Il bambino del mai

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DESCRIZIONE: Il grande viaggio che Frederik Jonson farà nel Regno celeste gli schiuderà la via sull’origine e la verità della sua vita. Max Cottica (InduRancE) ha realizzato la colonna sonora di questo romanzo, che vede la partecipazione straordinaria di 6 cantanti e un violinista. Trovate tutte le informazioni all'interno del libro.

L'AUTORE: Federico Romano è scrittore di poesie, racconti, romanzi e ideatore dei progetti "Lettere da Antartica" e "Visions". Scambia i tuoi libri Leggi gratuitamente i nostri libri Pubblica un libro Pubblica un racconto Concorso "Il Club dei Lettori" Guarda TeleNarro Crea il tuo Social Network personale Gioca con la Banda del BookO (che si legge BUCO)

Titolo: Il bambino del mai Autore: Federico Romano Editore: 0111edizioni Collana: Gli Inediti Pagine: 108 Prezzo: 12,00 euro

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Federico Romano

IL BAMBINO DEL MAI

www.0111edizioni.com


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IL BAMBINO DEL MAI 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright Š 2009 Federico Romano ISBN 978-88-6307-225-9 Finito di stampare nel mese di Ottobre 2009 da Digital Print Segrate - Milano


Introduzione di Federico Romano

Sono passati due anni dalla pubblicazione del mio romanzo "Lettere da Antartica". Due anni intensi e pieni di soddisfazioni nei quali mi sono occupato dell' organizzazione del tour di presentazione del libro e della colonna sonora (piu' di 40 date in tutta Italia), della realizzazione del book trailer, di due video-clip per due canzoni della colonna sonora del mio romanzo (mandati in onda su Sky Tv) e della realizzazione del mio progetto di video arte multimediale "Visions" che ha coinvolto piu' di cento fotografi da tutte le parti del mondo seguito da un tour (25 date) che ha toccato anche Parigi e San Pietroburgo. Tra un evento e l' altro la mia mente macinava, la mia mente immaginava, la mia mente scriveva quello che in pochissimo tempo è diventato il sequel di "Lettere da Antartica" intitolato "Il Bambino del Mai", romanzo nato dalle mie paure, dal mio dolore e dalla necessità di trovare una risposta alle innumerevoli domande che affollano la mia mente. Una ricerca ahime’ vana perche' la vita purtroppo nasconde sempre la verità. Il tema di fondo del romanzo è autobiografico anche se sono presenti numerosi elementi legati al mondo della fantasia. L' eternità, per esempio, mi è sempre piaciuto immaginarla come luogo di salvezza, come luogo dove ognuno di noi ritrova se’ stesso e come punto di partenza per una nuova vita. Sono un sognatore, un romantico, un visionario catapultato in una realtà che non gli appartiene per niente, me ne accorgo osservando ogni giorno questo mondo che lentamente si autodistrugge. E nessuno se ne accorge. Vivo sperando molto presto di abbracciare l' eternità perche' credetemi non esiste dolore piu' acuto e tremendo dell' abbandono. "Il Bambino del Mai" racconta la mia vita, la mia storia, la mia verità. Il romanzo e' accompagnato dalla splendida musica di Max Cottica (InduRancE) che ha incominciato la sua carriera come cantante degli Henker, per poi collaborare con gli innovativi Mad Poltergeist e concludere la sua "carriera" con gli Expiatoria . Max Cottica non si e' fermato ad incidere demo, dischi e suonare in vari concerti, ma si e' ritrovato come organizzatore di tante serate, come editore delle sue fanzines (SBM e Shout), come collaboratore ed editore con Edizioni Leti su HM e Metal Hammer ed infine come DJ nel programma radiofonico


Heavy Mass che ha portato avanti per 4 anni consecutivi. Nel 2004 ha creato il suo solo project InduRancE e ha prodotto un demo dal titolo "Walking in the Polyedric Park". Nel 2005 ha pubblicato il suo primo full lenght dal titolo "Odissea" un concept basato sulle sue esperienze personali. Grazie a qualche buon commento ha poi preso coraggio e scritto "Miseria" un altro concept basato su visioni personali pertinenti la guerra.Nel 2007 ha creato la colonna sonora per il mio romanzo"Lettere da Antartica" e ha pubblicato il singolo"Ti amerò per sempre".Nel 2008 ha pubblicato il suo quarto album "Soundtrack to apocalypse" che contiene i brani che negli ultimi 3 anni non avrebbero potuto far parte delle sonorita' piu' melodiche dei precedenti progetti con InduRancE, essendo songs piu crude e graffianti.Nel 2009 ha realizzato la colonna sonora e il sito ufficiale del mio progetto di video arte"Visions". Per quanto riguarda la colonna sonora di questo mio nuovo romanzo"Il Bambino del Mai" ,Max Cottica ha realizzato 11 canzoni,un mix di ambient/emotional/classic music che vede la partecipazione straordinaria di 6 cantanti e un violinista scelti personalmente da me.Questa la tracklist: 1)"The Beginning of Nothing" (strumentale) 2)"Requiem for Eternity" testo e voce di Sol Skugga. Cantante,musicista,produttrice,art director svedese, già presente nella colonna sonora di "Visions" con all' attivo 3 album. La sua voce in America è stata paragonata a quella di Tori Amos e Kate Bush. 3)"Save Me" testo e voci di Lilium e KLOdE. Lilium , già presente nella colonna sonora di "Lettere da Antartica",da due anni cantante dei Revglow progetto sperimentale elettroacustico."Liquid pearls"si intitola il loro cd d'esordio per Artesuono Produzioni Musicali.KLOdE, cantante e musicista italiano di indubbio talento, ha una voce particolare,originale e profondamente soul. 4)"Reflections" (strumentale) 5)"Are you Ready?" testo e voce di Romina Salvadori, cantante italiana con un background di esperienza notevolissima: prima cantante degli Antinomia, poi dei mitici estAsia (10,000 copie vendute del loro cd"Stasi"nel 1997 per la Polydor/I Dischi Del Mulo)e poi dei RAN ,band di trip pop/alternativo,con la quale ha realizzato nel 2006 il cd"Ran"per la Decadence Records distribuito in Europa e in America. Ha inoltre realizzato due colonne sonore per i cortometraggi realizzati da Tiberio Greco:"Non posso cambiare"e"Il cuore degli oggetti". Da segnalare la sua partecipazione come cantante nei cd dei La Crus, Alessandro Grazian e Ductia per citarne alcuni.


Attualmente sta preparando la colonna sonora per lo spettacolo"4"della compagnia di danza RBR di Verona e sta lavorando al suo disco da solista. Fulvio A.T.Renzi è il violinista presente nella canzone.Suona dall' età di 7 anni ed è anche compositore ed interprete.Ha collaborato con tantissimi artisti tra cui: Ornella Vanoni,Casino Royale,Dario Fo,Roberto Marchio',Gabriele Salvatores,Mauro Pagani,Richard Stephen Lee,Daniele Caldarini ,Federico Sanesi,Franco d'Auria e Sursum Corda. 6)"Chasing Divine" testo e voce di Lilium. 7)"Words and Knives" testo e voce di KLOdE. 8)"Legend of Never" testo e voce di Viola Roccagli cantante dei All My Faith Lost, gruppo gothic/acustico italiano con diversi album all' attivo molto conosciuti sia in Italia che all' estero. 9)"The Taste of Rain" testo e voce di Lilium. 10)The End of Everything" (strumentale) 11)"Shiver and Weep" testo e voce di Eleonora Passaseo cantante dei Garnet, gruppo italiano di Rock/Rap/Pop con all' attivo un' intensissima attività live che li ha portati a suonare da supporto a :DjAx, Gemelli Diversi, Rezophonic e Persiana Jones.Il loro cd d'esordio uscirà entro la fine dell' anno. La colonna sonora è ascoltabile sul sito ufficiale del romanzo: http://www.antartica.name La copertina del libro,del cd e le foto al suo interno sono state realizzate da Sabrina Caramanico,giovane fotografa italiana di indubbio talento: -2007 vincitrice del concorsi fotografico‘Quattro per una’ per giovani Under29: primo premio sezione bn. - 2008 le sue foto vengono pubblicate su GQ - 2009 partecipa al mio progetto di video arte multimediale"Visions" e alcune sue foto vengono pubblicate sul mensile:Il Fotografo - pubblicazione delle sue fotografie agli Extrema, gruppo thrash metal italiano,sulle riviste musicali:Rock Hard,Rock Sound e Metal Hammer . Grazie infinite a: Chiara(my angel/my love),Max Cottica,Lilium,KLOdE,Sol Skugga,Eleonora Passaseo,Viola Roccagli,Romina Salvadori,Fulvio Renzi,Luca Artioli,Rosa Cirillo,Alessandra Marfoglia,Daniel Rolli,Sabrina


Caramanico,Lee Radcliffe,Giovanna Carlotto,Sara Furlan,Lucia Cenetiempo,Davide Mori,Max Monet,Sara Ballini,Anita Albergante, Satu Riikonen,Francesca Serra ,Zeitgeist Movement, tutti gli artisti che hanno partecipato a"Visions"e tutti i club/festival che hanno presentato i miei progetti. Federico Romano: http://www.federicoromano.carbonmade.com http://www.myspace.com/romanof InduRancE: http://www.indurance.org http://www.myspace.com/induranceodissea Lilium: http://www.myspace.com/liliumpj http://www.myspace.com/revglow KLOdE: http://www.myspace.com/singingklode Sol Skugga: http://www.solskugga.com http://www.myspace.com/solskugga Eleonora Passaseo: http://www.myspace.com/eleonoravocalist http://www.myspace.com/garnetitalia Viola Roccagli: http://www.allmyfaithlost.com http://www.myspace.com/allmyfaithlost Romina Salvadori: http://www.myspace.com/rominasalvadori Fulvio Renzi: http://www.myspace.com/foolvio Sabrina Caramanico: http://www.sabrinacaramanico.com http://www.myspace.com/sabrinacaramanico


Prefazione di Rosa Cirillo

Il Bambino del Mai, il secondo volume di Federico Romano, è la diretta continuazione del suo romanzo d’esordio Lettere da Antartica, edito nel 2007 da Edizioni Il Melograno. Il grande viaggio che Frederik Jonson farà nel Regno celeste gli schiuderà la via sull’origine e la verità della sua vita. Attraverso una variegata galleria di personaggi – fauna umana di vittime inermi o carnefici, biechi assassini o innocenti, uomini dediti agli eccessi e alle perdizioni o inconsapevoli innocenti – si andrà compiendo una straordinaria epifania di grandezza: la rivelazione del destino di Frederik e il passaggio escatologico da “bambino del mai” a uomo dall’esistenza generosa fino all’eroismo.



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1 Solamente ora che sono giunto alla fine di questo viaggio verso la follia, mi sono accorto di aver vissuto una vita che non era la mia.

Sentii la sua mano stringere la mia sempre più forte, sentii il suo amore e il suo calore invadere il mio cuore. Io e lei, mia madre. Ora, finalmente insieme, camminammo per un sentiero illuminato da stelle cadenti fino a raggiungere il mare. Lei mi raccontò la sua vita e io la mia. Non distolsi mai i miei occhi dal suo volto. Lei, intimidita dalla mia voglia di leggerle l’anima, più di una volta abbassò lo sguardo per cercare di vincere l’emozione. Le sue lacrime illuminarono per un attimo il suo viso prima di essere portate via dal vento. Lei era splendida, era giovanissima, indossava un kimono bianco con rose rosse e viola, aveva i capelli lisci, neri, lunghissimi, occhi a mandorla scuri e profondi come i miei, labbra strette e sottili e nei nello stesso punto in cui li avevo io. Appena l’acqua toccò i miei piedi, una luce intensa illuminò il mio volto; cercai di ripararmi gli occhi con le mani e caddi a terra. In quel momento tornò improvvisamente il buio. Mi rialzai cercando mia madre ma non riuscii a vedere nulla: solo l’oscurità regnava intorno a me. Incominciai a gridare sempre più forte: «Madre, madre», ma intorno a me vi era solo il silenzio. Camminai lentamente cercando di capire dove mi trovassi. Sentii un freddo tremendo addosso, ero completamente nudo. L’aria era fresca, frizzantina, mi ricordava quella che avevo respirato in vita ad Antartica. Ero spaventato, sembravo cieco; per un attimo ebbi la sensazione di impazzire, mi sembrava d’essere caduto in una trappola. Camminai per un po’ senza incontrare ostacoli: tutto sembrava uguale, non c’era nulla di imperfetto, nessuna salita, nessuna discesa, il terreno sembrava perfettamente uniforme. A un tratto mi inginocchiai preso dalla disperazione; mi sentii solo, completamente abbandonato, e poi,


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per un istante, avevo sperato che, almeno nell’eternità, avrei incontrato mia madre e invece nulla… l’eternità pareva un altro inferno, come la vita. L’incontro con lei era stato frutto della mia immaginazione, il mio ultimo sogno prima di morire. Una luce proveniente dall’alto illuminò il mio corpo; mi rialzai e, osservando il terreno bianco, ebbi la certezza che era neve quella su cui stavo camminando. Mi spostai e la luce mi seguì illuminando il cammino. Sentii un rumore forte, acuto, poi silenzio. La luce sparì nuovamente, incominciò a soffiare il vento che mosse i miei capelli dolcemente e io rimasi lì a occhi chiusi a farmi coccolare poi nuovamente il silenzio. Riaprii gli occhi, la luce riapparve e illuminò un oggetto a pochi passi da me. Mi rialzai e corsi a vedere cosa fosse. Era un libro di medie dimensioni, con copertina bianca senza né titolo né nome dell’autore. Lo sfogliai velocemente partendo più o meno dalla metà; le pagine erano completamente bianche. Lo sfogliai, allora, più lentamente e mi guardai attorno cercando di capire come mai si trovasse lì. Iniziai dalla prima pagina e non trovai nulla, nella seconda idem, nella terza, invece, trovai queste parole scritte a mano: Il bambino del mai ha un cuore d’oro e anche se è stato abbandonato, sa amare veramente. Ha lo sguardo innocente di chi si è perso, di chi cerca di sopravvivere al suo dolore facendo finta di niente. Vorrebbe gridare la sua sofferenza ma la sua voce è troppo debole per farsi ascoltare. Vorrebbe farla finita ma nello stesso tempo ha paura. Vorrebbe ricomporre il puzzle del suo passato forse per pura curiosità, per capire da chi ha preso quel viso così particolare che tutti guardano ma che a nessuno piace ma i pezzi sono infiniti


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e sparsi per il mondo dal vento e, comunque, indietro non si deve tornare mai. E allora rassegnato rimane seduto in un angolo buio ad aspettare invano, come te Frederik, la verità per tutta la vita. Parola di Dio. Rilessi più volte quelle parole; una lacrima scese silenziosa solcando il mio volto e cadde sulla pagina ma senza bagnarla. Rimasi sorpreso: la pagina era completamente asciutta. Incredulo passai più volte la mano sinistra per essere certo di non essermi sbagliato ma la pagina era intatta. Mi guardai un attimo attorno per vedere chi poteva aver messo il libro lì. Ero spaventato. “Chi conosce la mia storia? Chi?”, mi chiesi e subito dopo incominciai a gridare: «C’è qualcuno?Aiutatemi vi prego». Chiusi il libro, mi sdraiai per terra e in quel momento non sentii neanche più freddo. La luce si spostò nuovamente su di me poi il raggio di luce si allargò sempre di più, fino a illuminare ciò che avevo alle spalle: ero ad Antartica. Lì, a pochi passi, c’era il mio hotel che avevo costruito con sacrifici enormi. Ripensai alla mia vita e a tutte le persone che avevo amato. Entrai in un vortice di nostalgia e mi avvicinai all’entrata dell’albergo tenendo il libro in mano. Non c’era anima viva e anche l’albergo, visto da fuori, sembrava vuoto, abbandonato. Quando fui a pochi passi dall’entrata, sentii il terreno tremare e caddi a terra. Dal di sotto uscì una lastra di ghiaccio che mi impedì di proseguire. Camminai parallelamente a essa cercando di capire se avesse una fine ma era una lastra di larghezza infinita. Disperato incominciai a gridare: «Voglio tornare a casa, lasciatemi tornare a casa!». Rimasi con il volto attaccato a quel muro di ghiaccio, come un bambino incantato che guarda per la prima volta dal finestrino del treno il mondo, poi mi voltai e la luce si spostò su ciò che prima al buio non avevo notato e che sembrava silente e inesistente: il mare. La luce si alzò fino a farmi intravedere anche il tramonto poi, improvvisamente, vidi la sagoma di una barca avvicinarsi e incominciai a gridare: «Aiutatemi, sono qui, salvatemi vi prego!». Sentii una voce maschile forte ma dolce al tempo stesso:


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«Frederik solo io posso aiutarti. Abbi fiducia in me!». Mi voltai e non vidi nulla. La barca si avvicinò sempre di più: era un gozzo dorato di piccole dimensioni ma mi accorsi che non c’era nessuno sopra. Camminai nell’acqua tenendo il braccio destro alzato per non bagnare il libro e quando la barca fu vicina, ci salii. Era completamente vuota; mi sentii abbastanza al sicuro anche se non c’erano neanche i remi. La barca tornò verso il largo e, improvvisamente, vidi due braccia enormi uscire dal mare e poi il volto, il suo volto, quello di Dio. D’immensa gioia si illuminò il mio volto, ogni paura in quell’attimo scomparve. Abbassai il capo per chiedere perdono e lui accarezzò la mia testa. Le sue mani trasmettevano calore, amore. In quell’attimo provai sensazioni fortissime, mai provate prima. Alzai di nuovo il capo e lo guardai nuovamente negli occhi: quegli occhi colore blu infinito mi entrarono dentro, il suo volto stretto e lungo, quella barba lunghissima, bianca come lo zucchero filato, quei capelli color cenere, quella tunica bianca che copriva il suo corpo, non erano distanti da come l’avevo immaginato e cercato quando ero in vita. Dio era lì per me, non esisteva altro; solo io e lui, solo lui e me. Dio finalmente aveva trovato un attimo per me. Con una mano mi prese, mi guardò negli occhi e disse: «Dante vieni...». Vidi un gruppo di angeli dai capelli dorati scendere dal cielo illuminati da stelle cadenti e poi, subito dopo, una carrozza argentata guidata da due cavalli bianchi senza cocchiere. Un tappeto rosso si stese dai


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gradini della carrozza fino a raggiungere l’esatto punto in cui io e Dio ci trovavamo. Mi voltai verso Antartica e sentii di nuovo riaffiorare la malinconia; avrei voluto piangere ma le lacrime rimasero nel cuore. Dio mi guardò e disse: «Frederik ormai sei solo un ricordo per il mondo terreno… non aver paura, non essere triste, la vita ha un inizio e una fine». «Vorrei solo tornare a casa», risposi con voce soffocata dal dolore. Dio abbassò lo sguardo e soggiunse: «Ciò che ti impedisce di tornare a casa è quella barriera di ghiaccio che delimita il confine tra realtà e eternità» poi schioccò le dita e la porta della carrozza si aprì. Scese dai tre scalini della carrozza un uomo vestito di rosso con un libro enorme in mano, un uomo che aveva il volto familiare, un uomo che non conoscevo di persona ma di cui avevo sentito parlare moltissimo quando ero in vita. Lui si avvicinò a passo lento, felpato. Quando fu a pochi passi da me, fui certo che quell’uomo fosse Dante Alighieri. Rimasi estasiato nel vederlo; uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi era lì, di fronte a me. Il volto lungo, il naso aquilino, gli occhi grossi, le mascelle grandi e il labbro inferiore più avanzato rispetto a quello superiore, i capelli neri e la barba crespa, tutti particolari fisici che andavano a comporre la stessa immagine del poeta restituita dalla ritrattistica storica e che Dante preservava, insieme a quell’aria malinconica e pensosa che l’aveva contraddistinto anche in vita. Allungai una mano per presentarmi ma lui sorridendomi mi disse: «Conosco bene la tua vita, le tue disavventure e il tuo dolore, conosco il tuo amore, la tua generosità, la tua forza e ho pensato e ripensato più volte e mi è difficile decidere in quale luogo eterno portarti. Esiste il male e il bene; il perfetto equilibrio tra queste due forze crea l’essere umano, anche se in vita, poi, il male riesce sempre a vincere perché è più facile odiare per vivere che amare per sopravvivere. Sono giunto per chiedere a Dio – siccome entrambi conosciamo il tuo passato e tutto ciò che manca – di aiutarmi a decidere quale sarà la tua sorte». Dio allora sentenziò: «Per il momento conducilo nella stanza 6 del Paradiso», poi si rivolse a me: «Ci rivedremo tra non molto... ci sono tantissime cose che devi sapere». Abbozzai un sorriso ma non credo che Dio se ne accorse perché in un attimo uscì dall’acqua e scomparve tra le nuvole del cielo.


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Dante mi fece cenno di seguirlo. Camminai sul tappeto rosso che sembrava un ponte sul mare; mi voltai a destra e vidi il tramonto e poi a sinistra un’immagine sempre più sfuocata di Antartica, il luogo dove avevo vissuto e che non avrei più rivisto. Salii sulla carrozza e mi sedetti di fronte a lui. Al nitrire dei cavalli, volammo nel cielo accompagnati dagli angeli che, incuriositi della mia presenza sulla carrozza, si spingevano tra di loro cercando di capire chi fossi. «Non capita mai che un’anima salga su questa carrozza», disse Dante facendo cenno agli angeli di allontanarsi. Le sue parole mi diedero la sensazione di essere un privilegiato, arrossii e cercai di sfuggire al suo sguardo; guardai fuori dalla carrozza e con un cenno salutai Antartica prima di sparire tra le nuvole. Spezzai quel silenzio imbarazzante trovando il coraggio di chiedergli: «Sei davvero tu quel sommo poeta, autore di quello che è ritenuto uno dei capolavori della letteratura di tutti i tempi, la Divina Commedia?». Lui fece un cenno di assenso e poi disse: «Quando il mio cammino terreno si concluse, Dio mi volle al suo fianco per decidere il destino di tutti i comuni mortali. Ho svolto, con giustizia e senza timore, il mio compito, fino a ora, perché tutto ciò che si semina in vita nell’eternità si raccoglie. L’estro immaginifico presente nella Divina Commedia non si discosta molto dalla reale presenza di questi tre mondi: Inferno, Purgatorio e Paradiso e la prima volta che Dio mi condusse in questi luoghi fui colto da una gioia immensa nell’aver dato un’immagine dell’aldilà molto vicina alla verità». Guardai il libro che aveva in mano: sembrava esattamente uguale a quello che avevo trovato io, così, incuriosito, gli chiesi: «Scrivi ancora? Anche qui nell’eternità?». «Scrivo ma non ciò che scrivevo in vita. Devi sapere Frederik che Dio scrive le nostre vite ancora prima della nostra nascita e siccome il male in vita ha sempre il sopravvento sul bene, capita spesso che ciò che Dio ha scritto non combaci con la realtà, così io riscrivo la vita delle persone in base a ciò che hanno veramente vissuto poi, alla fine della loro esistenza terrena, decido dove collocarli nell’eternità. Questo è il libro della tua vita, tutto ciò che hai vissuto, tutto ciò che hai provato in ogni istante della tua vita prima della fine». Fu spontaneo chiedergli se sapesse qualche cosa del libro che avevo trovato e di quei versi che vi erano scritti.


