzai per rispondere. Chiunque fosse stato all’altro capo lo avrei mandato al diavolo, ma la dolcissima voce di Arianna, una mia carissima amica, bloccò la mia ira. - Ciao, carissima! E’ tanto che non ci sentiamo. Come stai?Arianna vive in un paese più a sud del mio insieme al suo bel marito Andrea. Andrea! Tutte noi ne eravamo innamorate, ma lui scelse Arianna, non a caso, s’intende. Andrea era pazzo di lei e lei di lui. Fu un matrimonio bellissimo come quelli della pubblicità, indimenticabile. Arianna è così… soave, la ammiro, ammiro la sua calma, la sua dolcezza. Era inevitabile che Andrea si innamorasse di lei e non di me; io sono il cataclisma in persona, Arianna è la tranquillità. Ci compensavamo. - Arianna, ciao. Io sto bene, e tu? E Andrea?- benissimo, lo sai Andrea è come una roccia, non si ammala mai, beato lui. Io ho avuto l’influenza, ma ora sto meglio. Hai impegni per questo fine settimana?- No, non credo. Una mia collega mi aveva invitato a cena, ma se mi proponi qualcosa di più allettante sai che mollo subito-. Lei rise divertita.


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- Sempre la solita, e la parola? Comunque molla tutto e vieni qui, è tanto che non ci vediamo e ho voglia di stare un po’ in tua compagnia; inoltre domenica andiamo su, in montagna a sciare-. - C’è ancora la neve?Eravamo in marzo, e effettivamente, il clima era molto rigido, ma la montagna di cui parlava Arianna non era certo il Cervino, per questo mi meravigliai. - Che importa se c’è la neve. Se ci sarà scieremo, altrimenti ci siamo fatte una bella passeggiata. Dai prepara la borsa e parti immediatamente così non viaggi col buio-. Sempre premurosa la mia Arianna. Ovviamente non ci fu imbarazzo nella scelta tra la cena con la mia collega ed Arianna. Lei ed Andrea erano venuti a trovarmi un paio di volte mentre io non ero mai stata da loro. L’invito cadeva a fagiolo, la notte ancora mi svegliavo pensando alla fossa sotto il mio balcone. Partii dopo circa un’ora. Arianna mi accolse a braccia aperte e mi guidò tra le stanze del suo palazzo. Era la prima volta che ci entravo e non ancora sapevo che sarebbe stata anche l’ultima. Pensai, come si può vivere in una casa simile? Arianna mi raccontò che avevano speso un capitale per ristrutturare quel palazzo, che avrebbero potuto comprare un appartamento super moderno e super accessoriato di trecento metri quadri al centro di Roma, con quei soldi, ma Andrea voleva vivere lì, nel palazzo di famiglia: una antica prestigiosa famiglia nobile del Sud. Era un palazzo enorme, troppo e loro avevano ristrutturato solo un ala, per il momento. L’ala era costituita da cucina, lavanderia, ripostigli vari e autorimesse a piano terra; di sala da pranzo, salotti, saloni, salette che non so a cosa servissero di preciso, studio, biblioteca al primo piano; sei camere da letto più altre stanze al secondo piano, oltre ovviamente a tutta una serie di bagni e gabinetti che non contai. - Cavolo! Ari è una follia vivere qui dentro, sembra di essere in mezzo all’oceano-. - Oceano? Fai certi paragoni. In che senso?- Beh! Qui ti perdi, ti disperdi. Io annegherei in mezzo a questo deserto-. - Piantala Silvia – rise molto divertita – io mi ci trovo bene, basta abituarsi- Ma Andrea ha intenzione di allargare un po’ l’ambiente? Vuole ristrutturare qualche altra ala del castello?- No, spero proprio di no-.


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Entrammo in uno dei salotti al primo piano e ci sedemmo su un divano del diciannovesimo secolo, a detta di Arianna. Ebbi il timore che crollasse sotto il mio peso, tutto lì dentro sembrava fragilissimo: i divani antichi, gli arazzi antichi, le credenze antiche, gli argenti antichi, i cristalli antichi! - Non esiste una stanza più moderna?- Perché, non ti piacciono gli oggetti antichi?- No, non mi piacciono, lo sai che adoro la tecnologia moderna, il televisore, il telecomando, la poltrona telecomandata, lo stereo, il climatizzatore. Questa roba qui dentro dov’è?- C’è, in un altro salotto. Vuoi che ci spostiamo?Mi alzai immediatamente dal divano antico e mi diressi alla porta, alta almeno tre metri e larga due, senza rispondere. Arianna mi venne dietro ridendo. L’altra stanza era decisamente più accogliente, c’era un divano più comodo e soprattutto più solido del primo, almeno così sembrava, un televisore enorme, una credenza meno orribile delle precedenti, niente arazzi alle pareti solo quadri, orribili, ma di valore. Arianna sollevò il ricevitore di un telefono interno e chiamò con la sua dolce voce, la cameriera. - Ovvio – dissi – devi avere per forza una cameriera, altrimenti come faresti con una casa simile-. - Si, questo è il lato migliore della cosa. Ho una cameriera, una cuoca, una donna delle pulizie e abbiamo anche il guardiano, sai con tutti gli oggetti di valore che ci sono in casa!Rimasi a bocca aperta. Non misi a fuoco la differenza tra cameriera e donna delle pulizie, ma non chiesi spiegazioni, non volevo fare una brutta figura, già ne avevo fatte abbastanza per quel giorno. Tutta quella anticaglia mi aveva frastornato, le cose più “vecchie” che mia madre aveva in casa erano: un cassone, delle lenzuola e una coperta di sua madre, mia nonna. - Che fortuna! – esclamai – allora non vivi sola!Lei rise ancora. - Già, tu parlavi di oceano, di deserto e invece qui dentro siamo decisamente in troppi-. Disse questa cosa ridendo con la bocca ma non con gli occhi. Mi accorsi che si era turbata. Arrivò la cameriera con due tazzoni colmi di cioccolata fumante e io mi leccai i baffi, Arianna mi guardò sottecchi. - È per te golosona, c’è anche la panna-. Sollevò il coperchio di un recipiente stracolmo di panna montata e mi sentii svenire, non avevo nemmeno pranzato quel giorno, ero in uno stato di ipoglicemia avanzato. Mi tuffai nella panna e nella cioccolata. Arianna


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mandò via la cameriera con un lieve gesto della mano, proprio come una antica dama e io mi resi conto che era perfettamente a suo agio in quell’ambiente. Ero io, in quella casa, a quell’ora, l’elemento fuori luogo e fuori tempo, ero una specie di scultura futurista con i miei pantaloni di velluto viola e le mie vecchie Clarks ai piedi. Posai immediatamente i miei occhi sui piedi di Arianna, cosa che non facevo mai, per confrontarli con i miei. Mi prese il panico. Arianna portava dei mocassini chiari, di morbidissima pelle sicuramente pregiata, con una fibbia dorata, nuovi di manifattura. Salii con lo sguardo, tenendo il tazzone appiccicato al viso, sperando che lei non se ne accorgesse. Così notai che portava dei morbidissimi pantaloni di flanella beige, una maglia di cachemire di una tonalità più scura, un foulard di seta rosso annodato su una spalla. Mi costrinsi a smetterla e mi resi conto che tutte quelle preziosità intorno mi mettevano a disagio. Pensai, non mi interessano queste cose, perché mi sento a disagio? Loro sono fuori dal tempo, non dovrei osservare di sottecchi l’abbigliamento di Arianna, non è da me, piuttosto dovrei scrutare nella sua anima per capire se è davvero felice di vivere così. Arianna, ai tempi dell’università, era piena di vita, buona con tutti, sempre pronta ad aiutare. Io la immaginavo sorridente e allegra in viaggio per il mondo, piuttosto che murata in un castello antico. Così mi ripresi e puntai il mio sguardo nel suo. Mi stava osservando chissà da quando, mi sorrise come solo lei sa fare e ciò mi rincuorò. - Ari, sei sicura di non perderti qui dentro?- Ahahah! Cos’è una battuta? Non per niente mi chiamo Arianna!Ridemmo entrambe, ma io non volevo fare battute e la incalzai con lo sguardo. Lei finì di bere la sua cioccolata, posò delicatamente la tazza sul vassoio ed emise un profondissimo sospiro. - Ebbene si, ho un problema-. Fino ad allora ero stata seduta sul bordo del divano, tesa ma appena Arianna profferì quelle parole sentii un brivido lungo la schiena, le mie surreni scaricarono una dose doppia di adrenalina, non seppi spiegarmi il perché all’istante, in fondo non era la prima volta che lei si confidava con me, ad ogni modo fu utile poiché mi rilassai e preparai la mia mente ed il mio cuore all’ascolto. Lei continuò. - Ho un problema, ma ne parleremo più tardi. Andiamo a cena fuori e dobbiamo prepararci in fretta – guardò la pendola, erano le diciannove e quaranta – Andrea sarà qui a momenti-. Come? Mi lasciava così, con tutta quella adrenalina in circolo? - Abbiamo abbastanza tempo per iniziare a parlarne-.


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Dissi con tono incalzante, lei rise. - Lo so che muori dalla voglia di sapere i fatti miei, ma devi aspettare-. Il suo sguardo si incupì e il suo sorriso scomparve. - E’ una cosa seria, non posso parlartene in dieci minuti, andiamo a prepararci-. La stanza che aveva fatto preparare per me era ampia e luminosa ma arredata in modo orrendo, per i miei gusti. - Lo so che non ti piace questo letto, ma il materasso è nuovo e comodo, del resto le altre stanze sono anche peggio di questa, tutti mobili antichi-. Feci una smorfia di disgusto e lei se ne andò in camera sua prendendomi in giro. - Attenta che non venga fuori un fantasma!- Sarebbe molto più divertente di te!Le gridai dietro e mi chiusi in camera. Spazzai immediatamente via dalla mia testa gli eventuali problemi di Arianna quando aprii la mia valigetta. Pensai, prepararci per andare a cena fuori? Guardai quei pochi vestiti che avevo frettolosamente buttato in valigia: maglioni, calzettoni, pantaloni. Perché diavolo non mi ero portata una gonna o un vestito? Ma non si era detto che si andava in montagna? Accidenti! Uscii e attraversai il corridoio, volevo raggiungere la camera di Arianna ma mi ritrovai in un altro corridoio. Non ricordavo bene dove fossi e proseguii. Il corridoio che avevo imboccato mi portò ad una scalinata abbastanza ripida, capii che avevo sbagliato ma, accidenti a me, non tornai indietro. Avevo notato una porticina alla fine della scalinata e ne fui attratta. Non posso spiegare cosa realmente mi attrasse ma salii le scale pensando che si trattasse di un sottotetto pieno di cianfrusaglie: vecchie tele marce, animali imbalsamati, vecchie cassapanche colme di libri e abiti, insomma una soffitta in piena regola, degna di un castello. Effettivamente era un sottotetto, abitato. C’ era un ordine che non avevo mai visto prima, anche se l’arredamento era davvero ridotto al minimo indispensabile: un letto, un comodino, un piccolo armadio, un tavolo nell’angolo con una lampada. Stavo scrutando, quando sentii dei passi veloci su per la scalinata, mi voltai di scatto, quasi spaventata. Era la ragazza che ci aveva servito la cioccolata. Rimase di stucco quando aprì la porta, capii allora che quella doveva essere la sua stanza. - Scusi, credevo fosse solo una soffitta piena di roba inutile, sa io adoro le soffitte. Mi dispiace terribilmente di essere entrata in camera sua-. - Non importa – rispose in un italiano stentato. Era la prima volta che la sentivo parlare. - E’ straniera? Di dove? – chiesi curiosa.


