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DESCRIZIONE: Una sofferta storia d’amore, resa più difficile dall’ombra minacciosa della mafia. Ma è anche un viaggio interiore del protagonista alla ricerca di quella stima di sé che lo porterà a dare un senso alla sua vita e al suo esistere, sconfiggendo le mille paure e insicurezze che da sempre gliel’avevano impedito e gli permetterà di trasformare i propri sogni in una realtà finalmente chiara e manifesta. L'AUTORE: Scambia i tuoi libri Leggi gratuitamente i nostri libri Pubblica un libro Pubblica un racconto Concorso "Il Club dei Lettori" Guarda TeleNarro Crea il tuo Social Network personale Gioca con la Banda del BookO (che si legge BUCO)
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Fabio Pesce vive e lavora in provincia di Venezia. Ha atteso i cinquant’anni per scoprire che gli piaceva inventare e scrivere storie su carta. Ne è nato il primo romanzo, che questa sua neonata passione con tutta probabilità non lascerà solo.
Titolo: Sogno dentro a un sogno Autore: Fabio Pesce Editore: 0111edizioni Collana: Guest Book Pagine: 248 Prezzo: 14,80 euro
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Fabio Pesce
SOGNO DENTRO A UN SOGNO
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com
SOGNO DENTRO A UN SOGNO 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Fabio Pesce ISBN 978-88-6307-212-9 In copertina: immagine Shutterstock.com Finito di stampare nel mese di Settembre 2009 da Digital Print Segrate - Milano
“L’amore vero è ciò che sopravvive dopo l’innamoramento”
In questo libro i personaggi e i luoghi sono inventati e qualsiasi analogia con persone, luoghi e fatti reali è da considerarsi puramente casuale.
PARTE PRIMA
PROLOGO
Mi svegliai di soprassalto, madido di sudore e con il cuore che mi stava scoppiando nel petto. Fui preso da un panico incontrollabile. Non avrei sopportato di scoprire che era stato un sogno bellissimo, ma solo un sogno. Accesi la luce ansimando, mi voltai alla mia sinistra, cercandoti con la mano e trovandoti. Allora mi accasciai sul letto e cominciai a piangere senza freni. Piansi tanto, con le mani appoggiate al viso, scosso da singhiozzi violenti. Improvvisamente mi alzai di scatto e corsi nella camera accanto, accesi la luce e… “Alessandro...” Tornai a letto ed eri sveglia, mi avevi chiamato, preoccupata per tutto quel trambusto. Vedendomi con le lacrime agli occhi, mi chiedesti preoccupata: “Ma Alessandro, che hai?” Mi buttai su di te stringendoti, baciandoti, mentre tu continuavi a non capire e cominciavi ad allarmarti. Poi però, un po’ alla volta mi calmai e, anche se a fatica, riuscii a spiegarti: “Niente, amore, per fortuna non è successo niente. Dormivo e ho rivisto la nostra vita, ma al mio risveglio ho temuto di ritrovarmi altrove, terrorizzato che il mio fosse stato soltanto un sogno. Poi però, appena ti ho vista qui a letto accanto a me e Gioia di là che dormiva, ho capito che non era così. Ho avuto solo il regalo di vedere il nostro passato come in un film.” “Siamo qui, certo, rilassati ora, hai avuto un incubo.” “No, non capisci, è stato bellissimo invece e proprio per questo temevo che, una volta svegliatomi, svanisse.” “Dici che hai sognato la nostra vita?” “E’così, l’ho proprio rivissuta un’altra volta.” “Piacerebbe anche a me…” “Riviverla? Se vuoi possiamo raccontarcela.” “Davvero ti andrebbe? Allora racconta, dai…” “Perché no? Ok, tanto di tempo ne abbiamo. Bene, da dove comincio? Dall’inizio è un po’ troppo banale, che dici? Meglio da quando sembrava fosse tutto precocemente finito.”
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CAPITOLO PRIMO
Mi ricordo in quella stanza di neurologia, a pensare che le stanze di ospedale sono tutte uguali: tristi, fredde, grigie. Chissà perché poi, sempre grigie? Nessuno ha mai pensato a un colore meno triste? Ma si, c’è chi ci ha pensato e deciso che il grigio va bene perché, quando si è tristi si perde la propria indipendenza e si avverte il bisogno di cercare conforto in qualcuno. Proprio come chi, suo malgrado, langue in quei posti, con il terrore del male che lo tiene al guinzaglio di quei signori con il camice bianco, padroni assoluti delle nostre emozioni, attendendo che passino a centellinare parole di speranza come briciole. Era notte fonda e stavo vegliando mio padre, seduto di fianco al suo letto, con in testa questi e tanti altri pensieri. Pensai che ero fortunato, perché mi tenevano sveglio. Andai con la mente alla notte prima, quando presi un volo, appresa da mia madre la notizia del suo ricovero improvviso. Ricordo la pioggia e il buio all’aeroporto alle cinque del mattino, con le luci artificiali che si specchiavano sull’asfalto bagnato. Il mio umore non era certo dei migliori, se quella scena mi portò alle atmosfere cupe e irreali di Blade Runner, in un mondo dove cadeva ininterrottamente la pioggia, nel buio di una notte senza fine, rischiarata dalle insegne al neon di una anonima città. Avevo davanti a me la faccia sempre triste e tesa del protagonista, che si distendeva solo quando era stretto alla donna che ne condivideva la fuga verso la libertà, in un abbraccio alla ricerca di un po’ di calore e conforto. Quel calore, quel conforto di cui avevo anch’io un disperato bisogno, perché forse stavo per perdere mio padre, dopo avere appena perduto te. Sapevo che non ti saresti mai fatta viva, che avrei dovuto fare senza di te, del tuo appoggio, della tua consolazione, della tua forza. Di sicuro sapevi, ma non chiamasti mai. Lo guardai, aveva lo sguardo fisso, la bocca aperta, il viso pervaso da un continuo tremore, tutto il corpo percorso da una sorta di elettricità che sembrava non avere fine. Da mia madre avevo saputo ciò che aveva detto il dottore, subito dopo il ricovero. Era stato piuttosto schietto, quasi da risultare brutale:
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“La situazione è seria. Il paziente ha avuto un’ischemia, che deve aver interessato un’area importante del cervello. Può essere che non riesca a superare la notte.” Le sue parole gelarono mia madre, la quale però, alla ricerca di una speranza a cui aggrapparsi, gli aveva chiesto: “Ma…dottore…, ci sarà pure la possibilità che si riprenda…” E lui a rispondere: “La speranza c’è sempre, ma allo stato attuale devo essere onesto e dirvi che è remota. Ora devo andare, ma tra un po’ ripasserò per verificare la situazione. Vedete, in questi casi le prime ore sono decisive, in quanto il cervello, per compensare la mancata irrorazione sanguigna, cercherà di far confluire sangue attraverso canali alternativi. Immaginate che il corso di un fiume venga improvvisamente ostruito da una frana, l’acqua allora uscirà dall’alveo in mille rivoli e, lentamente, riprenderà la sua strada a valle, creandosi dei nuovi percorsi. Questo è ciò che speriamo accada.” Volsi lo sguardo verso di lui. Era assente, prigioniero del male che gli avvolgeva il corpo. Guardavo mio padre che forse si stava spegnendo, mentre io ero già spento dentro. Lo immaginavo triste, in attesa del grande passo, sapevo che si sentiva solo, anche se attorniato da tutti noi, ma in certe situazioni puoi trovarti in uno stadio pieno di gente ed essere ugualmente immerso nella più profonda solitudine, perché ci sono cose che devi affrontare solo tu, senza l’aiuto di nessuno. Mi sentivo anch’io come lui, ma se mio padre stava aspettando la morte, la mia invece era già avvenuta, nonostante fossero passati solo tre giorni, e si sta proprio male morti dentro, male che non si può spiegare, dovendo sopportare anche il peso di dover fingere di fronte alle persone, alla vita, a tutto il resto, a cui di te non importa. Il mio cuore era inerte, in compagnia di quella tristezza che ti toglie ogni voglia, ti dà solo un profondo senso di angoscia e ti confina in uno stato di morte apparente. Ma il mio dolore proveniva dalla mente, ben presente, che pensava senza sosta e mi faceva sentire solo e senza armi per affrontare qualcosa accaduto in modo troppo repentino. Qui stava la differenza tra noi due: mio padre cercava di aggrapparsi alla vita che sembrava sfuggirgli, mentre io, della mia, non sapevo più che farmene. Tu mi avevi lasciato e non mi importava più di niente. Non avevo più niente. Mi distesi sulla sedia, cercando di rilassare almeno le mie ossa. La mente no, quella era sempre avvolta da una ridda di pensieri che nella mia testa giravano vorticosamente, come un ottovolante impazzito.
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Ci eravamo conosciuti un anno prima. Ero venuto io da te, laggiù in Sicilia, senza sapere ancora di te. Era stata una decisione quasi improvvisa e ricordo bene il momento in cui, nonostante mi trovassi da solo, sbottai ad alta voce: “Ok, basta, la mollo!” Chi avevo deciso di mollare non era una donna, ma la banca, il mio lavoro da quasi venticinque anni. Con Serena mi ero appena lasciato, ci eravamo scambiati un ciao, poi lei era sparita dietro la porta della sua nuova casa. Eravamo rimasti insieme per sette mesi, un record, per me! Certo, di donne ne avevo avute in passato, ma in tema di sentimenti ero sempre stato prudente, e mai nessuna mi aveva fatto provare qualcosa di insolito, di speciale. Con lei mi era sembrato diverso, avevo davvero pensato potesse funzionare. Era un gran pezzo di ragazza e mi attizzava proprio, ma non era solo questo, era anche intelligente e colta. Avevo pensato che trovare tre cose così importanti riunite in una persona non era facile. Ero convinto che l’amore lo senti, quando lo trovi e, fino a quel momento, non era mai accaduto. Con lei c’era stato qualcosa in più che mi aveva fatto credere di averlo trovato, così mi ero deciso a viverci insieme, convinto che una vicinanza più intima potesse far sbocciare del tutto quella cosa in embrione dentro me, che avevo scambiato per amore. Ma mi ero dovuto ricredere. L’avevo scoperta frivola, attirata da cose effimere, come i bei vestiti firmati, la parrucchiera due volte la settimana, l’estetista, i massaggi, le creme antirughe e tutta quella superficialità che permetteva di farsi notare. Per non parlare di quella sua smania di voler coltivare amicizie altolocate: avvocati, notai, titolari di azienda, dirigenti, persone in ogni caso ricche. Diceva che poteva sempre servire, ma il motivo vero era un altro: mi ero reso conto che, nel frequentarli, le pareva di accrescere agli occhi degli altri la propria importanza. Accidenti! Erano tutte cose che avevo sempre detestato e che ora mi ritrovavo in casa. Sia chiaro, non giudicavo una colpa vestire in un certo modo, o conoscere qualcuno imbottito di soldi; anche uno ricco sfondato può essere una brava persona. Ma lo era il perseguimento esclusivo di tutto questo, che metteva da parte ogni altra cosa. Non mi ricordavo più quando, tra noi, era stato intavolato un discorso un po’ più serio, che non fosse parlare delle prossime vacanze, o dell’auto da cambiare, o di una casa più bella da comprare. Come avevo potuto sbagliarmi così clamorosamente? Non c’era stata più sintonia tra noi, lo avevo capito e lo aveva
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capito anche lei. Così, alla fine, nella massima libertà che c’era sempre stata tra noi e senza rancori, avevamo deciso di dividere le nostre strade. Ora volevo dare un taglio con il passato, dovevo solo decidere come. Il mattino dopo mi recai al lavoro, con il broncio di ogni mattino. Ma stavolta il mio umore era più nero del solito, mi aspettava un compito ingrato. I signori Viviani arrivarono puntuali e io, da zelante funzionario di banca, assolsi egregiamente il mio compito, sbattendo loro in faccia la notizia che, per il mio Istituto, non erano più dei buoni clienti anzi, erano diventati molto cattivi e la banca ora voleva disfarsene. Non c’è che dire, usai e misurai a dovere le parole, gliela misi giù con il giusto tatto, c’era quasi di che compiacersi della mia abilità oratoria, ma alla fine le dovetti pronunciare quelle due parole, pesanti come macigni: Dovete rientrare, che tradotto dal gergo bancario significava Ridateci i nostri soldi. Oh, ero stato molto bravo a imbonirli con la storia, che non era colpa di qualcuno in particolare, ma solo della nuova procedura che monitorava i rischi con la clientela. Già, uno vive, lavora, mangia, va in auto, al cinema, a letto e in ogni istante delle sue giornate è controllato da una macchina che lo pensa sempre, gli sbircia i dati di fatturato segnando, come faceva la maestra a scuola, in rosso se sono in calo e se non si è guadagnato abbastanza. Gli controlla l’andamento operativo del conto, segnando stavolta in blu, che è molto peggio del rosso, quando non riesce a stare entro i limiti concessigli, quando non viene pagato dai suoi clienti e, a sua volta non riesce a pagare la rata del mutuo. Poi questa macchina perfetta tira le somme, sputando il suo giudizio inappellabile al quale, solo la mega direzione generale può passare sopra ma, mica si può scomodare la mega direzione generale per un cliente da trentamila euro! Quattro soldi, baggianate. I soldi, sia quando li hai, che quando li prendi a prestito, sono l’unità di misura per considerare un cliente. Tanti soldi, cliente buono, tantissimi soldi cliente buonissimo, pochi soldi poveraccio. Quindi la banca aveva deciso di tirare i remi in barca e buttarli a mare come zavorra, quei poveracci. Tanto, domani chi si sarebbe ricordato di loro? Che nome avevano? Ah si, 017898654870, schedario anagrafico numero 017898654870, un numero lungo e un bel paravento, grande abbastanza per dare l’alibi di non vedere le loro facce, i loro figli, la loro casa ipotecata e la vita futura a cui stavano per essere condannati.
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E’ stato l’uomo a fare la macchina, ma ora è la macchina a comandare l’uomo, iniettandogli dentro, al posto dei sentimenti, la sua fredda logica. Chissà cos’hanno nella loro mente gli scrittori e i registi di fantascienza, per riuscire a prevedere il futuro. L’uomo ha creato la macchina, ma prima o poi sarà costretto a distruggerla, per non essere distrutto da lei. Strano tipo l’uomo, spesso è come un bambino e non si cura degli avvertimenti. Ora ero alle prese con uno scarno e freddo giudizio di merito: meno otto, cliente a rischio molto alto; in una scala di dieci, due gradini più in basso del massimo. “Abbiamo capito, signor Casati.” disse la signora Viviani. Non sembrava triste, a volte la rassegnazione cancella anche la tristezza, ma è molto peggio, perché significa che sei arrivato ad arrenderti. Non sapevo che rispondere: “Mi dispiace signori, non sapete quanto…” parole nemmeno tanto originali, anche se era la verità e fu paradossale che fossero loro a consolarmi: “Non è colpa sua signor Casati, lei deve stare a delle regole, ma la conosciamo bene e l’ultima cosa che ci verrebbe, sarebbe provarle rancore.” Non mi bastò, mi sentivo colpevole. E non sopportavo più di fare quel lavoro, di assumere parti così, mettendo nel cassetto i sentimenti. Molti mi avrebbero preso per pazzo: come si poteva rifiutare un lavoro tanto ambito? Paga molto buona, posto pulito, carriera. Per la gente, poi, tutto ciò che ha a che fare con i soldi attrae, e lì ci si lavorava addirittura, in mezzo ai soldi! Ma a me non importava niente, non avevo più l’entusiasmo iniziale, spentosi un paio d’anni dopo essere stato assunto. Uff, che noia, sempre le stesse cose, senza mai qualcosa che potesse assomigliare a una sorpresa e poi, alla fine del giorno, faticare a capire cosa avevo fatto in tutte quelle ore. Non vedevo nulla di concreto. Il muratore fa cose che dureranno nel tempo: un palazzo, una casa, una recinzione, perché no? Anche quella rimane. Io invece no, o almeno così mi sembrava e comunque la pensavo così. Ma, oltre a questo, c’erano cose che non riuscivo più ad accettare, come i tanti tristi signori Viviani che si sedevano davanti alla mia scrivania, per poi andarsene mesti a casa. C’era qualcosa di più profondo, che aveva fatto nascere in me questa avversione per un lavoro agli occhi dei più normale e innocuo. Qualcosa nato in me circa cinque anni prima, quando attraversai un periodo di riflessione, che cambiò il mio modo di pensare e vedere le cose.
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Capitò per caso, quando acquistai in rete un libro che mi aveva incuriosito per il suo titolo inquietante, che teorizzava una sorta di occulto ordine mondiale, a gestire e controllare in modo pressoché totale i governi delle nazioni, ogni tipo di istituzione e quindi ogni individuo. Un oscuro Grande Fratello, riconducibile a poche famiglie, per lo più banchieri, che esercitano un potere assoluto, in quanto detentrici delle grosse multinazionali, delle banche e delle organizzazioni internazionali, e quindi in grado di manipolare a piacimento governi, informazione, nonché la salute e la diffusione delle malattie. Un potere di cui le banche sono il braccio operativo, gestendo il denaro e controllando, attraverso il debito, cui di fatto questo sistema costringe tutti, dalla grossa azienda al privato, la produzione mondiale di ogni tipo di bene. Ci sarebbero da scrivere libri su tutto questo e a me bastò per arrivare a una conclusione: “Ma bene! sto lavorando dentro a una cosa che, a poco a poco, ma senza sosta, si arricchisce impoverendo la società.” Lavorandoci dentro contribuivo anch’io a tutto questo, alla stregua di uno che lavora in una fabbrica di armi e produce oggetti destinati a far del male a qualcuno e a provocare sofferenza, morte e dolore. Nonostante la pensassi così non ero però mai riuscito a decidere di tagliare la corda che mi ci teneva legato, per quel coraggio che mi era sempre mancato nel cogliere occasioni, prendere decisioni, anche rischiose, ma che avrebbero potuto dare una svolta alla mia vita. Invece avevo sempre scelto il quieto vivere, perché non dà preoccupazioni. Così però avevo rinunciato al vero sale della vita. Ma forse ora era giunto il momento, dopo l’addio a Serena e dopo i Viviani, ennesima goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Dovevo cambiarla, quella vita insipida e mi dissi che potevo intanto insaporirla, non aggiungendoci qualche spezia o fragrante condimento, bensì togliendone qualcuno di sgradevole come… la banca. Decisi anche un’altra cosa: io vivevo a Chiarentino, un piccolo paese agricolo del bresciano, sin da quando ero nato e, tra le tante voglie, ora avevo anche quella di andarmene da lì. Nel pomeriggio arrivò Vizzini, titolare di una piccola azienda di maglierie. Aveva sessantacinque anni ed era originario di Ragusa, che aveva lasciato quarant’anni prima, per venire al nord. “Buongiorno signor Vizzini.” “Caro Casati, allora tutto a posto?” “Certo, il prestito è già stato erogato e i soldi sono già nel suo conto.” “Ah bene, li posso prendere, allora?” “Ma certo! Ora sono suoi.”
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“Perfetto, così domani mi consegnano il camper e divento suo collega.” Ce l’avevo anch’io il camper e abbozzai un sorriso a quella battuta, ma non avevo voglia di ridere, non mi venne bene e lui se ne accorse: “Che c’è, qualche problema, signor Casati?” “Non ci mancano mai, che dice?” “No di certo, un sacco di altre cose si, ma quelli mai! Problemi in famiglia?” “Quelli, altri e altri ancora…” “La salute è buona almeno...” “Non mi lamento.” “E allora che c’è? Miezzica, alla sua età come si fa a essere così giù?” Visto che insisteva, mi decisi a dirglielo, magari sarei stato meglio: “Vizzini, io qua non ci resto più.” Lui mi guardò, neanche tanto sorpreso. Sapeva del mio malessere. “Già, sor Casà, il motivo è il solito, immagino.” “Proprio così.” “Mi dispiace assai, anima mia, che vorrebbe andare a fare?” “Per ora solo andarmene, prendermi una lunga vacanza, magari un anno, ecco potrei prendermi un anno sabbatico. A mente sgombra l’ispirazione potrebbe venirmi. Ora no, non riesco a pensare.” “Eh, sor Casà, la capisco, non c’è niente di peggio che dover fare qualcosa che non piace. Successe anche a me, quando ero giovane, lavoravo in una fabbrica e un giorno mi dissi: Giovanni, mica vorrai stare qui per sempre! Così me ne venni al nord, trovai lavoro in una piccola ditta che produceva abiti e fui fortunato, perché il proprietario mi prese in simpatia. Un giorno gli dissi che volevo mettermi in proprio. Ne fu dispiaciuto, ma mi propose di collaborare con lui: io avrei confezionato i capi grezzi, poi li avrei passati a lui per la finitura. Mi prestò anche dei soldi. Una brava persona! Andò bene e ora ringrazio il cielo di avere avuto il coraggio, quella volta, di andarmene da casa. “Ora ce l’ho anch’io.” “C’è sempre un tempo per ogni cosa.” “Già, non mi spaventa nemmeno cosa potrei andare a fare, non sono schizzinoso. Potrei anche fare… l’agricoltore.” “Dice che vorrebbe mettersi a lavorare la terra?” Avevo detto la prima cosa che mi era venuta in mente e continuai, come in un gioco: “Perché no? E lontano da qui.”
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“Cosa sa fare sor Casà? Non si offenda ma, credo che lei non sappia neanche da che parte cominciare, per potare una pianta o concimare un terreno.” “E’ così Vizzini, buio assoluto.” risposi con aria placida. “E allora?” “Potrei imparare.” “Ho capito, lei deve essere un po’ pazzo, ma mi piace.” “Grazie per la comprensione.” “Ma non ci credo molto.” “Cosa?” “Che se ne andrebbe lontano.” “Si, c’è poco che mi trattenga qui, ormai…” “Non ci credo. Non mi dica che se ne andrebbe, che so, in Puglia o in Sicilia.” “Perché no? Dopotutto… aspetti un momento, lo sa che mi ha fatto venire un’idea?” “Davvero? Che idea?” “La Sicilia! Come ho fatto a non pensarci prima!” “Forse perché per lei è troppo lontana.” “Ma no! Lo sa che io possiedo un fazzoletto di terra, laggiù?” “Non me lo dica!” “Non lo ricordavo neppure io. Vede, l’ho avuto, diciamo così, a saldo di un prestito.” “Come sarebbe?” “Per la verità sarebbe stato di mio padre. Vede, quattro o cinque anni fa aveva prestato dei soldi a un collega di lavoro. Gli servivano per suo figlio, era affetto da una grave malattia e l’unica sua salvezza sarebbe stata un costoso intervento negli Stati Uniti. C’era un problema: non aveva tutti quei soldi, ma non fu lui a chiederli a mio padre. Glieli offrì lui, senza pensarci su un minuto. Disse che di fronte a un bambino tutto il resto diventa secondario. E poi conosceva bene quel suo amico e sapeva che, se fosse stato al posto suo, avrebbe fatto lo stesso. Ma lasciamo stare il lato commovente della storia. Sta di fatto che gli diede i soldi, andò tutto bene e il bambino guarì, ma il padre non fu poi in grado di restituirglieli. Passarono tre anni e, alla fine, non potendo vivere con il pensiero di quel debito, offrì a papà un terreno che possedeva in Sicilia, lui era nato lì. Lui accettò e stava così per ritrovarsi proprietario di un piccolo appezzamento agricolo dall’altra parte dell’Italia, di cui non sapeva che farsene. Così mi disse se lo volevo io a titolo di…
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anticipo sull’eredità. Magari un giorno sarebbe venuto in mente a me che farci. Bene, oggi mi è venuto in mente. Andrò in Sicilia!” “Che storia! E dove si trova questa terra?” “Questa è proprio una coincidenza. Lei non è di Vittoria?” “Si, ci sono nato.” “Allora siamo vicini di casa, anche se sopra alla mia terra la casa non c’è ancora, per adesso. Si trova a Cedara, un paese sulla costa, a quindici chilometri da Vittoria.” “Ma che fa? Dice sul serio? Era il mio mare da ragazzo, quello.” Vizzini mi guardò e sorrise, quindi mi disse: “Quando pensa di andarci?” “Appena possibile.” “Dove andrà ad abitare? E cosa farà? Dovrà pure fare qualche cosa, immagino.” “Già, forse mi sono lasciato trasportare un po’ troppo dall’entusiasmo e non ci avevo pensato.“ “Non si scoraggi, ora la aiuto. La mia casa in Sicilia ce l’ho ancora, è ciò che mi tiene legato alla mia terra e non ho mai voluto disfarmene. Di parenti ormai non ne ho più, ma ho ancora parecchi amici, non ho mai lasciato morire i rapporti e, quando ci torno un paio di volte l’anno, ci sto assieme volentieri. Ora, io laggiù ci sono appena stato e prima di cinque o sei mesi non ci torno.” Smise di parlare e lo vidi estrarre dalla borsa un mazzo di chiavi e posarlo sulla scrivania, per poi dirmi: “Tenga, queste sono le chiavi di casa mia, quando vuole ci vada, in attesa di trovarsi una sistemazione.” “Ma Vizzini, come fa a dare le chiavi di casa sua a me? Dopotutto ci conosciamo appena…” Lui sorrise e mi rispose: “Sono siciliano e le persone le peso anche da poche parole e da come mi guardano.” “E… quanto peso?” “Il giusto, penso di non sbagliarmi su di lei.” “Non so che dire…” “Dica si, è facile.” “Si…” “Così mi piace, sor Casà. E poi non creda, un po’ lo faccio anche per me, sa?” “In che senso, scusi?”
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“Non voglio mica, ogni volta che vengo in banca, ritrovarmi quella sua faccia da funerale!” “Vizzini, grazie ancora.” “Allora vediamo, siamo a febbraio e fino al prossimo agosto lei stia comodo comodo. Le verrà in mente anche qualche lavoretto, ne sono certo. Si rilassi, intanto, vicino avrà anche il mare e le assicuro che è un mare stupendo.” “Come potrò sdebitarmi?” “Quando sarà lì penserà anche a questo.” mi diede un’occhiata e aggiunse: “Scherzo, Casà, scherzo.” Quando se ne andò, pensai subito che quell’incontro non era stato casuale: io cercavo risposte ai miei dilemmi e me ne era stata servita una. Era venuto il momento che mi decidessi, finalmente. D’accordo, c’erano i miei anziani genitori, che non avrebbero capito, ma si sa che non si può fare una frittata senza rompere le uova e pensai che avrebbero dovuto farsene una ragione. Quindici giorni dopo, quindici gennaio, ero in viaggio. Anche se sapevo di avere a disposizione la casa di Vizzini e forse non mi sarebbe servito, avevo preferito il camper all’auto, perché lo consideravo un po’ parte di me. Non accesi mai la radio e rimasi assorto in un mare di pensieri che mi si affollavano nella mente. Lungo l’Adriatica pensavo, guardando distrattamente il paesaggio scorrere dal finestrino, come la pellicola di un film. Solo percorrendo il tratto nei pressi di Bari, attirarono la mia attenzione degli enormi agglomerati di palazzoni, uno uguale all’altro; quei monoliti erano di sicuro abitazioni popolari. “Quanti appartamenti ci saranno in quei condomini?” pensai “chissà quanta gente! Ogni appartamento una famiglia, ogni famiglia due, tre, quattro…tante persone. Edifici uguali in ogni periferia di ogni città, del nord come del sud, come di qualsiasi altro posto. Quando ne hai visto uno li hai visti tutti. La stessa forma geometrica. Un cubo? Un parallelepipedo? Le stesse tende a righe bianche e blu appese in cima alle terrazze, che scendono giù fino a sporgere oltre le ringhiere. Gli stessi panni stesi ad asciugare. Lo stesso degrado, la stessa malinconia e tristezza di ogni periferia. Il mondo è così bello e allora perché uno nasce per poi finire chiuso lì dentro? La vita può essere bellissima, può essere luce, colori, fantasia, speranze, sogni da realizzare. Ma se c’è un po’ di allegria e voglia di vivere, un posto così te la fa sparire.
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“Già…” riflettei però subito dopo “ma è anche vero che, il più delle volte, uno può essere felice anche in luoghi così, grigi, tristi, malinconici, con i soldi che non bastano mai, mentre si può avere l’infelicità abitando in una bella casa, magari possedendo tante altre cose, ma non quelle che contano.” Cercai di pensare ad altro… Traghettai a Messina di sabato mattina e in tre ore, arrivai a Cedara, dopo 1400 chilometri di stanchezza e ricordi. Dovevo riposarmi, dovevo dormire. Sistemai il camper, avrei mangiato un boccone veloce per poi andarmene a letto, ma… “No!” esclamai “non vado a letto ora, c’è tempo per andarci. Che diamine! Questo è il mio primo giorno qui e… ho caldo. Quasi quasi, un bagno al mare…perché no?” Il mare distava trecento metri, gennaio non è molto balneare e sulla spiaggia non c’era nessuno. La sabbia era bianca, vi distesi l’asciugamano ed entrai subito in un’acqua piuttosto fredda, per non dire ghiacciata, ma incredibilmente limpida, che mi tolse di dosso stanchezza, sudore e…passato.
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Fabio Pesce
CAPITOLO SECONDO
Cedara si trovava sulla costa sud, tra Gela e Marina di Ragusa. Era un bel paesino di impronta tipicamente meridionale, con le strade diritte, che si intersecavano ad angolo retto, le case linde, il bel duomo in stile barocco, proprio nella piazza principale, contornata dalla strada che la cingeva ad anello, al centro lastricata di marmo bianco, belle aiole e tante panchine, sovrastate da alberi, a ombreggiare piacevolmente le chiacchiere della gente, seduta oziosamente a passare le ore. Avevo chiesto e ottenuto un periodo di aspettativa al lavoro, che mi consentiva di sperimentare questa nuova avventura, lasciandomi però aperta l’eventualità di conservare il posto, nel caso le cose non fossero andate come speravo. La casa di Vizzini era a un piano, abbastanza grande. Nonostante mostrasse la sua non più giovane età, era ben tenuta e accogliente. Tutt’attorno aveva un bel giardino, anche se un po’ incolto. Vizzini mi aveva detto che lo curava un contadino della zona, ma non doveva venirci spesso. C’erano molti alberi di ulivo, alcuni vetusti, a giudicare dal fusto e dai rami possenti. L’ulivo è un po’ la metafora della lotta per la vita. Le forme contorte, che ne sono la bellezza, raccontano le sue cento difficili stagioni, vissute in terra arida e sbattuto dai venti, che non lo hanno spezzato, ma solo piegato. Ogni curva del tronco e dei rami una battaglia conquistata. C’erano anche viti di uva bianca, piante di limoni, albicocche e gli immancabili fichi d’india. Intorno si estendevano terre ricoperte di serre. Il giorno dopo mi svegliai riposato. Per prima cosa andai in terrazza a respirare a pieni polmoni e, appena uscito, mi avvidi dell’uomo intento a potare le piante. Era facile immaginare che dovesse trattarsi del contadino incaricato di curare il giardino. “Buongiorno.” gli dissi a voce alta. Lui si voltò, mi rispose “Buongiorno.” e si rimise a lavorare. “Non dev’essere molto loquace.” pensai e scesi per andare a presentarmi. “Piacere, mi chiamo Alessandro Casati.” Mi strinse la mano e rispose: “Piaciri, Salvatore Nicolosi.” “Sono un amico di Giovanni e starò qui per un po’.”
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“Già lu sacciu.” Non sembrava molto entusiasta di conoscermi. Cercai di intavolare una parvenza di dialogo: “Vedo che sta sistemando…” “Già.” Era decisamente una bella impresa conversarci insieme e decisi che era meglio lasciar perdere. “Be’, buon proseguimento e se le serve qualcosa, mi dica pure.” Stavolta non rispose proprio e mi avviai per rientrare quando, fatti quattro passi, sentii la sua voce: “Grazie.” “Deve avere i riflessi un po’ lenti.” pensai. Ma non mi sembrava cattivo e, mentre bevevo un caffè, mi venne da dedurre che non fosse proprio ostilità, la sua, solo un po’ di diffidenza. Ma ci sarebbe stato tempo per conoscerci. Il tempo arrivò subito, perché bussò, era aperto, ma non entrò, aspettando sull’uscio. “Ah, Salvatore, entri, le va un caffè?” “Grazie.” “Abita qui vicino?” “A due chilometri, verso Cedara.” La conversazione aveva bisogno di forti sollecitazioni da parte mia. “C’è tanto da fare fuori. E’ un bel giardino e molto grande.” “Si, è grande assai.” “Quando ci viene, posso darle una mano, se le fa piacere.” “Grazie.” “Ecco.” gli dissi, porgendogli il caffè e, rovistando nei meandri della mia immaginazione, gli chiesi la prima cosa che vi trovai: “Cosa fa di bello?” “Lu contadinu.” “E cosa coltiva?” “Ortaggi, legumi e ci sta pure un campo di ulivi.” “Ah bene e, animali?” “Cinque vacche, due capre e galline.” “Maiali niente?” non è che mi fregasse più di tanto, ma era tanto per dirne un’altra. “Puorcu no.” Non gli chiesi perché, per non sembrare un detective. “E’ un bel posto qui.” “Fa càvuru.” Forse era arabo e gli chiesi:
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“Fa… che?” “Càvuru, caldo.” Si, era arabo: “Ah ecco! Si, in Sicilia è normale, credo. Mi ci dovrò abituare anch’io, visto che ci resterò per qualche mese.” Suonò il campanello e non sapevo se essere più contento dell’occasione offertami per finire un dialogo impossibile, o curioso di sapere chi poteva cercare me, sconosciuto e appena arrivato. Fuori, fermo in strada, vidi un camper e l’uomo che mi diceva: “Scusate se disturbo, per caso sapete dove possiamo trovare un posto dover fermarci?” “Mi dispiace ma io non…” mi venne in mente che c’era però Salvatore a cui chiedere: “Salvatore, c’è qui intorno qualche parcheggio dove possono sostare?” “Nu sacciu. Ci sta solo un campeggio a cinque chilometri, sulla strada per Gela.” “Mi dispiace, avete sentito.” dissi al signore in strada. “Lo immaginavo, purtroppo è da un po’ che cerchiamo, ma senza fortuna. Grazie lo stesso e buona giornata.” “Buona giornata.” risposi, ma subito aggiunsi: “Se vi va potete mettervi qui, davanti al garage, per stanotte.” Mi ero messo nei suoi panni. Mi ci ero trovato, in passato, in situazioni del genere e sapevo che non era piacevole. Avevo notato anche che aveva due bimbe piccole. “Davvero? Sarebbe troppo gentile.” “Nessun problema, parcheggiate pure e, se vi serve acqua, ce n’è finché volete.” “Grazie ancora, ora entro.” Mi trattenni per altri cinque minuti con Salvatore, che mi disse: “L’ho fatto anch’io una volta.” “Cosa?” “Ho ospitato un camper a casa mia, in cortile.” “Hai fatto bene, tanto, non costa fatica. Mica li portiamo in spalla, vero?” Lui non rispose, ma vidi una smorfia della bocca che assomigliava a un sorriso. Poi si alzò per andarsene: “Grazie per u caffè, torno rumani.” Immaginando che tornasse domani gli risposi: “D’accordo Salvatore.”
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Mentre stava uscendo, si fermò e aggiunse: “Turi, se vuole può chiamarmi Turi.” “Turi… va bene, ok Turi.” Passò una settimana, durante la quale non mi mossi quasi mai di casa, a parte una visita alla mia proprietà, qualche puntata al mare e un paio in paese, mosso dalla curiosità di vederlo e dalla necessità di fare provviste. Mi stupì in quei giorni il ripetersi, per altre tre volte, di soste di camperisti che suonavano il campanello in cerca… di affetto, di sicuro attirati dal mio camper parcheggiato in giardino. Di questi ne accolsi solo uno, come era successo la prima volta, ma ciò mi fece riflettere. Il mare distava solo quattrocento metri da dove mi trovavo e la strada statale vi arrivava direttamente. Questo era il motivo di tutto quel via vai e, in effetti, nei dintorni non c’era nessun posto indicato alla sosta. La elaborai nella mia mente, l’idea prese forma e chiamai Vizzini: “Caro Alessandro, tutto bene?” “Benissimo, Vizzini, qui è un paradiso. Ho conosciuto anche il suo giardiniere.” “Ah, Turi, me lo saluti. E’ riuscito a sentire la sua voce?” “Già, non parla molto, ma ci capiamo lo stesso. Senta, volevo chiederle una cosa; ce l’ha un buon geometra, tra i suoi amici?” “E come mai, sor Casà?” “Visto che dispongo del terreno, volevo sfruttarlo, mettendoci dei camper sopra.” “Che ha detto, scusi?” “Non si allarmi, Vizzini, non è difficile, voglio solo fare un punto sosta per i miei amici camperisti, attrezzato con acqua potabile, elettricità e tutto il resto.” “Lei mi stupisce!” “Me ne stupisco pure io, ma ho avuto l’ispirazione qui, a casa sua. Sa in questi pochi giorni, quanti ne ho visti passare di qua? Penso che potrebbe funzionare.” “Dal tono della sua voce la sento molto meglio di quando ci siamo lasciati l’ultima volta, a Chiarentino. Ha visto che avevo ragione? Doveva cambiare aria per pulirsi la mente.” “Proprio così.” “Certo che conosco qualcuno. Ho un amico geometra che ha lo studio a Ragusa. Siamo vecchi compagni di scuola e carissimi amici. L’ho avu-
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to a cena a casa mia, poco tempo fa e, sa come vanno le cose, un bicchiere ora, uno dopo, un altro…” “Ho capito, Vizzini, ce l’avete anche buono, il vino, quindi…” “Ah, vedo che mi capisce sor Casà, abbiamo del vino noi… la prossima volta le porto una bottiglia di…” Lo interruppi, perché lo conoscevo fin troppo bene e sapevo che, se non lo tenevi sull’argomento, partiva per la tangente: “Non serve, lei è troppo generoso, ma continui pure.” “Bene, bevendo, diciamo così, del più e del meno… ah ah… piaciuta questa?” “Certo, fa proprio ridere, Vizzini.” cominciavo a disperare di finire quella conversazione. “Salvo…” “Chi è Salvo?” “Il mio amico, ma già, non glielo dissi il nome, si chiama Salvo Ayala. E’ una persona molto esperta e competente. Prenda nota, le detto il numero, poi io lo avviso che lei gli farà visita.” Due giorni dopo ero seduto davanti alla sua scrivania tra un mare di faldoni sparsi per terra. A dire il vero ero perplesso, osservando quel disordine indescrivibile. Il tavolo si intravedeva tra carte e progetti, una tazza di caffè con il cucchiaino caduto dal piattino, che aveva insozzato una visura catastale, un mouse costretto a muoversi in una gabbia di tre centimetri quadrati. “Speriamo bene” pensai tra me “non ho mai visto un casino simile. Ma forse è uno di quelli che nel suo casino ci si ritrova.” Il mio sguardo andò al crocifisso e il pensiero ai miracoli: “A volte le apparenze ingannano.” Lasciai i miei pensieri perché Ayala, che si era appena accomiatato con il signore che mi aveva preceduto, entrò, avvolto dal fumo della sigaretta che teneva in mano. Si sedette e mi disse: “Allora signor Casati, così lei conosce il nostro buon Vizzini. Che tipo!” “Già, è proprio simpatico e non gli manca mai la battuta. A volte è anche pittoresco. Ha una vitalità e loquacità inversamente proporzionali alla sua piccola statura e la sua compagnia richiede un impegno non comune, tanto che ne esci spossato. Ma è proprio un brav’uomo!”
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“Siamo vecchi compagni di scuola e siamo sempre rimasti amici. Si, è vero, è un po’ strano, ma gli sono affezionato. Bene, a noi ora, mi dica cosa le serve.” “Un po’ di pace.” gli dissi con un sorriso. “Quella non si compra…” “Lo so ma, quando non si ha, ci si mette in viaggio e si può trovarla…” “Vizzini mi aveva accennato a un suo progetto.” “Parcheggio.” Ayala, togliendosi gli occhiali, mi guardò come si guarda un ubriaco che barcolla e disse: “Che ha detto?” ”Ha capito benissimo, un parcheggio, un posto dove far sostare i camper.” “Un campeggio, allora.” ”No, no, il campeggio è molto impegnativo da gestire e necessita di un’area molto vasta. Solo sosta per camper. Non mi prenda per matto, il motivo c’è. Io ho un camper e lo uso da anni. Ho girato tanti posti, ma pochi come la Sicilia sono così inospitali dal punto di vista delle strutture ricettive, con chi viaggia come me. E’ una terra bellissima, ma non sa valorizzare ciò che possiede. Quando ci posi il piede, ne percepisci subito uno stato di trascuratezza e abbandono. D’accordo che purtroppo questo si sa e ormai è diventato un luogo comune, ma non è per niente consolante. Voglio dire che chi viaggia su quei carrozzoni, a meno di non andare in un campeggio, qui non ha molte possibilità di trovare strutture che gli possano offrire ciò di cui ha bisogno: acqua, soprattutto acqua.” “Purtroppo non posso smentirla, questa è la triste realtà, qui da noi.” “Non capisco perché. E’ così evidente…” “Non è così facile, purtroppo, il problema è un po’ più complesso e nasce dalla mentalità chiusa del siciliano, che fa tanta fatica ad aprirsi, ad adeguarsi al mutare dei tempi e questo a me dispiace molto dirlo, perché siciliano sono pure io. Qualcosa però sta cambiando e idee nuove non mancano, specialmente da parte dei giovani, ma si arenano sui tavoli delle istituzioni locali, perché il loro esame, il rilascio di autorizzazioni, licenze e tutto il resto, è in mano a gente ancora chiusa in schemi di pensiero antiquati e ottusi, per la quale, tutto ciò che significa o evoca cambiamento spaventa.” “Come mai?” “Ciò che spaventa è la paura che il cambiamento, di qualsiasi tipo sia, sconvolga i ritmi di vita, la quiete familiare, spaventa perché la gente è sospettosa verso chi viene da fuori e teme che, in qualche modo, possa
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sottrargli le cose che possiede. La Sicilia è un’isola, mio caro Casati, un pezzo di terra fisicamente isolato dal resto del mondo e questo isolamento fisico inevitabilmente ha influenzato anche il pensiero della gente, portando anche a una sorta di isolamento e chiusura mentale. Non è un problema solo siciliano, intendiamoci. Pensi anche ai sardi, per esempio e, caso più eclatante, agli inglesi, dove si arriva al paradosso che sono loro a considerare isola il continente. La vita e l’economia locale qui nella nostra zona, da sempre si basano sull’agricoltura. Avrà sicuramente notato, venendo, qui, quante serre ci sono.” “Si, l’ho notato, è impossibile non farlo. La zona ne è letteralmente tappezzata. Anche la casa di Vizzini ne è circondata.” “Già, servono alla coltivazione dei pomodori. Qui vicino c’è Pachino, le dice niente questo nome?” “Ovvio, non servono spiegazioni.” “Bene. Prima dei pomodori, qui si coltivavano le arance, poi, per la concorrenza sempre più asfissiante di altri paesi mediterranei, la produzione di arance è entrata in una crisi irreversibile. Ma ce n’è voluto del tempo perché qui ci si rendesse conto che così non poteva più andare. Solo quando si è ritrovata i magazzini pieni di arance che marcivano invendute, la gente ha cominciato a capire che era tempo di cambiare rotta e, piano piano, è passata a produrre pomodori, tanto che ora, come ha visto anche lei, non c’è praticamente un angolo di terra libero da teloni di nylon. “Tra l’altro non è che sia una cosa proprio bella a vedersi.” osservai. “Infatti, questo conferma ciò che lo sto dicendo. Qui si continuano a dare senza problemi permessi per la realizzazione di nuove serre, mentre si rifiutano quelli per far nascere iniziative per sviluppare il turismo, soprattutto delle nostre coste, adducendo come motivazione la volontà di non deturpare il paesaggio. E le serre allora? Lo abbelliscono? Certo, sono d’accordo anch’io che non si devono consentire degli obbrobri edilizi, ma ogni cosa si può fare se si usa il buon senso. Solo che qui è più difficile che altrove”. “Il suo scetticismo allora mi porta a pensare che lei abbia dei dubbi anche su ciò che mi riguarda.” “No, sono realista. Dico che non è facile cambiare questo status quo, ma qualcosa, a dire il vero, si sta muovendo, si può aprire una breccia nel muro e, prima o poi…” Ayala allora mi chiese:
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“Considerata questa novità dei camper, dobbiamo trovare dove piazzarli e, mica la posso mandare in mezzo alle montagne, credo. Meglio vicino al mare, no?” “Non serve che le dica niente, mi sembra più esperto di me. Ma il posto ce l’ho già, possiedo un terreno e, guarda caso, anche abbastanza vicino al mare.” “E dove?” “Vicino al paese di Cedara.” “Bella zona. Dopo mi porta a vederlo, se le va. Ho giusto un paio d’ore libere. Sa che le dico? La sua idea non è male, tra l’altro ricalca un pensiero che ho sempre avuto e per il quale mi sono anche messo in gioco in prima persona, quando ero assessore in Comune.” “Ah, lei è stato assessore.” “Si, ma dopo un anno mi hanno, diciamo così, sbattuto fuori. Non ero molto diplomatico e certe mie idee davano fastidio a qualcuno. Una di queste si collega al motivo di questa conversazione. Vede signor Casati ma, perché non ci diamo del tu? Dopotutto abbiamo un amico in comune, stiamo per affrontare un progetto insieme e… tutto verrebbe più facile. Che ne dice?” “Certo, niente in contrario.” “Ok,…” Ayala si fermò, si accese un’altra sigaretta, mi guardò negli occhi, poi riprese: “Ti stavo dicendo che, con la mia esperienza e le mie conoscenze… quelle che contano, per intenderci, non sarà difficile. Credimi, tutto il mondo è paese e qui più che mai. Se vuoi fare qualcosa, devi conoscere qualcuno e mettere da parte una manciata di scrupoli. Quindi, proprio perché voglio bene alla mia terra, io ignorerò una parte dei miei e vedrai che in qualche modo qualcosa ne uscirà. Ho ancora dei buoni rapporti con persone che ci possono servire negli uffici pubblici. E vedrai che tra poco potrai tenere in giardino i tuoi conestoga.” Poi sorrise, mi guardò negli occhi e concluse: “Bene, cominciamo, allora!” Salvo fu di parola. Un mese dopo mi invitò a cena. C’era anche un suo amico, Antonio Sarnielli, che in seguito avrei avuto modo di frequentare ancora, per motivi che ancora non potevo immaginare neanche lontanamente. Quando fu il momento del dolce Ayala mi fece la sorpresa: brindando con lo spumante mi fece vedere l’autorizzazione del Comune, che mi dava mano libera. Nei giorni seguenti ci demmo quindi subito da fare per realizzare i lavori: spianare e ripulire il terreno dove serviva e realizzare gli allaccia-
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menti elettrici, idrici ed un pozzetto di scarico acque. Acquistai anche una casetta prefabbricata in legno, che divenne la mia dimora.
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CAPITOLO TERZO
Salvatore arrivò, come sempre, di buon mattino. Dallo stato in cui si trovava il giardino al mio arrivo, credo che avesse iniziato a venire tutti i giorni proprio da quando ero arrivato io, anche per starci un’ora soltanto. Forse gli piaceva la mia compagnia e a me piaceva la sua, ci eravamo conosciuti meglio e ci andavamo a genio. Nel giro di una settimana al massimo avrei finalmente aperto l’area di sosta e avevo chiesto a Turi se fosse stato disposto a darmi un aiuto, quando serviva. Lui accettò di buon grado. Ora sapevo che abitava, con la moglie, in una fattoria ereditata dal padre, il quale a suo tempo l’aveva condotta a mezzadria per conto di un ricco signore della zona e che poi era riuscito a comperarsi. Era tarchiato e basso di statura, con due baffi orgogliosi. Non conoscevo esattamente la sua età ma, a occhio e croce, gli avevo dato sessanta, sessantadue anni. I suoi due figli erano emigrati al nord e si erano sposati. Pensai: “Buffo che loro se ne siano andati via a cercar lavoro e io invece sia venuto a trovarmelo proprio qui.” La sua pelle arsa dal sole e il volto, intarsiato di rughe talmente profonde che sembravano scolpite con uno scalpello, raccontavano di un’esistenza difficile e avara di regali, dove il tramonto di ogni giorno era la linea di traguardo di una corsa a tappe per tirare a campare. Da sempre faceva il contadino, lo faceva sin da bambino, perché non aveva mai fatto invece il bambino: sin dai sette, otto anni aveva cominciato a dare una mano in famiglia. Ma non lo avevo mai visto triste, nemmeno dopo una intera giornata passata sotto il sole cocente a lavorare sodo perché, non avendone mai provata una diversa, per lui la vita doveva essere così. Parlava poco, è vero, ma non lo trovavo un difetto, ciò che diceva non era mai a vanvera. “Buongiorno Turi,come sta tua moglie? Le è passato il mal di schiena?” “Buongiorno Alè. Nunzia guarì. U’ dutturi diede un medicamento che fece bene assai.” “Mi fa piacere. Senti Turi, io vorrei andarmene a fare un giro a Ragusa, a cercare una libreria. Tornerò per ora di pranzo.” “Tranquillo Alè, ci sto io cà. Salutiamo Alè.”
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Aveva deciso di abbreviarmi il nome e mi chiamava in quel modo buffo, con l’accento messo alla fine, ma detto da lui mi piaceva. Arrivato in città, chiesi informazioni e in breve trovai una libreria ben fornita. La libreria era sempre stata una delle mie mete frequenti, mi inebriava quell’odore inconfondibile, quell’atmosfera raccolta, quel labirinto di scaffali traboccanti di volumi. Anche se non dovevo comprare niente di particolare, mi soffermavo a sfogliare le pagine di qualche libro che attirava la mia attenzione e spesso uscivo soddisfatto con in mano un nuovo acquisto. Forse perché era un sogno da sempre coltivato il mio, di scrivere un libro, ma mai realizzato. Avevo sempre cercato lo spunto iniziale, un soggetto, una trama, senza però riuscirci, e scusate se è poco. Ahimè, mi era sempre mancato un ingrediente essenziale: la fantasia. E qui arrivi tu. Sentii una voce alle mie spalle: “Scusi, non trovo nessun commesso, cerco un libro da regalare e vorrei un consiglio, mi potrebbe aiutare?” Mi voltai, vidi la donna più bella che avessi mai visto e la tua immagine si riflesse in modo indelebile nella mia mente. Ti diedi trentacinque anni e ti vidi magnifica, una di quelle donne che, camminando per strada, fanno incetta di sguardi, commenti e ammiccamenti da parte degli uomini. Eri un perfetto esempio di bellezza mediterranea. I capelli nerissimi, lunghi e sciolti ordinatamente sulle spalle, facevano da cornice a un viso dai contorni dolci e senza spigoli, dove luccicavano due occhi scintillanti, con delle ciglia scure, abbastanza folte; eri alta di statura, il fisico prosperoso e perfetto, dove ogni curva sembrava modellata ad arte. Indossavi una camicetta di seta bianca e trasparente, che lasciava chiaramente intravedere le tue forme generose e una gonna appena sopra il ginocchio che sembrava dovesse scoppiare da un momento all’altro, da come si avviluppava addosso a te. Il tutto a risaltare un fisico perfetto, ma portato con classe e senza volgarità. Ti risposi: “Certo, vediamo se ci riesco. Intanto sentiamo, a chi deve fare questo regalo?” “A una mia cara amica.” “E non sa se preferisce qualche genere, in particolare?” “So che le piacciono i romanzi gialli e di avventura.” “Molto bene, abbiamo già fatto un bel passo avanti. E allora spostiamoci nel settore giusto. Dovrebbe essere lì, sulla nostra destra.”
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Mi diressi in quella direzione e tu mi seguisti. Poi ti dissi: “Ha mai letto Il nome della rosa? Penso sia un libro che non delude mai.” “Ah si, certo, ho visto anche il film, molto emozionante. Si, penso sia proprio una buona idea.” “Ok, allora alla ricerca!” Fui fortunato e non ci misi molto a trovarlo. Lo presi e te lo porsi: “Eccolo, missione compiuta.” “La ringrazio molto e… scusi se l’ho disturbata.” “Nessun disturbo. E’ stato un piacere. Anzi, mi disturbi ancora, quando vuole.” Tu ridesti: “Grazie, può darsi. Io ci vengo qualche volta qui e, se dovessi rivederla…” “Ne sarò lieto.” “Be’, ora devo andare e…arrivederci.“ Subito dopo pensai: “Non può essere un caso. No, non lo è, niente avviene per caso e se sono venuto qui oggi, era scritto che dovevo incontrarla. Dio, che donna! Era bellissima, e poi così… così… Che scemo sono stato, non le ho chiesto niente di lei, ma è successo tutto così all’improvviso e ora, come faccio a ritrovarla?” Avevo sentito qualcosa dentro me, mentre ti parlavo. Già da quel momento mi entrasti nel cuore.” L’area di sosta era cosa fatta. Mi trasferii dalla casa di Vizzini alla mia nuova dimora prefabbricata e aprii i cancelli il 16 marzo. Avevo ricavato venti piazzole, dislocate su quattro file. Ogni due c’era una colonnina per l’allacciamento elettrico e l’erogazione di acqua potabile. Avevo fatto anche piantare degli alberi che, in futuro, avrebbero ombreggiato e adornato le piazzole. Per scaramanzia non contavo molto sul fatto che qualche camper potesse arrivare già da subito. Ma, due giorni dopo l’apertura, sentii il rumore di un motore e di ruote che avanzavano sulla strada ghiaiosa. Un camper, il primo, e la sua foto ingrandita la misi a far bella mostra di sé dietro la scrivania del mio ufficio. Era una famiglia di Palermo, padre, madre e due maschietti di 7 e 9 anni, capitata lì seguendo le indicazioni che avevo provveduto a dislocare nell’arco di una decina di chilometri,
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in prossimità degli incroci che, dalle strade principali del territorio, permettevano di raggiungere la località costiera. Ora potevo tirare finalmente il fiato. Dopo due mesi vissuti intensamente, avevo fatto qualcosa che mi piaceva davvero e che, tra l’altro, mi avrebbe garantito anche buone entrate. La settimana dopo, sempre di sabato, Turi arrivò e, come la volta precedente, gli dissi che dovevo recarmi a Ragusa, con la scusa di alcune compere, chiedendogli il favore di sostituirmi per qualche ora. Turi rispose, strizzandomi l’occhio: “Alè, nun c’è problema. Però, stranu chi pi fari la spisa mettesti ù vistutu beddu i puri ù profumo!” Lo guardai e pensai: Ma che fa, mi legge nel pensiero? “Diavolo di un Turi, è vero, c’è dell’altro, ho conosciuto una donna sabato scorso a Ragusa, ma purtroppo non ho niente per ritrovarla, solo tornare dove l’ho incontrata e sperare. So che è un po’ poco, però me lo auguro. Non ho mai visto niente di più bello!” “Ah, ma quinni semu ‘nnammurati!” Un’ora dopo ero di nuovo in libreria. Mi guardai intorno ma non ti vidi. “Che stupido!” pensai, “c’è una probabilità su mille che la possa ritrovare. Va be’, non mi resta che sperare.” e mi misi a guardare distrattamente qualche libro. Ogni tanto alzavo la testa e mi guardavo attorno, ma senza sperarci troppo. E invece, dopo qualche minuto, la mia costanza fu premiata. Ti scorsi all’altro lato dell’ampio locale e mi diressi immediatamente verso di te. Stavi sfogliando un libro, ma non capivo come facessi a leggere se i tuoi occhi vagavano qua e là a scrutare la sala. Si fermarono appena sentisti la mia voce. Credo avessero trovato ciò che cercavano. “Buongiorno, libro interessante? Vedo che oggi non le servono consigli…” “Ti voltasti e mi rispondesti con un sorriso: “Ma che sorpresa, buongiorno! Si, mi piace e penso che lo comprerò.” “Che libro è?” “Si intitola Una storia come un’altra, è la testimonianza di un missionario che ha speso la sua vita in posti sperduti dell’Asia al servizio dei poveri.” “Interessante. Persone così mi fanno davvero sentire tanto… piccolo.” “Forse esistono proprio per questo.”