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Prese il libro, incominciò a sfogliarlo con perplessità, lesse i versi poi lo richiuse: «Questo è il tuo libro, il libro che ha scritto Dio della tua vita». «Ma non c’è scritto nulla, a parte quei versi.» «Dio conosce e vede il vostro volto ancora prima che nasciate ed è da lì che decide gli eventi della vostra vita. Capita raramente che non scriva niente perché sente che la persona in questione è talmente bella e ricca d’amore che la lascia vivere con fiducia e intensamente ogni attimo della sua vita, in piena libertà. Coloro che non hanno una vita scritta non hanno bisogno, secondo Dio, di una guida: sapranno camminare con le loro gambe, non necessitano di seguire strade ben precise e delineate, possono affrontare qualsiasi evento e sempre riusciranno a rialzarsi e ad andare avanti. Nel tuo caso Frederik, mi sembra che gli eventi gli abbiano dato ragione.» «Sì, anche se…» «Sì, lo so, a te manca l’inizio che è anche una parte importantissima nella vita di una persona ma, come dicevo prima, se Dio lascia le pagine bianche non può intervenire, basta che il male si impossessi delle persone con le quali entra in contatto e, di conseguenza, cambiano gli eventi della vita.» «Sono, però, pienamente soddisfatto della vita che ho vissuto. Ho incontrato l’amore, ho amato tanta gente, ho realizzato il sogno di Yin, l’Antarctic dream, il bilancio della mia vita è più che positivo e credo che Dio mi abbia dato davvero tanto», conclusi col tono soffocato dall’emozione. Dante annuì e in quel preciso istante la carrozza si fermò; un cielo vaniglia illuminò i nostri volti e due angeli aprirono la porta della carrozza. Scese prima Dante che poi tese la mano per aiutarmi a uscire. I miei piedi si posarono su distese di nuvole bianche, intorno solo il silenzio cadenzato dal rumore delle ali degli angeli che erano disposti a semicerchio di fronte a noi. A un tratto apparve una scala a chiocciola con gradini in vetro color acqua marina e il corrimano con decorazioni baroccheggianti. Dante mi fece cenno di seguirlo e arrivati all’inizio della scalinata, volsi lo sguardo in alto e vidi una montagna fatta di nuvole, un grattacielo senza fine. «È lì che dobbiamo andare, seguimi», disse Dante. Iniziai a salire i gradini incuriosito da ciò che mi si palesava. Arrivato a metà scalinata, Dante mi fece cenno di guardare in basso; mi sporsi aggrappandomi al corrimano e vidi un enorme buco nero in fondo al


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quale vi erano le fiamme del fuoco eterno. «Quello è l’Inferno, Frederik. Chi in vita ha commesso omicidi, ha tradito o ha rubato brucerà lì per l’eternità.» Giungemmo all’ultimo gradino della scala quando, improvvisamente, apparve quel grattacielo senza fine e un giardino immenso dove i bambini giocavano serenamente tra di loro. «Ecco Frederik, siamo giunti.» Mi guardai attorno e mi ritrovai immerso in una folla immensa e compatta di anime che camminavano lentamente, come sospinte da un afflato divino in un’atmosfera di amorosi sensi. I lori occhi brillavano d’amore e in quel momento fui preda della tristezza perché pensai a Jun, a quanto l’amavo e a come soffrissi per la sua mancanza. Osservai attentamente ognuno di loro cercando di vedere se c’era qualcuno che conoscevo ma non riconobbi nessuno. «Vieni Frederik» disse Dante prendendomi per mano. Passammo in mezzo alla folla scortati dagli angeli ed entrammo in quel grattacielo che dal di fuori sembrava un albergo lussuoso. Un corridoio lunghissimo con pareti bianche ci condusse a un ascensore trasparente che era esterno al grattacielo e lo splendido spettacolo di un cielo azzurro fece da sfondo alla nostra ascesa. «Ora vai Frederik. Stanza 6, ricorda!» disse Dante e mi consegnò una chiave di bronzo liscissima e scintillante. Le porte dell’ascensore si aprirono; ne fui fuori ma non riuscii a salutare la mia guida perché l’ascensore si richiuse subito, lasciando il silenzio dietro di me. Mi ritrovai in un corridoio e iniziai a camminare a piccoli passi; una luce tenue illuminò il mio cammino. Mi fermai alla prima porta sulla destra: la numero 1, proseguii, così, fino in fondo al corridoio dove, sul lato sinistro, trovai la mia stanza. Il numero 6 luccicava sulla porta bianca. Mi guardai intorno e inserii lentamente la chiave nella toppa. Entrai richiudendomi subito la porta alle spalle. La stanza era buia, ebbi paura e mi allontanai dalla porta facendo due passi ma, improvvisamente, una luce illuminò quel luogo e vidi una donna girata di spalle davanti alla finestra che guardava fuori come se stesse aspettando qualcuno. Il mio sguardo fece un breve giro della stanza: un lettino in legno e delle fotografie attaccate alle pareti fu ciò che riuscii a scorgere. Attirò la mia attenzione, però, la foto posizionata sopra la testiera del letto; vi era ritratta una donna dallo sguardo triste e


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compassionevole colta nell’atto di tenere tra le braccia un bambino che in realtà non c’era. Rimasi irrigidito mentre una ridda di pensieri affollava la mia mente.Mi avvicinai a quella donna alla finestra: «Forse c’è stato un errore... mi è stata consegnata la chiave di questa stanza»fu tutto ciò che riuscii a dire. Lei si voltò verso di me, aveva il volto scavato dal dolore e dalle lacrime che continuavano a scendere; capii che era lei la donna che avevo visto nella fotografia. Rimase in silenzio un attimo poi, con voce tenue, mi disse balbettando: «Non è stato un errore, io ti aspettavo… è da sempre che ti aspetto». Guardai il suo volto attentamente; i suoi occhi, la sua bocca erano gli stessi della donna che mi aveva preso per mano e portato via dalla vita nell’ultimo sogno. «Tu… tu sei mia madre?» le chiesi tremando dall’emozione. «Sì, sono io la madre che hai tanto desiderato e mai avuto» rispose cercando di asciugarsi le lacrime. In quell’attimo cercai di abbracciarla più forte che potevo ma si rivelò uno sforzo vano. «Frederik ora sei un’anima destinata a vagare per l’eternità. Potrai sempre provare le emozioni di quando eri in vita ma non siamo più corpi, quindi, se provi ad abbracciarmi, in realtà stringerai il nulla. La mia anima vede il tuo corpo e tu il mio ma la verità è che ciò che vediamo sono solo proiezioni del nostro subconscio; l’anima non ha un corpo, sei un fantasma ora figlio mio.» «Ma prima quando mi tenevi per mano io ti sentivo, perché?» «Era solo un sogno figlio mio dovuto al tuo immenso desiderio di avere un contatto con me. Non può esistere un contatto tra un umano e un’anima e nemmeno tra due anime.» «Ma allora l’unico contatto che potevamo avere era in vita e abbiamo perso quest’occasione, perché?» «È una storia lunga figlio mio… ora ho qualcosa da farti vedere che ti riguarda. Guarda la parete sopra il letto.» Improvvisamente apparve uno schermo enorme. «Guarda attentamente» mi ripeté. Nello schermo vidi la mia stanza e io steso sul letto con gli occhi spalancati. Sentii il mio cuore gelare, abbassai lo sguardo e cercai di avvicinarmi a mia madre. Vidi Jun nel letto accanto a me che cercava di baciarmi a occhi


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semichiusi, come faceva ogni mattina prima di svegliarsi completamente. Non se ne accorse subito… ero ancora caldo. La vidi alzarsi, andare in bagno poi ritornare a letto. Un’ora dopo ecco suonare la mia sveglia. La vidi scendere e chiamarmi: «Dai Frederik è ora di alzarti! Andiamo giù a fare colazione. Copriti, stamattina fa particolarmente freddo...». Avvicinatasi alla mia parte del letto, vide i miei occhi incantati a osservare il nulla... «Frederik dai non scherzare!» ripeteva scrollandomi. Accarezzò il mio viso, era freddo… la vidi avvicinare la testa al mio cuore e accorgersi che aveva smesso di battere. Prese il telefono e chiamò la reception. In quel momento, in albergo si stava servendo la prima colazione agli ospiti che in quel periodo erano tantissimi. Joseph, Thomas e Peter erano tutti in sala a servire insieme ai camerieri. Jun riprovò a chiamare altre tre volte prima di riuscire a parlare con qualcuno. Fu Joseph che, servendo ai tavoli più vicini alla reception, sentì il telefono squillare e lo raggiunse di corsa. «Pronto.» «Peter, Frederik è morto» rispose lei scoppiando a piangere. Peter appoggiò la cornetta del telefono e corse in sala da pranzo facendo cenno a Thomas e Joseph di uscire i quali, senza dire una parola, appoggiarono i vassoi e lo raggiunsero. «Cosa succede?» chiesero tutti e due. Peter era scioccato, non sapeva come dirlo, incominciò a tremare riuscì solo a pronunciare: «Frederik…» e svenne. Squillò nuovamente il telefono e Thomas corse a rispondere: «È morto» sussurrò Jun e poi il silenzio. Joseph uscì dall’albergo e andò a chiamare il signor Smith che era così intento a pattinare sul lago di ghiaccio che non si accorse subito di lui. Joseph, per richiamare la sua attenzione, fu costretto, pur non avendo i pattini, a entrare nel lago ghiacciato ma, appena mise un piede dentro, scivolò immediatamente. «Attento Joseph! Lo sai che sul lago ghiacciato non si può entrare senza pattini…» gridò Smith. «Lo so. Ho provato a chiamarla moltissime volte ma non mi ha sentito… ascolti, Frederik è morto…» Joseph non fece in tempo a finire la frase che Smith lo tirò per un braccio ai bordi del lago, lo aiutò a rialzarsi, si tolse i pattini e corse più che poteva verso l’albergo. Joseph era dietro di lui zoppicante e dolorante ma lui non ci fece caso,


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continuò a correre senza voltarsi mai. Entrò nell’albergo e non vide nessuno. C’erano gli ospiti seduti a tavola ma nessun cameriere che li serviva. Prese l’ascensore e salì all’ultimo piano. Appena le porte si aprirono vide tutto il personale dell’albergo fuori dalla mia stanza, erano tutti lì con il volto provato. Ero davvero amato da tutti e vedendo quelle immagini ne ebbi la completa certezza. Smith entrò di corsa nella stanza e vide Peter e Thomas ai bordi del letto che osservavano prostrati Jun e me. Eravamo abbracciati, avvolti dal silenzio. Smith si avvicinò al letto con passo lento, visibilmente provato dalla luttuosa perdita e Thomas gli disse con voce distrutta dal dolore: «Jun si è suicidata, guardi lì sul comodino». Vidi Jun che, dopo aver chiamato alla reception e aver parlato con Joseph, iniziò a frugare nel mobile del bagno in cerca di qualche medicina che la calmasse. Trovò un barattolo di sonniferi che io ogni tanto prendevo quando non riuscivo ad addormentarmi. Lo prese, riempì un bicchiere d’acqua e ingoiò cinque pastiglie poi riempì di nuovo il bicchiere e ne ingoiò altre cinque, infine si sdraiò sul letto e mi abbracciò più forte che poteva. Mi baciò su una guancia e rimase lì ad aspettare che la morte la portasse via con sé. Smith trovò sul comodino il barattolo di pastiglie vuoto, lo scrollò nervosamente e lo gettò contro la parete poi si inginocchiò tenendo le mani sul volto e iniziò a piangere come un disperato, pianse così solo quando morì suo figlio. Thomas e Peter si avvicinarono per consolarlo ma lui fece cenno di allontanarsi: «Preferisco rimanere da solo» farfugliò e corse fuori dalla stanza. In quel preciso istante entrò Joseph che aveva lo sguardo completamente perso nel nulla. Si avvicinò al letto, rimase qualche secondo fermo a osservarci poi ci accarezzò dolcemente prima di appoggiare le sue labbra sulle nostre fronti ormai gelate dalla morte, infine corse ad abbracciare Peter e Thomas. Tre espressioni diverse del dolore dedicate a me e a te Jun, dolce amore mio.


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Il personale dell’albergo rimase fuori dalla stanza fino a quando i tre gemelli non uscirono. Uno a uno si inginocchiarono di fronte al mio letto pregando per me e per Jun; ognuno di loro mi salutò e mi disse grazie. In quel momento implorai mia madre di fermare quell’immagine e sentii la necessità di gridare: «Sto bene, vi amerò per sempre, non vi preoccupate per me». «Non sprecare la tua voce figlio mio, nessun umano potrà mai ascoltarti, sei uno spirito ora, ricorda!» «Ma non esiste veramente un modo per comunicare con gli umani?» le chiesi con tono supplichevole. Mia madre mi rispose di no e cambiò immagine. Esisteva un punto preciso dove venivano gettate le salme, il molo dell’ultimo saluto, che chiamai così quando feci costruire il porto. Si ergeva lungo il muro sinistro del molo, una piccola cappella in cui vi erano custodite tutte le fotografie di chi era passato a miglior vita e qualche fiore appassito appoggiato al pavimento. La chiamai la casa del silenzio per rispettare sia coloro che non c’erano più, sia chi era rimasto a soffrire la perdita dei loro cari. Peter mi prese per le gambe, Thomas mi tirò su per le spalle e Joseph ebbe una crisi di pianto e non fu in grado di aiutare i suoi fratelli. Vidi il mio volto scavato dalla morte e poi il mio corpo lanciato in mare. Peter e Thomas rimasero lì a guardarmi scomparire lentamente. Si avvicinarono alcuni pesci, mi sfiorarono e altri accompagnarono la mia discesa fino a toccare il fondo. Assistevo al triste epilogo della mia vita e, come in un film, le immagini dei miei ultimi istanti scorrevano lente, senza che io potessi intervenire. Vidi un ciondolo brillare tra i resti di vestiti e carcasse umane poste vicino alla mia salma. Il ciondolo doveva essere stato d’oro, mi sembrò familiare. Lo guardai meglio ma a mala pena si distingueva la figura rappresentata: la Madonna. Rimasi in silenzio alcuni secondi poi vidi la scritta che era stata incisa dietro al ciondolo: “Per sempre. Kai Sue”. Era il ciondolo che Yin teneva gelosamente serbato nel cassetto del suo


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armadio e che le misi al collo la mattina della sua morte. Provai una sensazione di tristezza e felicità allo stesso momento; sapere che il mio corpo giaceva vicino a ciò che rimaneva del suo, mi dava una sensazione di protezione ma non dissi nulla a mia madre. Fu lei a dichiarare: «So che amavi questa donna...». Io mi limitai a guardarla, non trovando subito la forza di risponderle. «Non avere paura, dimmi la verità. Lei è stata una buona madre per te.» «Sì, l’ho amata tanto. Ha fatto l’impossibile per me e io, per renderla felice, ho realizzato il suo sogno. Madre, ma come fai a sapere queste cose?» «Conosco tutta la tua vita Frederik. L’ho vista da qui, esattamente nel punto in cui ti trovi. Ho vissuto ogni momento della tua esistenza guardando questo schermo, potendo solo pregare affinché non ti accadesse nulla. Ho aspettato tutta la vita per poterti parlare e incontrare...» L’immagine si soffermò su ciò che rimaneva di due mani, una sopra l’altra, quasi volessero stringersi. «Vedi Frederik quelle sono le mani di Kai Sue e Yin. Quando lei morì e voi la gettaste in mare, appena il suo corpo toccò il fondo, vidi la sua mano raggiungere quella di Kai Sue a simboleggiare l’eternità del loro amore. Ora guarda.» Vidi il corpo di Jun cadere in acqua. Furono Smith e Peter a lanciarlo. Il suo corpo si appoggiò sul fondo vicino al mio, con il volto rivolto verso di me e la sua mano sul mio petto. In quell’istante avrei voluto piangere. «Vuoi sapere dov’è Jun?» «Sì, vorrei averla qui con me. La amo da morire, la vorrei con me per l’eternità.» Lo schermo si spense, il buio ci avvolse, poi si aprì improvvisamente la porta della stanza; una luce fortissima illuminò il mio volto poi, improvvisamente, di nuovo il buio e il silenzio. Sentii un rumore di passi e una luce soffusa lasciò intravedere la presenza di un’ombra. Quell’ombra era Jun. La guardai incantato, incredulo. Lei si avvicinò cercando di abbracciarmi ma non sentì contatto. «Jun, purtroppo, non possiamo avere un contatto fisico… possiamo amarci ascoltando la voce del nostro cuore… non siamo più umani, siamo solo anime, mi capisci?». «Sì, amore mio. L’importante è stare con te. Non importa in quale forma. L’importante è sapere che nessuno qui ci potrà separare.»


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Mia madre si avvicinò a lei, la guardò per alcuni secondi e un sorriso comparve sul suo volto. «Io mi chiamo Wan e sono la madre di Frederik» disse. «Io sono Jun.» «So chi sei. Ti ringrazio per aver reso felice mio figlio in vita, Dio non avrebbe potuto trovare una donna più adatta di te. Sei una donna eccezionale, credimi.» «Ho semplicemente amato suo figlio, ho fatto e farei qualsiasi cosa per lui.» «Lo so, ed è per questo che tu sei qui insieme a lui. Dio vuole che il vostro amore continui e duri in eterno.» Jun si avvicinò a me, era bellissima come quando l’avevo conosciuta. La mia mente ritornò indietro nel tempo, a quel momento in cui eravamo sdraiati sulla neve e a quel bacio innocente che ci eravamo scambiati e a tutto ciò che avevamo passato insieme. «Quando moriamo e la nostra anima si separa dal corpo, Dio sceglie per noi l’immagine migliore, la più bella che avevamo in vita» disse mia madre con voce morbida. «Come mi vedi Frederik?» «Sei una donna bellissima e mostri di avere una trentina d’anni» risposi. «Sì, in effetti Dio ha scelto l’immagine migliore di me. Ne avevo circa trentacinque quando avevo questo aspetto in vita.» «Raccontami cosa è successo? Come mai le nostre vite si sono separate?» «Ho voluto che ci fosse anche Jun prima di farti vedere cosa realmente è accaduto. Non sarò io a raccontartelo perché potrei, essendo trascorso molto tempo, dimenticare qualche particolare. Ora guarda lo schermo.» Jun e io voltammo lo sguardo e lo schermo che rifletteva la nostra immagine diventò scuro poi, improvvisamente, apparve il volto di Dio: «Frederik il tuo viaggio per conoscere la verità è appena incominciato. Wan è ora di andare». Mia madre fece un cenno di assenso e senza dire una parola si diresse verso la porta. «Madre dove vai?» le chiesi. «Figlio mio non temere, forse un giorno ci incontreremo ancora» disse lei con voce dolce. Si voltò un’ultima volta prima di chiudere la porta. Jun si avvicinò a me cercando invano di accarezzarmi e appena la porta si chiuse, ci ritrovammo in una stanza completamente diversa. Non c’erano più le fotografie appese alla parete e al centro della stanza vi era un letto matrimoniale.


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«Non temere, tua madre è tornata nella sua stanza. Ho bisogno che tu veda la sua vita senza farti influenzare da lei. Solo Jun, la donna che hai amato, ti può aiutare e consigliare. Ora guarda attentamente lo schermo. Ciò che vedrai non è altro che la verità. La mia voce ti guiderà per farti capire meglio gli eventi.»


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Vidi due bambine di circa dieci anni correre verso casa, in mezzo a un campo di girasoli. Una era vestita tutta di rosa, l’altra di blu. Erano due gemelle con occhi a mandorla scuri e capelli neri lunghissimi. Vidi un uomo con i capelli brizzolati, occhi stretti e lunghi uscire di casa e correre incontro alle proprie figlie e abbracciarle più che poteva: «Wan, Yin mi siete mancate tantissimo. Venite che vi racconto cosa ho fatto». L’uomo le prese per mano e insieme si sedettero sulla panchina del giardino di casa. Wan e Yin erano affettuosissime nei confronti del proprio padre. «Ma dove sei stato questa volta papà?» «In un posto molto lontano, incontaminato, sono stato ad Antartica» rispose lui sorridendo. La madre delle due bambine non scese in giardino ma rimase a osservarli dalla porta di ingresso. «Patrick puoi venire un attimo?» gli chiese all’improvviso la moglie interrompendo quel felice idillio. «Arrivo subito amore» rispose lui. Accarezzò le sue figlie e le tranquillizzò: «Papà arriva subito». Patrick entrò in casa e camminò lungo il corridoio, fino alla camera da letto. Lei era lì, girata di schiena, pronta. Patrick le sorrise: «Aspetta che chiudo a chiave la porta, altrimenti corriamo il rischio che le bambine entrino… Veronique, amore mio, anche io ho tanta voglia di te». Appena le fu vicino e cercò di baciarla, lei si voltò e sparò due colpi di pistola, uno al petto e l’altro in fronte. Patrick cadde a terra agonizzante. «Dovevo farlo, dovevo farlo!!! Dio abbi pietà di me!!!» gridò mettendosi le mani tra i capelli e piangendo di rabbia e dolore. Le bambine, sentendo gli spari, corsero in casa in preda al panico: «Mamma, papà dove siete?». Wan e Yin guardarono stanza per stanza ma non videro nulla. Corsero


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fino alla camera da letto cercando di aprire la porta. Veronique puntò la pistola alla sua tempia poi implorò agonizzante: «Perdonatemi!». Le due bambine incominciarono a piangere dietro la porta e a gridare: «Mamma, mamma». Poi si sentì un colpo di pistola e poi di nuovo il silenzio. Veronique, trentacinquenne di origine francese, soffriva di continue crisi depressive: avrebbe voluto diventare una ballerina e invece la vita le aveva distrutto il suo sogno. Lei e Patrick si erano conosciuti, poco più che diciannovenni, a una festa di amici in comune. Lui, allora, era un marinaio della marina militare cinese, in licenza, lei era animata di sola passione per la danza e fin da piccola si sottoponeva a duri allenamenti. Riottosa alle uscite e alle feste, una sera si lasciò coinvolgere dall’entusiasmo delle amiche a partecipare a una festa organizzata dai compagni di scuola. Patrick appena la vide si innamorò immediatamente. Rimase a osservarla tutta la serata mentre lei, pur avvertendo l’imbarazzo del suo sguardo, fece finta di niente. Verso fine serata si trovarono vicini al buffet. Lui prese la palla al balzo e incominciò a parlarle. Lei sembrava intimidita ma le piaceva, si vedeva da come lo guardava. Veronique non era mai uscita con un ragazzo, non sapeva come comportarsi. Quando la festa finì, Patrick si offrì di accompagnarla a casa e lei accettò. Durante il tragitto verso casa, lui le raccontò la sua vita, i suoi sogni, le sue speranze. Lei, dapprima, rimase ad ascoltarlo poi gli confessò il suo grande desiderio: «Io vorrei fare la ballerina. Devo assolutamente realizzare questo sogno perché la danza è la mia vita e non mi rispecchio in altro». Lui le si avvicinò, lei rimase immobile a osservare le sue labbra avvicinarsi e la baciò. Fu un bacio appassionato che durò a lungo. «Devo andare... è tardissimo» disse lei trasalendo e scese con impeto dalla macchina. «Veronique aspetta, aspetta!» implorò Patrick cercando di raggiungerla ma lei entrò subito in casa sbattendo la porta. Lui rimase lì, immobile davanti alla porta di casa indeciso sul da farsi. Tornò in macchina e sul sedile vide la borsa di Veronique, la prese e, senza alcuna esitazione, suonò il campanello. Veronique, che era rimasta a osservare dallo spioncino, aprì la porta. «Hai dimenticato questa» disse Patrick porgendole la borsa. «Grazie» rispose lei sorridendo. «Quando potremmo rivederci?» chiese Patrick arrossendo. Lei rimase un attimo in silenzio, sentì il cuore battere a mille, si sentiva confusa,


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era la prima volta che aveva baciato un ragazzo, era la prima volta che aveva conosciuto l’amore e ne aveva paura. «Quando vuoi» disse lei sottovoce e chiuse la porta. Patrick iniziò a saltellare dalla felicità poi corse in macchina e tornò in albergo. Veronique, invece, corse in camera e si buttò sul letto vestita ma non riuscì a dormire. L’amore, questo nuovo sentimento, l’aveva sconvolta. Si toccò le labbra, aveva come la sensazione che le labbra di Patrick fossero ancora appoggiate alle sue. Rimase lì, immobile a osservare il soffitto, a ripensare alla serata appena trascorsa. A un tratto suo padre entrò in camera: «Chi era quel ragazzo?» le chiese con tono duro. «È un amico» rispose lei cercando di nascondere la verità. «Ascoltami Veronique, un amico non si comporta come lui, non raccontare bugie. Non lo devi frequentare» concluse sbattendo la porta. Lei rimase in silenzio cercando di trattenere le lacrime. Stephan, il padre di Veronique, era un quarantenne rimasto solo dopo che la moglie era sparita nel nulla. Una mattina di fine novembre era uscita e non era più tornata. Lui l’aveva cercata ovunque ma di lei nessuna traccia. Monika, sua moglie, era una donna apparentemente felice, serena, innamorata di suo marito e di sua figlia ma un giorno, improvvisamente, aveva deciso di cambiare vita. Era una donna affascinante e Stephan la costringeva a vivere tra le angustie mura di casa per paura che qualcuno gliela potesse portare via. Stephan era un camionista e aveva incontrato Monika, non appena diciottenne, una notte, lungo una strada. Monika era una prostituta e Stephan se ne era innamorato. La tolse dalla strada e la portò a casa, regalandole la speranza di una vita normale, ricoprendola di premure e cercando di non farle mancare nulla. L’amava da morire ma lei stava con Stephan solo per riconoscenza. Lui aveva cercato di renderla felice in qualsiasi maniera ma lei si sentiva soffocata. La sua vita era tutta dentro le mura di casa e tutto si sgretolava nelle pieghe del quotidiano. Una mattina, mentre Stephan era al lavoro, si guardò nuda davanti allo specchio del bagno, assumendo pose provocanti: si ritrovò affascinante e iniziò a truccarsi. Un rossetto viola, l’eye-liner giallo, il mascara blu, un perizoma, una minigonna e un body nero sfacciatamente stretto, il suo seno prosperoso; si guardò nuovamente allo specchio e si sentì la donna perfetta, predatoria. Prese il rossetto e scrisse sullo specchio: “Se mi ami veramente... non cercarmi... lasciami andare!!!”. Diede una pettinata ai capelli rendendoli un po’ mossi con le mani, uscì


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dal bagno in punta di piedi, aprì la dispensa e prese da una scatola un paio di scarpe nere lucide con tacco alto, mai indossate, erano uno dei tanti regali che Stephan le aveva fatto. Uscì di casa tenendo le scarpe in mano per non svegliare Veronique. Iniziò a correre più che poteva: lei, una donna, che fuggiva per la libertà. Tornò sulla stessa strada che anni prima le aveva dato il pane, una strada infinita, in mezzo a immensi campi di girasoli dove un tempo vendeva il suo corpo. Alcune ragazze seminude ai bordi della strada parlavano tra di loro mentre aspettavano i clienti affamati di sesso. Monika si guardò attorno e a un tratto una Mercedes si accostò a lei. C’erano quattro uomini in macchina. «Quanto vuoi?» chiese un ragazzo ma lei non rispose. I quattro iniziarono a farle apprezzamenti molto pesanti ma lei rimase in silenzio cercando di allontanarsi, ma i quattro continuavano a seguirla con la macchina. Incominciò, improvvisamente, a correre più che poteva. I ragazzi scesero dalla macchina, l’afferrarono e la trascinarono nel campo di girasoli. Lei gridò ma nessuna delle ragazze che erano sulla strada intervenne. I quattro la immobilizzarono legandole le braccia. Le diedero calci e schiaffi fino a quando non si arrese. Tutti e quattro abusarono di lei poi, per paura che potesse parlare e per evitare guai, uno di loro tirò fuori dalla tasca della sua giacca un coltello e la colpì ripetutamente al petto fino a quando Monika non smise di respirare. Seppellirono il suo corpo in un campo nei pressi di una fattoria, a pochi chilometri dal luogo della violenza ma nessuno vide e nessuno seppe mai questa verità. Veronique, quando apprese che sua madre era sparita, rimase indifferente, imperturbabile. Avrebbe voluto una madre che la aiutasse a realizzare il suo sogno, una madre che la coccolasse e invece Monika era una donna fredda, una donna egoista, una donna che aspirava alla sua libertà. Stephan cercò in tutte le maniere di sopperire alla mancanza della madre anche se, per motivi di lavoro, era costretto a rimanere fuori casa per settimane e Veronique rimaneva, quindi, da sola. Ma lei era felicissima perché pensava unicamente ad allenarsi e trascorreva i giorni tra lo studio e la scuola di danza. Non aveva altro in mente che realizzare a tutti i costi il suo sogno. L’incontro con Patrick segnò una svolta nella sua vita. Pochi giorni dopo il primo bacio, mentre lei stava provando nella sua camera alcuni passi di danza classica, sentì il campanello suonare e


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corse alla finestra. Vide Patrick davanti alla porta di casa con un mazzo di fiori. «Aspetta» gli disse. Prese un foglio di carta e scrisse: “Torna domani. Mio padre stasera parte e starà via per alcuni giorni” e lo lanciò dalla finestra. Stephan era uscito a fare la spesa e sarebbe tornato a momenti. Patrick afferrò il foglio di carta e fece un segno di assenso con la testa, poi risalì in macchina appoggiando i fiori sul sedile anteriore e tornò a casa. Stephan tornò dopo poco con tre borse della spesa: aveva comprato di tutto, in modo tale che a Veronique, durante la sua assenza, non mancasse nulla. «Vado in Svezia, torno verso fine settimana. Hai tutto da mangiare, ti lascio anche un po’ di soldi in caso ne avessi bisogno, mi raccomando fai la brava!» «Non ti preoccupare papà, stai tranquillo, so arrangiarmi.» Il giorno dopo Patrick si presentò alle nove del mattino a casa di Veronique. Lei, appena lo vide, lo abbracciò e lo baciò con impeto spingendolo sul divano del salotto. Iniziò poi a spogliarsi lentamente e lui rimase incantato a guardarla in ogni suo movimento. Lei gli si avvicinò, lo spogliò e... Due corpi uniti danzavano a ritmo del piacere mentre fuori pioveva ininterrottamente. Sei giorni a fare l’amore, sei giorni indimenticabili, da incorniciare e da tenere stretti al cuore, per sempre. Il settimo giorno Patrick si svegliò presto per paura che arrivasse Stephan. Si vestì velocemente poi accarezzò il volto di Veronique che stava ancora dormendo e mentre si stava infilando le scarpe, squillò il telefono. Veronique aprì gli occhi e corse a rispondere: «Sono l’ispettore Thorrek della polizia di Copenaghen, con chi parlo mi scusi?». «Sono Veronique Leroy.» «La chiamo, purtroppo, per informala che il signor Stephan Leroy è morto in un incidente stradale.» Veronique impallidì e iniziò a gridare: «Ma come è successo? Mio padre è morto!».