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- Di Irlanda-. - Irlanda?! Mio Dio, gli italiani vanno a fare i camerieri in Irlanda ma non pensavo che succedesse il contrario-. Lei arricciò il naso, non capiva quello che volevo dire, aggiunse: - Signore è qui, signora ha chiesto di te-. Già, stavo cercando la camera di Arianna prima di perdermi nei meandri della mia curiosità. Guardai il mio orologio da polso, erano le diciannove e cinquantacinque. Scesi in fretta le scale chiedendo di nuovo scusa alla ragazza irlandese, mi precipitai lungo il corridoio pensando che ero in ritardo, che non avevo niente di decente da indossare e che la cameriera di Arianna era irlandese, ma questa ultima cosa che c’entrava? Nella mia camera trovai Arianna, guardò accigliata dapprima dritto nei miei occhi e poi i miei vestiti. - Non sei ancora pronta?….Ma dove eri finita?Scoppiai a ridere, mi sentivo così ridicola, lei era tutta agghindata per una cena fuori ed io ero qui, ansante per la corsa. - Che c’è da ridere?- Scusa Ari, rido per me, non ho abiti decenti per una cena fuori, mi avevi parlato di montagna non di cene impegnative, lo sai che mi piace viaggiare leggera; inoltre, mentre cercavo la tua camera mi sono perduta in questo maniero e mi sono ritrovata in soffitta, nella camera della tua cameriera. A proposito è irlandese-. Tirai il fiato guardandola, lei fece una smorfia e senza profferire parola uscì dalla mia camera invitandomi a seguirla. - Ah senti, non chiedermi di indossare un tuo abito perché non lo farò, preferisco restare a casa. Non sarebbe meglio una pizzeria dove ci si va in jeans e camicia? Come quando si era giovani e squattrinate? Oddio per me le cose non sono cambiate poi molto.- Smettila, sempre la solita lamentosa-. Arrivammo in camera sua e aprì il suo armadio. - Metti quello che vuoi-. Rimasi a bocca aperta, un armadio pieno di abiti da sera più o meno impegnativi a seconda dei gusti o meglio delle esigenze. - No, no, no! Non esiste che io metta addosso questa roba, e poi non mi entrerebbe-. - Sono certa che ti entrano tutti, dai prendine uno e falla finita, Andrea ci sta aspettando-. Emisi un sospiro. - Devo proprio?-


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- Si. Andiamo in un locale chic – disse atteggiandosi ironicamente – il sabato sera è pieno di amici di famiglia, di colleghi di lavoro. Di parenti ed affini. Guai ad indossare sempre lo stesso abito!Prese lei un abito per me e me lo porse. Io la stavo osservando, più che ascoltando. Era stufa? Stufa di tutto ciò? Oppure ne era divertita? Indossai il suo abito blu, effettivamente mi stava bene. - E le scarpe? Che dici, mi lascio le Clarks, così per differenziarmi?- Caspita! Che numero hai?- Il trentasette-. - Beh, io ho il trentotto-. Prese, da un altro armadio, un paio di scarpe blu, con un tacco altissimo. - Che?! Sei matta! Vuoi che mi rompa una gamba?- Oh, tanto non dovrai camminare molto. Andiamo lì in auto, staremo seduti tutta la serata e ritorneremo in auto-. - E per stare seduti una serata intera vi agghindate così? Roba da matti!- Sbrigati, ti aspettiamo giù-. Andò via e io finii di prepararmi il più in fretta possibile, ma ci misi una eternità per scendere le scale, con quelle scarpe. Andrea che era all’ingresso, ai piedi della scalinata, alzò i suoi bellissimi occhi blu verso di me e scoppiò a ridere. - C’è poco da ridere – lo minacciai e appena arrivata giù ci abbracciammo-. - Guarda cosa mi tocca fare per te! – dissi. - Stai benissimo, dovresti vestirti più spesso così – sorrise – come stai peste?- Stavo molto meglio con i miei vestiti addosso. Tu invece, sei sempre più bello!Arianna arrivò ad interrompere le nostre effusioni. - Allora, andiamo?Non ricordo cosa mangiai quella sera, non ricordo nemmeno il locale e quelle decine e decine di persone a cui fui presentata, non ricordo nemmeno il volto del collega che Andrea aveva invitato per farmi compagnia, né il suo nome. Di quella sera io ricordo solo l’anello che aveva al dito Arianna. Rientrammo sul tardi, non saprei dire l’ora, ero sconvolta e fremevo dalla voglia di restare sola con Arianna. Ora finalmente ricordavo dove avevo visto già quell’anello, l’anello trovato nella fossa insieme al cadavere. Tanti anni prima, quanti? Forse dieci o dodici, Arianna e Andrea si scambiarono quegli anelli, uguali, tranne che per le dimensioni e le incisioni.


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Ero frastornata, confusa. Dovevo parlare ad Arianna, ma cosa le avrei dovuto dire, e come? Eravamo in auto e lei mi guardò accigliata. - Non ti è piaciuta la compagnia?Si riferiva al tizio che aveva cenato con noi. Cercai di riprendermi ma non ci riuscii molto bene perché lei mi guardò a lungo e io feci altrettanto. Capì che le dovevo parlare da sola. Più tardi venne in camera mia, si sedette sul letto vicino a me. - Allora? Cosa c’è?Balbettai qualcosa, non riuscivo a mettere ordine fra le mie idee. Avevo trascorso tutta la serata a rimuginare su cosa dire, su come dire ed ora all’improvviso mi chiedevo perché dire. Si potevo tacere. Non dire nulla, dimenticare. Archiviare la faccenda così come aveva fatto il mio caro commissario, ma non avrei mai potuto resistere alla brama di sapere come l’anello di Andrea fosse finito in fondo alla fossa, seppure quello era l’anello di Andrea. L’idea che il mio amico potesse essere l’assassino, meglio dire il mostro capace di commettere uno scempio del genere, mi era entrata nel cervello, ma appena sfiorava il mio cuore io la cacciavo via. Ci doveva essere una ragionevole spiegazione. Arianna mi guardava preoccupata. - Silvia, non ti senti bene?- No, sto malissimo Ari-. - Ti faccio portare qualcosa. Cos’hai?Feci cenno di no con la testa e le presi le mani, con le mie dita sfiorai l’anello, dovevo essere stravolta perché lei si allarmò sul serio. - Insomma, che hai?Inspirai profondamente, dovevo affrontare l’argomento, dovevo. Ero coinvolta in tutti i sensi e non potevo lasciare le cose così come erano, non potevo. La voce di Andrea mi spaventò, era venuto a cercare la moglie. - Ehi, voi due. Che ne dite di dormire, domani si và in montagna, lo avete dimenticato?Arianna si alzò lasciandomi di scatto le mani, rise con una tale naturalezza che quasi mi spaventò. Pensai, lei ride perché non sa, nemmeno immagina, povera, piccola Arianna. - Ha ragione Andrea, sarà meglio andare a dormire – aggiunse sottovoce – ne parliamo domani, ma se stai male chiamami, buonanotte-. Altro che buonanotte, cercai di trattenerla, ma Andrea stava già chiudendo la porta. - Sogni d’oro-.


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Qualsiasi cosa dicessero mi sembrava una presa in giro. Lo sapevano che non avrei chiuso occhio quella notte? E così fu. Non dormii affatto, ad una certa ora, non so quale, scesi giù e ancora più giù fino alla cucina. Era una cucina enorme, con un enorme tavolo da lavoro. Aprii l’enorme frigorifero per prendere un po’ di latte, poi aprii l’enorme credenza per prendere un bicchiere. Versai il latte e mi sedetti sconvolta con le mani alla tempia, la testa stava per scoppiare. Pensai, devo tacere. L’arrivo di Andrea, proprio mentre stavo per raccontare tutto ad Arianna, significa che devo tacere. Domani vado via al più presto e dimentico tutto, se voglio ci riesco. Sentii rumori nel corridoio, balzai in piedi. Avevo paura. Poi la porta della cucina si aprì; non posso spiegare quello che provai in quel momento, ma il biancore del mio viso doveva essere evidentissimo e tale che la cuoca non appena mi vide sbarrò gli occhi urlando. - Oh, mio dio! Signora, mi ha spaventata. Si sente male?Si avvicinò premurosa mentre io con una mano stretta al petto cercavo di calmarmi respirando profondamente, stavo per avere un attacco d’asma. Mai avuto uno in vita mia. Mai avuto così paura! Pensai, sono una stupida, solo una stupida reagisce così ad una porta che si apre. Guardai la cuoca, che ci faceva lì a quell’ora di notte? Ma che ore erano? - Sono le sei e trenta, signora. Io arrivo tutti i giorni a quest’ora per preparare la colazione e il pranzo-. - Oggi non pranziamo qui, non l’hanno avvertita?- Lo so, signora, ma il pranzo lo preparo lo stesso, per i domestici-. Non capivo, ma non indagai oltre. - Mi farebbe un caffé fortissimo, per favore-. - Glielo preparo subito, mi sembra stravolta, non ha digerito?- No, non ho dormito, mi sento uno straccio-. L’odore del caffé si infilò attraverso le mie narici ed arrivò al mio cervelletto, sentii i miei nervi distendersi e le mie cellule nervose, che erano andate in tilt per il troppo pensare, passarono da uno stato di confusione ad uno stato di chiarezza: io dovevo sapere a qualsiasi costo. Ringraziai la cuoca e tornai in camera mia, mi preparai per la montagna e per parlare con Arianna e, qualora fosse stato necessario, con Andrea. Mi spaventava l’idea di affrontare Andrea, ma era mio amico da anni e la cosa cui tenevo era poter scoprire che non aveva niente a che fare con la faccenda. Più tardi Arianna venne a bussare alla mia porta. - Buongiorno, la cuoca mi ha detto che non stai bene!- Oh, è passata. Dopo una buona tazza di caffé mi sono ripresa. Non ho dormito molto stanotte, tutto qui-.