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“Già…” replicai. Quindi riportai l’atmosfera su un piano più allegro e ti chiesi: “Quando ha finito, posso offrirle un caffè? C’è un bar proprio qui fuori, all’angolo.” “Certo che mi fa piacere. Accetto volentieri.” “Bene, io sono Alessandro,” ti dissi porgendoti la mano. “E io Stella.” “Stella, un nome molto bello. Bene, l’aspetto, anzi, potremmo darci del tu, che dice?” “Affare fatto.” “Ok, volevo dire che ti aspetto, ma fa con comodo, non ho fretta.” “D’accordo, mi sbrigo in due minuti.” Dopo aver pagato alla cassa, mi raggiungesti e uscimmo, per infilarci poco dopo nel bar lì vicino. Occupammo un tavolo: “Vivi qui a Ragusa?” ti chiesi. “No, abito a Cedara, un paese a circa venti chilometri, sulla costa.” “Ma che combinazione, anch’io abito lì.” “Davvero? Non ti ho mai visto in paese. “ “Sono qua da un paio di mesi.” “Dove abiti?” “Fuori paese, ho aperto un punto di sosta per camper.” “Per camper? Hai ragione, non è una cosa usuale. Ma… aspetta un attimo…, si, ho sentito parlare di te. E come ti è venuta in mente una cosa del genere?” “E’ una storia un po’ lunga…Ma da chi lo hai sentito?” La cameriera ci interruppe, chiedendo l’ordinazione: “Cosa prendi?” ti chiesi. “Una spremuta d’arancia, grazie.” “E per me un caffè.” La ragazza ritornò al banco e tu continuasti da dove eravamo stati interrotti: “Conosci sicuramente Francesca, la ragazza che gestisce un’agenzia di viaggi a Cedara.” “Certo, collaboriamo insieme. Le mando i miei clienti per le escursioni nei dintorni. Ma cosa ti fa pensare che la conosca?” “E’ mia amica, proprio quella a cui dovevo regalare il libro di sabato scorso. Mi ha parlato di te. Sai, qui da noi fa notizia l’arrivo di uno straniero.” “Però, è proprio piccolo il mondo. Ma dimmi invece cosa ci fai di bello tu, a Cedara.” “Di bello non so, ma lavoro, ho un negozio.”
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“Cosa vendi?” “Casalinghi, abbigliamento, giocattoli e altre cose.” “Altre cose ancora?” “Si, è anche cartoleria ed edicola. Ah, dimenticavo, puoi trovare anche qualche articolo per il bricolage.” “Ma cos’è, un centro commerciale?” “Esagerato. Ma se ci vieni lo vedi con i tuoi occhi.” “Con piacere! Dove sei in paese?” “E’ facile, sono in una delle vie che partono dalla piazza principale, devi prendere quella che va verso la chiesa.” “Ok, ci vengo…” Arrivò la cameriera a servirci poi, appena se ne tornò al banco, ripresi: “Scusa ma, ora che ci penso, se hai un negozio, che diavolo ci fai qui di sabato mattina? E anche sabato scorso…” “Se posso, chiedo a Francesca di sostituirmi per qualche ora.” “E chi ci sta in agenzia?” “Di sabato suo marito è a casa dal lavoro e ci sta lui.” “Ma, come fa lei a sapere i prezzi, dove è la merce… voglio dire, bisogna essere un po’ esperti, o no?” “Lei non è esperta, ma fa conto che la gente che entra, bene o male si arrangia; gira, guarda e prende, ormai è abituata. Poi, quasi tutta la merce ha il prezzo attaccato, e comunque è meno difficile di quel che sembri.” Annuii, ma in quel momento notai qualcosa sul tuo dito, una fede e, stupito, ti chiesi: “… Sei sposata?” “Si, da vent’anni, con Enrico.” lo dicesti con un’aria di fatalità, più che di entusiasmo. “Ah, non sapevo…” e io non riuscii a dissimulare una certa delusione, che a non ti sfuggì e ti spinse ad attenuarla: “Ma a volte non mi ricordo neanche di esserlo. Lui è spesso fuori per lavoro.” “Capisco…” risposi, rimanendo comunque un po’ imbarazzato, tu però dirottasti sapientemente il dialogo: “Bene, hai comprato qualche libro anche tu?” “No, per la verità non ero particolarmente concentrato, pensavo ad altre cose.” “A cosa?” “Non so…” risposi con una bugia imbarazzata e a un’altra tua insistenza non avrei saputo che dire.
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“Bene. Allora diciamo che sei venuto qui a Ragusa per offrirmi una spremuta d’arancia.” “Era il mio scopo principale.” Salvo! pensai. “Bene, ora devo andare. E’ stato un piacere! Ci vediamo a Cedara, se ti serve qualcosa da me.” “Non dubitare, capiterò presto. Ciao e buona domenica, Stella.” L’idea della convenzione con l’agenzia turistica mi era venuta passandoci davanti qualche tempo prima, in una delle mie puntate in paese. L’avevo notata per l’insegna arancione, dove compariva una minuscola isoletta, di quelle disseminate negli atolli corallini, con l’immancabile palma ricurva a sfiorare l’acqua, due sdraio vuoti al sole e il nome: Quando il mondo non basta… Finalmente qualcosa di originale per un’agenzia di viaggi, diverso dai soliti Dream viaggi, o Sole, viaggi e vacanze, o altre banalità del genere. Un giorno entrai. Ricordo la prima impressione che ebbi di Francesca; non era bella anzi, per la verità era proprio bruttina, magra e bassa di statura. Notai però che compensava l’aspetto fisico con un deciso buon gusto nel vestire, ma soprattutto con la sua simpatia e, cosa ancor più importante, era sempre allegra. Stava parlando con una signora. Mentre aspettavo, notai anche una sua particolare predisposizione nel captare i desideri del cliente, che le permetteva di proporre la vacanza più indicata anche a chi partiva solo con il desiderio di partire, ma senza sapere né dove né come. Dopo dieci minuti la signora, soddisfatta, se ne andò e io mi presentai stringendole la mano. Francesca trovò molto interessante la mia proposta e, nel giro di qualche giorno, avevamo già messo a punto il nostro progetto di collaborazione: itinerari, mete, trasporti e prezzi. Lei mi avrebbe retrocesso una percentuale sugli incassi. Realizzammo anche un depliant illustrativo. Ci vedevamo abbastanza spesso e diventammo amici. Arrivai a casa, mentre Turi aveva finito di sistemare un pezzo di staccionata: “Ciao Alè, facisti tuttu?” “Si, Turi, e anche tu, vedo. Bene, c’è stato movimento stamattina?” “Due camper niesciti e tre trasìti; un francese, un toscanu e un germanicu.” “Tedesco, Turi, si dice tedesco.” “Embé? I tedeschi dove stanno?”
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“In Germania, ho capito, hai ragione, va bene lo stesso. Ti va di pranzare con me?” “Volentieri, Alè. Nunzia mi aspetta a casa, ma se mi fai telefonare, la avviso.” “Certo, chiama pure.” Anche in questo stavo cambiando. In altri tempi avrei voluto pranzare sicuramente da solo. Ero un solitario, ne traevo pace, rilassamento, libertà di fare ciò che volevo. Da un po’ però gradivo la compagnia di qualcuno, cominciava a piacermi conversare, scambiare opinioni. Forse era anche l’effetto di tre mesi di solitudine. Turi, poi, era un brav’uomo e mi piaceva in particolare quel suo modo di raccontare le cose, in quel misto di italiano, condito con una buona dose di dialetto siciliano, che a volte non capivo, ma sempre mi divertiva e mi rendeva di buon umore. Confidando che sarebbe rimasto per pranzo, avevo in precedenza preparato delle verdure ai ferri, che avrebbero fatto il contorno a un invitante arrosto di carne, preso quel mattino in gastronomia, ma a lui questo non lo dissi, mentre il primo sarebbe stato una pasta con pomodorini freschi e basilico, il tutto innaffiato da un ottimo Alcamo. Entrammo in casa e poco dopo stavamo già pranzando. Turi fu soddisfatto e non rimpianse di aver rinunciato alla cucina della moglie, ottima cuoca. “Faccio i complimenti, Alè, buonu assai.” “Grazie, Turi.” “Senti, Alè, come andò uoggi?” “In che senso, scusa?” “Dài Alè, uoggi nun speravi di vedere qualcuno?” “Si., è vero.” “E lu vidisti?” “Si, l’ho vista.” “Fimmina, bene, sugnu felici. Tieni molte doti, tu. Si bravo lavoratore, bravo cuoco, si puru intelligente, ma puru anticchia no.” “Anticchia… che?” “Alè, c’haiu ri fari cuttìa? Un po’ no. Uora capisti? “Ora si. Perché? Che significa un po’ no?” “Eh… pirchì pirchì. Sienti Alè, ti addumannu chistu: quanno avirrò da partiri, quanti cristiani ristiranno cà?” “Cà? Vuoi dire qui, in questa casa?” “Sissignore, Alè…” “Ma che razza di discorso…”
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“Rispondi, Alè.” “Ok, se ti va di scherzare, rimango solo io, è ovvio. Risposta esatta?” “Bravo, Alè, hai detto io solo. Quinni?” ”Quinni cosa?” “Ah, cà si picca intelligente. Avristi ri capiri che manca sempre qualcuno. In una casa ci sta u masculu ma ci deve stare anche na fimmina.” “Uff, ora ho capito dove volevi arrivare. Mannaggia, e non potevi lasciar perdere gli indovinelli? Beh, comunque devo dirti che per me non è un problema. Io sono sempre stato bene da solo.” “Sicuro? Nun te piace a fimmina?” “Ma che dici? Certo che si!” “Ah, volevo ben dì. E allura?” “Allora cosa?” “Allura datte da fa’, Alè. Si nu bello picciuottu e simpatico, c’hai solo da scegliere a fimmina. Ce ne stanno tante bedde cà e…sientimi, piene ri caluri!” “Caro Turi, allora stammi a sentire: vorrei trovarla, certo, una donna, ma non una qualsiasi e trovare quella giusta non è facile. Non è come andare al supermercato e scegliere una mela piuttosto che un’altra. Sono convinto che, se sta scritto che deve succedere, quando sarà me ne accorgerò. Ma non la cercherò in modo ossessivo.” “Ora haiu capito. Ma può essiri che t’attruvi’na. Sugnu ciertu. E… uoggi, sentisti firriari à tiesta?” “Firriari…?” “Girare la testa.” “Ah, girare la testa… Turi, Turi, sei un furbacchione. Può darsi, può darsi.” “Bene. Sugnu cuntientu pittìa.” “Grazie, Turi, sei un buono.” Il vecchio arrossì un po’ e rispose: “Anche tu. U’ masculu bravu fa u’ munnu bravu.” Non aveva mai studiato in vita sua, Turi, si era solo spaccato la schiena nei campi, ma spesso sono gli animi semplici a possedere più saggezza di mille filosofi. “Sei forte, Turi” esclamai alzandomi in piedi “è un vero piacere parlare con te.” “Puru pimmìa. Ora vado, a rumani e grazie per u’ pranzo.” “Figurati…”
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Lavai in cinque minuti i piatti, riordinai, poi mi distesi sul letto e, con gli occhi fissi sul soffitto, pensai: “Bella mattinata.” Arrivò sera e, come quasi tutte le sere, amavo sedermi, dopo cena, sotto al porticato a fumarmi una sigaretta, guardando il cielo stellato. Ma quella sera c’era luna piena, che sovrastava la luminosità delle stelle, prendendosi tutto il palcoscenico. Allora guardai quella luna, non era niente male neanche lei. Pensai a chissà quanti occhi di spettatori innamorati aveva addosso. La malinconia fu fugata da un: “Bonsoir.” Era il francese arrivato quel mattino. Il bello di quel lavoro erano gli incontri che mi permetteva di fare, la possibilità di conoscere nuove persone, sentire nuove storie, acquisire nuove esperienze. Come questa, che tanta parte ebbe in seguito nelle nostre vite. “Bonsoir. Est-ce que tu parle seulement francais?” gli chiesi. “Non, aussi un peut d’italien et d’anglais.” “Italiano allora, dimmi pure.” “Vorremmo visitare qualcosa nei dintorni.” “Certo, tieni questo opuscolo. Troverai anche le tratte e gli orari degli autobus. La zona è abbastanza ben servita, ma c’è anche la possibilità di prenotare delle escursioni con un’agenzia turistica. Non costano molto e sono comode. Il pulmino passa qui direttamente.” “Interessante.” “Nel depliant ci sono anche i prezzi. E’ ovvio che costa un po’ più caro dell’autobus, ma se si fanno i conti, neanche più di tanto, ed è molto più comodo. Tra l’altro ti dirò che qui, sai, gli autobus tante volte adottano l’orario …flessibile, spesso anche molto flessibile.” “Ho capito. Se si flette troppo, si può spezzare e allora la corsa salta. E’ così?” “E’ così.” Ci venne da ridere. Poi lui continuò: “Molto bene. Domani abbiamo intenzione di stare tutto il giorno al mare. Così valuteremo e poi decideremo. Le prenotazioni vanno fatte in paese?” “No, basta che lo diciate a me.” Si chiamava Henry. “Grazie” mi disse e, dopo una piccola pausa, aggiunse: “Si sta bene qui. E’ un posto tranquillo.”
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“Si, lo trovo anch’io. E’ un posto che rilassa. Sai cosa mi piace di più? Sedermi fuori a quest’ora e sentire il rumore del mare.” “Del mare?” chiese Henry. “Certo, non lo senti? Prova a rimanere un attimo in silenzio ad ascoltare.” Lo fece e dopo mezzo minuto esclamò: “Mais oui, hai ragione, non lo avevo notato.” Mi venne voglia di parlare. Mi distesi sulla sedia, allungai le gambe e continuai: “Non lo sentivi perché sei appena arrivato e sei ancora contaminato dal rumore del mondo. Ma basta fermarsi, rimanere in silenzio e ascoltare: il rumore fastidioso di quel mondo svanirà, lasciando il posto ad altri suoni, quelli di un altro mondo, quello che è stato creato per noi, mentre la nostra presunzione ci ha portato a sostituirlo con uno costruito da noi.” Sul volto di Henry si disegnò una espressione di piacevole sorpresa e annuì con il capo, senza aggiungere parole. “Da che parte della Francia provieni?” gli chiesi dopo un attimo. “Dalla Bretagna, per l’esattezza da un piccolo villaggio di pescatori, Le Conquet. Si trova quasi di fronte all’Ile d’Ouessant. La conosci?” “Mi sembra che sia più o meno sulla punta estrema della penisola. Dev’essere uno dei punti più a nord.” “Proprio così.” confermò Henry, “Io abito un po’ fuori, in prossimità di Pointe St. Mathieu. C’è anche un bel faro lì vicino.” “Allora conosci bene il mare.” replicai. “Si, possiedo anche una barca a vela, un sette metri. La cabina è abbastanza ampia e ci si può dormire in quattro. E’ vecchia, ma in ottima forma, te lo garantisco.” Ci vedevamo per la prima volta, ma era come se ci conoscessimo da tanto tempo. Forse perché eravamo entrambi camperisti, o forse per l’amore condiviso per il mare. Continuai a ruota libera: “Allora so che mi capisci quando parlo del rumore del mare. Chi ha negli orecchi altri ronzii o non lo sente, o gli sembra sempre lo stesso, ma se uno lo ascolta davvero, come hai fatto tu un attimo fa, sentirà che gli parla. Ci vuole allenamento in questo ma, se ci provi, vedrai che è proprio così. L’onda che finisce la sua corsa sulla rena della spiaggia è subito seguita da un’altra, e così ancora e ancora, all’infinito. Sai cosa mi è venuto in mente un giorno guardando le onde? Che sono come il moto perpetuo della vita; uno nasce, vive, muore, ma dopo di lui ce ne sarà un altro che nascerà, vivrà, morrà e, quindi, la sua morte non è la fine di niente, perché chi muore è stato e, credo, sarà per sempre, ancora parte di
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questo universo e la sua esistenza avrà contribuito a fornire una briciola di energia alla corsa di questo carrozzone infinito. Ma, scusami, ti sto tediando…” “No, anzi, trovo bello quello che dici. Ho visto che anche tu sei un camperista. Quello è tuo, vero? E mi indicò il camper parcheggiato vicino alla mia casetta.” “Si, è mio.” “Allora so che mi capisci se ti dico che, chi fa come noi, cioè lo …zingaro, come tanta gente ci considera, è considerato un diverso. Ma è proprio così; alla fine uno diventa “diverso” nel senso che, riesce a scrollarsi di dosso schemi e legacci e può liberare la mente nella scoperta di ciò che ci è da sempre accanto, come la natura, i rumori, gli odori, i colori, i sapori. Tutte cose che di solito non riusciamo a vedere o sentire, perché siamo sempre assillati dal lavoro, dall’auto, dal traffico, dal mondo che ci siamo costruiti tutti noi, come dici tu. E’ difficile liberarsene e non molti ci riescono. Ma con un pizzico di sensibilità e impegno... si può e quando la gente mi considera diverso significa che ci sono riuscito.” “Fantastico! Spesso mi trattengo dal dire queste cose, perché penso che la gente mi guarderebbe un po’ storto, ma stasera ho trovato un altro…matto come me.” “Pas de tout, mon ami.” rispose divertito Henry. “Aspetta un attimo” esclamai subito dopo “ti va del vino?” “Bien sur.” “Perfetto.” Entrai in casa, per uscirne un attimo dopo, con una bottiglia di Franciacorta ghiacciato e due calici. Bevemmo e gli chiesi: “Com’è?” “Excellent. Bolicine…” “Si dice bollicine…” “Oui, oui, bollicine!” ci facemmo una risata. “Henry, mi parli della tua terra?” “La Bretagna? Oh, è bella, ma sai, per me è facile dirlo, io ci sono nato…” “Dimmi se è davvero come me la immagino: paesini lindi e curati, distese di verde, spiagge enormi e solitarie, alte scogliere a strapiombo sul mare, un mare che…anche il tuo mare parla, vero?” ridemmo ancora. “Mai oui, mon ami, parla eccome, come questo e come qualsiasi altro. Anzi, ora che mi hai tenuto la prima lezione su come si fa, non vedo l’ora di tornare e sentire cosa mi dice il mio.” Un’altra risata, poi gli dissi:
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“Sai una cosa? Io sto bene qui, ma un giorno mi vedo abitare proprio dalle tue parti, in una casetta in pietra, a ridosso del mare. Sono seduto fuori della porta, anche se fa un po’ freddo. Ehi, il vento dalle vostre parti mica scherza! Ma sono ben coperto e posso rimanere a guardare l’orizzonte finché non farà buio. Poi entrerò, accenderò il caminetto e poi… che te ne sembra?” “Penso una cosa: quando ti va, perché non vieni a trovarmi? Possiedo una casetta proprio come la desideri tu. E’ a poche centinaia di metri da dove abito e l’ho ereditata quando è morto mio padre. L’ho restaurata e ci vado ogni tanto, quando mi viene voglia di stare un po’ per conto mio. Per la verità più di qualcuno è venuto a chiedermi se gliela vendo ma, sarà per un fatto affettivo, però non voglio venderla…almeno finora non ho mai voluto. Potrei però cambiare idea…” “Me la venderesti…?” “Ne faresti buon uso, so che l’apprezzeresti come farei io.” “Grazie, me ne ricorderò e, penso proprio che un giorno mi vedrai arrivare.” “Sono contento. Ora vado, perché è già passata mezzanotte. Grazie per la compagnia.” “Grazie per la tua. Buonanotte Henry.” Dopo dieci minuti ero a letto e, con gli occhi fissi sul soffitto, pensai: “Bella serata.” Tre giorni dopo Henry accendeva il motore e stava per partire. “Beh, grazie di tutto, Alessandro…” “Figurati. Grazie a te per le chiacchiere.” “Ricorda ciò che ti ho detto. Ti aspetto a casa mia.” “Non lo dimentico, stanne certo.” Henry estrasse dalla tasca un foglietto e me lo porse: “Ecco, tieni, ti ho scritto il mio numero di telefono e l’indirizzo. Quando vuoi…” “Grazie, il mio numero ce l’hai già. Fate buon viaggio.” “Au revoir, mon ami.” Il camper si mosse e in breve sparì oltre la curva.
Dopo un’ora ero in paese. Dovevo passare da Salvo, per ritirare una copia del progetto e delle planimetrie, poi dal meccanico, per far control-
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lare un rumorino che avvertivo nel motore del camper, quindi avrei fatto un po’ di spesa. Impiegai meno del previsto a ritirare il progetto e a far controllare il camper, che per fortuna non aveva niente, solo bisogno di lubrificare una cinghia. Mi recai anche a fare la spesa. Nei dintorni c’era un grosso centro commerciale, ma ci andavo raramente e solo per qualche acquisto mirato. I centri commerciali li odiavo, mi facevano venire il mal di testa già parcheggiando l’auto, ancora prima di entrarvi. Così mi servivo nei negozi che c’erano in paese. Mi restava un’altra cosa, che avevo tenuta per ultima: venirti a trovare. Entrai in quel negozio alquanto singolare, somigliava davvero a una specie di bazar e lo trovai esattamente come me l’ero immaginato. Eri sola: “Buongiorno, Stella.” Ti voltasti ed il tuo viso si illuminò di un sorriso felice: “Buongiorno Alessandro, che sorpresa!” “Volevo vedere il tuo negozietto…” “Ah si, bene, solo questo?” “Be’ no, mi serve qualcosa…” “Nient’altro?” Divertito ti risposi ancora: “Era anche per… salutarti…” “Così mi piace. Bene, dimmi cosa ti serve.” “Ah si, intanto il giornale, poi mi servirebbe un cacciavite piccolo a… stella, senza allusioni, ovviamente.” battuta involontaria ma efficace, che fece ridere entrambi. Mentre aspettavo ti dissi: “Ah, il tempo non basta mai, ho sempre un sacco di cose da fare!” “Voi del nord siete tutti così, vivete sempre di corsa ma, per arrivare dove, poi? Dovreste invece imparare da noi. Qui al sud le cose si fanno senza assilli, tanto è lo stesso, si fanno comunque e non ci si rode il fegato.” “Non ho argomenti per controbattere, Stella. Lo so che hai perfettamente ragione ma, cosa vuoi farci, si cresce secondo degli schemi e poi se ne rimane imbrigliati.” “Ce ne si può sempre liberare!” “Chissà che vivere qui non mi aiuti in questo.” “Se ci resti almeno un po’ ne sono sicura.” Dopo due minuti mi chiedesti ancora: “Serve altro?”
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“Si, passando ad altro reparto, anche due paia di calzini blu…” “Corti o lunghi?” fece lei. “Lunghi, dài, non vorrai mica che esca la gamba dai pantaloni…” altra risata. Dopo aver preso ciò che ti avevo chiesto, esclamasti: “Ecco qua.” “Penso che basti…, ah no, anche due candele, se dovesse mancare la luce.” Improvvisamente non mi trattenni dal ridere e tu mi chiedesti: “Perché ridi?” “Scusa, ma qui da te trovo qualsiasi cosa e non ci sono abituato. Non esistono più negozi come il tuo su da me.“ “Allora ho un negozio…diciamo… originale?” “Direi che va bene.” Poco dopo mi porgesti una borsa e dicesti: “Il signore è servito, ma prima… sono 32 euro e 25 cents. Non vorrei che te ne scappassi senza pagare.” “Fai bene a non fidarti, c’è della gente in giro.. e poi, davvero, tu mi conosci appena…” “Si, non ci conosciamo granché…” Istintivamente, stavo per ribattere: Si può sempre rimediare però. Se ti va, quando hai un momento libero, potremmo pranzare o cenare insieme… Ma mi trattenni in tempo e invece ti salutai: “Be’, vado ora…e…ciao.” “Ciao e a presto.” Salii in macchina e notai di sentirmi strano, come da molto tempo non mi sentivo e mugugnavo tra me: “Accidenti, è sposata! Ma che mi stava saltando in mente? Invitare una donna sposata! Devo proprio essere pazzo, da queste parti poi! Qui usano la lupara per molto meno!” Dal primo momento che ti avevo vista mi eri rimasta impressa nella mente. Ma quel giorno, al bar, notai la fede al tuo dito e da allora cercai di frenare i miei pensieri. C’era un blocco in me, che mi impediva di andare oltre. Comunque mi avevi lasciato il segno, essere sensibili spesso è una fregatura. Mi sentivo fregato perché non potevo farti la corte, nonostante tu mi facessi nascere emozioni e pensieri da non poterti dire. La sensibilità e le emozioni sono in noi, ma spesso rimangono dentro, soffocate, se non scatta una scintilla che le accende.
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Ma una volta accese, crescono via via che le acquisisci e le coltivi. Da quel momento diverranno incontenibili. Ecco, tu eri stata la mia scintilla. Allora però mi dissi: “Ok, non deve più succedere.” Già, facile a dirsi…
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CAPITOLO QUARTO
La Panda gialla e rossa varcò il cancello e si fermò di fronte a casa mia. Al rumore del motore guardai fuori e ti vidi scendere. Eri dentro a un paio di jeans molto attillati e avvolta da un giubbino beige, aperto davanti. La camicetta blu, punteggiata da piccoli fiorellini bianchi e gialli, generosamente sbottonata sul seno. Tra i capelli si intravedevano due luccicanti orecchini ad anello. “Ma guarda chi c’è!” esclamai, affacciandomi alla porta. “Buongiorno!” rispondesti con un gran sorriso. ”Guardi che questo è un punto di sosta per camper e non so se per la sua Panda posso fare qualcosa…” “Volevo solo vedere come ti eri sistemato, ma qui, se nessuno mi invita, devo arrangiarmi un po’ da sola, come vedi, ed eccomi qua…” “Scusa, è vero, ma posso sempre rimediare e farti da guida personale…” “Dài, fammi vedere!” esclamasti. “Ok, allora cominciamo da qui. Entra, questo è il mio ufficio, che è anche cucina, nonché soggiorno e poi c’è la camera, il bagno e abbiamo già finito.” “Be’, sei da solo e penso ti basti.” “Si, certo.” La visita si esaurì in un minuto. “Ti va un caffè?” ti chiesi. “Sicuro!” “Mentre preparavo la caffettiera mi chiedesti: “Come si sta da soli?” “A volte bene e altre meno bene. Del resto in tutte le cose c’è sia il lato positivo che quello negativo.” “Lo sei sempre stato?” “Diciamo di si. Appena trovato lavoro…” mi fermai un momento, poi proseguii: “accidenti, quanto tempo fa! Sono passati ventiquattro anni. Comunque trovai lavoro e poco dopo lasciai la casa dei miei per andarmene a vivere per conto mio. Mi faccio compagnia da un po’, che dici?” Tu annuisti e timidamente mi chiedesti: “Non… sei stato sposato?” “Sposato? No no… che idea. No, mai stato sposato, bisogna essere in due…”
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“Bravo, quando lo hai scoperto?” “Intendevo dire con una donna…” “Sei acuto. Anche il sesso…” “Ho la vaga impressione che qualcuno mi stia prendendo in giro…” ridemmo entrambi. “… volevo dire una donna con cui si sta bene insieme, così bene da non poterne fare a meno. Ma non è ancora arrivata. Uff! le donne, sempre in ritardo! Sai una cosa? Prima di venire qui ho vissuto per sette mesi con una ragazza, ma non è andata nemmeno quella volta.” “Devi essere un tipo difficile.” Scossi la testa, poi ti risposi: “Credo di si.“ “Servii il caffè e lo bevemmo, restando in silenzio. Poi ti chiesi: “Allora ti piace il mio castello?” “Fammi vedere anche fuori.” “C’è poco da vedere, comunque… vieni.” Vedendo i camper parcheggiati mi dicesti: “Dev’essere proprio bello andare in giro dentro a questi cosi… qual’è il tuo?” “Quello.” te lo indicai. “Mi piacerebbe farci un giro.” appena ti uscirono queste parole ti irrigidisti e perdesti il sorriso. “Che c’è?” ti chiesi. Tu, per un attimo rimanesti in silenzio, poi ti scuotesti: “Devo andare ora, scusami…” e te ne tornasti veloce verso l’auto. Ero discretamente sbigottito: “Ma…cosa ti succede? Ho fatto qualcosa che non va? Stai male, per caso?” “No, no, non preoccuparti, tu non c’entri. Ciao e scusa. Ci vediamo.” Ti guardai allontanarti e non mi spiegavo. “Chissà cosa le ha preso… forse un malessere… bò…le passerà.” Tornai in ufficio, pensoso, ma non feci in tempo a sedermi che squillò il mio telefono: “Pronto…” dissi. “Sono io…” “Stella…?” “Si, ho preso il tuo numero dal depliant che mi hai dato prima, mentre mi mostravi la casa.
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Dovevo dirti una cosa, ma non ci sono riuscita. Conoscendomi però, lo avevo previsto e…guarda sul letto in camera tua, ho lasciato una cosa per te. Ciao e scusa ancora.” “Aspetta un secondo…Stella…” Avevi riattaccato. Mi era rimasto il tuo numero sul telefono e lo usai, ma tu avevi spento. “Che mistero…” pensai, poi mi ricordai di ciò che mi avevi detto, mi alzai di scatto, corsi in camera e… sul letto c’era un biglietto. Lo presi, era piegato in due, lo aprii, era un foglio a quadretti, con i fori laterali strappati, chiaro che era stato tolto da un notes tascabile. Lessi d’un fiato quella decina di righe, scritte con calligrafia ordinata e tipicamente femminile: Caro Alessandro, sapevo che l’emozione mi avrebbe impedito di dirti a voce ciò che volevo, così avevo preparato prima questo biglietto. Devo chiederti una cosa: ho bisogno di incontrarti almeno per cinque minuti da solo. Se sei d’accordo, ti aspetto domani sera dopo cena, alle 9.30, dietro al municipio. Io sarò a una riunione e a quell’ora uscirò, ma avrò solo cinque minuti, comunque basteranno. Ciao Stella Che diavolo volevi? Volevo proprio saperlo e ci sarei venuto. Il giorno dopo Turi era previsto rimanesse a casa e decisi che non era il caso di chiamarlo. Sarei stato assente solo un’oretta e, se qualcuno mi avesse cercato, avrei lasciato un biglietto sulla porta, indicando l’ora presunta del mio ritorno. Arrivai puntuale e girai a piedi attorno allo stabile. Giunsi sul retro e attesi. Alle 21.30 non si vedeva ancora nessuno e cinque minuti dopo stavo meditando di andarmene. Forse ci avevi ripensato… no, non ci avevi ripensato, ti vidi sbucare dall’angolo, camminavi veloce. Ti venni incontro: “Ciao, allora mi vuoi spiegare?” Tu non dicesti niente e rimanesti immobile, tenendo lo sguardo basso con un sorriso appena abbozzato sulle labbra. ”Senti, Stella, è meglio che ti sbrighi. Può sempre passare qualcuno e…” Mi interrompesti ed esclamasti con un filo di voce:
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“Mi stringi, per favore? Ti prego, stringimi! Ma ti prego, non giudicarmi male. Devo rientrare alla riunione. Ti spiegherò…” Ti guardai sorpreso, ma non ti chiesi più nulla e avvolsi le mie braccia attorno a te, congiungendole dietro alla tua schiena. Ti abbracciai, stringendoti forte, come mi avevi chiesto. Tu appoggiasti le mani con timore ai miei fianchi. Io avvertivo un leggero tremore nel tuo corpo e ti sentii fragile e impaurita. Ti strinsi allora ancor di più, ma solo per poco, temendo di toglierti il fiato. Non volevo farti male. “Dio, è incredibile il bisogno di affetto che hai!” esclamai. Rimanemmo così per lunghi attimi, forse un minuto. Poi, lentamente, cominciasti a staccarti, mi guardasti, facendo un leggero sorriso e mi sussurrasti un Grazie. Quindi ti voltasti per andartene e aggiungesti: “Ti chiamerò io. Ciao...” A me uscì un altro Ciao un po’ impacciato. Sparisti dietro l’angolo. Per qualche minuto rimasi in piedi, immobile, incapace di pensare qualsiasi cosa. Poi sospirai profondamente e, come un automa, mi diressi all’entrata della sala dove si svolgeva il convegno. Entrai e vidi che era stracolma di gente. Rimasi in piedi sul fondo, vicino alla porta, con altre persone che non avevano trovato posto a sedere. Non era facile, ma ti cercai nella platea e quasi subito ti vidi: eri in quarta fila, spostata sulla destra, di spalle, ma in quel momento, quasi avessi avvertito la mia presenza, ti voltasti, guardando in fondo alla sala e i nostri sguardi si incontrarono. Avevi i lineamenti distesi, ne percepii tranquillità. Uscii quindi all’aperto, ora potevo tornarmene a casa. La mia fu una notte insonne. Spegnevo e riaccendevo continuamente la luce, leggevo e rileggevo quel biglietto, anche se la mia mente lo recitava a memoria. Sentivo qualcosa di nuovo dentro di me. Ora non mi mentivo più e… accidenti! Sapevo che doveva essere solo affetto, ma ero convinto che non sarei mai riuscito a contenerlo nei limiti di un affetto fraterno. Dopo molto tempo mi addormentai. Arrivò mattino, uscii fuori e feci un sospiro profondo; sentivo qualcuno, poco lontano, molto vicino. La notte quasi insonne la recuperai al mattino e mi svegliai tardi. “Accidenti! Oggi dev’essere un giorno più breve degli altri, è già mezzogiorno!” Non avevo programmi, di ospiti nel parcheggio ce n’erano solo tre, ma sapevo che si sarebbero fermati fino all’indomani. Così mi gustai un caffè e, vista la splendida giornata di sole, mi recai alla spiaggia.
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C’era un po’ di gente a fare jogging o semplicemente a godersi il sole. Li imitai, distesi l’asciugamano a terra e mi sedetti rivolto verso il mare. Sentivo il tepore del sole penetrarmi nelle ossa, anche la brezza proveniente dal mare era calda. Mi distesi chiudendo gli occhi e non pensai a niente, raggiungendo in breve un livello di rilassamento che stava per farmi addormentare, quando due mani si posarono sui miei occhi e una voce inconfondibile mi disse: “Cu cu…indovina chi sono?” Io sorrisi, feci un sospiro e risposi: “Non saprei, non conosco molta gente qui.” “Avanti, fa uno sforzo o tira a indovinare, magari hai fortuna.” “Va bene, vediamo un po’… intanto, mi sembra che tu sia una donna, così elimino metà delle possibilità..” “Ah, meno male! Ti ringrazio per questa tua sicurezza e complimenti, sei un fenomeno! Da cosa l’avrai mai capito? E poi?” “Poi azzardo il colore dei capelli: devono essere … sono neri, giusto?” “Sei formidabile! Ma… come fai?” “E’ un segreto. Bene, e ora tento il tutto per tutto… ho gli occhi chiusi, ma sento che il tuo nome evoca chiarore e luce nel buio della notte… Ciao Stella.” Ti presi le mani, le staccai dai miei occhi e ti vidi. Portavi dei grandi occhiali neri. Mi alzai e te li tolsi dicendoti: “Fammi vedere gli occhi… ah ecco, bene… perché nascondere due cose così belle?” Quando abbassavi lo sguardo in quel modo sapevo che ti emozionavi. “Ehi, mi sembra che abbiamo avuto la stessa idea, a quanto pare.” “Già…” dicesti. “Tuo marito è rimasto a casa?” “No, è partito stamattina alle 10. Doveva andare a Palermo, dove stasera ha una cena di lavoro e così, non sapevo cosa fare…” “E hai pensato di venire al mare…” “Come vedi…” “Ma, per caso, vieni sempre in questa spiaggia? Ce ne sono di più vicine a casa tua.” “No, infatti di solito vado altrove…” “E invece oggi hai cambiato idea.” “Sei un osservatore…” rispondesti ridendo. Poi ti facesti seria e, rimettendoti gli occhiali, continuasti: “Sai, vorrei chiederti scusa…” “Scusa di cosa?” ti chiesi.
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“Ecco, io…non so cosa puoi pensare di me dopo che, insomma…mi rendo conto di essermi comportata in modo alquanto strano ultimamente con te.” Rimasi zitto, continuando a fissarti. “Il fatto è che non so cosa mi abbia preso e ti chiedo scusa di averti chiesto quella cosa.” Ti vidi imbarazzata e stavolta ti venni in soccorso: “Non scusarti, non devi, a me non devi niente. Se hai agito così, evidentemente ne sentivi il bisogno. Senti Stella, di certo non sono fatti miei ma, visto che siamo qui, io e te, visto che possiamo parlare liberamente e visto che mercoledì mi hai chiesto di abbracciarti, ti dirò perché penso sia accaduto. Ci ho riflettuto, sai, e, quello che ho capito è che tu spesso sei sola, nel senso che tuo marito è fuori frequentemente per lavoro, e probabilmente ne senti la mancanza. Ma c’è di più; anche se ti conosco da poco, penso di non sbagliare se dico che sei una persona molto sensibile e senti la necessità di avere delle manifestazioni tangibili di affetto. Non conosco tuo marito, ma forse non è tipo da elargirne a iosa. Dimmi se sbaglio…” Tenevi gli occhi bassi e non rispondevi, così continuai: “Non sbaglio, vero? E quindi, se questo stato di cose dura da tempo, una come te arriva al punto in cui ha un calo di coccole…” Mi fermai, pensando che forse ero stato un po’ troppo presuntuoso nel pretendere di conoscere le tue emozioni, i tuoi stati d’animo, e aggiunsi: “Scusami, forse sto dicendo delle stronzate…” Inaspettatamente ti mettesti a ridere, scuotendoti da quell’aria così incupita, e dicesti: “No, non dici stronzate, sembri il mio psicologo, hai letto nella mia mente. Ma come hai fatto? Non sarai mica psicologo, vero?” “No, non ci sono neanche mai andato da uno di quelli.” “Comunque penso sia proprio così. Scusami ancora.” “Smettila di scusarti. Se ti sono stato di aiuto ne sono lieto. Tanto, sappiamo entrambi che si è trattato solo di un abbraccio, come dire, tra due amici? Penso che un po’ lo siamo, no?” Sorridesti dicendomi: “Lo siamo.” Ti guardai con tenerezza e ti presi la mano, stringendola forte tra le mie. Passò qualche secondo, poi mi chiedesti: “Ti piace il mare? A me tantissimo. E’ così grande che sembra non abbia mai fine. Mi rilassa sentire il rumore delle onde che giungono a riva, farmi raggiungere da qualche spruzzo d’acqua, assaporarne l’odore
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intenso di sale. Ma so anche che stiamo facendo una pazzia. E se qualcuno ci vedesse?” “Morirebbe d’invidia!” “Non scherzare, è una cosa seria. Si fa presto a tirare conclusioni affrettate.” “Stai tranquilla, dopotutto non stiamo facendo nulla di male. Siamo solo sulla spiaggia, a parlare. Anzi, facciamo una cosa: ti va di fare una passeggiata? “ “Si.” rispondesti senza esitazioni. Ci togliemmo le ciabatte e iniziammo a camminare con calma lungo la battigia. Ogni tanto ci scambiavamo qualche parola, ogni tanto ci guardavamo e immancabilmente ci sorridevamo. Sapevamo che quelli erano attimi rubati e sapevamo che poco prima avevamo detto di essere amici, ma c’era qualcosa in noi che cresceva, si stava trasformando e ormai non ci illudevamo più di mentire a noi stessi. Si, erano attimi rubati e ce li stavamo godendo tutti, fino in fondo, come quando si ammira la scia luminosa di una stella cadente, sapendo che durerà lo spazio di pochi secondi, o si guarda all’orizzonte il cerchio rosso del sole al tramonto mentre si tuffa nel mare, consapevoli che tra qualche istante sparirà e lo si dovrà aspettare un altro intero giorno. “Mi piace sdraiarmi sulla sabbia e rimanere lì e rilassarmi. Mi metto distesa, chiudo gli occhi, faccio dei respiri profondi e penso a…niente. In quei momenti mi estranio dal mondo che mi circonda e la mia mente è finalmente libera di andare, volare, avvicinarsi ai sogni che la abitano e sentirli quasi veri. Non potrei farne senza. Per me il mare ha un’importanza fondamentale. Lo amo, mi piace, mi infonde serenità. E a te piace il mare?” “Si e qui in Sicilia ho imparato a provare emozioni che prima non conoscevo.” Le mie ultime parole lasciarono spazio a un lungo silenzio tra noi. Stavamo assimilando, dentro, ogni attimo, ogni parola. Finché: “Dobbiamo tornare.” esclamasti. Lo sapevo anch’io. “Ora è meglio che io torni da sola. Tu aspetta dieci minuti prima di partire. Ci vediamo. Ciao e… grazie.” Ti alzasti e lentamente ti incamminasti con i piedi nell’acqua. Io ti seguii con lo sguardo, finché potei. Ti voltasti una volta. Dopo un po’ mi alzai anch’io, feci un respiro profondo, ritornai sui miei passi e avvertii una strana sensazione di calore da qualche parte, dentro di me. Probabilmente era l’effetto del caldo sole di Sicilia. O forse era qualcos’altro.
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Verso sera, dei tre camper che c’erano, non ne rimase uno; se n’erano andati tutti ed era la prima volta che succedeva da quando avevo iniziato a lavorare. Verso mezzogiorno una telefonata di Francesca: “Ciao Alessandro, ti chiamo perché stasera, al teatro di Cedara danno Herzog, una commedia. Noi, con Stella ed Enrico abbiamo un palco in abbonamento per tutta la stagione e avevamo pensato che, se ti fa piacere, puoi unirti a noi.” “Con vero piacere, Francesca.” “Ottimo, è alle 21, se ti va bene possiamo trovarci all’entrata qualche minuto prima.” “D’accordo, sarò puntuale. A stasera e grazie per l’invito.” “Benissimo, a stasera e non fare il biglietto, sei nostro ospite.” Mancava un quarto d’ora alle 9, quando giunsi davanti al teatro, e attesi nel via vai di gente che entrava. Era un edificio in stile Liberty e si poteva considerare un piccolo gioiello. Piccolo lo era davvero, poteva contenere meno di duecento persone. Lo avevo visto la prima volta un giorno che, passando per la piazza centrale della cittadina, avevo notato i portoni aperti ed ero entrato, chiedendo a una signorina, intenta a ordinare una bacheca, se potevo visitarlo. Lei fu molto gentile e mi condusse all’interno, non limitandosi solo a questo. Mi narrò anche, con una vena di orgoglio campanilistico, la storia, le vicende e gli artisti famosi che ne avevano calcato le scene. Quando accese l’illuminazione notai la ricchezza dell’arredo interno, impreziosito da fregi e decori dorati in stile barocco. La volta affrescata presentava una danza di amorini. La signorina mi fece notare una particolarità, che peraltro avevo già colto; i palchi erano uno uguale all’altro, senza alcuna distinzione. Quello centrale, destinato alle autorità, non era né più grande, né più bello di tutti gli altri, una sorta di uguaglianza sociale, dove tutti erano sullo stesso piano, senza privilegi, a godere di un bene comune. Se la platea era piccola, le dimensioni del palco erano invece fuori del comune. La ragazza mi spiegò che potevano essere cambiate fino a quattro scene in una rappresentazione. Questa caratteristica lo aveva spesso fatto preferire a teatri più blasonati da molti artisti, per opere impegnative dal punto di vista scenico. L’acustica inoltre era eccezionale e permetteva agli attori di recitare senza sgolarsi, facendosi chiaramente sentire fin nei posti più lontani. Quel teatro mi piacque proprio, e da allora ave-
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vo sempre covato il desiderio di poterci tornare qualche volta da spettatore. Un desiderio finalmente esaudito grazie alle mie amiche. Arrivaste in quel momento. Notai però che eravate in tre; Francesca con Edoardo, suo marito e tu senza il tuo. “Eccoci qua, è da tanto che aspetti?” mi chiese Francesca. “Ciao a tutti. No, saranno cinque minuti.” risposi. “Bene, vogliamo andare?” disse Francesca. “E tuo marito?” ti chiesi. “Oggi ha ricevuto una telefonata da un cliente di Marsala per un’urgenza, e ha deciso di partire subito. Tornerà domani.” “Mi dispiace…” “Non fa niente, ci sono abituata.” Salimmo le scale e prendemmo posto sul palco. Era abbastanza centrale. Ci sedemmo vicini e non mi dispiaceva per niente l’assenza di tuo marito. “Vedi bene?” mi chiedesti. “Perfettamente. Conosci la commedia?” “No…” “Ti racconto la trama, se vuoi. Ho letto il libro qualche anno fa. “Ok, comincia!” “Bene, Herzog è un intellettuale con molte nevrosi, che si scontra con il mondo, senza però usare violenza, ma con un intenso confronto tra sé e gli altri. Scrive, senza mai spedirle, molte lettere ad amici, parenti e anche a famosi personaggi ormai defunti, come Hegel, Freud e Nietzsche, tuffandosi in profonde riflessioni. Il suo è un tormento interiore, un cammino di sofferenza e di ricerca della verità, tra i suoi dilemmi esistenziali sul significato della vita. Ma, alla fine, riscopre un proprio ruolo nel mondo, grazie agli affetti più vicini, e riesce ad abbandonare la drammatica tensione che aveva caratterizzato la sua vita. E’ uno di noi che si dibatte tra bene e male, tra la voglia di mollare e la volontà di continuare. Devo dirti che in quel personaggio, per certi aspetti, mi ci riconosco e spero di non essere proprio schizzato come lui, o forse, magari lo sono anche di più… “ dissi ridendo. “Ma, potrebbe anche essere, te lo dirò quando ti conoscerò un po’ meglio.” dicesti tu scherzando. Poi mi chiedesti: “Herzog ha… una donna?” “Guarda lo spettacolo, altrimenti… che gusto c’è?”
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Il teatro era gremito, si spensero le luci, si alzò il sipario e lo spettacolo cominciò. Lo seguimmo con attenzione e non ci parlammo molto, non perché non avessimo niente da dirci, ma perché in quel posto era meglio così. Finì il primo atto tra scrosci di applausi e Francesca chiese: “Ho voglia di un caffè. Venite al bar?” “Si, buona idea.” rispose Edoardo. “No, grazie…” rispondemmo invece contemporaneamente io e te, interrompendoci subito e guardandoci divertiti, sorpresi da questa simultaneità. Poi ripresi: “Andate pure, vi aspettiamo qui.” Rimanemmo a parlare. A un certo punto io, mentendo, ti dissi: “Peccato che non ci sia Enrico con te.” “Peccato?” rispondesti tu in modo sibillino “Non fa niente, lui non ama queste cose e non gli è parso vero, secondo me, trovare la scusa per non venirci. Comunque non è un mio problema, contento lui…Ma, ti dispiace proprio così tanto?” dicesti sorniona. “Beh… si... no... io dicevo così…” ero imbarazzato, mentre tu mi fissavi, divertita per il mio impaccio. Presi allora a guardarti dalla testa ai piedi. Guardai il tuo abito da sera nero, lungo, che ti smagriva ancor più di quanto non lo fossi. Il decolté era un sipario alzato sullo splendore del tuo seno in fiore, ostentato in modo molto generoso. Al collo non portavi nessun gioiello; non si sarebbe notato tra quei due gioielli. “Sei incantevole!” esclamai. “Grazie.” lo gradisti molto. “Hai veramente fatto colpo, questa sera. Sei la più bella e tutti non fanno altro che guardare te.” “Non mi interessa che mi guardino tutti.” Pronunciasti queste parole abbassando contemporaneamente la testa, senza distogliere però lo sguardo da me, ma la rialzasti subito, appena ti dissi: “Ti ho guardato anch’io e continuo a farlo.” Ti illuminasti: “Questo si mi interessa. Sono contenta di piacerti.” “Ho detto che continuo a guardarti, ma non ho detto che mi piaci…” “Che brutto antipatico!” “Dai, non vedi che scherzo? Certo che mi piaci.” “Davvero?” mi chiedesti languidamente. “Come puoi dubitarne?”
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Quindi, badando a farlo con discrezione perché non si notasse, ti accarezzai la mano, dicendoti: “Mi piaci da morire. Sei una donna di una bellezza che lascia senza fiato.” Fummo interrotti da Francesca ed Edoardo, che nel frattempo erano tornati, come gli altri spettatori. Cominciò il secondo atto. A dieci minuti dalla fine la mia attenzione fu distratta con sorpresa dalla tua mano che, prudentemente per non farti notare, portasti sulla mia, mettendomi nel palmo qualcosa. Era un biglietto piegato più volte, per renderlo il più piccolo possibile. Ti guardai perplesso e tu, con un sorriso, ti mettesti il dito sulla bocca, sussurrandomi: “Sssshhh…”, mentre con l’altra mano chiudesti la mia a stringere e nascondere quell’oggetto e infine ti girasti tranquillamente verso la scena. “Un altro biglietto!” borbottai tra me. “Va a finire che ne faccio una collezione, ma… perché mai, quando mi deve dire una cosa, anziché parlarmi, lei me la deve scrivere?” Lentamente lo misi in una tasca della giacca, e attesi impaziente il momento in cui avrei potuto leggere. La cosa mi aveva ovviamente distratto e in quel momento finì lo spettacolo, così me ne accorsi per il primo di una lunga serie di applausi che il pubblicò iniziò a tributare agli artisti. Anche noi, assieme a tutti gli altri spettatori, applaudimmo più volte, richiamando ripetutamente sul palco la compagnia, con lunghi battimani e cori di bravi. Dopo un po’, lentamente, la folla iniziò a scemare verso l’uscita e anche noi guadagnammo l’esterno. Sulla scalinata del teatro Francesca chiese: “Volete passare da noi a bere qualcosa?” Noi due declinammo l’invito, adducendo un po’ di stanchezza. Io un motivo ben preciso ce l’avevo… in tasca. Ci salutammo e ci avviammo alle auto, ognuno era venuto con la sua, anche tu, che avevi chiuso tardi il negozio. Dopo qualche minuto salii in macchina ma non accesi il motore. Estrassi quel foglietto, lo aprii, riconoscendo una scrittura ormai inconfondibile, e lessi febbrilmente: Caro Alessandro, sei qui in Sicilia da un po’ di tempo ormai, ma in questi ultimi giorni sei diventato per me una persona molto importante e cara.
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Volevo dirti un grande grazie per la tenerezza e la dolcezza che mi stai donando. Mi sento protetta. Da quando ci frequentiamo più da vicino qualcosa sta cambiando in me e ho paura, molta paura che queste emozioni si stiano trasformando in un sentimento più importante verso di te. Io penso di non aver più bisogno di contatto fisico, ma ora desidero il tuo contatto fisico. Sai che è del tutto diverso. Comunque voglio dirti di essere contenta di averti incontrato. Sei una persona speciale e d’ora in poi lo sarai sempre per me. Queste cose te le scrivo perché sarei troppo emozionata per dirtele. Ti abbraccio Stella. Finito di leggere alzai la testa a guardare davanti a me senza mettere a fuoco nulla. Non ci voleva un acume particolare per capire che quella era una dichiarazione d’amore vera e propria. Temevo che la felicità che provavo dentro in quel momento potesse giocarmi qualche brutto scherzo; non molto lontano c’era una bella donna che mi amava. Proprio io, non qualcun altro! Non potevo ancora crederci, ma il biglietto era lì, prova inconfutabile. Dopo qualche attimo lo ripiegai e, meccanicamente, misi in moto e mi avviai verso casa. Ora avevo un pensiero fisso nella mente: dovevo incontrarti. Mi coricai ma non riuscii a prendere sonno, pensando e ripensando soltanto a te, al tuo viso dolce, al tuo sorriso e a tante altre cose ancora. Alle fine decisi di telefonarti. Era l’una di notte ma sapevo che eri sola. Composi il numero e l’attesa durò solo pochi secondi, come se tu avessi il telefono in mano e aspettassi quella chiamata. “Pronto, sono Alessandro…” “Lo so, non c’è molta gente che mi può chiamare a quest’ora.” rispondesti divertita. “Ehm… ho letto e… volevo dirti… si… voglio dirti grazie per le tue parole. Sono bellissime.” Tu non dicesti nulla e io aggiunsi: “Senti, domani volevo andare a farmi un giro a Piazza Armerina. Ci sono già stato, ma mi piacerebbe ritornare. Non ho cose particolari da fare e Turi può rimanere da solo per una giornata. So poi che è il tuo turno di riposo e mi chiedevo se… ecco, se ti farebbe piacere venirci con me…” Da te ancora silenzio.
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“Si, hai ragione, è un’idea un po’ scema. Scusami, fa finta che non te l’abbia chiesto…” “Si.” “Si, certo, lasciamo stare.” “No, intendevo si, ci vengo. Certo che mi fa piacere.” A quella risposta sobbalzai e risposi: “Davvero? Allora… benissimo, siamo d’accordo.” “Si, ma andremo con due auto. Ci troviamo lì. Volevi visitare la villa romana?” “L’idea era quella.” “Ok, potremmo trovarci davanti all’entrata, diciamo verso le dieci, ti va?” “E me lo chiedi? Alle dieci, è perfetto.” “Bene, ora ci salutiamo però, dobbiamo fare un po’ di nanna.” “Si, anche se non ho per niente sonno. Ciao allora e… buonanotte.” “Buonanotte anche a te… ah, Alessandro…” ”Si?” “Ce l’aveva…” “Chi? Cosa?” “Herzog, una donna, ce l’aveva una donna.” “Certo, senza di lei non sarebbe mai venuto fuori dal suo casino esistenziale.” “Già, ce l’aveva ma… non sua moglie.” Riattaccammo e io rimasi disteso sul letto a guardare il soffitto, nonostante fosse buio e non si vedesse niente. Verso le quattro mi addormentai. Sognai. La giornata era splendida e io guardavo nervosamente l’orologio. Erano già le dieci e un quarto e tu ancora non arrivavi. Che avessi deciso di non venire? Poteva essere, dopotutto era un po’ una pazzia quella che stavamo facendo e, anche se eravamo lontani da casa, c’era sempre il rischio che qualcuno che ci conosceva, potesse notarci. Ma quando la tua Panda in quel momento arrivò, ogni dubbio svanì. Non c’era ancora nessun turista, soltanto l’addetto alla biglietteria, chiuso nel suo ufficio. Ci stringemmo le mani, guardandoci negli occhi, non osammo di più. Io ti dissi: “Vogliamo andare?” “Andiamo.”