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Patrick si avvicinò cercando di rassicurarla ma lei piangeva disperata. «Purtroppo un tir stava sorpassando il camion di suo padre sul ponte dell’Oresund e ha perso il controllo andando a finire contro il guardrail e poi in mare. Inutili sono stati i soccorsi, mi dispiace.» Veronique era esanime allora Patrick le tolse di mano la cornetta: «Saremo lì il più presto possibile. Mi lasci il suo numero di telefono che la richiamo non appena arriveremo a Copenaghen» affermò lui scrivendo velocemente su un pezzo di carta tutte le informazioni che l’ispettore gli stava fornendo. Veronique rimase immobile, impotente, avvolta dal silenzio. Ogni attimo può essere l’ultimo perciò, nel bene e nel male, va vissuto pienamente perché per caso si nasce, per caso si muore. Questo è il gioco tremendo della vita: noi siamo solo pedine da spostare e e da eliminare, corpi usati come burattini destinati a bruciare. Patrick e Veronique presero l’aereo e raggiunsero Copenaghen nel primo pomeriggio. Arrivati all’obitorio, Veronique non trovò la forza e il coraggio di entrare nella camera mortuaria; rimase fuori, appoggiata alla porta di ingresso cercando di trattenere le lacrime. Piangere è solo un tentativo vano dell’uomo di sfogare il proprio dolore. Patrick si sedette su una seggiola accanto alla salma e la osservò attentamente. Il viso di Stephan era rilassato, come se non avesse sofferto. I dipendenti dell’obitorio gli avevano messo uno smoking nero che lo rendeva elegantissimo e tra le mani teneva un rosario d’oro. Patrick si alzò e si avvicinò, poi sussurrò all’orecchio di Stephan: «Mi chiamo Patrick Walfare, mi dispiace non averla conosciuta… stia


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tranquillo, avrò cura di Veronique, io amo veramente sua figlia... buon viaggio Stephan. Che Dio abbia cura di lei, sempre». Patrick baciò la fronte ormai gelida di Stephan e uscì dalla camera mortuaria. Chi muore smette di soffrire chi rimane, invece, affoga in un mare di nostalgie. Veronique era lì seduta per terra davanti alla porta dell’obitorio con le mani sugli occhi, quasi a voler nascondere il suo dolore al mondo intero. Patrick la aiutò a rialzarsi, la abbraccio e le disse: «Tuo padre sta bene ora, fidati amore mio». Lei lo strinse forte al suo petto: «Spero di sì, non pensavo di essere così tanto legata a mio padre e solo ora che non c’è più, mi manca da morire». Nessuno dei due quella notte riuscì a dormire. Patrick cercò invano di consolare Veronique affranta dai suoi sensi di colpa per tutte le cose non dette e che ora riemergevano dolorose per lasciare una ferita emofiliaca. Rimorsi rimpianti che avvolgono la mente e il cuore sempre troppo tardi. Il giorno dopo ci furono i funerali e poi la sepoltura. Veronique decise di seppellire suo padre nel cimitero di Assistens Kirkegård di Copenaghen perché si ricordò che egli amava alla follia quella città. Dopo il funerale ripresero l’aereo e tornarono a casa. Patrick andò a vivere con Veronique per starle vicino ma pochi giorni dopo dovette partire per lavoro e Veronique cadde in depressione. Quando il dolore è forte vorresti che il mondo e il tempo si fermassero, che tutto diventasse piccolo come te.


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Veronique incominciò ad avvertire stani disturbi legati all’appetito e il ciclo mestruale ritardava ad arrivare così, una sera, durante una conversazione telefonica con Patrick che si trovava a Reykjavik per lavoro, le consigliò di andare da un ginecologo. Alcuni giorni dopo si recò al consultorio e si fece visitare. Il dottore, finita la visita, le disse: «Signorina lei è incinta». Veronique in quell’attimo avvertì un senso di abbandono: avrebbe voluto annunciare il lieto evento ai genitori ma entrambi erano morti e ciò la rendeva profondamente triste. Un buon genitore è colui che insegna al proprio figlio a camminare sulle sue gambe, è colui che lascia sbagliare è colui che lascia sognare, è colui che quando morirà vivrà sempre e per sempre dentro di te. Un buon genitore è colui che ti aspetterà sempre a braccia aperte, anche in un’altra vita, l’eternità. Veronique aspettò tutto il giorno nell’attesa di una telefonata di Patrick. Verso sera il telefono squillò. Era Patrick. «Devo dirti una cosa molto importante: sono incinta amore mio!» disse lei sorridendo. «Sono felicissimo, non vedo l’ora di tornare a casa. Ti amo da morire.» «Devo tornare per l’ecografia tra tre mesi.» «Io torno la settimana prossima, amore aspettami.» Che cos’è l’amore? Non un semplice scambio di sguardi, non una semplice attrazione fisica, l’amore è sacrificarsi per la felicità di chi ami. Realizzare i suoi desideri prima dei tuoi. L’amore è scambiarsi


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il proprio cuore ogni attimo, fino all’ultimo respiro. Quando Patrick tornò, decise di festeggiare con Veronique; era al settimo cielo e non vedeva l’ora di diventare papà, per Veronique, invece, la gravidanza era diventata un modo per uscire dalla depressione, per concentrarsi su ciò che ogni giorno, sempre di più, stava nascendo, stava crescendo in lei. Veronique preparò una cena a lume di candela, Patrick pensò al vino e allo champagne. Appena finirono di mangiare lui accese l’hi-fi e invitò Veronique a ballare. I due danzarono in salotto illuminati solo dal fuoco lento del camino. «Domani partiamo» sussurrò Patrick all’orecchio di Veronique che, sorpresa, si staccò da lui guardandolo dritto negli occhi: «Dove andiamo?». «Ti porto in un posto dove sono stato, voglio che tu lo veda, non chiedermi altro… è una sorpresa. Ora prepara la valigia e porta solo i vestiti invernali… là farà freddo» rispose lui sorridendo. «Okay» dichiarò lei in preda all’euforia che Patrick le aveva contagiato. Corse in camera a tirare fuori dall’armadio tutti i vestiti che pensava di portare via cercando di immaginare la meta di questo viaggio inaspettato. Esiste un posto molto lontano da qui dove è possibile rincontrare se stessi, un posto magico chiamato Antartica dove ci sei solo tu, il ghiaccio e il mare. Nonostante Veronique cercasse in tutte le maniera di strappare qualche informazione a Patrick circa il viaggio, egli mantenne fede alla promessa fattasi di non svelarle nulla. L’indomani partirono: destinazione Valparaiso in Cile. Il viaggio durò circa dieci ore. Patrick sapeva che quel viaggio avrebbe permesso a Veronique di distrarsi e ne fu felice; l’aveva organizzato solo ed esclusivamente per lei. Arrivati a Valparaiso si imbarcarono su una nave grande e lussuosa dagli arredi eleganti e confortevoli e dalle finiture di pregio e opere d’arte: l’Antartic sea way, era, dunque, una


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nave ricca di spettacolarità. Veronique rimase estasiata nel vedere le magnificenze di simile imbarcazione e corse ad abbracciare Patrick: «Grazie amore per quello che fai per me». «Voglio che tu sia contenta sempre!» L’amore è anche questo: la possibilità ogni tanto di poter regalare a chi ami un sogno. Dopo due giorni di navigazione arrivarono ad Antartica. Patrick, che conosceva le tappe della navigazione, quella mattina si alzò un po’ prima, uscì sul terrazzo della camera e appena vide in lontananza gli iceberg e la calotta polare ritornò di corsa in camera e svegliò Veronique: «Amore ci siamo quasi, vestiti e vieni a vedere». Veronique si alzò di scatto, si infilò di corsa una maglietta e i jeans. «Aspetta amore, prima di uscire devo fare una cosa.» Patrick prese un fazzoletto nero dalla borsa e la bendò. «Perché mi bendi?» «È una sorpresa amore mio, non ti preoccupare.» Patrick aprì le tende e accompagnò Veronique sul terrazzo. L’aria era molto fredda ma lo spettacolo era sorprendente: gli iceberg, i pack e stormi di pinguini aggrappati a immense montagne di ghiaccio. Patrick tolse il fazzoletto dagli occhi di Veronique che rimase esterrefatta davanti a quel paesaggio artico incontaminato. Strinse Patrick a sé, lo guardò negli occhi e poi lo baciò intensamente: «Ti amo e ti ringrazio per tutto quello che fai… sarò tua per sempre». Sotto un cielo blu cobalto due innamorati stavano per vivere il sogno antartico. Appena arrivarono furono accolti dalla gente accorsa per dare il loro benvenuto offrendo da mangiare e da bere. Erano arrivati in un villaggio igloo dove non vi erano né alberghi né ristoranti, un posto idilliaco dal paesaggio incantato. Antartica è questa: tu,


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la natura blu infinito, il silenzio e la tua fantasia. Rimasero due giorni ad Antartica dormendo in un igloo, imparando le tecniche di cacciagione e le usanze del posto. Fu un’esperienza bellissima per Patrick e Veronique, un’esperienza che portarono per sempre nel loro cuore. Antartica è l’unico posto dove si riscopre il senso della propria vita, dove scompare ogni dolore, dove esiste solo amore, dove il tempo non esiste perché Antartica è l’eternità. Quando Patrick e Veronique risalirono sulla nave per tornare a casa rimasero a osservare Antartica che lentamente scompariva all’orizzonte; erano dispiaciuti di abbandonarla, quella pace, quella serenità, quella sensazione di infinito aveva conquistato il loro cuore. Pochi sono momenti di serenità nella vita e quando arrivano bisogna respirarli e viverli il più possibile, bisogna memorizzarli, tirarli fuori e riguardarli quando vediamo solo buio intorno a noi. Quei momenti d’immensa luce ci permetteranno sempre di sperare, di sognare e di non mollare mai, finché Dio vorrà illuminare la nostra strada. Quei momenti di immensa luce infinitamente blu, quei momenti eterni che puoi vivere solo ad Antartica. Patrick e Veronique arrivarono a casa avvolti da una profonda tristezza e malinconia: l’esperienza di Antartica aveva colpito entrambi. S’erano


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innamorati pazzamente di quel luogo ed espressero le loro intenzioni di un reale trasferimento ma in quel momento era necessario pensare a fare in modo che la gravidanza di Veronique andasse bene. Al terzo mese scoprirono, dopo aver fatto una visita, che sarebbero nate due gemelle. Veronique non prese subito la notizia in maniera positiva, ogni tanto il desiderio di tornare a ballare si faceva sentire e con due figlie sarebbe stato impossibile riuscire a dedicare un po’ di tempo alla sua passione. Patrick, invece, incominciò subito a pensare ai nomi e ogni giorno cambiava idea in cerca del nome adatto. Mentre Veronique moriva dentro ogni giorno sempre di più, in Patrick, invece, accresceva ogni giorno di più la felicità di diventare padre. Preparò la stanza con i due lettini, dipinse le pareti di rosa e comprò un sacco di giocattoli. Ogni sera, prima di addormentarsi, pregava per le sue figlie: «Dio fa che le mie figlie nascano sane, io farò il possibile per loro te lo prometto... Amen». Veronique, invece, di notte non dormiva più, aveva pensato persino di abortire ma, vedendo Patrick così felice e speranzoso, aveva deciso di lascia perdere. Patrick dovette ripartire pochi giorni dopo per lavoro e lasciò un biglietto sul suo cuscino: “Quando torno ci sposiamo... ti amo da morire. Tuo Patrick, per sempre”. Veronique scoppiò a piangere. Fuori nevicava lei immobile sul letto. Lacrime di gioia, lacrime di dolore cadevano lentamente sul biglietto lasciato da Patrick fino a cancellarne le parole. Patrick tornò dopo quindici giorni e organizzò il matrimonio. Veronique aveva deciso di sposarlo, aveva deciso di trascorrere con lui tutta la sua vita nonostante non si sentisse tranquilla e serena, nonostante quella non fosse la vita che aveva sognato. Prima del matrimonio Patrick fu trasferito, dall’azienda di trasporti per la quale lavorava, in Cile, in un paesino vicino a Punta Arenas. Il posto era incantevole e scelsero di andare a vivere in una casa immersa nel verde: campi di girasoli e prati erano il luogo adatto per far crescere le bambine. L’azienda aveva accolto la richiesta di Patrick di limitare le trasferte in previsione della nascita delle due bambine in tal modo egli


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poté stare più vicino a Veronique che, con l’avvicinarsi del parto, aveva sempre più bisogno di lui. Patrick era un uomo premuroso e si occupò della moglie con amorevole cura. Non esiste gioia più grande e più forte dell’amore. L’amore cambia la vita. L’amore, l’unico sentimento eterno. Veronique partorì una fredda mattina di novembre, all’ospedale di Punta Arenas dopo otto ore di travaglio. Decisero di chiamare le due bambine: Wan e Yin. Lui rimase all’ospedale quattro giorni stando vicino alla moglie senza dormire mai. I suoi occhi brillavano di felicità, il suo cuore batteva a mille e si sentiva orgoglioso e commosso allo stesso tempo di essere diventato papà. Trascorse quattro giorni in ospedale, tra la camera dove si trovava Veronique, abbracciandola e accarezzandole il volto continuamente, e davanti al vetro della nursery a osservare le sue figlie ancora con gli occhietti chiusi, ancora piccole, fragili, indifese, due bambine identiche, bellissime come le aveva sognate. In quel momento Wan e Yin, le sue figlie, diventarono il suo amore più grande. Patrick alzò gli occhi al cielo e disse: «Grazie Dio per la felicità che mi stai donando, sarò un buon padre, vedrai non ti deluderò mai».


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Veronique, subito dopo il parto, cadde in depressione. Patrick cercò di aiutarla in tutti i modi portandola anche da uno psicologo ma tutto sembrava inutile; non riusciva a essere una buona mamma perché non si sentiva una mamma. Considerava le figlie come due pesi immensi e non riusciva a trasmettere loro nessuno affetto. Wan e Yin la cercavano sempre ma lei le allontanava in malo modo. Aveva completamente perso di vista la sua vita e fu così che cercò rifugio e conforto nell’alcool. Si sentiva sola, non le bastava più l’amore di suo marito e poi quel desiderio di diventare una ballerina di tanto in tanto riaffiorava, ed era un desiderio che la uccideva dentro. Patrick non fece nessuna trasferta per dieci anni poi dovette partire per Antartica e stare via per quindici giorni. Veronique in quelle due settimane pensò a un modo per farla finita. Prese la macchina e andò in città per acquistare una pistola. Entrò in un negozio che vendeva armi e il proprietario le disse: «Purtroppo senza porto d’armi non può acquistare nessuna pistola. C’è un bar non lontano da qui, il Sunset club, che è gestito da un cileno, Rodriguez Pereira, il più grande spacciatore d’armi della città, gli chieda se può aiutarla ma, mi raccomando, non sparga la voce in giro». «La ringrazio» rispose Veronique e uscì dal negozio. Trovò immediatamente il Sunset club grazie alle informazioni che le aveva fornito il titolare del negozio d’armi. Entrò nel locale e si avvicinò al bancone del bar dove, un uomo alto, molto affascinante, stava preparando un caffè a una squillo che stava fumando una sigaretta. Veronique si avvicinò al bancone: «Salve, sto cercando il signor Rodriguez Pereira». «Sono io cara, dimmi pure, aspetta che ci sediamo. Vuoi un caffè?» «Sì, grazie.» Veronique si sedette su un divanetto del locale e si guardò in giro: le pareti tappezzate da poster di donne nude, sul pavimento qualche profilattico usato e un’asta dorata sul palco. Veronique rimase sconcertata nel vedere tutto ciò, Rodriguez se ne accorse: «Non ti devi spaventare questo locale è un bar che di notte si trasforma in un nightclub, la gente qui paga se vuole godere. La felicità ha un


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prezzo, anche svuotarsi le palle costa, scusami se parlo chiaro, sono fatto così, ma dimmi pure». «Vorrei una pistola» disse lei con voce tremante. «E in cambio cosa mi dai?» chiese lui toccando le gambe di Veronique. Lei si allontanò di scatto. «Ascoltami la vita è un dare per avere, io rischio, devi rischiare anche tu. Qui c’è la chiave del privé se la prendi e passi qualche momento con me io ti darò la pistola, pensaci e fammi sapere» concluse appoggiandole la chiave sulle gambe. «Ho anche un altro problema. Ho due bambine che rimarranno da sole, ho bisogno che qualcuno se ne occupi.» «Non c’è problema, ci penserò io personalmente, tu dimmi solo quando.» Lei prese la chiave del privé, camminò fino in fondo alla stanza e arrivò vicino a una porta piccola, inserì la chiave nella serratura della porta e la aprì. Dentro vi era solo un letto matrimoniale e una videocamera appesa. Sopraggiunse Rodriguez che l’afferrò con violenza, la bendò, la spogliò e le legò le mani gettandola sul letto. Veronique era spaventata ma per ottenere quello che voleva non aveva altra scelta. Incominciò a piangere e Rodriguez cercò di tranquillizzarla: «Stai tranquilla che facciamo presto», poi si spogliò, accese la videocamera e si gettò sul letto. Rodriguez fece sesso in tutte le posizioni con Veronique poi, alla fine, le slegò le mani e per un attimo sembrava che l’incubo fosse finito e invece la fece girare, legò le sue mani alla spalliera del letto e abusò di lei anche analmente. Veronique incominciò a gridare ma la stanza era insonorizzata e nessuno poté sentirla. Solo dopo che Rodriguez ebbe raggiunto l’orgasmo, si staccò dal corpo di Veronique che continuava a piangere e a gridare dal dolore. «Benissimo, hai visto come abbiamo fatto presto? Ora ti vado a prendere ciò che ti serve» disse lui rivestendosi. Veronique rimase attaccata alla spalliera del letto ansimando; era nauseata e spaventata. Rodriguez tornò nella stanza, le slegò le braccia e le tolse la benda dagli occhi. «Ecco la pistola, è la migliore in questo momento sul mercato, te la do con piacere perché fare sesso con te mi è piaciuto particolarmente» dichiarò accarezzandole il viso. «Ti lascio l’indirizzo di casa mia… domani vieni a prendere le mie figlie… vieni verso l’una, allora sarà già tutto finito…» farfugliò Veronique in preda al deliro mentre scriveva l’indirizzo di casa su un foglietto.


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«Okay, a domani.» Il giorno dopo Patrick tornò a casa; la sua felicità nel rivedere le figlie, un bacio appena accennato di Veronique e poi la fine. Veronique e Patrick morirono a mezzogiorno, i raggi del sole entrarono nella stanza e illuminarono il loro volto. Wan e Yin cercarono di aprire in tutte le maniere quella porta ma ogni sforzo risultò inutile. Si sedettero lì, accanto a quella porta, stando in silenzio e tenendosi per mano. Fu Wan, alla fine, che decise di cercare aiuto mentre Yin sarebbe rimasta lì ad aspettarla. Dopo poco arrivò Rodriguez insieme a un suo scagnozzo. Entrarono in casa e Yin gli corse incontro pensando che fossero giunti per aiutarla e invece Rodriguez la prese in braccio, le spruzzò sul viso un sonnifero e lei si addormentò immediatamente. Il suo scagnozzo, poi, la portò in macchina. Rodriguez sfondò la porta. Dentro la stanza trovò i corpi di Veronique e Patrick, uno di fianco all’altro ai bordi del letto. Si spaventò ma prima di uscire decise di recuperare la pistola. Tirò fuori dal taschino un fazzoletto e sfilò la pistola dalla mano di Veronique poi uscì di corsa dalla casa. «L’altra bambina non l’hai trovata?» gridò Rodriguez al suo scagnozzo. «No, non c’era nessun altro in casa…» «Su, andiamo, ormai è finita» disse Rodriguez cercando di mantenere la calma. Wan, che stava tornando verso casa senza aver trovato aiuto, vide sua sorella in macchina addormentata e cercò di inseguire la macchina. Rodriguez la vide dallo specchietto retrovisore, si fermò e scese. «Dove state portando mia sorella?» Rodriguez si avvicinò, la prese in braccio e le disse: «Ti conviene venire con noi, in quella casa non c’è più nessuno ad aspettarti». Lui le spruzzò il sonnifero, la mise sul sedile posteriore accanto alla sorella e risalì in macchina. Il sole illuminò per l’ultima volta il volto di Patrick e Veronique mentre Wan e Yin, addormentate in una macchina, si allontanavano percorrendo una strada che non le riporterà mai più verso casa.


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Rodriguez le condusse prima dentro il suo locale, passando dal vicolo posteriore per non essere visto da nessuno, poi chiamò un suo amico, Robert, un trafficante di bambini, abile nel farli scomparire senza lasciare traccia. Robert si presentò nel locale nel pomeriggio. «Devo far sparire queste due bambine» disse laconico Rodriguez. «Non c’è problema.» Wan e Yin, nel frattempo, si erano risvegliate. Rodriguez le aveva rinchiuse nel privé e con l’aiuto di Kathy, una squillo sua complice e amante, le aveva legate a due sedie e le aveva imbavagliate. Robert entrò nella stanza, tolse il bavaglio dalla bocca alle due sorelle poi si voltò verso Rodriguez e tirò fuori dalla tasca due pastiglie: «Con queste perderanno la memoria, stai tranquillo amico mio». «Kathy portami dell’acqua» ordinò Rodriguez alla sua donna. Kathy tornò con una bottiglia d’acqua e due bicchieri. «Coraggio bambine con questa pastiglia starete meglio, fidatevi» disse Robert alle due sorelle. Wan e Yin incominciarono a piangere, nessuna delle due voleva prenderla. Kathy cercò, allora, di tranquillizzarle accarezzandole continuamente, poi diede loro le pastiglie che, sorseggiando con un po’ d’acqua, ingoiarono all’istante. Si addormentarono immediatamente perché quelle pastiglie, oltre a cancellare la memoria, erano anche potenti sonniferi. A Kathy in quel momento cadde l’orecchino e si piegò per raccoglierlo, lasciando completamente nudo e ben visibile a Robert il suo sesso. Lui fece cenno a Rodriguez di andarsene. «Kathy fai quello che ti dice, capito?» disse Rodriguez guardandola dritta negli occhi. Lei annuì. Robert rilegò le bambine alle sedie spostandole contro il muro, e poi prese per un braccio Kathy e la spinse contro la parete opposta, con le mani e la faccia contro il muro e le gambe divaricate. Le tirò su la gonna, le palpò le natiche, infilò un dito nel suo sesso e lei incominciò a gemere. Robert si sbottonò i pantaloni e la penetrò vaginalmente e analmente. Le bambine non si accorsero di nulla. Kathy iniziò a gridare dal dolore. Robert era malato di Aids, era un uomo che aveva vissuto per strada e che era riuscito a entrare nella malavita locale e a diventare il più famoso trafficante di bambini di tutto il Cile. Disgustoso e pesante nello stile di un maiale ingrassato, Robert penetrava Kathy mentre la cenere della sua sigaretta si consumava lentamente e cadeva lungo la schiena di quella povera ragazza.


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«Stai ferma, troia che non sei altro!» continuava a gridarle picchiandola. Un’ora dopo Kathy uscì da quella stanza con le lacrime agli occhi, lividi, graffi e bruciature su tutto il corpo. Rodriguez la fece sedere e le portò un bicchiere d’acqua. Robert uscì dopo poco: «Vengo stasera a prendere le due bambine, io e te siamo a posto ora» disse a Rodriguez mentre si accendeva un’altra sigaretta. «Mi raccomando devono sparire, fai un buon lavoro.» «Stai tranquillo fratello!» concluse Robert sorridendo. Rodriguez si avvicinò a Kathy e le chiese: «Ti ha fatto male?». «Poco importa se mi ha fatto male, o no? L’importante è che tu abbia ottenuto quello che volevi, ora scusami ma ho bisogno di distrarmi un po’.» Kathy prese le chiavi e salì in macchina. Lungo la strada verso casa pensò a tutto ciò che aveva subito in quegli anni, ai soldi che aveva guadagnato, a quante mani avevano toccato il suo corpo e a tutte le umiliazioni che Rodriguez la costringeva a subire. Intanto al bar Rodriguez ricevette una telefonata: «Sono John, ho chiamato per dirti che Robert è morto. È arrivato a casa ed è riuscito solo a scrivere un biglietto: “Io come tanti altri muoio di Aids...”». Rodriguez rimase in silenzio. «Rodriguez ci sei?» chiese John. «Sì, ci sono… vieni tu stasera a prendere le bambine?» «Sì, tra due ore sono da te, non ti preoccupare, quelle pastiglie addormentano anche i cavalli. Si risveglieranno domani mattina quando ormai saranno già lontane e non si ricorderanno più di nulla.» «Okay» rispose Rodriguez e riagganciò. Si accese una sigaretta, si versò del whisky poi chiamò Kathy: «Pronto?» rispose lei. «Sono io, ascolta, non so come dirtelo… Robert è morto…» «Sono contenta, è un gran bastardo, mi ha lasciato lividi e bruciature dappertutto.» «È morto d’Aids» disse Rodriguez con voce soffusa. Kathy raggelò, lasciò cadere a terra il telefono e scoppiò a piangere. Succede alle volte che, mentre si cerca dentro se stessi la forza di reagire,


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si trova solo la forza di morire. Kathy era sconvolta: l’idea di aver contratto l’Aids la faceva impazzire, sapeva di non avere scampo, sapeva che con Robert aveva avuto un rapporto non protetto e così, presa dallo sconforto più totale, salì sulla ringhiera della sua terrazza e si gettò in mare dove le onde la travolsero senza pietà. Rodriguez non seppe nulla di Kathy fino al mattino seguente. Quando tornò a casa trovò un biglietto lasciato da lei appeso al frigo: “Ho accettato e subito di tutto nella mia vita, non riesco a resistere a questo dolore, è arrivato per me il momento di andare”.