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- C’è qualcosa di grave che ti preoccupa, lo sento, ma non ero io che dovevo parlarti dei miei problemi?La guardai stupita, vero. Arianna mi doveva confidare il suo problema, forse sapeva, forse era proprio di ciò che voleva parlarmi. - Sono ancora qui, puoi parlare quando vuoi. Ieri sera sei andata via…- Beh, non volevo insospettire Andrea ma oggi ne parliamo con calma, lui certamente passerà tutta la giornata in pista e noi ne approfitteremo per pettegolare. Scendiamo a fare colazione-. La seguii con l’animo più disteso, almeno così credevo, ma quando vidi Andrea seduto a tavola mi sentii a disagio. Lui ci accolse con uno smagliante sorriso. - Buongiorno, care. Silvia, ti senti meglio? Sei pronta per affrontare le piste?- Si, sto meglio, ma non credo che affronterò le piste-. Rifiutai l’offerta oltre che con le parole anche con i gesti parando le mani, forse per allontanarlo, forse per difendermi, comunque fui teatrale e Andrea si fece una bella risata. - Ho capito, non ti costringerò, non preoccuparti. Farai compagnia ad Arianna, lei non scia mai-. Effettivamente Andrea ci accompagnò allo chalet e si dileguò, parato alla Tomba, il più in fretta possibile, bramoso di consumare tutte le calorie accumulate durante la settimana, sulla pista da sci. Io e Arianna restammo finalmente sole. Entrambe ci preparammo psicologicamente ad affrontarci inspirando ed espirando ripetutamente. - Cominci tu?Chiesi ad Arianna sedendomi sulla sponda del letto e sperando che la giornata passasse il più in fretta possibile. Cominciò lei. - Probabilmente avrai intuito che il mio problema riguarda Andrea. Beh, per farla breve, ha il vizio di tradirmi. L’ho scoperto non molto tempo fa – disse questa cosa con fermezza, poi, con voce tremante, aggiunse – e chissà da quanto tempo ha cominciato-. Le si riempirono gli occhi di lacrime e mi guardò disperata. Probabilmente, anzi sicuramente, sarei rimasta sconvolta se la notizia mi fosse giunta il giorno prima e avrei stentato a crederci, ma in quell’istante quel vizietto mi sembrò una sciocchezza in confronto all’altro che, forse, Andrea aveva. Mi avvicinai ad Arianna, provavo una tale pena per lei, una regina in un castello pieno di trabocchetti. Pensai, è la sorte delle Arianne. Le sventure sono legate al nome che una persona porta! Le carezzai la testa. - Povera Arianna! È terribile quello che ti succede.


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Pronunciai queste parole pensando non al tradimento bensì all’omicidio, pertanto le dissi in modo grave, troppo, tanto che lei mi guardò con stupore, poi mi abbracciò scoppiando a piangere. - Non ho il coraggio di dirgli che so, non ho il coraggio di affrontare la discussione. Io e Andrea siamo sempre stati in armonia, lo sai. Non voglio rovinare tutto, ma non posso sopportare che lui mi tradisca ancora. Oh, Silvia che devo fare?- Ma ne sei sicura? Come lo hai saputo?Lei si asciugò il viso con le mani, proprio come una bambina disperata e indifesa. - Sono sicura. L’ho visto con i miei occhi. Sai, la cameriera che abbiamo adesso è con noi da circa sei mesi, prima ne avevamo un’altra, una rumena…Il mio cuore cominciò a pulsare all’impazzata. Una straniera! Ecco perché nessuno aveva reclamato il corpo! La ragazza morta era una cameriera straniera, magari orfana e comunque sola. Mi irrigidii. Vedevo Andrea sempre più coinvolto, che terribile verità stavo scoprendo! Che sconvolgimento nelle nostre vite stava per avvenire! Arianna continuò. - Era molto brava e molto bella. Andrea ne era molto attratto, era evidente, ma non avrei mai creduto che fosse capace di andarci a letto, di tradirmi così, nella nostra casa-. - In casa?- Si. È così che li ho visti. Parecchie notti mi svegliavo e Andrea non era accanto a me. Le prime volte pensai che si era alzato per andare in bagno o in cucina, ma poi mi resi conto che la cosa succedeva troppo spesso. Non so, ebbi un sospetto e così una notte mi alzai e andai a cercarlo. Non lo trovai né in bagno né in cucina e nemmeno nello studio. Allora salii in soffitta e quando aprii la porta li vidi… Che termine dovrei usare? “fare sesso”? Insomma uno schifo! Non si accorsero di me e non dissi nulla ad Andrea, ma non so perché, la cameriera dopo circa un mese si licenziò. Forse Andrea si era stufato di lei. - E quest’altra?Chiesi allarmata. Se Andrea avesse avuto una relazione anche con lei, poteva correre il rischio di essere uccisa. Ecco! Ora tutto era chiaro. Andrea si era stufato della ragazza, questa, invece, non era stata tanto propensa a farsi mollare e lui, accidentalmente, l’aveva colpita. Poi si doveva disfare del cadavere e pensò di portarlo lontano dalla sua casa, dal suo paese, e dove? La fossa sotto casa di Silvia. Fece a pezzi la morta e


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quando vennero a trovarmi, l’estate precedente, la buttò nella fossa e perse il suo anello. Mentre stavo mentalmente elaborando questo svolgimento dei fatti, Arianna continuò. - Con questa non è ancora successo niente, anzi sarebbe meglio dire che non lo so. Spero che sia successo solo quella volta – e aggiunse, più per convincere se stessa che me – Andrea si sarà pentito di quello che mi ha fatto e quindi l’ha mandata via. Questa cameriera non è come l’altra, è più, come dire, comune ecco-. - Ari, l’anello di Andrea, sai il gemello del tuo, che fine ha fatto?- L’anello? – chiese stupita e sorpresa – Non saprei, Andrea dice di averlo perso. La cosa non mi stupisce, parecchie volte lo ha perso e poi lo abbiamo sempre ritrovato. È distratto, perché me lo chiedi?Ecco, adesso non potevo più rimandare, dovevo raccontarle tutto, dovevo parlare, presi fiato e cominciai. - Ricordi il cadavere che hanno trovato nella fossa del mio palazzo? Te ne parlai per telefono-. - Si, dicesti che il caso fu archiviato poiché la polizia non è riuscita nemmeno a individuare l’identità del cadavere – rispose accigliata. - Beh, dopo quello che mi hai detto mi è venuto il sospetto che si tratti della tua ex cameriera…- Cosa? – esclamò sbarrando gli occhi allarmata. Tentennai il capo e premurosamente continuai. - Ari, non so come dirtelo… Vedi in fondo alla fossa, insieme al cadavere fu ritrovato un anello. L’ho visto con i miei occhi, non lo avevo riconosciuto allora, ma adesso so che era l’anello di Andrea-. Avevo il mio sguardo fisso sul suo volto, temevo per lei, e percepii i lievi e nervosi movimenti dei muscoli mimici facciali e la sua espressione si trasformò da curiosa in sconvolta, soffrivo anch’io per lei, per loro. - C’era un’incisione “Anna per sempre”, ora ricordo che sul tuo è inciso “ti amerò Andrea”, un’unica frase spezzata sui due anelli. La guardavo insistentemente, mi aspettavo una reazione violenta, drammatica, tante lacrime, tanta disperazione… Invece Arianna, dopo il primo impatto, si distese inspirando profondamente. Si voltò a guardarmi con una tale espressione che quasi non la riconobbi, mi spaventò. Non capivo. Quello che non si capisce ci spaventa e io non capivo Arianna, la sua reazione era diversa da quella che mi sarei aspettata da lei o ero io diversa? Era diverso il mio modo di vederla, perché ora il mio giudizio era viziato da quella scoperta sconvolgente? Non saprei dire esattamente cosa era successo in quegli ultimi minuti, ma sentivo che qualcosa era cambiato,


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avvertivo intorno a me e dentro me aleggiare un fantasma, forse il fantasma della ragazza rumena e, ad un tratto, rividi il volto di Andrea che, sorridente, sciava tranquillo sulle sue piste. Rividi i suoi occhi e la sua spontaneità e capii che mai avrebbe potuto commettere un simile orrore. Forse non fui io a capirlo, ma il fantasma me lo suggerì, il fantasma che, ora lo sapevo, era rimasto con me in tutti quei mesi. Era diventato parte di me per tutte le volte che mi ero immedesimata con quella donna, con quella morte, per tutto l’orrore che avevo provato, per avere permesso che la seppellissero. Arianna mi guardò a lungo con quella espressione nuova a me sconosciuta e, chinando la testa da un lato, come una bambina che ritrova il giocattolo smarrito, esclamò con stupore: - Ecco dove era finito!Meccanicamente si toccò la sottile catenina che portava al collo, la stessa che portava da sempre con l’anello infilato. Ricordai che Andrea da dopo il matrimonio non portava più l’anello al dito, perché troppo femminile, e perciò lo teneva Arianna infilato in quella catenina. Arianna aveva perduto l’anello di Andrea. Arianna era il mostro. La mia cara, piccola e dolce Ari.


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L’EREDITÀ DI AGOSTINA a chi sente di essere diverso e non sa di essere unico!

Il luogo. Una stazione ferroviaria di una cittadina del Sud Italia. Una stazione della Capitanata di medie dimensioni come ce ne sono tante, ma con una pregevole costruzione di fine ottocento in stile liberty, con quattro binari vivi per il transito dei treni rapidissimi a scorrimento veloce, dei treni diretti, dei treni merci e dei treni locali e con alcuni binari morti dove non mancano mai treni in sosta. Ci sono due binari tronchi, i binari della ferrovia del Gargano sulle cui rotaie la borbottante “Garganica” scarrozza turisti, pendolari e studenti su e giù per la montagna. C’è un sottovia che dall’interno dell’edificio porta direttamente sui binari e sulle cui pareti, come in tutte le stazioni, abili mani hanno lasciato le loro impronte. Murales coloratissimi e piacevoli da vedere, tutto sommato. Un tempo fermata obbligatoria per coloro che volessero andare a deliziarsi tra le acque azzurre e le salse spiagge del Gargano, era una stazione cosmopolita sempre affollata durante tutti i mesi dell’anno sia dai turisti variegati che dagli avventori a pendolo. Ora declassata a stazione di secondo grado poiché il Gargano è raggiungibile in altri modi, è quasi sempre deserta eccetto che per gli orari di punta dei lavoratori e degli studenti. Questi attualmente ci sono ancora. Le banchine semideserte sono provviste di nicchie con panchette in ferro battuto e ricoperte dalle pensiline originali stile liberty sotto cui i passeggeri sostano a chiacchierare o a fumare in attesa che arrivi il locale che li riporterà a casa. Il marciapiede principale è ricoperto completamente da tettoie più moderne e meno pittoresche in prefabbricato, ma è provvisto di floride aiuole in mezzo a cui troneggia una scrosciante fontana con marmorei putti alati, sirene e guizzanti pesci rossi. L’interno dell’edificio è invece tutto originale, i pavimenti e i rivestimenti floreali, gli orologi e persino il chiosco dei giornali sono gli stessi che inaugurò la cittadina tutta alla presenza dell’allora erede al trono principe di Savoia nel lontano 1895. La sala d’attesa unica ma ampia ha ancora sulla volta, seppure con qualche scrostatura, un autentico affresco di un di allora famoso artista locale che