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Acquistai i biglietti ed entrammo, iniziando il percorso attraverso le stanze di quella villa magnifica. Per entrambi non era la prima volta, ma ugualmente fummo affascinati da quelle architetture perfette, da quei mosaici così ben conservati, che raccontavano la vita migliaia di anni fa. Sembrava di essere catapultati indietro nel tempo. “Però, ‘sti romani…” esclamai “mica male, che ti sembra?” “Ma sai che un pensierino per avere una casetta sobria e modesta come questa lo sto facendo?” mi rispondesti. “E che ci vuole! Qualche milioncino, un piccolo mutuo, se non dovessero bastare i tuoi risparmi ed eccoti la casa dei sogni!” “Già…” rispondesti. D’improvviso ti eri fatta pensosa. “Che hai? Qualcosa non va? Ah, ho capito, ma non essere preoccupata per le trenta donne di servizio che dovrai assumere…, potresti sempre chiedere qualche contributo…” Abbozzasti un sorriso, che però risultò forzato. Ti chiesi nuovamente: “A cosa stai pensando?” “Scusami, mi è venuta un po’ di malinconia, ho immaginato veramente la casa dei miei sogni.” Ti alzai con delicatezza la testa chinata, prendendoti il mento con la mano, ti fissai negli occhi e ti chiesi: “Com’è? Mi racconti com’è la tua casa dei sogni?” “Ti annoierai…” “Non ho sentito, hai detto qualcosa?” “D’accordo. Allora, intanto ti dirò dov’è la mia casa di pace. Si, la chiamo così, perché so che in nessun altro posto al mondo potrei stare meglio. E’ di fronte al mare, non importa se su una spiaggia o sopra ad una scogliera. L’importante è che sia vicina al mare, così vicina da sentirlo giorno e notte. Ed ecco la mia casetta: è a un piano, ha grandi vetrate scorrevoli, senza tende, così lo vedo sempre il mare, sembra che a ogni onda arrivi fino a me…” Ti interrompesti un attimo ed io ti dissi: “Finora mi piace. E poi?...” “E’ arredata in modo semplice, i mobili e la tappezzeria sono a tinte chiare e tenui, e poi…” “Continua…” “…poi arriva l’uomo dei miei sogni, senza il quale la mia casa sarebbe fredda e vuota…” Io scrutavo i tuoi occhi, erano umidi. Continuasti:
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“Stiamo tanto bene, io e il mio uomo lì. D’estate le vetrate sono sempre spalancate ed entra il calore del sole, d’inverno stiamo rannicchiati sul divano godendoci il calduccio di casa. Eccolo, è arrivato, e lo saluto: “Ciao, mi sembra sia passata una vita da quando sei partito, ma ora finalmente ci sei, sei qui con me. E ci abbracciamo…” In un attimo eravamo abbracciati davvero e un secondo dopo io posai le mie labbra sulle tue. Fu un bacio intenso, il primo, che sembrava non finire mai. Con il bacio ci si parla, si apre il proprio cuore e non si può mentire. Con il bacio ci si mette a nudo, ci si svela e ci si unisce a chi si ama nel modo più sincero, bello e puro che ci sia. Il nostro primo bacio! Da quanto lo avevamo atteso! E ora non volevamo farlo finire. Ti tenevo stretta a me, poi mi staccai dalle tue labbra per baciarti sulla fronte e poi altri baci ancora nei capelli, mentre la mia mano continuava ad accarezzarti la schiena. Tu sembravi in trance, tenevi sempre gli occhi chiusi, in un’espressione di estremo piacere e rilassatezza. A un tratto ti uscì qualche parola appena sussurrata: “Mmhh… è bellissimo, mi sento come una ragazzina al primo bacio… ti amo…” “Anch’io, ti ho pensata tanto…” “…Poi arriva Gioia…” “Gioia?” feci io stupito: “Si, Gioia, nostra figlia. Arriva a casa. E’ bellissima come suo padre…” Un altro bacio. “…Scusate, ma questo è un luogo d’arte e di cultura e non credo sia il posto adatto per le vostre effusioni…” La voce che ci risvegliò da quel sogno era di una sorvegliante dall’aria severa. Ci accorgemmo che altra gente stava osservando la scena, qualcuno col sorriso sulle labbra. Ci rendemmo conto di esserci lasciati trasportare dall’emozione, tanto da perdere il senso della realtà, dimenticandoci dove ci trovavamo. “Ci scusi, ma… ci siamo lasciati un po’ andare e…” “Va bene, ho capito, certe volte si può perdere la testa… era mio dovere richiamarvi, però…” le ultime parole le disse sottovoce e strizzandoci l’occhio: “però, detto tra noi, era bello starvi a guardare…” e si allontanò con un sorriso. Ritornammo con i piedi per terra e ci ricomponemmo. Io ti dissi: “Si mi piace tanto la tua casa. Allora posso restarci anch’io…” “E’ anche la tua. Sei tu il mio uomo, se vuoi…”
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Ti presi la mano e riprendemmo a camminare. Ogni tanto consultavo la guida che avevo preso alla biglietteria, per interpretare i disegni dei mosaici sul pavimento. Arrivammo in una sala dove la scena era inequivocabile: due figure, un uomo e una donna, seminudi, abbracciati in atteggiamento amoroso. “Questa vediamo che scena è…ecco qua, Scena erotica.” dissi. “Chiudi la guida. Non servono spiegazioni, che dici?” “No, certo…” ridemmo. Arrivammo all’uscita. “Sei stanca?” ti chiesi. “No, ma ho un po’ di fame. Che ore sono?” “Mezzogiorno, se vuoi possiamo andare in città e pranzare da qualche parte.” “Meglio di no. Ho portato dei panini, li ho preparati stamattina. Se ti va, possiamo metterci su una panchina. Ce ne sono tante qui.” “Ottima idea.” “Però mi sono dimenticata di portare da bere.” “C’è un chiosco, vado a prendere dell’acqua. Aspettami, torno subito, intanto scegli un posto.” “Ok, ti aspetto.” Ritornai da te e vidi che nel frattempo avevi preso una borsa dall’auto e avevi scartato le cose preparate. “Sono quattro panini: prosciutto, formaggio e due con il salame. Quale preferisci?” “Fai tu la prima scelta.” “Allora prendo quello con il salame, vuoi anche tu?” “Ottimo.” Iniziammo a mangiare, poi mi chiedesti da bere. “Accidenti, ho preso solo una bottiglia, senza bicchieri!” esclamai. “Non mi sembra una tragedia, beviamo con la bottiglia. Sempre che a te non crei problemi bere dove metto la bocca io…” Ti guardai e ironicamente ti dissi: “Spiritosa!” “Sai che stiamo facendo una cosa un po’ pazza? Hai pensato se qualcuno ci vedesse?” “Si, l’ho pensato, ma mica saremo così sfortunati!” “Speriamo, ho tanta paura. Tra un’ora devo ripartire. Enrico ha detto che dovrebbe tornare verso le sette di stasera, per cena.” “Hai tutto il tempo.”
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“Si, ma ho bisogno anche di ricompormi dentro. Sai, queste sono emozioni che possono trapelare. Io non riesco a nascondere le mie sensazioni.” “Me ne sono accorto. La sensibilità in te non è di certo un’opinione. Va bene, torniamo quando vuoi tu. Comunque è già stato bellissimo anche così.” “Si, bellissimo.” Sospirasti, poi buttasti un’occhiata all’orologio. “Vuoi che torniamo? Sono le tre.” “Che risposta ti do?” “Quella che non vorremmo, ma… non possiamo farci niente.” Riponesti tutto nella borsa e ci alzammo, avviandoci alle auto. Prima di salire mi dicesti: “Grazie per la magnifica giornata.” “Grazie anche a te. Sali in auto, entro un attimo anch’io.” Mi guardasti, intuendo la mia intenzione e, sorridendo, mi ubbidisti. Chiudemmo le portiere e ci baciammo. Poi ti accarezzai la guancia con dolcezza e ti dissi: “Ciao, ti amo.” “Ti amo anch’io. A presto.” Io scesi, chiudendo la porta, tu avviasti il motore e partisti lanciandomi un ultimo sorriso dal finestrino. Ripartii poco dopo anch’io. In auto notai qualcosa: fino a quel momento ero sempre stato solo, ma ora avvertivo la presenza di qualcuno seduto accanto a me.
Verso sera mi recai in paese e passai in agenzia da Francesca. Avevo voglia di parlare, ero felice e non volevo esserlo da solo. Entrai e non c’erano clienti, c’era solo lei seduta alla scrivania. La salutai: “Ciao, come stai? Mi domandavo se ti andrebbe un aperitivo quando chiudi.” “Ciao, certo che mi va. Vuoi raccontarmi qualcosa?” “No… niente di particolare.” “Non dire bugie. Due ore fa è uscita di qui un’altra persona che aveva la stessa espressione che hai tu ora.”
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“E… che espressione avrei, secondo te?” “L’espressione inebetita di uno a cui è appena successa una cosa … particolare. Senti, quando prima è entrata Stella, l’ho vista subito diversa, allora le ho chiesto a bruciapelo: “Che hai? No, non dirmelo, ti sei innamorata! E lei mi ha risposto con un Siii! pieno di gioia.” “Non pensavo te l’avrebbe detto!” “Noi ci diciamo tutto. Comunque stai tranquillo, che il vostro segreto è al sicuro. Senti, tra un quarto d’ora chiudo e, se puoi aspettare, andiamo al Caffè Centrale, così parliamo un po’.” “Ti aspetto.” Al caffè lei mi disse che sapeva ciò che era successo dopo il teatro e delle ore che avevamo da poco trascorso insieme. “Sono felice per voi. Penso che ne aveste bisogno entrambi. Tu hai sempre avuto un’espressione un po’ malinconica da quando ti conosco. E lei so che è infelice da tanto.” “Perché?” “Vedi, le cose tra lei ed Enrico non vanno bene…” e mi raccontò la storia del vostro matrimonio. Avevate commesso anche voi l’errore che commettono molte coppie. Il vostro rapporto da molto tempo era diventato di routine, quel trascinarsi in una convivenza fatta dei soliti gesti, delle solite abitudini, dei soliti dialoghi: Come è andata al lavoro? Hai sentito che caldo oggi? Sono stanco, stasera vado a dormire presto, sono distrutto. Anche il vostro amore era scivolato in quel cimitero degli elefanti dove finiscono tutti gli amori che si lasciano appassire, se non li si coltiva giorno dopo giorno, se non li si ravviva con novità o piccole cose, come può essere un fiore donato anche senza l’occasione del compleanno o dell’anniversario, o un gesto affettuoso, o un fermarsi a guardare il cielo mano nella mano. Eri tanto giovane quando ti eri sposata. A ventidue anni avevi pensato di aver trovato l’uomo che ti avrebbe fatta felice. Lui invece non si accorse mai delle tue esigenze e desideri. Lui era stanco, lui voleva guardare la tv, lui non aveva voglia di uscire, lui si era dimenticato di un fiore a San Valentino ma, diamine! Con tutte le cose che aveva per la testa, mica era colpa sua! E tu a sopportare in silenzio, discreta e paziente, assecondandolo senza protestare, ma accumulando, giorno per giorno, il peso di una vita insipida, anonima, tu che invece, per temperamento, l’avresti voluta viva e piena di sorprese. Se solo lui avesse capito di avere un tesoro nascosto! Ma non poteva scoprirlo, tenendo gli occhi chiusi. Dopo aver sentito tutto questo, io dissi:
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“Mi dispiace tanto per lei. Ora capisco molte cose e molti suoi comportamenti con me degli ultimi tempi. Lei è una persona che vuole amore per poter vivere, ma non riesce ad averlo.” “E’ così, ma c’è di più, questo però, ti prego, non dirglielo. Lei non lo sa e, anche se le cose tra loro non vanno bene, ne rimarrebbe comunque profondamente ferita. So che Enrico l’ha tradita. Non so se lo fa ancora, ma l’anno scorso mi trovavo per lavoro a Palermo e stavo cenando in un ristorante con una mia collega e amica. Eravamo sedute a un tavolo un po’ defilato, da cui si poteva vedere tutta la sala. A un certo punto, chi ti entra? Lui, ma non da solo. Era assieme a una stangona bionda, una donna molto bella. Si accomodarono per cenare.” “E non ti ha visto?” “No. Io rimasi lì perché, se mi fossi alzata, allora si che mi avrebbe notata.” “Ma come fai a dire che era un’amante? Poteva essere una sua collega!” “Ingenuo. Una rappresentante donna di macchine agricole? E poi non è solo questo. Durante la serata i loro atteggiamenti erano inequivocabili, quelli di due persone che si conoscono in modo particolare, molto particolare! Se andiamo a cena io e te, per esempio, mica ci facciamo gli occhi languidi, ci accarezziamo la mano, ci facciamo mettere la candela e i fiori sul tavolo! Ne convieni?” “Francesca, ho capito.” “E poi una mia amica mi ha raccontato di averlo visto da un’altra parte, ancora con una donna, stavolta alla reception di un albergo, in attesa delle chiavi della camera.” “Accidenti!” “Tu sai che spesso lui dorme fuori casa, con la scusa del lavoro. E da un po’ penso che questa sia proprio una scusa bella e buona.” “Be’, a questo punto, due più due, è facile tirare le somme.” “Esatto, ora ti dico una cosa. Sai perché ti ho voluto raccontare tutto questo? Perché io voglio bene a Stella, e voglio che sia felice. Penso che tu le puoi dare la felicità che ha sempre cercato e credo proprio di non sbagliarmi. Lo vedo dai tuoi occhi, sono sinceri.” Ero imbarazzato. “Ti ringrazio per ciò che mi dici, ma ti assicuro che non riuscirei mai a mentire, soprattutto in tema di sentimenti. Farò di tutto perché sia felice e credo che non mi verrà difficile, nonostante la conosca da poco tempo. Ma ci conosceremo meglio strada facendo.”
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“Ne sono certa anch’io, Alessandro.” Tornai a casa e cenai. Mentre stavo riordinando ricevetti una telefonata, sul display comparve il tuo nome: “Stella, ciao, come stai? Mi sembra un secolo dall’ultima volta!” Erano passate solo poche ore dal nostro incontro. “Ciao Alessandro, sto bene e tu?” “Anch’io, dolcezza. Sei da sola?” “Si, ormai non è una novità. Enrico doveva essere già a casa, ma poco fa mi ha chiamato che rincaserà verso tardi.” “Volevi dirmi qualcosa?” “Avevo tanta voglia di sentirti. Fai un giro in paese domani?” “No, non lo avevo in programma.” “Non fa niente, magari ci vediamo un altro giorno...” rispondesti, per la verità un po’ delusa. “Aspetta, mi sono ricordato che ho bisogno urgente di… ecco… stai lì che ora mi viene in mente… ah si, di un paio di forbici. Sai, devo tagliare una… non so ancora cosa devo tagliare, ma se mi viene in mente le devo avere le forbici, non ti sembra?” Scoppiasti a ridere. “Sei troppo simpatico!” “Allora domattina passo da te. Mi raccomando, mettile da parte, le forbici.” “Non lo scordo. Ora … ciao e… mi manchi.” “Anche tu tesoro. Non sai quanto. A domani.” In negozio c’era solo un cliente, quando entrai, ma stava per andarsene. Attesi paziente e, dopo un minuto, rimanemmo soli. “Ciao, passavo per le forbici…” “Ah, si, so che ti sono indispensabili. Ne ho di tanti tipi, ma sono qua dietro, in magazzino. Vuoi vederle?” “Certo, per dove passo?” “Vieni con me.“ Varcasti la porta dietro al banco, che portava in magazzino. Io ti seguii e fummo soli. In un attimo ci stavamo baciando. Ti misi la mano sul fianco, poi la spostai in su, seguendo le tue curve fino ad arrivare al collo, al viso, ai capelli e per tutto c’era una carezza soffice e delicata. Intanto il bacio continuava e chissà quando sarebbe finito, se non fossimo stati interrotti dalla porta aperta da un cliente, entrato in quel momento.
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“Tu aspettami qui.” mi dicesti, poi ti ricomponesti un attimo e uscisti al banco. Io rimasi nascosto, attendendo il tuo ritorno. Intanto sbirciavo nel negozio. Ti vedevo al banco, non ti avevo mai osservata così bene di spalle. Eri bella anche in quella prospettiva e, appena tornata da me, dopo che il cliente se ne fu andato, ti abbracciai, ma stavolta di spalle, stringendoti le mani sul ventre e tempestando di baci il tuo collo. Tu tenevi gli occhi chiusi e avevi un sorriso sulle labbra che lasciava intuire cosa provavi. Mi dicesti: “Non resisto più senza di te. Ho bisogno di te!” “Anch’io” risposi. “Cerchiamo di trovare un po’ di tempo per noi?” “Si, ma è rischioso.” “Pensiamoci, ok?” “Si, si, amore.” “Non mi staccherei mai da te, ma non dobbiamo sfidare troppo la sorte. Ciao, vado, ora non c’è nessuno.” “Ciao amore”, e mentre ero già sulla porta: “Le forbici, non le hai prese…” “Ho la scusa per venire la prossima volta.” “Non hai bisogno di scuse, tu…” Ti mandai un bacio con la mano ed uscii. Il mattino dopo mi stavo tagliando la barba, quando squillò il telefono: “Pronto, ciao sono io.” “Ciao piccola.” Rimanesti in silenzio. “Stella, va tutto bene?” “Si…” “C’è qualcosa che non va?” “Sono stata meglio…” “Cosa c’è?” Ci fu una pausa, poi rispondesti: “Ho tanto bisogno di te…” “Dimmi come facciamo.” Ti sentii respirare profondamente, poi mi dicesti: “Mio marito va via per tre giorni e tornerà domenica…” “Fantastico! E… cosa pensavi di fare?” Le tue successive parole le pronunciasti con difficoltà e furono intercalate da diverse pause:
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“Francesca ha una casa di vacanza qui vicino sulla costa e mi ha detto che se voglio le chiavi…” “Ma è una notizia incredibile! E me la dici con quella voce da funerale?” Sospirasti ancora, prima di dirmi: “Ho tanta paura.” “Che ci scoprano?” “Si.” “Saremo prudentissimi.” “Sono già agitata adesso…” “Cerca di pensare ad altro fino a quel momento.” Ancora cercasti le parole e il coraggio: “Ora ti dico dove ci troveremo. Vuoi che facciamo domani o venerdì?” “Venerdì è meglio. Ho un po’ più di tempo per organizzarmi con Turi.” “Ok, ora ascolta bene, chiuderò negozio alle 20.30 e ci troveremo alle 21.30…” Ci accordammo, poi ti chiesi: “Devo portare qualcosa?” “No, non preoccuparti, penso a tutto io.” Venerdì ti stavo aspettando già da venti minuti, ero abituato ai tuoi ritardi, ma quando arrivasti polverizzasti ogni record precedente. Ti affiancasti alla mia auto e, appena salito sulla tua, mi avvicinai a te, ma tu ti ritraesti, dicendo: “No, ora no, è meglio…” Ripartimmo subito. La casa di Francesca distava circa un chilometro e in breve la raggiungemmo. Scendesti e apristi il garage, dove ti infilasti con l’auto, richiudendo subito dopo il portone. Appena scesi ci incollammo per lungo tempo. Sentivo il tuo cuore battere forte e mi sembrava che andasse allo stesso ritmo del mio, tanto da essere una cosa sola. A un certo punto, visto che non accennavi a staccarti, ti dissi: “Ehm, se vuoi che passiamo tutta la serata qui, per me va anche bene, ma se entriamo, magari è meglio, che dici?” “Dài, vieni…” sorridesti e mi prendesti per mano, dopo aver preso un borsone dalla macchina. Entrammo nella casa. Il soggiorno era spazioso, con un angolo cottura sulla sinistra mentre, appoggiato a una parete, c’era un divano blu, con dei disegni floreali bianchi.
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Ti sciogliesti ed esclamasti, finalmente rilassata: “Soli! Ma proprio soli! Non l’avrei mai sperato!” Ci baciammo senza alcuna intenzione di smettere. Passarono forse cinque minuti, di sicuro tanto tempo, durante il quale tu rimanesti con la testa appoggiata al mio petto, prendendoti tutto il calore che volevi da tanto tempo. Poi lasciasti la presa e mi dicesti: “Dai, prepara la tavola, troverai tovaglia e posate in quei cassetti. Io metto su la pentola, ti va riso in bianco?” Ridesti mentre ti guardavo stupito: “Ora penserai che non sono granché, come cuoca.” “Ma dài, a me va bene tutto. E poi… chi pensa ad aver fame?” “Bene, ma prima devo fare una cosa di là.” ed entrasti nella camera da letto, per riuscirne cinque minuti dopo. “Che dovevi fare?” ti chiesi. “Poi vedrai. E’ una sorpresa.” “Anch’io ne ho una, ma devi chiudere gli occhi.” Mi fissasti con curiosità, ma ubbidisti docile: Anch’io avevo portato una borsa, da cui presi una candela rossa e tre rose dal lungo stelo, sempre rosse. Le sistemai al centro della tavola, accesi la candela, poi: “Apri gli occhi…” Ti voltasti, sgranando i tuoi occhi stupiti e balbettasti: “E’… è… romantico…” “Un po’ si, non lo nego. Ti confesso che non ho mai fatto niente del genere in vita mia, ma per questa serata con te mi è venuto spontaneo. Tu mi fai essere romantico.” “Ti amo.” rispondesti. Dopo dieci minuti annunciasti: “Il riso è pronto, su, a tavola!” “Ok, ci sediamo di fronte o vicini?” ti chiesi. “Come vuoi…” “Vicini, siamo stati anche troppo lontani, finora.” Mi rispondesti con un semplice Si, poi mi dicesti: “Puoi prendere una bottiglia d’acqua? E’ sulla credenza.” “Farò di meglio, mia cara.” Mi alzai e andai a prendere dalla mia borsa qualcos’altro, poi mi girai, tornando a tavola e nascondendo dietro la schiena ciò che tenevo nelle mani. “Fa’ un po' di posto.” ti chiesi. “Ecco, appoggia pure, ma che cos’hai?”
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“Et… voilà!” appoggiai la bottiglia e la torta sulla tavola, aggiungendo : “Per noi due stasera avevo cercato del Dom Perignon. Ho trovato solo questa marca, ma penso andrà bene lo stesso. Che culo ha avuto però, il negoziante, fossi stato James Bond, mi sarei incazzato di brutto!” “Sei pazzo! Anche lo champagne! “Certo, è la nostra prima cena insieme, e voglio che sia indimenticabile.” “Credo che non dovremo impegnarci molto per ricordarla.” rispondesti, aggiungendo subito dopo: “Ma hai preso anche la torta! Saint Honorè…” “Saint Honorè, brava. Ma ora facciamo un brindisi!” E versai dello champagne nei bicchieri, te ne porsi uno, poi incrociai il braccio con il tuo, così bevemmo ognuno dal bicchiere dell’altro e dissi: “Al mio sole a mezzanotte!” Rispondesti: “A te che mi colori la vita!” Bevemmo un po’ di bollicine, poi ridendo mi dicesti: “Dài, mangiamo con le mani!” “Con le mani? Davvero sei incredibile! Penso, che… ok, si, con le mani.” Prendesti un po’ di riso con le dita e mi imboccasti. Iniziai a mangiare. “Ehi, ho fame anch’io!” protestasti subito dopo. Fui io allora a imboccare te. Continuammo, ridendo come due ragazzini, finché i piatti non furono vuoti. Poi passammo alla torta, poi passammo a baciarci, poi ad accarezzarci, a toglierci le magliette, poi passammo in camera, senza mai staccarci, senza mai distoglierci gli occhi di dosso, senza mai respirarci il fiato. Quindi ti sollevai, prendendoti in braccio, tu mi buttasti le braccia al collo e ti posai con delicatezza sul letto, senza smettere di coprirti di dolcezza dappertutto. Mi dicesti: “Sai cosa sono venuta a fare prima, qui in camera?” “Cosa?” “Ho messo queste lenzuola. Ti piacciono?” “Sono belle.” “Le ho comprate per noi. Volevo qualcosa di solo nostro, dove distenderci a fare l’amore per la prima volta… io e te.” “Azzurro…” “Azzurro come i tuoi occhi, come il cielo quando splende il sole. Tu ora sei il mio sole.”
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Io non risposi, non era più tempo di parole. Ti sfilai piano i jeans, non senza qualche difficoltà, erano aderentissimi. Rimanesti solo con il tuo intimo nero, di pizzo trasparente, molto trasparente. Ti ammirai, poi andai ai tuoi piedi e iniziai a baciarteli, per proseguire sulle gambe e poi sempre più su, sulla pancia, sui seni, sulla bocca, sui capelli. La tua pelle aveva un profumo particolare, inebriante, che avevo fatto mio per sempre. Quindi mi spogliai anch’io e completai l’opera con te, liberandoti anche da mutandine e reggiseno, ma lentamente, molto lentamente. Che dire di cosa avvenne quella notte tra noi? Di quanto amore spalmai sui tuoi seni, sul tuo ventre, dell’abbraccio che mi desti tra le tue gambe, in una lunga stretta che mi lasciò senza fiato? Che dire della sete che spensi tuffandomi in mezzo a te… E poi …le frasi dolci, gli sguardi, i sorrisi, i sospiri, i silenzi, le ansie, il batticuore, le carezze, gli abbracci, il bacio, il tepore, il calore, la passione, strofinarsi, ancora il bacio, capirsi, assaggiarsi, un altro bacio, l’estasi. Una sola parola: l’amore.
Era da un po’ passata la mezzanotte, eravamo distesi nel letto, rilassati, ogni tanto parlavamo. Mi alzai con il busto, appoggiandomi con il gomito sul letto e ti guardai tutta: “Sei una meraviglia!” “Ti piaccio davvero?” mi chiedesti. “Ti risponderò raccontandoti una storia, una storia vera. Allora senti; un giorno Saggezza stava passeggiando e vide Dolcezza e Bellezza litigare. Ne chiese loro il motivo: ognuna di loro pretendeva di avere il privilegio di essere la più importante nel rendere così unica e preziosa Stella. Allora Saggezza disse loro: stolte e vanitose, non vedete che è lei a impreziosire voi e non voi lei? In qualsiasi posto diverso dal suo cuore contereste mille volte di meno.” “Ah, questa sarebbe una storia vera!” “Verissima.” “Non so come fanno a venirti in mente certe cose! Sei davvero pazzo.” “Certo, di te.” Ti mettesti a ridere, poi: “Mi piace parlare con te. Non è mai tempo perso. Non avrei mai pensato di incontrare nella vita una persona, un uomo, tu, con cui poter avere un’intesa così perfetta, pulita, sincera… Tu sai sentire quello che provo,
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sai riconoscere i miei vari momenti e sbalzi di umore. In così poco tempo mi conosci meglio di chi vive con me da vent’anni. E’ una cosa incredibile. “Sei la donna che aspettavo e stavolta non mi sbaglio. Ciò che provo per te è una cosa che non posso spiegare. E’ sentire la vita scorrermi dentro, riempirmi di brividi mai provati. E’ … non so dire… è… sei tu.” “Sono le stesse sensazioni che sto provando io. Vorrei averti incontrato quando ero giovane, per vivere la mia vita insieme a te. Ho capito di essere la donna più fortunata del mondo, perché tu mi stai dimostrando un amore così grande che va oltre l’immaginabile. Io credo di vivere in un sogno e, se è così, spero di non svegliarmi mai.” “Tranquilla, non è un sogno…” “Sai una cosa? Dicono che accettare la fine di un amore significa crescere. Io allora preferisco rimanere piccola e amarti per sempre. Tu sei quanto si può chiedere di meglio di un uomo. Per me questa è una dimensione nuova di amore, meravigliosa ed unica. Ma allo stesso tempo mi sconvolge.” Io, senza smettere di accarezzarti, ti dissi: “Possiamo… non dobbiamo farci prendere dallo sconforto. Pensiamo alla bellezza di ciò che ci sta succedendo, per il resto ci verrà indicata la via. E’ strano, ma non mi è mai successo di vedere dentro al cuore di una persona come con te. Sento un’affinità interiore tra noi, fuori da ogni logica. Forse è proprio una cosa unica tra me e te. Credimi, possiamo amarci.” “No. Il nostro è comunque un amore impossibile. Sono sposata, non dimenticartelo.” “Non me lo dimentico, ma sei infelice con lui.” “Si, lo sono, ma è mio marito e non potrei mai lasciarlo.” “E allora? Cosa intendi fare?” “Per ora niente. Godiamoci questi momenti, che ci sono proprio regalati. Siamo stati bene questa sera. Io tanto!” “Anch’io. Stare con te è… tutto, ma ora riposa, dài, chiudi gli occhi.” Dopo un po’ ti assopisti leggermente. Eri distesa su un fianco, ti guardavo, la tua pelle luccicava al chiaror della lampada sul comodino. Ti accarezzai ancora i capelli, pettinandoli ai lati della fronte. Tu emettesti un gemito di tranquillità e pace. Saremmo stati lì per sempre. Alle tre decidemmo però che, purtroppo, dovevamo rientrare. Ti rivestii, coprendo di baci soffici ogni parte del tuo corpo, prima di ricoprirti con l’indumento che lì ci andava. Anche tu mi imitasti, intercalando con vir-
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gole di baci ogni cosa che mi rimettevi addosso. Poi facemmo un po’ di ordine in casa e quindi ci avviammo alla porta. Prima di uscire mi dicesti: “Francesca ha detto che se vogliamo ancora le chiavi…” “Francesca ti vuole tanto bene.” “Si. Grazie per la serata. E’ stato uno dei momenti più belli della mia vita.” “Non devi ringraziarmi, stringimi ancora.” Poi ce ne andammo. Sentii bussare e andai alla porta, senza sapere che stavo per conoscere due persone fantastiche. Aprii e mi trovai davanti Lisa. Era una bella ragazza sui trent’anni, la stessa età di Ellie, la sua amica, bella anche lei. Erano arrivate due giorni prima. Lisa era bionda, una statura e un fisico da modella, due occhi chiari e azzurri come le acque cristalline dei tropici. La pelle aveva un’abbronzatura perfetta, ma non eccessiva, tipica di chi ha la carnagione chiara, e quel colore faceva risaltare sulle braccia il biondo di una peluria appena accennata. Aveva due labbra sottili, ma ben modellate. Sulla spalla destra un piccolo tatuaggio, il simbolo hippy della pace. In quei due giorni io l’avevo sempre vista in bikini e la cosa non mi era per niente dispiaciuta. Ci stava proprio bene dentro a quel poco, da cui usciva quasi tutto. Ellie invece era mora, con i capelli ricci che le creavano una nuvola scura attorno al viso. Rispetto all’amica era un po’ più bassa, aveva due labbra carnose e una corona di folte sopracciglia sopra a due occhi nerissimi. Come Lisa aveva lo stesso tatuaggio, sempre sulla spalla destra ed era magnificamente brunita dal sole. Non riuscivo proprio a immaginare quale fosse la tonalità della sua pelle senza l’abbronzatura, perché anche il seno generoso, nella zona di confine tra ciò che era coperto e non dal reggiseno, aveva lo stesso colore uniforme, segno che al mare il sole lo prendeva tranquillamente in topless. Di certo erano due ragazze disinibite, libere e felici, con un costante sorriso sulle labbra. Viaggiavano a bordo di uno scalcinato camper, a cui avevo dato almeno venti anni di onorato servizio, tutto tappezzato di adesivi, scritte e disegni fatti con lo spray, i cui soggetti più ricorrenti erano fiori di svariati colori e paesaggi. In uno c’era una spiaggia con le classiche palme tropicali piegate sul mare. In un altro mustang al galoppo in una prateria
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sconfinata, sullo sfondo di montagne rossastre, che ricordavano la Monument Valley. Quelle ragazze stravaganti erano la vitalità e simpatia in persona. Lisa mi salutò: “Ciao Alessandro. Scusa ma è un’emergenza. Io e Ellie ci siamo messe in testa di fare un bel risotto con i funghi, ma ci siamo accorte che non abbiamo i funghi. Tu per caso ne hai? Di quelli in scatola, ovviamente.” “Penso si possa risolvere. Entra, che intanto guardo in dispensa.” Uscii poco dopo con una scatoletta: “Ecco qua. Il pranzo è salvo.” “Oh grazie, ma c’è un altro problema…” “Dimmi pure, Lisa, se posso…” “Veramente… ci mancherebbe anche il riso…” Scoppiai a ridere. “Ma… dico io, come vi è venuto in mente di fare una cosa di cui non avevate nulla? Sale e pepe ce l’avete almeno?” “Oh quelli si. Ma vedi, quando abbiamo un desiderio, non ci diamo pena a pensare se abbiamo questo o quello per realizzarlo, tanto, se vuoi una cosa, prima o poi troverai qualcuno che ti darà una mano per ottenerla. Visto che ha funzionato? Abbiamo trovato te. Stamattina ci siamo svegliate e, cosa strana per noi, che non siamo abituate a programmare mai nulla, ci siamo chieste cosa mangiare a mezzogiorno. A me era venuta voglia di riso con i funghi ed Ellie ha detto che era un’ottima idea. E ora, vedi?” Mi mostrò ciò che teneva in mano, “Cosa sono questi? Funghi. Cosa è questo? Riso. Missione compiuta, mi sembra.” “Funziona davvero, non c’è che dire! Senti Lisa, che programmi avete stasera? Io sono quasi sempre solo e, se vi va, potete venire a cena da me.” “Funziona eccome! Basta esprimere un desiderio e ora ci ritroviamo non solo il pranzo, ma anche la cena!” Arrivarono le nove di sera e arrivarono anche loro, assieme a una bottiglia di vino. “Tieni, Alessandro”, disse Ellie “ci ubriachiamo stasera?” “Sorprendente!” pensai. Erano vestite uguali, non serve dire come. Deliziose. “Vi ho preparato qualcosa che di solito mi riesce bene. Ma intanto un Bellini?” “E come no? Ellie, mi sa tanto che stasera sarà meglio che al ristorante!”
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“I think so.” rispose Ellie, ridendo. Brindammo, poi io scolai la pasta e servii in tavola. “Pasta alla Norma, ragazze!” “Mmhh…” fece Lisa, “è con le melanzane, vero?” “Melanzane, pomodorini, ricotta grattugiata, basilico, aglio. E’ una ricetta siciliana, quindi siamo nel posto giusto, che dite? Ma chi di voi cucina di solito?” “Cucino io.” disse Ellie, nel suo italiano condito di accento yankee. “E’ molto brava, sai…” confermò Lisa. “Ragazze, sono curioso, non mi avete ancora detto di dove venite.” “Presto fatto; io sono di Como, ma manco da casa da tanto ormai” disse Lisa “i miei genitori mi hanno ormai data per dispersa, anche se…” il tono ora aveva un malcelato velo di malinconia “…anche se sono sicura che non gli manco. L’ultima volta ci siamo lasciati bruscamente e, credo, per sempre, a meno che loro non cambino le loro idee, ma è cosa impossibile.” “Perché? Che è successo? Se vuoi dirlo, ovviamente.” “Oh, non ho problemi a dirtelo. Il motivo di questa rottura siamo proprio noi: io ed Ellie. Sai, noi siamo…” “Siete insieme, l’ho capito.” dissi. Le ragazze mi guardarono un po’ sorprese e Lisa esclamò: “E non hai detto niente finora? Di solito la gente ci guarda di traverso, come se fossimo delle poco di buono.” “Non ne vedo il perché. Sono affari vostri, no? E se siete insieme, vuol dire che ci state bene insieme, o sbaglio? Io penso che ciascuno deve essere libero di fare ciò che vuole, beninteso se la sua libertà non pregiudica quella degli altri. Quindi per me nessun problema.” “La gente la pensa diversamente, sai e, anche se cerchiamo di non pensarci, spesso questo ci fa male.” “Lo immagino, non dev’essere facile. Per i tuoi genitori, poi, mentalità all’antica, immagino che queste siano cose impossibili da digerire.” “Ricordo che quando glielo dissi fu come dare loro una coltellata. Per la verità non hanno mai avuto una vita facile con me. Diciamo che sono sempre stata una ragazza un po’ ribelle.” “Chi l’avrebbe mai detto! E quindi l’idea che la loro figlia fosse gay li ha stesi del tutto.” “Esatto. So che per loro è stato un dolore immenso, ma quel che mi fa più male è il motivo principale di questo rifiuto: cosa avrebbe detto la gente? Capisci? Si preoccupavano delle chiacchiere della gente, avevo intaccato la loro reputazione, la loro patina di rispettabilità.”
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“Purtroppo è un aspetto comune a molta gente.” dissi. “Ma sai cosa mi sono detta alla fine? Che la vita è la mia e come voglio viverla lo devo decidere solo io, nessun altro ha il diritto di intromettersi, neanche i miei genitori!” “Mi trovi perfettamente d’accordo.” dissi, mentre Ellie ascoltava pensierosa. “E tu da che parte dell’America provieni? Come vi siete conosciute?” “Sono del Maine e ci siamo conosciute proprio laggiù. Non fu proprio romantico come primo incontro… vero Lisa?” “Non proprio, una litigata con i fiocchi! Avresti dovuto vederci…” “E perché?” “Mi aveva tamponato! Come facevo a non incazzarmi? Avessi visto! Ero ferma da quasi un minuto al semaforo, ferma, hai capito? E lei mi viene addosso! Ma dico, a cosa pensavi? Alle colline in fiore?” Ascoltavo divertito. Lisa a quel ricordo sembrava si stesse arrabbiando ancora. Poi Ellie disse: “Ma Lisa, ti ho spiegato che mi era caduto il telefono, mentre stavo chiamando, quindi mi sono distratta a cercarlo guardando in basso e… Bam!” “Ma quando è successo?” chiesi. “Due anni fa.” “E tu che ci facevi nel Maine?” chiesi a Lisa. “Mi ero appena licenziata dall’ultimo lavoro di commessa in un negozio di abbigliamento. Avevo pensato di festeggiare spendendo la liquidazione in un bel viaggio e ho pensato al Maine. E’ sempre stato un mio sogno nel cassetto. Così sono arrivata a Portland e lì ho noleggiato un’auto.” “Da sola?” “Si. E qui arriva Ellie. Non mi hai di certo toccato dolcemente quella volta.” esclamò rivolta a Ellie. “E poi?” chiesi. “All’inizio, soprattutto io ero scatenata, anche perché la macchina non era utilizzabile e dovevo farla riparare. Avevo però il tempo contato, perché dopo quattro giorni c’era il volo di ritorno.” “E invece ti ho trovato io la soluzione.” disse Ellie. “Sai Alessandro, mi rendevo conto di aver fatto una cazzata e mi dispiaceva averle rovinato la vacanza. Così mi sono offerta di ospitarla a casa mia. Io abitavo da sola già da tre anni, a quel tempo. Me n’ero andata da casa appena trovato un lavoro che mi permettesse di mantenermi e
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di fuggire dalle continue liti con i miei. Un po’ quello che è successo a te, Lisa.” “Si. Poi, in attesa che l’auto venisse riparata, Ellie è stata ancor più gentile e mi ha scarrozzato in giro. Così sono riuscita a vedere il mio Maine.” “Bello come lo immaginavi?” “Oh si!” rispose Lisa, con gli occhi che le si erano illuminati al ricordo. “Ancora più bello! Dio, vedessi! Boschi, laghi, porti, parchi, spiagge, fari, montagne, mare. Tra l’altro era autunno e non ti so descrivere i colori delle foglie, la fusione di tinte, dal verde, al giallo, all’arancione, al rosso scarlatto degli aceri, il colore più scuro delle querce. Sai che vengono organizzati viaggi proprio per vedere questo spettacolo della natura?” “Si, l’ho sentito.” “Guarda, sono cose che raccontarle non è possibile, si devono solo provare. Sentirai toccarti il cuore!” concluse Lisa ed Ellie aggiunse: “E i nostri si sono proprio toccati!” “Già, chi di voi ha fatto il primo passo?” “Un po’ entrambe. Fin dall’inizio sentivamo in noi qualcosa di particolare. La nostra compagnia ci rendeva felici e, passo passo, lentamente, ci siamo scoperte nei nostri dialoghi, incrociando i nostri sguardi, condividendo il piacere di un bel paesaggio finché, due giorni dopo il nostro incontro, avevamo accostato l’auto e aperto la cartina per consultare il percorso. Sai come sono le cartine stradali: quando le apri diventano lenzuola. Ellie non riusciva a tenerla aperta, in auto poi è ancora più difficile. Così io presi il lembo destro, dalla mia parte, per aiutarla e, nel farlo, sfiorai la sua mano, vero Ellie? In quell’attimo ci guardammo e…ci baciammo.” Le guardai entrambe e lessi negli occhi le loro sensazioni. Non è difficile capire gli innamorati per chi è stato o è innamorato. Dato che non si scuotevano da quella specie di trance, ritenni il caso di risvegliarle ed esclamai: “Bene, sono felice perché vi vedo felici. Ora, interpretando il vostro, come un silenzio-assenso, visto che della mia pasta alla Norma non mi avere detto niente, mi azzardo a servirvi il secondo.” “Oh, scusaci tanto! E’ vero, non ti abbiamo detto niente, ma era davvero squisita” dissero in coro. “Ma dài, scherzavo! Ora però eccovi pesce spada ai ferri, con contorni verdi misti.” “Diamine! Saresti proprio un uomo da sposare! disse Lisa e io ribattei:
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“Anche voi lo sareste. Peccato siate già impegnate!” Ci guardammo tutti e tre e poi ridemmo come dei matti. Durante la cena le ragazze mi spiegarono che, dopo il loro primo incontro, per stare insieme si alternarono a vicenda tra States e Italia, ma era troppo poco e alla fine decisero di non separarsi neanche per un giorno. In qualsiasi posto ci sarebbero andate sempre e solo insieme. Così fecero. Comprarono anche quel camper vetusto, che le scarrozzava dappertutto. “Sentite, voglio farvi una domanda un po’ indiscreta: con i soldi come fate? Voglio dire che vivere costa parecchio e, insomma, come trovate i soldi, visto che mi sembra di capire non abbiate un lavoro fisso?” dissi, guardandole. “Caro Alessandro, noi non abbiamo molte pretese. Quando abbiamo di che comprarci una maglietta, un paio di jeans e la benzina per viaggiare, ci basta. I soldi li guadagniamo fermandoci qui e là, dove magari c’è qualche festa o sagra paesana. E lì Ellie disegna ritratti con il carboncino alla gente che passa. Ogni ritratto cinque euro. Io invece faccio la bella statuina.” “Cos’è la bella statuina?” “Hai presente quelli che stanno immobili proprio come statue, e a ogni moneta che qualcuno fa cadere nel vassoio, fa un movimento per ringraziare e assume una nuova posizione?” “Ah, si, ho capito, li ho visti da qualche parte. E ho sempre pensato che dev’essere molto difficile stare lì, perfettamente immobili.” “Più che altro lo è quando… ti viene da grattarti il naso.” disse Lisa, suscitando nuova ilarità. “Beh, ora noi ti abbiamo raccontato di noi…” disse Ellie, “…but now tell us something about you, Alessandro… Oh, scusami, volevo dire…” Ma la interruppi: “Tranquilla, ho capito.” “Ellie ha ragione, raccontaci un po’ di te. Che ci fai qui? Non mi sembri poi molto siciliano!” “Che acume!” esclamai, “Allora state a sentire”. E raccontai di me e di come alla fine ero approdato in quell’angolo di mondo. Alla fine Lisa mi chiese: “Non hai una donna.” “No, non ce l’ho…” “o meglio… si, anzi… no…” “But… what are you saying? Deciditi, si o no?” disse Ellie. “Be’, non so…”
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“Ma che cavolo stai dicendo? disse Lisa, “ce l’hai o non ce l’hai?” “Io penso di aver capito.” intervenne Ellie, “ce l’ha ma, o lei non ama lui, o non è una cosa che si può dire. Vero Alessandro?” La guardai negli occhi e annuii con la testa. “Ehi, ma mi spiegate? Perché non puoi dirlo?” disse Lisa ma, prima di ottenere risposta continuò: “Ah, che scema, ora ho capito anch’io. Tu hai una donna, ma è una donna segreta, vero?” “Già!” dissi un po’ imbarazzato. Ellie mi chiese: “E’ sposata? Ha un altro uomo?” “Si.” fu la mia laconica risposta. “Senti, Alessandro…” disse Lisa: “…dobbiamo continuare a tirarti fuori le parole di bocca, o vuoi fare un discorso di senso compiuto? Oppure non vuoi parlare? Noi capiremo.” “No a voi lo posso dire.” E raccontai di me di te, di come ci eravamo conosciuti, dei nostri successivi contatti ed incontri, di tuo marito e alla fine conclusi: “Ecco qua, so che non è una cosa corretta quella che facciamo, ma…” “Senti Alessandro…” disse Ellie, “…tu e Stella state vivendo un grande amore, è così?” “Di più.” risposi. “Oh, gli innamorati dicono tutti così. Pensano che il loro amore sia il più grande di tutti i tempi, ma è giusto che sia così, è proprio questo l’amore. Anche noi vediamo il nostro così.” disse Lisa, guardando l’amica che le sorrideva, poi proseguì: “Bene, allora, se vi amate, significa che ciascuno dona qualcosa all’altro, qualcosa di indispensabile per vivere in quel momento della sua vita. Poi magari in futuro le cose possono cambiare, ma intanto è così. E allora, e penso di interpretare anche il pensiero di Ellie, noi ti diciamo che non c’è un amore giusto o non giusto, esiste solo l’amore e, quando si ha la fortuna di trovarlo, lo si deve vivere fino in fondo, senza freni, con tutta l’intensità che nasce tra te e l’altra. Non ci si deve opporre al corso delle cose, soprattutto questa cosa, l’amore. E’ come voler arginare un fiume con un sasso, ma è impossibile, non si può arrestare. Non è dato a tutti e allora come si può rifiutarlo? L’unica cosa non corretta è farlo di nascosto, ma prima o poi arriverà anche il coraggio di dichiararlo.” Ellie aggiunse:
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“Don’t worry about what people think about you. All you need is always inside you.” Era proprio ciò che pensavo anch’io. Mi scossi e dissi: “Grazie per le vostre parole. Fa piacere sentire che qualcuno ti capisce.” “Nessuno ti può capire più di noi. Lo abbiamo provato sulla nostra pelle, è ciò per cui siamo state disposte ad affrontare un mondo ostile, che ci osteggia perché non stiamo alle sue regole.” disse Lisa. “So cosa intendi.” risposi. Ellie mi disse: “Mi piacerebbe conoscere Stella.” “Quanto pensate di fermarvi qui?” chiesi. “Non abbiamo programmi lo sai.” rispose Lisa. “Allora si può fare. Anzi, avrei un favore da chiederti, Ellie…” ”Dimmi pure, caro…” “Vorrei chiederti un ritratto di noi due, di me e Stella ma, dato che sarà molto difficile posare insieme, dovrai farlo disegnando prima me e poi lei, inventandoti noi vicini.” “Si può fare. Prima però devo conoscerla.” “Ok, grazie Ellie, ora so che lei è sola, come al solito e la chiamo.” ma fui interrotto dallo squillo del mio telefono. “Sta’ a vedere che qualcuno ti ha letto nel pensiero.” disse Lisa. Eri proprio tu. “Ciao dolcezza, non ci crederai ma stavo proprio per chiamarti io. Questa è telepatia! Sai, sto cenando con due persone che ci terrei tu conoscessi.” Ascoltai la tua risposta, poi continuai: “Se vuoi ho pensato si può fare domani, nell’intervallo da mezzogiorno all’ora in cui riaprirai il negozio. Potete trovarvi in spiaggia, lì da te, io però non ci sarò, penso sia meglio.” Mi confermasti l’appuntamento, poi ci salutammo. Appena chiusa la comunicazione Lisa mi disse: “Come si dice in questi casi? Hai gli occhi di triglia!” “Che vuoi dire?” chiesi. “Che hai uno sguardo da ragazzino innamorato.” Io sorrisi, poi Ellie sbottò: “Beh, ce lo fai o no il caffè? Sono americana, ma vado pazza per il vostro caffè, altro che l’acqua sporca che si beve da me.” “Dammi due minuti e sentirai.” Mezz’ora dopo ci salutammo, era tardissimo, e le due ragazze, una alla mia destra e l’altra a sinistra, lo fecero baciandomi sulle guance.
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“Ehi, un bacio in… stereofonia non lo avevo mai provato prima!” esclamai. “Grazie per questa bellissima serata.” rispose Lisa. “E fatti trovare qui, domattina, diciamo a mezzogiorno? Pettinato, mi raccomando, che ti faccio il ritratto. Riga a destra o a sinistra?” disse Ellie sorridendo. “Ok, ragazze. Buonanotte e sogni d’oro.” “Anche a te.” Il mattino dopo Ellie mi ritrasse, poi nel pomeriggio aggiunse accanto al mio volto il tuo. Mentre eravate in spiaggia chiamasti: “Alessandro, sono due ragazze adorabili!” “Sapevo che sareste diventate amiche. Come viene il ritratto?” “Lo vedrai più tardi con i tuoi occhi.” Quando la sera lo vidi, rimasi a bocca aperta: Ellie era riuscita a fare di quel ritratto qualcosa in più di uno schizzo somigliante a qualcuno. Era riuscita a disegnare le nostre emozioni. La ringraziai con un bacio, poi scherzando le dissi: “Allora fanno cinque euro.” “Sai bene che non voglio niente. Questo è il mio regalo per voi due, con l’aggiunta di un piccolo consiglio: siate sempre voi stessi, senza mai aver paura di amarvi, qualunque cosa possa accadere.” Il giorno dopo le due ragazze avevano deciso di andarsene, direzione Roma. Prima di partire ci scambiammo i numeri di telefono. Chiamarono anche te per salutarti, poi salirono sul loro camper, che si mosse, lasciando dietro di sé una nuvola di fumo nero.
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CAPITOLO QUINTO
Una cosa che mi rilassava moltissimo era fare due passi, la sera dopo cena, addentrandomi nei campi lì attorno, passeggiando in tutta tranquillità. Pensavo ai fastidiosi rumori del traffico e all’asfalto che avevo lasciato, senza provare la minima nostalgia. Era l’imbrunire anche quella sera e stavo tornando verso casa. Fino ad allora non avevo mai trovato anima viva e l’auto parcheggiata a circa cinquanta metri da me, sul ciglio della carreggiata, proprio lì, in mezzo ai campi, allo stesso tempo mi stupì e incuriosì. Mi fermai a osservare e vidi scendere tre persone. Due di queste mi sembrò sostenessero per le braccia la terza. Era ancora sufficientemente chiaro e mi parve si trattasse di un uomo anziano. Ebbi la netta impressione che la sua fisionomia non mi fosse nuova. A un tratto li vidi discutere in maniera animata, gesticolando. Potevo sentire il tono alterato delle loro voci, anche se non riuscivo a capire cosa si stessero dicendo. D’improvviso, con mia enorme sorpresa, vennero alle mani e mi disorientò ancor più vedere, poco dopo, l’uomo anziano accasciarsi e cadere a terra. Istintivamente pensai che era meglio non farsi notare e mi accucciai, continuando a osservare. I due rimasero per qualche attimo fermi in piedi, come sorpresi da quell’epilogo, poi li vidi sollevare l’uomo e caricarlo sull’auto, per salire a loro volta e avviarsi lentamente sul terreno sconnesso. Mi rendevo conto di aver assistito a un fatto molto grave, che non osavo chiamare con il suo nome e decisi di seguirli. Ma ero a piedi e in breve li avrei persi. Pensai che potevo correre a casa… ma a che fare? Avevo solo il camper. Ero teso ed eccitato e forse fu per questo che, nonostante la gravità della situazione, mi venne uno sbuffo di riso, immaginandomi impegnato in un inseguimento a bordo di un… camper. Comodo e discreto. Niente da dire! Ma di ridere non era proprio il momento, dovevo trovare alla svelta una soluzione. In quell’attimo mi balenò l’idea di prendere lo scooter di Turi. Probabilmente era ancora lì da me. Lo avevo lasciato che voleva finire uno scavo, per piantare l’indomani alcune piante da frutto. Mi misi a correre, abbandonando il sentiero e tagliando per i campi. Avevo calcolato che forse sarei riuscito ad arrivare a casa prima che l’auto prendesse la statale e fu così. Arrivai trafelato,
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per fortuna non se n’era ancora andato. Gli dissi in modo sbrigativo e agitato: “Prestami lo scooter, Turi, è un’emergenza, poi ti spiego.” Lui mi guardò, senza dire niente, la sua espressione lasciava immaginare cosa stesse pensando di me e del mio molto probabile attacco di pazzia. Mentre inforcavo il motorino, l’auto passò davanti al mio cancello. Ok, ce l’avevo fatta, ora non dovevo farmi seminare. Partii, l’auto era davanti a me e per fortuna manteneva una velocità moderata, forse quei due volevano evitare il rischio di essere fermati da qualche pattuglia della stradale, visto il carico che portavano. Sta di fatto che riuscivo a non rimanere indietro, pur se dotato di quel mezzo improvvisato. Ora si era fatto buio ma, per evitare di dare nell’occhio, ritenni opportuno non accendere il faro, sperando che qualcuno non mi investisse. L’inseguimento durò per una decina di minuti e finalmente la macchina accostò davanti al cancello di un cantiere edile, dove era in costruzione una palazzina. Lessi il cartello di concessione edilizia: Comune di Cedara Concessione edilizia n. 071188 Committente: Costruzioni Zagaria Spa Lavori per la realizzazione di una palazzina a uso residenziale di cinque unità abitative Mi fermai poco lontano, dietro a un albero sul ciglio della carreggiata. Uno dei due tizi scese ad aprire il cancello e l’auto entrò. Cosa dovevo fare? Ero arrivato fino a lì e pensai che avrei vanificato tutto se me ne fossi tornato a casa. Anche rimanere fuori non sarebbe servito. Dovevo entrare a vedere. Lasciai allora lo scooter appoggiato all’albero e mi diressi al cancello. Il buio mi aiutò. Prestando attenzione non mi sarei fatto notare. Entrai e vidi l’auto ferma, vicino a una gru. Scorsi, subito dopo, anche i due uomini che stavano spostando dei grossi manufatti in cemento. Non ci misi tempo a capire che avevano scaricato quello, che ormai potevo definire un cadavere e stavano terminando l’opera di occultamento, ricoprendolo con quei grossi blocchi. Pensai che doveva essere comunque una soluzione provvisoria, in attesa di farlo sparire definitivamente, sicuramente il giorno dopo. Questo e altri pensieri mi distrassero per qualche attimo dalla scena e mi accorsi tardi che avevano riavviato il motore e stavano uscendo. Non
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potevo precederli e non vidi altra soluzione che rimanere nascosto dietro a un grosso cumulo di sabbia. Il cancello si chiuse e pregai che non notassero lo scooter parcheggiato, ma tirai un sospiro di sollievo, quando sentii, dal rumore del motore, che si allontanavano dalla parte opposta. Attesi qualche minuto, poi mi diressi alla recinzione e, con un po’ di fatica, scavalcai, ritornando in strada. Rincasai eccitato. “Che idiota!” mi dissi improvvisamente “e la targa? Sono un vero idiota, non ho nemmeno pensato a prendere la targa! Bell’investigatore davvero, complimenti! Ora so solo che era una Mercedes nera. Meno male che non ho fatto il detective di professione, avrei avuto di sicuro fatto la fame!” Nella tensione di quei momenti avevo solo pensato a non farmi notare, dimenticando una cosa talmente elementare. Ma ormai era andata e mi sarei dovuto arrangiare con ciò che avevo visto. Ora dovevo pensare al da farsi. Ritenni opportuno non dire nulla a Turi, che mi aspettava preoccupato. Gli tirai fuori la scusa che mi ero dimenticato di portare all’agenzia di Francesca le prenotazioni per un’escursione a Malta da organizzare tra due giorni e, dalla sua espressione, vidi che era plausibile. Ora però non era ancora finita, volevo ritornare al cantiere con la luce del giorno e tentare di capire che fine avrebbero fatto fare al morto. Alle otto e trenta ero davanti al portone di accesso, dove campeggiava un eloquente cartello: Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori. In un certo senso, pensai, ero, mio malgrado, coinvolto in certi affari ed entrai. Avevo pronta la scusa di voler parlare con il titolare, per chiedergli un preventivo. Così spinsi il cancello, che era appena accostato, ma mi vennero incontro due tipi dall’aria poco amichevole: “Esca, non può entrare qui, è proibito!” “Scusate, cerco il titolare e…” “Se ne vada, il titolare non c’è!” Buttai lo sguardo verso il luogo dove la sera prima avevo visto i blocchi che celavano il corpo di quel poveretto, ma non c’era più nulla. A circa cinque metri degli operai si stavano apprestando a eseguire una colata di cemento, per realizzare il fondo del piano terra della costruzione. “Scusate, non sapevo… ora me ne vado.” e uscii. Avevo visto abbastanza.