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John e un suo amico vennero a prendere le due bambine che, ancora dormienti, misero su un camioncino. Arrivati al porto, il fratello di Robert, Jeremy, dipendente portuale e socio di Robert nel traffico di bambini, decise di imbarcare Yin sulla nave che andava ad Antartica e Wan, invece, su quella diretta a Barcellona. Yin fu imbottita di sonniferi fino ad Antartica da un amico di Jeremy, Simon, che aveva il compito di portarla fino a destinazione e poi di tornare immediatamente indietro. Il viaggio durò tutta la notte. Era quello il periodo dell’anno in cui ad Antartica il sole non tramontava mai. Simon, appena sbarcò, si guardò attorno, avvolse in una coperta Yin e la lasciò davanti a un igloo poi risalì sulla nave. Nessuno si accorse di lui. Una signora, di media statura, di nome Hatsy uscì dopo poco dal suo igloo; in quel momento Yin si svegliò dal sonno profondo e cercò di capire dove si trovava ma la sua mente non riusciva a pensare a nulla, non ricordava niente di sé. «Jay Hatzu, presto vieni!» gridò Hatsy e un uomo alto uscì dall’igloo e osservò ammaliato quella splendida bambina. D’istinto la prese in braccio e le accarezzò il volto. Sulla coperta che l’avvolgeva c’era scritto il suo nome: Yin; era stato Simon a scriverlo durante il viaggio con un pennarello indelebile. Jay Hatzu la portò dentro all’igloo e la mise sul tappeto vicino al loro figlio Kai Sue. Yin visse con loro. Lei li considerò come i suoi genitori anche se, fin dall’inizio, le avevano detto che qualcuno l’aveva abbandonata davanti al loro igloo. Yin visse lieta e serena in quella famiglia. Fin da subito con Kai Sue nacque un legame particolare che poi, col passare degli anni, si trasformò in amore. Un amore vero, sincero, eterno. In quel momento ebbi la certezza che Yin, la donna che mi aveva accudito ed educato, era la sorella della mia vera madre. Provai sensazioni fortissime, indescrivibili. Rimasi in silenzio alcuni istanti e mentre l’immagine si era fermata sul volto di Yin, esclamai:


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«Io ti ho voluto e ti voglio tanto bene, sappilo sempre!». Mi chiesi come mai Yin non mi avesse detto nulla, non mi avesse detto di essere stata adottata. «Non ti ha detto nulla Frederik per non farti soffrire e poi perché lei non si sentiva una figlia adottiva. La famiglia che la educò la amò da morire. Yin fu la figlia che Hatsy aveva sempre desiderato» mi disse Dio. «Ma dove si trova ora?» «Yin si trova nella stanza 57 del Paradiso» «Ma posso vederla?» chiesi a Dio. «Per ora non è possibile, tutto dipende dalla decisione che prenderai. Sei pronto?» «Sì» risposi ancora sorpreso dalla storia di Yin. Wan, invece, viaggiò su una nave con destinazione Barcellona. Fu accompagnata da un signore alto, molto distinto di nome Steven, un uomo che aveva perso tutta la sua famiglia in un incidente stradale. Lavorava in porto da parecchi anni e desiderava abbandonare il Cile e trasferirsi in un altro paese. Jeremy era il suo capo cantiere e siccome Steven si lamentava che con il suo stipendio non riusciva ad arrivare alla fine del mese, aveva accettato di lavorare per lui. Wan fu il suo primo incarico. Per portarla a Barcellona Jeremy gli aveva offerto duemila dollari più il viaggio pagato e lui aveva accettato immediatamente. Steven era un uomo sensibile ed era stato un buon padre e un ottimo marito. La morte di sua moglie e delle sue bambine piccole gli aveva cambiato completamente la vita. Quando non lavorava passava la maggior parte del suo tempo nel bar del porto a bere per cercare di dimenticare. Aveva abbandonato la casa dove aveva vissuto con la sua famiglia perché, dopo la loro morte, tutte le volte che ci entrava affogava in un mare di nostalgia. Aveva affittato un monolocale vicino al porto: una stanzetta dove c’era un letto, un armadio e un bagno nascosto dietro una tenda. Con sé aveva portato poche cose; tutte le fotografie con la sua famiglia le teneva chiuse dentro una borsa sotto il letto, non le guardava mai per paura di soffrire ancora di più. Ogni mattina e ogni sera pregava per i suoi, sperava che fossero felici, che Dio li proteggesse e che sapessero sempre quanto lui li aveva amati e quanto li amava ancora. Sembra impossibile comunicare con l’aldilà


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eppure, alle volte, si ha la sensazione che i nostri cari, quelli che hanno chiuso gli occhi per sempre, siano seduti di fianco a noi e che ci ascoltino, forse perché in quel preciso momento ci accorgiamo che non ci sono più e li cerchiami ovunque per paura di dimenticarli. Steven, per tutta la durata del viaggio, rivolse a Wan ogni amorevole cura. Gli sembrava un’ingiustizia averla abbandonata e così decise di tenerla con sé. Non aveva pensato a quanto male avrebbe fatto quando aveva accettato il lavoro di Jeremy, non aveva pensato che in gioco c’era la vita di una povera creatura. Così, una volta giunti a Barcellona, invece di lasciare la bambina nel porto, decise che era giunto il momento di cambiare vita. Salì sulla prima nave per Genova tenendo Wan in braccio ancora sotto l’effetto del sonnifero. Giunsero a Genova verso sera, e con i soldi che Jeremy gli aveva dato come anticipo per il lavoro, Steven e Wan andarono a dormire in un hotel vicino al porto. Quando Wan la mattina successiva si svegliò, trovò Steven seduto sui bordi del letto a osservarla. Lei gli sorrise e lui si avvicinò e la baciò sulla fronte. Alle volte basta vedere un sorriso sul volto delle persone che ci stanno accanto per far risplendere il sole dentro di noi. Alle volte basta uno sguardo, una carezza per dimenticare il dolore. «Papa» gridò lei e corse ad abbracciarlo. Steven, davanti a quell’innocenza violata, non ebbe il coraggio di confessarle la verità: lui non era il suo vero padre. Pensò che quando sarebbe stata più grande le avrebbe raccontato tutto. Wan in quel momento aveva bisogno solo d’affetto e di una persona che la educasse e la facesse crescere il meglio possibile. Steven trovò lavoro al porto di Genova e andarono a vivere in un


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appartamentino in affitto in via Sampierdarena, non molto lontana dal porto, in una casa di quattro vani luminosa e in perfetto ordine. Steven lavorava di notte, dalle undici alle otto del mattino, dal lunedì al venerdì. Una mattina Steven, rincasando, incontrò nell’ascensore la sua vicina di casa, Marisa Freddi, una quarantatreenne, alta, castana, occhi scuri, snella, sempre molto elegante dall’aria intellettuale. Fu colpo di fulmine. I loro occhi brillarono di luce intensa in silenzio si baciarono appassionatamente come due teneri amanti. Arrivati al quarto piano dove abitavano tutti e due, rimasero ancora alcuni secondi abbracciati poi lei uscì dall’ascensore ed entrò in casa senza dire una parola. Lui rimase incantato, quasi sorpreso nell’aver riscoperto sensazioni ed emozioni che non aveva più provato da tantissimo tempo. Rientrò in casa pensando a ciò che era successo, se aveva fatto bene o male, se aveva tradito sua moglie, lui che era stato sempre fedele alla sua famiglia, lui che aveva dichiarato di aver amato e di amare solo sua moglie Giusy. Incominciò a piangere perché in quel momento si sentì un verme e gridò: «Perdonami Giusy, ti prego!». Wan corse in cucina: «Papà che succede?». «Niente piccola, tutto bene, stai tranquilla… meno male che ci sei tu!» Alcuni giorni dopo squillò il campanello di casa e Steven andò ad aprire. Era Marisa. «Scusami per l’altro giorno, non volevo» disse lei abbassando gli occhi. Marisa viveva da sola. Era insegnate di italiano in una scuola superiore, era single e si era promessa che non si sarebbe mai più innamorata di nessuno dopo una storia d’amore che era finita male, per colpa del suo ragazzo che una mattina era sparito dalla sua vita senza un perché. Si era ripromessa di non voler più stare con un uomo ed erano due anni che non frequentava più nessuno. «Figurati, entra pure. Vuoi un caffè?» disse titubante Steven. Wan le corse incontro: «Io sono Wan e tu come ti chiami?». «Mi chiamo Marisa, piacere» rispose lei sorridendo. Marisa e Steven si sedettero in cucina e Wan andò a sedersi sul divano


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in salotto a giocare. «Ma tu sei sposato?» «Sì, ma mia moglie non c’è più, è morta.» Lei rimase in silenzio. «Mi dispiace» aggiunse dopo poco. Steven versò il caffè e fece finta di non guardarla anche se si sentiva attirato dai suoi occhi. Era confuso, indeciso sul da farsi, aveva paura. L’amore, alle volte, fa paura. I suoi occhi incontrarono quelli di Marisa per alcuni secondi poi si precipitò davanti al mobiletto posto sopra al lavandino facendo finta di prendere qualcosa. Marisa se ne accorse ma, appena finì di sorseggiare il caffè, disse: «Ti ringrazio per il caffè, era squisito, ma ora è meglio che vada» e si avvicinò alla porta. «Se ti va, mi piacerebbe averti qui domenica sera per cena» disse Steven tutto d’un fiato per paura di perdere quel poco di coraggio che s’era schiuso in lui. Lei sorrise: «Certo che mi fa piacere». Lui contraccambiò il sorriso. L’amore entra nei nostri cuori senza chiedere mai permesso. Quella domenica sera Steven organizzò una cena a lume di candela. Comprò ostriche, scampi, gamberi e due bottiglie di spumante. Marisa arrivò puntualissima, indossava uno splendido vestito da sera rosso. Steven quando la vide rimase a bocca aperta. Wan mangiò con loro, a lei Marisa piaceva, le era simpatica. Marisa sapeva farci con i bambini, era tenera e così Steven le propose di tenere Wan di sera mentre lui era al lavoro, pagandola naturalmente. «Non voglio soldi, mi fa piacere aiutarti» rispose lei. «Sì papà, voglio Marisa con me» disse Wan sorridendo. «Ti ringrazio. È da poco che sono qui e non ho ancora avuto modo di sistemarmi del tutto, lasciare Wan da sola, così piccola, mi spaventa anche se so che lei è giudiziosa.» «Non ti devi preoccupare Steven, puoi contare su di me.» Appena finirono di mangiare, Wan corse a letto e Steven andò a salutarla dandole il bacio della buona notte poi raggiunse Marisa in


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cucina e rimasero a parlare a lungo delle loro esperienze. «Perché sei venuto in Italia?» «È una storia lunga… sono qui per caso. Lavoravo in Cile, in un’azienda portuale, ma avevo perso la mia famiglia e i soldi che guadagnavo erano pochi. Avevo accettato un lavoro extra da Jeremy, il mio capo, per vivere meglio ma senza pensare a quello che sarei andato incontro; lui è uno dei maggiori trafficanti di bambini in Cile. Wan non è mia figlia, avrei dovuto abbandonarla a Barcellona ma fin dal primo istante che l’ho vista, ho sentito dentro di me un sentimento importante così ho deciso di chiudere un capitolo doloroso della mia esistenza e farle da padre qui, a Genova dove nessuno ci conosce. Wan, purtroppo, non ricorda nulla; l’hanno drogata dandole delle pastiglie per cancellare la memoria.» Marisa guardò Steven dritto negli occhi per vedere se mentiva o diceva sul serio: «E tu cosa sai della sua vita?». «Ho visto sua sorella Yin che veniva imbarcata su una nave per Antartica.» «Hai parlato con Wan di questo?» «Ho provato a dirglielo ma l’ho vista così felice, così contenta di avermi a fianco che mi sembrava inutile distruggere la sua felicità. Aspetterò che cresca e poi spero che capirà. Non l’ho rapita io, i suoi sono morti… non farò mai più un lavoro del genere.» «Non hai paura di rischiare la vita o che ti stiano cercando?» «Sì, un po’ sì ma questa è stata la mia scelta. Ho fatto tutto questo per Wan perché le voglio un bene infinito.» «Mi piace come sei, il tuo modo di fare…» dichiarò lei poi si alzò e si diresse verso la porta. «Aspetta non te ne andare» disse Steven con tono deciso trattenendola per un braccio e poi la baciò. «Sei sicuro?» domandò lei staccandosi da lui. «Sì Maria, voglio provare a stare con te.» Lei lo abbracciò forte. «Adesso devo andare ci vediamo domani sera.» «Ci conto» rispose lui sorridendo. La sera dopo Marisa si presentò a Casa di Steven alle sette di sera. «Sono venuta prima perché volevo stare un po’ con te» e prima di baciarlo controllò che Wan non li vedesse. «Non ti preoccupare, è già a letto. Era stanca morta stasera» la tranquillizzò lui.


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Marisa lo abbracciò e lo baciò appassionatamente. «Devo iscriverla a scuola, è ora che socializzi con gli altri bambini.» «Sì, hai ragione. Se vuoi posso chiedere se qualche mio collega può consigliarmi una buona scuola.» «Ti ringrazio davvero tanto. Dovrei anche trovare il tempo per andare a produrre il documento per il permesso di soggiorno, altrimenti l’azienda per la quale lavoro non mi può mettere in regola.» «Sappi che su di me potrai sempre contare» gli disse Marisa accarezzandogli il viso. Steven le sbottonò la camicetta, la prese per mano e la portò in cucina, poi chiuse la porta a chiave. Fu Marisa in quel momento a prendere l’iniziativa: spogliò completamente Steven e poi gli fece cenno di sedersi sulla seggiola. Lui obbedì in silenzio. «Lasciami fare» disse lei con voce suadente e si alzò la gonna. Steven la fissò cercando di non perdersi neanche un suo minimo movimento, anche i suoi occhi erano affamati di piacere. Lei si tolse le mutande di pizzo nere, le lanciò a Steven che era fermo, immobile come una statua. «Stai seduto, lascia fare a me» gli disse, poi si avvicinò alla sedia, salì sopra di lui tenendosi su la gonna, e incominciò la danza del piacere. Lui fermo con le mani sui suoi fianchi lei che si muoveva lentamente sopra di lui per assaporare ogni istante di piacere. I loro corpi uniti in quella stanza mentre il rumore della pioggia nascondeva l’eco del loro godere. Il loro non era stato solo sesso, entrambi provavano un sentimento forte, un sentimento molto vicino all’amore. «Ti è piaciuto?» chiese Marisa a Steven mentre si rivestiva. «Da morire! Erano anni che non avevo più un rapporto con una donna, erano anni che non sentivo battere così forte il mio cuore.» «Vuoi venir a vedere la mia casa?» «Sì, volentieri ma facciamo presto perché non vorrei che Wan, sentendo qualche rumore, si svegliasse.» La casa di Marisa era identica a quella di Steven: un quattro vani con cucina, bagno, una camera da letto e salotto. L’unica differenza era il balcone che lui, invece, non aveva. Dal balcone si poteva vedere tutto il porto di Genova e la lanterna che di sera garantiva uno spettacolo mozzafiato. Marisa lo condusse nella camera da letto e gli si avvicinò:


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«A che ora devi andare a lavorare?» Steven guardò l’orologio: erano le otto e mezza. «C’è tempo ma non voglio lasciare Wan da sola» rispose. «Ti voglio ancora» disse lei baciandolo e lui, vinto dalla passione, la spogliò completamente. Lei lo strinse forte a sé poi gli tolse i pantaloni e mentre fuori aveva smesso di piovere i loro due corpi ricominciarono a danzare a ritmo del piacere fino a raggiungere entrambi l’orgasmo. Rimasero, infine, abbracciati in silenzio respirando la brezza di quel piacere appena passato che avrebbero voluto non finisse mai. A un tratto Steven le disse guardandola dritta negli occhi: «Provo qualcosa di grande per te… non te lo dico perché abbiamo appena fatto l’amore, per me non è stato solo sesso… è il modo in cui l’abbiamo fatto perché quando entro dentro di te io respiro con il tuo cuore. Ho paura a dirtelo ma... ti amo». Marisa rimase a fissarlo in silenzio poi, con voce dolce, rispose: «Anche io ti amo e ne ho paura». Steven si rivestì: «Devo andare ora. Voglio ripassare per casa a salutare Wan poi vado a lavorare». Marisa aprì l’armadio e si infilò un pigiama. Steven rientrò nella sua casa cercando di fare piano. Andò da Wan che dormiva beata. Steven si avvicinò, la accarezzò e le diede un bacio sulla fronte. Wan aprì per un attimo gli occhi e gli disse: «Papà torna presto, mi raccomando». «Sì piccola mia, non ti preoccupare. Papà domattina sarà di nuovo qui con te. Marisa resterà a farti compagnia, se hai bisogno chiedi a lei.» Steven salutò Marisa che era rimasta sulla soglia della porta di casa e le diede le chiavi. «Mi raccomando, ti lascio anche il numero della ditta dove lavoro in caso ci fossero problemi, okay?» «Non ti preoccupare» rispose Marisa e lo baciò. Steven prese l’ascensore, uscì dal portone, entrò nell’auto e appena girò la chiave per l’accensione, l’auto esplose. Marisa sentì un rumore fortissimo, aprì la finestra che dava sulla strada e vide la macchina di Steven in fiamme. Corse giù lasciando la porta di casa aperta in preda al panico ma le fiamme ormai avevano divorato il corpo di Steven. Scesero per strada anche i vicini di casa e arrivarono i vigili del fuoco e l' ambulanza ma ogni sforzo fu inutile. Steven non c’era più, era questa la realtà che Marisa doveva accettare, perché la morte quando colpisce non avvisa mai prima. Wan si svegliò quando sentì le sirene dei vigili


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del fuoco avvicinarsi, perlustrò casa in cerca di Marisa ma non la vide, allora gridò il suo nome ma nessuno rispondeva. Vide la porta aperta e corse giù per le scale del palazzo. Le venne come il presentimento che fosse successo qualcosa perché tutte le porte dei vicini di casa erano aperte. Giunse in strada e mentre le luci delle sirene le illuminavano il volto, corse incontro a Marisa che era inginocchiata e piangeva disperata davanti alla carcassa dell’auto di Steven. «Torniamo a casa… papà non vuole che usciamo.» Marisa si rialzò e guardò Wan negli occhi: «Papà è partito per un lungo viaggio, non si sa se tornerà» e cercava disperatamente di asciugarsi le lacrime che sembravano non avere fine. «Ma mi ha detto che domani sarebbe tornato, me l’ha promesso.» «Papà mi ha detto che devi essere forte, e che lui sarà felice solo se tu sorriderai sempre.» Wan incominciò a piangere immediatamente e a gridare: «Papà dove sei?». Il padre era lì, a due passi da lei ma lei non lo vide perché ormai era cenere. Tiziana Ferraro, una vicina di casa che conosceva Marisa, si offrì di tenere la bambina quella notte visto che c’erano da fare tutti gli accertamenti del caso da parte delle forze dell’ordine. Tiziana portò a casa di corsa la bambina e la mise sul divano tranquillizzandola e dicendole che Marisa aveva avuto un contrattempo e che presto sarebbe tornata. Wan incominciò a gridare e a chiamare suo padre poi, dopo poco, la stanchezza prese il sopravvento e si addormentò.Marisa trascorse la notte rispondendo a fatica alle domande di polizia e carabinieri ,poi, verso le sei del mattino, tornò a casa. Passò da Tiziana a prendere la bambina e telefonò a scuola dicendo che non sarebbe andata a lavorare perché stava male. Wan la abbracciò forte: «Papà tornerà, vero?». Marisa trattenne a stento le lacrime e disse: «Papà non è più qui con noi, sono sicura che ora sta meglio. Tutte le volte che avrai bisogno di lui lo troverai nel tuo cuore, tutte le volte che lo vorrai rivedere basterà alzare gli occhi e guardare il cielo, lui sarà lì sempre, lì a proteggerti» e la strinse forte a sé. Fu difficilissimo per Marisa risollevarsi, lei che si era innamorata di Steven, lei che per un attimo aveva avuto la sensazione di aver trovato


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finalmente l’uomo giusto. La vita aveva ucciso il suo amore, aveva ucciso il suo cuore. Subito dopo la morte di Steven si congedò dalla scuola mettendosi in malattia per esaurimento nervoso, lo fece soprattutto per cercare di ricostruire ciò che rimaneva del suo cuore. Davanti a Wan cercava di sorridere perché sapeva benissimo che lei era diventata l’unico punto di riferimento per la bambina e che Steven sarebbe stato felicissimo se lei le avesse fatto da mamma. Wan le chiedeva sempre di suo padre anche perché una volta vide Marisa piangere in cucina mentre teneva in mano un anello che Steven portava sempre e lei corse ad abbracciarla per consolarla. «Ti posso chiamare mamma?» le aveva detto cercando di stringerla il più possibile. «Sì, ne sarei felice», aveva rispose Marisa abbozzando un sorriso. «Ti voglio bene mamma.» «Anch’io tesoro.»


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Le indagini condotte dalla polizia, con l’appoggio dei vigili del fuoco, stabilirono che dentro la macchina era stata messa una bomba. Marisa venne a conoscenza della notizia tramite l’ispettore capo della polizia che la chiamò una sera, quindici giorni dopo la morte di Steven. «Sono l’ispettore Gerardi. Volevo informarla che Steven è stato ucciso. Non è stato un incidente, qualcuno ha messo una bomba comandata a distanza.» Marisa intuì subito che chi aveva ucciso Steven aveva a che fare con il Cile e con il fatto che egli era scappato. «Ispettore avrei urgenza di parlarle.» «Signora sarò lì da lei tra circa un’ora.» Marisa, nonostante avesse paura per la sua incolumità e quella di Wan, aveva deciso di raccontare ciò che Steven le aveva detto riguardo Jeremy e il traffico di bambini in Cile. L’ispettore era un bel ragazzo, un novello ispettore di polizia, alto moro con gli occhi verdi. Quando Marisa aprì la porta rimase un attimo incantata a guardarlo negli occhi e lui sorridendo: «Piacere, mi chiamo Simone Gerardi» e le strinse la mano. «Si accomodi pure in cucina ispettore Gerardi.» L’ispettore si tolse il cappotto e appoggiò la valigetta sul tavolo. «Gradisce un caffè?» «No, la ringrazio ma non bevo nulla quando sono in servizio. Le ho portato, dunque, il rapporto della polizia. Purtroppo, come le ho già detto, è stata messa una bomba in macchina ma non sappiamo chi possa averla messa. Essendo Steven arrivato da poco in Italia, ho chiesto ai colleghi del porto dove lavorava se Steven aveva qualche inimicizie ma nessuno ha saputo aiutarmi… non ho nessun sospettato per il momento.» Marisa si sedette al tavolo e sorseggiando il caffè disse: «Io ho qualche informazione che potrebbe essere utile per evitare che si chiuda l’indagine e si risolva tutto in una bolla di sapone. Steven è venuto in Italia insieme a Wan che non è sua figlia ma una bambina che lui doveva far sparire per conto di un certo Jeremy, capo cantiere


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dell’azienda portuale in Cile dove lavorava prima di venire in Italia. Steven avrebbe dovuto abbandonarla a Barcellona e tornare in Cile ma ha preferito tenersela e farle da padre cambiando completamente vita. Steven mi disse che lui aveva accettato di far scomparire Wan perché aveva bisogno di soldi. Mi creda, Steven ha avuto il torto di aver accettato quel lavoro ingenuamente ma ha voluto bene a Wan e ha fatto veramente di tutto per salvarla…» L’ispettore si passò le mani tra i capelli: «Se di mezzo c’è un traffico di bambini la situazione si fa abbastanza pesante… dovrei trasmettere tutto alla polizia cilena e ciò comporterebbe rischi per la sua incolumità e quella di Wan. È gente che non perdona, è un po’ la nostra mafia italiana… tanto per capirci, chi sbaglia paga.» «Sì, lo so perfettamente ispettore Gerardi ma non è giusto che continuino a pagare dei bambini innocenti solo perché i genitori non li vogliono più e pagano qualcuno per farli sparire. Mi dica, le sembra giusto togliere per sempre il sorriso dal volto di un bambino?» «No signora, allora come intende procedere? Io sono qui per aiutarla.» Marisa guardò fuori dalla finestra, aveva appena incominciato a piovere, dopo poco si voltò verso di lui: «Voglio pensarci ancora un attimo… vorrei tutelare la bambina. Mi lasci il suo numero, la richiamerò io al più presto.» «Va bene» e scrisse il suo numero di cellulare su un foglio. «In ogni caso mi faccia sapere come vuole procedere» le disse stringendole la mano prima di uscire dalla porta di casa. «Certo.» Marisa aveva ragione: Jeremy, non vedendo tornare Steven, si era insospettito e così aveva mandato un suo scagnozzo, un certo Joakim Holaf a indagare per capire che fine avesse fatto e per evitare che succedessero guai. Arrivato a Barcellona, mostrò una foto di Steven – Jeremy l’aveva rubata dall’ufficio personale del porto – a tutti coloro che lavoravano a bordo delle navi ma nessuno gli fornì informazioni utili. Joakim si infilò in un piccolo bar del porto, ordinò un caffè poi, mentre stava pagando, chiese alla ragazza dietro al bancone: «Hai mai visto quest’uomo?» e appoggiò cento dollari sul bancone. La ragazza prese la foto in mano e chiamò un ragazzo che era nel retro. Il ragazzo uscì, osservò la fotografia: «Sì, l’ho visto. Era insieme a una bambina che, nonostante il rumore dei