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ispirato dalle tendenze dell’epoca segnò il soffitto con fiori e frutti, mentre l’ampio corridoio, che a destra conduce alla biglietteria e al bar e a sinistra termina con la entrata dei gabinetti, è pavimentato con un raffinato mosaico di maiolica. I bagni no, quelli sono stati rifatti, per ovvie ragioni. Il vecchio e massiccio portale costruito con legno pregiato e ferro battuto è stato sostituito in epoca recente e l’ingresso alla stazione dalla strada è ora modernizzato e automatizzato e dotato di una porta a vetri con apertura a sensori e di telecamere a circuito chiuso. Il fatto. Giovedì, dodici agosto, ore sette e venticinque del mattino. Uno degli inservienti addetto alle pulizie presso la stazione ferroviaria, un trentenne talmente smilzo e basso di statura che di spalle lo scambiavano per un bambino, entrò nell’androne dei gabinetti spingendo il carrello porta attrezzi per le pulizie tranquillamente con fare abitudinario e annoiato. Il suo turno era appena cominciato, ma era già stanco. Stanco di quel lavoro insulso e degradante, stanco di pulire pavimenti e latrine e di essere sottopagato. Chiunque pratica una simile attività è indubbiamente sottopagato! Per lo meno si meritava un indennizzo per il disagio che provava qualora era costretto a rivelare la professione che svolgeva o per l’imbarazzo del figlio quando le maestre o chiunque altro gli chiedevano: che lavoro fa tuo padre? Per la vergogna. Non c’è vergogna se si lavora onestamente gli diceva la moglie, poverina pure lei costretta a una vita meschina e senza più vitalità. A questo pensava quando il carrello che spingeva con pigrizia si inceppò. Spinse con più vigore senza guardare pensando ad un ostacolo intrinseco del pavimento montato malamente dai piastrellisti, ma il carrello sbatté contro qualcosa di solido e allo stesso tempo cedevole e frenò bruscamente con un rinculo che per poco non gli fece perdere l’equilibrio. L’inserviente allora, sentenziando, abbassò lo sguardo pensando già a qualche cane randagio entrato alla ricerca di refrigerio e sdraiato proprio nel bel mezzo dell’antibagno. L’espressione del suo viso si trasformò da pensierosa a irata a sorpresa a sconvolta man mano che spalancava gli occhi per guardare meglio, per persuadersi che quello che era steso lì per terra era un corpo sì ma non di un cane. Un mucchietto di stracci laceri era accumulato sul pavimento dalle cui estremità a malapena fuoriusciva un ciuffo di capelli untuosi di un castano slavato e la punta di un piede scalzo, livido e sporco. Il corpo era riverso su un lato, raccolto su se stesso in posizione fetale immerso nel sonno eterno. L’inserviente riconobbe quei cenci e la


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carezza della morte che lieve gli gelò la spina dorsale e tutto il suo apparato nervoso gli causò un attacco di nausea e panico costringendolo immobile lì, senza pensieri e vita per pochi attimi. Poi riprendendo velocemente coscienza, come non gli era affatto congeniale, si precipitò nel corridoio bloccandosi sull’uscio e cercando con gli occhi spiritati il suo collega o un poliziotto. Non gridò perché ci poteva essere già gente a quell’ora, alcuni gruppi di studenti arrivati dai paesini del Gargano e qualche lavorante anticipatore e, sapientemente, non volle creare panico, ma non c’era nessuno. Era agosto. Restò lì a bloccare l’entrata ai gabinetti mentre, scorto uno dei due poliziotti ferroviari che solitamente prestavano servizio, lo chiamò con voce strozzata. Finalmente la guardia gli si avvicinò e lui, con un cenno del capo senza parlargli, si scostò per lasciarlo entrare nel disimpegno del bagno dove era il corpo. Il poliziotto, dapprima confuso alla vista degli stracci, si avvicinò incuriosito e quando finalmente capì strinse le labbra e chiuse gli occhi rammaricato e sinceramente addolorato, poi sospirando e imprecando con la sua ricetrasmittente avvisò dapprima il collega che era in servizio con lui, poi il suo capo alla centrale. L’inserviente giallo in viso e più scarno che mai, con gli occhi sbarrati fissi sul cadavere, gli stava appresso. - E’… è…?Chiese con un filo di voce. - Eh?! Sì, che brutta fine! Hai toccato qualcosa?- No… cioè sì, con il carrello. Spingevo il carrello e ci ho sbattuto, ma non è la… ?- Sì. Poveraccia, proprio nel cesso doveva venire a morire. Non possiamo toccare niente fino all’arrivo del commissarioArrivò l’altro poliziotto seguito dal capostazione e altri due ferrovieri, impiegati addetti alla amministrazione. Il capostazione si grattò la nuca calva e sbuffò con rassegnazione come se se lo aspettasse mentre con voce stonata ordinò, non si capì bene a chi, di chiudere l’ingresso ai bagni. - Non fate entrare nessuno dei passeggeri, per carità! Che disastroUno dei due ferrovieri, con un accento fortemente sardo, si sentì chiamato in causa e scorgendo l’inserviente lo additò con sgarbo. - Che ci fai tu ancora qua? Hai sentito che ha detto il capo? Vai a metterti davanti alla porta!Gli occhi sbarrati dell’inserviente si accigliarono repentinamente con sdegno evidentemente remoto nei confronti dell’impiegato e, muovendosi con la sua solita flemma, si allontanò borbottando. - Dove li mando a pisciare!?-


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- Ti ho sentito sai! Li mandi a pisciare al gabinetto esterno, quello sulla banchina!- Quello non è un gabinetto, dottore, quello è proprio una fogna!- Chissà per colpa di chi?!L’omino non rispose, uscì e richiuse la porta alle sue spalle con gesto esasperato. Odiava quel lavoro e odiava quell’uomo, ma soprattutto odiava trovarsi lì in quel momento a fare la guardia alla porta del cesso! Ringraziò il cielo che i frequentatori mattutini in quel mese dell’anno e in quel giorno erano scarsi, i turisti il dodici di agosto erano già tutti a rosolarsi al sole e i pendolari abitudinari erano in ferie. Volse attentamente lo sguardo attorno e scorse un anziano signore dall’espressione ascetica intento a leggere gli orari della corriera per il vicino Santuario delle Grazie, meta di fedeli e devoti credenti, ed una coppietta di giovanissimi che con tanto di zaino in spalla chiedevano informazioni alla biglietteria, diretti con molta probabilità alle spiagge garganiche. Si tranquillizzò, e indirizzò i suoi pensieri sul cadavere che era disteso a terra dietro quella porta. L’aveva incontrata la mattina precedente, come di consueto era seduta in terra vicino al chiosco dei giornali perché era lì che usava passare la notte, al riparo dalle intemperie atmosferiche invernali e dalla calura e dall’afa estive. Agostina. Così si faceva chiamare in quel mese mentre nel mese precedente si era fatta chiamare Julia e nel mese successivo si sarebbe fatta chiamare Settembrina, se fosse stata viva. Agostina era ospite stabile della stazione da più di due anni. Era comparsa in un giorno di maggio, non uno qualsiasi, ma quel particolare giorno maggese in cui questa cittadina festeggia la Madonna Nera, un giorno dall’aria dolce ricca di profumi, di risa di bambini, di colori e di gioia. In quel mese si chiamava Maia ed era arrivata con la carovana del luna park mischiata alla schiera dei viaggiatori, confusa con loro, nomade fra nomadi. Li aveva seguiti per mesi, condividendone il cammino, aiutandoli nel lavoro e prendendo in cambio cibo e compagnia. Quel giorno di maggio decise di fermarsi qui, chissà perché poi, e da allora tutte le sere si recava alla stazione con regolarità e precisione. Si sistemava l’angolino che aveva scelto come sua dimora, puliva il pavimento su cui distendeva un telo cerato sbiadito e sbrindellato, poi, inverno o estate che fosse, sistemava uno sull’altro tutto il suo guardaroba: due cappotti logori, alcune giacche lacere e consunte e un numero indefinito di stracci, quello che rimaneva di maglie e maglioni, sciarpe e cappelli. Li conservava in un sacco di tela militare che strascinava ovunque andasse, come se fosse una parte del suo corpo. Quella bisaccia conservava tutto ciò che le apparteneva, era la sua casa, era la sua vita.


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Ogni tanto lei ci infilava dentro la testa e le mani, scomparendo in quel buco nero, frugava, scavava ed estraeva sempre qualcosa di improbabile come se fosse la magica borsa di Mary Poppins. Per mesi l’inserviente la aveva osservata da lontano, senza vederla veramente, come tutti gli altri lì della stazione. Il gestore del chiosco, che arrivava di buon ora la mattina, le faceva portare una tazza di latte caldo ed una brioche dal bar, e la sera c’era sempre qualcuno che le comperava un panino o le portava un piatto di pasta. Il capostazione le portò le scarpe dimesse della moglie e qualche vestito, mentre i poliziotti, dopo le prime incertezze, la lasciarono tranquilla e a volte le offrivano le sigarette. Ma quello che più di tutto voleva Agostina era il vino. Se la notte riposava nella stazione custodita dalle mura ottocentesche e dai suoi solidali amici, durante il giorno impavida piantonava le entrate delle chiese. Ce ne erano tante di chiese, tantissime e Agostina le passava quasi tutte stando attenta a non pestare i piedi alle zingare che presiedevano le chiese più frequentate e detenevano il potere della mendicità. Erano grosse, rozze e aggressive. Sotto il sole o sotto la pioggia comunque lei era lì all’uscita dalla messa seduta sui gradini o sul sagrato e aspettava. Non chiedeva, non allungava la mano, non parlava, non lamentava, semplicemente aspettava. Riusciva sempre a racimolare quel tanto che le bastava per entrare nel minimarket di fronte alla stazione e comperarsi una o due bottiglie di vino che si scolava nello spazio di una nottata. Era il suo elisir di lunga vita, la sua ambrosia e nulla più le occorreva. Ecco invece il vino l’aveva mandata all'altro mondo, una fine sicuramente inevitabile per una alcolizzata pensò l’inserviente chiedendosi per la prima volta chi fosse Agostina, quale fosse veramente il suo nome. Una strana creatura metà umana e metà fantastica di indefinibile età, poteva avere cento anni come ne poteva avere trenta. Il suo corpo minuto era rinsecchito come quello di una vecchia, ma i suoi occhi erano vispi e profondi e con un’iride lucente e nera come quelli di una donna ancora giovane come il suo volto scarno ma delicato e gentile. La sua vita valeva quanto una bottiglia di vino, ma aveva una buona proprietà di linguaggio e una fervida creatività che stupiva chiunque si soffermasse a parlare con lei. Ebbra con la lingua impastata, ma in un italiano senza inflessioni, giocherellando con una bizzarra palla di gomma colorata, una di quelle palle magiche, raccontava storie bizzarre di uomini ricchi e potenti che la corteggiavano, di grandi saloni e di feste sfarzose, di cavalli alati e di giardini regali. Illusioni, chimere di una povera mendicante, folle e ubriacona. L’inserviente ripensò a quante volte l’aveva incrociata lungo quel corridoio, al suo sorriso sdentato ma sincero e a quante volte l’aveva