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Senza pensarci un attimo andai subito alla polizia, dove mi ricevette un poliziotto in borghese, lessi il suo nome sulla targa appoggiata sulla sua scrivania. Si chiamava Buscemi. Per la verità non diede l’impressione di essere particolarmente interessato e mi disse soltanto: “Farò controllare.” Tre ore dopo mi chiamò per informarmi che aveva fatto un sopralluogo al cantiere, parlando con degli operai, ma non era risultato nulla di sospetto. Forse la sera prima, da lontano, potevo aver scambiato per colluttazione una bella ubriacatura di uno dei tre, che gli altri due avevano poi provveduto a caricare in macchina per riportarlo a casa. E la sosta al cantiere? Lavoravano lì e dovevano controllare il funzionamento di una pompa. In un primo momento obiettai al poliziotto che ero certo di ciò che avevo visto poi, quando quel tipo mi disse: “Si rilassi, Derrick è un telefilm.” mi venne il sospetto che quello potesse non essere proprio un poliziotto integerrimo. Finsi allora di assecondarlo e mi scusai per il disturbo. Ero perplesso: se non potevo avere fiducia nella polizia, non sapevo cos’altro fare. Mi chiamò Salvo Ayala: “Alessandro, volevo informarti, nel caso non lo sapessi, che stanotte è successa una disgrazia.” “Che è successo?” “Gaspare, il papà di Antonio Sarnielli, ha avuto un incidente e purtroppo è morto.” Antonio era amico di Ayala e lo avevo conosciuto quella volta proprio a casa di Salvo, quando mi comunicò la notizia dell’ok da parte del Comune per il mio progetto. Non credevo alle mie orecchie. “Ma… dici sul serio?” “Si, lo hanno trovato stamattina, all’alba, sulla costiera, in un tratto pieno di curve. Non si sa come, ma deve avere perso il controllo dell’auto ed è uscito di strada. La macchina poi si è incendiata e di lui non è rimasto granché. Così almeno hanno riferito due testimoni oculari, che si trovavano a passare in quel momento e avevano cercato, inutilmente di prestargli soccorso.” A queste parole ebbi un sussulto. Tornai con la mente a quell’uomo ucciso e in quel momento la mia mente elaborò la sua sagoma fisica con
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quella di Sarnielli, che avevo conosciuto un giorno in paese, incontrandolo per caso, in compagnia di Antonio. Ora ero certo che fosse lui l’uomo ucciso e, quindi, l’incidente stradale era una vera e propria messinscena. Ma perché? “Sono costernato, Salvo, mi dispiace proprio. Quando sono i funerali?” “Sono fissati per dopodomani.” “Grazie, ci sarò.” La BMW blu si fermò a circa trenta metri dall’entrata. Ne discesero tre uomini, due in cravatta e vestito scuro, l’altro in camicia bianca, tutti e tre con occhiali scuri, alla Blues Brothers. Incuriosito, mi fermai e li osservai. Si guardavano attorno, confabulando tra loro e, più di una volta, si voltarono verso la mia direzione, indicando con la mano in un paio di occasioni. A un certo punto, uno dei tre, quello in camicia, compose un numero al telefono e rimase a parlare per qualche minuto. Quindi risalirono tutti nell’auto, che ripartì. “Accùra, Alè.” Turi sbucò da dietro la siepe che stava potando. Anche lui aveva visto. “Che hai detto?” “Accùra dissi: occhi aperti.” “Ti riferisci a quelli? Li conosci?” “Cà tutti li conoscono. Poco di buono, senza un lavoro fisso, sono sul libro paga del signor Zagaria.” A quel nome mi irrigidii. “E chi è?” gli chiesi, ricordando bene il nome dell’impresa, sul cartello di quel triste cantiere: Costruzioni Zagaria Spa. “Possiede molte terre cà attorno e tiene ‘nà grossa impresa di costruzioni.” “E allora? Perché dovrei stare attento?” “Ah, Alè, tu si ingenuo. A Sicilia è biedda ma, ci stanno i siciliani…certi siciliani…” “Continuo a non capire.” “Speriamo che tu non debba capire.” “Devo temere qualcosa?” Turi sbuffò, allargò le braccia e rispose: “Cà ci sta ‘na cosa brutta, a’ mafia, Alè, a’ mafia…” “Quelli erano mafiosi? E io che c’entro? Neanche lo conosco, questo Zagaria…”
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“Ma lui conosce molto bene te, sin da quando arrivasti. Cà non si muove fogghia sienza u suu vuoliri.” “Ma io non do fastidio…” “No, non è questo. E’ solo che qui ormai sei conosciuto e u tuu travagghiu va bene.” “Il pizzo? Devo temere che mi chiedano il pizzo?” Turi mi fissò negli occhi, mi mise una mano sulla spalla ed esclamò a bassa voce: “Spero che non ti accada.” “Vedremo, io non do tangenti a nessuno.” “Non è facile, Alè, non è facile.” Scrollò la testa, fissando lo sguardo a terra e si allontanò a riporre gli attrezzi, lasciandomi molto turbato. Questa era una spiacevole novità a cui, per la verità avevo pensato, quando mi era venuta l’idea di mettermi a lavorare laggiù, tanto da esternare queste mie preoccupazioni a parecchie persone con cui ero venuto in contatto, proprio gente siciliana e quindi addentro a queste cose, come Ayala e Vizzini stesso, ma tutti mi avevano assicurato che la mafia di solito non si cura dei pesci piccoli, soprattutto se venuti da fuori, come me, anche perché non è nel suo interesse farsi cattiva pubblicità, perché nuovi investimenti e progetti di sviluppo in zone, come quella di Cedara, ancora carenti nel campo delle strutture turistiche, generano nuovo indotto e qui entrerebbero in gioco gli appalti gestiti proprio da organizzazioni mafiose. E pensare che nacquero per contrastare chi deteneva il potere, a difesa degli abitanti locali. Infatti la sottomissione alle varie dominazioni spinse i siciliani, nel corso dei secoli, a creare un sistema di autodifesa, una sorta di controgoverno che riparasse ai torti e alle ingiustizie. Con il passare del tempo però persero questa aureola romantica, trasformandosi in semplici associazioni criminali. La mafia, una parola per certi versi parte del lessico ormai familiare, come scuola, economia, trasporti, al punto che, quando se ne sente parlare, neanche ci si sofferma a pensare cosa veramente significhi. Si sente la TV che ne parla, ma si è ormai talmente refrattari a tutto che non ci si scompone nemmeno più alla notizia di un uragano che ha fatto migliaia di vittime, perché, dopo aver esclamato un povera gente di rito, si cambia canale e magari ci si guarda un pezzo di partita. Il fatto è che, egoisticamente, riflettiamo sulle cose solo se ci toccano da vicino e ora questa toccava da vicino proprio me. Pensai a ciò che avevo visto e qualcosa mi diceva che cominciavo a essere inguaiato in qualcosa di più grande di me.
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Ritornai al lavoro. Non ero più sereno. Solo due giorni dopo quella visita a distanza, stavolta, quella BMW ormai familiare, oltrepassò i cancelli e si fermò davanti al mio ufficio. Attesi sotto al portico, discesero due uomini e sobbalzai nel riconoscere in uno dei due, il tipo che mi aveva quasi assalito, quando mi ero recato al cantiere. Fu proprio lui a rivolgermi la parola. “Buongiorno, signor Casati.” “Buongiorno, vedo che mi conoscete, io invece non ho il piacere.” “Non si preoccupi, ci manda il signor Zagaria. Lo conosce, vero?” “No, mi dispiace” risposi mentendo. “Non fa niente, il signor Zagaria sabato prossimo organizza un party a casa sua, per festeggiare il suo compleanno e sarebbe onorato della sua presenza.” “Ma le ho detto che non lo conosco…” “Il signor Zagaria lo gradirebbe molto.” “Scusate, ma credo proprio che non verrò.” “Signor Casati, lei è qui in Sicilia ormai da un po’ di tempo e possiamo considerarla anche un pizzico siciliano, ormai. Il signor Zagaria stima molto l’attività che ha avviato, che è proficua sia per lei, ma anche per la nostra terra. E poi, ci pensi, conoscerà anche altre persone, magari le potrebbe essere utile per gli affari…” “Affari?” Ma l’altro concluse: “Tenga, questo è il biglietto da visita del signor Zagaria. Chiami pure per la conferma, può farlo fino a sabato stesso. E non si preoccupi dove venire, verrà qualcuno a prenderla. Arrivederci signor Casati, è stato un piacere.” Non replicai, ripensavo a ciò che mi aveva confidato Turi qualche tempo prima: “Cà ci sta ‘na cosa brutta, a’ mafia…” Decisi di andare quel sabato, “dopotutto… può essere che sia io a pensare al peggio e magari questo Zagaria non abbia nessuna intenzione ostile nei miei confronti.” Mi distolsi da questi pensieri perché squillò il telefono; era mia madre. Ci sentivamo spesso, specialmente da circa un mese, dopo che papà era stato colto da un malore.
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“Alessandro, sono preoccupata per papà. Ora sta perdendo anche la memoria. Pensa che non si ricorda più neanche ciò che ha fatto un minuto prima.” “Mamma, purtroppo ha ottantadue anni…” “Lo so, ma sto male a vederlo così.” le sfuggì un singhiozzo. “Mamma, vuoi che venga da voi per un po’?” “No, no, non preoccuparti…” ma sentivo che non era sincera. “E tu come stai?” mi chiese. “Molto bene, sta’ tranquilla. Magari vedo se posso fare un salto fra due settimane e, cerca di tenerlo sereno più che puoi, il papà.” “Sai che è impossibile, non è mai tranquillo, nemmeno quando dorme.” “Purtroppo è quello il suo problema. Be’, dagli un bacio per me. Buonanotte, mamma.” Il giorno dopo partecipai al funerale di Sarnielli e mi ripromisi di andare a trovare Antonio quanto prima. Dovevo farlo, sia per la sua perdita, che per chiarirmi alcune cose. Attesi il sabato, con due chiodi conficcati in testa: quell’omicidio e… te. Il telefono non aveva più squillato. La sera del venerdì chiamai il numero sul biglietto da visita e confermai la mia partecipazione. Sarebbe passata un’auto a prendermi alle 20.30. Ero pronto e attendevo fuori della porta di casa quando, puntuale, vidi sbucare dalla strada a 200 metri un’auto grigia. In quel momento apparve Turi alle mie spalle, silenzioso come un fantasma, che mi sussurrò piano: “Sientisti della disgrazia che successe ieri?” “Ti riferisci all’incendio di un capannone, dove è morto il proprietario? Si, ho letto la notizia sul giornale.” “Proprio a chistu mi riferii. E sai come fu?” “Vuoi dire come è successo? Bò, dall’articolo sembrerebbe una disgrazia. Nel capannone era scoppiato un incendio e il titolare era appena riuscito a salvare un camion, tirandolo fuori dal locale in fiamme, ma non ce l’ha fatta con il secondo ed è morto.” Turi non replicò alle mie parole, annuendo solamente con la testa. Allora gli chiesi: “Perché hai tirato fuori questa storia?” “Ricorda chistu nome: Domenico Lo Prete. E’ u mortu.” “Non lo conoscevo.”
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Turi non mi badò e concluse: “Statti accorto nel parlare. Ricorda: prima i parari mastica i paroli.” Perplesso, annuii con la testa e salii sull’auto, che si mosse e partì. La casa distava dieci chilometri e in venti minuti la raggiungemmo. La vidi in lontananza e pensai: “Casa non direi, villa calza meglio.” Varcammo i pesanti cancelli in ferro battuto, che interrompevano un muro di cinta alto a occhio e croce tre metri e iniziammo a percorrere il viale che attraversava un curatissimo parco e terminava, dopo un centinaio di metri, davanti all’edificio, che assomigliava a quelle ville americane che si vedono nelle soap opera. Le auto arrivavano di continuo, scaricando decine di ospiti. Io, accompagnato dal tipo dell’auto, salii i cinque gradini in marmo bianco, che portavano alla porta d’ingresso. Il salone era già affollato. “Non c’è che dire” pensai tra me “non bada proprio a spese il caro Zagaria.” Numerosi camerieri si aggiravano tra i presenti, distribuendo calici di champagne. Le signore sfoggiavano sfavillanti abiti da sera. In fondo alla sala era stato allestito un palco, dove un’orchestra di otto elementi stava terminando di accordare gli strumenti. L’uomo mi condusse tra quella folla fino a un signore distinto, abbastanza corpulento e dalla testa calva, sui sessantacinque. Aveva appena lasciato una coppia con la quale aveva conversato, quando mi vide e mi rivolse subito l’attenzione. “Lei dev’essere il signor Casati, suppongo.” “Si, Casati, Alessandro Casati…” risposi. “Lieto di fare la sua conoscenza. Era da tempo che desideravo incontrarla e sono contento che abbia accettato il mio invito. Mi presento, sono Vito Zagaria.” “Piacere mio, signor Zagaria, la ringrazio, ma non so proprio a cosa devo…” Fummo interrotti da un tizio con lo smoking e i capelli impomatati, che salutò Zagaria con molto calore: “Vito, amico mio!” Doveva essere una persona particolare, o forse lo ero poco io, perché Zagaria mi lasciò, così come mi aveva trovato, con scuse di maniera: “Mi perdoni, avremo modo di conoscerci meglio più tardi, come vede gli altri ospiti mi reclamano. Si diverta.”
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“Prego, si figuri.” Ero perplesso. Quell’uomo non sembrava poi quell’orco che mi era stato dipinto, anche se non mi era piaciuto il trattamento da ospite di seconda scelta che mi aveva riservato. Qualcuno mi toccò la spalla e una voce familiare mi salutò: “Ma guarda chi si vede! Alessandro, cosa ci fai qui?” “Francesca, che sorpresa! Cosa ci faccio? Be’, quello che ci fai tu, immagino.” “Non sapevo che conoscessi Zagaria.” “Infatti, non lo conosco, ma lui evidentemente si.” “Che vuoi dire?” “Che mi ha invitato, ma non so perché. Me lo dirà dopo. Ma tu, cos’hai a che fare con lui?” “Ma come, non lo sai? Lui è…” Non finì la frase, interrotta da una voce che, dal microfono sul palco, chiese un attimo di attenzione. Era il padrone di casa che, sorridente, si rivolse alla sala: “Scusate un attimo, amici. Vi ruberò solo pochi attimi per dirvi che sono veramente felice di essere qui con voi ancora una volta, per festeggiare il mio compleanno. E’ l’occasione per fare un po’ di festa e ricordarci che, in fondo, noi tutti formiamo una grande famiglia.” Ci fu un applauso, poi Zagaria continuò: Purtroppo capita ogni tanto che qualcuno venga a mancare all’appello, come il nostro carissimo Domenico…” nel sentire quel nome fui come folgorato. “…il nostro caro amico che ieri è giunto alla fine della sua strada, che Dio lo abbia in gloria!” Zagaria fece una pausa, abbassò gli occhi con un’espressione commossa, tanto che sembrava stesse quasi per piangere. Poi riprese, ma stavolta con un tono più veemente e severo, che aveva di colpo cancellato l’espressione triste di poco prima: “Però era una disgrazia che avrebbe potuto evitare, se solo avesse avuto la necessaria prudenza e quello che gli è successo deve farci riflettere e servire da insegnamento.” Dopo queste parole avvertii che tra i presenti si era creata un’atmosfera strana, era come se l’aria si fosse caricata di tensione, che fu però subito dissipata magistralmente dall’oratore che, come un attore consumato, tornò a un tono allegro e concluse il suo discorso:
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“Ma ora bando alle tristezze! Siamo qui per divertirci, quindi… forza, divertiamoci, bevete alla mia salute e grazie a tutti per essere qui con me.” Poi, rivolgendosi all’orchestra: “Maestro, prego, musica!” Scrosciò un altro caloroso applauso e la sala si rianimò con le note del primo brano musicale. Francesca mi guardò e mi vide serio e pensieroso. “Che hai?” mi chiese. Le risposi con un’altra domanda: “Quel Domenico, per caso faceva Lo Prete di cognome?” “Si, lo conoscevi?” “No. Che puoi dirmi su di lui?” “Era titolare di un’azienda di autotrasporti. Si dice che gli affari non gli andassero per niente bene. A causa di pizzo, usurai e altre cose carine del genere, si era indebitato fin sopra i capelli e non riusciva più a venirne a capo. E’ morto ieri. Ma perché ti interessa?” “Niente, non è importante.” Non le dissi dell’idea che mi era balenata nella mente, collegando le parole di Turi a quella sorta di necrologio pronunciato da Zagaria. Sapevo che la mafia ha un suo codice, delle regole non scritte che, se non rispettate, determinano l’adozione di punizioni nei confronti di chi le infrange. Che la sua morte fosse stata provocata per qualche sgarro che quell’uomo poteva aver commesso? Si trattava di pizzo non pagato? Ma forse la mia mente correva troppo. Francesca sbottò: “E’ lo zio di Stella.” Abbandonai le mie riflessioni e la guardai sorpreso. “Hai capito? Prima, quando sono stata interrotta, ti stavo dicendo che Zagaria è lo zio di Stella e, dato che sono sua amica, ecco il motivo per cui mi vedi qui. Ci vengo ormai da qualche anno.” Ebbi un’espressione a dir poco stupita. Quel giorno non aveva ancora finito di riservarmi sorprese. Questa era un’altra notizia inaspettata! Il mondo sembrava davvero piccolo in quell’angolo di Sicilia, dove tutte le persone con cui ero venuto in contatto erano in qualche modo legate tra loro. Tu, Stella, nipote di quell’uomo misterioso! Francesca proseguì: ”E’ fratello di sua madre, Elisa, rimasta vedova quando Stella aveva otto anni. Suo padre, Stefano Ranieri, morì di cancro ai polmoni, ma le lasciò tranquille dal punto di vista economico. Erano una famiglia ricca.
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Poi Elisa, sette anni dopo, morì di una misteriosa malattia. Da allora è stato lui a prendersi cura di lei anche se, detto tra noi, non credo lo abbia fatto proprio disinteressatamente. Forse penserò male ma mi suona strano tutto questo, perché lui a quel tempo non se la passava certo bene. Era diventato imprenditore da qualche anno, ma la sua attività scricchiolava e la morte della sorella sembra che per lui fosse capitata proprio a fagiolo, perché da lì cominciò progressivamente ad arricchire, e ora è quel signore ricco sfondato che tutti conosciamo.” “Di cosa morì Elisa?” “Non si seppe mai con esattezza. Lentamente, ma inesorabilmente, peggiorò giorno dopo giorno, dimagrendo a vista d’occhio, finché arrivò alla fine. I medici rimasero sempre sul vago, senza mai pronunciare una diagnosi precisa.” “Da come parli sembra che tu nutra dei dubbi sul fatto che questa malattia sia stata provocata da cause naturali.” Francesca strinse le spalle e mi rispose: “A dirti la verità Zagaria non mi sta per niente simpatico e, se non fosse per Stella che ci tiene, non verrei neanche a queste feste. C’è qualcosa in lui che mi inquieta. E poi Elisa aveva sempre goduto di ottima salute, fino a quel momento.” “Quindi anche i pareri dei medici, se qualcuno avesse voluto la sua morte, potrebbero essere stati manipolati.” dissi. “Perché no? Quell’uomo è una potenza dalle nostre parti. Comunque andò così, e per fartela breve, finiti gli studi con la laurea in lettere, Stella scelse di impiegarsi in un’attività qui in paese e lui le diede una mano a rilevare il negozio che ora gestisce. Le prestò il denaro che lei, orgogliosa com’è, gli restituì fino all’ultimo centesimo. In quel periodo conobbe Enrico; aveva vent’anni anni e dopo quattro si sposarono, anche se, detto tra noi, suo zio non vide la cosa di buon occhio. Enrico non gli è mai stato molto simpatico. Ma fu una delle poche cose che Stella fece contro il suo volere. A lui vuole molto bene.” “Capisco” dissi pensoso. Tu, tuo zio, la festa. Di colpo collegai queste cose e ciò che conclusi si materializzò davanti a me proprio in quell’attimo. Dovevi per forza esserci anche tu. Ti vidi sbucare improvvisamente al fianco di Francesca. Mi guardavi sorridendo e mi salutasti con uno scherzoso ciao della mano. I capelli raccolti sulla nuca in un’acconciatura sobria ma elegante, che lasciava scoperto il collo esile e slanciato, l’abito nero, attillato e senza maniche, con la gonna un po’ corta sopra il ginocchio e una scollatura
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poco accennata, la pochette dello stesso colore del vestito. Eri incantevole. Mi venne subito in mente l’abbraccio di qualche giorno prima e lessi lo stesso pensiero nei tuoi occhi. Notai solo in quel momento che c’era un uomo accanto a te, che mi tendeva la mano per presentarsi: “Piacere, signor Casati, sono Enrico Riccati, il marito di Stella. Mia moglie mi ha parlato di lei.” “Piacere mio, spero le abbia parlato bene di me.” “Non si preoccupi. Lei è uno dei suoi clienti più simpatici.” “Sua moglie è troppo buona.” “Mi dica, come si trova qui a Cedara? E’ qui già da un po’, mi sembra.” Ci interruppe un cameriere con dello champagne, poi risposi: “Sto bene, proprio bene qui.” Arrivò in quel momento anche Edoardo, il marito di Francesca, che già conoscevo, e rimanemmo tutti e cinque insieme per il resto della serata. Enrico tutto sommato era simpatico. Era anche un tipo attraente, statura media, capelli corvini, portati molto corti. Gli spiegai del mio lavoro, di come mi era venuta quell’idea, a prima vista un po’ strana e di come ero riuscito a realizzarla. “E tu invece, cosa fai?” gli chiesi poi. “Faccio il rappresentante di prodotti per l’agricoltura, attrezzature e macchine agricole, per la precisione. Le produce una ditta toscana, che fa capo a una multinazionale olandese.” “Che zona segui?” “Praticamente tutta la Sicilia, e ho quattro clienti anche in Basilicata.” “E’ un territorio molto vasto.” osservai. “Proprio così e mi porta a essere spesso assente da casa.” “Così trascura me.” irrompesti tu. “Tesoro, sai che non posso fare diversamente.” “Io invece penso di si.” rispondesti bruscamente e notai in quella frase un accento velatamente polemico. “Che intendi dire?” replicò Enrico. “Che io so bene quali impegni comporta il tuo lavoro, ma non mi sembri presente nemmeno quando sei a casa.” “Presente?” “Si, presente. Io sono lì con te, ma sembra che tu non te ne accorga. Sei stanco, devi riposarti…” “E’ una colpa essere stanchi?” “Lo è vivere per conto tuo, visto che ci sono anch’io.”
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“Ma cosa dovrei fare secondo te?” La conversazione stava assumendo dei toni sempre più da lite di famiglia e si era creato un certo imbarazzo tra i presenti. “Ah, di certo a te non viene in mente…” rispondesti visibilmente alterata “… basterebbe che ti venisse qualcosa di carino da fare con me, di tanto in tanto.” “Ma…ti porto in giro, a cena fuori…” “Non mi riferivo solo a queste cose, ma visto che tu focalizzi in esse le cose importanti, allora ti dirò che anche lì l’idea parte sempre da me.” “E cosa cambia?” “E’ inutile, non capisci che non è la stessa cosa. Ma basta così, lasciamo stare!” “Ecco…si, è meglio che cambiamo argomento.” Era Francesca che cercava di smorzare i toni di quello che ormai era un diverbio che stava sfuggendo a ogni controllo e c’era il rischio che degenerasse in una lite vera e propria. Rimasi colpito dalla veemenza con cui ti eri rivolta a tuo marito. Io ti avevo sempre conosciuta calma e sorridente, e Stella agitata e adirata era davvero una novità. Poi per fortuna la nostra attenzione si spostò su nuovi argomenti di conversazione decisamente più leggeri e frivoli. Più tardi si fermò per qualche minuto con noi Zagaria, che chiese: “E allora come va? Vi state divertendo?” Ottenne un coro di si e quindi si rivolse a te: “E tu, nipotina? Oh, scusami, sono imperdonabile, devo ancora farti i complimenti per la tua bellezza di stasera. Signori, guardate che meraviglia! Ah, Enrico, tu si che sei un uomo fortunato!” “Grazie per il complimento, zio.” dicesti. Poi lui mi chiese: “Vedo, signor Casati, che ha già fatto amicizia. Molto bene ma, avrei una cosa da dirle in privato. Mi dedica due minuti?” “Be’, non ho nulla in contrario.” risposi, un po’ sorpreso per la richiesta. “Benissimo, allora mi segua nel mio studio. Scusate, signori, ve lo restituisco tra non molto.” Si avviò verso una porta, sulla destra della sala e io lo seguii. Entrammo e Zagaria chiuse la porta. La stanza, molto ampia, era arredata con mobili in stile antico. Sulla parete, di fronte alla porta, c’era una libreria piena di volumi e, quasi al centro dello studio, troneggiava una grande scrivania in legno massiccio.
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Di lato, alla mia destra, un’ampia finestra, mentre sulla parete opposta, un caminetto. Dominava il marrone scuro. Me lo sentivo addosso pure io. Zagaria si sedette alla scrivania e mi invitò a prendere posto di fronte a lui. “Allora, signor Casati, lei ora si starà sicuramente chiedendo che cosa avrò mai da dirle.” “In effetti…” “Niente di brutto vedrà, anzi, credo che lo troverà molto interessante. Intanto voglio congratularmi con lei per l’idea che ha avuto e per il coraggio di essere venuto qui in Sicilia a rischiare di suo. Non sono in molti, mi creda. Noi, purtroppo, siamo considerati una razza di seconda categoria, ma c’è qualcuno, come lei, che la pensa diversamente, per fortuna.” “Io non ho remore e non ce l’ho con nessuno. Per me la Sicilia è come qualsiasi altra parte del mondo, perché è una terra che ritengo stupenda e mi affascina per tanti motivi.” “Ciò che dice mi riempie di orgoglio come siciliano.” ”E poi non credo di aver fatto nulla di eccezionale, ma in effetti riconosco che l’idea si è rivelata buona. La gente di solito non si sofferma a pensare che dietro a qualsiasi cosa che una persona può mettersi a fare, ci deve essere un’idea che l’ha fatta nascere. Penso che le idee stiano dentro a ognuno di noi, ma il più delle volte capita che rimangano lì dove sono, se non c’è qualcosa che le stimola e le fa diventare realtà. Sono come un ovulo che, dentro sé, ha una vita che può nascere, ma se non viene fecondato, rimarrà un semplice ovulo e prima o poi morirà.” L’uomo mi fissava. Capii che dovevo cambiare interlocutore o argomento, così optai per la seconda soluzione: “Ma ora mi dica lei ciò che le preme.” conclusi. “Si, ecco qua allora di che si tratta; io sono un uomo d’affari e si dà il caso che sia proprietario dei terreni tutt’attorno al suo. Ma la sua proprietà, così vicina al mare, è in posizione ottimale per ciò che ho intenzione di fare.” “E cosa intende fare?” gli chiesi. “Io sono un costruttore, grandi opere in prevalenza. Ho un progetto per la costruzione di un centro turistico.” Non me lo aspettavo. “Veramente volevo costruirlo in un altro posto, ma il proprietario si è sempre rifiutato di vendere a me e ora è morto.” E’ Sarnielli, pensai di getto.
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Lui fece una pausa, poi aggiunse: “Glielo pagherò bene, non si preoccupi.” Guardavo quell’uomo, senza dire niente, e poco dopo Zagaria mi incalzò: “Casati, allora, cosa mi dice?” Mi ricomposi sulla sedia, sollevandomi dalla mia posizione un po’ stravaccata, portai il busto in avanti, appoggiandomi con i gomiti alla scrivania e risposi: “Penso di no. Ho faticato e spremuto sudore per avere ciò che ho ora e mi ci sono affezionato, ormai…” in quel momento pensai a quel terreno, a mio padre, al suo amico, al bambino. Così gli dissi: “… e poi c’è un altro aspetto, ma è personale.” “Ho capito perfettamente e non la voglio forzare. Le chiedo solo di pensarci, prendendosi il tempo che vuole. Quando deciderà me lo farà sapere.” “Per me va bene, ma non cambierò idea.” “Vedrà invece, che a mente fredda, potrebbe succedere.” “Non ci conti molto.” “Ah, un’altra cosa: per caso, di recente è stato nel cantiere che ho all’entrata del paese?” La domanda mi lasciò interdetto. Questo mi tolse ogni dubbio sul motivo di quella specie di sopralluogo che avevo ricevuto, subito dopo l’omicidio, dai tipi della BMW. Evidentemente erano risaliti a me, dopo che ero stato al cantiere, perché ero una faccia nuova, lì a Cedara. La cosa poi era stata riferita a Zagaria, che ora, velatamente, stava a sua volta indagando. Chi mi diceva, poi, che non fosse stato anche il poliziotto, quel Buscemi, a raccontargli della mia visita al comando? Ne ero quasi certo e conclusi che era inutile mentire: “Ah si, volevo chiedere un preventivo. Sa, dato che ho la licenza anche per svolgere attività di agriturismo, avevo fatto un pensierino a buttar su quattro muri, per affittare stanze o qualcosa del genere e, dato che sono nuovo del posto e non conosco nessuno del settore, ho visto il cantiere e ho pensato di entrare per chiedere informazioni.” Lui mi squadrò attentamente, pensai cercasse di notare qualche segno di nervosismo e rispose: “Se vuole me ne può parlare ora.” “Meglio un’altra volta. Questa è sera di festa.” A quel punto lui mollò la presa: “Quando vuole.”
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Non so se la spiegazione fu di suo gradimento e non ci contai molto, ma non me ne importò e cercai di liberarmi da quel poco piacevole colloquio: “Ora mi scusi, penso sia meglio che torni dagli amici. A quest’ora mi avranno già dato per disperso. E’ stato un piacere signor Zagaria.” “Pure per me. A presto, signor Casati.” Mi alzai e uscii, chiudendomi la porta alle spalle, mi diressi verso il tavolo e vidi che i miei amici si apprestavano ad andarsene, come del resto avevano già fatto parecchie altre persone. Era l’una passata e il salone infatti si era quasi svuotato. Francesca si offrì di accompagnarmi a casa, tu allora mi chiedesti: “Perché? Non sei con la tua auto?” “No, tuo zio mi aveva mandato a prendermi.” Mi sa che prendesti la palla al balzo e mi dicesti: “Allora puoi venire con noi. Francesca, Edoardo, voi andate pure, che avete la bimba a casa. Noi siamo da soli. Enrico, ti dispiace?” “Certo che no.” rispose lui. “Per me va bene.” disse Francesca. “Allora ok. Avviso io mio zio che sali con noi.” dicesti. “Va bene, grazie, accetto il passaggio.” Accomiatatici dagli amici ci avviammo all’auto. Io salii dietro. Nel breve tragitto commentammo la serata appena trascorsa e dopo qualche minuto arrivammo a destinazione. Aprii la portiera, ringraziando per il passaggio ma, prima che scendessi, ti voltasti verso di me e, dicendomi Buonanotte, mi guardasti fisso negli occhi con una particolare espressione che non mi sfuggì. Ti sorrisi, scesi dall’auto e ripartiste. La notte era serena, non c’era la luna e si vedevano tante stelle nel cielo. Ne notai una più luminosa delle altre, mi fermai a fissarla e pensai a… pensai … che era ora di andarmene a dormire. Il giorno dopo attaccai un cartello al cancello, nel caso improbabile fosse arrivato qualcuno: Torno verso mezzogiorno e andai in paese, dovevo parlare con Salvo. Lo trovai nel suo studio, ma aveva un altro cliente e attesi mezz’ora. Poi finalmente la porta si aprì, Ayala si accomiatò da quel signore e venne a salutarmi, accompagnato dalla solita sigaretta. “Qual buon vento?” mi chiese.
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“Salvo, non ho bisogno di nulla in particolare, ma c’è una cosa strana che mi è successa e volevo sapere cosa ne pensi.” “Ok, comincia.” “Ieri sono stato invitato alla festa di compleanno di Vito Zagaria.” Ayala smise di botto di giocherellare con la penna che teneva in mano e si fece ancora più attento. “Dalla tua reazione capisco che lo conosci.” “Certo che lo conosco… e chi non lo conosce? Spero che anche tu lo conosca!” “Penso di si.” “Ma tu che c’entri con lui?” “All’inizio me lo sono chiesto anch’io, mi aveva invitato senza apparente motivo…” “C’è sempre un motivo per ogni cosa che fa, anche se non è apparente…” “Infatti poi l’ho capito. Durante la serata, a un certo punto, mi ha chiamato in privato e mi ha chiesto di cedergli il mio pezzo di terra.” Ayala spalancò gli occhi, incredulo: “E per quale motivo?” “Perché ci vuol costruire sopra un centro turistico.” “Bè, può essere, ma non mi quadra: di solito le cose le fa fare ai suoi scagnozzi, ma stavolta no, lo ha fatto in prima persona. Chissà perché.” “Non lo so” convenni io “mi ha raccontato che questa cosa la voleva fare in un posto qui vicino, ma il proprietario ha sempre rifiutato le sue offerte e ora non potrà più né rifiutare, né accettare, perché è morto.” Ayala si irrigidì: “Che hai detto? Ti ha fatto il nome di questo signore?” “No, ma so a chi pensi ed è la stessa cosa a cui ho pensato subito anch’io.” “Gaspare, il papà di Antonio. Anche lui aveva avuto molte avances da Zagaria per una sua proprietà. Guarda caso, anche lui è morto e sono certo si riferiva proprio a lui. I suoi rifiuti a vendergli il terreno erano legati a problemi d’affari. Sarnielli era stato sindaco di Cedara, anni prima, e aveva in un certo qual modo ostacolato alcune iniziative immobiliari di Zagaria. In più aveva sempre rifiutato di vendergli la sua proprietà.” “Come mai?” “Be’, Sarnielli lo stimavo perché non cedeva né a ricatti né a lusinghe. Se riteneva che una cosa non era giusta, non doveva essere concessa nemmeno al Padreterno e, devo dirti con tutta onestà, che i progetti di
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Zagaria sarebbero stati dei veri obbrobri edilizi, che avrebbero deturpato zone costiere molto belle paesaggisticamente. Se vuoi andartene a vederne un paio, ti do gli indirizzi, così potrai renderti conto anche tu che razza di schifezze butta su! Lui bada a sfruttare al massimo le cubature, senza curarsi, di estetica o impatto ambientale.” “Così gli negò i permessi.” “Già, e la cosa, conoscendo Zagaria, gli rimase nel gozzo.” Salvo si accese l’ennesima sigaretta (un’altra ancora!), poi riprese: “Comunque, quando c’è di mezzo Zagaria, devi stare in campana, molto in campana. Ma non mi hai detto cosa gli hai risposto poi, Alessandro.” ”Ho preso tempo e lui mi ha detto che aspetterà. Quando deciderò, gli farò sapere.” “E cosa pensi di fare?” “Rifiuterò.” “Ti capisco” fece Salvo “e mi dispiace se tutto questo ora potrà nuocere alla tua tranquillità perché, sai bene anche tu che, se dovessi dire di no, potrebbe finire tutto lì, oppure… mah, speriamo che vada tutto bene. Gente come Zagaria non accetta rifiuti.” “E io non sono abituato a farmi imporre la volontà di qualcun altro” sbottai, “che sia Zagaria o il presidente della Repubblica!” “Sta’ attento, però. Quello è un uomo potente e pericoloso. E poi sai bene di cosa stiamo parlando. Qui ci sta cosa brutta, amico mio, lo sai anche tu che vieni da fuori.” “Mi sembri Turi, stesse parole di Turi.” “Chi è Turi?” “Un brav’uomo che mi dà una mano nei lavori da me, quando serve. Qualche giorno fa mi ha detto la stessa cosa a proposito del nostro buon Don Vito.” “Allora ti ha detto cose sagge. Stai attento, mi raccomando.” “Va bene ma, porca miseria! Non si può stare tranquilli da nessuna parte! Grazie, comunque Salvo, ci penserò su.” “Farai bene.” Me ne tornai a casa, pranzai velocemente e poco dopo ero sdraiato sul letto, ma non dormii. Pensavo a tante cose: all’omicidio, a Zagara, alla sua offerta e anche a… te. Lì dentro ero solo, non c’era nessuno con me. Nonostante le soddisfazioni del lavoro e la cerchia di nuove conoscenze che mi ero creato, sentivo il bisogno di qualcuno al mio fianco. Turi era stato buon profeta.
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La tranquillità, seguita ai primi mesi di lavoro intenso e denso di preoccupazioni, mi aveva aperto gli occhi su questo aspetto, fino ad allora rimasto mascherato. Quando si è calmi e sereni, si ha tempo di fermarsi a pensare e riflettere. Io in quel tempo lo avevo fatto. Ero il primo cliente quel mattino. Attesi cinque minuti, poi la saracinesca si alzò e mi apparisti tu, estremamente sorpresa nel vedermi. Non ci eravamo più incontrati da quel venerdì di metà luglio che ci aveva visti intimamente insieme per la prima volta. Era passato ormai un mese, con sporadici e brevi contatti telefonici. Per questo avevo deciso di venire da te, anche se non avevo bisogno di qualcosa in particolare. Dovevo però capire, c’era qualcosa di sfuggente che non riuscivo ad afferrare. Dopo quel nostro incontro infatti, ogni volta che ci eravamo parlati, mi eri apparsa insolitamente fredda e distaccata. Ciao, come stai? Non so quando potrò chiamarti. Ho un sacco di cose da fare… e avanti su questo tono, senza una parola affettuosa o un tono amorevole nella voce. Era strano, solo pochissimo tempo prima eravamo stati a letto insieme e, non avevo dubbi, eravamo stati felici, tanto felici, ma ora questo repentino cambio di umore e atteggiamento. “Ciao, Stella, per caso c’è qualche premio al mattino per il tuo primo cliente?” “Che ci fai qui?” “E’ un nuovo modo di salutare? Scusa ma, almeno un ciao amore me lo sarei aspettato.” “E’ che… non mi aspettavo di vederti, mi hai sorpreso…” “Sembra quasi che tu abbia visto un orco. Sono così brutto?” “No, no, non è questo. Su, entra.” Entrai e mi avvicinai per baciarti ma tu, con mia enorme sorpresa, ti ritraesti. “Che fai? Volevo solo darti un bacio.” “No, ora no.” “Cosa significa, ora no? C’è qualche momento deputato ai baci, per caso? Al mattino non si può? Si fa solo dopo i pasti? Guarda che mica sono medicine…” “Ho paura che ci vedano Se qualcuno entrasse…” “Va bene, ho capito, non è giornata. Senti, me ne vado e magari, se vuoi, cercherai di spiegarmi che ti succede. Non sei la solita Stella. C’è qualcosa che non va.”
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“Perché dici questo?” “Perché dopo la nostra notte insieme tu sei cambiata, il tuo atteggiamento e il tuo tono nei miei confronti sono diventati più freddi, distaccati.” “Se lo dici tu… a me sembra di essere sempre uguale.” “Be’, ti assicuro che non lo sei. Comunque ciao, ci sentiamo quando mi chiamerai tu, visto che io non lo posso fare.” “Ti chiamo nel pomeriggio.” dicesti, mentre uscivo senza voltarmi. Fosti di parola: “Ciao…” “Ciao…” ti risposi, in tono abbastanza freddo. Tu attendesti un po’, cercavi le parole, poi le trovasti: “Devo cercare di farti capire cosa sto provando. La mia è una continua lotta interna. Siamo sempre in due, con due modi di pensare. Una parte di me ti vuole e ti desidera come mai mi era successo nella vita. Ma l’altra mi frena e mi schiaccia con i sensi di colpa. E’ proprio questo il mio dilemma: io sento un desiderio irrefrenabile di donarmi a te, ma al tempo stesso vengo sopraffatta da questa situazione, che comunque mi fa mentire agli altri, non mi fa essere sincera. E poi c’è un’altra cosa: ho paura di appoggiarmi troppo a te. E se un giorno non avessi più il tuo amore, che farei?” “Stai dicendo delle stupidaggini. Il mio amore è tuo per sempre, te l’ho detto e sono pronto a sottoscrivertelo. Tu devi fare ciò che ti fa stare bene. Se sono io a farti stare bene, appoggiati pure a me, sosterrò entrambi. Io ho bisogno di te e tu di me.” “Ma io ho troppa paura che tra due, tre, quattro anni potrai non essere più vicino a me. E allora cosa farò? Forse è meglio soffrire tanto ora, per poi poter guarire piano piano, piuttosto che soffrire un domani per sempre, senza scampo…” Stavo per ribattere ma tu aggiungesti bruscamente: “Devo riattaccare, è entrato qualcuno in negozio. Ciao…” Rimasi sgomento, senza sapere cosa pensare. Ero convinto che al cantiere avessero fatto sparire il cadavere sotto quella colata di cemento e avevo la certezza che lì sotto ci fosse proprio Sarnielli. Avevo assoluto bisogno di trovare delle prove che mi permettessero di tornare dalla polizia, ma dovevo trovare un poliziotto che mi desse più fiducia di quel Buscemi. Pensai di andare da Antonio. “Pronto, Antonio, sono Alessandro, scusa la telefonata, ma volevo passare da te per dieci minuti.”
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“Mi farà piacere, vieni pure.“ “Arrivo tra mezz’ora.” Dopo un’ora ero da lui: “Mi dispiace Antonio, per tuo padre, mi dispiace molto.” “Ti ringrazio. Purtroppo se n’è andato, anche se ancora non mi sembra possibile. Era così prudente, quando guidava…” Non replicai subito. Lasciai passare qualche istante, poi gli chiesi: “Antonio, so che i rapporti di tuo padre con Vito Zagaria non erano idilliaci…” “Erano pessimi ma, cosa c’entra Zagaria?” “Dimmi come mai, per favore.” “Be’, vedi, mio padre è stato sindaco qui, lo sapevi?” “Me l’hanno detto.” “Bene, questo lo portò a scontrarsi con parecchie persone, e con Zagaria in particolare. Lui non è abituato a sentirsi dire di no.” “Riguardo a cosa?” “All’approvazione di un progetto immobiliare che voleva realizzare, guarda caso, proprio sulla proprietà di mio padre, perché molto vicina al mare. Questo fu il motivo delle sue ripetute insistenze per acquistarla, che non riuscirono però a far cambiare idea a mio padre. Si trattava di un hotel e diversi appartamenti, ma sarebbe stato un vero mostro edilizio. Vedi, papà si è sempre comportato secondo giustizia, sia con il debole che con il potente, senza creare favoritismi con chicchessia. E proprio con Don Vito ebbe parecchie accese discussioni, senza mai cedere, perché considerava deteriore ciò che voleva attuare quel signore il quale poi, resosi conto che mio padre non avrebbe cambiato idea, giunse perfino a minacce esplicite nei suoi confronti.” “Come lo sai?” “Me lo disse papà. Una sera ricevette una visita di Zagaria in persona. Questi a un certo punto perse le staffe e, visibilmente alterato, pronunciò queste parole: “Si ricordi Sarnielli che io, quando voglio una cosa la ottengo e gli ostacoli che trovo lungo la mia strada mi possono rallentare, ma prima o poi li spazzo via.” “Prendo atto che mi sta minacciando.” rispose mio padre. “Quando è avvenuta questa discussione?” “All’inizio di quest’anno.” Rimasi un attimo pensoso, poi gli chiesi ancora: “Hai pensato che potrebbe non essere stato un incidente?”
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“No… perché? La dinamica è stata ricostruita e lui deve aver perso il controllo della vettura, per schivare un furgone che gli aveva invaso la corsia. E’ precipitato in un avvallamento, la macchina ha preso fuoco e non c’è stato nulla da fare. Così hanno raccontato i due testimoni.” “Già, i due testimoni…, sai chi sono e dove potrei trovarli?” “Si, ma me ne ricordo solo i nomi di battesimo: Enzo e Sante. Abitano qui in paese. Se vai al bar da Rosalia, che sta di fronte al porto di Cedara, di sicuro li trovi. Sono clienti abituali, visto che sono dei perdigiorno. Ma, mi vuoi dire cosa succede?” “Non preoccuparti, va tutto bene. Tornando all’incidente, il corpo è stato identificato?” “No, è stato impossibile. Sono andato personalmente per il riconoscimento e purtroppo avrò sempre davanti agli occhi quel suo corpo carbonizzato.” “Chiaramente la prova del DNA non aveva motivo di essere richiesta…” “No, infatti, ma… cosa stai insinuando?” “Proprio ciò che stai pensando.” “Cioè che… quello non fosse mio padre?” “Può essere.” “No, sei pazzo!” “Può darsi.” “E’ impossibile!” “Credi?” “Ma cosa te lo fa pensare?” “Per il momento è solo un’ipotesi, ma non posso dirti niente di più. Prima devo trovare delle certezze, e quando le avrò, sta’ sicuro che verrai a saperlo.” Tornai a casa e, appena arrivato, dovetti far fronte a una fila di gente in procinto di andarsene che voleva pagare, altri chiedevano informazioni di vario genere, due tizi avevano bisogno di attrezzi da lavoro per sistemare delle piccole avarie ai loro mezzi. Soddisfai ogni richiesta, poi finalmente arrivò un po’ di calma e tirai il fiato. Il giorno passò ma la notte non passava mai. La tensione non mi fece dormire. Vennero le cinque del mattino e mi dissi: “Che ci sto a fare qui, a consumare le lenzuola girandomi e rigirandomi senza un attimo di pace?” Mi decisi. Sarei andato al porto a vedermi
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l’alba e il ritorno dei pescatori dal mare. “Magari mi verrà l’ispirazione, chissà!” Mi vestii, uscii di casa e vidi un cielo sgombro da nuvole, che già si tingeva di chiaro. Sarebbe stata una bella giornata di sole. Attraversai il paese deserto e arrivai alla piazza, che dava direttamente sul piccolo porto. Parcheggiai il camper in un posto destinato solo a soste brevi per il carico e lo scarico, nonostante gli spazi fossero tutti vuoti, ma era come togliersi uno sfizio: era bello uscire a quell’ora e sentirsi padrone della città. Già un’altra volta ci ero andato in passato. Non c’era anima viva. Solo due cani randagi si aggiravano tra i cassonetti della spazzatura. Ciò che avevo sempre detestato dei luoghi da dove provenivo era tutto quel caos, quella frenesia che coinvolgeva e contagiava chiunque ci vivesse, determinata dalle mille cose da fare e dal tempo che non bastava mai, perché lo si sprecava nel fare slalom a schivare le persone, nel rimanere imbottigliati negli ingorghi e nelle code, o nel litigare per due metri di parcheggio. Ormai erano tutte cose che si accettavano supinamente come fisiologiche, con quel senso di fatalità di chi guarda scendere la pioggia, o cerca di ripararsi dal sole cocente, sapendo che fa parte del corso della vita, e non può opporvisi, ma solo aspettare che passi. Io però non ce l’avevo fatta ad accettare tutto questo. La vita io la intendevo diversamente, e lì, in quella nuova terra, ne avevo scoperta una che mi faceva stare bene. Raggiunsi la riva, da cui partiva una lunga barriera di cemento che proteggeva al piccolo porto. Si poteva percorrerla a piedi e mi incamminai. Finiva proprio in mezzo al mare, dove si godeva di una vista stupenda sulla costa. Il paesino di Cedara risultava una piccola manciata di case colorate, con le tinte ancor più accentuate dalla luce radente del sole che era sorto da poco. Mi sedetti su un grosso masso di cemento e rimasi lì a guardare, sfiorato da una piacevole brezza con un forte odore di salsedine. Pensai a te. Accidenti al tuo silenzio e a questa inconcepibile volubilità. Proprio in quel momento: “Pronto, ciao, sei sveglio?” “Ciao, finalmente! Si, sono fuori dalle cinque, non riuscivo a dormire. E tu come mai sveglia a quest’ora?” “Anch’io non ce la facevo più a stare a letto. Dove sei?” “Sono al porto.” “Che ci fai al porto?” “Guardo il mare, le sue onde, i suoi colori, guardo il sole e penso a te.”
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“Faresti meglio a non pensarmi.” “Perché? Che vuoi dire?” “Che il nostro è un amore impossibile.” “E’ un grande amore e c’è.” “Si, ma è impossibile. Io non riesco a continuare. Mi sento falsa e sporca. Non riesco a mentire.” “E’ per questo che non mi hai più chiamato?” “Si.” “Che storia è questa?” “Ma non capisci? Io ho un marito, se non ti ricordi!” “Lo so che hai un marito, ma so anche che tu ami me e non lui.” “Mi dispiace, è difficile per me e ora devo stare per conto mio. Lasciami da sola per un po’.” “Per un po’?” “Per qualche giorno. Ho bisogno di riflettere.” “Non capisco, ma ok, se vuoi star da sola, rimani pure da sola. Aspetterò.” “Grazie e ciao, ci sentiamo.” “Ciao… ti amo.” “Anch’io. Questo però non cambia la situazione.” Ero perplesso: non ti capivo. D’accordo che eri sposata e io no, ma ritenevo ciò che ci univa superiore a tutto. Da quando ti amavo, vivevo ogni cosa in modo diverso, sentivo che le emozioni stavano penetrando sempre più in me, affinando la mia sensibilità in un modo a cui ancora non credevo. Quando da quell’amore ero stato avvolto, pensavo di averlo scoperto e capito in ogni senso, ma mi stavo rendendo conto che esso si evolveva continuamente e ogni giorno era maggiore di quello prima. Mi mostrava sempre nuove sfaccettature e ne rimanevo stupito, ammirato. Quell’amore era stato il mezzo che mi aveva permesso di risvegliarmi dentro e capire la bellezza di vivere. Mi sentivo come un bimbo che si sorprende di ogni cosa nuova, come quando tocca per la prima volta l’acqua o la neve, oppure si affascina guardando il fuoco e sentendone il calore. Non avevo mai pianto in vita mia, non avevo mai saputo cosa fossero le lacrime, ma ora mi capitava a volte di piangere come un bambino. Davvero non mi ricordavo quando era stata l’ultima volta. E se prima le lacrime pensavo venissero solo quando hai il cuore triste e sofferente, ora piangevo spesso di felicità e l’evento scatenante poteva derivare da dolci note, o dalla frase di una canzone o di una poesia, o ancora dalla
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scena di un film, o un fatto di vita quotidiana. E questo mi faceva pensare che, quando accade una cosa simile, non esiste colpa o peccato, perché le lacrime derivano dall’amore e l’amore è solo purezza. No, non mi sentivo affatto in colpa per amarti. La sensibilità dimora in ogni uomo, ma spesso giace sopita, addormentata come in una specie di lunghissimo letargo. E solo se i raggi del sole primaverile filtrano dentro a rischiararla e riscaldarla, essa si può svegliare. A me era successo proprio questo e il mio raggio di sole eri stata tu. Tirai fuori un notes e una biro dalla tasca, vergando alcune parole sulla carta. Poi intascai quelle cose e alzai lo sguardo verso il mare. I primi pescherecci stavano rientrando. Mi alzai per tornare alla banchina, dove ad attendere i pescatori c’erano le loro spose, che avevano sistemato dei tavolini con sopra dei contenitori e delle bilance, ma anche qualcosa di caldo, tè o caffè, per riscaldare i loro uomini. Mi avvicinai, c’era altra gente, una decina di persone che nel frattempo si erano radunate, attendendo di vedere il pescato. Le barche a una trentina di metri dal molo spegnevano i motori, avanzando per inerzia, fino a posarsi contro i respingenti di protezione, lasciandosi legare docilmente con le cime a riva. Scesero due pescatori, portando dei secchi con dentro il frutto di una nottata passata in mare. Non era granché e le loro facce ne erano l’espressione: stanche, tirate e velate di delusione. I secchi vennero svuotati nei contenitori sopra ai tavolini e il contenuto venne poi diviso in base al tipo di pescato. In breve, tutto quel poco finì smistato in qualche borsetta di plastica, che quattro o cinque persone si portarono a casa soddisfatte. Avevo calcolato che ogni pescatore si era messo in tasca ottanta o novanta euro. Considerando il prezzo del carburante, senza contare le ore passate in mare, non era molto, proprio no. Un pescatore è come un abile ed esperto giocatore, a volte dotato anche di classe e abilità particolari, i cui avversari sono il mare e… la sorte. A volte perizia, esperienza ed acume possono però non bastargli e spesso ne esce sconfitto, come il Santiago di Hemingway. Ma non si arrenderà mai, saprà rialzarsi e attendere la prossima partita, perché è stato sconfitto, ma non battuto e per la sua famiglia, per i suoi combatterà e vincerà ancora. Erano quasi le otto e dovevo ritornare.
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Composi il numero: “Pronto, buongiorno, sono Alessandro Casati, vorrei parlare con il signor Zagaria. “Attenda un attimo, prego…”. Circa un minuto dopo: “Signor Casati, come va? Mi chiama in merito al nostro affare?” “E’ così, signor Zagaria. Ecco, io ho riflettuto accuratamente e sono giunto a una conclusione. Mi dispiace, ma la mia risposta è no.” Alle mie ultime parole seguì un silenzio pesante, interrotto poco dopo dalla voce di Zagaria, fattasi improvvisamente grave e seccata: “Va bene Casati, ho capito…” davanti al cognome era sparito il signor “… va bene. Ma potrebbe pentirsi della sua decisione.” “Perché dovrei? Penso sia quella giusta per me.” “A volte la decisione giusta può non essere la più intelligente. Buongiorno.” Troncò bruscamente il dialogo, come non aveva mai fatto. Evidentemente era rimasto alquanto contrariato dalla mia risposta. Io però, in quel momento, tirai finalmente un sospiro di sollievo. Mi ero tolto un peso che mi portavo da parecchio.
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Il messo comunale arrivò mentre stavo chiacchierando con una coppia di ospiti genovesi. Scese dall’auto e mi consegnò una busta, facendomi firmare la notifica. Mi scusai con quelle persone e aprii la busta, impallidendo nel leggerla. “Il Sindaco, -con riferimento alla sua domanda del cinque febbraio 2006, tesa ad ottenere la licenza per la gestione di un’area attrezzata alla sosta di veicoli ricreazionali sul terreno di sua proprietà in località Cedara; -considerato che si è ravvisata la possibilità di inosservanze delle norme riguardanti le distanze da tenere per l’insediamento di strutture fisse dal confine con le altre proprietà, nonché l’uso di falde acquifere e della rete fognaria in territorio comunale senza aver chiesto e ottenuto la preventiva autorizzazione; ordina - a far data dal 1 ottobre 2006 la sospensione di tale attività, in attesa degli opportuni accertamenti. Il Sindaco Strazzeri Vittorio Cedara, 22 settembre 2006.” Ero incredulo e rilessi un’altra volta quelle righe, ma alla fine mi convinsi che era vero. Di lì a una settimana non avrei più potuto lavorare. “E’ impossibile ciò che mi appuntano.” pensai. “Salvo è così preciso e mi aveva assicurato che era tutto a posto con le carte e con i timbri! D’altra parte le ho proprio io, le licenze!” Entrai subito in casa, mi diressi a una credenza, aprii un cassetto, dove tenevo una cartella con tutta la documentazione relativa al progetto ma,
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con mio stupore non la trovai. Cercai anche negli altri cassetti con il medesimo risultato. Ero sicuro di averla riposta e tenuta sempre lì. Come mai non c’era? Guardai un po’ dappertutto, ma senza esito. Con crescente nervosismo chiamai subito Ayala: “Salvo, mi è successa una cosa assurda: il Comune mi sospende la licenza dal prossimo mese.” “Che cosa? E perché?” “C’è scritto che secondo loro non sono in regola con le fognature, le falde, i confini…” “E’ impossibile! Hai gli originali delle autorizzazioni. Era tutto in regola.” “Si, mi ricordo anch’io, e le ho cercate per rileggerle, ma… non ci sono…” “Come non ci sono?” “Non le trovo, Salvo, sembrano sparite!” “E’ davvero strano. Comunque calmati, vado subito in Comune per capire che accidenti gli è saltato in mente.” “Ok, fammi sapere.” “Stai tranquillo, tutto si chiarirà. Ho seguito personalmente la cosa e ti assicuro che hanno preso un granchio. Ti chiamo più tardi.” Le ore successive le vissi con crescente nervosismo, aspettando notizie da Salvo. Finalmente mi chiamò: “Alessandro, vieni da me appena puoi.” In mezz’ora ero da lui. “Allora?” gli chiesi con ansia. “Allora ti devo dire che non ci capisco niente. Mi hanno fatto un sacco di difficoltà e pare non si trovino le tue carte. Mi hanno detto che forse sono nell’ufficio del Sindaco, ma lui è assente e tornerà domani.” “Che cosa pensi?” “Non so.” “Accidenti! Andava tutto così bene! E ora che faccio?” “Ora devi solo stare calmo, vedrai che risolviamo la faccenda.” “Già! Proprio adesso che mi ero deciso a dirlo a Zagaria.” “Dirgli che cosa?” “Che non intendo vendere. L’ho chiamato due settimane fa. Per la verità non mi è sembrato molto contento, ma sono affari suoi.” “Ora mi spiego tutto. Sbagli a dire che sono affari suoi. Ricordi cosa ti dissi, quando appresi che ti aveva chiesto di comprare?” “Che cosa?” chiesi con aria perplessa.