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clienti che c’erano, riusciva a dormire, sembrava drogata, tanto è vero che avevo chiesto all’uomo se la bambina stava male e lui mi aveva detto che dormiva profondamente e che neanche una bomba l’avrebbe svegliata. Gli avevo anche chiesto dove fossero diretti e lui mi aveva detto che sarebbero andati a Genova, il suo sogno era di andare a vivere in Italia. Non so altro, mi spiace» disse il ragazzo. Joakim gli diede ancora cinquanta dollari, lo ringrazio e uscì dal bar e si imbarcò su una nave diretta a Genova. Arrivato a Genova riconobbe Steven e iniziò a tallonarlo. Studiò i suoi movimenti. Lo vide con la bambina e chiamò immediatamente Jeremy: «Ho trovato lui e la bambina, ho bisogno di tutto il necessario». «Dopodomani ci sarà Pablito davanti al bar del porto, non ti preoccupare, tu fai tutto a dovere.» «Stai tranquillo, non sbaglio mai» gli rispose Joakim che aveva già studiato un modo per uccidere Steven senza dare troppo nell’occhio. Pablito sbarcò a Genova e gli consegnò una borsa contenente una tasca interna dentro la quale vi era un barattolo di schiuma da barba che conteneva una bomba con telecomando a distanza. Joakim, che conosceva ormai tutte le abitudini di Steven e sapeva che per andare a lavorare avrebbe preso la macchina, venti minuti prima che uscisse Steven si avvicinò alla sua macchina, si guardò attorno per vedere se qualcuno lo stava osservando ma a quell’ora erano tutti seduti a tavola; si sentivano provenire dalle case solo rumori di piatti, posate e televisioni accese. Joakim si inchinò e attaccò una bomba a ventosa sotto la parte anteriore della macchina quasi in prossimità del motore. Fu velocissimo a effettuare quest’operazione e a risalire sulla sua macchina aspettando che Steven scendesse. Rumori di posate e tv accese, tutti ignari dell’imminente tragedia. Steven uscì dal portone. Joakim prese il telecomando che aveva appoggiato sul sedile e appena vide Steven entrare in macchina e sentire che aveva acceso il motore, schiacciò il tasto rosso, il tasto della fine. Un rumore violentissimo e le fiamme divorarono anche i cassonetti dell’immondizia. Joakim scomparve con la sua Mercedes nel nulla. Guidava e rideva come un pazzo, era sadico e aveva un gusto perverso nell’ammazzare la gente. Per festeggiare l’ennesimo trionfo trascorse la


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notte in un nightclub tra whisky e puttane. Al mattino poi chiamò Jeremy: «Tutto a posto, non è più un problema». «Okay, la bambina l’hai lasciata stare, vero?» «Sì, non ti preoccupare, non le ho strappato neanche un capello.» «Tanto lei è innocua e sarà per sempre una povera disgraziata.» Joakim poi si imbarcò per tornare in Cile. Marisa, con l’aiuto di Wan, svuotò la casa di Steven e consegnò le chiavi alla padrona di casa, la signora Derossi, una donna cattiva d’animo che si impicciava sempre degli affari degli altri. Quando suonò il campanello della porta di Marisa, vide Wan: «Tu chi sei?» le chiese guardandola con aria sorpresa. «Mi chiamo Wan. Aspetti che le chiamo mia mamma» rispose Wan. «Mamma!» «Arrivo!» urlò Marisa correndo verso la porta. La signora Derossi rimase sul pianerottolo di casa. «Signora ecco le chiavi» le disse Marisa. «Ma chi è quella bambina?» le chiese insospettita la signora Derossi. «È mia figlia, perché?» e le chiuse la porta in faccia. La signora Derossi, che era sempre informata su tutti gli affari della gente del quartiere, non aveva saputo che Marisa era diventata mamma e il fatto non le quadrava, così chiese un po’ in giro. La verità venne a galla. La signora Francioso del primo piano le raccontò che Marisa, da quando era morto Steven, si occupava della bambina facendole da madre. Tra la signora Derossi e Marisa non correva buon sangue e, siccome la signora Derossi era proprietaria della casa in cui alloggiava Marisa e questa più di una volta aveva ritardato i pagamenti dell’affitto, la perfida signora decise di approfondire il discorso sull’improvvisa maternità. Il figlio della signora Derossi lavorava al tribunale dei minori e attraverso i suoi colleghi e dipendenti del comune era venuta a sapere che nessuna Wan risultava vivere in quella via e in Italia così, pochi giorni dopo, Marisa trovò dentro la cassetta delle lettere una raccomandata del tribunale dei minori dove veniva invitata a presentarsi con la bambina per accertamenti. Marisa si spaventò immediatamente e fu presa da una profonda crisi di pianto, infine decise di chiamare una sua amica avvocatessa, Stefania Sensi, per cercare una soluzione. «Ciao Stefania, sono Marisa.» «Ciao Marisa, dimmi tutto.»


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«Ho un grosso problema. Ci possiamo vedere da qualche parte il più presto possibile?» «Vieni nel mio ufficio oggi pomeriggio, mi trovi fino alle sei.» «Okay, a dopo» concluse Marisa e prima di tirare giù la cornetta vide Wan con la raccomandata in mano. «Cos’è questa mamma? Perché c’è il mio e il tuo nome sopra? Cosa vuol dire affidamento?» le chiese Wan con lo sguardo perso nel vuoto. Marisa non ebbe il coraggio di svelare a Wan che Steven non era suo padre, che lei era caduta nelle mani dei trafficanti di bambini e che aveva, dunque, un passato fatto di violenza, un passato condiviso con un’altra vittima, sua sorella, di cui si era perduta l’identità. «Il tribunale dei minori mi ha convocato per un’udienza… io sono single e non sono un tuo parente prossimo quindi c’è il rischio che le nostre strade si separino… ma io farò di tutto per ottenere l’affidamento, stanne pur certa mia cara Wan.» «No, non posso sopportare una vita senza di te. Ho perso mio padre e ora... tu no... ti prego no» gridò Wan e strinse forte a sé Marisa. Nel pomeriggio Marisa raggiunse lo studio di Stefania. Rimasero a parlare a lungo e alla fine Marisa comprese che le speranze che Wan rimanesse con lei erano minime ma volle comunque presentare al tribunale la domanda per adottare Wan, visto che la bambina la considerava ormai sua madre. Purtroppo due giorni dopo il tribunale decise che la bambina doveva essere subito trasferita in un orfanotrofio e fu fatto divieto assoluto a Marisa di vederla. Marisa svenne nell’aula del tribunale e fu soccorsa da Stefania che chiamò immediatamente un’ambulanza. Non fu nulla di grave ma solo un improvviso calo di pressione dovuto allo stress, in un paio di giorni uscì e tornò a casa. Nel frattempo Stefania aveva fatto in modo di far sparire Wan. Mentre era sull’ambulanza e teneva la borsetta di Marisa, aveva aspettato che l’infermiere si distraesse un attimo per prendere il misuratore di pressione, e aveva preso le chiavi di casa di Marisa. Nel pomeriggio, poi, era andata a casa sua insieme a un suo amico, Cristian e, prevedendo che la bambina si sarebbe spaventata e avrebbe incominciato a gridare appena entrata in casa, aveva spruzzato un potente sonnifero, in questo modo Wan, che in quel momento stava dormendo, non si sarebbe svegliata. Prima di uscire aveva lasciato un biglietto utilizzando le lettere di un quotidiano, ritagliandole una a una per comporre le parole: “Wan è nostra. Jeremy”. Stefania conosceva la storia della bambina, gliela aveva raccontata Marisa, sapeva che lei avrebbe voluto vendicarsi della morte di Steven così lasciò quel


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biglietto in modo tale che la polizia incominciasse a indagare su di lui. Poi aprì la porta di casa e fece cenno a Cristian di entrare per prendere la bambina. La caricò sulle spalle e scese le scale lentamente controllando che nessuno si accorgesse di nulla. Marisa, prima di uscire di casa, aprì tutte le finestre e lasciò la porta di casa socchiusa. Per simulare l’intrusione aveva forzato la porta utilizzando un piede di porco. Scese le scale fino a piano terra dove Cristian, la stava aspettando avendo adagiato la bambina sugli ultimi scalini. Lei uscì dal portone, si guardò un po’ intorno, e non vide nessuno, fece cenno a Cristian di seguirla. I due portarono Wan a casa di Cristian, nei pressi di Acqui Terme, in una zona deserta e quindi non facilmente raggiungibile. Wan dormì per tutto il viaggio. Stefania poi ritornò all’ospedale e rimise nella borsetta di Marisa le chiavi di casa sua. Appena Stefania si sedette sulla seggiola di fianco al letto di Marisa, lei aprì gli occhi: «Dov’è Wan?» disse gridando e afferrandola per un braccio.


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Gli assistenti sociali si erano presentati nel pomeriggio a casa di Marisa per portare via Wan. Avendo trovato la porta semiaperta, erano entrati e vedendo che la casa era stata messa a soqquadro, chiamarono subito la polizia e avvisarono il tribunale dei minori della scomparsa di Wan. Fu l’ispettore Gerardi a sopraggiungere a casa di Marisa. Appena entrò in cucina e vide quel biglietto lasciato sul tavolo, gli venne immediatamente in mente ciò che Marisa gli aveva raccontato riguardo a Jeremy. Siccome era diventato ispettore da poco, quel caso avrebbe potuto rappresentare la svolta nella sua carriera così, dopo aver fatto un giro di tutta la casa, decise che era assolutamente necessario parlare con Marisa. Interrogò i vicini chiedendogli se si fossero accorti di qualche movimento strano o se avevano visto qualcuno. Le risposte che ottenne furono tutte negative. Quando giunse a piano terra, incontrò Tiziana Ferraro. «Signora buongiorno, sono l’ispettore Gerardi. Sto indagando sulla scomparsa di Wan. Lei, per caso, ha visto qualche persona strana aggirarsi nel palazzo? Ha sentito qualche rumore?» «No, mi dispiace. Non so come aiutarla» gli rispose con tono deciso. «La ringrazio» disse lui e prima di accendersi una sigaretta, notò che sull’ultimo gradino della scala c’era un braccialetto d’argento. Lo raccolse, lo girò e lo rigirò e vide che al suo interno era stato inciso il nome di Wan. Quel braccialetto era un regalo che Marisa le aveva fatto pochi giorni dopo la morte di Steven. L’ispettore lo mise in tasca e uscì dal portone sbattendo la porta poi salì in macchina dirigendosi verso l’ospedale.


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«Hanno rapito Wan» le disse Stefania. «L’hanno rapita?» «Sì, purtroppo qualcuno è entrato in casa, qualche ladro l’ha portata via con sé» le disse Stefania cercando di essere il più credibile possibile. «Ma stai scherzando?» «No, no sto dicendo la verità» disse Stefania sorridendo e facendole cenno di tacere. «Non ti preoccupare, è al sicuro. Ho pensato io a lei per evitare che la portassero via gli assistenti sociali. L’ho fatto per te, so che ora tu vivi solo ed esclusivamente per quella bambina.» «Sì, la amo da morire» rispose lei facendo un sospiro di sollievo. «Ora verrà la polizia a interrogarti, il nostro scopo è che loro vadano a cercare Jeremy e lo arrestino. Tu vuoi vendicarti vero?» «Sì, voglio che venga fatta giustizia» rispose Marisa sbattendo i pugni sul letto. «Credimi, se non se occupano loro da sola non ce la potrai mai fare. Ho lasciato un biglietto in cucina firmato con il nome di Jeremy, verranno a chiederti informazioni, tu sai cosa devi fare vero?» «Sì, non ti preoccupare, grazie di tutto» le disse Marisa e l’abbracciò più forte che poteva. In quel preciso istante arrivò all’ospedale l’ispettore Gerardi: «Aspettavo una sua chiamata» disse avvicinandosi al letto di Marisa. «Non ho più avuto tempo... il tribunale mi ha negato l’affidamento di Wan e non solo… credo siano già andati a prenderla a casa. Mi avevano costretto a lasciare un mazzo di chiavi nell’aula del tribunale prima che perdessi i sensi.» «Devo dirle, purtroppo, che Wan è stata rapita e a questo punto, visto che di mezzo c’è il tribunale e che la bambina deve essere messa in un orfanotrofio prima di essere affidata a una famiglia, dobbiamo per forza di cose proseguire con l’indagine.» «Ma come l’hanno rapita?» «Vengo adesso da casa sua… qualcuno ha forzato la porta e oltre a rubare, ha portato via anche la bambina ma non credo si tratti semplicemente di una rapina dato che abbiamo trovato anche questo


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biglietto in cucina» e tirò fuori dalla tasca della giacca il biglietto che aveva lasciato Stefania sul tavolo e glielo mostrò. «Un vero capolavoro» disse Marisa guardandolo poi lo mostrò a Stefania che si avvicinò e lo osservò attentamente, come se non ne sapesse nulla. «A questo punto non ci resta che partire e andare in Cile» disse Gerardi infilandosi le mani in tasca. «Voglio venire anche io» dichiarò Marisa sbattendo nuovamente i pugni sul letto e facendo finta di essere disperata. «È pericoloso, mi creda, si rischia la vita, non voglio avere persone sulla coscienza, mi dispiace ma non possiamo portarla con noi» le disse prima di uscire dalla porta. Marisa si alzò da letto e lo seguì, lo afferrò per un braccio e lo spintonò al muro: «Cosa farebbe lei se le ammazzassero un parente? Cosa farebbe? Farebbe finta di niente, perdonerebbe l’assassino o vorrebbe che fosse fatta giustizia?» gridò lei guardandolo dritto negli occhi. Gerardi rimase turbato da quell’atteggiamento e se ne andò senza dire una parola. «Io vengo con voi, che lei lo voglia o no» gli urlò Marisa un attimo prima che lui salisse sull’ascensore poi tornò in camera adirata. «Stai tranquilla, vedrai che un modo per partire lo troviamo. L’importante è che ora Wan sia al sicuro… andrà tutto bene» le disse Stefania abbracciandola forte. Stefania considerava Marisa come una sorella. Erano cresciute insieme e avevano condiviso gli stessi amori e le stesse passioni per la lettura e la scrittura, poi, non si erano più riviste per quasi dieci anni. Una sera, per caso, si rincontrarono in un bar al porto Antico, entrambe accompagnate dai loro rispettivi fidanzati, Francesco e Claudio. I ragazzi si conoscevano, erano colleghi, lavoravano nello stesso supermercato e uscivano da poco più di un mese con Stefania e Marisa ma il loro scopo era solo quello di portarsele a letto. Stefania era alta, snella, amava sempre vestirsi poco, sia d’estate che d’inverno, con scollature mozzafiato. Non era bella di viso ma era provocante. Viveva una doppia vita: mentre di giorno era un avvocato modello in tailleur, di notte si trasformava in donna estremamente attraente. Amava trascorrere la notte in giro per locali a far impazzire gli uomini, a provocarli e poi, sul più bello, li allontanava. Non aveva mai fatto l’amore con nessuno e, nonostante sembrasse una donna facile, era ancora vergine. Amava apparire ma non aveva mai toccato un uomo e non si era mai fatta toccare, baciava ma, appena vedeva che la situazione precipitava, si liberava e se ne andava. Da qualche mese


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aveva deciso di cercarsi un compagno e aveva conosciuto Francesco nel supermercato dove andava a spendere. Dopo alcuni tentennamenti e indecisioni, aveva accettato di uscire con lui che subito si era dimostrato estremamente romantico ma il suo atteggiamento nascondeva solo una tattica per far cadere Stefania tra le sue braccia. Quella sera, mentre Stefania e Marisa ballavano sulla pista, i due rimasero seduti a sorseggiare cocktail tutta la sera fumando una sigaretta dietro l’altra, poi organizzarono una sorpresa per le loro ragazze. Quando uscirono dal locale, i ragazzi raggiunsero le loro rispettive auto e si diedero appuntamento nel parco del Peralto. Le due ragazze non si accorsero di nulla perché si erano addormentate appena giunsero in auto. Era una fredda serata di novembre. Francesco e Claudio si fermarono con le loro macchine in una piazzola davanti a un fitto bosco di pini. Francesco tirò fuori da sotto il sedile una chiave inglese e Stefania si spaventò. «Lasciami fare e non ti farò del male» le disse tirandole su la gonna. Lei cercò di opporre resistenza e lui la minacciò avvicinando la chiave inglese alla sua testa. «Fai la brava, non ti muovere, puoi anche non godere basta che fai godere me» e si tirò giù la cerniera dei pantaloni mostrando un membro gonfio e voglioso di piacere. Anche Claudio, intanto, cercava di fare la stessa cosa, ma si avvicinò a Marisa senza usare le maniere forti. «È troppo presto, ci conosciamo da poco, non me la sento» continuava a ripetergli Marisa cercando di allontanarsi da Claudio. Lo scopo dei ragazzi era quello di scoparsele e poi fare un’orgia, ma mentre Francesco aveva perso completamente il lume della ragione e con violenza cercava di ottenere ciò che desiderava, Claudio, invece, ricorse alle buone maniere. Provò ad avvicinarsi più volte ma venne respinto. «Andiamo a casa» gli suggerì Marisa. «Vorrei qualcosa di più da te» continuava a dirle Claudio allungando le mani sulle sue gambe e sul suo seno. Marisa riuscì a scendere dalla macchina e in quel momento sentì le grida di Stefania provenienti dall’abitacolo della macchina di Francesco. Cercò, allora, di aprire la portiera della macchina di Francesco ma era bloccata. Arrivò, nel frattempo, Claudio che la prese per un braccio e la spinse per terra poi le salì addosso. Con violenza le strappò la camicetta e incominciò a baciarla, Marisa allora allungò un braccio e prese una


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pietra e gliela tirò in faccia. Claudio cadde a terra sanguinante. Marisa si rialzò e incominciò a battere i pugni contro il vetro della macchina di Francesco. Il buio e i vetri appannati rendevano la visuale difficile ma si intravedeva il corpo di Francesco muoversi su quello di Stefania, lei che piangeva e lui che godeva. Marisa, in preda alla disperazione, cercò qualcosa per spaccare il vetro. Si avvicinò al corpo di Claudio che giaceva a terra privo di sensi, riprese il sasso con cui l’aveva ferito e lo tirò contro il vetro della macchina di Francesco che si frantumò in mille pezzi. In quel momento Francesco si staccò da Stefania, uscì dalla macchina e iniziò a inseguirla: «Ora mi faccio anche te… vieni qui che ti faccio un bel regalo». Marisa corse più che poté. Si accorse, a un tratto, che il sentiero finiva in una scarpata, si fermò a pochi passi dal burrone, si sedette per terra e quando appoggiò la mano sinistra, vide che c’era un bastone. Non appena sentì Francesco avvicinarsi, lo colpì ripetutamente sulla schiena e sul volto con una rabbia inaudita. Lui, sbilanciandosi, cadde nel vuoto. Marisa rimase seduta per un po’ ansimando e piangendo disperata, poi si rialzò tenendo il bastone in mano e tornò da Stefania che, ancora in preda allo choc, giaceva in macchina in stato confusionale. Claudio era ancora lì, privo di sensi. Marisa salì in macchina: «Va tutto bene Stefania, è finita…». Stefania rimase immobile, tremante come una foglia con lo sguardo perso nel vuoto. Marisa mise in moto la macchina e tornarono a casa. Il giorno dopo Marisa fece sparire tutte e due le macchine facendole rottamare da un suo amico. Seppe, attraverso i giornali, che anche Claudio era morto a causa di una emorragia cerebrale; la polizia aveva indagato ma non erano riusciti a trovare nulla, il caso era stato archiviato. Non appena Stefania si riprese ringraziò Marisa per averla salvata e un giorno, mentre erano al bar, le disse con le lacrime agli occhi: «Spero che un giorno Dio mi dia la possibilità di dimostrarti quanto ti sono grata». «Sai quanto ti voglio bene Stefania e non permetterò mai a nessuno di farti del male» le aveva risposto Marisa stringendole forte le mani. Il rapimento di Wan fu l’occasione per Stefania di dimostrare che le sue non erano state solo parole. Non credo esista gioia più grande nel vedere le persone che ami sorridere


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grazie al tuo aiuto. Quando Marisa uscì dall’ospedale volle subito vedere Wan. «È rischioso adesso. Ho paura che la polizia ci stia alle calcagna» le aveva risposto Stefania che l’aveva accompagnata a casa. «Quando potrò rivederla?» le aveva chiesto Marisa. «Deve passare un po’ di tempo… se per caso sbagliamo qualche mossa è la fine, si rischia di perdere completamente Wan, dobbiamo agire con cautela, capisci? Ho intenzione di andare a parlare con l’ispettore e sentire cosa mi dice, dopodiché, quando avremo Jeremy in carcere, vedremo cosa si potrà fare. Sappi che è comunque al sicuro.»


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Wan si svegliò verso sera. Si strofinò gli occhi per cercare di svegliarsi da quell’incubo. Si guardò attorno poi chiuse e aprì gli occhi nuovamente incredula. Scese dal letto, aprì la porta e si trovò in un immenso salotto. Vide un uomo con i capelli castani seduto sul divano girato di schiena che stava leggendo un libro. Si avvicinò lentamente guardandosi attorno. «Ciao, io sono Cristian. Non ti preoccupare e non ti spaventare qui sei al sicuro. Sono un amico di Stefania, la conosci?» Wan aveva sentito parlare di Stefania da Marisa. «C’è qualcuno fuori che ti vuole fare del male, tu vuoi che Marisa continui a essere la tua mamma?» «Sì» aveva risposto Wan senza esitare. «Devi stare qui tranquilla. Non potrai vedere tua mamma per un po’ di tempo ma tornerà da te.» «Dov’è?» chiese Wan piangendo. «È a Genova e sta bene, stai tranquilla.» «Ma posso parlare con lei almeno al telefono?» «No, non è possibile. È un situazione molto delicata, basta una mossa azzardata e va tutto in fumo, tua madre potresti non rivederla mai più.» «Va bene, come non detto» gli disse prima di tornare in camera. Wan passava la maggior parte del tempo a guardare la tv. Cristian cercava di farla giocare,di distrarla il più possibile e, siccome non poteva rimanere da sola, lui pagava una ragazza che provvedeva a fare la spesa. Cristian aveva raccomandato a Wan di non farsi mai vedere da lei. Quando al mattino la ragazza giungeva in casa per consegnare la spesa e suonava il campanello, Wan correva in camera e rimaneva lì fino a quando Cristian non andava ad aprire la porta per darle il via libera. Ogni giorno Stefania chiamava per sapere come stava la bambina. Al telefono usava parole in codice in modo tale che nessuno si potesse accorgere di nulla, poi andava da Marisa raccontandole per filo e per segno come stava sua figlia e lo stesso faceva Cristian con Wan. Nei loro occhi la stessa intensità d’amore,


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nei loro cuori la speranza di potersi rivedere un giorno, il prima possibile. Una figlia e una madre, apparentemente lontane, ma allo stesso tempo vicine, a guardare fuori dalla finestra nello stesso istante lo stesso cielo blu infinito. Stefania andò in ufficio a parlare con l’ispettore Gerardi ma ogni sforzo fu vano e così decise che sarebbe partita con Marisa anche senza l’approvazione dell’ispettore. Chiese a Luca, un suo amico che lavorava in biglietteria all’aeroporto, quando l’aereo speciale della polizia sarebbe partito per il Cile. «L’aereo parte tra due giorni, alle sei e trenta di sera da Milano.» «Grazie Luca. Trovami un volo per lo stesso giorno con la stessa destinazione e prenotami già due biglietti, okay?» «Certo, ti mando un messaggio e ti faccio sapere. A presto.» Stefania corse a casa di Marisa: «Incomincia a buttare un po’ di roba in valigia, tra due giorni partiamo» disse a Marisa. «Ma cosa ha detto l’ispettore?» «Non ne vuole sapere… partiremo da sole.» «Ma tu con il tuo ufficio come fai?» «C’è la mia assistente, è in gamba, mi posso fidare di lei.» «Okay, sono felicissima. Ti ringrazio. Ti voglio un bene dell’anima, lo sai?» disse Marisa stringendola forte al suo petto. «Anche io te ne voglio e te ne vorrò per sempre.» Stefania, stremata dall’intensa giornata, si fermò a dormire da lei. Marisa rimase sveglia tutta la notte a pensare a Steven e a Wan: “Chissà quando la potrò riabbracciare” continuava a chiedersi. Si avvicinò a Stefania che dormiva, la abbracciò forte e lei si svegliò improvvisamente. «Scusami, ma ho bisogno di affetto, stringimi forte, ti prego» disse Marisa piangendo. «Non fare così, vedrai che andrà tutto bene. Wan è al sicuro» e Stefania le accarezzò dolcemente il viso asciugandole le lacrime.