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scansata. Il suo odore era intenso e pungente, inconfondibile e sgradevole, ma uno come lui, uno che pulisce laddove altri, sconosciuti, urinano e defecano, uno così non avrebbe dovuto fare tanto lo schizzinoso! Si amareggiò del suo comportamento e si vide schiavo di un sistema sociale che lo costringeva a svolgere un disgustoso lavoro e si confrontò con lei, con quella strana creatura che invece aveva vissuto libera ed era morta libera, di una morte sicuramente scelta. Un gruppo di persone varcò la soglia della porta scorrevole con passo fermo e deciso. L’inserviente sussultò riprendendosi dai suoi pensieri vedendo avanzare verso di lui due poliziotti in divisa che accompagnavano due persone in borghese un uomo ed una donna. L’uomo gli era noto, il commissario di polizia. Gli si fermò davanti e tanto era alto e imponente che lui, piccolo uomo, dovette alzare la testa per guardarlo in faccia. - Il cadavere è qui?Gli chiese con sguardo fermo e voce dura. - Sì, sta qua dentro…Si spostò e quelli entrarono in ordine di grado presumibilmente, il commissario, la donna e i due poliziotti. Lasciarono la porta socchiusa così l’inserviente poté ascoltare distintamente la conversazione e apprese che ad uccidere Agostina non era stato il vino, sicuro complice di un complotto, ma non diretto responsabile della sua morte avvenuta per soffocamento. Agostina era stata strangolata. Non con le mani, l’assassino le aveva stretto al collo una corda robusta oppure una cintura e le aveva occluso le vie respiratorie con estrema facilità dato che era così esile e fragile e tanto ubriaca da non poter opporre resistenza nemmeno ad un bambino. L’aveva ingannata con il vino, tanto tanto vino. Sbigottito l’inserviente rimase in ascolto a bocca aperta, incapace di pensare e assorbito dalla conversazione allungò di più l’orecchio cercando di non perdere neanche una parola. Il commissario stava dialogando di dettagli sul decesso con la donna che era ispettore, mentre il capostazione faceva notare che la sacca di Agostina era scomparsa con tutto ciò che c’era dentro. Un omicidio per furto? Chi poteva avere interesse a rubare quella putrida pattumiera piena di roba sudicia e inutile? Chissà che non conservasse un tesoro in fondo a quel budello cieco sotterrato dagli stracci e dall’immondizia? Era noto di alcuni mendicanti che usavano nascondere tutto il denaro elemosinato sotto i loro vestiti, facevano una vita miserevole pur avendo di che vivere decorosamente. La porta scorrevole si aprì nuovamente ed entrarono quattro uomini, due di loro vestiti di verde spingevano una barella su cui era allungato un sacco


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vuoto, uno di quei sacchi che usa la polizia per chiuderci dentro i cadaveri, gli altri due chiacchieravano animosamente tra loro. Discutevano su faccende private che nulla avevano a che fare con Agostina. - Allora che hai deciso? Vieni o no a farti questo viaggio in camper? Vedrai che dopo la prima volta sarai tu a volerci ritornare!Disse il più alto, quello con la maglietta, i pantaloni alla pescatore e i sandali francescani. - Non lo so! Io sono per la vacanza comoda, lo sai. Preferisco più un bell’albergo con piscina e idromassaggio. Mia moglie poi, ce la vedi nel camper! Starà tutto il tempo alla ricerca di ragni e mosche rompendomi i coglioni. Per carità non voglio proprio farla una simile esperienza!Disse il più robusto, quello con la camicia inamidata, il pantalone di lino e i mocassini di pelle. - Come siete comodi, per questo non vi divertite mai!... E’ qui il morto?Chiese il più alto all’inserviente. L’inserviente assentì con un lieve cenno del capo chiedendosi come mai a rivolgergli la parola erano sempre quelli più alti che per guardarli negli occhi si doveva far venire il torcicollo, poi spinse i battenti della porta facendo largo alla barella e lasciandoli socchiusi per continuare ad origliare. I neoarrivati erano due medici legali che non fecero altro che confermare la morte per strangolamento, rimandando ulteriori dettagli a dopo l’autopsia. Parlavano di Agostina come del cadavere, del corpo, della mendicante. Identità: sconosciuta, Agostina non aveva documenti, fotografie, o quanto altro potesse servire a darle un nome, una ubicazione nel mondo sociale. Le affibbiarono un numero, la chiusero nel sacco cerato, la caricarono sulla barella e se la portarono via, mentre il capostazione e gli altri due ferrovieri si compiacquero del fatto che non c’era stato spargimento di sangue, una morte pulita! Di questo, vergognosamente, si compiacque anche l’inserviente. Agostina uscì definitivamente dalla stazione, per l’ultima volta percorse il corridoio maiolicato, attraversò la soglia di granito rosso della porta automatica salutata dagli sguardi tristi e silenziosi dei suoi amici che per tanti mesi l’avevano accolta e accudita benevoli. Lasciò dietro di se un’eco di malinconia che si ripercosse tra le mura antiche, nella sala d’attesa, lungo i binari e le banchine e un pungente aroma misto di vino e sudore che permase per lungo tempo a ricordarla, come suo unico segno di riconoscimento. L’inserviente rimase immobile davanti alla entrata dei gabinetti a fissare la porta automatica che si era richiusa silenziosa. Tutti gli altri presenti, dopo


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avere discusso tra loro, lentamente ritornarono alle loro mansioni ognuno chiedendosi chi e perché. Il capostazione e gli altri due ferrovieri rientrarono nel loro ufficio parlottando su un eventuale rapporto da stilare, sull’arrivo dei giornalisti e della televisione che sicuramente si sarebbero interessati al fatto, sulla cattiva pubblicità per la stazione che già tanto era stata declassata. Il corridoio si svuotò e tornò silenzioso, più silenzioso che mai. Una improvvisa ombra palpitò e come una pesante nuvola carica di pioggia oscurò per un istante l’ambiente. L’inserviente rabbrividì e alzando lo sguardo al soffitto capì che Agostina era lì trattenuta dal desiderio di vendetta, forse, o semplicemente dall’affetto che sentiva per quel luogo. Frettolosamente, come non era nella sua natura, raggiunse l’ufficio del capostazione, bussò e contemporaneamente entrò senza aspettare risposta. Il capostazione e gli altri due ferrovieri lo guardarono allarmati. Doveva avere una espressione stravolta poiché gli si appressarono premurosi. - Cosa le succede? Sta male? Presto si sieda… gli dia un bicchiere d’acqua!Gridò il capostazione infilandogli una sedia sotto al sedere. - Forse ci vorrebbe qualcosa di forte, questo sta collassando!Affermò il ferroviere sardo mentre l’altro corse a prendere dell’acqua. - Cosa ha? Chiamiamo un medico?Continuò il capostazione. L’inserviente fece segno di no con la testa, bevve un sorso d’acqua e balbettò qualcosa tra i denti. - Io, io non ci entro nei gabinetti…- Cosa? Non ho capito, che dice?Chiese il capostazione. - Dice che non ci va nei gabinetti.Spiegò l’altro ferroviere, quello che aveva preso l’acqua. - Cosa significa? Perché?L’inserviente continuò a scrollare la testa. - Non ce la faccio… non entro nel gabinetto, dottore. Mi dispiace. Me ne andrei a casa se me lo consente…Spazientito ed esausto il capostazione lo congedò con un gesto di stizza. - Ma sì, se ne vada pure! Abbiamo già un mare di casini oggi, dobbiamo badare pure a lei che si caca sotto per avere visto un morto!- Non è per il morto, dottore. È… è per il…- Per cosa? Perché è rimasto così scioccato poverino! Bofonchiò il sardo sgarbatamente. - Comunque sia credo sia meglio che se ne vada e che si faccia dare una controllata alla pressione-


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Intervenne l’altro ferroviere. - Come torna a casa? A piedi?- No, ho la vespetta- Se la sente di guidare oppure…- Sto meglio grazie dottore. Non si preoccupi-. Lo aiutò ad alzarsi sostenendolo per un braccio e uscì con lui accompagnandolo. Il ferroviere gentile lo accompagnò alla porta automatica e lo rassicurò dicendogli che era tutto a posto e che lo aspettavano il giorno seguente come sempre. L’inserviente varcò la soglia ed uscì all’aperto dove fu investito da una ventata ardente di aria secca e accecato dal sole leonino di agosto che fiero raggiava in tutto il suo splendore. Serrò gli occhi abbacinati e per un istante rimase al buio. Pensò agli occhi vispi di Agostina per sempre al buio, oramai spenti. Dischiuse lentamente i suoi occhi sul piazzale della stazione dove la bella fontana di marmo sprizzava acqua azzurrina, raggiunse la sua vespa color giallo paglierino comperata di seconda mano, la inforcò infilandosi un elmo protettivo, mise in moto e partì. Voltò le spalle alla porta automatica, alla stazione, alla morte assurda di Agostina. Per quel giorno, solo per quel particolare giorno, era libero.

L’antefatto. Mercoledì, 11 agosto, pomeriggio. La ragazza. Alle ore diciotto e trenta minuti la ragazza varcò la soglia di granito rossastro, le porte a vetro riflettente si aprirono al suo passaggio come per magia e lei entrò nella stazione. La frescura che la investì le diede piacevoli brividi. Il sole di agosto che aveva lasciato in strada era ancora arzillo e spietato a quell’ora del pomeriggio. Era alta, magrissima, con capelli corti a strisce gialli e neri. Venti anni al massimo. Carina forse ma, non fosse stato per i capelli e per l’eccessiva magrezza, impressionante testimonianza di denutrizione, sarebbe passata inosservata, insignificante. Indossava una canottiera azzurra con spalline larghe e un bermuda bianco che mostravano a nudo spalle, braccia e gambe esilissime, ma abbronzatissime e calzava scarpe da ginnastica bianche di marca Nike. Portava una borsetta da tasca a tracolla di stoffa stampata e una sacca da viaggio.


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Si fermò, si tolse con un gesto lento gli occhiali da sole che si appese alla scollatura della canottiera e guardò attorno, indecisa e inquieta, cercando qualcosa o qualcuno. Si mosse lentamente ancora intorpidita dalla canicola esterna e si diresse verso il chiosco dei giornali, deserto a quell’ora, dove comprò un fumetto di Topolino. Poi, sfogliando il giornalino, entrò nella sala di aspetto, scelse una fila di sedie completamente vuota, non era difficile viste le poche persone presenti in stazione, e si sedette infilando sotto il sedile la sacca da viaggio che si trascinava dietro. Era una borsa di similpelle beige con dei disegni prestampati, imitazione di una marca famosa che trovi sulle bancarelle dei “vu cumprà”, piuttosto sciupata e insignificante. Simile a tante altre. Dalla piccola borsetta a tasca, che portava a tracolla, prese un pacchetto di sigarette marca Muratti da cui ne estrasse una e un accendino Bic di colore arancione con cui se la accese. Con gli occhi nocciola fissi sui disegni colorati dei personaggi disneyani e intenti a leggere i contenuti delle nuvolette, inspirò profondamente il fumo tenendo la sigaretta accesa stretta tra le labbra, mentre con una mano rimetteva a posto pacchetto e accendino e con l’altra reggeva il giornaletto. L’uomo anziano. Un uomo anziano di età indefinibile era nella sala d’aspetto, seduto alla fila di fronte, immobile e assorto nella lettura di un romanzetto d’appendice. Teneva il libro formato tascabile con entrambe le mani, bianche e grassocce, all’altezza del petto e ad ogni espirazione emetteva un sibilo rauco dalla gola. Se non fosse stato per le palpebre che sbattevano ripetutamente e per gli iridi che scorrevano veloci i righi del libro, si sarebbe potuto dire che dormisse profondamente. Un anziano signore in attesa di un treno per chissà dove, con calvizie pronunciata, una faccia tonda e glabra e di un pallore quasi mortale da degente ospedaliero. L’aspetto appariva trasandato per via della camicia di un indefinito colore giallognolo sgualcita e sudata che indossava con sciatteria, e di un paio di calzoni di tela di colore grigio chiazzato di macchie di incerta natura. Corti alla caviglia lasciavano scoperte le gambe bianche e stranamente secche fino ai piedi infilati senza calze in un paio di mocassini con tomaia marrone sbiadita e suole a sottilette. Sul sedile accanto aveva posato la sua borsa da viaggio. Era una borsa di tela di un colore verde slavato, anche questa chiazzata di macchie, di quelle che si usano per andare in palestra o a giocare a calcio. Uno dei due manici era visibilmente ricucito con del filo di cotone di colore scuro e la cerniera lampo, che un tempo serviva per