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“Che un eventuale tuo rifiuto avrebbe potuto nuocerti, conoscendo Zagaria. E penso proprio che questa novità della sospensione della licenza sia proprio da collegare a lui. C’è un sacco di gente sul suo libro paga. Ti parlai di mafia, ricordi? Ecco, amico mio, penso che tu ora ci sia proprio andato a cozzare contro.” “Intendi dire che dietro alla decisione del sindaco c’è lui?” “Non vedo altra spiegazione e il fatto che i documenti di concessione che avevi tu e che erano archiviati in Comune siano spariti, non fa che confermare i miei sospetti. Come diavolo possono sparire dei documenti protocollati? Eppure nei registri non se ne trova traccia.” “Quindi è tutta una manovra per mettermi i bastoni tra le ruote e convincermi a cedere.” “Si, e onestamente non vedo molte vie d’uscita. Se ti hanno preso di mira non ti lasceranno in pace finché non avranno ottenuto ciò che vogliono. Se rifletti, tu senza licenza non puoi lavorare.” “E io che volevo solo vivere tranquillo.” “Che tu possa farlo non dipende da te ormai.” Rimasi assorto a pensare, senza parlare. Salvo mi chiese: “Che intendi fare? Io cercherò di parlare con il sindaco, ma non mi faccio molte illusioni, se le cose sono come penso. Sei in una situazione molto spiacevole, purtroppo.” Rimasi ancora in silenzio, inseguendo mille pensieri e all’improvviso divenni rosso in viso e sbottai in un impeto di rabbia: “Non gliela do vinta! Non so cosa, ma qualcosa la voglio fare. Perché dovrei cedere? C’è tempo per farlo. Ora no. Devo pensare, riflettere. Tu fammi sapere se c’è qualche novità, Salvo. Ora torno a casa. E’ ancora casa mia, cazzo!” Ma a casa mi sentivo in gabbia, improvvisamente privato della libertà di disporre della mia vita. Pensavo e ripensavo, ma non mi veniva in mente nulla. Ciò che riuscii ad elaborare fu di andare direttamente dal sindaco a parlare e ci andai il mattino dopo. Ma in Comune mi venne detto che il sindaco era molto occupato e non poteva ricevermi. Nel pomeriggio tentai per telefono e rimasi in attesa per un bel po’. Stavo per perdere le speranze e convincermi che, ancora una volta, il sindaco si sarebbe negato, ma a un tratto una voce mi rispose: “Buongiorno, sono il sindaco, mi dica pure: “Signor sindaco, sono Alessandro Casati e la chiamo per una notifica che ho ricevuto relativamente alla mia attività di…” L’interlocutore mi interruppe: “Ah si, mi ricordo, per la licenza dell’area di sosta. Mi dica pure.
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“Be’, volevo chiederle spiegazioni, perché sono passati solo pochi mesi da quando avevo ottenuto i permessi e tutto risultava in ordine. Ora invece ho questa sorpresa e non mi so spiegare…” “Vede signor Casati, ci sono stati dei controlli al nostro interno, che hanno ravvisato la possibilità di errori intervenuti al momento del rilascio delle sue concessioni. Quindi è necessario fare delle verifiche per appurare che ogni cosa sia in regola. Tra l’altro non ci risultano mai concesse quelle autorizzazioni. Se ha dei documenti ce li porti.” “Ma non li trovo più!” esclamai costernato. “Forse non li ha perché non esistono…” replicò ironicamente il sindaco. “Ma che sta dicendo? Non sono mica matto! E poi il mio geometra…” Il sindaco mi interruppe: “Chi è il suo geometra?” “Salvo Ayala.” “Ah, Ayala…”, disse, quasi in tono canzonatorio. “Comunque abbia pazienza. Verranno fatti i necessari sopralluoghi.” “Ma intanto io non potrò lavorare!” “Mi dispiace, signor Casati, ma è necessario pazientare. Faremo ogni cosa nel tempo più breve possibile.” “Mi scusi signor Sindaco…” Venni interrotto dalla sua brusca risposta, che aveva tutta l’aria di un benservito: “Ora purtroppo la devo lasciare, ho degli impegni urgenti. Ma non si preoccupi e attenda nostre comunicazioni. Buongiorno signor Casati.” Ero inebetito e rimasi così per qualche attimo, dimenticando di premere il tasto che interrompeva la comunicazione. Con sorpresa a un tratto sentii delle voci uscire dal cellulare ancora attaccato al mio orecchio. Era evidente che anche dall’altra parte avevano commesso la stessa mia disattenzione, lasciando aperta la comunicazione e per giunta in viva voce, perché ora sentivo il sindaco conversare con un’altra persona. “Ma ti rendi conto, Vittorio? Anche questo zingaro con la carovana mi doveva capitare!” Riconobbi quella voce, era Zagaria. Non so come ebbi la prontezza di spirito di afferrare il lettore MP3 che tenevo in tasca, appoggiarlo al telefono, attivare a mia volta il viva voce e la registrazione vocale. La cosa poteva essere interessante. Zagaria continuò: “Non bastava quello stronzo di Sarnielli! Ma voglio quella terra e non sarà certo un campeggiatore qualsiasi a fermarmi. Mi voglio sbarazzare anche di lui, sono certo che sa cosa è successo al vecchio.”
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“Be’, ora non può più lavorare e prima o poi dovrà rassegnarsi.” “Già, e io aspetterò, tanto, prima o poi sarà lui a tornare da me!” “Certo, Vito.” “Si, ma devo sempre essere io a sistemare le cazzate degli altri! Sono circondato da un branco di idioti, come quei due che non sono riusciti a gestire la faccenda quella sera con Sarnielli. Ma dico, due uomini grandi e grossi si sono lasciati sfuggire di mano la situazione con un vecchio. Dovevano solo spaventarlo e invece non hanno trovato di meglio che ammazzarlo. Comunque l’unica cosa positiva è che me lo hanno tolto dalle palle. Faceva meglio a non dirmi di no.” “Ed è finito sotto terra…” “Proprio sotto terra non direi.” “Lo so, era per dire.” “Comunque, dove si trova ora, Sarnielli ci rimarrà! Vittorio, mi raccomando con Casati, devi fargli terra bruciata intorno, finché non si convincerà che è meglio per lui cambiare aria.” “Abbiamo già iniziato. Non preoccuparti. Poi, ecco… sai che ci tengo a quella cosa…” “Quando sarà tutto finito non preoccuparti, la otterrai. Io mantengo sempre la mia parola.” “Certo Vito.” Il colloquio terminò. Ero incredulo che gli eventi avessero preso improvvisamente una piega per me così favorevole. Ora avevo un quadro chiaro di molte cose. Ed era tutto memorizzato sul mio apparecchio. Già, la registrazione, era troppo importante per rischiare di perderla, così accesi il computer e riversai i dati, salvandoli in un cd, di cui feci due copie, che nascosi con cura in due posti diversi, per non correre il rischio di non perdere quella che era una confessione bella e buona. Anche perché ne ero sicuro, già una volta qualcuno si era introdotto in casa mia per farmi sparire i documenti e poteva succedere senz’altro ancora. “Caro Zagaria, mi sa che le cose andranno diversamente da come credi.” Mi soffermai a pensare al contenuto di quel colloquio. Era proprio Sarnielli a essere stato ucciso e il motivo era che neanche lui aveva voluto piegarsi a Zagaria. Ancor più interessante era la conferma che era stato fatto sparire proprio in quel cantiere. La precisazione di Zagaria, non proprio sotto terra, quindi sotto a qualcos’altro, per esempio a del cemento, era stata eloquente. Temendo che la sua sparizione potesse in qualche modo convogliare su di lui i sospetti, visti i suoi rapporti tesi con il povero Sarnielli, aveva pensato bene di ideare la messinscena
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dell’incidente, allo scopo di giustificare la sua scomparsa. Morte accidentale. L’idea del fuoco era anche azzeccata, così a quel cadavere irriconoscibile poteva essere attribuita qualsiasi identità e due testimoni pronti allo scopo erano la classica ciliegina sulla torta. “Ottimo” pensai, la mia buona stella mi aveva appena dato una mano e vi confidavo ancora. Già, Stella, non ti sentivo da un po’. Pensai di venire da te in negozio quanto prima, per vederti. Mi mancava il tuo viso. Attraversai la strada e lo sguardo, come sempre quando passavo di lì, ormai andava dritto a un negozio là in fondo, a circa cinquanta metri. “Ciao Stella.” pensai. In quel momento uscisti dalla porta proprio tu, quasi mi avessi sentito. Mi vedesti subito, ti portasti le mani ai fianchi, inclinando ironicamente la testa di lato, il volto ti si illuminò, e io fui raggiunto da uno sguardo sorridente che ben conoscevo e che solo a me era riservato. Annuii leggermente con il capo, eravamo in strada, di più non potei, ma per te fu come essere accarezzata. Il tuo umore mi sembrava cambiato. Rientrasti felice. Io lo sapevo. Salii subito in auto e mi recai in quel bar. Ma come potevo individuare i due uomini? Se avessi chiesto di loro avrei fatto sorgere dei sospetti, e anche se mi fossero stati indicati, cosa sarei andato a dire o chiedere a questi tipi? E poi io volevo solo vederli in faccia. No, la cosa migliore era sedersi a un tavolo, ordinare qualcosa e aspettare, visto che Salvo mi aveva detto che bazzicavano lì spesso. Dovevo quindi soltanto vigilare sul via vai degli avventori e sulle loro chiacchiere. Erano le sette di sera e il bar era abbastanza frequentato a quell’ora, da gente che, dopo aver finito il lavoro, si fermava per un bicchiere prima di rincasare. Il tempo però passava e non succedeva niente di interessante. Dopo quaranta minuti trascorsi infruttuosamente, stavo per alzarmi e andarmene a casa, quando sentii qualcuno al banco dire: “Uè Sante, mi offri ‘nu bicchiere?” Mi voltai in quella direzione e vidi una persona di spalle che si dirigeva verso un uomo al banco, evidentemente quello che lo aveva chiamato. Seguii la scena, impaziente di vedere quel tipo in faccia, e finalmente, dopo poco, questi si voltò e… “Bingo! Quello lo conosco. E’ quello che mi è venuto incontro e mi ha riempito di insulti, quando sono andato al cantiere e uno di quelli che sono venuti a portarmi l’invito per il party di Zagaria. Però, che strana
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coincidenza. Scommetto che se vedessi anche l’altro tipo, Enzo, di sicuro scoprirei che è un altro dei miei messaggeri”. Non feci in tempo a finire il pensiero, che quel Sante stava battendo la mano sulla spalla di un altro tizio arrivato in quel momento, rivolgendosi alla barista dicendo: “Rosalia, da bere anche per Enzo!” “Perfetto!” conclusi “il quadro è perfetto. Anche il secondo testimone è scagnozzo di Zagaria.” Infatti era l’altro uomo che si era presentato quel giorno da me con l’invito al party. Potevo tornarmene a casa. Non so cosa mi spinse davanti a quella casa a un piano, attaccata sul lato destro a un grande capannone, dentro al quale c’erano un TIR e tre camion di dimensioni più ridotte e a premere il campanello. Forse il bisogno di far sentire, in qualche modo, una sorta di solidarietà alla persona che mi aprì. La signora, in abito grigio scuro, mi chiese: “Desidera?” “La signora Lo Prete?” La donna mi guardò e mi rispose con un velo di amara ironia: “Sono la vedova Lo Prete.” Vedere quel volto mi rattristò e le dissi: ”Mi dispiace signora, sono al corrente della sua perdita e sono venuto proprio per questo. Anche se non ci conosciamo, volevo dirle che, ecco… mi dispiace per suo marito.” “E’ un poliziotto? O un giornalista?” “No, no, abito qui da qualche mese, ho un’attività…” “So chi è lei. E’ quello che ha aperto quel posto dove sostano i camper, vicino a Cedara.” “Esatto, signora, mi chiamo Alessandro Casati. Vorrei chiederle qualcosa sul lavoro di suo marito. Sono franco con lei e le dico che ho sentito delle voci riguardo a presunte richieste di tangenti rivoltegli e a prestiti a usura contratti da lui. Dato che, per certi versi, sto avendo anch’io problemi del genere, volevo capire come…” “Venga.” mi interruppe la signora e, voltandomi le spalle, entrò in casa. Io la seguii e chiusi la porta dietro di me. Ci sedemmo e iniziò a parlare: “Mio marito aveva avviato l’attività da circa due anni e pochi mesi dopo ricevette le prime richieste di pizzo, che per la verità ci aspettavamo. Qui funziona così. Inizialmente si parlava di cifre abbordabili, come
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quattro, cinquecento euro al mese. L’attività andava bene e, tutto sommato, avevamo pensato potesse essere accettabile. Ma circa tre mesi dopo, gli importi che ci venivano chiesti cominciarono ad aumentare di volta in volta e in modo sempre più esorbitante tanto che, ad un certo punto, assorbivano completamente i margini di profitto dell’attività di mio marito, impedendogli di far fronte agli impegni con i fornitori. Evidentemente era una tattica collaudata che, nel momento in cui l’imprenditore si veniva a trovare in difficoltà, prevedeva di proporgli dei prestiti. Purtroppo ne sottoscrivemmo uno anche noi e questa fu la mazzata finale. Ciò che ci veniva chiesto in restituzione era qualcosa di esponenziale. Per farle un’idea, se un mese ci venivano prestati diecimila euro, il mese dopo gliene dovevi restituire tredicimila o giù di lì, e lascio a lei fare il conto. Così ci venimmo a trovare strozzati dai debiti, finché un giorno mio marito prese la decisione di andare alla polizia e denunciare tutto. Sapeva benissimo cosa rischiava, ma ormai non aveva altra scelta.” “E lo fece? Voglio, dire, denunciò la cosa?” “Si, andò in questura e parlò con un ispettore, ma non gli parve che lo prendesse sul serio.” Il mio pensiero andò subito a quel Buscemi. Era un bel filtro in questura per Don Vito e ne aveva fatti, di danni, quella mela marcia. La signora continuò: “Se ne tornò a casa e due giorni dopo morì, lasciandomi in un mare di debiti. Ora sto per vendere tutto quello che mi è rimasto, la casa, il capannone, i camion, e poi, con quello che mi rimarrà, dopo aver pagato i debiti, cioè quasi niente, mi trasferirò. Ancora non so dove, ma qui non ci voglio più rimanere.” Fu interrotta da due voci infantili: “Mamma, guarda cosa abbiamo fatto.” Due bambini a cui diedi sei e dieci anni circa, erano entrati in cucina con una specie di aquilone in mano e lo stavano mostrando alla madre. “Le dicevo che ancora non so dove andrò…” proseguì la signora Lo Prete “ma lontano da qui, per cercare di dare un futuro migliore a loro, in un posto diverso. Questo è stato ingrato con la mia famiglia.” disse, guardando i bambini. Non sapevo che dire. Mi aspettavo qualcosa del genere, ma sentirmelo raccontare in un modo così schietto e crudo, mi turbò profondamente. “Come si chiamano?” le chiesi, indicando i suoi figli, mentre si allontanavano per uscire a giocare. “Gianni e Federico.”
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Li guardai in silenzio poi, alzandomi, aggiunsi solo: Mi è stata di grande aiuto, signora. Ora so cosa devo fare.�
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CAPITOLO SETTIMO
Dovevo chiedere una cosa a Francesca. Entrai nell’agenzia, lei era nel retrobottega e riapparve quasi subito, piacevolmente sorpresa della visita: “Ciao caro, come va?” “Va così, non è un gran periodo questo, purtroppo.” “Che c’è?” “Ho dei problemi burocratici con il Comune, ma li risolverò.” Le raccontai la mia disavventura e lei alla fine mi disse: “Mi dispiace, se potessi fare qualcosa…” “Non preoccuparti, sopravviverò. Senti Francesca, hai visto Stella ultimamente?” “Si, l’ho vista cinque o sei giorni fa, perché?” “Come ti è sembrata? Voglio dire, di che umore era? Come l’hai vista?” “A dirti la verità l’ho vista un po’ giù di tono, e la cosa mi è sembrata un po’ strana, perché in questo ultimo periodo era veramente su di giri. Chissà come mai… ma che avevate combinato insieme, voi due?” “Che regalo ci hai fatto Francesca, mettendoci a disposizione la tua casa.” “So che l’avete trovata accogliente, vero? Dài, non serve che mi ringrazi. Te l’ho, detto, sono felice quando posso far contenta Stella, e ora lo sono perché lo sei stato anche tu.” “Sai, proprio per questo ti ho chiesto come l’hai vista. Le cose andavano benissimo tra noi, ma ultimamente mi ha fatto dei discorsi strani.” “Ti ha parlato di sensi di colpa e cose del genere?” “Si, ma lo sai?” “Lo intuivo. La conosco e mi chiedevo quanto ci avrebbe impiegato ad andare in crisi. Vedi Alessandro, tu ancora devi scoprirla del tutto. Lei con te si è abbandonata a sentimenti ed emozioni che le mancavano da chissà quanto tempo, ma in lei coesistono due persone: una passionale e una razionale. Ora sta prendendo il sopravvento la seconda, che non approva questa relazione, perché è extraconiugale, perché la fa vivere nella paura di essere scoperta e la fa sentire in colpa nei confronti di suo marito e anche delle persone che la conoscono. Lei è stimata e rispettata in paese. Chissà cosa penserebbe la gente di lei se veniste scoperti?”
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“Scusa Francesca, le posso dare buone le remore verso il marito, che obbiettivamente sta tradendo, ma non quelle verso la gente e la paura di cosa possa dire e pensare di lei, perché questo mi sa tanto di bigotto. Che ne sanno gli altri di noi in realtà? Che ne sanno dei nostri problemi, delle nostre necessità? Eppure si permettono di giudicare, si immischiano in faccende che non li riguardano e di cui non sanno un bel niente, si permettono di sputare sentenze in piazza, ma la sera chiudono la porta di casa e per loro non esistiamo più. Ciascuno pensa solo a se stesso! E allora perché devi aver riguardo per chi non ha riguardo di te?” smisi di parlare per qualche secondo e mi calmai un po’. Poi conclusi: “No Francesca, credo proprio di conoscerla molto bene e sono sicuro che lei non lo fa per paura delle chiacchiere, ma per un altro motivo che invece rispetto.” “Vedila come vuoi. In ogni caso lei è comunque una donna molto complicata. Io stessa, in tutti questi anni, non l’ho ancora capita del tutto e certe volte ci rinuncio proprio. Ho imparato ad accettarla per come è. Se ti posso dare un consiglio, fa anche tu così. Vivi questa avventura con lei, godendo dei momenti belli e accettando quelli tristi, aspettando che passino. Se, come penso, tu sei così importante per lei, vedrai che poi tornerà da te.” “Sei stata preziosa e ti ringrazio. Tuo marito è un uomo fortunato ad averti. Ciao, cara amica.” “Ciao, anima in pena.” Mancava una settimana al giorno in cui avrei dovuto sospendere, speravo per poco, la mia attività, ma non sapevo come trarmi fuori da quell’impaccio. Ero consapevole di avere un’arma importantissima nelle mani: la conversazione registrata di don Vito con il sindaco. Si, era decisamente un asso nella manica, ma come e quando giocarlo, per non sprecarlo? Non era poi così semplice, non bastava andare alla polizia, come avevo avuto modo di sperimentare. Mi dedicai al mio lavoro ma, via via che si avvicinava il 30 settembre, diventavo sempre più nervoso. Avevo esposto già davanti al mio ufficio un cartello a grandi caratteri, che informava della prossima chiusura E il 30 settembre arrivò. Alle 20.30 l’ultimo camper oltrepassò il cancello e si diresse verso altre mete. Dall’ultimo contatto avuto con te quel giorno per telefono, quando mi trovavo al porto, non ti avevo più sentita. Ma mi chiamasti proprio quan-
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do ti stavo pensando. Avevi saputo da Francesca di quella non esaltante novità, e forse avevi sentito il bisogno di farmi sentire che mi era vicina. “Ciao, ti ho chiamato per sapere come stai. Ho saputo dei tuoi guai e mi dispiace tanto.” “Sto bene, grazie e non devi preoccuparti. Tu invece?” Rispondesti dopo un po’, con voce sommessa: “Hai una domanda di riserva?” “Mi dispiace che tu ti senta così. Se potessi aiutarti…” “Stai tranquillo, mi conosco e so che ogni tanto mi vengono questi momenti di crisi, ma ho imparato ad accettarli e so che dopo un po’ passano. Ti dico solo di stare tranquillo. Io ti sono vicina e ti amo tanto.” “Queste tue parole, soprattutto le ultime, mi fanno sopportare ogni cosa, mi ridanno morale e non sai quanto. Come va con tuo marito?” “Chiedilo in giro,” rispondesti in tono amaramente sarcastico, “magari ne sanno più di me. A casa non c’è mai e, quando c’è, non me ne accorgo.” “Mi dispiace…” “Non importa, non sono scema e capisco che per lui non conto granché. Ma spero di contare un po’ di più per qualcun altro.” “Ti posso andar bene io?” Questa volta lasciasti riposte dentro di te pause e silenzi e rispondesti di getto: “Ti amo da morire.” “Pensi di continuare il tuo silenzio?” ti chiesi. “Non lo so… no… no Alessandro, l’ho terminato adesso!” “Amore mio!” esclamai “Incontriamoci, vuoi?” E tu, come se ti fossi liberata da catene invisibili, iniziasti a parlare senza freni: “Si, amore! Mi sento come una bimba smarrita, non so da che parte andare, mi manchi tanto e sto soffrendo. Voglio fare l’a… no, voglio venire a letto con te! Così rendo bene l’idea?” “Sei chiarissima tesoro, è impossibile tenere a freno questa forza meravigliosa e incredibile e spero tu lo abbia finalmente capito.” Questa volta prendesti una grossa manciata delle tue pause e silenzi, che ci tennero al telefono per tanti, tanti minuti. Non ci preoccupammo però di non sentire le nostre voci, perché ci parlavamo con il cuore. Poi fosti tu a dirmi: “Oggi mi mancava l’aria, sei tu la mia aria e senza aria non si vive. Sei l’unica persona vivente che mi capisce ed è consolante sapere che ci sei. Sei la mia unica forza e sono contenta che tu capisca i miei momenti tri-
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sti. Sai, è come un bisogno di fermarmi, per poi riprendere la carica. Ma ora non mi sento più suora e sto facendo dei pensieri da non poterti dire. Mi manchi e io non voglio essere la più forte. Le tue mani mi hanno fatto provare brividi mai provati. Ho tanta voglia di te, voglia di toccarti, di accarezzarti, voglia di essere toccata, accarezzata, baciata…In questo momento vorrei essere baciata dalle punte dei piedi ai capelli, come sai fare tu in maniera stupenda.“ “Sei pazza, ma è proprio così che mi piaci. Guarda però che te ne ho dati tanti, di baci e carezze l’ultima volta…” “Si, ma ho finito le scorte…” “Si può rimediare quando vuoi. Vieni qui da me, a prenderti ciò di cui hai bisogno, come in un granaio. Il mio grano per te è tutto il mio amore, quando lo prenderai, anche me ne darai.” Ci fu un altro lungo silenzio, durante il quale continuammo a parlarci forse più di quando le nostre labbra pronunciavano parole. Poi ti dissi: “Amore, se ci incontriamo, che cosa mi faresti? Vediamo se è la stessa cosa che vorrei farti io…” Rispondesti senza esitazioni: “Penso proprio sia la stessa.” “Allora decidi per favore. Io sono quello che dei due ha meno problemi. Dimmi tu quando…” “Va bene, ci penserò.” Non ci pensasti molto. La sera stessa ero seduto fuori, sotto al portico e ti vidi arrivare. Ne fui enormemente sorpreso e immensamente felice. Mi alzai dalla sedia e rimasi in piedi, con le mani ai fianchi, aspettando che scendessi dalla macchina. Quando mi fosti di fronte ti dissi: “Ti va un caffè?” “Ora no, dopo!” Ti attaccasti a me con una forza che mi sorprese, ma la mia sorpresa aumentò quando ti sentii singhiozzare, dapprima sommessamente, poi sempre più forte, sino a che i singhiozzi divennero incontrollabili. Sentii la mia camicia sul petto intrisa delle tue lacrime, che sgorgavano copiose. Non mi venne altro che baciarti quegli occhi umidi e arrossati, dicendoti: ”Va tutto bene, amore, va tutto bene…” “Si…” rispondesti con un filo di voce e, come le volte precedenti, non accennavi a staccarti, quasi volessi assorbire dal mio corpo le forze che ti mancavano.
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Poi alzasti gli occhi incontrando i miei, ora avevi il volto più disteso. Quindi chiudesti le palpebre e aspettasti un bacio, che non si fece attendere. Senza staccare le labbra dalle tue, indietreggiai lentamente e ti portai in casa, richiudendo la porta con un piccolo calcio. Poi ti chiesi: “Adesso lo vuoi il caffè?” Tu rispondesti sorridente, serena e sicura: “Non me ne frega niente del caffè…” e mi cercasti freneticamente, infilandomi le mani sotto la maglietta. “Sei morbido…” Io ti imitai, intrufolandomi sotto alla tua camicetta. “Anche tu non scherzi.” “Mmhh, se fai così mi mandi in paradiso! Lo sai che la schiena è la mia parte più sensibile?” “No, non lo sapevo, ma ora che lo so…” risposi, intensificando le carezze. Poi aggiunsi: “Più… più sensibile di qualsiasi altra parte del tuo corpo?” ”Mmhh… Spiritoso! Spiritoso e mascalzone!” Un’ora dopo eravamo distesi a letto, estremamente rilassati. Tutt’attorno il pavimento era colorato di indumenti in ordine sparso. “Dopo l’amore sei ancora più bella.” “Non è molto il tempo che abbiamo potuto trascorrere insieme, finora, ma ti giuro che in questi brevi momenti ho ricevuto da te così tanti complimenti, come mai mi è capitato in tutta la mia vita. Ti amo e vorrei poter vivere per sempre con te. A volte mi trovo a pensare che potrei mollare tutto e fuggire via, ma poi torno con i piedi per terra e mi rendo conto che il mio resterà solo un sogno. Dovevamo incontrarci vent’anni fa io e te. Ma dov’eri?” “Ero già in cerca di te, però la strada era lunga e sono arrivato solo ora. Ma non è mai troppo tardi.” “Non ci può essere futuro per noi due…” dicendo queste parole ti rabbuiasti. “Non dire così, prendiamo ciò che ci viene dato, giorno dopo giorno. Ricorda che il sole c’era ieri, brilla oggi e non c’è motivo di dubitare che risplenderà anche domani. Su con la vita! La riempiremo di tante cose belle, vedrai!” Ti girasti a pancia in giù, distendendo le braccia lungo il corpo e volgendo il viso dalla mia parte. Poi mi dicesti:
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“Al di là di tutto so che domani pagherò questa serata. La mia coscienza si farà sentire.” “Mi dispiace…” esclamai a bassa voce. “Non importa, è un problema mio. Sono stata io a voler venire qui da te stasera, e ti giuro che ne avevo una voglia e un bisogno immensi, a cui non ho saputo resistere. Ma non mi pento e accetto anche i miei turbamenti successivi. Il fatto è che io e te siamo due persone con due diversi modi di pensare. E’ questa l’unica grande differenza tra noi. Ma ti ringrazio per ciò che mi stai dando.” La mia mano vagava instancabilmente lungo tutto il tuo corpo, dai capelli ai piedi, donandoti calde sensazioni che ti facevano sfuggire dei gemiti continui, chiara espressione di una pace estatica, che i tuoi occhi chiusi e il viso disteso lasciavano trasparire. Guardandoti, vedevo chiaramente riflesse, come in uno specchio, nuvole di emozioni provenienti dal tuo cuore. Piegavi e distendevi la gamba destra, esile e affusolata, in un lento ma continuo tendersi e rilassarsi della muscolatura, sotto quella pelle lucida e delicata. Un vezzo notato già la prima volta con te. Lo facevi quando ti sentivi totalmente rilassata. A un tratto apristi gli occhi e mi abbracciasti, attirandomi a te per cercare il bacio, che io non ti negai ed ebbe l’effetto di una scintilla, che innescò nuovo desiderio. Riprendemmo così a darci l’amore e ogni volta scoprivamo che era diverso dalla precedente, facendoci viaggiare su nuovi sentieri di sconfinato abbandono. I nostri corpi si sfregavano, si accarezzavano sino a unirsi in un tutt’uno, sprigionando mille sensazioni, dalla gioia al piacere e dal piacere all’estasi; tutte cose che si potevano tradurre con una sola parola: amore. Rimanemmo insieme fino alle quattro del mattino, poi a malincuore decidemmo che era venuto il momento di lasciarci. Io ti dissi scherzando: “Mi raccomando, fa piano quando rientri e non mi svegliare Enrico.” “Ma dài, schiocchino, lui non c’è a casa, è ovvio!” Ridemmo. Dieci minuti dopo ci stavamo dando l’ultimo bacio. Quel riposo forzato stava mettendo a dura prova i miei nervi, anche perché non riuscivo a vedere vie d’uscita, ancora all’orizzonte. Era il 10 di ottobre e in Comune tutto taceva, nonostante mi fossi recato lì già un
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paio di volte per cercare di smuovere la situazione e ottenere quel benedetto sopralluogo. Poi mi ero però reso conto di essere stato un ingenuo a pensarlo, visto quello che sapevo. Nessuno avrebbe mandato nessuno o, se fosse accaduto, chissà quando e con quale esito? Avevo sentito chiaramente il Sindaco fare il signorsì con Zagaria, quindi, se volevo sperare in una soluzione, dovevo cercarla altrove, magari pilotandola. Alla polizia ci ero già andato e mi avevano fatto passare per visionario. Mi ritrovavo così ogni volta a dirmi povero illuso. L’unica cosa bella di quel momento di impasse nella mia vita eri tu. Ci sentivamo praticamente ogni giorno. Squillò il telefono. Eri tu e ogni volta eri meglio di una medicina. “Cù cù…” esordisti “sono io. E tu ci sei? Come stai?” “Tesoro, certo che ci sono e, visto che mi hai chiamato, per premio ti dirò che non c’è nulla di così grande che possa contenere l’amore che ho per te, tranne il mio cuore.” Era evidente, eri proprio una gran romantica anche tu. Me lo disse la tua voce tremante: “Non ho parole, dopo queste tue parole.” “Allora ascolta queste: le grandi cose della vita sono invisibili. La grande gioia, il grande dolore, il grande amore non possono essere detti e spiegati.” Ora la tua voce era ferma e decisa: “Se le grandi cose della vita sono invisibili, tu allora per me sei invisibile.” “Sei incredibile. Ogni volta che ti vedo, che ti parlo, che faccio qualsiasi cosa con te, mi emoziono come un innamorato al primo appuntamento. Svegliarmi con te, fare colazione, telefonarti, fare la spesa, passeggiare, cenare, andare da amici, guardare un film, andare a letto, fare l’amore con te. Tutto mi emozionerebbe come quella sera in cui ci siamo abbracciati la prima volta.” “Ti amo e basta…” “Ti amo e basta…” ripetei io. “Ma che fai… ripeti le mie parole? E va bene, se io e te ci amiamo e basta, penso che così possa bastare!” Scoppiai a ridere: “Sei troppo simpatica! Come fai a essere così? E’ bello parlarti, tu sai rendermi allegro.” “Ma come fai a ridere? Guarda che il mio era un discorso serissimo!”
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“Ah certo, non ho dubbi! Senti, piccola…” “No, aspetta” mi interrompesti: “Senti tu, c’è una cosa che voglio dirti da un po’, ma non ne avevo mai trovato il coraggio. E’ … una cosa un po’ forte, ma voglio che tu la sappia…” Per qualche attimo regnò il silenzio, poi ti risposi: “Ok, dimmi, ti ascolto.” “Voglio dirti che, ti amo così tanto, che vorrei…” Ti interrompesti, presa da un’emozione, che anche se prevista, si rivelò molto più intensa di quanto potessi immaginare. Ti ricomponesti a fatica, schiarendoti la voce e continuasti: “Ti amo così tanto che vorrei darti un figlio!” Ti sentii sospirare profondamente, per poi esclamare: “Auff! Ce l’ho fatta! Non avrei mai creduto! Hai capito? Vorrei darti un figlio e sono sicura che lo cresceremmo bene, noi, un figlio tutto nostro. Anzi, una figlia e so anche come si chiamerebbe: Gioia.” “Amore, sono io ora a non aver parole dopo ciò che mi hai detto! Questa è più di una dichiarazione d’amore!” “Avrebbe i capelli biondi e gli occhi azzurri, proprio come il papà.” “Bionda o mora l’importante è che sarebbe nostra figlia.” “Alessandro, sai che, prima di chiamarti, avevo appena fatto la doccia e subito dopo mi sei venuto in mente tu, con dei pensieri… E ti ho chiamato immediatamente.” “Mi sembra normale; anch’io come te, dopo la doccia, ho il desiderio di prenderti dolcemente per fare l’amore con te. Morale: per evitare le tentazioni bisogna rimanere sporchi.” Ti sentii singhiozzare e temetti un’altra delle tue crisi improvvise: “Che fai, stai piangendo?” “Si…” rispondesti tra le lacrime. Allora ti dissi: “Ehi, guarda che scherzavo! Era solo una battuta!” “… di gioia…, piango di gioia! Quella frase: prenderti dolcemente e fare l’amore mi ha fatto impazzire! E’ proprio così che voglio essere presa ed è proprio così che tu sai prendermi.” “Sei fatta per essere presa solo così.” “Stasera, anziché fare la doccia, credo che andrò a letto sporca. Meglio non alimentare desideri!” “Sarai lo stesso profumatissima di te.” “Sei unico! Sto ripensando ancora a quella frase. E’ una delle cose più belle che tu mi abbia mai detto!.”
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“Se fossi lì con te, ti farei io la doccia, ma non ti dico i dettagli, li lascio alla tua scoperta, quando lo faremo davvero, Stellina. Ma ora va, altrimenti, se andiamo avanti così, faremo l’amore per telefono.” “Io invece voglio farlo ancora davvero!” esclamasti, con voce felice e io non mi trattenni dal dire: “Incredibili e fantastici il temperamento e la voglia che hai di voler vivere l’amore. Sei così… pura emozione.”
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CAPITOLO OTTAVO
Il giorno dopo ti chiamai io in negozio, di primo mattino. Se avesse risposto qualcun altro, mi sarei inventato una scusa. “Sono Alessandro, volevo sapere se avevi fatto la doccia, ieri sera.” esordii scherzando, ma tu non rispondesti e avvertii subito un umore in te completamente diverso. Dovetti insistere altre due volte, perché ti decidessi a parlare, ma non fu ciò che mi attendevo: “Ti prego, lasciami in pace, oggi…” “Lasciarti in pace? Perché, ti do fastidio?” “Cerca di capire, per favore…” “Di nuovo le tue crisi?” “Si…” rispondesti con un filo di voce. “Ma se sono passate solo poche ore da ieri, eri così felice…” “Te l’ho detto, sono fatta così. In questi momenti non sono contenta di niente e mi accorgo che tu non mi conosci sotto questo aspetto. Da una parte mi dispiace che tu abbia conosciuto di me solo il mio lato migliore, che non sapevo neanche di avere. Credo che, se mi avessi conosciuto profondamente, anche in momenti come questo, non ti saresti innamorato di me. Scusa lo sfogo, ma oggi sono inquieta.” “Ma… e io che avevo pensato di organizzare qualche ora da passare insieme…” “No.”, rispondesti decisa. “No? Di cosa hai paura?” “Scusa, ma la mia non è assolutamente una paura di ciò che mi puoi o vuoi fare. Mi sembra di averti dimostrato che mi piace tanto come abbracci, come coccoli, come stringi, come accarezzi, come baci, come ti inventi, come mi ami, insomma. Il problema non è questo. E’ che qualcuno mi sta continuamente frenando. Ti chiedo scusa, ma questa sono io.” Ero rassegnato. Mi stavo rendendo conto che tu eri proprio così, prendere o lasciare. Parlai allora con tono grave e severo: “Mi dispiace, ma credo di aver capito. La cosa che chiedi l’hai trovata in me, ma sembri rifiutarla. Tu cerchi un posto nel mio cuore, lo vuoi e ce l’hai, ma allunghi sempre la mano per poi ritrarla.” “Certo, può essere, ma io non sto bene neanche adesso. Io sto bene solo quando sono nella dimensione sogno. Sai qual è la dimensione so-
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gno? Quando sogno di me e di te, che molliamo tutto e scappiamo per vivere per sempre insieme.” “Ti ostini a non voler comprendere la cosa fondamentale: le passioni fanno parte di noi e vanno vissute, lasciandole andare, assecondandole. Quel momento magico dell’amore a cui non si può resistere, non facciamolo passare, non perdiamolo…è il momento in cui si manifesta la Vita. Nessuno ci può togliere il piacere di vedere le cose belle per come sono, perché solo noi possiamo farlo, fra tutti gli esseri viventi. Solo noi possiamo guardare le stelle, il mare, gli uccelli che volano e provare emozioni. E non possiamo inibirle queste emozioni, non possiamo rifiutare questo dono riservato solo a noi. Il vero amore dà senso a tutta una vita, ci fa scoprire dentro noi stessi. E ciò che amiamo ci verrà restituito. Allora diamoci tempo, ti prego, diamoci tempo e proviamo a riempirci e a farci prendere dal nostro amore, lasciamoci scorrere dentro di noi, come non abbiamo mai fatto finora. Perché Stella, rifiuti la felicità? Per questo tuo marito? Sai una cosa? Oltre all’amore infinito che provo per te, provo anche rabbia. Tanta rabbia dopo aver capito tante cose. Tu vuoi amore, ma non so se quello che cerchi c’è a casa tua. C’è qualcuno in cui probabilmente non devi più riporre speranze, per non soffrire più, per tanti motivi che ora mi sono chiari, perché credo di conoscerlo. Scusami, spero che non consideri questa, come una intromissione in cose che non mi riguardano, ma il mio amore per te è la giustificazione. Se una donna non si può toccare neanche con un fiore, tu non dovresti essere sfiorata nemmeno dall’aria che il fiore muove. Ma qui invece vieni percossa violentemente e non posso accettarlo. Poco tempo fa mi hai detto che è come se tu non esistessi per lui. E’ per una persona così che vuoi immolarti?” Riuscisti a balbettare: “Scusa…, scusami tanto per come sono.” Subito dopo ti chiesi: “Ci sentiamo?” Tra le lacrime rispondesti: “Non so… no, forse è meglio di no. Sarebbe solo alimentare dolore e sofferenza.” Io, con la voce velata di tristezza, risposi solo: “Si…” poi tu: “Bene… ciao e sta’ tranquillo. Ricorda sempre che ti amo.” Da me uscì solo un laconico e mesto ciao. Stavolta però ero notevolmente contrariato da questo tuo ennesimo cambio di umore. Avrei dovuto essermi abituato, ma ogni volta ne rima-
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nevo spiazzato. Era difficile reggere i tuoi repentini mutamenti. Non ero abituato a dire parolacce, ma in quel momento: “Cazzo, a volte è proprio una stronza con me. E’ tutto così… irrazionale!” Non capivo mai come comportarmi, cosa fare. E allora mi veniva una rabbia incontenibile, poi però, inspiegabilmente, pensando a te mi sbolliva e fu così anche quella volta. Era come se mi avessi stregato. “Cazzo, quanto ti amo!” Il tempo sembrava non passarmi mai, quando mi chiamò Antonio. Voleva sapere se c’erano sviluppi, cosa intendevo fare, non mi aveva più sentito. “Allora, novità?” Ancora non me la sentii di svelargli ciò che sapevo: ”No mi dispiace. Ti prego di pazientare, ti chiamo io, ma solo se avrò certezze.” Antonio era deluso, e lo avvertii dal tono della risposta: “Va bene, ho capito. Ma tu mi hai messo una pulce nell’orecchio che non mi fa dormire, cerca di capirmi.” “Ti capisco benissimo, ma tu cerca di capire me. Ciao, Antonio.” Rientrai con l’auto a casa e, con mia sorpresa, vidi che c’era un’altra auto ferma nel cortile. La curiosità fu subito dissipata vedendo le facce ormai a me ben note di Enzo e Sante. Parlò Sante: “Baciamo le mani, signor Casati, come sta?” Io non risposi al saluto e li apostrofai bruscamente: “Che volete?” “Il signor Zagaria ci ha incaricato di dirle che le vuole parlare. Salga, le diamo uno strappo.” “Mi dispiace, ma se il Signor Zagaria vuole parlarmi, può venire lui qui da me. E ora per favore, scusatemi, ma ho parecchie cose da sbrigare.” Mi voltai per allontanarmi verso casa, quando quello che conoscevo per Sante, mi disse: “Strano che abbia così tante cose da fare, ora, signor Casati.” Quella frase equivaleva a una presa in giro bella e buona. Lo fulminai con lo sguardo e risposi: “Credo non siano affari vostri. Arrivederci.”
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Ma l’altro insistette e stavolta cambiò anche tono di voce, passando da quello melenso di poco prima a uno più secco ed autoritario: “Sarà bene che non si faccia pregare. Le chiedo di salire in auto.” Capii che la situazione si stava trasformando in qualcosa di inusuale, ma prima che potessi ribattere, fu Enzo a dirmi: “Faccia come dice il mio amico… mi creda, è meglio per lei.” Dopo aver pronunciato queste parole, tirò fuori dalla tasca un coltello a serramanico, cominciando a giocherellarci, lanciandolo in aria e afferrandolo prima con una mano, poi con l’altra. “Non abbia timore, dopo la riportiamo qui, non ci vorrà molto.” Mi resi conto che quell’invito ora aveva preso i connotati di una minaccia e decisi che conveniva obbedire. “Maledizione!” pensai, “e tutto per un accidenti di pezzo di terra!” Senza dire niente, mi diressi all’auto e salii, imitato dai due, che non dissero più una parola. Zagaria mi accolse nel salotto che ormai conoscevo bene e, senza i complimenti della volta precedente, ma pur sempre in modo educato, mi invitò a sedermi. Attesi che parlasse e fui quasi subito accontentato: “Beve qualcosa? Vuole un sigaro, signor Casati?” “Mi dica cosa vuole: non mi è per niente piaciuto questo prelevamento forzato.” “Sarebbe venuto altrimenti?” mi chiese ironicamente Zagaria, senza ottenere risposta. “Bene, vedo che non risponde. Mi dispiace ma ho dovuto e andrò subito al nocciolo della questione. Ci sono due cose che mi stanno a cuore: la prima è la mia offerta, sempre valida.” “Le ho già risposto, mi dispiace…” “Bene, come immaginavo, passiamo ora alla seconda. Vede Casati, a volte ci sono momenti della vita in cui si è fortunati, altri in cui lo si è di meno, per esempio quando ci si trova in un posto nel momento sbagliato e si vedono cose che non si dovrebbero vedere. Capisce cosa intendo?” Mi sentii gelare. Lo sapevo benissimo, ma gli risposi meccanicamente: “No, me lo spieghi lei.” “Visto che fa finta di non capire, le parlerò senza girare intorno alla questione. Lei sa a cosa mi riferisco e, converrà con me, che, da quando è successo un certo fatto, lei non mi fa stare molto tranquillo e l’unica cosa che può farmi stare tranquillo è che lei…”
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Quel discorso lasciato in sospeso era un modo per farmi leggere tra le righe: poteva succedermi qualcosa, qualsiasi cosa. Rimasi in silenzio e fu lui a continuare: “Ma so anche essere comprensivo e ci può essere un’altra soluzione. Io le ho detto ciò che mi sta a cuore e ora passiamo invece a qualcosa che sta a cuore a lei, così, magari se ce le scambiamo, potremo essere felici entrambi.” Quell’uomo, ogni volta che mi parlava, riusciva sempre a sorprendermi e a irritarmi. Gli chiesi: “Dove vuole arrivare? Che cosa ci può essere che mi sta così a cuore?” “Bravo, cuore penso sia la parola giusta. Ok, allora vedo di metterla così: lei è venuto qui in Sicilia sicuramente con delle aspettative, innanzitutto di lavoro e mi pare che queste siano state soddisfatte. A quanto mi risulta gli affari le vanno bene, non è vero?” “Mi andavano bene, fino a che ho dovuto chiudere.” “Ah, non lo sapevo. E come mai?” Fui sul punto di saltargli addosso e sferrargli un pugno. Come poteva mentire così spudoratamente? Ma mi trattenni e risposi: “Non lo sa? Strano, mi sembra che lei, di solito sia ben informato su ciò che succede qui intorno. Comunque, ipotizzando che non lo sappia, il Comune mi ha sospeso la licenza, in attesa di verificare cose non meglio precisate.” “Oh, mi dispiace.” “Che razza di ipocrita!” pensai tra me e stavo per scoppiare a quell’ultima bugia, ma lui riprese a parlare: “Mi stia a sentire, Casati: lei ha trovato un lavoro redditizio in una terra affascinante, tra gente ospitale e simpatica.” Lasciavo che parlasse, senza intervenire. “Penso che non lo possa proprio negare. Mi risulta che si sia fatto parecchie amicizie in paese.” “La sua affermazione conferma che sa tante cose…” “Casati, che ci vuol fare, il paese è piccolo, la gente mormora e tra questi mormorii ho sentito anche che, tra le sue amicizie, ce n’è una in particolare. Anzi, è meglio dire una molto particolare, o sbaglio?” “Non so a cosa si riferisca.” risposi, ora abbastanza inquieto. “Veda Casati, qui noi abbiamo parecchie cose degne di nota: la terra, il paesaggio, il sole, la cucina e… le donne.” Non mi aspettavo quell’ultima parola, che mi fulminò. Visibilmente imbarazzato replicai: “Le donne…?”
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“Eh già, le donne. Le ha trovate talmente interessanti che se ne è anche trovata una con cui ci va a letto.” Appena terminata questa frase, Zagaria mi fissò attentamente negli occhi, per scrutare le mie reazioni, che furono di incredulità, ma soprattutto di vergogna, come quella che prova un bambino sorpreso in flagrante mentre ruba la marmellata. Sapevo a chi si riferiva, anche se mi stupiva che lo sapesse. Eravamo sempre stati così attenti, io e te, ma evidentemente non abbastanza. Forse eravamo sempre stati seguiti, controllati su ordine suo e, francamente, questa era forse l’ipotesi più probabile. ”Be’, non mi dice niente?” mi incalzò Zagaria, cercando di rimuovere il mio silenzio. “Mi dispiace, ma non so di cosa parli.” mentii ingenuamente, conscio ormai che quell’uomo sapeva proprio tutto. “Non faccia così, devo ricordarle luoghi, situazioni, date? O vuole che le dica chi?” “Chi…?” risposi, sentendomi nudo, di fronte all’imminente pronuncia di un nome che immaginavo bene quale fosse e che, se fino a quel momento era la più bella parola che avessi sentito mai pronunciare, ora la temevo come un colpo di spada. “Mia nipote. Conosce mia nipote, vero? Molto bene, o sbaglio?” Ammutolii e Zagaria mi diede un attimo di tregua. Stava giocando con me come il gatto con il topo, tenendomi in pugno. Ma la tregua durò poco: “Vedo che non ha niente da dire. Meglio così, è inutile negare, lo ha capito, vero? Stella, mia nipote.” Tentai una vana difesa: “Stella e io ci amiamo…” “Oh certo, dicono tutti così ma, premesso che Stella non sa che io sono al corrente di tutto, le chiedo una cosa: non le fa nessun effetto andare a letto con una donna sposata?” Cercai di darmi un contegno dignitoso, poi risposi: “Sono cose che lei non può capire.” “Oh, se è per questo, le capisco fin troppo bene! Mi creda, certe cose vanno contro la morale e non le accetto.” Non credevo a ciò che sentivo: quell’uomo senza scrupoli mi parlava di morale. Era incredibile!” Zagaria proseguì: “Comunque non mi fraintenda Casati, non mi sto preoccupando di Enrico. Anzi, le dirò che mi è sempre stato un po’ sulle scatole. Quando Stella mi disse che avevano deciso di sposarsi, non fui per niente entu-
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siasta e cercai di dissuaderla in ogni modo. Non lo vedevo il tipo che poteva farla felice.” “Vuol farmi credere che le importava qualcosa della sua felicità?” “Io le voglio bene, non mi crede?” Si fermò un momento, come a voler dar forza alle parole successive: “Comunque vedo invece bene lei, assieme a Stella e, anche se non mi crederà, ciò che sto per dirle, mi dispiace. Vengo al punto: quanto ci tiene a Stella? Quanto le sta a cuore?” Non risposi. "Allora mi conferma che le sta a cuore più di ogni altra cosa?" "Senta, comincio a spazientirmi!" "Più ancora di possedere il suo terreno? O della sua vita? O di Stella?” L’aveva pronunciata, finalmente, quella minaccia. “Si ricorda cosa le dissi tempo fa? Che io, se voglio una cosa, prima o poi la ottengo, costi quel che costi." "E... cosa significa?" "Significa questo: voi fate tutto alle spalle di Enrico e le ho detto che certe cose… mica si fanno, miezzica! Potrebbero succedere altre cose. La prima è che Stella ora conduce una vita agiata, ha un negozio ben avviato ma, come ha potuto constatare lei stesso, le licenze vengono date, però possono anche essere revocate.” Sbottai in un’amara risata: “Poco fa ha detto che le vuole bene: è questo il suo bene? Anche solo pensare di agire in qualche modo contro di lei è di una bassezza inqualificabile. E’ una magra soddisfazione, purtroppo, avere la conferma da ciò che dice, chi è lei. Anche la mia licenza è stata revocata: sia sincero, mi dica che è stato lei!” “Lui non si scompose e, come se niente fosse, continuò: “La seconda è che entrambi sappiamo una cosa e ciascuno di noi vorrebbe che l’altro non sapesse o… tacesse. Ecco ciò che le propongo: lei tace e mi cede il terreno, io taccio e la lascio andare, aggiungendo in più la mia parola che anche a Stella non succederà mai nulla…” Notai un sorriso beffardo in lui e gli urlai: “Non mi curo di ciò che possa succedere a me, ma stento a credere che davvero farebbe qualcosa a Stella. Ma ce l’ha un cuore, lei? E’ sua nipote, che diamine!” “Gli affari sono affari. Non si arrabbi, dopotutto, se ci pensa, le cose non stanno proprio così male. Basta che lei faccia ciò che le chiedo e non succederà nulla. L’unica cosa che perderà sarà una donna. Ma ce ne sono così tante, grazie a Dio, a questo mondo, che si consolerà prima o poi
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con un’altra e potrà ripartire con il lavoro da un’altra parte. Be’, sta a lei ora e ci rifletta.” "Mi alzai di scatto, dicendo: "Ha altro da dirmi?" "No, è tutto." Mi diressi verso la porta senza salutare. Nessuno mi trattenne. Ero chiuso in casa da parecchie ore e l'aria era intrisa di fumo azzurrognolo. Fumavo una sigaretta dietro l'altra. Avevo vagliato mille volte ogni conseguenza fosse scaturita dal piegarsi o meno a quel diktat. Se avessi rifiutato mi sarebbe successo di sicuro qualcosa e non me ne importava, ma per il bene che ti volevo non potevo permettere che succedesse qualcosa a te. Accettare invece significava mandare all'aria mesi di duro lavoro, avrei detto addio alla Sicilia, ma soprattutto a te. Proprio quando credevo di aver trovato il paradiso che cercavo, ora dovevo rinunciarvi. “Maledizione! Perché la vita deve essere così ingrata?” esclamai a un tratto, battendo violentemente il pugno sul tavolo. C'era anche un'altra possibilità, che io e te ce ne andassimo via da qualche parte a ricominciare una vita insieme, ma sapevo bene che tu non saresti mai stata d'accordo. Me lo avevi detto chiaramente, non avresti mai causato la fine del tuo matrimonio con Enrico, nonostante la vostra unione si fosse ormai ridotta solo a quella semplice parola. Non rimaneva che una strada, per me la più dolorosa: se qualcuno doveva soffrire, dovevo essere solo io e non certo tu. Decisi questo con la morte nel cuore. Avrei venduto a Zagaria e me ne sarei andato per sempre da lì, consapevole che non ti avrei mai più rivista. E questa era la cosa che mi faceva stare immensamente male. Ora, prima che a Zagaria, dovevo dirlo a te. Sarebbe stata dura trovare le parole, ma non pensai nemmeno a prepararmi un discorso. Avrei improvvisato. Ti chiamai, fregandomene se avesse risposto qualcuno che non eri tu. “Ciao, sono io.” Notai un chiaro imbarazzo nella tua risposta: “Ah, ciao, come mai mi chiami?” “Come mai? Intanto sono stufo di non poter fare mai niente di mia iniziativa e comunque dovevo parlarti. Dobbiamo trovarci.” “Mi hai preceduto. Anch’io devo dirti una cosa e ti avrei chiamato più tardi.”
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“Va bene. Dove ci troviamo?” “Ci ho pensato. Troviamoci nel parcheggio della stazione di Ragusa. Staremo in auto. Va bene domani alle 21?” “Ok, ci sarò. Tu… come stai?” “Il solito, ma non preoccuparti. Ciao.” Ti vidi arrivare e trovare posto vicino alla mia auto. Pioveva a dirotto. Ti feci cenno di salire da me e lo facesti, tenendo la testa abbassata. “Chi comincia?” ti chiesi. Tu cercasti il fiato per rispondere e lo trovasti: “Comincio io. I miei sensi di colpa sono sempre più forti. Non ce la faccio a continuare così, non voglio fare del male alla mia famiglia. Mi dispiace, ma non posso nasconderti questa parte di me: malinconia, tristezza, sfiducia in me, che ho imparato ad accettare e con cui, con il tempo, ho imparato a convivere. Per me rimane tutto molto difficile e non riesco a mentire. Mi sento sporca, è troppo per me. Quello che ti chiedo con il cuore è di non essere triste, ma continua a mantenere il tuo ottimismo e la tua voglia di vivere. Ti prego fallo per te e… per me.” Fui sorpreso e rassegnato. Ti dissi: “Ho capito.” “Tu sei la persona più grande che abbia mai conosciuto. Sei grandioso.” “Strano modo di dirmi che mi lasci, vero? Dài, dimmelo chiaramente.” “Se proprio lo vuoi sentire… si… ti lascio.” Rimasi in silenzio, guardando fuori dal finestrino. Le gocce di pioggia scendevano lentamente, incontrandosi con altre alle quali si univano, per poi scendere con maggiore velocità per effetto della loro aumentata consistenza. E pensai che era amaramente buffo: anche noi ci eravamo incontrati sulla strada della vita, anche noi avevamo iniziato a camminare insieme, aumentando il ritmo con la forza del nostro amore ancora giovane e già così maturo. Ma, diversamente da quelle gocce, che scendevano seguendo obbedienti le leggi della fisica, tu invece stavi andando contro alle leggi della vita, dividendo ciò che la vita aveva voluto congiungere. Dissi: “Non mi arrabbio con te. Non l’ho mai fatto e non lo faccio neanche ora, perché ti amo. Se non ti amassi mi incazzerei, ma ti capisco. Sei una grande donna.” “… scusa per averti scritto quel biglietto…” “Non devi chiedermi scusa. Quel biglietto ha trasformato la mia vita, che altrimenti sarebbe sempre stata piatta e scialba come è sempre stata.