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La solitudine è un vortice senza fine, è quella pioggia di dolore che non smette mai di cadere sul tuo cuore. La solitudine è l’ombra della morte, è quel silenzio che non ci abbandonerà mai fino alla fine dei nostri giorni. La solitudine è questa vita dove a ogni bacio corrisponde un maledetto addio. Stefania pensò a un modo per risollevare Marisa da quella crisi depressiva che l’aveva travolta. Accese la luce per guardare che ora fosse: «Sono le quattro del mattino, vestiti di corsa» le disse e si alzò da letto di scatto poi corse a vestirsi. «Dove mi porti a quest’ora?» «Vestiti, dai muoviti!» Quando entrò in bagno per darsi una pettinata, Stefania le disse: «È inutile che ti pettini, hai uno scialle da qualche parte?». «Sì, ne ho uno blu che mi aveva regalato mi madre.» «Prendilo.» Marisa tornò in bagno dopo poco: «Ma a cosa ti serve lo scialle?» le chiese con tono perplesso. «Non devo metterlo io, devi indossarlo tu, ora stai ferma che ci penso io. Nessuno deve riconoscerti hai capito?» le disse sorridendo. Marisa rimase in silenzio mentre Stefania le copriva i capelli con lo scialle poi le mise gli occhiali che teneva nella sua borsa. «Ma sono ridicola così» disse Marisa abbozzando un sorriso. «Purtroppo amica mia devi esserlo. Nessuno deve accorgersi che sei tu. Dai, andiamo che dobbiamo fare presto!» «Ma dove mi porti?» «Vedrai che la tua tristezza passerà» rispose Stefania sorridendo poi accese il suo telefono cellulare e mandò un messaggio a Cristian scrivendo: “Facciamo un salto da te. A presto”. Cristian, appena sentì il cellulare squillare, si svegliò di soprassalto; allungò un braccio per prenderlo poi, con gli occhi semichiusi, lesse il messaggio di Stefania. Si alzò immediatamente strofinandosi gli occhi e incominciò a pensare al motivo per il quale Stefania aveva deciso di andare da lui, inoltre, l’uso del verbo al plurale lasciava intendere che non sarebbe venuta da sola, quindi, aveva intuito che con lei sarebbe


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venuta sicuramente Marisa, la madre di Wan. Pensò che sarebbe stato rischioso e pericoloso per l’incolumità non solo della bambina ma di tutti se qualcuno l’avesse vista. Andò in cucina, si versò il caffè del giorno prima in una tazza poi aprì la finestra e si accese una sigaretta. Fuori era ancora buio. Cristian aveva calcolato che più o meno sarebbero arrivate in un’ora così, dopo aver finito di fumare, rimase ancora qualche minuto a osservare la strada illuminata dai lampioni che portava a casa sua. Ripensò a quella mattina quando, uscendo di casa, proprio su quella strada, si era imbattuto in un cucciolo di cinghiale che di notte era sceso a valle. Gli occhi teneri e innocenti di quel cucciolo lasciavano intendere la sua sofferenza perché si era perso. Cristian cercò di avvicinarsi ma il piccolo scomparve tra gli alberi. Una settimana dopo lo vide vicino alla sua macchina in compagnia di sua madre e ne fu felice. Appena cercò di avvicinarsi, la madre del piccolo si voltò verso di lui, fece un verso come se volesse ringraziarlo e poi insieme al piccolo corsero verso il bosco. Cristian ripensò a quell’episodio, pensò a quanto era necessario per Marisa rivedere sua madre e quanto fosse importante per Wan riabbracciarla per un momento. Scrisse, così, un messaggio: “Venite tranquille, vi aspettiamo... a presto!” poi si infilò il cellulare nella tasca dei pantaloni ed entrò nella camera dove dormiva Wan. Si avvicinò al suo letto lentamente e poi accarezzandole il viso le disse: «Wan vieni, c’è una sorpresa per te». Lei si girò verso la sveglia per guardare l’ora: «Ma è presto, lasciami dormire per favore». In quel momento squillò il cellulare di Cristian, solamente uno squillo. Tirò fuori dalla tasca il cellulare e vide sul display il nome di Stefania. Capì che, probabilmente, Stefania e Marisa erano quasi arrivate. Corse alla finestra e tirò su la tapparella: la prima luce del mattino entrò dolcemente a illuminare la stanza mentre Wan nascose la testa sotto il cuscino. Cristian vide in lontananza la macchina di Stefania avvicinarsi. «Wan alzati, dai!» le disse avvicinandosi al letto cercando di tirarla fuori dalle coperte. «C’è una sorpresa per te, fidati di me, sarai felice.» Wan rimase a letto, con gli occhi chiusi facendo finta di dormire poi sentì il rumore dell’automobile sotto casa, il rumore della portiera che si apriva e quella voce che tanto aveva sognato e che tanto aveva sperato di riascoltare: la voce di Marisa che chiedeva a Stefania dove si trovassero, ancora ignara di tutto. In quel preciso istante Wan aprì gli occhi, si alzò dal letto e corse alla finestra evitando che Cristian la


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fermasse. «Non ti affacciare» gridò Cristian per paura che qualcuno la vedesse ma lei non ubbidì e vide Stefania e Marisa. «Mamma!» gridò Wan riconoscendola nonostante avesse gli occhiali da sole e il capo coperto dallo scialle. Marisa si guardò attorno spaesata poi alzò gli occhi e la vide. La prima reazione di Marisa fu quella di piangere lacrime di gioia, poi si voltò verso Stefania abbracciandola: «Grazie amica mia». «Non possiamo stare a lungo, è pericoloso… ricorda che Wan rischia la vita» le disse Stefania. Wan corse ad aprire la porta di casa e andò incontro a Marisa per abbracciarla. «Ti voglio bene.» «Anche io mamma. Mi sei mancata da morire.» Stefania si allontano per lasciarle sole e per nascondere la sua commozione. Cristian uscì di casa e la raggiunse: «Tutto bene Stefania?». «Sì, sono contentissima per lei, per averle regalato quest’attimo di felicità.» «Ma come mai siete venute?» le chiese Cristian accendendosi una sigaretta. «Da quando Marisa si e' separata da Wan e' caduta in una profonda crisi depressiva,ho voluto che la rivesse anche per poco prima di raggiungere il Cile. Marisa vuole seguire le indagini, vuole che venga fatta giustizia per Steven. «Ma non è pericoloso?» «Si, lo è ma Marisa è pronta a tutto e io non mi sento di abbandonarla. Presteremo attenzione, vedrai che andrà tutto bene» e lo abbracciò forte. «Speriamo. Wan, comunque, qui è al sicuro. Vorrei farla uscire di casa ma temo per lei.» «Bisogna lasciare che le acque si calmino, anche se la vera bomba esploderà quando ormai saremo già in Cile. Siccome il caso è molto delicato, la polizia ha deciso di non rendere pubblica la notizia della scomparsa di Wan prima di raggiungere il Cile.» «Sei sicura?» «Sì, me l’ha detto l’ispettore quando ho cercato invano di convincerlo che per Marisa sarebbe stato importantissimo seguire le indagini ma lui ha rifiutato. Così vado io con lei. Tu, mi raccomando, abbi cura di te e di Wan. Grazie di tutto.»


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«Ti voglio bene» le disse Cristian stringendola forte al suo petto. Cristian e Stefania si erano conosciuti da bambini, tra loro era nata immediatamente una forte amicizia che avrebbe potuto sfociare in qualcosa di più ma tutti e due avevano avuto paura di rovinare il loro rapporto. «Dobbiamo andare ora, è tardi» disse Stefania accarezzando il volto di Cristian. «Sì, andate, tra poco, inoltre, dovrebbe arrivare la ragazza che ci consegna la spesa. Fammi sapere se ci sono novità, okay?» «Sì, certo ci sentiamo via sms, come sempre» rispose lei sorridendo e raggiunsero Marisa e Wan. Marisa, vedendo Stefania e Cristian avvicinarsi, capì che era arrivato il momento di andare: «Mi raccomando sii brava, vedrai che la mamma torna presto. Ubbidisci a Cristian, capito?» disse Marisa con tono deciso. «Sì mamma, ma quando potremmo stare un po’ insieme?» «Abbi fede amore mio… presto, molto presto» rispose Marisa. Wan la prese per mano e la accompagnò fino alla macchina. «Grazie Cristian per tutto quello che fa per mia figlia» e gli strinse forte la mano. «Non è nulla, mi creda. È felice adesso?» «Parzialmente. Dopo aver risolto il caso di Steven, vorrei che Wan andasse ad Antartica per conoscere sua sorella, solo allora la mia missione sarà conclusa» gli disse sorridendo. In quel preciso istante sbucò, da un sentiero secondario, Simona, la ragazza che Cristian pagava per fare la spesa. Vedendo che Cristian stava parlando, decise di nascondersi dietro un albero per non farsi vedere e nessuno si accorse di lei. Simona rimase nascosta fino a quando vide la macchina partire e la bambina rientrare in casa insieme a Cristian. Aspettò alcuni minuti poi raggiunse la casa e suonò il campanello. Cristian le aprì e, come aveva sempre fatto, non la fece entrare in casa; le diede i soldi e la lista della spesa sul ballatoio e la salutò. Simona abitava in un casolare non molto distante da quello di Cristian; a dividere le due case c’era un immenso bosco di pini e abeti altissimi dove regnava silenzio e pace. Simona andava da Cristian tre volte alla settimana: il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Era una studentessa di giurisprudenza che viveva con i nonni e per riuscire a mantenersi all’università' di sera lavorava come cameriera in un ristorante. Per arrotondare aveva accettato anche il lavoro che le aveva proposto Cristian. Solitamente Simona raggiungeva la casa di Cristian in automobile ma quella mattina


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la batteria della macchina si era scaricata e così per andare da lui decise di attraversare il bosco a piedi. Erano anni che non lo faceva più, da quando era piccola e col padre andava in cerca di funghi o quando con i suoi amici giocava a nascondino, oppure quando cercava di fuggire dai piccoli problemi dell’adolescenza. Si sentiva protetta dal bosco, dai quegli alberi così alti che toccavano il cielo. Trascorreva ore e ore seduta su un tronco d’albero ad ascoltare la serenità e quel silenzio che esiste solo in un sogno. Attimi, immagini sbiadite dal tempo, ricordi che fanno sorridere, che fanno anche morire.


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In prossimità di Genova Stefania fece togliere lo scialle e gli occhiali a Marisa. «Ora puoi liberarti di tutto, sei contenta?» le chiese Stefania. «Sì, non so come ringraziarti. Aver visto mia figlia anche solo per un attimo mi ha reso felice.» Squillò il cellulare di Stefania. Si accostò con l’auto per vedere di cosa si trattasse. Era un messaggio di Luca: “Ti ho prenotato il volo alle otto e trenta di sera da Milano. I biglietti sono già pronti. Ci vediamo domani. A presto”. «È Luca, quel mio amico che lavora all’aeroporto. Partiamo domani sera, i biglietti sono pronti. Partiamo due ore dopo la polizia in modo da non dare nell’occhio.» «Bene, non vedo l’ora che acchiappino quel bastardo che ha ucciso Steven» disse Marisa digrignando i denti. Il giorno dopo arrivarono a Milano intorno alle sei e trenta di sera, due ore prima della partenza e corsero in biglietteria a cercare Luca che diede loro i biglietti e le informò che l’aereo che stava decollando era quello della polizia. «Ma non c’è scritto nulla sulle fiancate dell’aereo?» chiese Marisa. «Sono sempre anonimi per non dare nell’occhio ma fidati sono i migliori aerei che ci sono in circolazione, non è mai precipitato uno, mai» rispose Luca. L’aereo della polizia era un Boeing 747 che veniva utilizzato per missioni speciali. Insieme all’ispettore c’erano sessanta poliziotti scelti, in borghese, pronti a intervenire per qualsiasi evenienza. La missione era segreta, solo il governatore cileno ne era a conoscenza. L’ispettore, durante tutto il volo, non fece altro che sfogliare tutti i documenti e i fogli dove aveva preso appunti e a pensare al modo migliore e più indolore per risolvere il caso. Il braccio destro del governatore, Ferdinando Pereira, venne a conoscenza dell’arrivo della polizia italiana un’ora prima che l’aereo atterrasse e a informarlo fu lo stesso governatore: «Tra poco arriva la polizia italiana per un caso di una bambina


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scomparsa di nome Wan. Dobbiamo assolutamente fare una bella figura anche se, secondo me, sarà difficile riuscire a risolvere il problema del traffico dei bambini qui in Cile. Dobbiamo collaborare con loro e cercare di fare il possibile, capito? Ho mandato un pullman a prenderli per portarli all’Hotel Plaza. Domani li incontreremo» dichiarò conciliante il governatore soffermandosi a guardare fuori dalla finestra una bellissima donna cilena appoggiata a un muretto in mutande e reggiseno che invitava le macchine a fermarsi. «Che caos che è diventato questo paese. Solo sesso e droga» e si accese un sigaro. «Perché mi ha informato solo ora dell’arrivo della polizia?» gli chiese Ferdinando. «È una missione segretissima, nessuno deve sapere nulla. Non è che non mi fidi di te ma ho preferito organizzare tutto io… ora pensa a fare in modo che nulla vada storto a cominciare da quella puttana che è giù.» «Non si preoccupi, ci penso io.» Ferdinando era anche collaboratore di Jeremy nel traffico di bambini. Si era arricchito aprendo le frontiere e ogni anno incassava soldi a palate, senza destare il minimo sospetto. Appena scese a piano terra, tirò fuori il suo cellulare privato e scrisse un messaggio a Jeremy: “Guai in vista” poi uscì dal portone e vide dall’altra parte della strada quella donna che si era completamente denudata e che sventolava mutande e reggiseno. Intorno vi era una coda infinta di macchine che si fermavano a chiederle quanto volesse per una scopata e lei che gridava dicendo che avrebbe venduto il suo corpo per soli diecimila dollari. Ferdinando ordinò ai due poliziotti che facevano la guardia interna al palazzo del governatore di uscire e consegnargliela immediatamente. «Vuole che la arrestiamo signor Pereira?» chiesero. «No, portatemela in ufficio.» I due poliziotti attraversarono la strada, la presero con forza e la trascinarono dentro il palazzo fino all’ufficio di Pereira. «Cosa volete da me?» gridò lei. «C’è il vicegovernatore che vuole parlarti, è meglio che lo ascolti, capito?» «Andate via» ordinò Pereira ai poliziotti. La donna rimase immobile come una statua mentre Pereira le girava attorno osservando il suo corpo attentamente. «Se dovessimo rispettare la legge, dunque, ti dovrei mettere dentro al fresco per atti osceni in luogo pubblico. Come ti chiami? Sei qui da


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sola? Chi è il tuo capo?» «Sono qui da sola. Di giorno studio e faccio lavori saltuari… la mia è solo una provocazione… non sono una prostituta. Sono ancora vergine, cerco il migliore offerente per perdere la mia verginità. Ho ventotto anni e mi chiamo Susanne» disse lei piangendo. «Il governatore vuole che ti arresti. Cosa sei disposta a fare?» le chiese guardandola dritta negli occhi. Lei rimase in silenzio poi si voltò di spalle e si appoggiò in avanti sul tavolo lasciando ben visibile il suo sesso. «No, così non mi piace» le disse e si allontanò. «Voglio qualcosa di particolare… sorprendimi tu che hai fatto impazzire così tanta gente per la strada… fai impazzire anche me.» «Non ho molte fantasie, mi dica lei.» «Prova a lasciarti andare.» Lei si sdraiò sulla scrivania, allargò le gambe e prese una penna e incominciò a farla entrare e uscire dal suo sesso. Pereira si avvicinò e lei gli sbottonò i pantaloni poi prese il suo membro e lo leccò fino all’amplesso. «Non sono totalmente soddisfatto» disse lui. Aprì un cassetto della scrivania e tirò fuori una bustina con della polvere bianca e la consegnò a Susanne. «Cos’è questa?» chiese lei. «Con questa non avrai più nessun tipo di inibizioni, vedrai» rispose lui. Susanne non aveva scelta, non aveva mai provato nessun tipo di droga ma per non andare in carcere doveva per forza accettare la sua proposta. Ne sniffò un po’ e incominciò a sentire la testa girare, perse la lucidità nei movimenti e cadde a terra improvvisamente. Pereira cercò di risvegliarla ma ogni sforzo fu inutile. Susanne morì all’istante. I due scagnozzi di Pereira infilarono il corpo di Susanne dentro un sacco e la portarono via senza che nessuno si accorgesse di nulla, poi Pereira prese la macchina e si diresse verso casa. Mentre stava guidando il suo cellulare squillò. Era Jeremy. «Dove sei?» «Sto andando a casa. Occhio ragazzi, c’è un’aria brutta in arrivo domani dall’Italia.» Jeremy capì subito a cosa Pereira si riferisse ma non fece altre domande per paura che qualcuno potesse intercettare la telefonata e si limitò a salutarlo, poi avvisò tempestivamente tutti i suoi uomini dell’imminente pericolo.


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Quella stessa sera, due ore dopo, arrivarono all’aeroporto cileno anche Marisa e Stefania che, stremate dal lungo viaggio, decisero di alloggiare in un albergo vicino all’aeroporto. La mattina dopo presero un taxi e si spostarono nella zona del porto per pedinare e osservare meglio le mosse della polizia. Mentre il governatore e la polizia italiana guidata dall’ispettore Gerardi si incontravano per decidere insieme il percorso migliore da seguire per le indagini, Marisa e Stefania decisero di fare un giro nel porto. Passarono proprio davanti al cantiere dove lavora Jeremy che si insospettì immediatamente sentendole parlare in italiano e corse in ufficio a prendere la sua fotocamera. Fotografò le donne senza che loro se ne accorgessero. Poi si recò nel suo ufficio, caricò le fotografie sul personal computer e le inviò a Joakim che, essendo stato in Italia, avrebbe potuto riconoscerle. Joakim, in quel momento, stava dormendo nella stanza dell’albergo dove alloggiava da tre anni, cioè da quando aveva deciso di lavorare per Jeremy; tra lavoro in porto e lavoro extra guadagnava abbastanza per permettersi di soggiornare in albergo a vita. Lasciava il suo personal computer sempre acceso per ogni evenienza ma, dopo aver passato una notte tra alcool e donne, non sentì il segnale acustico del messaggio di Jeremy. Si girò nel letto allungando un braccio cercando la sua compagna della notte brava che si era appena alzata ed era andata in bagno. Aprì gli occhi infastidito dal rumore della doccia e guardò l’ora: le tredici. Aprì la tenda e uscì sul terrazzo dell’albergo in mutande e sentì le voci di due donne parlare in italiano provenire dal terrazzo confinante. Stefania non l’aveva mai vista, l’altra, Marisa, la riconobbe subito, l’aveva vista in compagnia di Steven. Rientrò subito nella stanza e corse al personal computer per avvisare Jeremy. In quel momento vide l’icona del messaggio di Jeremy. Aprì e guardò le foto che gli aveva mandato: erano loro le due donne che alloggiavano nella camera vicino alla sua. Stefania e Marisa lo videro ma nessuno delle due lo riconobbe perché Joakim era passato inosservato. Fu subito assalito dalla paura di essere riconosciuto e incominciò a pensare a un modo per farle fuori. Entrò in bagno. «Come ti chiami?» chiese a quella compagna occasionale. «Perché ti interessa saperlo, non volevi solo scoparmi?» rispose lei con tono scocciato. «Vorrei che rimanessi un po’ con me. Tieni, qui ci sono duemila dollari, ti voglio con me per altri due giorni.»


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Lei rimase un attimo in silenzio, poi prese i soldi. «Okay, d’accordo, due giorni di sesso con te li posso anche fare.» «No, non mi interessa solo quello, voglio farti fare cose nuove, più interessanti...» «Mi chiamo Nady.» «Nady ascolta, ho bisogno che tu vada in cucina con quell’abito provocante che avevi ieri sera e che distrai un po’ il cuoco, okay?» disse Joakim accarezzandole il seno. «Come vuoi tu. Vuoi che vada adesso?» chiese lei. «Sì, è necessario che tu vada subito.» Joakim conosceva tutto il personale dell’albergo, conosceva ogni loro movimento e i loro turni di lavoro. Era amico del padrone dell’albergo e più di una volta avevano mangiato insieme in cucina. Lui sapeva che, appesa a una parete della cucina, c’era il menu scelto da ogni singolo cliente con il relativo numero della camera. Sapeva che il numero della stanza dove dormivano Marisa e Stefania era il numero 49. Nady scese nella hall dell’albergo con un vestitino nero attillassimo, calze a rete, tacchi a spillo, capelli lunghissimi castani e eye-liner nero per sottolineare i suoi occhi blu oceano. Il personale rimase incantato a guardarla passare e lei, con aria disinvolta, si diresse in cucina. Nel frattempo Joakim scese le scale ed entrò in cucina dal retro; intanto Nady era già alle prese con il cuoco Roger sfoderando tutte le sue doti di ammaliatrice. La sala da pranzo dell’albergo era collocata al primo piano mentre la cucina era al piano sotterraneo. Roger infilava i piatti dentro un piccolo ascensore in modo che i camerieri potessero servirli ai tavoli. Accanto a ogni piatto c’era un biglietto con il numero della stanza, per da facilitare il compito dei camerieri. «Tu chi sei?» le chiese Roger guardandola atteggiarsi in maniera provocante. Nady salì sul bancone della cucina, si tirò su la gonna e incominciò a toccarsi. Roger rimase incantato a osservarla. «Oh mio Dio!» commentò lui avvicinandosi a lei e incominciò a toccarle le gambe. Lei si piegò e lui le toccò il seno prosperoso, poi scese dal bancone, allargò le gambe rendendo ben visibile il suo sesso. Roger, che aveva già preparato come antipasto l’insalata di mare e già diviso le porzioni con tutti i biglietti delle stanze sotto il piatto, chiamò via citofono la sala da pranzo avvisando che per un contrattempo il pranzo sarebbe stato servito con dieci minuti di ritardo. Appoggiò poi la cornetta, spense tutti i fornelli e portò Nady in magazzino dove c’erano


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tutte le scorte di cibo. Lui la afferrò da dietro e si tirò giù i pantaloni. Nady si liberò dalla sua morsa cercando una via di fuga. «Vieni qui, tanto non puoi scappare… dai che non ti faccio male» le disse lui sorridendo e si levò i pantaloni. Nady capì che non aveva via d’uscita. Roger si avvicinò a lei che era appoggiata al muro, la fece sdraiare, le tolse le mutande e la penetrò con violenza fino a raggiungere l’orgasmo. Nady rimase immobile come una statua, nessun piacere, solo espressioni di dolori e lacrime che scendevano lentamente dal suo volto e dal suo cuore. Mentre Roger e Nady erano in magazzino, Joakim entrò in cucina e mise delle gocce di veleno nei piatti di Stefania e Marisa senza che nessuno si accorgesse della sua presenza, poi tornò di corsa in camera. Dieci minuti dopo Roger tornò in cucina lasciando Nady chiusa a chiave nel magazzino e mise i piatti nell’ascensore. Quando il cameriere li portò in tavola, Stefania e Marisa incominciarono a mangiare. Dopo pochi minuti tutte e due iniziarono a tossire sempre più forte e dopo poco morirono soffocate. I camerieri e gli altri ospiti dell’albergo cercarono di aiutarle ma non ci fu nulla da fare. L’ambulanza arrivò troppo tardi. Joakim, nel frattempo, aveva mandato un messaggio a Jeremy dicendo che il pericolo era stato sventato. Jeremy gli rispose dopo poco ordinandogli di partire immediatamente per l’Italia in modo da eliminare definitivamente il problema. “Ventimila dollari e ci vado” aveva scritto Joakim. “Te ne do anche venticinquemila basta che non vengano fuori rogne e non si parli più di questa storia. Passa da me che ti do un anticipo” gli aveva scritto Jeremy. Joakim sentì le sirene dell’ambulanza arrivare e capì subito che il suo piano era andato a buon fine. Infilò tutto il necessario dentro la borsa, scese giù alla reception: «Cos’è successo?» chiese al padrone dell’albergo. «Non lo so con precisione ma due ospiti stavano mangiando e improvvisamente sono collassate e sono morte.» La polizia cilena era già lì. Si infilò gli occhiali da sole:


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«Ci vediamo tra un po’ di giorni… non so quando. Cercherò di fare il più presto possibile, okay?». «Non c’è problema. Per te c’è sempre posto, stai tranquillo» rispose il proprietario dell’albergo. Joakim uscì, prese un taxi e arrivò al porto proprio nel momento in cui arrivarono il governatore, il suo braccio destro e l’ispettore italiano tutti scortati dalla polizia italiana. Jeremy mandò un messaggio a Joakim dicendogli che l’anticipo l’aveva lasciato al giornalaio di fiducia del porto, un loro stretto collaboratore. Né la polizia italiana, né l’ispettore Gerardi notarono qualcosa di sospetto all’interno del porto, tutto sembrava tranquillo. L’ispettore cileno ricevette una telefonata da parte di un suo collaboratore per informarlo della morte delle due donne italiane e invitò l’ispettore Gerardi ad andare con lui. Appena arrivarono in hotel riconobbe subito le due donne, Stefania e Marisa. «Le conosco» disse lui. «Una è la donna che si prendeva cura di Wan, l’altra è la sua migliore amica.» Si può vivere insieme, si può anche morire insieme perché nulla insieme è impossibile. Si pensò inizialmente a un incidente. Iniziarono le indagini e furono messe da parte, per alcuni giorni, quelle riguardanti la bambina perché l’ispettore, conoscendo bene la storia, era convinto che fosse necessario approfondire e risolvere prima questo caso e poi l’altro. Con l’autopsia emersero sostanze velenose presenti all’interno del corpo delle due donne. Venne interrogato Roger, il cuoco, che continuò a dichiararsi innocente. Analizzando il cibo che lui aveva in cucina, sentirono un odore di carne marcia provenire dal magazzino. L’ispettore Gerardi cercò di aprire la porta ma era chiusa a chiave così, con l’aiuto dei poliziotti, riuscì a sfondarla. Dentro vi era il buio e un fetore incredibile. L’ispettore, dopo vari tentativi, riuscì a trovare l’interruttore della luce e la accese. Vide una donna legata a un tavolo con le gambe divaricate, con un laccio alla bocca e chiodi piantati sui capezzoli. Sul suo corpo c’erano evidenti segni di violenza subiti. «Di questa donna lei non sa niente, vero?» disse l’ispettore a Roger. «Sì, la conosco, è da alcuni giorni che la tengo chiusa qui dentro» disse lui abbassando lo sguardo.«Mi è capitata per caso… erano anni che


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sognavo una donna, che volevo una donna, non l’ho mai avuta e quando è arrivata ho cercato di non farla più andare via. L’ho uccisa perché lei non mi voleva» confessò piangendo. «Sì, ora le donne piovono dal cielo. Arrestatelo immediatamente!» disse l’ispettore prima di uscire dal magazzino. La polizia italiana e cilena, con l’aiuto del governatore, cercarono Wan ovunque ma di lei nessuna traccia. Pereira, che era coinvolto nella malavita locale, aveva avvertito tutti i suoi collaboratori di cessare momentaneamente qualsiasi attività fino al rientro della polizia in Italia. Dopo quindici giorni di indagini a vuoto, l’ispettore e la polizia italiana decisero di rientrare in Italia. Roger fu condannato all’ergastolo, non solo per aver ucciso Nady ma anche per aver messo il veleno nel cibo di Marisa e Stefania. In Italia la notizia della scomparsa di Wan e quella della morte di Stefania e Marisa vennero pubblicate alcuni giorni dopo. Tutte le testate giornalistiche italiane scrissero che era stato Roger a uccidere le due donne mentre, per quanto riguarda la bambina, scrivevano che di lei non si era trovato nulla e che sicuramente era stata coinvolta e costretta a entrare in qualche bordello e che sarebbe stato quasi impossibile ritrovarla. I giornali cileni, invece, parlavano con grande orgoglio delle loro forze dell’ordine, del fatto che erano riuscite a prendere l’assassino di Nady e che avrebbero continuato a cercare Wan. L’ergastolo a Roger fu consigliato da Pereira: fu un modo come un altro per dare l’impressione che le leggi venissero applicate. Roger fu solo un capro espiatorio. Dopo il primo giorno di carcere in cui venne violentato e picchiato dai suoi compagni, Roger attese l’ora d’aria e mentre erano tutti nel cortile, lui rimase nella stanza e tirò fuori dal taschino dei pantaloni un coltello che si era portato da casa. Si imbavagliò la bocca per fare in modo che nessuno lo sentisse e incominciò a trafiggersi il petto fino a morire dissanguato. Nessuno si accorse di nulla e la notizia del suicidio di Roger non venne mai resa pubblica.