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chiuderla, era stata sostituita da una serie di spille da balia. Strano e inconsueto rimedio. Non passava inosservata comunque abborracciata com’era e posta in bella vista sul sedile. L’uomo anziano, assorto nella lettura del romanzo da viaggio, non si accorse della ragazza sino a quel momento, il momento in cui lei accese la sigaretta. Allora alzò gli ipermetropi occhi acquosi e pungenti al di sopra degli occhialetti che portava appoggiati su un naso stranamente piccolo e perfettamente simmetrico. Si sarebbe potuto dire opera di un esperto chirurgo plastico. L’uomo tossì forzatamente per attirare la sua attenzione, ma lei lo ignorò immersa com’era nella lettura, lui ci riprovò, ma niente. Allora azzardò un rimprovero generico protestando contro i giovani scostumati, immorali e dissoluti simulando un dialogo con un ipotetico interlocutore. – Esiste una legge che vieta di fumare in luogo pubblico! Lo sa lei?... E poi dicono che la società va in malora. Dove sta la polizia ferroviaria quando serve?!... Qui dentro non si respira più… non c’è rispetto per nessuno, per nessuno!La ragazza non mostrò nessun turbamento, finì tranquillamente di fumare aspirando persino il filtro della sigaretta, gettò il mozzicone per terra e lo spense schiacciandolo sotto la scarpa da ginnastica Nike, poi infilò la mano nella borsa da tasca e tirò fuori un piccolo aggeggio, un lettore MP3, si tappò gli orecchi con gli auricolari e alzò il volume. Il signore anziano sbuffò impaziente e ostile, aggiustandosi gli occhialetti sul nasino alla francese. - Ma bravi, bravi! Continuate così, che ne farete del mondo, voi giovani. Vandali e criminali. Tutti, tutti quanti!Ansimò, tossì e si rimise a leggere borbottando.

La coppia opulente. Ore diciotto e cinquanta minuti, una coppia entrò nella sala d'aspetto. Lui un uomo di circa quaranta anni, scuro di carnagione brizzolato e affascinante, varcò la soglia per primo con evidente sicumera come se fosse un abituale del luogo. Vestito con molta cura e ricercatezza era alquanto insolito in una stazione ferroviaria. Si sarebbe detto più tipo da viaggiare in auto privata magari con autista, ma tirava una piccola valigia con le ruote. Era una valigia di pelle marrone con una sfacciata marca inconfondibile di una famosa casa di moda. Molto costosa sicuramente, come tutto l'abbigliamento di quell'uomo così attraente. Scarpe firmate di


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nota marca inglese, vestito di lino chiaro su camicia di seta con bottoni madreperlati, cintura di pitone e un orologio da polso da ventiquattro carati! Una vera sciccheria. Ma ciò che attirò l'attenzione dei presenti fu il suo sorriso che mostrò una dentizione perfetta e smagliante e il suo accento. Si guardò attorno, incrociò il suo magnetico sguardo con quello allupato della ragazza che sbavava ad occhi sbarrati e con quello da talpa del signore anziano che sbuffò ancora più forte, si voltò e con un italiano incerto e inflessione asiatica rassicurò la sua compagna che era dietro di lui. - Vieni, è quasi vuoto. Ci sediamo al fresco, per fortuna c'è l'aria condizionata. Lei entrò con circospezione, guardinga e confusa. Era una non più giovane donna attraente sì, ma meno affascinante del suo compagno. Mostrava quaranta anni ma ne doveva avere di più, cinquanta forse. Evitò gli sguardi degli altri avventori e attraversò la sala velocemente per andarsi a sedere sul sedile al lato del suo uomo. Occhiali scurissimi le nascondevano gli occhi, ma aveva un evidente ematoma su uno zigomo che né le lenti né strati di fondotinta e cipria erano riusciti a mimetizzare del tutto. Calzava sandali di pelle color bronzo con una zeppa altissima, pantaloni di cotone nero damascato di ottima manifattura e una camicetta di seta a righe bianche e nere con pregiati merletti di pizzo. Lunghi capelli lisci e neri le scendevano sulla schiena, ordinatissimi come appena usciti dalle mani di un coiffeur. Pochi accessori di elevato valore come un diamante a chissà quanti carati che le brillava all'anulare sinistro, un orologio e un bracciale entrambi d'oro, ma lavorati con finezza ed eleganza. Alta gioielleria. La piccola tracolla infine era un vero tesoro. Una borsetta di pelle bronzata con swarovskj incastonati! La ragazza la guardò sottecchi, sprezzante e, forse, invidiosa, ma poi sorrise malignamente sbirciando il livido che deturpava quel bel viso. La ragazza di sicuro pensò che ogni cosa ha un prezzo, certamente era lui quello ricco! L'uomo anziano smise di leggere attratto dalla bella signora entrata nella sala seguita da una scia di un profumo certamente fatto di essenze pregiate e persistente. Inalò profondamente e sorrise compiaciuto, molto meglio della puzza della sigaretta. L'uomo affascinante posò il trolley accanto al suo sedile, aprì una delle tasche laterali e estrasse un giornale scritto con caratteri arabi. Si posizionò meglio sulla seduta incrociando le gambe e incominciò a leggere con tranquillità. La donna, invece, non era affatto tranquilla. Si agitava sul sedile come se fosse seduta su delle spine, accavallava le gambe cercando di rilassarsi ed un attimo dopo era già stanca di quella posizione, si alzava senza mai alzarsi del tutto e si risedeva a intervalli. Si toccava


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continuamente gli occhiali, aggiustandoli e sistemandoli sul naso, apriva la borsa esaminava il suo telefono cellulare e poi lo riponeva. Il suo compagno non prestò nessuna attenzione a questi malesseri, anzi parve non avvedersene oppure era semplicemente abituato alle sue manie.

L'uomo giovane. Occhi chiarissimi, trasparenti come il vetro di un colore cangiante tra il verde e il ceruleo, viso avvenente e gentile, capelli ricci scarmigliati color miele, corpo slanciato e ben fatto plasmato da ore di allenamento in palestra o in piscina. La porta scorrevole si aprì docilmente al suo passaggio, anch’essa estasiata da tanta armoniosità e il giovane uomo la varcò con busto eretto, passo lieve e tranquillo come un principe. Alzò lo sguardo limpido all’orologio in ferro battuto sospeso sulla parete frontale e confrontò l’ora con quello che portava al polso destro, erano le ore diciannove e tre minuti e dopo una sbirciata all’ambiente si diresse al bar. Il barista era intento a leggere un quotidiano seduto comodamente su di una poltrona di vimini posizionata sotto il diretto flusso di un condizionatore d’aria e a malincuore lasciò la sua postazione. L’uomo giovane ordinò una bibita analcolica e prelevò un pacchetto di gomme da masticare dall’espositore sul bancone. Con voce profonda ma gentile, come tutta la sua persona, chiese informazioni su una specifica località del Gargano dove era diretto, un paesino arroccato sul pendio di un monte, abitato solo da poche anime e di scarso interesse turistico. - Che ci va a fare un ragazzo come lei in un posto simile?Gli chiese curioso il barista. - Interesse culturale. Sto scrivendo un saggio su questi paesi che si vanno spopolando, le Terre dell’Abbandono!Rispose con un ampio sorriso mentre sorbiva la sua bibita. - Ce ne sono di terre abbandonate lassù! Avrà di che scrivere… Cinque euroAffermò il barista battendo i tasti del registratore di cassa. - Grazie, avrò da lavorare allora, non mi annoieròL’uomo giovane pagò ed uscì dal bar dirigendosi con passo lieve alla sala d’attesa. Entrò abbracciando con una celeste occhiata tutti i presenti. Nella sala regnava il silenzio, ma al suo ingresso anche i respiri si fermarono per un attimo, solo per un attimo. Puntò un sedile sulla stessa fila della ragazza dove si incamminò senza esitazione. La ragazza lo guardò sottecchi, così


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bello e fiero non aveva alcuno motivo di esitare, ma non aveva l’atteggiamento sfrontato e arrogante del preceduto anzi, questo era decisamente meglio. L’uomo giovane sistemò la sua valigia sotto i sedili. Era una piccola valigia blu di tessuto impermeabile senza segni particolari e molto discreta, anonima se non per un adesivo incollato sulla tasca superiore. Uno stemma, quello dell’agesci. Dalla borsa a cartella di pelle nera che aveva sistemato sulle ginocchia estrasse dei fogli ed una matita e si immerse nei casi suoi. L’uomo anziano, che fino a quel momento lo aveva tenuto attentamente d’occhio, si rilassò sorridendo e soddisfatto lanciò una occhiataccia critica alla ragazza, per dire guarda e impara! L’affascinante uomo asiatico degnò l’uomo giovane di uno sbirciata sfuggevole, snobbandolo come aveva fatto con gli altri, al contrario la donna seduta al suo fianco da dietro le scure lenti lo guardò attentamente. Sembrò addirittura tranquillizzarsi e smise di esaminare continuamente il telefono cellulare e di tormentarsi le mani. L’entrata nella sala di quell’uomo giovane così amabile distrasse quella donna dai pensieri oscuri che chiaramente la affliggevano e ammirarlo la aiutò a rilassarsi. I riccioli color miele del giovane uomo gli cadevano sulla fronte alta e spaziosa, il naso perfetto, quasi quanto quello del signore anziano, era collocato nel mezzo di un bellissimo volto. Un angelo! Indossava una maglietta di cotone celeste e un paio di jeans tenuti su da una cintura di cuoio che aveva una fibbia particolare, una fibbia con lo stesso stemma dell’adesivo sulla valigia. Calzava scarpe di tela bianche marca Converse, quelle con le stelline, e un paio di calze celesti come la maglietta e i suoi occhi. Poteva avere trenta anni suppergiù. Le labbra della donna si dischiusero in un lieve sorriso che nessuno notò.

La vecchia nonna e la nipote. Alle ore diciannove e quarantacinque minuti, anche se la giornata si incamminava verso il crepuscolo, i raggi del solleone erano ancora prepotenti e penetravano attraverso i vetri resi opachi dal fumo e dalla polvere delle quattro alte finestre che davano luce alla sala d’attesa. Sfavillando attraversavano di sbieco tutta la sala tranciando gambe e braccia e volti, creando una visione terribile e affascinante dei presenti che, immobili com’erano, tutti apparivano in quel gioco di luci e ombre come morti.