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Tu invece ascolta bene: non permettere mai a nessuno di trattarti come una cosa. Io so bene perché ti sto dicendo questo.” “Siamo capitati nella vita sbagliata…” sussurrò lei, “ ma questa nostra storia non finirà mai…” Dopo un attimo aggiungesti: “Ti amerò per sempre.” e io risposi: “Lo so e apprezzo che tu me lo dica. Fa bene sentirselo dire.” “Si…” rispondesti con un filo di voce, mentre ora non frenavi il pianto, che ti faceva scendere copiose le lacrime sul viso. Stavi per andartene, quando ti venne in mente di chiedermi: “Tu, cosa dovevi dirmi?” Ti guardai, accarezzandoti la guancia, poi risposi: “Non ha importanza ormai…” Cedemmo alla voglia di darci un ultimo bacio Poi, sempre singhiozzando, te ne andasti. Era finita, ma solo la manifestazione esteriore del nostro amore, non ciò che era in realtà e che sarebbe stato per sempre. Ero disperato, soffrivo indicibilmente. Una volta mi avevi detto di offrire la sofferenza perché da essa potessero nascere cose belle per noi e per gli altri. Io non riuscivo a vederle queste cose belle, io vedevo davanti a me solo…nero. Non avrei mai immaginato che la tristezza fosse di un colore così scuro. Mi venne in mente una frase, letta tanto tempo prima: Spesso l’uomo vede bene Dio soltanto attraverso la lente delle lacrime. Io Dio non riuscivo a vederlo. A me le lacrime facevano l’effetto di non farmi vedere niente. L’alba del giorno dopo mi vide ancora al porto, seduto su uno scoglio, ad attendere l’arrivo dei pescatori. Era il mio pensatoio, quello, ci ero andato tante volte in quel tempo trascorso lì a Cedara. Stavo scrivendo una lettera, ne sentivo un forte bisogno. Più tardi venni da te in negozio e tu trasalisti. Aspettai che servissi un cliente, poi quando se ne fu andato, ti salutai: “Ciao, scusa se mi vedi ancora…” “Perché ti scusi? Ti sembra che mi dia fastidio vederti?” mi dicesti. “Sono passato per darti una cosa.” Presi dalla tasca una busta e te la porsi, accompagnandola con queste parole: “Leggila quando hai un attimo di tranquillità.” Ti vidi emozionarti come solo tu riuscivi e ti dissi:
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“Be’, è solo una lettera, non è il caso di mettersi a piangere…” Mi buttasti le braccia al collo, incurante del pericolo che qualcuno potesse entrare, e mi rispondesti: “Ma non capisci? Hai avuto il mio stesso pensiero!” e prendesti da un cassetto un’altra busta, più piccola della mia. “Stella, sai cosa stiamo facendo?” Ti sforzasti di non scoppiare in pianto e rispondesti quasi impercettibilmente: “Ci stiamo lasciando...” Poi ti ricomponesti e mi dicesti: “Leggila domattina, quando ti svegli. Farò anch’io lo stesso. Sarà come parlarci ancora una volta.” Scossi la testa desolatamente: “E’ assurdo tutto questo… è assurdo!” “Dobbiamo essere forti, ce lo siamo detti, no?” Da me solo un si sussurrato, il fiato non c’era. Il bacio di addio, poi ti guardai un’ultima volta, mi diressi alla porta e uscii. Era mattina, tu apristi la busta con il cuore che batteva a mille per l’emozione, e ti accorgesti che, oltre a un foglio, c’era anche qualcos’altro: era una margherita di campo, un po’ schiacciata, ma ancora profumata. Sorridesti, stupita che riuscissi sempre a stupirti. Leggesti: Caro Amore, la tua è una personalità molto complessa, frutto delle ricchezze che hai dentro. Chi la capisce, divide volentieri con te ogni sofferenza, appagato dalla felicità di conoscerti e dalla gioia di amarti per ciò che possiedi. Stare vicino a te mi ha convinto che, di ogni parola, ogni frase o complimento che ti ho rivolto in questi mesi, nulla è stato sprecato. Sono solo gocce di un mare che rimane da dire, per esprimere tutta la bellezza di cui tu sei l’espressione più vera. Ti vorrei felice e soffro tanto, perché non lo sei. I tuoi occhi tristi me lo hanno detto. Questi giorni che ci aspettano, di noi forzatamente lontani, ma mai così vicini, mi segneranno ancor più profondamente, se ciò è possibile. Con i nostri occhi ci parlavamo più che con fiumi di parole. Ho paura per te, ti prego, non facciamoci sconfiggere dai rimpianti per ciò che avremmo voluto fosse stato, ma gioiamo per ciò che abbia-
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mo, che è tanto e che nessuno potrà mai portarci via. Tu hai te, con il tesoro di valori inestimabili che ti porti dentro e che mi ha fatto amare in modo così incredibile una donna. E hai questo mio amore, che è tuo per sempre e che spero potrà darti in qualche modo un po’ della gioia e della felicità che cerchi. Non so se per me sarà lo stesso, perché sono pazzo di te. Di te mi fa impazzire il tuo cuore, la tua allegria, la tua bontà, ma anche la tua innata femminilità, che traspare da come ti muovi, da come parli, da come sorridi o ti adiri, da come guardi un oggetto da acquistare mentre fai la spesa, da come sbrighi le faccende di casa, da come ti fai capire quando hai bisogno delle attenzioni che servono a una donna. Ti trovo sexy, eccitante come nessun’altra, per tutte queste piccole sfaccettature del diamante che sei e che, assieme al tuo corpo bellissimo, fanno di te una donna di gran classe, perché tu sei eccezionale nella tua semplicità. Che donna incredibile se! Come potrò fare senza? Hai trovato la margherita, vero? E’ per te, ma non sfogliarla per cercare risposte. E’ un fiore magico, del quale nessun petalo ti direbbe: non m’ama, ma tutti ti sussurrerebbero: m’ama, m’ama, m’ama… Ne nasce uno ogni mille anni così ed era li ad aspettare che lo cogliessi per te. Custodiscilo sempre. Quel fiore sarò io, sempre con te. Ti sto scrivendo dal pontile del porto, il cui ricordo resterà per sempre scolpito nel mio cuore, come ogni attimo trascorso con te. Guardo i pesci, che non vedo in modo nitido, a dispetto della trasparenza di quest’acqua cristallina, per colpa di quella che riempie i miei occhi. E penso che amo l’acqua, amo i pesci, amo il mare, amo la vita, perché la ami tu… perché amo te. Sempre tuo per sempre Alessandro Io aprii la busta, soffermandomi un attimo, perché era intrisa del tuo profumo. Era molto breve, tu eri sempre stata più parca di parole a differenza di me, ma non meno incisiva ed esauriente nei concetti: Ciao mio grande amore, Non sarà difficile svegliarmi domattina e non vedere il mare azzurro, ma sarà tanto difficile non vedere l’azzurro dei tuoi occhi, dove ho trovato amore, sicurezza, comprensione, tenerezza e molto altro. Oggi avrei bisogno di quell’abbraccio stretto e lungo che mi hai donato la prima volta che ci siamo toccati e che porterò sempre con me. Sicuramente diresti ancora: Dio, è incredibile il bisogno di affetto che hai!
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Se chiudo gli occhi e mi lascio andare riesco a sentire le tue mani. Non serviranno parole, quando saremo lontani, ma questo abbraccio mi accompagnerà in ogni momento. Lo stesso puoi fare tu, prendendo una piccola parte di noi e cercando di riviverla. Io sarò lì. Stella Ripiegai quel foglio, delicatamente come se avessi avuto nelle mani un vaso Ming del quattordicesimo secolo, lo infilai nel portafogli, dove ci sarebbe rimasto per sempre, mi alzai, mi diressi all’auto, ci salii, avviai il motore e vi ridiscesi mezz’ora dopo, davanti alla villa di Zagaria, il cui campanello fu oggetto di parecchie nervose sollecitazioni da parte del mio indice, finché la porta si aprì e comparve una sorta di maggiordomo senza l’abito da maggiordomo. “Casati, voglio parlare con Zagaria.” lo apostrofai, senza preamboli. Quello mi squadrò e mi disse di attendere. Dopo qualche minuto riapparve, invitandomi ad entrare. Mi condusse nel salone, poi nel salotto e mi trovai di fronte a quell’uomo che mi aveva sconvolto la vita. Non aspettai un secondo e lo anticipai, dicendo: “Va bene, facciamo come vuole lei.” Zagaria non fece una piega e disse solo: “ok.” “Fissi la data dal notaio.” “100.000. Va bene il prezzo?” chiese Zagaria. Era notevolmente più di quanto fosse il prezzo di mercato e risposi: “60.000. Non voglio niente di più del giusto, da lei.” “Come vuole.” Me ne andai, ormai non avevo più paura. Mi recai a casa di Turi. Non lo avrei più rivisto. “Ciao Turi.” “Ciao Alè, come va?” “Va così, sono stato meglio. Sono qui per salutarti, me ne vado.” “Te ne vai? Perché?” “E’ una storia un po’ lunga e non ha importanza, ormai. Quel che è importante è che penso che noi siamo amici, vero Turi?” “Si, Alè.” “E lo resteremo, vero?” “Si, Alè.” “Bene, ci tengo…” “Anch’io, Alè.”
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“Come sta tua moglie?” “Sta bene, molto bene.” “Sono contento. Senti una cosa: sto vendendo la proprietà e tra poco lascerò la Sicilia. Qui ho passato un bel po’ di tempo e, se ci sono stato bene, devo ringraziare anche te.” “Grazie, Alè.” Io avevo sempre definito Turi un monoespressivo, per quella sua capacità di non lasciar trasparire la benché minima emozione. Dopo quelle mie parole notai un movimento degli zigomi e delle mascelle, come se stesse masticando qualcosa, ma in bocca non aveva niente. “Anch’io stetti bene cuttìa e mi dispiace che le cose andarono così.” “Mi avevi messo in guardia, tu…” “A volte non basta.” rispose il siciliano. “No, a volte non basta. Mi mancherai, Turi. Non fraintendermi, non è per via dell’età, perché tu sei ancora giovane, ma, se non ti offendi, sarai per me il mio secondo nonno.” Turi si voltò, forse non voleva far vedere qualcosa che stava per scendergli lungo il viso e mi rispose: “E tu sarai il mio nuovo nipote.” Ci abbracciammo, senza dire nient’altro. Erano le dieci di sera ed ero a casa da solo, con una enorme rabbia dentro di me, per quella mia condizione di sapere e non potere. Con le prove che avevo potevo incastrare Zagaria in ogni momento. Ma non potevo, perché ciò avrebbe causato del male a te. E così quel malvivente l’avrebbe fatta franca ancora una volta. Aspiravo il fumo della mia sigaretta. Fumavo, pensavo a mille cose e intanto la guardavo, quella sigaretta e le ero grato per la sua compagnia. Lentamente, aspirandone il fumo, introducevo dentro di me una piccola dose di veleno. Dicono che, se giorno per giorno uno prende piccolissime dosi di veleno, lentamente ne rimarrà immune. Un po’ come funzionano i vaccini, no? Che stronzate…. Guardai quella che ormai era divenuta una cicca nella mia mano e feci per spegnerla, ma prima di buttarla le dissi Ciao. La cosa buffa era che non mi sentivo per niente pazzo per quel saluto. Stavo solo salutando chi era con me, oltre alla mia tristezza: una sigaretta. Pensai che la tristezza ti avvolge senza far rumore, come quando nevica e i fiocchi cadono lentamente e silenziosamente, piano piano, coprendo ogni cosa. Una situazione irreale in cui, mentre ne vieni ricoperto, ti
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sembra quasi di sentire i fiocchi che cadono e, con essi, arrivi a sentire anche un immenso e assordante silenzio.
PARTE SECONDA
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CAPITOLO NONO
In due ore avevo ripercorso la mia storia recente Diedi un’occhiata all’orologio: le tre, papà dormiva ancora. Da tre giorni ormai facevo il turno di assistenza di pomeriggio. Per fortuna le cose si erano messe al meglio prima di quanto potessi sperare. A cinque giorni dal ricovero, mio padre aveva cominciato a sillabare qualche parola. Fu l’inizio di un miglioramento progressivo che, da un giorno all’altro lo fece tornare in sé. Faceva dei discorsi abbastanza sensati e rispondeva a tono alle nostre domande, pur alternando ancora dei momenti di delirio, durante i quali vedeva cose o persone immaginarie. Aveva riacquistato una mobilità discreta degli arti, scongiurando così i timori di possibili paralisi. Inoltre riusciva a conversare in maniera abbastanza lucida. Grazie a Dio era tornato come prima! Guardai il malato del letto a fianco, si stava lamentando. Non lo faceva spesso e mi ero fatto un’idea di che tipo fosse. Pensai che quando si lamentava era perché non ce la faceva proprio a sopportare il dolore. Non sapevo cos’avesse di preciso, ma non era importante. Sapere che male avesse, era curiosità fine a se stessa. Chissà perché sentiamo il bisogno di appiccicare a ogni cosa, anche al male, un’etichetta: forse per capire meglio… che cosa? In verità non ne capiamo niente, e non solo noi, ma anche i medici, quei medici pieni di boria e di arie di superiorità, convinti di appartenere a una casta superiore e di essere quindi depositari del potere della vita sull’essere umano. Il signore si era tranquillizzato un po’, mentre papà si era svegliato e voleva un po’ d’acqua. Prima di allora, per me era stato uno sconosciuto; in quei tre giorni mi si rivelò per quello che era e che non avevo mai capito: un grand’uomo. Tra noi non c’era mai stato un vero dialogo anzi, a dire la verità, ogni volta che c’era il rischio di affrontare qualche argomento diverso da un discorso sulla scuola o sulle auto o sul calcio, entrambi ci irrigidivamo, provando un profondo disagio. La colpa era un po’ di tutti e due. Io per quella boriosa superbia giovanile che mi aveva sempre tenuto lontano da lui, offuscando e nascondendo ai miei occhi la bella persona che era e la fortuna di averlo. Lui invece per una difficoltà comunicativa, che traeva origine dalla sua vita, durante la quale aveva sempre dovuto pensare a come tirare avanti,
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a inventarsi mille lavori per sbarcare il lunario. Non aveva mai avuto il tempo di riflettere, di comunicare, non aveva mai avuto tempo di trovare del tempo per sé. Ricordo che partiva molto presto al mattino e rincasava tardi la sera, stanco e svuotato. Tutto questo ci tenne lontani, fino a quelle ore di ospedale, che ci videro invece vicini, come due vecchi amici. Gli porsi il bicchiere, alzandogli la testa e gli chiesi: “Come ti senti, papà?” Lui diceva sempre bene, anche se chiaramente non era così. “Ho la testa che mi gira ancora, ma meno. Chiama la mamma e dille che non serve che venga qui, oggi. Sarà stanchissima, è meglio che se ne stia a casa a riposare.” “Sai bene che non lo farà. Dice che il suo posto è qui con te.” Notai che ebbe un attimo di commozione, succedeva ogni volta che ne sentiva pronunciare il nome, ogni volta che la vedeva, ogni volta che la pensava. Era bello vederli insieme. Cinquant’anni erano passati dal loro primo giorno e si volevano bene ancora così, vivevano in una specie di simbiosi, dove il benessere o i malanni dell’uno si riflettevano anche nell’altro. Pensai che, come spesso accade, nel momento in cui uno dei due fosse venuto a mancare, anche l’altro si sarebbe lasciato andare, cercando la strada per ritornare insieme ancora, in un altro modo, sotto un’altra forma. Doveva essere bellissimo sentirsi così parte di un’altra persona, al punto da rifiutare di vivere se non si poteva più averla con sé. Ma sentii di saperlo, perché provavo la stessa cosa anch’io, nonostante con te avessi potuto vivere soltanto un tempo molto breve. Sarebbe stato però lo stesso anche se fossero passati cinquant’anni pure per noi perché il vero amore si può incontrare una sola volta nella vita e non è dato a tutti. Io l’avevo avuto, ma non riuscivo a capire perché mi fosse stato dato, per poi essermi tolto così brutalmente. Il corso della nostra esistenza a volte è indecifrabile, ma avrei pagato chissà cosa per capire il perché. E ne ero sicuro: doveva esserci un perché, c’è per ogni cosa che accade a questo mondo. Anche il viaggio di una foglia che cade dall’albero, fino a quando si poserà a terra, non avviene per caso, per tutto c’è un disegno a noi oscuro, che governa lo scorrere della vita. Se avessi capito il motivo che mi aveva portato ad andarmene così lontano da casa, conoscere te e trovare in te la felicità in ogni senso, per poi riperderti senza speranza, forse avrei accettato il mio destino. Ma non immaginavo, non sapevo, non capivo. Guardai papà e abbandonai queste riflessioni:
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“Sai che ho avuto paura di perderti?” Lui mi guardò e con molta serenità mi rispose: “La morte non è negativa, fa parte della vita. Senza la morte non può esserci la vita. Ciò che nasce muore e ciò che muore rinasce. Pensa al grano, anche l’uomo è così: matura, muore, poi rinasce ancora. L’uomo ha tanta paura della morte, perché in essa identifica la fine di tutto. Ma se cambiasse ottica di pensiero non ne avrebbe, perché capirebbe che, dopo la morte fisica, ci sarà di sicuro una rinascita. Non mi chiedere però di più…” si fermò un attimo, ridendo sommessamente, poi concluse: “Per fortuna Dio ci ha lasciato il mistero della sorpresa. Se ci fosse svelato già tutto, che gusto ci sarebbe, non credi?” Rimasi in silenzio, ero completamente d’accordo. Dopo un po’ gli dissi: “Sai papà, è passata una vita, ma mi ricordo ancora quando, la domenica mattina, tu eri a casa dal lavoro e, al mio risveglio, venivo un po’ a letto con te e mi raccontavi delle storie. Non ne sapevi molte, due o tre, non di più, ma a me piaceva lo stesso sentirle raccontare. Ma. anche se erano sempre le stesse, il bello è che ogni volta una storia non era mai uguale, perché non te la ricordavi e la cambiavi inventandola sul momento, ma a me piaceva proprio per questo, era come sentirne sempre una nuova. Mi ricordo anche le tue espressioni, quando facevi i versi dei vari personaggi, soprattutto quelli cattivi che facevano paura. Poi, come al solito, arrivava la mamma a dirmi: “Su, è ora che ti prepari per la messa.” e io, senza troppa voglia ubbidivo, aspettando la domenica successiva.” “Quelle storie le avevo sentite anch’io da bambino, ma non ho mai avuto una buona memoria, così tanti nomi, cose o situazioni me le inventavo al momento, ed ero contento, perché tutto sommato ti vedevo felice.” “Mi ricordo anche un’altra cosa” proseguii “o meglio, non ricordo che tu mi abbia mai picchiato una volta.” Lui prese un fazzoletto, con la scusa di asciugarsi l’occhio malato che gli lacrimava spesso, ma se li asciugò tutti e due, girandosi un momento dall’altra parte. Poi disse: “A cosa servono le botte? Anche da mio padre non ne ho mai prese, ma credo che mi abbia insegnato lo stesso a stare al mondo.” “Si, e anche tu. Se mai avrò un figlio credo che farò lo stesso.” “Sei un bravo ragazzo Alessandro. Mi dispiace solo che tu non ti sia ancora trovato una compagna. Credo che la vita sia incompleta senza una donna, con cui condividere gioie e dolori, fare dei figli. Ciascuno di noi
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traccia sul terreno della vita un solco, più o meno profondo, dentro al quale lascia cadere dei semi. Alcuni di essi possono restare sterili, altri invece germoglieranno, dando i frutti più vari. I figli sono il seme più prezioso, che tutti hanno, ma che non tutti avranno la fortuna di veder crescere. Trovati una donna, Alessandro, una compagna con cui fare dei figli e con cui invecchiare insieme, senza vedervi mai vecchi.” Avrei voluto raccontargli di te. L’avevo trovata io, la donna che avrebbe potuto essere la mia compagna, ma non gli dissi niente. Gli presi solo la mano e gli risposi: “Se Dio vorrà papà, se Dio vorrà. Ti voglio bene.” Mio padre si assopì e io presi dal comodino il mio inseparabile notes, mi misi comodo sulla sedia e iniziai a scrivere. Dovevo svuotarmi un po’. Dopo un po’ sentii un estremo bisogno di prendere una boccata d’aria. Lui dormiva e uscii nel cortile dell’ospedale. Mi serviva anche parlare con qualcuno, sentire una voce amica e mi vennero in mente Lisa ed Ellie. Loro erano mie amiche. Composi il numero di Lisa e la sua voce mi rincuorò. Erano nel sud della Spagna, vicino a Gibilterra. Le raccontai delle mie disavventure e questo la rattristò moltissimo, in particolare il nostro addio. Ma trovò il modo di trasmettermi fiducia e dopo la telefonata stavo meglio. In particolare lei mi disse una cosa che mi rimase impressa nella mente: “Ricorda che, in ogni momento delle vostre giornate, voi sarete ugualmente insieme, e poi chissà, è tutto così imprevedibile, lo hai visto anche tu, no? Potrebbe riservarvi altre sorprese, quindi non perdere mai il tuo ottimismo. La vita, anche se spesso appare difficile, è bella. Basta solo capirla.” Poi mi chiese: “Cosa pensi di fare ora? Ovviamente quando tuo padre si ristabilirà, come tutti ci auguriamo.” “Non lo so, non mi viene in mente niente, mi siete venute in mente voi e…” mi fermai, in quel momento mi ricordai di Henry, il camperista bretone, e del suo invito ad andarlo a trovare. “Ora mi sono ricordato di un altro amico che vive in Bretagna. Ci siamo conosciuti a maggio e mi aveva detto che gli avrebbe fatto piacere ospitarmi. Penso che ci andrò.” “Bravo, ti servirà, vedrai, cambiare aria. E chiamaci, quando vuoi, o quando ti serve. Ci farà sempre piacere.” “Salutami Ellie. E grazie per essermi vicine.”
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Si, era una buona idea e, forse, proprio quello che mi ci voleva in quel momento. D’altro canto il lavoro in Sicilia era andato e il lavoro in banca pure: proprio un mese prima dello stop avuto dal Comune, avevo inviato la raccomandata di dimissioni. Cosa mi rimaneva allora? Di sicuro non tornarmene a casa con le pive nel sacco. Sarebbe stato come dichiarare il mio fallimento. Ma di carte in mano non ne avevo più, almeno fino al momento in cui mi era venuto in mente Henry. Si, Henry, sarebbe stato felice di vedermi, ne ero sicuro. Ecco la mia prossima carta da giocare, la mia prossima meta e poi, una volta lì, avrei atteso qualcosa che ancora non c’era, o ero io a non vedere, ma che, con una certa dose di fiducia nel futuro, sarebbe potuta apparire all’orizzonte. Non lo avrei chiamato, sapevo di essere bene accetto. Rientrai e vidi papà ancora addormentato. Mi accorsi di essere molto stanco anch’io e guardai l’orologio: fra quattro ore sarebbe arrivata mia madre a darmi il cambio. Così mi misi comodo sulla sedia per riposare un po’. Ma ero molto in debito con il sonno e fu proprio il sonno a chiedermi ben presto il saldo. Mi assopii in un dormiveglia che, in breve, divenne un sonno profondo, molto profondo. Forse sognai…
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CAPITOLO DECIMO
Dopo due settimane veniva dimesso. Rimasi ancora qualche giorno con i miei poi, vedendo che anche mia madre era più tranquilla e, d’accordo anche con lei, decisi di tornare giù in Sicilia per sistemare le ultime cose. Il 10 dicembre arrivai a casa mia. “Ancora per poco” pensai tra me. Zagaria nel frattempo mi aveva chiamato e di lì a cinque giorni era stato fissato l’atto notarile. Avevo il tempo necessario per le ultime cose. Mi recai da Salvo, prezioso amico durante il mio soggiorno. Era sinceramente rammaricato per le mie disgrazie. “Comunque” disse “ci resta la soddisfazione di aver lottato per qualcosa in cui credevamo. Purtroppo sono stato un facile uccello del malaugurio, quando ti ho detto che quella persona ti avrebbe messo i bastoni tra le ruote. E abbiamo avuto la conferma che contro certe cose non c’è niente da fare, solo arrendersi.” Queste sue ultime parole mi fecero ribollire dentro. Ma mi dissi: “Non si sa mai, non si sa mai…” Presi dalla tasca una chiave, appoggiandola sulla scrivania e gli dissi: “Salvo, tu sei una delle poche persone di cui so di potermi fidare. Devo chiederti un favore: tieni questa chiave. Apre una cassetta di sicurezza al Banco di Sicilia di Cedara, la filiale che c’è vicino al duomo. Dovresti venire con me in banca, ti rilascerò una delega perché, se un giorno te lo dovessi chiedere, tu possa aprirla. Ci troverai dentro una busta sigillata. Non mi chiedere ora cosa c’è dentro, dovrai solo farla avere alla polizia, ti dirò anche a chi, di preciso. Lo farai in forma anonima, per evitare noie, troverai tu il modo. Tutto questo però solo quando te lo chiederò. Posso contarci?” “Alessandro, tutti questi misteri, sinceramente…” “Posso solo dirti che lì dentro c’è roba che potrebbe scoppiare come una bomba e qualcuno ci rimarrebbe scottato… assai, come dite qui.” “Tu sai delle cose… ma rispondi almeno a questo: perché non ci vai tu, ora, alla polizia?” “Perché ora non posso. Mi dispiace, ma abbi fiducia in me. Adesso c’è chi canta vittoria, ma… potrebbe venirgli la raucedine.” Salvo non era stupido, ma non mi chiese più niente. Mi disse solo: “Conta su di me.” Ci lasciammo con un forte abbraccio.
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Poi fu la volta di Francesca. Lei sapeva bene cosa provavo. “Non ti crucciare, ti avevo già spiegato come è fatta lei, ma io penso che, per l’amore che ha per te, un giorno ti cercherà ancora. La conosciamo decisa nella difesa dei valori in cui crede, al punto da scegliere la strada della sofferenza, ma anche fragile e bisognosa di cose che non si trovano facilmente e che tu le hai dato. Nulla si sa di ciò che ci riserva il domani. Ricorda anche che io ti voglio bene, perché non meritavi ciò che ti è successo.” Le risposi: “Ti sento sinceramente amica. Grazie per il bene che le vuoi e che ti porta a fare così tanto per lei. Anche se so che non smetterai mai di volerle bene, te lo chiedo ugualmente: stalle vicina.” “Non serve che tu me lo dica.” “Bene. Magari, prima che parta, possiamo trovarci per una cena?” “Ma certo, caro, con vero piacere. Vieni a casa nostra, dài. Facciamo sabato prossimo? Ti preparerò… riso in bianco, so che ti piace… anzi, che vi piace tanto…” e mi strizzò l’occhio. Ci guardammo e riuscì a strapparmi un sorriso. Andai anche da Antonio e gli mentii: “Antonio, mi dispiace ma il mio era un castello inventato. Tuo padre è morto come si sa.” Ci lasciammo. Qualche giorno dopo firmai l’atto di vendita, dopo dieci mesi di fatiche, sudori, preoccupazioni, ma anche densi di soddisfazioni, gioie e pace ritrovata, seppur per poco. Quando uscii dallo studio del notaio non degnai di uno sguardo Zagaria. Chiamai infine Vizzini. Lo ringraziai di tutto e tirai fuori una scusa per giustificare questa mia decisione improvvisa. Lui ne fu molto dispiaciuto. Il quindici dicembre avevo caricato tutto sul camper ed ero pronto a partire. Tu non ti eri più fatta viva, come volevo che fosse e come avevo chiesto a Francesca di riferirti, perché sapevo che, appresa la mia decisione di partire, forse mi avresti cercato. Prima di partire però, dovevo tornare al molo.
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Mi sedetti sulla banchina, con le gambe penzoloni sopra l’acqua. Nonostante fosse dicembre, la temperatura era piacevolmente primaverile e il sole scaldava. Mi guardai la parte di braccio che lasciava scoperta la manica corta della mia maglietta; era ancora di un bel colore abbronzato, della massima tonalità che mi permetteva la mia carnagione. La peluria, folta e sottile, risaltava sullo sfondo della mia pelle. Era reale ciò che osservavo ma, nonostante fossi solo, mi parve di notare anche una mano dalle dita lunghe e sottili, molto più abbronzata della mia, una mano di donna, molto curata, dalle forme eleganti, che delicatamente mi sfiorava i peli avanti e indietro più volte, e continuava, abbassandosi lentamente sino a toccarmi la pelle. Ne sentivo anche il profumo, un profumo che mi evocava ricordi indimenticabili. E ora la sentivo, quella mano, oltre che vederla, tanto che il piacere del tatto sovrastava quello degli occhi. Mi accarezzava piano, con lentezza ma senza fermarsi, era calda più di me e il suo calore passava in me. Era bello, bellissimo, volevo che non finisse mai. Era reale il mio braccio, ma ciò che provavo solo immaginandolo, rendeva reale anche quella mano, ne ero convinto, perché ora sentivo quella mano stringere forte la mia. Ritornai sui miei passi, diedi uno sguardo intorno e fu come un flashback in cui rivissi in modo accelerato una parentesi della mia vita che non avrei scordato mai. Accesi il motore, mi avviai all’uscita, oltrepassai il cancello e in breve mi unii al flusso delle auto lungo la statale. Scorreva la strada assieme al tempo. Lo sguardo attento davanti a me si distrasse per un attimo a guardare il sedile di fianco. Era tornato vuoto. Accesi la radio per cercare una musica più piacevole del rumoroso motore, in cerca di compagnia, ma cambiai stazioni su stazioni e alla fine la spensi di nuovo. Ero stanco della solita pubblicità, dei soliti notiziari, delle solite canzoni … d’amore. Ancora una volta ero alle prese con un futuro da inventare. Ero però consapevole che dovevo trovare cose nuove, abbandonando le routines, i gesti abituali, i luoghi di tutti i giorni. Solo così avrei in qualche modo attenuato il dolore, il pensiero assillante. Solo attenuato però, non cancellato, quello non sarebbe stato mai. Dopo dieci minuti, lungo la litoranea lucana vicino a Metaponto, notai una donna, forse una ragazza, che chiedeva l’autostop. Quando fui più vicino, mi resi conto che era proprio una ragazza, con uno zaino in spalla e un berretto di lana in testa, da cui scendevano lunghi capelli biondi.
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Non mi ero mai fermato a raccogliere un autostoppista in vita mia, e stavo per tirare dritto anche questa volta, ma di colpo pensai a quella ragazza; avrà avuto si e no vent’anni. Stava facendo buio e quel tratto di strada era isolato, senza centri abitati o case nelle vicinanze. E se nessuno si fosse fermato? Me la vedevo già camminare di notte, da sola. Magari poteva fermarsi gente sbagliata… Misi la freccia e accostai, fermandomi dieci metri dopo di lei. Attesi che mi raggiungesse e le aprii la porta sulla destra: “Dove vai?” le chiesi. “Devo andare a Matera, ma mi andrebbe bene anche un pezzo fino al bivio, tra una ventina di chilometri, se lei deve proseguire lungo questa strada.” “Infatti, devo andare verso Taranto, ma intanto sali, dài, è meglio che rimanere per strada.” “Grazie.” Salì, io presi il suo zaino, mettendolo dietro ai sedili e ripartii. “Non mi sembra prudente andare in giro da sola a quest’ora da queste parti.” “Non si preoccupi, non ho paura.” “Invece mi preoccupo. Non avrai paura, ma ciò non toglie che non sia cosa molto intelligente. Se ne sentono tante tutti i giorni. Come fai a fidarti di salire con il primo che si ferma?” “Non mi è mai successo niente.” “Ho capito, siamo su due lunghezze d’onda differenti: tu su quella un po’ avventata e spavalda da ragazzina, io…” “…lei su quella prudente e riflessiva di uomo maturo.” concluse lei. Era però educata. Uomo maturo stava al posto di uomo non più giovane, se non vecchio. Mi era simpatica. “Che ci vai a fare a Matera?” “Domani ho lezione all’università.” “Ah, studi. Quanti anni hai?” “Ventidue.” “Ci vai sempre in autostop?” “Qualche volta. I miei mi danno i soldi per l’autobus, ma io così me li tengo.” “Che razza di discorsi! Ti rendi conto che per qualche soldo da spendere in vestiti o cose del genere, rischi grosso? Voglio dire che potresti trovare qualcuno con cattive intenzioni. Sei così giovane e… carina…” “Lei le ha?” Un po’ sorpreso per la sua disinvoltura, risposi:
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“Tu che dici?” “No.” “Già, ti è andata bene, stavolta.” “Non è come dice lei.” “Che hai detto? Che cosa non è?” “Che li spendo in vestiti. I miei non sono ricchi e fanno sacrifici per farmi studiare, così a fine mese, in base a quello che metto da parte, me ne faccio dare meno per quello successivo.” Istintivamente tolsi per un attimo il piede dall’acceleratore e guardai la ragazza. Mi ero sbagliato, o almeno in parte. Magari era si, avventata, e la sua spiegazione in fondo non giustificava quella scelta pericolosa dell’autostop, ma era ammirabile per questa sua volontà di pesare il meno possibile sulla sua famiglia. “Che facoltà frequenti ?… ah, non mi hai detto come ti chiami.” “Non me l’ha chiesto. Di solito è la prima cosa che la gente mi chiede. Mi chiamo Chiara, e lei?” “Alessandro.” “Frequento Tecnologie Agrarie.” ”Interessante, ma un po’ strana come scelta, per una ragazza.” “I miei sono contadini e mio padre mi ha trasmesso il suo amore per la terra. Non so se lei ha mai potuto sperimentarlo, ma è bello veder crescere, giorno dopo giorno, ciò che tu stesso hai seminato ed è ancora più bello quando ne raccogli il frutto maturo, che siano spighe di grano, pomodori, olive o qualsiasi altra cosa.” “Mi piace quello che dici.” “Non ho finito: Vorrei anche dedicarmi al settore dell’agricoltura biologica. Lo sa che è in forte espansione, qui in Basilicata? Vorrei in qualche modo contribuire ad aumentare la sensibilità della gente verso un’agricoltura “pulita”, che rispetti l’equilibrio ambientale e salvaguardi la salute dell’uomo e il benessere degli animali. Ormai si sente parlare sempre più di OGM, colture transgeniche e questo mi fa paura, perché stiamo stravolgendo l’ordine naturale di questo mondo. Con la scusa della scienza l’uomo ha la presunzione di manipolare a piacere la vita, ma penso che la vita un giorno si potrà ribellare.” “Mi fa piacere sentire da una ragazza giovane come te concetti come questi. Mi trovi perfettamente d’accordo. Non approvo niente che abbia come fine l’alterazione artificiale della natura, in ogni sua forma.” “Già. E poi, pazienza se il fine fosse comunque quello di portare dei benefici alla popolazione mondiale, ma qui gli scopi si allargano ad altre mire a dir poco criminali. Tanto per farle un esempio, lo sa che negli an-
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ni '90 le multinazionali agroalimentari hanno sviluppato dei semi sterili, dal nome che la dice lunga? Terminator, li avevano chiamati, perché avevano vita breve, circa un anno, con lo scopo di creare dipendenza tra coltivatori e fornitori di sementi, perché costringevano i primi a ricomprare nuovi semi a ogni stagione, impossibilitati a riservare una parte del raccolto alla semina. Questo li rendeva praticamente schiavi dei produttori. Ma non è finita qui. Ora le industrie hanno inventato un’altra novità genetica, che consiste nel poter correggere lo stato da sterile a fertile, a semplice comando mediante l’uso di specifici prodotti, naturalmente brevettati quanto i semi stessi. E anche qui il nome di questa trovata è tutto un programma: zombie, si chiamano questi semi, perché rimangono sterili solo fino a quando non verranno resuscitati mediante trattamento con una determinata sostanza, che ovviamente il contadino potrà acquistare dal colosso industriale che la produce, con il risultato che si ritroverà al punto di partenza. Non crede che sia il caso di opporsi come si può a questo stato di cose?” “Si, e sono convinto che c’è speranza, se ci sono giovani come te che trovano già il tempo di pensare a cose così importanti.” “Ecco…” avvertì a un tratto Chiara “accosti qui, siamo arrivati al bivio.” Ma non le diedi retta e mi spostai verso il centro della carreggiata, imboccando la strada a sinistra. “Ma che fa…? Di qua va a Matera!” “Esatto. Non ci vai anche tu?” “Si, ma lei doveva proseguire per Taranto!” “Non importa. Ho pensato che, anche se la allungo un po’, poi mi ci ritrovo sull’Adriatica. Non vorrai mica che ti molli qui in mezzo al niente!” Lei mi guardò e mi sorrise, dicendomi: “Grazie.” “Figurati, sono io che ringrazio te, è un piacere sentirti parlare. Dove alloggi in città? Ma prima, mi dai del tu, per favore? Essere chiamato lei mi dà fastidio.” “Affare fatto. Vivo in un mini in affitto, assieme a un’altra ragazza, che studia come me. Paghiamo centocinquanta euro a testa al mese.” “Bene, arrivi proprio per ora di cena.” “Oh, non è un problema. Non ho orari fissi per mangiare. E poi la mia amica non ci sarà, arriva domattina e non mi piace mangiare da sola.”
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Continuammo a conversare e, senza quasi accorgercene, un’ora dopo arrivammo a Matera. La ragazza a un certo punto mi consigliò di trovarmi un posto per la notte in quella zona, senza proseguire oltre, perché stava per iniziare il centro storico, e avrei avuto senz’altro problemi a girare per le viuzze strette con la mia utilitaria. Accostai e presi lo zaino per darlo a Chiara, che mi disse: “Be’, grazie ancora.” “E’ stato un piacere.” Stava per chiudere la porta, quando mi chiese: “Hai mai visto i Sassi? “No.” “Allora non perdere l’occasione, visto che sei qui. Sono una meraviglia.” Istintivamente le dissi: “Senti Chiara, visto che non ti va di cenare da sola, che ne diresti di mangiare un boccone qui con me in camper? Poi potresti farmi da cicerone per la città, sempre che tu non abbia altri impegni, s’intende.” Stavo per pentirmi di quell’invito, che forse la ragazza poteva fraintendere, ma il mio pensiero fu anticipato dalla sua risposta: “No, non ho niente da fare. Accetto con piacere, così ti posso restituire il favore.” “Bene, non aspettarti però grandi piatti. Ma se ti vanno degli spaghetti con il pomodoro…” “Ottimi.” “Dài, sali.” Cenammo e un’ora dopo eravamo fuori, diretti verso il centro. “Mi dici cosa sono questi “Sassi?” “Non ne hai idea, eh? Allora preparati.” Arrivammo a una piazza e la ragazza si diresse verso una specie di sottoportico, lo oltrepassammo e poco dopo, davanti a me, si aprì una visione incredibile: una specie di anfiteatro dove le tribune erano case, case vere, di ogni dimensione, piccole o più grandi, una sopra l’altra senza un filo logico, intervallate da viuzze strette in discesa o a gradini. Il buio della notte contrastava perfettamente con quello spettacolo, che sembrava un presepio punteggiato da mille lumini. Ero affascinato, non mi aspettavo certo una meraviglia del genere. “Sono case.” disse Lisa, “case scavate nella roccia calcarea. E’ affascinante, vero? Sembra di essere fuori dal mondo, per noi, abituati a vedere case normali. E pensare che queste, prima di essere restaurate, erano
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grotte dove, fino agli anni ’50, vivevano persone e animali in condizioni di disumana promiscuità, senza acqua corrente e rete fognaria. Poi scoppiò lo scandalo e l’opinione pubblica venne a conoscenza di questa vergogna, cui il governo di allora decise di porre fine. Ho letto da qualche parte che, un’indagine di quegli anni, denunciò una mortalità infantile che aveva raggiunto quasi il quarantacinque per cento.” Io ascoltavo senza distogliere lo sguardo davanti a me. Chiara continuò: “Furono costruiti quindi nuovi quartieri, dove vennero trasferite migliaia di persone, mentre i Sassi cominciarono a essere risanati e restaurati. Ora quasi tutti sono proprietà del Demanio e solo una piccola parte appartiene a quelle famiglie, che allora erano le più abbienti ed evitarono di doversene andare da lì.” “Perché si era arrivati a questa situazione?” “Matera è una delle città più antiche al mondo. Qui la vita umana ha radici che risalgono fino a settemila anni fa, preistoria, per intenderci. La popolazione iniziò a usare come abitazioni le numerose grotte che si trovavano in questa zona. Poi, con il progredire della civiltà, vennero realizzate anche costruzioni cosiddette fuori terra, per distinguerle dalle grotte. Assieme alla città costruita ha sempre convissuto una città scavata, ma con diverse utilizzazioni, nei secoli, a seconda soprattutto delle varie vicende storiche ed economiche susseguitesi. Per avere una piccola idea di cosa sono i Sassi, pensa che ciò che stai vedendo ne è solo una piccola parte, quella esterna, come la punta di un iceberg. Tu percorri una strada, una scalinata, un giardino, e ti trovi senza saperlo sopra a una casa. Il groviglio di cunicoli sotterranei è un vero labirinto ed è inimmaginabile il suo sviluppo sotterraneo. Esistono più cavità, una sull'altra, disposte in modo tanto disordinato e incasinato, quanto intelligente e geniale. Lo sai che gli antichi abitanti avevano calcolato di non far superare agli alti raggi solari estivi l'ingresso della grotta, mentre i raggi invernali, più bassi, vi entravano a riscaldarla e a illuminarla per tutta la lunghezza?” “Geniale, non c’è che dire. E’ davvero un paesaggio incantato. Sembra di essere in un’altra dimensione.” “Tutti ne rimangono affascinati. Qui hanno girato tanti film, sono venuti artisti a trarre l’ispirazione per le loro opere.” “Ci torno” esclamai “ci devo tornare e portare …” ma mi fermai improvvisamente, e subito cambiai umore, tanto che Chiara mi chiese: “C’è qualche problema?”
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Mi sforzai di allontanare quella strana smorfia che mi era comparsa sul viso e risposi: “No, tutto a posto.” Ci addentrammo nel gomitolo di viuzze strette e io cambiai idea sugli autostoppisti. Ripassammo sotto al sottoportico che ci aveva condotti nel bel mezzo dei Sassi e sbucammo nuovamente nella piazza vicina, ancora animata da molta gente venuta a trascorrere una serata in quell’atmosfera natalizia creata dalle numerose luminarie e da un grande albero di Natale, piazzato proprio al centro della piazza. Vicino all’albero c’era un uomo, che faceva uscire dal suo violino le note de “Il dottor Zivago.” Boris indossava un giubbino color ghiaccio, troppo leggero per quella stagione e un paio di jeans un po’ inconsueti, per la foggia larga e le pences, che, ridendo tra me, battezzai pantajeans. Aveva due baffi ancora scuri, che ricordavano quello che era stato l’antico colore della sua chioma, folta e ora completamente canuta. Suonava il suo violino, accarezzandolo con l’archetto con consumata maestria. Lo teneva appoggiato alla spalla e al mento, con un fazzoletto a proteggerlo dal sudore. Ogni sviolinata era accompagnata da espressioni rapite a occhi chiusi del suo viso. Vedendolo, in un primo momento avevo pensato di lui: “Ecco qui un altro dei soliti tipi che incontri in ogni centro un po’ affollato, per sbarcare il lunario.” ma vederlo e sentirlo suonare fu l’altra cosa bella, oltre ai Sassi, che mi sarei portato via da quel luogo. Era russo. Appena mi avvicinai per mettergli qualche spicciolo dentro alla custodia aperta del suo violino, questi si mise a parlarmi senza sosta, concitatamente, mostrandomi un cd dal titolo: Nostalgie. In copertina c’era il suo nome stampato, Boris Barulnovich e c’era proprio lui in foto, vestito con un elegante doppiopetto gessato grigio e con in mano il suo fedele violino. “Wait please, listen romantic music. Do you like romantic music?” E introdusse il cd in un lettore portatile antiquato, continuando a parlarmi: “Number two Morricone, number seven Bacharach, only romantic music, not rock.” l’ultima parola la accompagnò con un’espressione leggermente disgustata. “Number fourteen My way… listen, music for the heart.” Continuava a parlare senza sosta: “I’m russian. My name is Boris. I play only romantic music.”
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Pensai chissà quale destino lo avesse portato così lontano da casa. Forse era stato anche membro di qualche importante orchestra e ora si trovava nel freddo di quella piazza. Spesso il destino ti dà bravura senza fortuna, e forse lui con la sorte era in credito, ma forse no. Era lontano dal suo paese e si guadagnava da vivere suonando all’angolo di qualche città straniera, nel gelo dell’inverno o sotto il sole cocente d’estate. Ma non era solo, lo dicevano i suoi occhi, quando imbracciava il violino come fosse un bambino e insieme creava melodie. Forse aveva una donna, ma Boris, di sicuro, una fedele compagna ce l’aveva e la presentava ogni volta che suonava; la musica, a tal punto che suonava forse per lei e per se stesso, anziché per la gente distratta, che tante volte tirava diritto, senza curarlo di uno sguardo. Quello dei suoi occhi era lo sguardo di un innamorato. Aveva sposato la musica tanto tempo prima, e ogni volta che la chiamava con il suo archetto lei usciva, abbagliandolo, al punto da fargli chiudere gli occhi, arrivando al suo cuore. Arrivò anche al mio e gli dissi: “I’d like one, please.” provocando in lui un sorriso, che mi vedo restituito ogni volta che ascolto un brano di quel disco, di only romantic music by Boris Barulnovich. Tempo dopo la curiosità mi portò in rete a digitare il suo nome e lo trovai: Artista russo, ora in pensione. Ha fatto parte della Berliner Filarmoniker… Non mi ero sbagliato… Passammo una piacevolissima serata. Quella ragazza mi aveva colpito e pensai che, se avessi avuto una figlia, mi sarebbe piaciuta così. Verso mezzanotte la accompagnai a casa. “Ecco, siamo arrivati, io abito lì, terzo piano.” disse Chiara, indicando una palazzina color ocra. Era arrivata l’ora di salutarsi. “Bè, grazie, Alessandro, per il passaggio e la cena.” “Grazie per la tua compagnia, non sai quanto mi ha fatto bene. E, mi raccomando, attenta a chi si ferma a darti un passaggio.” “D’ora in poi aspetterò che passi un camperista .” Ridemmo e io aggiunsi: “Dimmi quando potrò venire a far la spesa di verdura nella tua nuova azienda.” “Contaci.” disse lei. Ridemmo e ci scambiammo un abbraccio. Il giorno dopo, verso sera, arrivai a casa dai miei. Avevo pensato che
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tra poco sarebbe stato Natale e l’avrei trascorso con loro. Furono felici di vedermi e non volli rattristarli, quindi tacqui sulla fine della mia avventura siciliana. Non l’avevano mai approvata. Figurarsi! Per gente come loro era impossibile accettare che, proprio il loro figlio, abbandonasse un lavoro sicuro e ben pagato, per tuffarsi in un’avventura senza certezze, per giunta così lontano da casa, altro aspetto questo, fuori dalle loro logiche: lavoro sicuro, sposarsi, avere dei figli e vivere dove si è nati. Di tutto questo io avevo fatto l’esatto contrario. Non condannavo il loro modo di pensare. Era frutto di come avevano vissuto e, per loro, era l’unico modo giusto quindi, lo rispettavo. Ma non lo condividevo. Quindi ritenni di lasciarli tranquilli a credere che tutto per me andasse bene. Soprattutto papà ne aveva bisogno. Quei giorni in famiglia furono per me una buona medicina. Capii che era importante non rimanere soli. Parlare con qualcuno impediva alla mia mente di essere cristallizzata, seppur a sprazzi, su un unico pensiero, che era fonte unicamente di desolante tristezza. A Natale ricevetti un messaggio sul cellulare: Sarà un Natale un po’ malinconico, ma sarà un Natale ricco per tutto quello che tu mi hai donato in questo tempo speciale. Ti voglio bene. Ti eri ricordata di me, o... non te ne eri mai dimenticata? Ti risposi: Solo grazie per le tue parole e per quello che hai dato tu a me. Ma penso che non sia ancora tutto, sia per te che per me. Buon Natale, amore. Eravamo divisi, eravamo a centinaia di chilometri di distanza, ma vibrava forte la nostra unione. Mi chiamò Francesca per gli auguri. Ne fui felice. Mi disse che tu non te la passavi per niente bene, non ti aveva mai vista così giù e temeva ti ammalassi. Sinceramente non capiva come potessi continuare in quel modo. Di sicuro non per molto. Le sue parole da una parte mi rincuorarono, perché mi confermarono che io ero sempre nei tuoi pensieri, ma dall’altra mi diedero un altro motivo per essere infelice, perché sapevo che, se anche tu ci avessi ripensato e fossi tornata da me, sarei stato proprio io a doverti rifiutare, e la cosa che mi faceva stare più male era che avrei dovuto farlo mentendoti, anche se ancora non sapevo che scusa avrei inventato. Ma la verità, quella che sapevo solo io, tu non dovevi saperla.
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Impostai il navigatore su Le Conquet e partii senza pensare a quando ci sarei arrivato. Il tempo, almeno, non era un problema. Vi giunsi due giorni dopo, era il trenta dicembre. Composi il numero sul telefono e attesi, finché dall’altra parte sentii una voce familiare: “Hello…” “Henry, sono Alessandro, ti ricordi di me?” “Alessandro, mon cher ami, mais oui, je me rappelle. La mer, les ondes, la Sicile… Comment ça va, mon ami?” “Così così. Non sono in Sicilia…” “Ah no? E dove sei?” “Vicino a te. Mi trovo a Crozon.” Henry non si aspettava questa notizia e mi rispose felice: “Questa è davvero una grande sorpresa. Ti rendi conto che sei a pochi chilometri da casa mia?” “Lo so e allora, cosa aspetti a venirmi a prendere? O hai paura di offrirmi il pranzo?” “Ma che dici? Sarà un piacere. Dài, metti in moto e prendi la strada per Le Conquet, così ci incrociamo. Se hai sempre quel camper con i pesci disegnati, ti riconoscerò dalla…puzza di pesce.” che burlone! “Va bene, vecchio mio, a tra poco.” Un’ora dopo ci abbracciavamo. “Ti ho preso in parola. Tu mi avevi detto…” Henry mi interruppe: “Ti avevo detto che, quando ti saresti deciso a venire da me, ti avrei fatto vedere una casetta in riva al mare, proprio come la desideri tu. Ho buona memoria?” “Proprio così, ed eccomi qui.” “Amico mio, mi sa che passeremo un capodanno speciale, domani. Dài, seguimi, non siamo lontani.” Arrivammo alla casa. Era una costruzione in pietra scura, di stile tipicamente bretone, molto curata, con molti fiori ai davanzali e un giardino ordinato, con un bel tappeto verde, punteggiato di aiole in fiore, nonostante fosse inverno inoltrato. Era lungo la strada costiera che si inoltrava in una zona residenziale, con case eleganti come quella di Henry. Molte, tra cui la sua, davano direttamente sul mare, che si infrangeva contro una
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scogliera di pietra rossa. Uscì Margot, sua moglie, che abbracciai con calore, poi lei ci disse: “Venite, è pronto. Henry, gli fai vedere il posto più tardi.” “Buona idea, ho un languorino…” rispose Henry. “Anch’io.” aggiunsi. A tavola raccontai loro della mia decisione forzata di abbandonare quel lavoro in cui avevo investito così tanto, adducendo la motivazione, per la verità abbastanza plausibile, dei problemi avuti con il Comune, ma tacendo quella vera, che non avevo svelato a nessuno, tranne che a Francesca. Quindi raccontai che, purtroppo, non mi sarei mai aspettato un simile voltafaccia da parte delle Autorità. Il perché si leggeva tra le righe e, forse adeguandomi all’andazzo diffuso, di cedere alla consuetudine di elargire favori a chi di competenza, avrei in breve tempo sbloccato la situazione. Ma non ne ero il tipo e, anche a costo di rimetterci tutto, non mi sarei mai piegato a clientelismi o cose del genere. “Che pensi di fare ora? Tornerai in banca?” “No Henry, avevo dato le dimissioni proprio una settimana prima che accadesse tutto questo.” “E allora?” “Non lo so, per il momento è buio assoluto. Avevo pensato di venire qui per raccogliere le idee e trovare una soluzione.” Henry e Margot si lanciarono uno sguardo, poi lui mi disse: “Senti Alessandro, come ti ho già detto, l’offerta di quella casetta che possiedo qui vicino è sempre valida e ci potrai rimanere finché vorrai. Potrai anche comprarla, se ti troverai bene. Nel frattempo sai, io ho un piccolo mobilificio, che mando avanti con un altro operaio. E’ una cosa modesta, a livello artigianale e lavoro solamente su ordinazione. Se ti va, finché resti e per guadagnare qualcosa, potresti darmi una mano, che dici?” Quell’uomo, con il quale dopotutto avevo chiacchierato si e no qualche ora solamente, si stava dimostrando un vero amico. “Ma io non so fare niente, Henry!” risposi. “Nessuno è nato maestro. Imparerai.” Non sapevo che dire: “Henry, io non so proprio…” Ma il francese lo intuì e mi tolse dall’imbarazzo: “Se ti va, possiamo cominciare il due di gennaio. Anno nuovo, vita nuova. Si dice così anche da voi, no?” Gli sorrisi, sollevato e felice. Guardando Henry e Margot esclamai:
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“Amici, voglio fare un brindisi.” “Con vero piacere!” esclamò Henry “A cosa vuoi brindare?” “A due persone speciali.” “Ehi, guarda che sbagli i conti.” mi disse Henry, che si rivolse a sua moglie: “Margot, in quanti siamo qui?” “Trois, mon tresor.” “Alessandro, forse volevi dire tre, vero?” Risi e risposi: “A noi.” Nel pomeriggio i coniugi Lafont mi portarono a vedere quella che sarebbe stata la mia nuova casa. Percorremmo a piedi un sentiero che si snodava lungo la scogliera e in cinque minuti raggiungemmo una casetta piccola, ma graziosa, con la facciata rivolta verso il mare. Era una costruzione in pietra, come la casa di Henry, ma di una tonalità leggermente più chiara. La collegava alla strada principale una stradina sterrata, che permetteva di raggiungerla direttamente in auto. Poco più avanti, a circa duecento metri, vidi compiaciuto che si stagliava un faro, proprio un classico faro bretone, uno di quelli dove mi sarebbe piaciuto andare a viverci. Era alto più o meno venti metri, con la torre completamente bianca. “Fantastico! C’è anche il faro!” esclamai. “Ti piace il posto? Sono contento. Dài, entriamo che ti faccio vedere la tua reggia.” Henry si diresse ad aprire la porta. Entrò, spalancando gli scuri, da cui entrò la luce del sole, già un po’ arrossata per l’imminente tramonto. La stanza era abbastanza ampia e arredata con mobili in legno dallo stile sobrio ma grazioso. Al centro c’era un tavolo rettangolare, con quattro sedie impagliate. Sulla destra la cucina e, sul lato opposto, sotto la finestra all’inglese, due poltrone foderate in tartan a quadri rossi e blu, che rimandavano il pensiero a qualche castello scozzese. Appoggiato alla parete, di fronte alla porta d’entrata, faceva bella mostra di sé un ampio caminetto. Notai anche alcuni quadri appesi alle pareti, per lo più raffiguranti soggetti marinareschi. In uno c’erano delle barche ormeggiate in un piccolo porto e adagiate su un fianco in un momento di bassa marea. In un altro dei pescatori intenti a rammendare le reti. Il terzo mi colpì particolarmente e mi soffermai ad osservarlo. Era un ritratto di donna sulla quarantina, dai bei lineamenti, seduta su una sedia a dondolo e vestita con un elegante abito scuro, foggia fine
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‘800, con le gonne che le arrivavano sino ai piedi. In mano, appoggiato sulle ginocchia, teneva un libro aperto. La si vedeva di profilo, con lo sguardo rivolto alla finestra e aveva un’espressione distesa e sorridente. “Mia nonna Claudette” disse Henry, che si era accorto del mio interesse “una gran donna! E il bello è, che quel ritratto, glielo fece proprio suo marito, mio nonno Jean.” “Davvero? Era pittore?” “No, pescatore, ma si dilettava. Era il suo hobby.” “Aveva talento. Il viso, è riuscito a trasmettere con l’espressione del viso una pace interiore che in quel momento doveva provare tua nonna.” “Lei era proprio così, sempre serena, nonostante non avesse avuto una vita facile. Guardandola lì mi sembra ogni volta che sia presente in questa stanza. Amo molto questa immagine.” Henry si scosse dai suoi ricordi e mi portò a visitare la stanza da letto. Varcammo la porta posta sulla sinistra del caminetto. Era una camera non molto grande, ma ci stava comodamente un letto matrimoniale con la testiera in legno, affiancato da due comodini, sopra al quale c’era una Madonna con bambino appesa al muro. Di fronte al letto un armadio, sempre in legno, ma di colore più chiaro, a due ante. “Questa parete è proprio dietro al caminetto della cucina. Vedrai che starai caldo qui. Ma, perbacco, dobbiamo accenderlo però, il caminetto! Ci vorrà del tempo prima che si scaldino a sufficienza i muri. E’ da un bel po’ che la casa è chiusa.” In cinque minuti il bagliore del fuoco rischiarava l’ambiente e io non potei fare a meno di esclamare: “Ecco, con il fuoco la mia idea di Bretagna è completa: mare, scogliere, faro, colori e il caldo di un fuoco.” “Sono contento che ti piaccia. Ah, non ti ho mostrato il bagno, ma sono certo che lo troverai.” “Non ho dubbi” risposi ridendo. La sera cenammo fuori e offrii io la cena. Alle 23 rincasai. Nel pomeriggio avevo portato e sistemato tutta la mia roba. Ora c’era un bel tepore e me lo godevo. Era ciò che avevo da tanto tempo desiderato. Peccato mancasse qualcosa di ben più importante. Mi sedetti sulla poltrona, osservando le lingue di fuoco che creavano disegni fantastici nello spazio di un istante, prima di lasciare il posto alle loro sorelle successive. Pensai a te: “Come starà? Spero meglio di me, sarebbe già tanto, visto che io sto male, sto veramente male. Domani è capodanno. Bene, spe-
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riamo che arrivi presto il nuovo anno, perché questo è stato terribile.” Capodanno tranquillo, con i Lafont. Venne pure una coppia di loro amici, per fortuna abbastanza simpatici. Poi il due di gennaio iniziò il mio nuovo lavoro con Henry. Il capannone era abbastanza grande e luminoso. All’interno i soliti utensili e macchinari di ogni falegnameria: seghe circolari, torni, pialle, scalpelli e molto altro. La produzione consisteva in mobili in arte povera: panche, cassapanche, cassettoni, credenze, armadi, spesso impreziositi da rilievi unici scolpiti a mano. Henry era molto abile ed esperto, oltre a essere dotato di una certa dose di buon gusto. La struttura e le forme di ciò che realizzava erano in genere frutto della sua inventiva ed erano abbozzate con schizzi su carta, prima della realizzazione finale. Ogni pezzo era unico ed il suo era un mercato un po’ di nicchia, anche nel prezzo. Ma Henry si era creato un buon bacino di clientela, ed era abbastanza conosciuto nella zona. Io iniziai ovviamente dai lavori più semplici, ma con il passare dei giorni ebbi modo di approfondire tutti gli aspetti della lavorazione e un giorno Henry iniziò anche a insegnarmi i segreti di scolpire il legno. Fu subito una cosa che mi entusiasmò, tanto che, dopo il lavoro, la sera a casa lavoravo di scalpello a dei pezzi di scarto, dai quali ricavavo figure in rilievo dapprima semplici, come l’abbozzo di un fiore o di una casa, poi con il migliorare della mia manualità, sempre più complesse, come paesaggi o figure di persone o animali. Dopo circa un mese riuscivo anche a creare delle vere e proprie sculture e i risultati, per la verità, erano molto lusinghieri, tanto che Henry un giorno mi disse: “Ho l’impressione che, se continui così, tra poco dovremo cambiare il nome sull’insegna della ditta.” Mi stupivo io stesso di essere così portato in quello che facevo. Quando prendevo in mano un pezzo di legno, sapevo già cosa ne sarebbe uscito, senza star lì a pensarci troppo. Un giorno dissi ad Henry: “E’ difficile da spiegare, ma quando mi accingo a iniziare un nuovo pezzo, sento come un’ispirazione che mi dice: qui ne verrà fuori un cavallo, oppure un uccello, o un albero o un’altra cosa. A me succede, prendendo il legno nelle mani, so già cosa c’è dentro.” “Sono contento di aver contribuito anch’io un po’ a farti scoprire qual-
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cosa che non immaginavi di possedere.” “Hai ragione, mi piace un sacco e devo dire di non essere poi tanto male. Ma si, diciamo pure che sono proprio bravo. Vedi Henry, mi è sempre stato insegnato a non lodarmi, perché diventi superbo, vanitoso, e non penso sia sbagliato. Ma non credo che, farsi talvolta dei complimenti, sempre nella giusta dose beninteso, possa connotarsi come peccato di superbia. Io penso che un po’ di amor proprio e di autostima debba esserci dentro di noi, penso che meravigliarsi di se stessi quando si è creato qualcosa di bello, di importante, di valore, non importa in quale forma, sia anzi necessario per mantenere viva la fantasia che è in noi. Insomma modestia si, ma non troppa, perché mortifica lo spirito e rende piatta e grigia la nostra vita, imbrigliando e nascondendo doti e talenti che spesso sono celati dentro a ciascuno di noi.” “Mi trovi perfettamente d’accordo, Alessandro, anche perché, fare il contrario, cioè la modestia in eccesso porta a negare l’evidenza e quindi a inutili bugie. Ora potrai darmi una mano anche a lavorare i miei mobili, che dici?” “E me lo chiedi?” Mi trovavo lì da più di un mese ormai e ci stavo bene. Del resto mi ero trovato bene anche in Sicilia, non facevo difficoltà, io, ad adattarmi. Quello che non guariva era il vuoto lasciato da te ed ero convinto che non sarebbe guarito mai. Nonostante Henry, Margot, il mio nuovo lavoro, la mia nuova casa, mi sentivo sempre solo e cercavo me stesso. Se mi fossi ritrovato, almeno avrei avuto qualcuno che mi avrebbe voluto bene. Dovevo imparare a non attendere che fosse il mondo a sostenermi, la forza dovevo trovarla in me. Non era però per niente facile, soprattutto dopo che tu mi avevi regalato una parentesi che mi aveva fatto capire cosa si prova a non essere soli. Quel po’ di pace che ero riuscito a trovare era però anche merito di quei luoghi, da sempre sognati e che ora stavo scoprendo proprio nella stagione fredda, capace di creare suggestioni inedite, favorite dai colori più tenui di cielo e mare, con le cose illuminate da un sole lontano, o bagnate dalla pioggia fine e insistente che spesso cadeva, o velate dalla nebbia che si respirava a fondo di buon mattino e che dava forme rarefatte a ogni cosa, per poi restituirne i nitidi contorni, diradandosi gradualmente; o ancora dal vento che sbatteva il mare addosso alla pietra con forza veemente. La sera poi era magnifico rimanere, dopo cena accanto al caminetto, nel tepore delle mie mura, come un cane nella sua cuccia al riparo dal
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freddo della notte. Mi sedevo su una poltrona, piazzavo i piedi sopra a uno sgabello che avevo costruito apposta e mi distendevo a leggere un libro, con un bicchiere di calvados o di whisky, comodo alla mano per berne un sorso, tra una pagina e l’altra. Di tanto in tanto, quando mi prendevano dei momenti di ansia incontrollabile, sentivo il bisogno di accendermi anche una sigaretta. Era come se il fumo che aspiravo riempisse un po’ il vuoto che c’era in me. Talvolta, se ero particolarmente ispirato, oppure dovevo finire un pezzo, mi mettevo invece a scolpire, scoprendo a volte, nei bagliori del fuoco, una guida sul taglio da fare. Con il resto del mondo avevo contatti sporadici. Chiamavo talvolta i miei, per sentire di mio padre, che stava abbastanza bene. Quella sera fuori pioveva a dirotto, ma io non me ne curavo. Quella era una sera particolare per gli innamorati, il 14 febbraio, San Valentino. Pensavo a quanti stavano festeggiando in quel momento un amore, chi sinceramente, chi invece fingendo, rubando la scena a quello vero che doveva rimanere nascosto nel loro cuore. Io non festeggiai. La telefonata di Francesca fu propizia e dissipò la mia malinconia. Mi pensava sempre e chiamava spesso, sapeva che mi serviva e parlavamo di tante cose, mai di te. Le fui sempre grato per questa sua vicinanza. Ci salutammo, ma stavolta non resistetti e le chiesi: “Come sta?” “Mi chiedevo quanto ci avresti messo a chiedermelo. Fisicamente bene, ma di testa non proprio. Ti ho chiamato proprio a proposito di lei.” “Che c’è? Ha dei problemi?” “Direi di no, anzi uno dei suoi problemi pare si stia risolvendo e per il meglio, per come la penso io.” “Per favore, non tenermi sulle spine, mi dici cosa c’è?” “Tienti forte, senti che notizia! Stella ed Enrico si separano.” “Non ci posso credere!” “E invece si. E’ successo pochi giorni fa. Lo ha sorpreso a Ragusa, con una donna, la stessa, dalla descrizione fattami da Stella, che avevo visto io quella volta a Palermo. Lei era andata, sai dove? Mi aveva chiesto di tenerle il negozio, perché aveva tanta nostalgia di… una certa libreria.” ebbi un sussulto nel petto “Aveva voluto entrare per … sentire te, così mi ha detto. Sorpreso, eh?” “Si…” “Bene, poi, quando è uscita, mentre camminava per il centro, chi ti vede? Enrico e questa qua, abbracciati, mentre aprono il portone di un palazzo e vi entrano. Lo ha visto anche baciarla, per giunta. Quindi, nes-
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sun dubbio.” “E che ha fatto allora?” “Sul momento non ha saputo reagire in nessun modo. Mi ha raccontato di essere rimasta ferma in piedi, sul marciapiede, senza fare niente. Be’, prova a pensare che choc deve essere stato per lei.” “Immagino di si. Noi sapevamo, ma lei, da quel che mi avevi detto, non aveva mai avuto il benché minimo sospetto.” “Proprio così. Poi ha pensato di rimanere lì ad aspettare che uscissero. Così mi ha chiamato, dicendomi se potevo chiudere io, perché aveva avuto un imprevisto e sarebbe rincasata tardi. Quindi ha parcheggiato sul lato della strada di fronte a quel palazzo e si è messa in paziente attesa. Dopo circa tre ore sono usciti, molto felici, mi ha detto. Ridevano! Ma per poco, perché lei è scesa dall’auto, con noncuranza li ha affiancati e, sempre senza fermarsi, così, passando oltre, ha detto a suo marito: Ciao Enrico, non mi interessa che mi presenti questa signora. Voglio solo dirti che, quando torni a casa, sarà solo per prendere le tue cose e lasciarla. “E lui? Come ha reagito, lui?” “Dopo il primo attimo di sorpresa, l’ha rincorsa, dicendole: Ma Stella, non è come pensi, ti posso spiegare... Le solite frasi, non è stato nemmeno originale. Stella le ha detto solo: Non essere patetico e lasciami andare. Poi ha allungato il passo e più niente.” “Accidenti!” “Si, proprio Accidenti!” “E poi, lui se ne è andato?” “A casa ha fatto un ultimo timido tentativo di ricomporre la cosa, ma poi si è reso conto che lei era irremovibile ed è andato in albergo, in attesa di trovarsi una sistemazione.” “Stella come l’ha presa?” “Direi bene, tutto sommato. Ti dirò che comunque, come sai anche tu, la loro era ormai una unione di facciata. Però immagina, vedere tuo marito assieme ad un’altra, non è come bere un bicchier d’acqua.” “No, proprio no. Quindi ha preso la decisione.” “Si, è irremovibile e ti ho chiamato proprio per farti sapere di questa novità. Se non sbaglio, era questo il motivo che l’aveva fatta decidere di non vederti più, no?” “E’ così.” “E allora, magari ora potresti richiamarla…” “No!” la interruppi bruscamente.