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Joakim arrivò a Genova intorno alle otto di sera e andò a dormire nello stesso albergo dove aveva alloggiato Steven. Nella hall vide un giornale e in prima pagina lesse la notizia della morte di Marisa e Stefania e della scomparsa di Wan. Cristian, invece, venne a conoscenza della tragedia guardando il telegiornale. Stava mangiando mentre Wan era in camera sua. Rimase sgomento con gli occhi fissi puntati sullo schermo. Iniziò a sudare freddo poi scaraventò il piatto a terra e appoggiò il volto sul tavolo piangendo disperato. Wan corse in cucina, avendo sentito il rumore, e appena entrò Cristian le disse: «Wan vai via, non entrare!» e cercò il telecomando per spegnere la tv ma Wan vide sul teleschermo la foto di sua madre e quella di Stefania e ascoltò le parole del giornalista: «Le due donne sono morte avvelenate, mangiando del cibo in un albergo cileno e di Wan, la bambina italiana scomparsa, non si hanno ancora notizie ma si teme che possa essere entrata a far parte di qualche bordello». Wan allora corse in camera sua piangendo come una disperata: «Sono stanca di vivere. Mamma perché te ne sei andata? Perché mi hai lasciato sola? Perché?» continuava a gridare sbattendo i pugni contro il materasso. Cristian rimase in cucina appoggiato al tavolo, sconvolto dalla notizia e dal fatto che la responsabilità di Wan ora era completamente sua. Inizialmente pensò di chiamare la polizia ma sarebbe stato rischioso per lui: nessuno gli avrebbe creduto e sicuramente alla fine l’avrebbero arrestato. La mattina a casa di Cristian giunse Simona. Andò ad aprire Wan. Simona la riconobbe subito: era la stessa bambina che aveva visto quel giorno quando lei si era nascosta dietro l’albero ma che non aveva riconosciuto perché era troppo distante da lei ed era la stessa bambina che aveva visto al telegiornale la sera prima, quella bambina che tutti stavano cercando.


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«Ciao, sono Simona, c’è Cristian?» le chiese sorridendo. «Sì, vieni pure, è di là in salotto. Ti faccio strada.» «Permesso» disse Simona guardandosi attorno ma nessuno rispose. Simona entrò in salotto e vide Cristian che guardava fuori dalla finestra. «Ciao Simona» le disse Cristian voltandosi verso di lei. «Mi dica pure.» «Tuo fratello lavora sempre al porto di Genova?» «Sì, Emanuele lavora sempre lì, perché me lo chiede?» «Ho bisogno di parlare con lui urgentemente, puoi lasciarmi il suo numero di telefono? Aspetta che prendo carta e penna. Simona è fondamentale che nessuno sappia che Wan si trova qui, capito? Ne va della sua vita e della mia, mi raccomando.» «Certo, non si preoccupi» rispose lei mentre scriveva sul foglio il numero di telefono di suo fratello Emanuele. Cristian le diede i soldi per la spesa, la lista della spesa e cento euro. «Perché questi soldi?» chiese Simona con perplessità. «Per ringraziarti del tuo aiuto» rispose lui. «Si figuri, ci mancherebbe altro. Non posso proprio accettarli» e glieli ridiede. Appena Simona uscì, Cristian chiamò Emanuele che lavorava in porto e che quindi avrebbe avuto la possibilità di far imbarcare Wan su una nave senza alcun problema. Nessuno però sapeva che Emanuele lavorava anche per Jeremy. Emanuele gli disse che non ci sarebbero stati problemi a imbarcare la bambina e che nei giorni seguenti lo avrebbe richiamato per fargli sapere il giorno e l’ora di partenza. Cristian aveva valutato ogni soluzione: non si sentiva in grado di educare Wan, non si sentiva pronto così, vedendola triste, aveva deciso che l’unica soluzione che potesse rendere felice Wan era quella di fare in modo che raggiungesse Antartica per rincontrare sua sorella. Quella sera a tavola lui, improvvisamente, spense la tv. «Ascoltami Wan, tu hai una sorella gemella. Vorrei che tu andassi da lei… per il tuo bene, capisci?» «Come una sorella?» chiese lei sorpresa. «Sì, hai un sorella gemella ma non chiedermi altro perché non so altro.» «Ma chi te l’ha detto?» chiese lei sbattendo la forchetta sul piatto. «Me l’ha detto Marisa.» «Non ci credo, ti vuoi solo liberare di me» gridò lei. «Non è vero, io ti voglio bene… Me l’ha confessato Marisa, te lo giuro, avrebbe voluto portarti da lei un giorno. È importante che tu ritrovi tua


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sorella» disse lui accarezzandole il volto. Lei rimase in silenzio, tornò in camera e si buttò sul letto incominciando a pensare a come potesse essere sua sorella. L’idea di averne una, in fondo, non le dispiaceva affatto. Incominciò a fantasticare su come si potesse chiamare, su quanto potesse assomigliare a lei poi, prima di addormentarsi, disse: «Ovunque tu sia sorella mia aspettami perché sto tornando da te!». Jeremy avvisò immediatamente Joakim che stava sorseggiando una birra passeggiando nei pressi di via XX Settembre. Sentì suonare il cellulare e lesse il messaggio: “L’ho trovata. È ad Acqui. Ti mando via mail i dettagli”. Jeremy aveva pensato che la cosa più giusta e meno indolore fosse che Joakim andasse direttamente là. Il paesino dove viveva Cristian era piccolo, sarebbe stato più facile per lui risolvere il problema in loco. Infatti entrò immediatamente in un rent a car shop e affittò un auto. Fece un salto veloce nella sua stanza d’albergo, accese il computer e lesse la sua posta elettronica per sapere esattamente dove Cristian abitasse. Dopo aver preso nota di tutto, partì per Acqui Terme. Aveva pensato che di sera sarebbe stato più facile agire indisturbato e fu così. Arrivò verso le nove di sera in prossimità della casa di Cristian. Lasciò la macchina parcheggiata all’inizio della strada che conduceva alla casa e la raggiunse a piedi. Si infilò in tasca una pistola; sapeva già che l’avrebbe utilizzata ma non per Wan, la bambina la voleva viva. Avrebbe fatto troppo scalpore e avrebbe creato troppi problemi se l’avessero trovata morta in Italia. Arrivato davanti casa, si arrampicò sull’albero di magnolie e vide dalla finestra aperta del primo piano che Cristian stava guardando la tv in salotto. Tirò fuori la pistola con il silenziatore poi, con un colpo preciso, lo prese in volto. Cristian morì all’istante. Arrampicandosi sui rami, riuscì a salire sul cornicione ed entrò in casa. Wan non si accorse di nulla. Joakim girò per casa cercandola poi aprì la porta della sua camera e Wan, abbagliata dalla luce della sua torcia, si svegliò. Joakim le spruzzò immediatamente del sonnifero e lei cadde in un sonno profondo, dopodiché se la caricò sulle spalle, e tornò alla macchina. La mise dentro il bagagliaio e scrisse un messaggio a Jeremy: “Tutto okay, parto il prima possibile” e poi ripartì per Genova. Arrivato al porto si precipitò nell’ufficio dove lavorava Emanuele. Vide alcuni uomini all’interno dell’ufficio ma non ci fece caso. «Quando parto?» chiese.


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«Joakim Holaf non credo che partirà» rispose uno dei due puntandogli la pistola alla tempia. Lui rimase immobile, tenendo le mani in alto mentre i due uomini gli infilarono le manette. «Non potevo permettere che questo traffico di bambini andasse avanti, non posso permettermi di tradire ancora mia sorella Simona, non posso, capisci?» gridò Emanuele a Joakim. «Sei un bastardo, morirai per questo!» rispose lui sputandogli addosso. In quel momento entrò nell’ufficio l’ispettore Gerardi con il sorriso sul volto: «Abbiamo finito di giocare vero?» gli disse. «Non li prenderete mai» gridò Joakim con tono beffardo. «Intanto abbiamo preso te e ti sbattiamo direttamente in carcere.» Emanuele, dopo aver parlato con Cristian al telefono, si era fatto prendere dal rimorso di coscienza e aveva deciso di chiamare sua sorella. «Simona non so se potrai mai perdonarmi: sono entrato a far parte di un brutto giro, il traffico dei bambini. L’ho fatto solo per soldi, credimi. Ora vorrei uscirne solo che ho l’impressione che ormai sia troppo tardi. C’è un certo Joakim che è venuto dal Cile e credo che stia andando a casa di Cristian. Loro vogliono quella bambina. Penso che poi lui ritorni indietro e passerà da me a prendere il biglietto per imbarcarsi. Ti prego perdonami» le disse piangendo. «Ma come hai potuto? Devo chiamare immediatamente la polizia. Lasciami andare, ne parliamo dopo» disse Simona riagganciando. Purtroppo la polizia arrivò a casa di Cristian troppo tardi. Anche Simona andò con loro e girò stanza per stanza per vedere se magari Wan si fosse nascosta da qualche parte fino a quando non entrò in salotto e vide Cristian sulla poltrona con tutto il volto insanguinato. Uscì immediatamente e incominciò a gridare. Il maresciallo della polizia chiamò l’ispettore Gerardi invitandolo a raggiungere nell’immediato il porto di Genova. Arrivò qualche secondo dopo Joakim, quando ormai l’avevano arrestato, ma riuscì non solo a prendersi il merito di aver ritrovato Wan, ma fece in modo che le indagini in Cile riprendessero il loro corso e alla fine vennero arrestati e condannati all’ergastolo Jeremy e il vicegovernatore Pereira. I poliziotti ritrovarono nel bagagliaio della macchina Wan completamente addormentata. La portarono immediatamente all’ospedale per accertamenti ma, fortunatamente, la bambina risultò sanissima. Ad attenderla fuori c’erano gli assistenti sociali che l’ispettore aveva avvisato e che tempestivamente erano


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intervenuti. Il tribunale stabilì che Wan doveva entrare nell’orfanotrofio di Quarto, il posto ideale per chi cerca quella pace mai trovata. Wan fece presto ad ambientarsi. Le suore che si occupavano di lei erano gentili e così, più di una volta, si oppose al fatto di essere adottata. Wan si era avvicinata alla religione grazie alle suore ed era diventata profondamente credente. Ogni giorno pregava per lei, per le persone che amava e che non c’erano più, per quella sorella che avrebbe tanto voluto vedere. Non aveva chiesto notizie di Cristian, aveva pensato che fosse morto. Ogni sera si inginocchiava in un angolo della sua stanza e diceva: «Ho sofferto moltissimo, ho perso tutte le persone a cui volevo bene, ho solo un sogno nel cassetto e chissà se tu, Dio, un giorno, potrai aiutarmi a realizzarlo. Vorrei rivedere, anche per un attimo, mia sorella. Mi piacerebbe incontrarla, mi piacerebbe tanto stare un po’ con lei. Amen». C’erano moltissimi bambini nell’orfanotrofio ma Wan preferiva stare in disparte; passava le giornate a leggere la Bibbia, a studiare e a pregare. Tutto ciò la distraeva e la allontanava sempre di più da quel mondo che le aveva fatto del male. Dentro quelle mura si sentiva protetta. Più di una volta gli assistenti sociali cercarono di convincerla che sarebbe stato meglio per lei se fosse entrata a far parte di una famiglia ma lei non ne voleva sapere, diceva sempre: «Questo è il mio mondo, questo è tutto ciò che ho sempre sognato e che non ho mai avuto. Questa è la pace che cercavo, questo è il silenzio che ho sempre voluto ascoltare. Questo è il mio mondo e non permetterò mai a nessuno di distruggerlo. Se mi portate via da qui mi ammazzerete. Se volete che continui a vivere lasciatemi qui». Il tribunale dei minori cercò di rispettare questa sua volontà. Non soffrì la solitudine perché ben presto nacque un legame profondo con suor Giuseppina, una donna bassa e robusta ma dal cuore sempre aperto e dagli occhi ridenti e disponibili e in lei trovò quel posto segreto verso cui correre sicura di avere il suo mondo di pace. Suor Giuseppina per lei divenne una nuova mamma, a lei confidava le sue debolezze e i suoi desideri e lei la ascoltava cercando di darle consigli utili. All’interno dell’istituto c’erano tutte le scuole ed erano le stesse suore che vi insegnavano, dall’asilo alla scuola superiore, per permettere a qualsiasi bambino di apprendere e avere una giusta formazione culturale. Wan prima frequentò la scuola media e poi, su consiglio di suor Giuseppina, si iscrisse al liceo classico visto che le piacevano molto le materie umanistiche e riuscì a diplomarsi con il massimo dei


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voti. Appena compì diciotto anni fu invitata a presentarsi nell’ufficio del preside dell’istituto, il signor Carbone, per un colloquio. Wan si presentò davanti alla porta del suo ufficio e bussò. «Avanti» disse il preside mentre stava firmando alcune circolari. «Mi dica signor Carbone, perché mi ha chiamato?» le chiese Wan sedendosi sulla sedia di fronte a lui. «Ora sei maggiorenne, sei libera di scegliere cosa fare della tua vita… noi non possiamo più tenerti qui. Ci servono i letti, il numero dei bambini abbandonati sta aumentando vorticosamente ed è arrivato il momento che lasci quest’istituto, che tu lo voglia o no» le disse guardandola dritta negli occhi. «Ma signor Carbone la prego, mi basta anche un angolo di una stanza, non voglio di più, mi creda. Non mi lasci uscire, non mi piace il mondo fuori» lo supplicò Wan piangendo. «Non ho alternative Wan, non posso fare diversamente credimi» concluse abbassando lo sguardo. Wan uscì dalla stanza sbattendo la porta e corse a cercare suor Giuseppina. La trovò nella chiesetta dell’istituto mentre stava pregando. Si avvicinò a lei e appoggiò la testa sul suo braccio. «Il preside mi ha detto che devo abbandonare l’istituto ma io non voglio.» «Lo sapevo che sarebbe arrivato questo momento, era un momento che temevo e che speravo di non dover mai affrontare» le disse suor Giuseppina cercando con una mano di asciugarle le lacrime che scendevano lentamente sul suo volto. «Ascoltami Wan io ti voglio bene e tanto, credimi. Vorrei che tu fossi sempre felice, voglio che tu abbia cura di te, sempre, mi raccomando» le disse abbracciandola forte, poi la prese per mano e uscirono dalla chiesa. «Suor Giuseppina, Wan deve immediatamente lasciare l’istituto» gridò il preside che le aspettava fuori dalla chiesa. «Non si arrabbi, se questo è ciò che vuole, lo faremo.» Insieme percorsero il lungo corridoio fino alla camera dove dormiva Wan. «Cosa ti piacerebbe fare da grande?» le chiese suor Giuseppina. «Ho avuto modo di pensare parecchio in questi anni a cosa vorrei fare della mia vita ma nulla, tranne la fede che ho per Dio, mi ha entusiasmata e riempito il cuore di gioia. Credo proprio che diventerò una suora» rispose lei sorridendo. Suor Giuseppina la abbracciò forte. «Chissà, magari un giorno ci rincontreremo» disse lei baciandola sulla


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fronte. «Magari. Grazie di tutto. Sei stata come una mamma per me» rispose Wan mentre preparava la borsa. Suor Giuseppina, poi, la accompagnò fino al portone, Wan la guardò un’ultima volta, abbassò lo sguardo e uscì senza dire una parola. Fuori c’era il sole, quel sole che brucia la pelle e che ti acceca, quel sole che vorresti cancellare perché non ha pietà di te.


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Wan sposò Dio pochi mesi dopo e fu trasferita in un convento di suore di clausura vicino Roma e si fece chiamare suor Devota Wan. Per trentasei anni rimase lì, sempre devota a Dio e alla preghiera. Scrisse parecchie lettere a suor Giuseppina dandole notizie sulla sua vita. Lei rispose a sole tre di esse dopodiché Wan non ricevette più risposta. Un giorno una suora scrisse a Wan informandola che suor Giuseppina si era spenta. Wan, quando lesse quella lettera, si chiuse ancora di più dentro se stessa e per alcuni mesi non uscì mai dalla sua stanza e cadde in depressione. Le altre suore cercarono in tutte le maniere di aiutarla, consolandola, portandole da mangiare ma lei continuava a mangiare poco e niente. Una notte le apparve in sogno suor Giuseppina dicendole che le voleva bene, di andare avanti e di non mollare mai. La mattina dopo si risvegliò, scese dal letto e ricominciò pian piano a riprendere le sue abitudini. Lei amava stare in giardino a leggere la Bibbia e trascorreva lì la maggior parte della giornata. Il giorno che compì cinquantaquattro anni successe però un fatto che le cambiò completamente la vita. Due bambini che giocavano a pallone lanciarono la palla dentro il giardino. Marco, il più piccolo dei due, scavalcò il cancello e prese la palla lanciandola verso il suo amico. Ferdinando corse incontro il pallone e, in quel momento, una macchina che stava viaggiando a velocità elevata lo travolse e continuò la sua folle corsa. Wan che stava osservando i due bambini si alzò in piedi e gridò a suor Fernanda di chiamare un’ambulanza e uscì dal convento di corsa per prestare soccorso al bambino. «Suor Wan non può uscire, è vietato!» le gridò ma lei non la ascoltò. Arrivò l’ambulanza. Il corpo di Ferdinando immobile a terra. Wan salì sull’ambulanza insieme a Marco ma ogni tentativo degli infermieri fu vano. Ferdinando rimase con gli occhi spalancati su quella vita che ormai aveva abbandonato.


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All’ospedale Wan incontrò i genitori dei due fratelli. Rimase lì con loro tutto il pomeriggio poi, verso sera, tornò al convento ma trovò la porta chiusa. Iniziò a bussare e suor Fernanda le disse: «Mi dispiace Wan ma l’ordine della chiesa ha deciso di espellerti. Non potrai più mettere piede in questo convento, da ora in avanti non sei più suora. Hai violato le norme che vietano alle suore di clausura di uscire e di avere qualsiasi contatto con il mondo esterno. Qui c’è il documento che attesta la tua espulsione dall’ordine delle suore» e infilò il documento sotto la porta. Wan abbassò lo sguardo e si allontanò senza dire una parola. Era mortificata; da una parte provava una rabbia immensa per la decisione dell’ordine ecclesiastico perché era uscita a fin di bene, d’altra, benché si sentisse spaesata, dentro di sé sapeva che comunque avrebbe portato Dio sempre nel suo cuore. Fuori pioveva. Wan si allontanò dal convento tenendo in mano quel documento che si bagnò fino a far scomparire completamente il testo. Wan si avvicinò a un cassonetto dell’immondizia, vi gettò dentro quel che rimaneva del documento e incominciò a cercare qualche vestito da mettersi addosso ma non trovò nulla. Girò per le strade sotto la pioggia poi, davanti a un cassonetto di un bar, rovistando nella spazzatura, trovò una tuta. Si mise al riparo sotto la tenda del bar e poi chiese gentilmente al barista dov’era il bagno e si cambiò. Appena uscì dal bar gettò il vestito da suora e si diresse verso la stazione Termini. Infiniti erano i pensieri che affollavano la sua mente, infinite le sensazioni che provava poi, improvvisamente, una luce dentro il suo cuore e il ritorno di un desiderio che si era addormentato da tantissimo tempo. “Voglio andare da mia sorella. Non mi è rimasto altro che lei. Dio, ti prego, portami da lei” disse alzando gli occhi al cielo. Wan, arrivata in stazione, prese il primo treno per Genova. Siccome era senza soldi e non poteva comprare il biglietto, appena salì sul treno si chiuse in bagno e rimase lì per tutto il viaggio. Arrivata a Genova venne fermata alla stazione Principe dai poliziotti che la portarono immediatamente alla centrale perché sprovvista di documenti. Dopo


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una notte passata in centrale, venne rilasciata e incominciò a camminare per le strade della città senza una meta precisa. Tutto le sembrava estraneo, ostile. Sentì improvvisamente freddo dentro. Chiuse gli occhi per un attimo, era solo il vento della nostalgia che quando soffia porta via con sé una parte di noi. Wan decise di andare a rivedere i luoghi a lei più cari. La casa dove aveva vissuto con Marisa era abitata da una famiglia e al posto del piccolo parco per bambini che c’era davanti casa, avevano costruito un parcheggio immenso. Andò a rivedere l’istituto a lei tanto caro ma lo trovò abbandonato, in decomposizione. Il suo sguardo si soffermò per un attimo su una carrozzella abbandonata davanti all’ingresso principale; si guardò attorno ma non vide nessuno. Si avvicinò temendo che dentro ci potesse essere un bambino e che qualcuno lo avesse abbandonato e, invece, trovò solo un foglio di carta. Lo prese in mano, apparentemente sembrava bianco ma messo contro la luce si leggeva: “Frederik sarà il mio dono per te!”. Wan si guardò nuovamente attorno, posò il foglio dentro la carrozzella e in quel momento sentì della musica e delle voci provenire dalla strada accanto. Incuriosita decise di andare a vedere di cosa si trattasse. C’era un gruppetto di gente che si era fermata a guardare girare la scena di un film, una transenna li divideva dai due attori. Erano due ragazzi giovanissimi che stavano giocando a pallone. Il copione voleva che la palla, dopo alcune battute, venisse allontanata il più lontano possibile e così accade. Il pallone venne calciato in direzione di Wan che lo osservò oltrepassare la sua testa e rimbalzare contro il palazzo che era dietro di lei. «Palla!» gridò l’aiuto regista. Wan si girò, prese la palla e si avvicinò alla transenna per riconsegnarla. In quel momento il regista si accorse di lei. Wan, nonostante avesse cinquantaquattro anni e fosse vestita come una povera disgraziata, rimaneva sempre una bellissima donna e il regista rimase colpito immediatamente dai suoi occhi e così fece cenno all’aiuto regista di avvicinarsi. «Mi dica signor Jonson» gli disse tenendo la palla tra le mani. «Voglio parlare con quella donna» e si accese un sigaro.