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Questa l’immagine che impressionò le pupille della vecchia nonna quando attraversò l’uscio della sala d’attesa, il suo respiro si fermò per un istante e i suoi occhietti acquosi inorridirono. Era come entrare in un dipinto di Salvator Rosa. Si passò il fazzoletto di candido lino ricamato sugli occhi per asciugare le lacrime che autonomamente sgorgavano dalle sacche lacrimali oramai incapaci di trattenere il liquido, incontinenti come la sua vescica dopotutto e barcollò cercando la mano della nipote che la accompagnava. Ad una rapida occhiata la donna che le era affianco appariva come una ragazzina, una quindicenne, ma con una guardata più attenta si potevano notare le rughe che coronavano i suoi occhi grigi e le pieghe sulle labbra, evidente segno del vizio cronico dei fumatori. La vecchia nonna si aggrappò al braccio della nipote e si lasciò condurre attraverso quella stanza ostile ciabattando frettolosa e nervosa. Trasportava settantacinque anni sulle sue spalle di vecchia che non erano poi tantissimi, ma in quel momento e in quel luogo gli parvero un fardello troppo pesante. La nipote mostrò irritazione per il suo comportamento e la strascinò come se fosse un fantoccio fino alla fila dei sedili dove era seduto l’uomo anziano. La fece sedere sgarbatamente provocando sommessi borbottii da parte dell’uomo anziano che stava osservando la scena con sguardo attento e scrutatore. - Incredibile! Davvero una indecenza…La nipote però lo fulminò con una occhiataccia penetrante e i suoi iridi grigio metallo freddi e sprezzanti lo colpirono come una lama affilata costringendolo a ritrarsi. L’uomo perplesso abbassò gli occhi sul libro tossicchiando nervosamente. La vecchia nonna, da vera signora, sedeva compita sulla punta della sedia, con la schiena diritta come una scolaretta osservò scrupolosamente tutti i presenti che invece non la degnarono di uno sguardo. Era agitata e ansiosa e probabilmente non abituata a viaggiare in treno o su qualsiasi mezzo pubblico. Aveva una borsa nera di pelle di coccodrillo con i manici in metallo dorato, un tailleur grigio di filato pregiato e una camicetta bianca. Tutta la sua persona esprimeva gentilezza e signorilità all'opposto della nipote che era irritabile e grossolana, quasi mascolina nei modi e nel vestire. Era una donna non giovanissima, probabilmente aveva superato la trentina, ma vestiva come una ragazzina, anzi un ragazzino. Era alta e slanciata, con capelli corti di un colore disomogeneo tra il castano e il biondo, un viso non brutto ma squadrato e duro ed aveva un corpo indefinito, ancora acerbo quasi adolescenziale. Indossava una polo di colore blu con abbottonatura maschile, un pantalone grigio largo di un paio di taglie più abbondanti della sua con un numero infinito di tasche, tenuto


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su da un cinturone di cuoio nero. Ai piedi calzava sandali di tela maschili. Non aveva vezzi di nessun genere a ornarla solo un grosso orologio da polso in metallo e un anello di plastica colorata al dito medio sinistro. Portava una tracolla di tela nera, vecchia e logora e trascinava un borsone da viaggio di pelle nera indubbiamente della vecchia nonna, troppo raffinato per lei. Erano una strana coppia, nonna e nipote di certo poiché la più giovane aveva chiamato la più vecchia con il termine di nonna, anche se non la trattava proprio come una nipote tratta una nonna. Chissà erano entrambe nervose, ognuna a modo suo, di quella sosta in una sala d’attesa, di un viaggio in treno in una cocente giornata d’agosto. La vecchia nonna avendo la cara nipote vicino sembrò tranquillizzarsi e dopo un po’ cominciò a sonnecchiare, ciondolando il capo instabile, la nipote più infastidita che mai, sedette con le gambe incrociate e le braccia conserte, espirando rumorosamente irritata. Era più arrabbiata che nervosa, come se non volesse essere lì in quel momento, come se costretta a fare qualcosa che non voleva. Poi i suoi occhi di ghiaccio incrociarono quelli nocciola della ragazza seduta proprio di fronte a lei, si mordicchiò le labbra sottili e sbiancate e accennò un lieve, impercettibile movimento della testa. Un irrilevante movimento da destra verso sinistra. La ragazza abbozzò un sorrisetto ironico, lanciò lo sguardo attorno agli astanti e poi lo abbassò sul suo giornaletto, indifferente. Nessun altro aveva visto. Tutti i presenti ora, comprese la vecchia nonna e la nipote, erano immobili immersi nei chiaroscuri terrifici della sala d’attesa, come animali imbalsamati, come morti.

Un anno prima. È deceduta serenamente tra le mura della sua antica casa Camilla de Bernardi in Casavola alla veneranda età di centodue anni. Una lunga vita vissuta tra agi e sfarzi, feste e banchetti. Gioie e dolori, dolori soprattutto. Camilla visse gli ultimi ventidue anni grazie ad un dono divino. Sarebbe dovuta morire ventidue anni prima all’età di ottantadue anni, la morte arrivò una sera d’estate e bussò alla sua porta, con discrezione senza abuso e confusione. Camilla era pronta, lei voleva seguire quella signora buona e gentile che finalmente veniva a sollevarla dal peso di una vita lunga e dolente, ma come poteva andarsene così egoisticamente e lasciare la sua amata Beatrice in balìa di se stessa, sola là fuori in un mondo ostile e sconosciuto. Così avvenne il miracolo, le fu fatto un dono, il tempo ancora. Il tempo per aggiustare le cose, per ritrovarla, per aiutarla. Camilla investì


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il tempo posseduto nella ricerca di Beatrice. Ingaggiò investigatori privati, allarmò forze dell’ordine di ogni rango e stirpe, polizia, carabinieri, finanzieri, ma non c’è ritrovamento alcuno se chi si cerca non esiste più. E Beatrice non esisteva. Non era morta, semplicemente non esisteva più. Era entrata in una dimensione parallela imboccando le vie dell’isolamento e del non essere, le vie di un micromondo invisibile e oscurato dalle luci del mondo reale, le vie di un cosmo in cui gli uomini si trasformano in chimere orride o meravigliose e comunque illusorie. Chi entra a far parte di questo mondo acquista poteri sovrannaturali, un supereroe con i doni della invisibilità e della ubiquità, del trasformismo e della onniscienza e acquisisce la forza del fuoco fatuo divenendo effimero inconsistente e inafferrabile. Così Beatrice non fu mai ritrovata. Quando la signora morì lasciò un testamento i cui sigilli furono rotti in presenza di testimoni e che fu letto ai suoi congiunti da un notaio, vecchio amico di famiglia che tutto sapeva della vicenda di Beatrice. Su Camilla aleggiava una leggenda, di lei si diceva essere molto ricca, ma nessuno sapeva davvero quanto lo fosse. I suoi stessi figli non avevano conoscenza del concreto patrimonio della loro madre e, seppure si era mostrata sempre generosa con loro, rassicurandogli una vita più che decorosa, mai era stata di manica tanto larga da far pensare ad un tesoro di inestimabile valore nascosto. Certo c’era la villa sul lago, dove l’anziana nobildonna si era oramai ritirata da anni, una villa ottocentesca di tre piani di quattrocento metri quadri a piano con un giardino di tre ettari, che già da sola valeva una fortuna senza contare tutti i mobili antichi, i pregiati arazzi e le splendide argenterie. C’era poi il palazzotto in città, un antico palazzo con annessa cappella di famiglia oramai disabitato e abbandonato, ma che valeva una fortuna specialmente per la posizione che occupava al crocevia di due corsi principali. Avevano avuto già alcune proposte da grosse aziende commerciali. Poi sapevano della tenuta di campagna, ma nessuno di loro era a conoscenza della concreta estensione in superficie dei terreni oramai incolti e abbandonati. Il notaio lesse il testamento con la lentezza e la precisione dell’uomo di legge, scandendo ogni sillaba e rispettando tutte le punteggiature. La signora Camilla de Bernardi in Casavola possedeva oltre alle già citate proprietà dove la tenuta in campagna comprendeva una villa di due piani di trecento metri quadri, quaranta ettari di terreni più un boschetto di trenta ettari, anche un intero condominio con dodici appartamenti alla periferia della città, una decina di locali commerciali sparsi un po’ ovunque e, cosa già risaputa, una infinità di gioielli, diamanti, zaffiri, rubini il cui valore non si sapeva di preciso a quanto ammontava. La volontà della signora era una sola.


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Ella aveva speso gli ultimi venticinque anni della sua vita alla ricerca di Beatrice e voleva che i suoi amati congiunti, dopo la sua dipartita, continuassero la ricerca della amata figliola, che non la dimenticassero e a tal scopo, il testamento era chiaro, tutto, ma proprio tutto il patrimonio restava congelato fino al ritrovamento della cara Beatrice. I presenti avviliti protestarono fortemente, in fondo se Beatrice era andata via, scappata, erano problemi suoi. Dopo venticinque anni poteva anche essere morta chissà dove e mai e poi mai l’avrebbero ritrovata dato che non c’erano riusciti investigatori, polizia e carabinieri come potevano riuscirci loro. Il notaio, pazientemente cercò di calmare gli animi, che almeno ci provassero a ritrovarla, viva o morta! Viva o morta! Camilla aveva partorito tre figli, due femmine e un maschio. Aveva un marito bello e importante, ricco industriale che aveva fatto con lei un matrimonio di interesse, poiché era l’unica erede di una nobile famiglia, ma che tutto sommato era riuscito anche a volerle bene, ricambiato con il tempo. Tre figli belli e sani, fino a quella estate maledetta. L’estate in cui la figlia maggiore, la diletta figlia maggiore si ammalò. Il male nero, quello incurabile, quello che arriva di soppiatto e ti prende piano piano. La figlia maggiore di Camilla si ammalò ed era incinta. Gli ultimi tre mesi di gravidanza, che ormai era clinicamente morta, la tennero in vita artificialmente collegata con centinaia di tubi a macchine speciali. Camilla era lì, notte e giorno ad assistere impotente come quella figlia adorata oramai esanime lottasse per dare la vita alla sua creatura. Tempo prima, quando ancora respirava da sola, le confidò che la bambina che portava in grembo sarebbe stata speciale, che avrebbe fatto cose meravigliose nella sua vita. Chissà, pensò Camilla, che non fosse vero, e lei stessa se ne convinse, soprattutto dopo averla presa tra le braccia, ancora sporca del sangue e della placenta della madre. Poi la figlia maggiore fu tumulata, finalmente, e quella bambina cresciuta in un ventre morto, la soppiantò completamente. Beatrice la chiamò. Beatrice, ispiratrice di sentimenti elevati, ma il fato avverso già al concepimento non le fu mai favorevole. Beatrice era diversa. Non sofferente o menomata o malinconica, bensì il contrario. Disparata dalla famiglia, unica, e per questo sempre sola. Beatrice era un anima candida, allegra, schietta e innocente, nulla a che vedere con i dispotici zii, la sorella e il fratello della mamma e con i loro mostruosi figli, detentori di malvagi sentimenti come l’odio, l’invidia e il disprezzo. Camilla protesse e custodì la fanciulla come fosse un prolungamento di se stessa con tutto l’amore che il suo cuore era in grado di produrre, negandolo agli altri anzi allontanandoli e rifiutandoli e alimentando il loro


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risentimento per quella strana creatura imprevedibile e fiabesca. Beatrice trascorse la sua infanzia e la sua giovinezza tra le luci e le risate delle feste danzanti e dei banchetti, gli sfarzi e il lusso dei teatri e dei concerti e tra le ombre che la rincorrevano nell’immenso giardino sul lago, ombre cattive e insidiose, ombre violente e vive. Compiva sedici anni il giorno che andò via. Se ne andò portandosi via una cartolina illustrata, una foto della mamma morta, un diario, il libro delle fiabe, una palla magica, un maglione e una gonna, tutto in un vecchio zaino militare, lo zaino che aveva trovato in soffitta, quello del nonno alpino. Venticinque anni prima. Bisognava trovarla, viva o morta. Ma come? Dove? Gli antichi rancori rifiorirono più forti e più arzilli che mai. La maledizione a nome Beatrice, come una condanna, incombeva ancora forte su di loro.