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“No, lei ha detto basta e solo lei dirà ancora, se vuole.” La pensavo proprio così, ma in più c’era anche la minaccia di Zagaria a frenarmi. Il rischio che Enrico venisse a sapere ora era svanito, ma tuo zio poteva sempre crearti problemi. “Mi dispiace, pensavo di renderti felice.” “Da un lato si e ti ringrazio. Questo conferma che le cose nella vita sono mobili e in continua evoluzione. Vediamo cosa ci riserverà il futuro.” “La ami ancora?” “Ogni giorno che passa sempre di più.” “Anche lei. Non ho mai visto degli occhi così tristi come i suoi, fin da quando te ne andasti. Speravo di essere il vostro Cupido, ma non mi scoraggio. Riproverò con lei.” “Non forzarla. Se lo farà, dovrà venirle dal cuore.” “Va bene, uomo di ferrei principi. Ma dimmi come te la passi tra le renne.” “Zuccona! Non ci sono le renne qui.” “E che ne so? Visto da qui, quel posto mi sembra il Polo Nord.” “E hai anche un’agenzia di viaggi! Poveri clienti, se sapessero in che mani sono!” “Ehi, non sfottermi!” “Si, qui sto bene e ho trovato anche un lavoro che mi piace.” “Mi fa piacere. Ti saluto ora, perché se la telefonata continua, mi daranno la tessera di sostenitrice benemerita della società dei telefoni!” “Ok, grazie per la telefonata e, se hai novità…” “Se ho novità, penso che le saprai da qualcun'altra, che dici?” “Ciao Francesca e grazie ancora.” Questa notizia fu come un fulmine a ciel sereno, ma anziché rasserenarmi, mi inquietò. Ora non dovevi più fingere. Ma la decisione spettava a te. Al resto, a Zagaria e alle sue minacce, non volevo pensarci.
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CAPITOLO DODICESIMO
Erano passati altri due mesi e non avevo più saputo nulla di te. Francesca non aveva più chiamato e tu non ti era mai fatta viva. Quel sabato mattina ero intento ad accatastare della legna, di sabato non lavoravo. A un tratto sentii strombazzare un clacson come si fa nei cortei di auto che seguono gli sposi. Mi portai sul lato della casa per vedere cosa stesse succedendo e non credetti ai miei occhi: quel camper pieno di fiori e colori, che lasciava dietro di sé enormi volute di un fumo denso e nero, non poteva che essere quello di: “Lisa, Ellie, pazze scatenate! Siete voi.” “Mi diressi verso di loro, che nel frattempo erano scese, e le abbracciai con calore. “Ma voi le sapete proprio fare, le sorprese! A momenti ci rimango secco! Chi si aspettava di vedervi arrivare proprio qui, ai confini del mondo?” “Lo hai detto tu, siamo pazze, ma ci era venuta voglia di abbracciare il campeggiatore più simpatico e così, per vederti, ci siamo scammellate qualcosa come cinquemila chilometri.” disse Lisa. “Ehi, ma come fate a essere sempre abbronzate voi, anche d’inverno?” “Semplice, si va dove c’è il sole. Ti avevamo detto che eravamo vicino a Gibilterra mesi fa. Be’, ci siamo rimaste fino a ora.” rispose Ellie. “Vi trovo in forma, come sempre. Però devo dirvi che, nonostante siate graziose anche imbacuccate come siete, preferivo la versione… estiva.” “Lazzarone, attento a come parli perché… poi lo scoprirai.” “Che vuoi dire?” “Niente, niente, ma non ci fai vedere dove abiti?” “Ma certo, dài, venite con me.” “Si, però… aspetta un attimo” disse Ellie. “Perché? Che c’è?” Ellie non fece in tempo a rispondermi che la porta del camper si aprì, tu scendesti i gradini e ti fermasti immobile a guardarmi, con una felicità titubante e ancora frenata. Anch’io non mi mossi e la mia espressione inebetita lentamente lasciò il posto a un sorriso. “Be’, che aspettate? Dobbiamo fare le presentazioni? Su, forza, corre-
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tevi incontro, abbracciatevi, baciatevi eccetera eccetera. Si fa così sapete, tra innamorati!” disse Lisa. Queste parole ci scossero e ci fecero camminare l’una verso l’altro, senza mai toglierci gli occhi dagli occhi, finché fummo a pochi centimetri. Ci fermammo e tu parlasti per prima: “Ciao, ti ricordi di me? Mi vuoi ancora come… morosa?” Per tutta risposta ti avvolsi con le mie braccia, ti sollevai, iniziando una specie di girotondo ruotando su me stesso, poi ti riposi con i piedi a terra e ci baciammo, finalmente, rimanendo stretti l’uno all’altra tanto a lungo credo, perché a un tratto mi sentii toccare la spalla. Era Ellie: “Ehm, non vorrei essere importuna, ma magari potreste fare una pausa, che dite?” Ci scappò da ridere e io esclamai: “Quanto tempo è passato?” “Tanto, te lo assicuro. Se non fossimo donne ci vedresti con la barba bianca.” “Devi scusarci, abbiamo tanto arretrato da recuperare.” pensai alla gioia che c’era in me e non mi ricordavo di aver mai provato in vita mia una sensazione simile. Poi, rivolto a te, dissi: “Sei ancora più bella.” Mi baciasti ancora. “Ragazze, venite, abbiamo tante cosa da raccontarci.” Ci incamminammo. Il breve percorso che ci separava dalla casa tu lo percorresti guardandoti attorno e scrutando il mare. A un tratto mi dicesti: “Mi avevi raccontato di questi posti, di quanto ti piacesse venirci, ma ti confesso che non credevo fossero così belli. Il mare è sempre mare sia qui, come a casa mia. Ma questo non ha niente a che spartire con il mio. Perfino il rumore dell’acqua è diverso, è più… deciso, autoritario, severo.” “Ogni posto è bello per se stesso, come il tuo mare lo è per altri motivi. Io la immaginavo proprio così, la mia Bretagna, pur senza esserci mai venuto prima. E ora che sei qui anche tu, è diventata il Paradiso.” “Bla bla bla, amore di qua, tesoro di là. Ma Ellie, dico, non dovremo mica sorbirci continuamente questa solfa, spero!” disse Lisa. Ellie la guardò, poi rispose, osservandoci sorridendo: “Ho proprio paura di si. Ma, Lisa, li hai visti? Guardali! Dovevamo essere così anche io e te, quando ci siamo conosciute.” “Ehi, chiacchierone, entrate o no?” La casa vi piacque molto. Quando vi mostrai la camera da letto, Lisa,
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in tono burlone, disse: “Mmh… però, matrimoniale il letto. Lo hai preso prevedendo chi sarebbe arrivato?” e guardò te, che sorridevi divertita. Io le risposi: “C’era già, malalingua. E ti posso confermare che è molto comodo.” “Lo si capisce vedendolo, lo si capisce…” rispose Lisa. Poi chiesi: “Vi va qualcosa di caldo? Un te?” “Ottima idea. Sarà anche un bel posto, ma un po’ freddo per i nostri gusti.” rispose Ellie. Ci accomodammo in soggiorno. Stavamo sorseggiando delle calde e fumanti tazze di te e tu notasti delle piccole sculture in legno chiaro, che avevo posto sulla mensola del caminetto. “Belle, dove le hai prese?” “Le ho fatte io.” “Mi prendi in giro?” “No, questa è una novità per voi, ma ora sono… scultore.” E spiegai del mio nuovo lavoro e di come avevo scoperto di avere questo particolare talento. “Sei pieno di sorprese, Alessandro, complimenti, complimenti davvero! Sono bellissime.” esclamasti stupita. “Grazie. Ma raccontatemi di voi e di come mai siete capitate qui tutte e tre.” Lisa rispose: “Sarà bene che ti spieghi tutto Stella. Che dici Ellie? Li lasciamo un po’ tranquilli? Ne hanno di cose da raccontarsi.” “Mi sembra giusto. Noi intanto abbiamo un po’ di cose da fare a… casa nostra. Non ti ricordi?” “Certo. Ci vediamo più tardi ragazzi. Grazie per il te, Alessandro.” E uscirono, lasciandoci soli, finalmente soli. L’ultima volta era stata cinque mesi prima, un’eternità. Per la verità eravamo un po’ impacciati e condizionati da molte cose che dovevamo raccontarci, spiegarci, chiarirci. Parlasti tu per prima: “Ricordi cosa ti dissi la prima volta che ci siamo trovati così vicini?” “Si, mi hai detto: mi stringi, per favore?” “Fallo ancora.” Ti sollevai in braccio, mi sedetti sulla poltrona con te sulle ginocchia e ti portai al mio petto. Ti tenni così, coccolandoti come si fa con i bambi-
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ni. Ti sussurrai in un orecchio: “Racconta.” “Tu emettesti un profondo respiro: “Mi sono separata da Enrico.” “Lo sapevo.” “Te l’ha detto Francesca, lo so. Perché da allora non mi hai mai chiamato?” Con uno sguardo sereno, ma deciso, ti risposi: “Dovevi farlo solo tu.” Rimanesti in silenzio, con il capo chinato, poi mi dicesti: “Si.” Ti chiesi: “Cos’hai provato quando hai visto tuo marito abbracciato a un’altra donna?” “Ti confesso che non ho provato niente, anzi no. Ti può sembrare assurdo, ma ho provato sollievo, più che altro perché quella è stata la prova che mi ha fatto capire di aver vissuto per tanto tempo con la persona sbagliata. Sai, ho tentato tante volte di tornare ad amarlo, ma sempre mi rendevo conto che era cosa impossibile. Ogni volta che lo vedevo riconoscevo in lui la persona fredda, egoista, che era, ma soprattutto avevo presente il mio amore per te e il tuo per me. Ti pensavo… ” ti fermasti, come se stessi cercando le parole, poi: “… e ti confesso una cosa: mi sarei decisa lo stesso, anche se non avessi scoperto che mi tradiva. Avrei comunque sopportato il peso che mi avrebbe comportato interrompere la nostra unione e ne avrei accettato le conseguenze. Tu sai che io credo nella morale.” Ti interruppi, dissentendo su questa tua ultima affermazione: “Scusami, ma cos’è la morale? Chi si arroga il diritto di dire ciò che è giusto o non è giusto? Io penso invece che esista ciò che è bene o non è bene, sempre beninteso nei limiti di non prevaricare o far soffrire le altre persone e, nel tuo caso, continuare la tua vita accanto a lui, avrebbe avuto solo la conseguenza di rendere te infelice per sempre, e solo per non voler troncare una unione che, di fatto, non lo era più da tanto tempo. Tu hai sempre pensato che, per non far soffrire gli altri dovevi soffrire solo tu. Ma non è così, lui non avrebbe sofferto, non credi? Avresti pagato tu. Capisco se avessi avuto dei bambini, allora le cose assumevano un aspetto diverso. I bimbi sono sacri e vengono prima di tutto. Ma questo è stato un modo stupido di volersi sacrificare. I martiri ci sono stati e ci saranno ancora, ma non lo sono diventati per loro volontà, bensì per forza degli eventi. Se avessero potuto sfuggire alla loro sorte, lo avrebbero fatto. Non credo che Dio voglia il nostro martirio e se ci ha fatto scoprire la
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felicità, credo sia perché la afferriamo, per usarla, per far nascere da essa cose belle, non per sotterrarla, come fece quello che aveva sepolto l’unico talento che gli era stato dato, anziché farlo fruttare.” “L’ho capito anch’io alla fine.” “Però, ce n’è voluto di tempo perché ti decidessi!” “Ho riflettuto molto, ho pensato a mille cose, e in ognuna c’eri sempre tu. Francesca mi spingeva sempre a decidermi; dovevo chiamarti, cercarti. Ma io avevo paura, temevo che non… mi volessi più.” “Come potevi dubitarne? Ti ho detto tante cose, prima che ci lasciassimo, te le ricordi? Una in particolare: ti amerò per sempre. Se te le ho dette l’ho fatto incrollabilmente sicuro che sarebbe stato così. Non sono tipo da mentire o dire cose alla leggera, specialmente quando si tratta di noi.” “Mi vuoi…ancora?” “Piccola, ti ho aspettato in ogni minuto di questo tempo di triste solitudine, ma avevo ragione a farlo. Ora sei qui, ma mi devi dire tu con che intenzioni sei venuta da me. Anzi, penso sia il momento di chiederti ufficialmente una cosa: vuoi vivere per sempre con me?” Tu mi prendesti dolcemente il viso tra le mani e, con tono deciso, mi rispondesti: “Ho messo in vendita negozio e casa. Ti va bene come risposta?” Fui folgorato da un pensiero: e Zagaria? Lo sapeva? “Gliel’hai detto a tuo zio?” “No, avrei dovuto? Credo di essere grande, per decidere della mia vita.” “Ah si, certo ma… sa che sei qui?” “Non sa neanche questo, ho preso la mia decisione nel giro di due giorni. Francesca mi ha prenotato l’aereo, ho appeso un bel cartello: Chiuso per cessata attività sulla saracinesca del negozio e me ne sono venuta via. Ma… perché tutte queste domande? Pensavo che questa notizia ti facesse piacere e invece…” “No, è che pensavo a… dài, ripeti ciò che mi hai detto.” “Che cosa? Che ho messo in vendita il negozio?” “Non mi basta.” “Scusa?” “Avevi aggiunto: Ti va bene come risposta? E ora ti ho detto: Non mi basta.” “E che c’entravano tutte quelle domande? Mah, a volte sei strano. Comunque…” mi sorridesti “… eccoti accontentato: sono venuta da te per non andarmene mai più.”
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“Finalmente! Ma, hai pensato a come poter vivere? Voglio dire, che ne sapevi se avevo un lavoro o no?” Sbuffasti, alzando gli occhi e allargando le braccia, poi rispondesti: “Mi sono detta una cosa: basta fuggire dai problemi, basta prendere decisioni frutto solo di condizionamenti, pensando a tutto tranne che a me. Ho sempre rimandato nella mia vita le decisioni importanti, ma ora basta!” “Bentornata!” Ci baciammo, sapendo che da ora, lo avremmo fatto in qualsiasi momento ne avessimo avuto voglia. “E come hai fatto a trovarmi? Non sapevi dove ero finito.” “Si, ho pensato e ripensato a come fare. Nemmeno Francesca sapeva dov’eri. Si ricordava solo che eri in qualche posto, qui in Bretagna, ma niente di più. Non ho voluto telefonarti o fare telefonare lei, perché se ti avessi trovato e fossi venuta da te, sarebbe dovuta essere una sorpresa. Poi mi è venuto in mente di chiederlo alle ragazze. E sono stata fortunata. Quando ho accennato alla Bretagna, si sono subito ricordate di quella persona che avevi conosciuto giù in Sicilia, che si era fermata per qualche giorno da te, e si ricordavano anche che avevi raccontato dove abitava; vicino a Le Conquet, ai piedi di un faro. E qui vicino c’è solo questo. Sono state loro a offrirsi di accompagnarmi. Sono tanto care. Dalla Spagna sono allora venute a prendermi a Parigi, che ho raggiunto in aereo. Poi, una volta qui, ci siamo dirette verso questa punta e ci è andata bene. Che dici, sono stata brava?” “Bravissima, è stata proprio la sorpresa più gradita della mia vita. Poi ti presento Henry e Margot, brave persone. Ti piace la casa? Se non è così possiamo andare a vivere dove vuoi tu.” “Non ha importanza dove. Ogni luogo lo renderemo bello noi.” “Hai ragione. Non mi sembra ancora vero che tu sia qui. Non sei un miraggio, vero? Aspetta, ti voglio toccare.” “Ehi, non vorrai mica mettermi le mani addosso, mascalzone!” “Si, ma stasera, con calma, molta calma. Ti va?” Fu dolce il tuo si. Poi ci raccontammo come erano state le nostre vite in questo tempo. A te piacque molto sentirmi parlare del mio lavoro e, soprattutto, del mio hobby, che coltivavo con risultati molto lusinghieri. “Qui però si vede che manca il tocco di una mano femminile.” “Perché?” chiesi, incuriosito. “Intanto mancano le tende alle finestre.” “Ma qui non si usano granché. E’ per permettere alla poca luce, che c’è
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d’inverno, di entrare.” “Tutto quello che vuoi, ma ci sono anche tende molto leggere. Questo però è un problema mio, lascia fare a me. E poi non ti sembra di essere un po’ disordinato? Guarda che casino.” “A me non sembra, ma per voi donne c’è sempre casino. Comunque hai mano libera. Fai tu.” “Ok, domani è domenica, ma lunedì voglio andare in paese, c’è un paese, qui vicino, vero? Voglio fare degli acquisti.” “Si, c’è, ma non so se potrò venire. Lunedì lavoro…” “Chiederò al tuo datore di lavoro di darti un giorno libero. Non hai detto che è una persona splendida? Diamine, capirà la situazione. E poi, se dovesse essere duro nel suo no, be’, potrei convincerlo, magari mettendomi una gonna un po’ corta, una camicia scollata e…” “Basta così. Guai a te, sono geloso!” “Scherzavo!” “Lo so. Senti, si sta facendo buio; vuoi che andiamo a prendere le tue cose nel camper? Così ti puoi sistemare, se vuoi farti una doccia…” Stringesti le spalle, sospirasti e chiudesti gli occhi: “Sai quante volte ti ho pensato mentre facevo la doccia?” “Te lo avevo detto una volta: per non farsi venire certi pensieri bisogna rimanere sporchi.” “Si, me lo ricordo, ma io volevo farmeli venire quei pensieri. Mi hanno aiutato a sentirti con me.” “Ho pensato anch’io molte volte a te sotto la doccia. Ti vedevo stanca, dopo una giornata di lavoro e di caldo siciliano e sapevo che avresti avuto bisogno di me. Ti avrei lavato bene, tutta, dappertutto, dai capelli, poi giù le spalle, la schiena, avrei indugiato sul tuo seno che mi fa impazzire, la pancia, poi appena più giù della pancia, insaponandoti e strofinandoti dappertutto, più volte, mille volte. Quindi avrei proseguito sulle tue gambe affusolate, sui tuoi piedi. Poi ti avrei chiesto: Va meglio ora?” “Di sicuro mi avresti rilassato, ma così mi hai eccitato e non poco, te lo posso assicurare. In questo momento mi dovrei fare una doccia di ghiaccio. Me la puoi fare stasera, la doccia?” “Vediamo un po’, se non ho impegni, si, forse si può fare” risposi e ridemmo insieme, senza paure dopo tanto tempo. Ci infilammo i giubbotti e uscimmo. “Vuoi che andiamo fino al faro?” ti chiesi. “Si.” “Sai che l’ho anche visitato e ci sono salito in cima? E’ una sensazione
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difficile da spiegare. Da sopra domini tutto: la terra, il mare, vedi i gabbiani volarti attorno, sfiorare i vetri e ti senti… parte di questo mondo, della natura. Ti senti libero.” “Voglio salirci anch’io.” “Lo faremo.” Ci incamminammo e in breve raggiungemmo la base del faro, quindi rivolgemmo lo sguardo verso il mare, mentre il sole stava per tuffarcisi dentro, dipingendolo di colori fantastici. Ci abbracciammo e rimanemmo lì, in silenzio, rapiti. La sera cenammo tutti assieme, raccontandoci tante cose. Io preparai salmone ai ferri, ostriche e cozze, che li si chiamavano moules ed erano una vera istituzione. Come dolce, crepes con nutella e marmellata. Inutile dire che ebbi un successone. Lisa ed Ellie non sapevano quando sarebbero ripartite, probabilmente non prima di quattro o cinque giorni. Per ovvi motivi declinarono il mio invito a pernottare da me e così, verso mezzanotte, ritornarono al loro camper. Nonostante la loro simpatia e piacevole compagnia, quello fu il momento che io e te attendevamo con ansia crescente, sin dal pomeriggio, quando eri arrivata. Lo attendevamo dall’ultimo nostro incontro a casa mia in Sicilia, che ricordavamo bellissimo, e forse era proprio per questo. Non parlammo, io mi avvicinai a te ma tu, con mia sorpresa, chiudesti gli occhi e ti irrigidisti, rimanendo immobile. Respiravi a fatica. Io ti abbracciai, tu pure e sentii che stringevi con insolita forza. Continuavi a respirare con affanno, sempre tenendo gli occhi chiusi. Ti accarezzavo sul viso, nei capelli, per cercare di rilassarti. Ti massaggiai il petto, per aiutarti a respirare meglio, ti baciai, ma a un certo punto mi resi conto che il tuo malessere peggiorava e allora ti portai vicino alla finestra e la aprii, per farti respirare un po’ di aria fresca. Per fortuna, la cosa parve funzionare. Ti riprendesti un po’, ma soprattutto sembravi più serena. La cosa però durò poco, perché a un tratto scoppiasti in lacrime, singhiozzando in modo incontrollato. Allora ti chiesi: “Che cos’hai? Parlami, dimmi cos’hai!” Ma non riuscivi. Piano piano però, le mie carezze ebbero l’effetto di interrompere il pianto. Dopo qualche minuto ti chiesi ancora: “Va un po’ meglio?” Con voce flebile rispondesti: “Si…, scusami, non so cosa mi è preso, ma non temere, non è una delle mie solite crisi del passato.”
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“Meno male. Non potrò mai scordarmele!” “Sta’ tranquillo, stavolta credo sia per l’emozione di essere finalmente qui con te, senza paura di dovermi nascondere per non essere scoperta. E’ una cosa che ho sempre desiderato e forse ancora non credo possa essere vera. Ma ora va meglio, mi sta passando.” E mi stringesti a te, ancora più forte di prima, quasi volessi evitare di perdermi di nuovo. Io esclamai: “E’ incredibile il modo di emozionarti che hai! Tu vivi tutto con emozione. Tu sei pura emozione!” Chiusi la finestra e lentamente ti condussi in camera, ti distesi sul letto e ti dissi: “Rilassati ora, va tutto bene.” Ti alzai la maglietta e ti misi le mani sulla pancia, massaggiandola piano e poi baciandotela più volte, alternando quei baci con altri sulla bocca, in una sorta di spola amorosa. Poi te la tolsi del tutto, la maglietta, e rimanesti in reggiseno. Te lo abbassai e mi apparve il tuo seno: “E’…bellissimo.” e ricoprii anche quel luogo incantevole di te, trapuntandolo di baci. “Va meglio?” ti chiesi a un certo punto. “Si, dottore, la sua cura è magnifica.” “Che bella sei! Sei bellissima. Non ho mai visto niente di più bello in vita mia.” Il resto si può immaginare. Ti spogliai ancora finché non ci fu più niente da togliere e tu facesti altrettanto con me. Poi non tralasciammo nessuna tappa nei preliminari che precedevano l’amore. Tu sospiravi e ansimavi con gli occhi chiusi: “Oh siii… ancora…. ancora …. amore…siii…oh amore… si…dai….ancora… amore…” Le tue unghie si piantavano sulla mia schiena, poi: “Ti sento, ti sento…dentro di me…” Erano passate due ore. Ora eravamo distesi sulla schiena e ci tenevamo la mano. Io ero rivolto verso di te e ti guardavo il viso, così, adagiata sul cuscino. Eri una donna magica con cui fare qualsiasi cosa diventava poesia. Un brivido lungo, iniziato già tempo prima, che provavo ininterrottamente da allora e che ero sicuro, non mi avrebbe abbandonato mai, non avrei scordato mai. “Come hai fatto a starmi lontana in tutto questo tempo?” La tua risposta si fece attendere qualche attimo, poi:
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“Io sognavo.” “Tu…cosa? Vuoi dire di notte…” “No, sognavo a occhi aperti di noi…” “E cosa sognavi?” “Che andavamo insieme a fare la spesa, che cenavamo insieme, che…” “E funzionava?” “Si, in quei momenti eri con me.” “Ora lo sono.” “Si, non lasciarmi mai.” “No, mai.” Poi ti addormentasti, mentre io ti guardai per tutto il tempo, finché non riapristi gli occhi. Erano le tre del mattino. “Come stai?” ti chiesi. “Mmh… bene, benissimo…” “Allora stai come me.” “Ne sono felice. “ Rimanemmo lì, tra silenzi e parole, dicendoci anche tacendoci. Da una prospettiva che poneva i miei occhi allo stesso livello dei tuoi profili, osservavo rasente la tua pelle nuda, illuminata dalla luce molto fioca dell’abat-jour e mi sembrava di ammirare le infinite distese del deserto, fatto di dune, vallate e dolci declivi, con la costante di una superficie liscia e perfetta, risaltata da un gioco di luci e ombre quasi irreale, tanto da darmi l’impressione di sentire anche un vento caldo soffiare su quelle magiche distese. E allora soffiai piano su di te e il dolce piegarsi della tua minuta peluria a quella brezza, mi evocava immagini di campi di grano appena nato, mossi dal vento d’inverno. Ti spinsi con dolcezza perché ti girassi a pancia in giù e lo facesti docilmente, poi mi sedetti su di te, curandomi di non pesarti troppo e iniziai a massaggiarti sulla schiena, in lungo e in largo, soffermandomi ogni tanto sul collo e sulla nuca. Era una cosa che ti piaceva moltissimo. A un tratto mi dicesti: “Alzati.” “Come?” dissi stupito. “Alzati.” Obbedii e ti alzasti anche tu, prendendomi la mano e dicendomi: “Mi avevi promesso di farmi la doccia.” Ero felicemente stupito: “Pazza donna! Dài, vieni.” Non serviva che ci spogliassimo, eravamo già nudi, entrammo nella doccia e aprimmo l’acqua. Ci bagnammo, quindi io presi il bagnoschiu-
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ma e te lo spalmai lentamente dappertutto, iniziando dal collo, poi scendendo giù sulla schiena, sul seno, sulla pancia e poi giù ancora, soffermandomi sui tuoi glutei e tra i tuoi glutei, tra le gambe e ancora indugiandovi, in mezzo alle tue gambe, per poi finire fino ai piedi. Poi ti risciacquai ripetendo lo stesso percorso, mentre tu rimanevi immobile e con gli occhi chiusi, soddisfatta. Oh, molto soddisfatta. Poi mi dicesti: “Ora tocca a me.” e con sapienti massaggi delle tue mani mi facesti provare brividi inattesi. Poi cercasti il bacio che, come al solito, riaccese la voglia di altro amore, che ci regalammo ancora una volta, sotto l’acqua calda che scrosciava sulla nostra pelle ancora più calda. Ci asciugammo a vicenda e fu un’altra scoperta estremamente piacevole. Quando ritornammo a letto erano le cinque e trenta del mattino. Ci infilammo nudi sotto le coperte e ci addormentammo profondamente, sempre abbracciati. Ma era la prima volta che dormivamo una notte intera insieme e non ci riuscimmo più di tanto. Solo un’ora dopo tu, girandoti, spostasti il braccio e trovasti il mio petto. Nel dormiveglia, forse inconsciamente, mi accarezzasti con la mano e mi tirasti delicatamente i peli, senza farmi male. Mi svegliai anch’io e rimasi lì, fermo, a godermi il contatto della tua mano morbida, che mi dava continuamente piaceri mai provati. Fu poi la mia mano a raggiungere i tuoi fianchi, vagando fino ad approdare sul tuo ventre caldo e soffice. Con un ampio percorso che andava dal collo alle ginocchia, la muovevo con sapiente lentezza e indubbia efficacia, alternando le carezze su e giù, con il palmo o con il dorso della mano, percorrendo i contorni delle tue forme in modo certosino. Circumnavigavo i tuoi seni, per poi scalarli fino alla loro sommità, che culminava in un picco solido e turgido, che le mie dita catturavano con una delicatezza soltanto inferiore a quella della mia lingua. L’esplorazione proseguiva scendendo giù sulla pancia, una parte di te che trovavo incredibilmente sensuale e stupenda. La strofinavo da destra a sinistra e dall’alto verso il basso, scendendo poi da quel basso ancora più in basso, fino a scoprire il tuo fiore meraviglioso, tra un tappeto molto curato di corta peluria, che pettinavo, prendendola tra le mie dita. Sentii che quel bosco era di nuovo umido della tua calda rugiada e capii che, come me, anche tu desideravi un altro incontro. E io non mancai a quel nuovo meeting d’amore, fondendomi in te ancora una volta, e sen-
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tendomi stavolta stringere dalle tue gambe, come se volessi tenermi lì per sempre, dentro di te. Poi ci abbandonammo stanchi sul letto ancora una volta. Ti dissi: “Non è mai troppo, lo farei sempre, con te.” Mi sorridesti e dicesti: “Anch’io ma…ahi…ahi, forse ora non potrei ancora una volta.” “Perché?” “Ti sei strofinato così tanto che ora ho un po’ di male. Sai, ero un po’ giù di allenamento, ma non preoccuparti, mi passa subito e poi… ne valeva la pena. Anche quest’ultima volta è stata fantastica. Sei un amante stupendo!” Ti coprii con le coperte, spensi la luce e, cingendoti i fianchi con il mio braccio, ti dissi piano: “Buonanotte, amore.” Il mattino dopo, alle 11, venimmo svegliati da qualcuno che bussava alla porta. Mi misi l’accappatoio e andai ad aprire. Era Ellie, che esclamò con un’espressione molto ironica: “Me l’aspettavo, ancora a letto siete! Ehi, non fate quelle facce! Scherzavo! vi aspettavate da un po’, lo so e avete fatto bene e… spero stiate bene. Tu si, Alessandro, a vederti mi sembra proprio di si…” “Sta bene.” dicesti tu, apparsa dietro di me, “e anch’io. Stiamo benissimo.” concludesti la frase, stiracchiando le braccia in su, con un profondo respiro. “Caro Alessandro…” proseguì Ellie, “… visto che voi fate i dormiglioni, io e Lisa ci siamo arrangiate da sole. Abbiamo già fatto le presentazioni con i tuoi vicini. Simpatici, devo dire.” “Oddio, dovevo prepararli mentalmente prima. Sarà stato uno choc per loro scoprire che ho due amiche svitate come voi!” E scoppiammo tutti a ridere. Dopo un po’ eravamo pronti e uscimmo. Fuori c’erano le ragazze con Henry e Margot, ai quali ti presentai. “Alessandro ci ha molto parlato di te…”, disse Henry, “…e ora ne capiamo il motivo. Complimenti, Alessandro, è davvero molto bella! Sentite, io e Margot volevamo preparare qualcosa a casa nostra per pranzo, per stare tutti assieme.“ Ma io risposi:
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“Ho un’idea migliore, non voglio che Margot lavori ancora. Allora siete tutti invitati alla Vieille Bretagne a spese del sottoscritto. Voglio festeggiare, perché finalmente ne ho…” mi fermai e guardai te, poi continuai “… ne abbiamo motivo. Che dite?” “Con piacere!”, rispose Henry. Così pranzammo fuori, in un ristorantino che mi piaceva tanto, per la sua sala con ampie vetrate, che davano una vista stupenda sul mare. Dalla prima volta che ci ero stato, avevo sempre desiderato portarti, un giorno, ma l’avevo sempre considerata una pia illusione. Mi ero sbagliato, per fortuna! Fu una giornata piacevolissima, condita dal brio e dall’humor delle due ragazze e continuò così fino a sera. Prima di rincasare ci fermammo dai Lafont per un bicchierino, poi andammo tutti a nanna. Era solo la seconda notte che trascorrevamo insieme, ma in così poco tempo, tu avevi cancellato dalla mia mente tutta la solitudine sofferta fino ad allora. Per fortuna ti eri un po’ rimessa dalle… fatiche della sera prima e, con tutta la delicatezza di cui ero capace, per non farti male, facemmo ancora l’amore, come avremmo potuto rinunciarvi? Non sentisti alcun male.
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“Pronto mamma, sono io, come va?” “Alessandro, caro! Abbastanza bene. Il papà ha alti e bassi, ma non ha avuto più quelle crisi e ora il dottore dice che, se riesce ad alzargli un po’ la pressione, le cose dovrebbero andare ancora meglio. Ma tu come stai?” “Io sto bene, non preoccupatevi. Dimmi invece di te.” “I soliti acciacchi e dolori della vecchiaia, ma non mi lamento. Alessandro, noi invece siamo un po’ in pensiero per te, così lontano. Ma cosa fai? Con chi sei?” Mamma sapeva del mio addio alla Sicilia. Glielo avevo detto due mesi prima, durante una telefonata. Ci erano rimasti male, i miei e sapevo cosa pensavano. Non avevo un lavoro fisso, ero in giro da qualche parte in questo mondo ed erano in pensiero. La rassicurai: “Ma quante domande in una volta sola. Sono con amici e lavoro, sta’ tranquilla. Il mio amico ha una falegnameria, produce mobili e lavoro con lui.” “Una falegnameria? E’ pericoloso e deve essere anche faticoso. Non hai più vent’anni! Ah, se fossi rimasto in banca!” “Sarei infelice. Lascia perdere e non stare in pena per me, io sto bene ora. Senti mamma, non so quando potrò venire a trovarvi.” “Vieni quando vuoi, anche se abbiamo tanta voglia di vederti.” “Anch’io, ma per ora non posso.” “Ah Alessandro, qualche giorno fa ha telefonato una persona, che parlava con accento meridionale.” Mi feci pensieroso e le chiesi: “Una persona? E ti ha detto chi era?” “No, ha detto che era un tuo amico e che doveva parlarti, ma non aveva modo di contattarti. Così mi ha chiesto se potevo dargli il tuo numero di telefono.” “E… tu glielo hai dato?” chiesi con timore, immaginando che quello non fosse proprio un amico. “No, gli ho detto che non sapevo dove fossi e che non ti avevo più sentito da tanto tempo. Ho detto una bugia, ma avevo come il presentimento che non dovevo dirgli niente.” Sospirai sollevato e le risposi:
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“Brava mamma, hai fatto bene e, se chiamasse ancora, digli la stessa cosa.” “Sai chi è? Sei in qualche guaio?” Sentii che dovevo tranquillizzarla e le dissi: “No, stai tranquilla mamma, è solo uno che insiste perché mi metta in società con lui per…” non mi veniva in mente niente, e dissi la prima cosa che mi passò per la testa “…aprire uno studio di consulenza finanziaria.” “Be’ non sarebbe una cattiva idea. Non è una cosa in cui sei esperto?” “Ma sei matta? Certo che sono esperto, ma non voglio più sentire parlare di conti, finanziamenti, mutui e altre cose del genere.” “Ho capito, non insisto. Ora ti saluto e chiama più spesso.” “D’accordo mamma. Ciao, ti abbraccio e… ti voglio bene.” Appena riattaccato composi un altro numero. La notizia che qualcuno mi aveva cercato, e io sapevo benissimo chi fosse, unita a te, che ora di fatto non avevi più legami con la tua terra e soprattutto con tuo zio, mi convinse che era venuto il momento di agire. “Pronto, Salvo, sono Alessandro, come stai?” “Alessandro carissimo, è da un po’ che mi chiedevo che fine avessi fatto. Io sto bene, e tu? Dove sei?” “Sono in Francia, è tutto a posto. Senti, ti ricordi il favore che ti avevo chiesto? Ecco, ora sarebbe il momento. Quella busta che c’è nella cassetta di sicurezza, potresti farla avere al comando di polizia? Beninteso in forma anonima. Non voglio coinvolgerti in nessun modo.” “Si certo, te lo avevo promesso.” “La puoi imbucare in una cassetta postale. Ah, per favore, dovresti aggiungere sull’indirizzo della busta, che è all’attenzione del questore capo, il dottor Pasquali.” era necessario, non fosse mai che fosse capitata nelle mani di Buscemi. Pasquali era questore a Ragusa. Il suo nome lo avevo sentito in un servizio al telegiornale, riguardo a un’operazione antimafia che lui aveva condotto con successo e conclusasi con l’arresto di parecchie persone. Le sue risposte alle domande del giornalista che lo intervistava, mi ispirarono fiducia. Quello era il mio uomo. “Si, posso fare così. Quando esco, prima di tornare a casa per il pranzo, mi fermo in banca e prelevo il malloppo. Ma mi dici cosa c’è dentro?” “Lo saprai, non preoccuparti, e magari sarai proprio tu a darmi la notizia.” “Che notizia? Vuoi essere meno misterioso?”
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“Ti dico solo che riguarda una persona che conosci bene anche tu, il caro Vito Zagaria. Ecco perché voglio che tu non figuri in tutto questo.” “Ah Alessandro, ssperammo ‘bbene! “Andrà tutto liscio come l’olio, amico mio!” Cercavo di immaginarmi la faccia di Zagaria, nello scoprire che, ora, essendo sparita anche tu, oltre a me, con il suo ricatto poteva tranquillamente farci la birra. “Maledizione! Maledizione! Li ammazzo quelli, li ammazzo!” “Calmati Vito, ora sei in un bel casino. Sicuramente la ragazza deve averlo raggiunto e ora lui può usare ciò che sa.” disse Osvaldo, il fido consulente amministrativo di Zagaria, che curava tutti gli aspetti burocratici e fiscali delle sue innumerevoli attività. “Hai ragione Osvaldo, hai ragione” rispose Zagaria, che stava riprendendo il controllo di sé. “Dobbiamo trovarli. Cerca di scoprire dove sono finiti. Prova a risalire a lui dai dati che sono stati registrati dal notaio. Possiamo sapere da dove viene, se ha dei parenti e, se li ha, di sicuro mantiene i contatti.” Osvaldo arricciò il naso aquilino e rispose deciso: “Lo faccio subito.” “E numeri di telefono. Avremo un numero di telefono, accidenti!” “Credo di no. Le telefonate che ti aveva fatto lui a casa non saranno più memorizzate, è passato troppo tempo.” “Uno però ce l’abbiamo: quello di Stella. Se troviamo lei, troviamo anche lui, ne sono certo. Tieni sotto controllo il suo numero, risaliremo a dove si trova dalle chiamate.” “Va bene, può darsi però che lei sia da tutt’altra parte.” “No, stanne certo!” “Perché ne sei così sicuro?” “Sono innamorati, Osvaldo, sono innamorati e due innamorati vogliono stare insieme. Tu sei mai stato innamorato?” Osvaldo lo guardò e rispose senza troppa sicurezza: “Si…, credo di si, sono sposato…” “Non vuol dire niente Osvaldo. Sei sposato ma non vuol dire niente. Credi a me, ho visto gli occhi di quel Casati e anche quelli di Stella. C’è una luce particolare nei loro occhi.” “E guardò Osvaldo, esclamando: “Osvaldo, i tuoi sono un po’ mosci.”
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Prima di andarmene da Cedara, ero passato in banca a inserire nella busta la registrazione del colloquio tra Zagaria e il sindaco, che avevo cosÏ fortunosamente carpito un foglio anonimo, scritto al computer, dove spiegavo come era stato ucciso e come era stato fatto sparire Sarnielli. Accennai anche al modello dell’auto sulla quale era stato caricato il povero Gaspare. CosÏ, chi avrebbe aperto la busta, si sarebbe trovato servito di tutto il necessario per ingabbiare Zagaria, con tanto di confessione salvata su pen drive.
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
“Alessandro.” Mi voltai e ti vidi. Ero uscito prima di te, gli uomini fanno prima delle donne a sistemarsi, ed ero andato sulla scogliera per chiamare Salvo. “Sono qui.” ti risposi. “Siamo pronti per andare in paese.” C’erano anche Lisa ed Ellie con te. Vi raggiunsi e salimmo nell’auto che ci aveva prestato Henry. In breve arrivammo a Le Conquet e parcheggiammo in centro. Voi ragazze cercaste subito un negozio di tendaggi che vi aveva consigliato Margot per le nostre tende. Seguendo le indicazioni ricevute, in breve lo trovammo all’angolo di un incrocio. Io invece non avevo voglia di stare lì ad aspettare. Sapevo che le donne hanno tempi biblici, quando entrano in un negozio. Così, eravamo rimasti d’accordo di rivederci dopo un’ora nella piazza del paese. Mi feci un giro, entrai in un negozio che vendeva articoli di marina, poi gironzolai un po’ per il centro. Quando si era fatta l’ora dell’appuntamento, decisi, anziché attendervi in piazza, di venirvi incontro e mi diressi verso il negozio dove vi avevo lasciato. Vi vidi a circa cento metri mentre uscivate, sull’altro lato della strada. Mi feci notare chiamandovi e gesticolando e vi dirigeste verso di me, attraversando la strada sulle strisce pedonali. In breve ci riunimmo e accadde tutto in un attimo. L’auto improvvisamente aveva sgommato, puntando dritta verso di noi. Lisa ed Ellie erano davanti a una vetrina, un po’ discoste da noi, fermi sul marciapiede. Tu fosti più pronta di me e, resati conto del pericolo, mi desti una spinta, buttandomi per terra, evitando che fossi investito. Riuscisti a indietreggiare, ma non abbastanza da evitare lo specchietto dell’auto, che ti colpì. Cadendo a terra la borsa che tenevi in mano volò sul parabrezza dell’auto, impedendo la visuale al pazzo che guidava, con il risultato di mandarlo a sbattere contro un’altra auto parcheggiata. Corsi verso di lui, aprendo la portiera e tirandolo fuori di peso. Nel farlo gli cadde qualcosa dalla giacca. Presi quella pistola e gliela puntai contro, anche se era leggermente intontito per il colpo. Improvvisamente avevo capito da dove veniva. “La polizia, un’ambulanza, chiamate qualcuno, presto!” urlai.
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C’era un vigile, accorso appena visto ciò che era accaduto e mi disse di posare l’arma. “Lo ha fatto apposta, voleva ammazzarci!” “Posez l’arme, vite!” “Ok, la metto giù, ma è lui il bandito.” Posai la pistola, che il vigile raccolse. “Lo tenga d’occhio.” gli dissi e mi precipitai da te. Eri riversa a terra, svenuta. Ti presi la testa e te la sollevai, appoggiandola sulle mie ginocchia. “Stella, Stella, dimmi qualcosa, ti prego! Stella! Un’ambulanza! Chiamate un’ambulanza, presto!” Le amiche chiesero immediatamente alle persone accorse il numero del pronto intervento, ma vi aveva già provveduto la signora che gestiva un negozio di dolciumi, proprio di fronte a dove eri caduta tu. Io continuavo a chiamarti, ma non mi rispondevi. Respiravi però e il cuore batteva, sembrava non avessi niente di rotto e non c’erano perdite di sangue. Dopo cinque minuti arrivò una volante, a cui spiegai che quel tizio lo aveva fatto apposta, voleva proprio prenderci sotto. La presenza della pistola li convinse definitivamente a portarlo al comando. Chiesero anche a me di seguirli, ma rifiutai, dovevo starti accanto e finsi di stare male pure io. Che venissero loro in ospedale, se ci tenevano. Arrivò anche l’ambulanza e in breve fosti adagiata su una lettiga e caricata sull’automezzo. Io stavo per salire, ma uno degli infermieri mi disse: “Ca n’est pas possibile, monsieur!” “ Non me ne frega niente!” “Mais monsieur…” Allora intervenne Lisa, che chiese gentilmente all’uomo di fare un’eccezione per una volta e fu accontentata. Così salii e mi misi accanto a te, prendendoti la mano, senza lasciarla mai, fino all’ospedale. Lì mi sistemai nella sala d’attesa del pronto soccorso, mentre ti portarono in una stanza. Chiusero la porta. Dopo un quarto d’ora arrivarono anche le nostre amiche, anch’esse preoccupatissime, ma si resero conto che ero soprattutto io ad aver bisogno di essere sostenuto e rincuorato in qualche modo. Mi trovarono seduto su una sedia, mi tenevo la testa tra le mani e dicevo continuamente: “No, no, ti prego no! Non andartene di nuovo! No Dio, non farmi questo!” Si sedettero al mio fianco e mi abbracciarono. Ellie mi disse:
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“Calmati Alessandro. Vedrai che non è niente. Hai visto? Non aveva ferite, in apparenza.” “Si, ma non mi rispondeva, capisci? La chiamavo e non mi rispondeva!” Capirono che non ragionavo in modo razionale ed era peraltro comprensibile. Ero riuscito a malapena a starti lontano per mesi, ma ora, averti finalmente ritrovata e rischiare nuovamente di perderti, stavolta per sempre, non lo avrei sopportato. Aspettammo pazienti. Nel frattempo Lisa aveva telefonato a Henry, che sopraggiunse in breve. Dopo mezzora si aprì la porta, in fondo al corridoio, e uscì un medico, che si diresse verso di noi. ”Messieurs, mademoiselle as u un choc cerebrelle. Probablement elle a cogné la tete et…” “Dottore, non capisco molto il francese…” “Mmh… italiano? J’essayerai… cercherò. Dicevo che al momento risulta evidente solo un piccolo ematoma nella zona del cervelletto, altre lesioni fisiche non ce ne sono, a parte una contusione lieve sulla spalla. Quello che ora bisogna fare è attendere, perché si trova in stato di coma, ma non preoccupatevi, è normale in questi casi. Deve passare un po’ di tempo, poi di solito, una volta assorbito l’edema, il paziente si sveglia da solo.” “Di solito?” dissi molto preoccupato. “Veda signore, in questi casi non c’è mai una regola. Quando si tratta di traumi cerebrali si può solo aspettare l’evolversi della situazione. Il coma vero e proprio dura, di solito, da due a quattro settimane, raramente di più. Un numero limitato di pazienti recupera solo poche abilità di base, ma nella gran maggioranza dei casi il recupero è completo, con il ritorno alla piena coscienza.” “Allora si riprenderà, vero dottore? E’ questo che mi sta dicendo?” “J’espér, mais… oh, pardon, l’habitude. Lo spero, ma non devo nasconderle nulla. C’è anche la possibilità che alcuni pazienti in stato vegetativo possano recuperare solo un certo grado di consapevolezza, altri invece restano in tale stato per anni. Ma le ripeto che questo tipo di casistica è poco frequente, specialmente in situazioni simili a quella della signora. In genere l’esito è positivo e quindi ritengo si possa essere ottimisti. Ora la ricoveriamo in reparto e la teniamo in osservazione. Ci sentiamo più tardi, quando avrò l’esito delle radiografie e della TAC che faremo immediatamente. N’est-ce pas?”