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«Va bene» rispose lui e si girò verso Wan ma non la vide. Oltrepassò la transenna e incominciò a guardare tra la folla ma di lei nessuna traccia poi vide una donna allontanarsi e incominciò a correre. «Signora!» gridò. Wan continuò a camminare non pensando che stessero chiamando lei. L’aiuto regista riuscì a raggiungerla, la prese per un braccio per fermarla. Wan si spaventò e incominciò a gridare. «No, no signora, non le voglio fare del male… il regista vorrebbe parlarle.» Wan riprese a camminare pensando che fosse uno scherzo. Jonson, che nel frattempo aveva fermato le riprese e aveva visto ciò che era accaduto, raggiunse Gabriel. «Cosa accade?» gli disse. «Quella donna non mi ha voluto ascoltare, provi lei a parlarle.» Il regista raggiunse Wan che in quel momento era intenta a guardare dentro i cassonetti dell’immondizia per cercare qualcosa da mangiare. «Ascolti signora, mi chiamo Frank Jonson e sono un regista svedese. Sto girando un film drammatico, avrei bisogno di lei per alcune scene del mio film.» Wan fece finta di non sentire, continuò a frugare tra i sacchetti mangiando pezzi di pane e tutto ciò che era commestibile. Jonson provò un’immensa pena nel vedere quella donna e le condizioni in cui versava: capelli unti, sporchi, unghie nere e l’odore sgradevole del suo corpo, sintomo di mancanza assoluta di pulizia. «Signora venga, mi dia retta. Vedrà che dopo aver mangiato e dormito starà meglio» le disse invitandola a seguirlo. Wan, che era affamata, lo seguì subito. Nel frattempo la folla davanti alle transenne era scomparsa e gli addetti ai lavori stavano già smontando tutte le apparecchiature. Frank portò Wan in albergo. Appena lei entrò tutti la guardarono con disprezzo. Frank si avvicinò alla reception: «Ho bisogno di una suite per questa donna, portatele da mangiare e tutto ciò che desidera» disse all’addetto che immediatamente consegnò la tessera magnetica della stanza a Wan che la prese in mano senza capire a cosa servisse poi, insieme a un facchino, la accompagnarono nella sua stanza. Lei entrò chiudendosi immediatamente la porta alle spalle senza dire nulla. Wan si spogliò e entrò nella vasca idromassaggio dove rimase per due


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ore rilassandosi il più possibile. Tornò poi in salotto dove trovò sul tavolo un ricco buffet di primi e secondi piatti e un cesto enorme di frutta fresca. Si precipitò cercando di mangiare il più possibile poi, mentre stava gustando una fetta di ananas, vide appesa alla parete sopra la tv una vetrina contenente pacchetti di sigarette e una scatola di accendini. Wan non aveva mai fumato ma in quel momento le venne voglia di provare così, nonostante Jonson le avesse fatto portare biancheria intima e vestiti da indossare, lei uscì nuda sul terrazzo e si accese una sigaretta. Sotto il sole cocente d’agosto lei come Venere stava nuda, immobile a meditare osservando il mare. Wan rimase sul terrazzo per parecchio tempo persa nei suoi pensieri: “Solo nell’attimo in cui vedi il mondo dall’alto ti accorgi di quanto fragili e impotenti siamo, di quanto basta poco per sparire; eppure, visti da terra, sembriamo imbattibili ma è solo un’impressione, è solo una nostra illusione”. Rientrò nella suite. Stappò una bottiglia di champagne e incominciò a bere un bicchiere dietro l’altro, poi prese i suoi vestiti, gli stracci che aveva trovato dentro il bidone della spazzatura, e li lanciò nel vuoto gridando: «Grazie Dio!!!». Rientrò nella suite, appoggiò il bicchiere sul tavolo e si buttò sul letto dove si addormentò immediatamente. La mattina dopo Jonson bussò alla sua porta ma Wan non rispose. Riprovò più volte prima che gli aprisse. Wan, in quel momento, non pensò al fatto che era completamente nuda e Jonson quando la vide non riuscì a pronunciare alcun parola. Wan, nonostante avesse cinquantaquattro anni, conservava il fisico di una ventenne: magro, asciutto, gambe lunghe, pelle morbida, capelli neri lunghi, occhi profondi che conquistavano l’anima. Wan gli fece cenno di entrare e Jonson imbarazzato entrò abbassando lo sguardo. «Mi dica» gli disse sdraiandosi sul divano del salotto con una tale


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inibizione e comportandosi come se lui non ci fosse, non preoccupandosi assolutamente di nascondere il seno e il suo sesso. Jonson si sedette sulla poltrona: «Come le ho detto ieri stiamo girando un film drammatico che si intitola “Cancellami”. Erano mesi che cercavo la donna che avevo immaginato come protagonista di questo film. Le insegneremo a recitare, lei ha quell’atteggiamento spontaneo nei movimenti del corpo e quell’espressione dei suoi occhi ingenua e misteriosa allo stesso tempo che se riesce a mantenere anche mentre recita, sicuramente avrà la possibilità di fare una carriera splendida». Wan si alzò in piedi e si avvicinò al tavolo, prese una sigaretta e la accese, poi tornò a sdraiarsi sul divano e disse: «Come mai non mi ha chiesto come mi chiamo? Non le interessa forse?». «Sì che mi interessa ma, come regista e produttore di film, la prima cosa che mi colpisce e che mi porta a scegliere una donna piuttosto che un’altra è sicuramente l’aspetto fisico e devo dire che lei è una bellissima donna» le disse arrossendo. «Mi chiamo Wan e ho cinquantaquattro anni, vado bene lo stesso? Se sì, quanto è il compenso che offrite?» gli chiese guardandolo dritto negli occhi. «Noi le offriamo tutti i comfort di questo albergo, rimarremo qui sette mesi per girare tutto il film e le offriamo tremila dollari. Il film ha un budget molto basso ma se avrà successo guadagneremo tutti un sacco di soldi.» Wan in quel momento sorrise: «Accetto la sua proposta signor Jonson, mi dica quando incominciamo» gli chiese alzandosi in piedi e lasciando ben visibile il suo sesso a Frank che, alzandosi d’impeto, gli caddero a terra gli occhiali che aveva nel taschino della giacca. Entrambi si chinarono per raccoglierli e in quel momento i loro volti si incrociarono. Rimasero immobili per alcuni secondi, lui la baciò, lei chiuse gli occhi e si lasciò travolgere dal fuoco della passione. Passarono una giornata intera a fare l’amore poi la mattina dopo Frank si alzò all’alba lasciando un biglietto sul cuscino:


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“Nessuno dovrà mai sapere nulla, ne va della mia carriera e di conseguenza della tua vita”. Frank Jonson era un uomo che amava in egual misura le donne e la sua libertà. Cinquantaseienne svedese, alto, affascinante, Frank aveva avuto relazioni con tutte le attrici che avevano partecipato ai suoi film ed era un uomo a cui non si poteva mai dire di no. Fin da ragazzino aveva costretto i genitori a indebitarsi fino al midollo per consentirgli di trasferirsi in Italia e realizzare il suo sogno di diventare regista. Frank avrebbe ammazzato chiunque pur di ottenere ciò che voleva e una notte, in club londinese, perpetrò una violenza inaudita nei confronti di una ragazzina, poco più che diciottenne, figlia di una sua amica, Cristine, che si oppose in tutte le maniere ma lui non sentì ragione. La ragazza, dopo lo stupro, si suicidò impiccandosi all’albero di magnolia del suo giardino. Quando la madre la vide dondolare appesa a quell’albero, si lasciò cadere nel vuoto appendendosi a quello stesso ramo su cui era appesa sua figlia.


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Dopo alcune ore Jonson mandò Gabriel a bussare alla porta della camera di Wan. «Chi è?» «Sono Gabriel, l’aiuto regista. La aspetto tra trenta minuti nella hall dell’albergo.» «Okay» rispose lei e corse subito a vestirsi. Provò tutti e quattro i vestiti che Frank le aveva portato; optò per un vestito nero lungo che metteva più in risalto le sue curve. Quando scese nella hall vide solo Gabriel: «E il signor Jonson?». «È dovuto partire. Non so quando tornerà, non me l’ha detto. Qui c’è il copione, noi possiamo lavorare su questo.» Wan cercò di concentrarsi il più possibile evitando di non pensare a Jonson. Provava un sentimento nuovo che non aveva mai provato prima: era amore. Amava Jonson anche se non ne fu immediatamente consapevole. Studiò tutte le battute e pochi giorni dopo lui ritornò e iniziarono a girare le scene in cui la vedevano protagonista. Frank sembrava molto distaccato da lei; la correggeva dandole del lei e facendo finta che tra di loro non fosse mai accaduto nulla. Wan cercò più di una volta, nelle pause tra una ripresa e l’altra, di avvicinarsi ma lui ogni volta si allontanava senza degnarla di uno sguardo. Passarono due mesi senza che le venisse il ciclo mestruale e incominciò ad avere la nausea, tensione al seno e la necessità continua di urinare. Prese un giorno di riposo e andò dal ginecologo che le disse che era incinta. Wan prese la notizia con stupore e sconforto allo stesso tempo perché Frank l’aveva abbandonata e quindi avrebbe dovuto crescere questa creatura da sola e in più, ora che aveva incominciato a lavorare, la gravidanza sarebbe stato un bastone fra le ruote per la sua carriera. Pensò e ripensò al da farsi e decise di non dire nulla a nessuno. Per i primi tre mesi nessuno si accorse di nulla poi la pancia incominciò ad aumentare. Fu Wan che una sera, durante un party, dopo tanti dubbi, decise di comunicare la notizia a Frank. Si avvicinò a lui e gli disse:


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«Sono incinta, dimmi che cosa vuoi fare. Vuoi essere il padre oppure no?». Lui che stava sorseggiando un bicchiere di champagne si voltò verso di lei: «Non ci penso neanche. Fai in modo che nessuno sappia nulla altrimenti ti taglio la gola, capito? Finito questo film non ne voglio più sapere di te. Non farlo nascere altrimenti ucciderò tutti e due» gli disse appoggiando il bicchiere sul tavolo prima di allontanarsi. Wan lasciò immediatamente il party e andò in camera sua. Passò un’intera notte a pensare a ciò che Frank le aveva detto senza trovare una soluzione. Continuò a sottoporsi alle visite mediche per controllare che tutto andasse bene ma non volle sapere se era maschio o femmina. Ai suoi colleghi che le chiedevano lei rispondeva sempre che aveva conosciuto un uomo molto bello di cui si era innamorata e che purtroppo, siccome era molto timido e riservato, non amava farsi vedere. Aveva raccontato anche che, finite le riprese del film, si sarebbero sposati. Quando raccontava queste cose cercava sempre di essere credibile e nessuno dubitò del fatto che non dicesse la verità. Frank, una mattina, le lasciò un biglietto sotto la porta della sua stanza. “Wan ricordati che se non interrompi la gravidanza morirete tutti e due!” Wan strappò il bigliettino e uscì sul terrazzo lanciando in aria i pezzetti di carta. Bianchi coriandoli galleggiavano nel cielo mentre una lacrima solcava il volto di Wan precipitando nel vuoto. Quando le riprese del film finirono, tutto la troupe organizzò un party per festeggiare. La mattina dopo tutti passarono da Frank per ritirare l’assegno. Quando fu il turno di Wan lui le disse: «Se vai avanti morirai, ti verrò a cercare ovunque, non sfidarmi… capito?» e le diede l’assegno. Wan se ne andò senza dire neanche una parola. Uscì dall’albergo e mentre si stava dirigendo in banca che era dall’altra parte della strada, incominciò a sentire delle fitte fortissime al ventre e cadde a terra lamentandosi dal dolore. Un passante la vide e chiamò immediatamente l’ambulanza.


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In quel momento Frank uscì dall’albergo e vide Wan sdraiata a terra mentre gli infermieri la soccorrevano ma, invece di avvicinarsi, preferì salire in macchina con l’aspirante attrice del suo prossimo film e scomparve nel traffico della città. Per essere sicuro che non ci fossero guai in vista, chiamò un suo carissimo amico che lavorava all’interno dell’ospedale per chiedere informazioni riguardo a Wan che in quello stesso giorno, dopo qualche ora, partorì un bimbo prematuro magrissimo e pieno di capelli in testa. Quando le chiesero come voleva chiamarlo lei vide un nome scritto sul vetro appannato dalla pioggia. Era lo stesso nome che aveva visto scritto su quel biglietto dentro la carrozzella: Frederik. Così mia madre decise il mio nome. Frank venne a saperlo qualche giorno dopo e incominciò a escogitare un piano per uccidere Wan e me. Quando io e mia madre uscimmo dall’ospedale lui era lì, appoggiato alla sua macchina che ci stava aspettando. Wan non lo guardò neanche in faccia. Lui si avvicinò strattonandola per un braccio: «Sali in macchina» le disse digrignando i denti. Mia madre lo guardò, rimase in silenzio e continuò a camminare lungo il marciapiede fino a raggiungere il taxi. Frank salì in macchina e seguì il taxi. «Dove andiamo signora?» le chiese il tassista. «Non lo so. Lei non si preoccupi, vada. Le dico io quando fermarsi, okay?» «Va bene.» Frank era sempre dietro come un segugio, a un certo punto, sulla sopraelevata, lui si affiancò al taxi e cercò di buttarlo fuori strada. L’autista del taxi tirò fuori dal bauletto della macchina la sua Calibro 9 e colpì Frank a una spalla. La sua macchina sbandò finendo contro il guardrail e cadde lungo la strada sottostante prendendo fuoco immediatamente. Per Frank non ci fu scampo. Wan, allora, ordinò all’autista di fermarsi. «Signora non si spaventi, io ormai ci sono abituato, ogni giorno c’è qualcuno che pensa di essere furbo e non ha ancora capito che con la prepotenza non si ottiene nulla. Ogni tanto mi tocca usare il mio gioiellino per difendermi» le disse rimettendo dentro il bauletto la pistola e schiacciando il pedale dell’acceleratore per scomparire il più velocemente possibile da lì. Wan guardò indietro e vide una nuvola di fumo nero salire in cielo, io con gli occhi chiusi stavo


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appoggiato al suo seno. Poi si voltò e guardando fuori dal finestrino vide scendere improvvisamente la neve e un uomo seduto su una nuvola scrivere “Antartica” nel cielo. Wan chiuse e riaprì gli occhi e quell’immagine scomparve. Rimase qualche secondo in silenzio a pensare a ciò che aveva visto. Decise che era arrivato il momento per lei di raggiungere sua sorella, era arrivato il momento per lei di andare ad Antartica. «Voglio andare al porto» disse Wan con tono deciso. «È sicura signora? Sa perché, a volte, molta gente sale sul mio taxi e non sa esattamente dove andare.» «Tenga qui cento euro e mi porti immediatamente al porto.» Wan e io, dopo poche ore, partimmo per Antartica.


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14 Dio governa il cielo Lucifero la terra.

Quando Frank incominciò a bruciare dentro la macchina era ancora cosciente e in quel momento gli apparve Lucifero, l’angelo nero caduto dal cielo, che gli disse: «Non temere, non andranno lontano, io ti aiuterò a vendicarti, fidati di me. Ho solo bisogno della tua anima». Frank accettò senza esitare la sua proposta. Lucifero, allora, gli estrapolò l’anima poi la osservò compiaciuto guardandola con i suoi occhi iniettati di sangue e disse: «Il regno delle tenebre trionferà. Un giorno riusciremo ad annientare anche il sole e finalmente questo mondo morirà» poi, tenendo con una mano l’anima di Frank, scomparve nel sottosuolo fino a raggiungere la sua dimora, l’Inferno, luogo di dannazione dove le anime bruciano dentro un pozzo profondissimo gridando il loro dolore. Lucifero tirò su il coperchio del pozzo e mentre stava per gettarvi l’anima, Frank disse: «Mi avevi promesso che mi avresti aiutato a vendicarmi, perché vuoi gettarmi lì? Non dirmi che anche tu sei uguale a Dio, che non mantiene mai ciò che promette». In quel momento Lucifero si sentì colpito nell’orgoglio, chiuse il coperchio, avvicinò l’anima di Frank ai suoi occhi: «Io non sono come Dio, non ti permettere mai più di paragonarmi a lui che è inesistente. Cosa hai visto quando eri in vita? Hai visto solo il male, hai visto gente rubare, gente ammazzare, hai visto la corruzione, tu che cosa hai fatto? Hai vissuto di peccati una vita intera. Sono stato io a far sì che tu ti avvicinassi al male. Il male sono io e quelle anime che vedi bruciare nel pozzo sono solo una parte di quelle che sono mie schiave. Le altre sono in giro per il mondo con un obiettivo ben preciso: entrare nella mente delle persone e fare in modo che si distruggano fra di loro. Dio è impotente, non può aiutare l’uomo, la terra è il mio regno, l’apocalisse è vicina, ormai è partito il countdown, il mondo ha le ore


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contate» e rise compiaciuto. Lucifero posò l’anima di Frank a terra e continuò: «Ora dimmi qual è il tuo problema e io lo risolverò». «Vorrei che eliminassi Wan e il suo bambino.» Lucifero schioccò le dita e fece apparire una sfera di cristallo in cui vi era l’immagine di una nave in mezzo agli iceberg. «Sono quasi arrivati ad Antartica» disse. Wan era sul ponte della nave che mi teneva in braccio. Io, con gli occhi semiaperti ma incosciente di tutto ciò che mi circondava, sonnecchiavo. Lucifero posò la sua mano e con gli artigli graffiò la sfera. Il mare che era calmo, in quel momento, incominciò a diventare sempre più mosso e scoppiò improvvisamente una tempesta. Dall’acqua comparve la mano di Lucifero e i suoi artigli divisero la nave a metà. Tutto l’equipaggio cercò di salire sulle barche di salvataggio ma vennero portati via dalle onde e morirono affogati. Wan riuscì ad aggrapparsi a una tavola di legno e a mettermi sopra poi, mentre mi spingeva verso terra, un’onda la travolse e la portò via con sé. Quella stessa onda mi trasportò a riva, dove c’era un uomo con la barba bianca che mi aspettava. Era lo stesso uomo che aveva visto Wan quando era sulla sopraelevata, era lui, Dio, che mi baciò sulla guancia e scrisse sul ghiaccio: “Questo bambino si chiama Frederik Jonson, abbiate cura di lui, sempre e per sempre” poi scomparve tra le onde del mare. Così mia madre morì, così il destino mi portò a vivere e ad avere come madre Yin, sua sorella, così Antartica diventò la mia casa. Lucifero in quel momento prese la sfera e la lanciò per terra. «Maledizione» gridò. «Signore del male non aveva detto che Dio sulla terra non può fare nulla, che lei è l’unico re incontrastato?» disse l’anima di Frank. «Sì, lo sono e lo sarò per sempre. Succede, purtroppo, che alle volte Dio riesce a intervenire e a far trionfare il bene, comunque Wan è morta e per il bambino dovremmo aspettare l’occasione giusta. Ci vorrà tempo ma prima o poi arriverà, vedrai. Ora che ti ho dimostrato i miei poteri, voglio che tu diventi il mio braccio destro. Dovrai comandare tute le anime che sono dentro il pozzo e fare in modo che riescano a entrare nel cuore e nella mente della gente per spingerli al male.» «Certo signore, è un grande onore per me» rispose con tono orgoglioso


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l’anima di Frank.


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Vidi il corpo di mia madre scendere lentamente fino a toccare il fondo del mare. Provai un profondo senso di dispiacere. Jun mi guardò e il suo sguardo fu di grandissimo conforto per me, poi mi disse: «Farei di tutto per toglierti il dolore che hai dentro». «Grazie del tuo immenso amore… so che ho sempre potuto e continuerò a contare su di te» risposi. L’immagine si fermò sul volto di mia madre in fondo al mare: i suoi capelli lunghissimi, neri, mossi dalle correnti marine, il suo volto che lentamente diventava sempre più pallido, i suoi occhi rimasti aperti come se fosse stata folgorata, incantata a osservare passare la morte con le sue mani immerse nel fondo marino. «Come ti senti Frederik?» mi chiese Dio apparendo sullo schermo. «Sono sconvolto ma felicissimo di aver scoperto la verità, perché alla fine non si cerca che quella.» «Ora arriva per te la parte più difficile. Rifletti bene e parlane anche con Yin. Vuoi perdonare tua madre?» «Certamente, mia madre ha vissuto una vita generosissima come la mia, ha fatto di tutto per me e la ringrazio per avermi dato la vita.» «Cosa pensi di tuo padre?» Rimasi un attimo in silenzio, guardai Jun come per cercare una conferma a ciò che stavo per dire poi istintivamente dissi: «È un uomo egoista, un uomo che non avrebbe mai potuto prendersi cura di me, penso che non riuscirò mai a perdonarlo». «Dante vieni!» disse Dio. La porta della camera si aprì ed entrò Dante accompagnato da due angeli. «Frederik ora dovrai decidere se affrontare una prova pericolosissima oppure no. Sappi che se accetterai avrai la possibilità di rinascere e di vivere un’infanzia normale con due genitori sempre al tuo fianco. Guarda attentamente queste immagini» fu l’invito che mi rivolse Dio. Vidi l’anima di Frank volare sopra il cielo di Antartica ed entrare nel corpo di Charley Barley, capo di una nave pirata che si stava dirigendo ad Antartica. Mi venne immediatamente in mente l’assalto che avevamo subito con la conseguente distruzione di Antartica e dell’hotel


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che avevo costruito per Yin. Riapparve Dio: «Dante è già pronto a riportati ad Antartica e indietro nel tempo esattamente nel momento in cui ci fu l’assalto dei pirati. Tuo padre, come hai visto dalle immagini, aveva un solo e unico scopo per venire ad Antartica: trovarti e ucciderti. Dovrai affrontarlo e fare in modo di liberalo dal male». «Ma come?» «Dovrai appoggiare il crocifisso sul petto e dovrai fargli bere una pozione» mi spiegò Dio. «Frederik io ti appoggerò sempre. Qualsiasi decisione tu prenda, io sarò con te» mi disse Jun guardandomi intensamente. «Accetto, sono pronto Dio!» gridai. «Sappi che se non ce la farai, tuo padre porterà all’Inferno la tua anima e purtroppo non potrai salvare Jack e la sua famiglia.» «Sono pronto», risposi. «Jun puoi andare con lui» disse Dio. Dante ci fece cenno di seguirlo. Uscimmo dalla stanza e ci trovammo di fronte a un tunnel. «Tieni Frederik, questo è il crocifisso e questa è la pozione» mi disse Dante consegnandomi un crocifisso di legno e una fiala contenente del liquido verde. «Ora lentamente ritornerete umani.» Sentii il sangue di nuovo scorrere nelle vene, mi toccai e sentii la mia pelle, mi apparvero i vestiti addosso, gli stessi vestiti che ricordavo aver indossato quella sera dell’assalto dei pirati. «Percorrete questo tunnel che vi riporterà esattamente indietro nel tempo. Ritornerete nella vostra stanza esattamente in quel momento» aggiunse Dante. … Poi fu la luce. …. Mi ritrovai nella stanza del mio albergo con Jun. Sentimmo i pirati avvicinarsi e uno di loro aprì la porta. Riconobbi subito Frank che si avvicinò dicendomi: «Finalmente, sono anni che cerco di tornare sulla terra per ucciderti. Sono anni che Dio mi impedisce di venire qui, ora non hai più scampo». Cercai un modo per farlo parlare facendo finta di non sapere nulla: «Ma come mai cerca me?» gli chiesi con voce soffocata dall’emozione «Non sono affari che ti riguardano» mi rispose prendendomi per la gola.


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«Papà!» gridai e Frank allentò la presa. «Papà?» disse lui facendo una smorfia con la bocca quasi volesse sorridere. Nel frattempo due suoi scagnozzi avevano legato Jun alla seggiola. «So che non hai vissuto una vita facile, hai vissuto una vita senza conoscere l’amore…» Frank incominciò a riflettere. «In effetti ho vissuto una vita fatta di solitudine» disse lui con gli occhi persi nel vuoto. «La mamma ti ha amato veramente, credimi… anche quando non la volevi più e ha fatto di tutto perché io nascessi» gli dissi avvicinandomi a lui che ormai aveva abbassato la guardia e sembrava stremato dentro. «Papà lascia perdere… seguimi e ricominceremo tutto da capo.» Lui gettò la spada a terra e appoggiò la testa sulla mia spalla. «Sono sempre stato un uomo cattivo, non ho mia apprezzato nulla della vita eppure ne ero innamorato» mi disse piangendo. «Probabilmente non eri pronto papà, lo sarai nella prossima vita, credimi. Dio ti vuole aiutare a liberarti dal male, vuole salvarti, vuole darti un’altra possibilità» gli risposi io stringendogli forte una mano. Frank fece cenno ai suoi di slegare Jun e di gettare le armi. La vita di Jack e quella degli isolani fu salva. Frank diede ordine di abbandonare il campo immediatamente. «Ora ascoltami. Sdraiati sul letto, mettiti questo crocifisso sul petto e bevi questa pozione, torneremo presto insieme papà.» «Spero che tu possa perdonarmi» mi disse trattenendo le lacrime. Una luce immensa illuminò il suo viso poi, improvvisamente, vidi una macchia nera uscire dal suo corpo ed evaporare, poi la voce di Lucifero in lontananza gridare: «Maledetti, un giorno mi vendicherò!». Mi affacciai alla finestra insieme a Jun: i pirati stavano tornando sulla nave e tutti gli ospiti erano nelle proprie stanze. Mi voltai a guardare la casa di Jack e vidi che tutte le luci erano spente; stavano dormendo e provai un senso di gioia immensa. «Ce l’abbiamo fatta amore mio» mi disse Jun e ci baciammo appassionatamente. In quel momento apparve Dante: «È ora di andare» disse facendoci segno di salire sopra una scala mobile che comparve all’improvviso. Io e Jun salimmo. Dante prese l’anima di Frank e la mise dentro una scatola di vetro poi salimmo di nuovo in cielo abbracciati a osservare, fino all’ultimo istante, la bellezza e la serenità di Antartica.


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In un attimo tornammo anime non sentì più le braccia di Jun avvolgere il mio corpo. In un attimo ci ritrovammo nuovamente nella stanza 6 del Paradiso. Dio apparve sullo schermo e disse: «Sei stato molto coraggioso Frederik. Hai salvato Antartica, hai salvato la vita di Jack e della sua famiglia». Vidi sullo schermo la stanza dove si trovava mia madre e una donna identica a lei entrare: era Yin. «Sorella mia» gridò mia madre avvicinandosi a lei piangendo. «Quanto mi sei mancata. Ora, finalmente, staremo per sempre insieme» rispose Yin. «Non avrei mai immaginato che Frederik, quel bambino che ho tanto amato e che ha fatto di tutto per me, fosse tuo figlio» disse trattenendo le lacrime. «Sei stata una madre eccezionale» rispose Wan. Mi commossi vedendole finalmente insieme. «Frederik la tua missione ha permesso a Wan e Yin di vedersi finalmente, sono orgoglioso di te» mi disse Dio. «Son felicissimo per loro ma mio padre dove si trova ora?» gli chiesi. «Guarda attentamente lo schermo.» Vidi Dante camminare nei meandri del Purgatorio tenendo con una mano l’anima di Frank e con l’altra toglierle gli ultimi residui del male. «Presto quest’anima sarà pronta per il Paradiso» disse Dante. «Bene, sai dove condurla, vero?» gli chiese Dio. «Certamente» rispose Dante prima di salire le scale ed entrare nella mia stanza. Appena entrò nella mia stanza vidi che dietro di lui c’era Frank. I suoi occhi trasmettevano serenità e amore. Mi corse incontro e mi disse: «Figlio mio, grazie per avermi salvato». Sentii la porta aprirsi e vidi entrare Wan e Yin insieme a Kai Sue, suo marito. Wan guardò dritto negli occhi Frank e lui le disse: «Spero che tu possa perdonarmi». «Sì, ti perdono, voglio che la nostra famiglia sia unita e anche se ho sofferto tanto in vita ora voglio averti al mio fianco per l’eternità.» «Frederik apri la finestra e guarda giù» disse Dio. Corsi alla finestra e la aprii. Apparve improvvisamente un terrazzo e uscimmo tutti fuori a guardare. Antartica era lì, c’era il mio hotel, c’era


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tutta la gente che avevo conosciuto quando ero in vita, c’erano tutte le persone che avevo visto sullo schermo ripercorrendo la vita di mia madre, erano tutti con la testa all’insù a guardarci, erano tutti lì solo per me a gridare: «Grazie per averci regalato l’eternità». In quel momento Dio apparve in cielo e mi disse: «Grazie alla tua impresa hai liberato tutte le persone dal male. Ora sono qui, tutte per te, per ringraziarti. L’Inferno non esiste più e d’ora in avanti anche il mondo sarà migliore. Ora chiudi gli occhi Frederik e rinascerai». Mi guardai attorno, guardai ancora una volta tutte le persone che erano lì con me per paura di non rivederle più e poi chiusi gli occhi. … Il silenzio della rinascita. … Vidi un uomo e una donna abbracciati che mi guardavano attraverso il vetro della nursery. Mi voltai verso la finestra e vidi Antartica nel suo immenso splendore. Sentii la voce di Dio sussurrarmi: «Frederik Jonson in questa vita ti chiamerai Federico Romano. Non temere, rincontrerai tutte le persone che hai amato nella vita precedente. Quell’uomo e quella donna che ti stanno guardando sono le anime di Wan e Frank reincarnate in nuovi corpi, sono loro in questa vita i tuoi genitori. Rincontrerai anche Jun, sentirai il tuo cuore battere forte e la riconoscerai immediatamente e lei riconoscerà te. Buon viaggio e ricorda, ora non sei più il bambino del mai». Riguardai un attimo i miei genitori e i loro occhi pieni d’amore per me. Chiusi gli occhi e sereno, finalmente, mi addormentai.



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