Un mese prima. Lunedì quattro luglio, ore venti. La stazione era quasi deserta. Il bigliettaio sonnecchiava sotto le pale del ventilatore a soffitto, il giornalaio stava chiudendo la prima saracinesca del chiosco, un poliziotto ferroviario si stava fumando una sigaretta sull’uscio della porta a vetri. Un uomo piacente, elegantemente vestito con un pantalone beige e una camicia candida, varcò con i suoi morbidi mocassini di pelle la soglia di marmo e con passo sicuro si diresse alla edicola. Era alto, scuro di carnagione, brizzolato, affascinante, ma ciò che colpì il giornalaio fu il suo sorriso e il suo accento asiatico. Era di passaggio in questo paese diretto ai lidi del Gargano con la sua bella moglie, il suo cane e la sua automobile sportiva. Chiese una cartina del luogo e comprò un giornale inglese, ringraziò l’edicolante e si diresse alla porta a vetri che si aprì magicamente davanti a lui. Incrociò sulla soglia una mendicante, avvolta malgrado la calura estiva, in una grande quantità di stracci variopinti. Trascinava un enorme zaino militare con una mano e reggeva una bottiglia di vino con l’altra. Lei gli sorrise aprendo serenamente la sua bocca sdentata e si andò a posizionare al suo angolino. Il poliziotto le si avvicinò offrendole una sigaretta che lei prese tra le dita gialle e tremanti. - Come è andata oggi… Julia, vero?Lei inspirò una boccata di fumo e sorrise tossicchiando, accennando assensi con la testa. Poi la voce, roca e spezzata dall’alcol uscì dalla sua gola e arrivò all’orecchio dell’affascinante uomo che, perplesso e incuriosito dalla stracciona, si era soffermato sulla porta.


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- Bene, è andata come è andata. E a te come è andata capitano, mio capitano?L’uomo affascinante con la carnagione scura e l’accento asiatico allora si fermò e fingendosi interessato ai libri nell’espositore del chiosco si avvicinò più che poté alla barbona per osservarla attentamente e discorrendo con il giornalaio seppe ciò che voleva sapere. La donna non aveva inflessioni e parlava un perfetto italiano, aveva uno zaino militare da cui non si separava mai e a volte giocava con una palla di gomma colorata, una palla magica.

Il delitto. Mercoledì, undici agosto, sera. Erano le ore venti e diciotto quando Agostina varcò l’uscio di granito rosso della porta a vetri della stazione. Come tutte le sere trascinava affannosamente il sacco di tela militare stracolmo di stracci e robaccia, la sua casa. Salutò tutti i presenti con il suo largo sorriso e con gli occhi lucidi di gioia di una bambina che ritorna a casa e dopo una lunga giornata rivede i suoi cari. Raggiunse il suo angolino, sistemò le sue masserizie e si sedette stanca ma soddisfatta. Aprì il suo zaino e vi si immerse per qualche minuto, poi ricomparve con un berretto arancione sulla testa, omaggio di un esercizio commerciale, un lecca-lecca in bocca a rovinarle gli ultimi denti rimasti, e la bottiglia del vino. Una ciucciata, una sorsata e un sorriso. Appagata come non mai Agostina appoggiò le spalle gracili al muro e distese le gambe, confortata dal benevolo luogo in cui era. Ignara della imminente sorte che tenace e imperterrita l’aveva raggiunta, stanata, riconosciuta anche sotto strati di sporcizia, di logore pezze e di degradazione corporea tale da avvilire una qualsiasi donna. La sorte non è ingannabile, non per sempre, anzi è lei la doppiogiochista per eccellenza. Si traveste, si mimetizza, si trasforma e ti illude, ti imbroglia e ti agguanta. Non ci sono superpoteri che resistano alla sorte. Alle ventuno il giornalaio chiuse il chiosco e uscì salutando i presenti, il poliziotto si ritirò nel suo gabbiotto a sonnecchiare davanti al televisore sfriggente rinfrescato dal climatizzatore, il bigliettaio abbassò lo sportellino di vetro trasparente e se ne andò a casa. Sulla banchina esterna il ferroviere gentile, che faceva il turno di notte, chiuse il marchingegno che faceva scorrere l’acqua e spense le luci della fontana, poi se ne tornò


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nel suo ufficio. Il barista restò sdraiato sulla sua poltrona di vimini a dormire. L’ultimo treno rapido aveva appena transitato e il prossimo non arrivava prima di due ore e non c’erano treni che facevano fermate fino alle ore ventitre e trenta, quando arrivava il locale dal Gargano. A quell’ora, in quel periodo, in quella stazione solitamente non c’erano avventori per cui nessuno si rese conto che la sala d’attesa era inspiegabilmente troppo piena! Alle ore ventuno e dieci minuti gli ospiti della sala, fino ad allora immobili nelle loro faccende, con gli occhi esaltati si cercarono l’un l’altro e senza proferire parola, uno alla volta, diedero via ad una raccapricciante processione. La prima a estrarre la bottiglia del vino dalla sua borsa di similpelle beige che teneva sotto il sedile fu la ragazza che dimostrò sangue freddo e determinazione. Si alzò e con passo deciso si incamminò lungo il corridoio percorrendo il centinaio di metri fino al chiosco, dietro cui era l’angolino della poverella. Agostina, già stordita, la guardò sorpresa non riconoscendo quel volto lungo e sottile, ma le sorrise generosamente ed ingenuamente alla vista della bottiglia. La ragazza ricambiò il sorriso con una smorfia beffarda e senza parlare la invitò a bere porgendole il vino che Agostina scolò in pochi minuti. Poi le voltò le spalle e tornò tranquilla al suo posto. Toccava agli altri, l’uomo giovane, con mano tremante aprì la sua borsa con lo stemma, prese la bottiglia e uscì dalla sala. Il suo passo era leggero ma il suo bel viso era contratto in una smorfia irrequieta, porse la bottiglia alla mendicante senza guardarla negli occhi, senza accorgersi che lei gli sorrise magari pensando che un angelo vero era sceso in terra ad assisterla. Ritornò al suo posto il più in fretta possibile, trattenendo il respiro e il vomito. Incrociò lo sguardo della donna che percepì preoccupato dietro gli occhiali scuri e si lasciò cadere esausto sul sedile. L’uomo affascinante prelevò dalla sua bella valigia di pelle marrone una bottiglia di vino e la porse alla donna che, tremante ed esitante, la prese fiaccamente e per poco non la fece cadere. Si avviò con passo incerto spinto più dagli sguardi degli altri che dalla sua volontà e uscì lungo il corridoio. Agostina era già ubriaca, ma non tanto da rifiutare la bottiglia del vino che quella elegante e avvenente signora le offrì. Lo sguardo di Agostina annacquato dal vino e velato dai fumi dello stordimento, vide solo una mano ornata di diamante che le porgeva il vino, il nettare della sua salvezza. Fu la volta della nipote che non voleva decidersi ad alzarsi. Schiuse più volte le sue aride labbra livide per la tensione e per l’orrore del gesto che stavano commettendo, ma non emise alcun suono. La nonna amorevolmente le strinse una mano fredda e intirizzita tra le sue per incoraggiarla a fare ciò che erano venuti a fare, ne avevano parlato tanto a


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lungo oramai. La nipote si alzò ingoiando saliva amara, prese la bottiglia dalla borsa di pelle nera, uscì incerta e confusa e raggiunse Agostina che giaceva riversa sul suo letto di cenci. Malgrado fosse già piena Agostina afferrò la bottiglia e bevve ancora, ridendo e piangendo insieme e biascicando parole incomprensibili. La durezza dello sguardo di ghiaccio della nipote di fronte a tale visione si liquefece, la aiutò a mettersi seduta e poi sconvolta si allontanò velocemente. Fu la volta dell’uomo anziano. Tolse le spille da balia che chiudevano la borsa di tela marcia, estrasse la bottiglia e borbottando e ansimando sollevò il suo corpo lardoso dal sedile. Si avviò lungo il corridoio pestando rumorosamente le maioliche, arrivò al mucchietto di stracci tra cui c’era Agostina completamente stordita ed ubriaca marcia e le si accoccolò di fronte sforzando le sue gambe vecchie a piegarsi. Agostina aprì gli occhi velati e quasi accecati dallo spirito di vino, ed incrociò gli occhi dell’uomo anziano, quegli occhi. Gli occhi pungenti e malvagi delle ombre del giardino del lago, gli occhi dello zio. Lo riconobbe e lo ritrovò tra le lacune del suo cervello annebbiato, in un posto remoto e nascosto, sotto strati di facce, di voci e di memorie. Sbarrò i suoi occhi e poi li riaprì sperando fosse solo uno dei suoi brutti incubi, ma quella testa tonda anche se vecchia e calva era ancora lì. L’uomo anziano scoperto si allarmò, si alzò il più in fretta che poté e, senza darle il vino, tornò nella sala d’attesa. - Mi ha riconosciuto!Affermò con un filo di voce sottile e perfida. Anche se completamente sbronza Agostina lo aveva riconosciuto, bisognava fare qualcosa poiché non era garantito che il vino, anche se tanto, l’avrebbe uccisa data la resistenza della stracciona. Decisamente un negativo piano, un fallimentare piano! Chi lo aveva ideato? Lui? Tu? Voi? Tutti insieme definirono quel proposito, dopo che l’uomo affascinante, secondo marito della donna avvenente, madre dell’uomo giovane e figlia dell’uomo anziano, aveva riconosciuto nella stracciona Beatrice. Tutti insieme furono d’accordo a eliminarla, tanto dopo venticinque anni era come morta, e non doveva essere impresa difficile, bastava farla bere, darle tanto vino da farle scoppiare il fegato. Ora bisognava cambiare il piano, seduta stante. La pezzente poteva anche chiamare il poliziotto o cos’altro! Agostina non si reggeva in piedi, era stravaccata sul suo letto cimicioso e piangeva silenziosamente di sbornia e di paura. La accerchiarono indisturbati, nell’androne della stazione non c’era nessuno. La vecchia nonna, sorella dell’uomo anziano e nonna della nipote e della ragazza, la guardò con disgusto e con odio come si guarda uno sporco insetto, le si avvicinò il più possibile per verificare che fosse proprio lei,


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Maria Adele Popolo

Beatrice. Riconobbe i suoi tratti gentili anche se stravolti dalla indigenza e identificandola sentenziò la sua sorte. Agostina fu trasportata nel gabinetto dall’uomo affascinante e dall’uomo giovane, mentre gli altri provvidero a rastrellare le sue cose e le bottiglie del vino infilando tutto nello zaino militare, poi raggiunsero gli altri. Nel gabinetto, lì sul pavimento, come un animale qualcuno di loro o tutti insieme, strinse con una cintura di pelle l’esile collo di Agostina, inerte e inerme, arresa al destino, e la soffocò.


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