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“Grazie dottore.” disse Lisa, mentre io rimasi in piedi con lo sguardo assente. “Hai visto?” mi disse lei, “dobbiamo solo aspettare.” “Ci crederò solo quando l’avrò riportata a casa. Abbiamo una casa nostra, noi adesso, capite? Nostra… nostra…” “Si, certo, calmati ora.” rispose Ellie. “Vuoi un caffè? Ho notato un distributore automatico all’entrata.” “Si, grazie.” risposi, poi aggiunsi: “Scusatemi, mi rendo conto di come sono, ma cercherò di controllarmi.” “Ti vado subito a prendere il caffè.” disse Ellie e alzandosi mi accarezzò sui capelli. Dopo un quarto d’ora uscì un infermiere, avvisandoci che, se volevamo, potevamo entrare da te. Era una stanza singola e questo mi rincuorò; avremmo avuto la nostra privacy. Tu eri immobile, con gli occhi chiusi, rivestita con uno di quei camici verdi da ospedale. Sulle braccia due flebo. Ti presi la mano e, soffocando il pianto, ti parlai: “Ehi bella, che razza di spavento mi hai fatto prendere! Ma non preoccuparti, il dottore dice che non è niente, vero ragazze? Guarda, ci sono anche le nostre amiche. Ti facciamo compagnia, sai.” ti baciai. Nel pomeriggio riuscii a convincere le ragazze a tornare a casa. Henry era già rientrato verso mezzogiorno. Non serviva rimanere in tanti, bastavo io. Ricevetti la visita di un ispettore di polizia, che voleva avere la mia versione dei fatti. Gli confermai la mia certezza che quell’uomo voleva ucciderci, ma finsi di ignorarne il perché, tacendo sulle vicende sicule. Da lui seppi che era italiano e, guarda caso, siciliano, un balordo con precedenti penali. Mi disse che avrebbero cercato di saperne di più. Questo fatto significava solo una cosa: eravamo stati rintracciati chissà come e ora il mio timore era che l’investitore avesse potuto comunicare ad altri dove eravamo. Speravo solo che ci avesse incrociati per caso e non avesse avuto il tempo di avvisare nessuno. Ma rimossi queste paure e pensai solo a te. Passai tutta la notte seduto accanto al tuo letto, restandoti vicino, nella speranza di vedere un movimento, di sentire anche solo, perché no, un lamento. Sarebbe stato importantissimo in quella fase. Avrebbe significato un inizio di risveglio. Il giorno dopo venne il dottore con il risultato degli esami, che non avevano evidenziato nulla di particolare e quindi non poté che confer-
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marmi quanto già detto in precedenza. Bisognava solo aspettare, forse pochi giorni, forse … chissà. “Domani…” mi disse “… inizieremo un programma riabilitativo fisioterapico. E’ importante muovere e stimolare ogni singolo segmento corporeo, per prevenire l'instaurarsi di problemi articolari e muscolari, o trombosi ed embolie polmonari, tutte complicanze che possono sorgere in forza di un'immobilizzazione prolungata. Per almeno un’ora al giorno useremo anche il lettino della statica, un letto ortopedico che permette di mettere in posizione verticale il paziente. Questo macchinario, oltre a portare beneficio a livello sia delle funzioni ematiche arterio-venose, che di quelle antigravitazionale e legate al carico, ridistribuendolo diversamente rispetto a quando è in posizione supina, è uno stimolo per la ricerca dell'attenzione e per una visione diversa dell'ambiente circostante.” A me quel dottore dava fiducia. Arrivò Francesca e ne fui contento. L’avevo avvisata io il giorno dell’incidente e, appena aveva potuto, era volata a Nantes e da qui aveva noleggiato un’auto per arrivare a Pointe St. Mathieu. Era stata brava e aveva fatto come mi ero raccomandato. Non aveva detto a nessuno dove si stava recando. Zagaria non era stupido e avrebbe potuto sfruttare la nostra amicizia, che ben conosceva, per risalire a noi. Ci abbracciammo piangendo. Durante i quattro giorni in cui rimase, fu quasi sempre in ospedale con me e ne fui felice. Una sera, guardandoti, le dissi: “Guardala, è magnifica! Non c’è niente di più bello!” Lei ti accarezzò i capelli e rispose: “E’ sempre stata bella, ma da quando conosce te lo è ancora di più. Che scherzi gioca l’amore, quando ci prende! Perdiamo quelli che credevamo essere i nostri punti di riferimento, diventiamo davvero un’altra persona, non solo nel cuore, ma anche nei lineamenti del viso, che si addolciscono. L’amore ci fa diventare più buoni e … anche più belli!” “Lei si. Lo sai che quando l’ho vista arrivare qui, così lontano da casa sua, per raggiungere proprio me, ho pensato a cosa avessi fatto per meritarla?” “E’ incredibile,” rispose Francesca, “…anche lei un giorno mi ha detto che non sa come ha potuto meritarti.” “Francesca, non avrò pace finché lei non guarirà. E’ colpa mia. Se non fosse venuta qui, per me, non sarebbe successo niente.” “Non dire stupidaggini, Alessandro!” Rivolsi ancora lo sguardo verso di te, poi le dissi: “Come mai lei ed Enrico non hanno avuto figli?”
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Francesca, alzando le spalle, disse: “Non gli sono venuti. Ci hanno provato tanto, in passato, ma niente. Poi però in lei qualcosa cambiò. Un giorno mi confidò di essere stata profondamente ferita quando, con la delicatezza di elefante che si ritrovava, Enrico le disse: Ho capito, neanche se ti scopassi due volte al giorno rimarresti incinta, nemmeno per sbaglio. Mi ricordo quanto avvilita era quel giorno, ma non tanto per quella sorta di colpa che lui gli aveva addossato, quanto per quelle parole che lei mi ripeté più volte, incapace di farsene una ragione: Neanche se ti scopassi due volte al giorno… Disse di essersi sentita umiliata come mai in vita sua. Ma lui era così e Stella forse non lo ha mai conosciuto a fondo. Pensa che una volta si vantò con mio marito, in uno di quei discorsi goliardici da sbruffoni che fanno i maschi tra di loro, che lui, sua moglie, la montava, proprio come fanno gli stalloni con le giumente. Edoardo ci rimase proprio male e non riuscì a tacermelo. Lei non lo seppe mai, sarebbe morta di dolore. Dire che aveva una stupida mentalità maschilista, a questo punto sarebbe fargli un complimento. Comunque quando mi confidò quell’episodio, lei pianse molto e mi disse che, da quel momento in poi, se prima lo aveva sinceramente desiderato, ora non avrebbe voluto mai più un figlio da lui. Da allora il suo sentimento nei confronti di Enrico cominciò a spegnersi lentamente, ma inesorabilmente.“ Avevo ascoltato in silenzio, poi dissi: “So cosa ha provato perché, al contrario, io una volta le dissi che, appena avessimo potuto, l’avrei presa dolcemente per fare l’amore. Ecco, quelle parole la colpirono molto, perché era proprio ciò che desiderava: essere presa dolcemente per fare l’amore.” Poi, con lo sguardo sempre fisso su Stella, conclusi: “Se la guardi non ti può venire da prenderla in un altro modo.” Francesca la sera rincasava da me, dove alloggiò per tutto il tempo. Poi tornò a casa, ma si raccomandò con me che la tenessi costantemente informata sulle tue condizioni. Passavano i giorni e tu rimanevi sempre così, in uno stato di assopimento costante, senza muovere minimamente neanche un muscolo. Io rifiutavo qualsiasi sostituzione, che pure i miei amici mi avrebbero dato volentieri. A dire il vero erano preoccupati, oltre che per le tue condizio-
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ni, anche per le mie, convinti che dalla tua sorte potesse dipendere anche la mia. Mi ero sistemato vicino al tuo letto una sedia sdraio da spiaggia, che poteva trasformarsi in lettino. E lì dormivo ogni notte, con sopra una coperta. Rientravo a casa solo per un paio d’ore di tanto in tanto, il tempo per fare la strada e una doccia, prendere della roba pulita, che mi faceva trovare sempre pronta Margot, che tesoro di donna, e portarmi da mangiare. Poi ritornavo subito in ospedale. Lisa ed Ellie venivano a trovarti due volte al giorno, al mattino e verso sera, ma lo facevano soprattutto per me, perché con loro mi distraevo, e anche solo parlare di qualcosa, mi sollevava un po’. Per la verità, avevo detto loro che si sentissero libere di andarsene, ma quella volta si incazzarono tantissimo, si offesero proprio. Mi risposero che per loro un posto valeva l’altro, ma ora non esisteva altro posto al mondo che lì, con te e con me. Che amiche sarebbero state, altrimenti? Ne fui felice. I giorni passavano e la situazione non cambiava, la paziente non mostrava nessuna reazione. A venticinque giorni dall’incidente il dottor Renard mi disse: “Devo parlarle. Venga, andiamo nel mio ufficio.” Lo seguii e ci sedemmo, quindi mi parlò: “Signor Casati, la signora Ranieri è ancora stazionaria, ormai e potrebbe rimanere così a lungo.” “Si, dottor Renard, lo so.” “Per quel che riguarda il resto, il quadro clinico non presenta altre patologie che, peraltro, non aveva neanche quando è successo l’incidente, a parte qualche botta che si è ormai risolta.” “Bene, allora aspettiamo. Sono sicuro che tra non molto si riprenderà.” “Signor Casati, vuol sapere come vedo io il problema? Dopo un mese di solito i pazienti reagiscono, chi più chi meno, ai trattamenti di fisioterapia, ma la signora, finora, non ha dato il benché minimo segnale positivo. E’ come se fosse proprio lei a non volersi svegliare. Noi continueremo a stimolarla come abbiamo fatto finora, ma ho l’impressione che le serva qualcosa di diverso. Non credo si tratti di un caso più grave degli altri, solo che qui bisognerebbe riuscire a far scattare in lei quella piccola molla che porterebbe al suo recupero.” “Cosa posso fare io? Me lo dica, farò qualsiasi cosa.” “La mia opinione personale è che basterebbe un nonnulla per sbloccare la situazione e credo che questo sia proprio nelle sue mani. Le parli continuamente, le faccia tornare alla mente dei momenti piacevoli del passato, che le possano suscitare delle emozioni. Le faccia sentire anche la sua
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vicinanza fisica, la tocchi, la accarezzi. A volte può bastare una parola, un suono, un tocco della mano. Qualcosa che noi reputiamo insignificante può invece essere importante. Le dico questo perché in tutto il tempo in cui l’ho vista vicino alla signora, ho capito cosa rappresenta per lei.” “Dottor Renard, ho capito perfettamente.” “Bene, vedrà che alla fine verrete premiati.” Un giorno che in ospedale c’eravamo tutti, Henry, sua moglie, Lisa ed Ellie, io mi rivolsi a Henry: “Henry, mi dispiace per il lavoro, ma in questo momento non esiste per me altro che arrivare a farla guarire. Devo dedicarmi completamente a lei.” “Vecchio mio, fai ciò che devi fare. E sai che per qualsiasi cosa puoi contare su di noi.” “Grazie Henry, sei un grande amico. E grazie anche a te Margot.” “Non devi neanche dirlo, Alessandro.” Poco dopo rimasero solo le mie amiche: “Grazie anche a voi, ragazze. Se rimanete un po’, come avete detto, mi fate… ne sarei contento.” Entrambe mi presero la mano e Lisa mi disse: “Anche noi.” Verso le nove di sera rimasi solo con te. Mi sedetti sul letto, ti diedi il bacio della buonanotte e ti presi la mano. Te la strinsi tutta la notte.
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Le mie giornate erano sempre accanto a te. Al mattino seguivo le tue sedute riabilitative, durante le quali ti parlavo, cercando di affiancare allo stimolo fisico degli infermieri anche quello verbale. Poi, quando eravamo soli in camera, continuavo per conto mio i massaggi che avevo visto eseguire dal personale dell’ospedale. A giorni alterni ti lavavo dalla testa ai piedi. Ti toglievo il camice e ti passavo delicatamente su tutto il corpo una morbida spugna. Guardandoti mi rendevo conto di quanto fossi dimagrita. Già lo eri prima, figurarsi ora! Ti parlavo sempre, intavolando i discorsi più disparati, come se tu capissi perfettamente e solo non potessi rispondere. Pronunciavo poi le risposte che la mia immaginazione mi ispirava tu potessi darmi. Ma non succedeva niente, continuavi a dormire. Un giorno ti dissi: “Sai a cosa penso spesso? Al giorno dell’incidente. Vederti lì, stesa a terra, è stato terribile ma, anche così, il tuo viso mi è apparso nobile, regale…” fermai le parole, pensando a mille cose, ma mi scossi e continuai: “Hai sempre gli occhi chiusi e so cosa stai facendo: stai sognando. Indovinato vero? Stai sognando di noi. Cosa stiamo facendo ora? Ah, forse stiamo facendo la spesa, oppure stiamo pranzando. Si, stai sognando e il sogno lo trovi talmente bello, che non vuoi svegliarti più. Ti prego svegliati invece, ora che siamo insieme non è più tempo di sogni!” Piegai il capo sul tuo seno. Anche a occhi chiusi immaginavo che tu vedessi e non volevo mostrarti le mie lacrime. Una sera ti dissi: “Durante il mio soggiorno in Sicilia, ogni tanto mi venivano in mente cose, frasi, pensieri, dopo aver vissuto momenti con te, che mi avevano ispirato delle emozioni, piacevoli o no. Non volevo che andassero dispersi e dimenticati, così mi mettevo a scrivere queste cose su un blocchetto, che mi portavo sempre appresso, e che ho ancora. Mi è venuta voglia di scrivere, di catturare sulla carta le impressioni di un momento, così da poterle rivivere ancora, anche se i momenti più intensi della nostra vita rimangono custoditi per sempre dentro di noi e non c’è pericolo che ce ne dimentichiamo. Ma scrivendoli, potrebbero capitare nelle mani
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di qualcun altro, un giorno e suscitargli qualche emozione. E’ quello che succede a me ogni volta che ho un libro tra le mani. Sento che lì dentro c’è il suo autore e, quando leggi, entri nella sua vita, lui te la svela, si dichiara, perché nella sua esperienza tu possa trovarci qualcosa di utile per quella che può essere la tua. Vedi, io penso che ciò che non lascia indifferenti, ciò che sorprende è sempre positivo. Ancora più forte è l’emozione che le parole suscitano quando si uniscono alle note di una canzone. Non è da tutti fondere tra testo e note ciò che è racchiuso nel cuore. Lì, la grande maestria sta nello sposare i versi con la melodia e quando l’opera che ne esce ti fa provare dei brividi come se avessi freddo, ma proprio tanto freddo, allora si è di fronte a un piccolo capolavoro. La musica mi ha dato la forza per non buttarmi via, dopo che mi lasciasti. La ascoltavo che mi squarciava i timpani, forse sono diventato anche un po’ più sordo, ma non me ne importava. Era come se ne traessi nutrimento per tenere il mio cuore in vita. Non riesco a esternare con parole cosa sentivo entrarmi dentro con quei suoni di batteria, chitarra elettrica, o l’armonica a bocca di Dylan e Springsteen e con le loro parole, spesso a me incomprensibili in quella lingua non mia, ma ugualmente vibranti, perché sposate magistralmente alle note. Che brividi, fantastico! Così ho scritto, un po’ come faceva Herzog, scritto ma mai consegnato. Quando sarai guarita, se vuoi, potremo però leggerle insieme, seduti fuori al sole. Sai, la Musa ispiratrice sei sempre stata tu. Prima non abbiamo mai avuto tranquillità e tempo per scambiarci i nostri pensieri, ma ora di tempo ne abbiamo tanto, abbiamo tutta la vita. Che dici?” Ti guardai, poi mi risposi da solo: “Ok, sapevo che saresti stata d’accordo. Ti ricordi la prima volta che ci siamo incontrati? E’ stato in quella libreria. Poi ci siamo ritrovati ancora lì, la seconda volta e ci siamo seduti in quel bar. Tu prendesti una spremuta d’arancia e io un caffè. In quella mezz’ora non staccai mai i miei occhi dai tuoi. Quando ci lasciammo ricordo che presi dal contenitore sul tavolino una di quelle salviette sottili di carta dei bar e ci scrissi sopra: I nostri occhi si incontrano nello spazio di un momento, ma ciò che ci lasciano dentro è senza tempo.” Nel lasciarti la mano, mi parve di sentire una leggera pressione nella mia, seppure molto debole. Ti guardai, ma tutto era immutato, anche la tua mano era inerte. Mi dissi: “Suggestione. Solo suggestione. Devo stare attento e rimanere con i piedi per terra. La mente a volte gioca strani scherzi.”
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Poi ti sussurrai, come ogni notte: “Buonanotte dolcezza.” Il dottor Renard entrò nella stanza per visitarti. Fu una visita molto accurata. Talvolta mi chiedeva informazioni. Quando ebbe finito mi chiamò in corridoio e mi chiese: “La trovo bene, stiamo facendo un ottimo lavoro. Non ci sono problemi respiratori, e questa è una cosa importantissima. Ma, mi dica, ha mai notato qualche movimento, anche minimo?” Stavo per rispondere si, ma poi cambiai idea. Quella debole stretta alla mia mano la sera prima me l’ero di sicuro immaginata. “No, dottore, niente di niente” lui si fece pensoso, poi mi disse: “Fisicamente sta bene, a parte il dimagrimento, ma è una cosa comune in pazienti nel suo stato. Speravo però di sentire qualche novità positiva dal punto di vista neurologico. Ma continui come sta facendo, le parli molto e, mi raccomando, la tocchi, le faccia anche sentire la sua vicinanza fisica. “Le parlo continuamente, dottore. A volte ho perfino paura di darle fastidio e penso che, se potesse, mi metterebbe un tappo in bocca.” “Non dica sciocchezze e non si stanchi mai, invece.” Rimasto solo rientrai da te. Rivedendoti, anche se erano passati solo pochi minuti, sentii un brivido lungo la schiena. Ogni volta era così. Da più di un mese eri in quella posizione, eri anche diventata pallida, e mi sentivo un po’ demoralizzato. Mi venne in mente la favola della Bella Addormentata, che si svegliava al bacio del suo principe azzurro. Tu però non ti svegliavi, i miei baci non avevano effetto. Mi chinai piano sul tuo viso e te ne diedi uno sulle labbra. Mi trovavo a casa, in una delle mie rare e fugaci puntate. Con te era rimasta Lisa. Prima di risalire in auto per tornare in ospedale, uscii e mi incamminai lentamente verso la scogliera. C’era un punto che mi piaceva più degli altri e che avevo fatto mio. Mi sedetti su una roccia abbastanza piatta, appoggiando i piedi su un altro masso, che sembrava messo lì apposta. Sotto di me, a una decina di metri, il mare si infrangeva instancabilmente contro la scogliera, ritirandosi tra rivoli di schiuma bianca, ma solo per prendere una nuova rincor-
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sa e tornare a schiaffeggiare quelle pietre, come per punirle, stupito e offeso per la loro impudenza nell’impedirgli di proseguire oltre. La nebbia fitta del primo mattino si stava diradando, lasciando spazio ai raggi del sole. Nuvole di gabbiani volteggiavano in alto, per poi tuffarsi, cercando fortuna con il becco tra le onde. Fissai un punto lontano in mezzo al mare. Era una petroliera e pensai che proprio stonava in quell’incanto, come stonano le ciminiere di una zona industriale, o gli ingorghi incredibili del traffico di una città, o stonano i viadotti che tagliano e sfregiano altri pezzi di questo paese delle meraviglie. Constatavo con amarezza che tutto ciò che stonava non era natura, ma proveniva dall’uomo, quell’uomo convinto del progresso a ogni costo, incapace di rendersi conto che erano solo tante picconate, con cui stupidamente e lentamente stava sgretolando un posto magico. Cercai di dimenticarmi di quella petroliera e mi venne in mente che, oltre quel mare, c’era altra terra. Lì era nata Ellie, proprio su quella costa idealmente di fronte a me, anche se apparentemente invisibile, perché troppo lontana. E questo pensiero mi rincuorò, pensando che c’era ancora qualcuno che in questo mondo non stonava come l’uomo a cui servono la petroliera, o le ciminiere, o il caos e la confusione, per sentirsi qualcuno. Persone come Ellie, Lisa, Henry, Margot, Francesca, Turi; perbacco, o ero stato io fortunato a incontrarne così tante in poco tempo, o davvero ce n’erano più di quante mi immaginassi e, forse erano più ancora degli uomini delle ciminiere. Solo che ti accorgi più di pochi che si agitano e schiamazzano, piuttosto dei molti, che sono modesti e silenti. Le grandi cose vogliono discrezione e umiltà. Fa più notizia il male, perché è più apparente e strombazzante, mentre nessuno mai parlerà di una madre che, alle quattro del mattino, prepara il caffè al figlio che va a lavorare ai mercati generali. Eppure è questa una grande notizia, perché è quell’amore silenzioso e nascosto che dà energia a questo universo. E’ più facile raccontare del dolore e del buio, ma non si potrà mai spiegare la felicità e l’amore. Ciò però non significa che non ci sia ed è proprio la magia che si scopre dentro a tante persone che si incontrano sulla strada della vita, a farti capire che ciò che è magico non può perdere. Volsi il capo verso la casa e mi avvidi che c’era proprio Ellie dietro a me, in piedi, con le mani nelle tasche del piumino e il cappuccio in testa. “Ciao, da quanto sei qui?” le chiesi. “Da cinque minuti. Ti osservavo e mi chiedevo a cosa stessi pensando.” Le mie labbra si distesero in un sorriso e le risposi:
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“A te.” “A me?” chiese lei stupita. E le raccontai di come il mio pensiero, volando assieme ai gabbiani, era arrivato fino a lei.” “Bello e vero. Sei profondo e sensibile, Alessandro, e meriteresti più fortuna. Sai, ti voglio confidare una cosa che non ho detto neanche a Lisa. Tu sai che io con Dio, la religione, i preti, non vado mica d’accordo. Ma da un po’… prego.” La guardai con aria interrogativa: “Tu preghi? E chi?” “Si, prego, non so chi, ma lo chiamo “Amico.” “Amico…” mi venne da ripetere, “…è originale. Dio viene chiamato in tanti modi, ma non ricordo di averlo mai sentito chiamare così.” “Be’, mi viene facile, “Amico.” “E posso sapere cosa gli chiedi, se non sono indiscreto?” Ellie alzò lo sguardo sulla superficie del mare, e rispose: “Provo una pena infinita nel vedere Stella, immobile come morta, piena di tubi che la legano. E nel vedere te e la tua tristezza. E allora qualche giorno fa ci ho pensato su e mi sono detta: se c’è un motivo per pregare, questo lo è. Chissà, magari se ci credo fermamente, potrebbe anche funzionare. Così, prima ho pensato chi pregare e, dato che se ne hai bisogno cerchi conforto in un amico, allora l’ho chiamato e gli ho detto: Amico, mi senti? Se ci sei, per favore svegliala e fa che lo chiami. Solo questo ti chiedo, ma se lo meritano, perché si meritano. Ecco, solo queste parole, che ripeto ogni giorno. Senti, io non so se prego nel modo giusto, se c’è un modo per pregare. Ma un Amico ti sa capire a pelle e spero che il mio mi capirà. Spero che ci sia.” Mi avvicinai a lei, che nel frattempo si era seduta per terra, la presi sotto braccio e le dissi: “E’ una preghiera talmente bella che Lo commuoverai come hai commosso me. Credimi, talmente bella che, se non ci fosse, si inventerebbe per accontentarti. Ti voglio bene, Ellie.” “Amore, sai che anche se non parli sto bene lo stesso con te? Mi fai compagnia, ne fai forse più tu a me che io a te. Sai cosa voglio fare quando guarirai? Una grande festa con tutti i nostri amici. Chiameremo qui anche Francesca con la sua famiglia. Una grande festa, con i fuochi d’artificio che si specchieranno sul mare. Dài amore, dimmi qualcosa, apri gli occhi, svegliati, fammi un sorriso.”
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Mi ritrassi, preso da un momento di sconforto, ma mi feci forza e ripresi a parlarti: “Ricordi la sera che mi hai chiesto quell’abbraccio? Sono sicuro di si. Vedi, quando ti ho stretta al mio petto ho avuto una sensazione mai provata prima. Era come se mi fossi unito a una parte di me che mi era sempre mancata, era… accidenti, è difficile da spiegare! Ma sono sicuro che non ti servono tante parole, perché forse hai provato la stessa cosa anche tu. Due parti, due metà di una cosa sola, che finalmente erano state riunite e combaciavano perfettamente. E, anche se già la prima volta che ci eravamo incontrati quel mattino a Ragusa, avessi provato un sentimento particolare nei tuoi confronti, quella sera ho capito che sentimento fosse: ti amavo come mai avevo amato prima nessun’altra, e da allora hai occupato ogni mio pensiero, ti sei presa il mio cuore e io ho lasciato che facessi. Da troppo tempo ti aspettavo e la mia pazienza era finalmente stata premiata. Non mi sono mai accontentato di niente di meno e ho avuto ragione. In amore non bisogna mai accontentarsi. E’ l’errore più grande.” Ti lisciai delicatamente la guancia, e nel farlo mi parve che le tue palpebre si fossero mosse impercettibilmente, ma poi pensai che ero stato io, con quella carezza, a muovere la tua pelle e non diedi peso a questo episodio. Ripresi il mio monologo: “Poi quel giorno alla villa romana ce lo siamo dichiarato questo nostro amore. Quando nel pomeriggio te ne andasti, credevo di toccare il cielo con un dito.” Mi fermai e rimasi assorto, come in una specie di sogno, con lo sguardo su di te. E stavolta fui certo di non avere una allucinazione; le esili dita della tua mano si erano leggermente ritratte, per poi distendersi nuovamente nella posizione originaria. Con il cuore che mi batteva forte in petto, ti presi quella mano e te la strinsi, me la portai alle labbra, baciandola una, due, dieci volte, sperando che quegli stimoli ripetessero quel miracolo. “Tesoro, ti sei mossa, ne sono sicuro! Fallo ancora, ti prego, è… è magnifico!” Quello era di sicuro il segno che qualcosa stava lentamente intaccando il tuo torpore e mi ricordai che quel muoversi della tua mano era avvenuto appena dopo che ti avevo ricordato uno dei tanti momenti magici che avevano segnato la nostra calda stagione d’amore.
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Successe ancora, stavolta in forma molto più evidente, dopo un’altra mia carezza sulla guancia. Muovesti ancora solo le dita, ma bastò per meritarti il premio di un grande abbraccio. “Sei grande amore, sapevo che ci saresti riuscita! Per oggi può bastare, deve esserti costato enorme fatica e ora devi riposarti, dobbiamo riposarci entrambi. Aspettiamo domani, sarà ancora migliore.” Volevo telefonare a tutti, preso da una felicità incontenibile, ma non volli lasciarti nemmeno un minuto e mi distesi nel mio letto improvvisato accanto a te. Avrei avvisato domani. Chiamai tutti alle otto. Verso mezzogiorno arrivarono Lisa ed Ellie, in seguito mi avrebbero detto di essersi fermate sulla porta; ti stavo parlando e non volevano interrompermi. Mi sembrava di somigliare ai fedeli che pregano con fervore, aspettando il miracolo ricorrente e puntuale della liquefazione del sangue di San Gennaro. Le mie preghiere erano parole d’amore da far sentire alla mia donna e anche quelle preghiere trovarono ascolto, perché un altro miracolo si compì. Tu, già durante il giorno avevi ripetuto dei movimenti, stavolta con entrambe le mani, ma in quel momento avvenne un altro evento fantastico. Apristi gli occhi, alzando lentamente le palpebre per un paio di volte. Poi più nulla, ma io non stavo nella pelle. Le due ragazze si precipitarono da me e mi abbracciarono. Avevano visto tutto, sbirciando dalla porta, e avevano potuto vedere anche loro quel breve e magnifico momento. “Alessandro, i suoi occhi!” “Si, ieri ha mosso le mani e ora, avete visto anche voi?” “Abbiamo visto.” rispose Lisa, che aggiunse: “Scusaci se siamo state indiscrete, ma non potevamo non stare a guardarvi. Ci facevate tanta tenerezza. E chissà cosa le stavi dicendo, per aver suscitato in lei una risposta così.” “Si, anche ieri avevo appena ricordato il nostro primo incontro e lei si è mossa.” “E tu credi che in qualche modo siano state le tue parole a…” “Non ne ho il minimo dubbio!” risposi. “Allora inventane ancora di cose così, sono meglio di una medicina.” Ellie aggiunse: “Sembra di vivere in una di quelle favole dove trionfa l’amore e… vissero felici e contenti. Ma non è una favola, oppure si… oddio!”
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“Non vedo l’ora di raccontarlo al Dr. Renard. Passerà domani. Ora venite vicino a lei, sono certo che vi sente, sa che siete qui. Stella, guarda chi c’è, le nostre due amiche svitate.” Loro ti si avvicinarono ai lati del letto e ti strinsero le mani. Lisa provò a parlarti: “Stella, siamo noi. Hai sentito come ci ha presentate il tuo amico? Carino, no?” E poi fu la volta di Ellie: “Ti vuole un sacco di bene, Dio, quanto bene!.” Tu muovesti ancora una volta le dita delle mani. “Bene, molto bene!” pensai. “… e questo è tutto, dottore, ancora non ci credo!” avevo appena finito di raccontare quell’episodio al dottor Renard, che sorrise e mi rispose: “Sono anch’io veramente felice. Il ghiaccio è stato rotto e andiamo avanti così.” “Aveva ragione lei.” “Io mi sono basato sulla mia esperienza e anche sulle statistiche. Comunque ci sono varie componenti che concorrono a risultati del genere: le cure, l’affetto dei propri cari e una certa dose di fortuna. Si goda il momento, vedrà che ne verranno di ancora migliori.” La situazione rimase abbastanza stazionaria per circa una settimana. Ma ormai non avevo più paura. Avevo appena finito di lavarti e stavo per chiamare un’infermiera, per farmi aiutare a rivestirti quando, guardandoti, mi venne da dirti: “Mi sa che qui avremo un bel da fare, anche dopo che ti sarai risvegliata, perché sei così magra… accidenti! Ma non darti pensiero, ci penserò io a farti ingrassare come un maialino.” Poi sorrisi e aggiunsi: “Però, guardandoti svestita, mi torna in mente la prima volta che ti ho spogliata. Ricordi? E’ stato a casa di Francesca. Be’, non serve che te lo ricordi. Dio, che schianto di donna! Ora chiamo l’infermiera perché stai prendendo freddo, poi ti racconto cosa ho pensato quella volta di te.” Dopo dieci minuti eravamo di nuovo soli, l’infermiera se n’era andata e io ti dissi: “Quella notte mi avevi da poco lasciato alla mia auto e te ne eri tornata a casa. Anch’io rincasai ma non avevo sonno, come facevo ad avere sonno? Avevo la mente piena di te e del tuo profumo. Il tuo profumo ce
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l’ho addosso sin da quel giorno e continua ad inebriarmi, a ispirarmi. Come posso spiegarti cosa è per me?” A volte non serve cercare le parole, perché qualcuno te le mette nel cuore. Rovistai nel mio e: “Il profumo intenso di una rosa in confronto alla tua essenza è ben poca cosa.” In un certo senso me lo aspettavo, conoscendo la tua sensibilità. Te le dicevo di proposito, cose del genere, sapendo che ti avrebbero emozionato e, quando apristi gli occhi, non fui sorpreso. Mi alzai subito dalla sedia, portandomi sopra al tuo viso e febbrilmente ti chiesi: “Mi vedi, amore? Dimmi che mi vedi!” Tu non parlavi, ma cercavi di muovere la mano. Ti diedi la mia e me la sentii stringere, debolmente. Eri cosciente, ne ero matematicamente certo, e feci una prova: “Stella, mi hai stretto la mano! Ascoltami ora, prova a stringere ancora” lo facesti. Cercando di controllare una gioia incontrollabile, ti chiesi ancora: “Bravissima! Ora ti prego, fammi capire se ci vedi. Se è così stringimi ancora la mano.” Aspettai, ma non sentii nulla. Allora, senza scoraggiarmi, ti dissi ancora: “Forse non ci vedi bene, dopotutto i tuoi occhi sono rimasti chiusi così a lungo. Ma può darsi tu veda almeno delle ombre, è così?” Stavolta sentii ancora la tua stretta, e ti baciai la fronte, dicendoti: “Magnifico!” Poi, ti domandai: “Stella, dimmi una cosa. Sono sicuro che non vedi l’ora di poter parlare, per dirmi che sei stufa di sentire le stupidaggini che ti dico ogni giorno. E’ così?” Stavolta rimanesti immobile. Allora affondai il mio viso sul tuo seno, la mia felicità era così grande che stavo fabbricando lacrime. Ma non volli farmi notare da te, non per vergogna, ma per non procurarti emozioni troppo forti. Ne avevi già avute parecchie. Poi mi passò e ti dissi: “Chissà domani con cosa mi stupirai!” Ogni progresso diventava un fatto acquisito. Ora, oltre a muovere le mani, ogni tanto aprivi anche gli occhi e, in base alle domande che ti ri-
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volgevo, riuscivi a farmi capire che, piano piano, vedevi in modo sempre più nitido. Il dottor Renard era molto soddisfatto e diceva che, ora c’era solo da attendere quando saresti riuscita di nuovo a parlare. Ma era solo questione di tempo. “Il dottore ha detto che sei stata molto brava e ora aspetta solo di sentire la tua voce, visto che finora non ha ancora avuto il piacere. Vuoi provare? Prova a dirmi anche solo una parola, una facile. Vediamo, potresti dire… amore. E’ facile no? A me viene molto facile. Proviamo assieme: a-mo-re… a-mo-re. Niente, vero? Pazienza, oggi non ti va, sei di poche parole.” E risi, guardandoti negli occhi. Poi ancora: “Ieri avevamo ricordato il tuo primo momento di crisi e turbamento. Ma il ricordo di quando invece hai deciso di farla finita tra noi due, ancora mi fa male. E’ stato un momento tremendo, che è durato fino a quando mi sei riapparsa. Non so tu come hai vissuto questo tempo lontana da me, ma ti assicuro che per me è stato devastante. Soprattutto il pensiero che ci eravamo lasciati, pur continuando ad amarci, era per me come un macigno nello stomaco. Ho provato a dimenticarti, ho provato anche a odiarti, ma ogni volta mi ritrovavo ancora più innamorato. Ho anche pregato Dio, perché mi togliesse questa pena, questa morte che avevo dentro, togliendomi… da questa vita.” La mia fu una lunga pausa, importante e grave quanto ciò che avevo appena pronunciato. Dopo un po’ mi scossi: “Lo so, è terribile ciò che pensavo, ma mi sentivo solo, tanto solo, infinitamente solo. La cosa peggiore è essere soli e lo sai quando lo provi. Un giorno, chissà perché, mi sono venute in mente anche quelle persone anziane, condannate alla solitudine perché nessuno più si interessa a loro, visto che hanno già dato e ora non servono più. Gli stessi parenti si eclissano e loro vivono aspettando qualcuno che spenda qualche parola e li faccia sentire ancora persone. Si accontentano della commessa al supermercato, o dell’impiegata, quando vanno a farsi le analisi mediche. Penso che qualcuno ci vada apposta per trovarsi in mezzo ad altra gente, per poter dire anche solo un: scusi il posto è libero?, conquistando una risposta, cercando così di allontanare il pensiero di quando dovrà rientrare a casa, dove a parlargli sarà solo la TV. Forse però, più che la solitudine, è l’indifferenza a uccidere lo spirito perché, vivere da soli, ma con il conforto ogni tanto di una visita amica o di una telefonata di qualche parente, o il nipote che si ricorda di te e ti viene a trovare, ti dà la forza di aspettare la prossima occasione, che prima o poi si ripeterà. Ma
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l’indifferenza è molto peggio. Quel sentirsi anonimi per gli altri, quel vedersi sul marciapiede tra gente che passa indaffarata e si accorge di te solo perché è costretta a schivarti seccata, quell’essere al mondo ma non esistere. E’ la cosa peggiore. Molti anziani preferiscono la casa di riposo, pur avendo la possibilità di rimanere a casa da parenti, perché lì si sentono di nuovo persone tra persone. Io mi sono sentito così in questi mesi, temevo che ti fossi dimenticata di me. Ho cercato di farmi forza, di occupare la mente in tante cose, ma quel pensiero era più forte e mi consumava dentro. E’ difficile spiegarti il mio umore di allora. Una volta ho visto un film. Lei era paralizzata, ma perfettamente cosciente e consapevole che, per tutta la vita, avrebbe vissuto così. Non lo accettava e voleva morire. C’era sempre una persona con lei; non era suo padre, ma era come se lo fosse. Gli chiese di farla morire, staccando le macchine che la tenevano in vita. La mia sofferenza di allora mi portò a capire cosa può scattare nella mente di una persona a cui viene tolta la speranza, cosa si può provare quando ci si sente perduti e si arriva a chiedere di morire. Lui non voleva ascoltarla, era una cosa enorme, se ci pensi, ciò che lei gli aveva chiesto: far morire una persona! Ma lei, ormai, era talmente risoluta nella sua decisione che, muovendo l’unica cosa che ancora le era permessa, si tagliò a morsi la lingua, per morire dissanguata. La salvarono in tempo e gliela ricucirono. Lei, appena rimasta sola, si strappò i punti. Lui allora capì e, superando il suo credo religioso, rispettò la sua volontà e la accontentò, staccandole il groviglio di tubi che la legavano a una vita morta. Sai, anch’io credo in qualcosa, ma in questo caso penso che lui abbia fatto la cosa giusta, penso che nessuno gli imputerà mai questo, come un peccato. Fu allora che capii chi può arrivare a desiderare la morte, quando è stato privato di ogni speranza.” Ti dissi ancora: “Poi a Natale mi hai scritto quegli auguri che mi hanno fatto rinascere. Ho capito allora che non mi avevi mai dimenticato e ciò mi ha cambiato la vita e mi sono detto: la aspetterò, fosse anche per tutta la vita. La aspetterò perché un giorno la vedrò arrivare. Ed è stato così. Ho avuto chiaro che, nella nostra vita noi ci cercheremo sempre, come il bimbo cerca la madre, il prigioniero la libertà, il cieco la luce, l’ignorante la conoscenza, chi ha sete l’acqua, chi ha freddo il calore, il disoccupato il lavoro, l’inquieto la tranquillità. Ciò che ci è vitale tu cerchi in me e io in te, sapendo di trovarlo. Ho capito perché io ti voglio così bene, perché tu mi vuoi così bene. Credo che, nella vita, tutto accade per un motivo, un senso logico, un disegno, un fine, un destino che lo fa accadere, anche
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se ci è spesso celato. Il nostro amore si autogestisce e vive di vita propria. E’ vivo e indipendente da qualsiasi cosa. E sai perché? Perché l’amore vero non ha padroni, è immortale e sopravviverà a tutto. E non si può desiderare un destino più bello. Quella sera piansi come un bambino. Fino ad allora avevo pensato mille volte che, vivere senza più la speranza di riaverti, non aveva senso, ma le parole che mi scrivesti mi dissero che questa speranza non sarebbe mai morta e quindi avrei continuato, aspettando che tu tornassi e mi dicessi: Ciao, come stai? Mi vuoi ancora come morosa?” mi fermai e alzai gli occhi. Dopo un attimo ripresi: “E sono stato esaudito. Sei tornata da me per pronunciare queste esatte parole.” “Forse ho fatto male a dirti questo, ora sarai triste, ma non esserlo, perché è passato. Adesso non c’è nessuno al mondo più felice di me. Sei qui ora, e so quanto bene mi vuoi.” Mi alzai per andare ad alzare la serranda della finestra e far entrare un po’ di luce. Feci due passi e mi voltai verso la porta, credendo di aver sentito qualcuno parlare, forse un’infermiera. Ma non c’era nessuno e mi diressi alla finestra. Poi tornai verso di te, volevo sistemarti un po’ le coperte, ma sentii ancora una voce, stavolta più chiara e nitida, anche se il tono era molto basso. “Scusa…” mi parve di sentire e la voce, ne ero certo, proveniva da… molto vicino. I miei occhi fissarono il tuo volto e quasi trasalii. Avevi gli occhi aperti e chiaramente cercavi di parlare. Aprivi la bocca, tentando di dire qualcosa ed ero sicuro ora, che eri stata tu a parlare. Il dubbio, se ancora l’avevo, svanì in quell’istante, quando ancora sentii un altro scusa appena sussurrato, ma ben chiaro. Non sapevo come contenere la gioia che provavo e mi precipitai su di te, gridandoti: “Hai parlato! O Dio, ti ringrazio! Hai parlato!” Ti accarezzavo, ti baciavo, ero in preda a un’eccitazione incontrollabile e in un balzo corsi in corridoio, passando tra le stanze e gridando: “Ha parlato, ha parlato!” tra gli sguardi incuriositi di pazienti ed infermieri. Poi tornai di corsa da te e ti vidi portare il braccio alla testa, come chi, preso da una forte emicrania, istintivamente spera in un sollievo premendosi dove il male è più forte. Avevi un’espressione sofferente, ma io pensai che poteva anche starci. Dovevi aver sopportato uno sforzo enorme per riuscire a emettere solo quella parola, e probabilmente eri esausta. Ma ora muovevi anche completamente il braccio e ormai pensai che
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eri fuori da quell’incubo durato più quasi due mesi. Ti baciai cento volte e vidi che tu ora abbozzavi anche un sorriso. Poi mi fermai e ti chiesi: ”Hai detto scusa, perché?” Cercasti ancora di rispondere, ma stavolta non ci riuscisti e chiudesti gli occhi, vinta dalla stanchezza. Allora ti coprii con le coperte, lasciandoti fuori solo la testa e ti dissi sottovoce: “Non hai niente di cui chiedere scusa. Sono io invece a dire grazie a te. Buon riposo, te lo sei meritato, mia grande donna!” Uscii di nuovo in corridoio e chiamai prima le ragazze, poi Henry e infine Francesca, per avvisarli della grande notizia. Poi ritornai in camera e mi sedetti sulla sedia, cercando di calmarmi. Mi rendevo conto di essere troppo su di giri. Ma quel momento lo avevo atteso da così tanto, che ancora non ci credevo. Tu ora aveva gli occhi chiusi e chiaramente dormivi, stavolta di un sonno normale e non più di quell’assopimento assente della mente, iniziato quel giorno maledetto. I giorni successivi trascorsero scanditi dai tuoi progressivi miglioramenti. Ora muovevi, oltre alle braccia, anche il resto del corpo, seppure in maniera molto limitata. Erano piccoli spostamenti di una gamba, piegavi anche il ginocchio, e riuscivi anche a stare per pochi minuti seduta. La terapia fisioterapica era stata modificata con nuovi esercizi resi possibili dal tuo stato, per riattivare gradualmente la funzionalità degli arti. Con molta cautela il dottor Renard aveva deciso di iniziare a farti introdurre qualcosa nello stomaco, per il momento soltanto in forma liquida. Ma la cosa più importante era il tuo ritorno alla parola, e con una mente lucidissima. Ti ricordavi tutto fino al momento della disgrazia, poi più nulla. Rimanesti molto stupita quando ti dissi che eri rimasta incosciente per più di un mese. Non ti dissi che, per tutto il tempo, ti ero sempre rimasto a fianco, ma te lo disse Lisa, così: “Guarda che hai sempre avuto vicino a te un angelo custode e penso che, se tu sei guarita, è merito suo.” A quelle parole scoppiasti in lacrime e mi volesti stringere a te. Era anche un pianto liberatorio il tuo, che segnava la fine di un incubo. Poi, quando rimanemmo soli e ti fosti un po’ calmata, mi dicesti: “Sai che mi ricordo tante delle cose che mi dicevi?” “Lo sapevo che mi sentivi.”
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“Si. Ricordo che quando ricordavi i nostri momenti felici ero felice, tanto felice. Poi però hai ricordato anche i momenti tristi e… mi dispiace infinitamente di averti procurato così tanto dolore. Scusa.” “Non scusarti, non ne hai nessun motivo! Ciò che hai fatto lo hai fatto perché sei tu, solo tu, così pura… vera. Il dolore è svanito, ora.” Poi presi il telefono e composi un numero: “Chi chiami?” mi chiedesti. “Ora sentirai.” Quando la comunicazione fu stabilita dissi: “Pronto, ciao sono Alessandro, rimani in linea per favore.” E ti passai il cellulare. Tu, incuriosita, rispondesti: “Pronto…” “Stella, sono Francesca! E’ stupendo risentirti.” “Francesca, che sorpresa! Sono guarita, o meglio… sto guarendo, lo sai?” “So tutto, tesoro! Ho sempre avuto il mio informatore personale.” “Alessandro…” “Si, Alessandro, quello là, del nord…” ridesti “si, lo conosco, è un tipo strano. Sai che lo amo da morire? Ma come avrò mai fatto a innamorarmi di uno che viene dal nord?” “Mah, avrà qualcosa di speciale.” “Si, è speciale.” “Senti Stella, sono contentissima che tu stia bene, ma voglio vederti con i miei occhi. Tra qualche giorno vengo da voi. Spero che qualcuno mi ospiterà.” Mi guardasti e mi dicesti: “Chiede se c’è qualcuno che la ospita, quando verrà qui.” Annuii, dicendo: “Dille che la strada la conosce già.” E tu riferisti all’amica, che rispose: “Scherzavo, so che non mi lascerà su una strada.” “Ti aspetto Francesca. Non vedo l’ora di vederti. Abbiamo tante cose da raccontarci.” “Basteranno tre o quattro giorni?” “E chissà! Tre… quattro, dieci… è da vedere, è da vedere. Ciao e a presto.” Riattaccasti e, sospirando profondamente, distendesti i lineamenti del viso. Poi mi prendesti la mano e te la portasti sul seno. “Senti questo cuore? Lo fai battere tu.” Io allora portai la tua sul mio petto e risposi: “Sono gemelli, quando il tuo batte, il mio risponde.”
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Dicesti solo: “Dammi un bacio.” L’emozione ti si leggeva in volto. Ti eri messa a sedere sul letto, aiutata da me, mettendo giù le gambe poi, lentamente, ti alzasti in piedi per la prima volta, rimanendo ferma in quella posizione per dei lunghi attimi, quasi volessi assaporare la gioia di una conquista finalmente ottenuta. Quindi iniziasti a muovere qualche passo, sempre con il mio sostegno e osservata con soddisfazione dal dottor Renard, arrivando fino alla finestra, per poi girarti e rifare il percorso inverso, fino a tornare al tuo letto e distenderti nuovamente, provata dalla fatica, ma anche dalla grande emozione. “Bene, molto bene, signora Ranieri. Credo che ormai si possa dire senza timori: è guarita!” “Mi sento molto debole, dottore.” “E’ normale. Ora infatti le resta solo da recuperare la forma fisica, ma quella non è un problema.” “Quanto pensa debba rimanere ancora qui?” “A questo punto non credo più di qualche giorno. Voglio solo eseguire un’ultima TAC di controllo e verificare che prosegua il suo recupero motorio. Poi la faccio tornare a casa, contenta?” “Non vedo l’ora, dottore.” “Bene, vi lascio. Prima di sera si faccia un altro paio di passeggiate come questa, sempre con lei accanto, mi raccomando signor Casati, almeno fino a che non si sentirà sicura di controllare perfettamente il suo equilibrio.” Lo assicurai: “Tranquillo dottore, sono la sua ombra.” “Domani cerchi di allungare il percorso, ma si fermi quando è stanca. Deve fare le cose gradualmente, senza strafare. Intanto le vario la dieta; ora può cominciare ad assumere cibi solidi e ricchi di proteine.” Il dottor Renard uscì e ti dissi: “Tra poco andiamo a casa…” “A casa…” mi facesti eco. Lisa ed Ellie entrarono nella stanza e ti videro dritta in piedi che camminavi. “It’s wonderful!” esclamò Ellie.
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”Tipica espressione anglosassone che esprime gioia e felicità.” disse Lisa, che aggiunse: “E’ davvero magnifico! Da quando cammini?” “Da ieri.” “Allora prendi la porta e andiamocene a casa!” “Non manca molto. Il dottore ha detto che dovrei essere dimessa per fine settimana.” “Beh, ragazzi, ci pensate che neanche venti giorni fa questa dormigliona ronfava della grossa e ora quasi parte per una maratona?” scherzò Lisa. Risero tutti e io risposi: “Sei esagerata come al solito. Però non sta niente male, che dite?” Ellie tirò fuori dalla borsa alcune riviste e te le diede, dicendoti: “Abbiamo pensato che forse hai voglia di leggere… anche per sapere cosa è successo in questo mondo durante il tuo… pisolino.” “E per far passare un po’ il tempo. Deve essere di una noia stare in ospedale…” aggiunse Lisa. “Oh, se è per questo io sono fortunata, ho sempre compagnia.” dicesti guardandomi. Lisa ribatté ridendo: “Ho capito. Ellie, mi sa che non abbiamo avuto una grande idea!” Andò così. Il dottor Renard ritenne molto buone le tue condizioni, tanto ritenere che, tornare nel tuo ambiente familiare, ti avrebbe giovato di più. Fu così che alle 12 del 18 giugno, dopo più di due mesi di ospedale e sofferenza, mettesti per la prima volta i piedi fuori all’aria aperta e fu una sensazione bellissima. Era una stupenda giornata di sole, ti fermasti per un attimo a respirare profondamente, aprendo le braccia e alzando la testa al cielo con gli occhi chiusi e un sorriso che ti illuminava il viso, in una sorta di rito liberatorio. Poi li apristi, gli occhi e ciò che vedesti ti fece scoppiare in una fragorosa risata: “Il mio camper preferito! Mi portate a casa con il mio camper preferito!” Lisa, con la testa fuori dal finestrino, spuntava fuori sorridente dal mazzo di fiori che tappezzavano la carrozzeria del suo camper e faceva cenno di salire. Salisti, aiutata da me a fare i due gradini abbastanza alti. In breve arrivammo a casa. Quando scendesti, ti corsero incontro Henry e Margot,
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che ti aspettavano. Quella sera ci avrebbero invitato per cena. Poi, appoggiata al mio braccio e accompagnata anche da Lisa ed Ellie, percorresti i trenta metri che ti separavano da casa. Quando la raggiungemmo io, che avevo Ellie di fianco a me, la sentii pronunciare un “grazie”. “Perché mi ringrazi?” le chiesi. Lei sorrise e mi rispose: “No, non ringraziavo te, ma … il mio Amico. Ti ricordi?” e alzò gli occhi all’insù. Le misi il braccio sulle spalle e le dissi: “Era proprio quella giusta…” “Che cosa?” mi chiese. “La tua preghiera.” Ci guardammo e lei rispose, con un sorriso: “Si, era proprio quella giusta.” Stella ci interruppe: “Entrate per un caffè?” Ma Lisa ed Ellie, discrete come sempre, si guardarono e, strizzandosi l’occhio, vollero lasciarci a goderci il tuo ritorno a casa: “No, magari nel pomeriggio. Ora è meglio che stiate un po’ tranquilli, finalmente” ci disse Ellie. Tu le rispondesti: “Ok, grazie infinite per tutto. Allora a più tardi.” “A più tardi ragazzi.” risposero e ritornarono al loro camper. Tu allora mi guardasti e mi dicesti: “Entriamo?” Io, per tutta risposta, aprii la porta e ti presi in braccio, varcando la soglia: “E’ così che si fa quando si va ad abitare con la propria sposa, credo…” “Siii…, pazzo amore mio!” “Sei leggerissima!” “Già, sono pelle ed ossa. Chissà se ti piaccio ancora…” “Certo che mi piaci ancora, ma vorrei che tu capissi una cosa: il tuo corpo è una parte di te, ma a me piaci tu, per quello che sei dentro e fuori. Ti ho risposto?” Mi accarezzasti e mi rispondesti: “Bellissima risposta.”
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CAPITOLO SEDICESIMO
Passeggiavamo da un quarto d’ora, eravamo già andati oltre il faro e ora stavamo ritornando verso casa. Io ti chiesi: “Come ti senti?” “Mi sento bene, sono solo un po’ stanca. Vuoi che ci sediamo un po’?” “Ottima idea. Vieni, ti porto sugli scogli e ti presento il mio masso preferito.” “Che?” chiedesti stupita. Ti presi per mano e ti portai sopra alla zona disseminata di massi e pietre di ogni dimensione, che gradualmente digradavano giù verso il mare, venti metri più sotto. Poi ti dissi: “Eccolo, è quello, sembra fatto apposta perché uno, o… anche due… ci si siedano sopra. Sentirai che comodo, dietro forma anche una specie di schienale. Io mi ci sono seduto così tanto che, se osservi, devo averlo anche consumato un po’…” Tu, incuriosita, guardasti più attentamente, ma io ti dissi ridendo: “Ma dài, non può essere vero!” “Ti buttasti addosso a me e mi tempestasti di pugni, esclamando: “Mi prendi in giro?” “Ti prendo in ogni senso.” Poi ti feci sedere accanto a me, avvolgendoti con il mio braccio. Guardasti l'orizzonte e mi dicesti: "E' un bel posto." "Si, potrei dirti che attendevo questo momento fin da quando ti ho conosciuta, ma in realtà lo attendevo da tutta una vita. Mi sono visto tante volte così, abbracciato alla mia donna ad ammirare l'infinito. E ora eccomi esaudito, proprio come sognavo. Hai notato che ho scelto un luogo dove il sole tramonta sul mare?" "Ah, non è un caso?” “Può darsi, ma conoscendomi, il caso mi ha accontentato.” “Mi fai troppo divertire… sei incredibile!” Sentimmo cantare alle nostre spalle, ci volgemmo a guardare, erano due signori anziani, di sicuro marito e moglie, entrambi vestiti di bianco, con un cappello chiaro di paglia in testa, stile coloniale. Si tenevano per mano, camminando tranquillamente. Erano loro a cantare e il motivo io lo riconobbi subito: “Vola, colomba bianca vola…”
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Ci guardammo ammirati e tu dicesti: “Pensi che anche noi un giorno, quando saremo vecchi, passeggeremo ancora così, mano nella mano, cantando?” “Hai qualche dubbio tu?” Mi guardasti e rispondesti decisa: “No.” e mi desti un bacio. Il sole stava tramontando. “Mi sembra più grande del solito, oggi…” dicesti a un tratto. “Che cosa?” ti chiesi. “Il sole. Mah…scherzi della mente, il sole è sempre uguale, come era ieri e come sarà domani. Però… è sempre uno spettacolo, un grande spettacolo! Ogni volta resto a bocca aperta come se fosse la prima volta. E sempre mi accorgo che, i colori di cielo e mare non sono mai gli stessi, come se venissero stesi ogni giorno da una mano misteriosa, come se un pittore dipingesse lo stesso quadro dieci, cento, mille volte, creando ogni volta una tela uguale a nessun’altra. Il paesaggio appare diverso a seconda del vento che spira e dei profumi e odori che porta, provenienti da vicino o anche da molto lontano.” “Mi dici romantico, ma anche tu non scherzi! Ehi, se ci sentisse qualcuno, potrebbe dirci che siamo troppo mielosi.” “Che dica quello che vuole. Noi ci andiamo bene così, che dici?” “Penso proprio di si.” Il mio sguardo si fissò su di te ed esclamai: “Sei bella, bellissima. Lo sei sempre stata, ma ora lo sei anche di più, e sai perché?” “No, dimmelo tu.” rispondesti divertita, felice di quel complimento: “Perché non c’è nulla di più bello degli occhi di una donna scintillanti d’amore.” Non parlasti, parlava il tuo abbraccio. Cinque minuti di silenzio, i soliti nostri dialoghi silenziosi. A un tratto dissi: “Sai cosa vorrei tanto sapere? Qual è il senso di questa nostra vita? Perché ci emozioniamo guardando un tramonto, o la luna e le stelle, o un bambino che gioca? Perché ci nasce dentro un vulcano di emozioni quando ci innamoriamo, che sia donna o uomo non importa, basti pensare alle nostre care amiche, e poi vorremmo morire, non riusciamo più a vedere la bellezza del fiore, ci danno fastidio le grida dei bimbi che giocano sul prato, quando la perdiamo?” Tu rispondesti, un po’ interdetta: “Non lo so, non ci ho mai pensato.”
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“Io invece ci penso spesso da un po’. Penso che, dopotutto, quasi ciascuno di noi commette un errore; quello di vivere pensando a ciò che è stato, ai ricordi del suo passato, desiderando che ritornino i momenti belli e sperando di non rivivere quelli brutti. Ma così facendo si vive sempre con delle aspettative, con l’ansia di conoscere quale sarà il futuro e in questo modo si perde la bellezza di vivere il presente per quello che è, per ciò che ci viene dato. Anche i momenti tristi dovrebbero essere accettati, ma la paura dell’uomo è quella di non voler soffrire. Si rifiuta la sofferenza, che comunque è parte importante in una esistenza e si cerca di evitarla in tutti i modi. L’uomo è fatto così, corre continuamente dietro a qualche cosa e, quando la raggiunge, non si ferma appagato, ma guarda oltre, alla ricerca di qualcos’altro. Io stesso, lo riconosco, ho sempre agito così e mi basta tornare con la mente a come ho sofferto quando te ne sei andata. Ma se avessi pensato, anziché a ciò che avevo perso, a ciò che comunque avevo e che nessuno mi avrebbe potuto mai togliere, e cioè il tuo amore e soprattutto il mio per te, sarei riuscito a superare quel dolore. E a te do atto che mai, in nessun momento, mi hai fatto dubitare di ciò che provavi per me. Quando decidesti di allontanarti, lo facesti senza ricorrere a scuse e bugie, non ti sei mai eclissata, non hai mai sollevato paraventi dietro ai quali celarti, non ti sei mai nascosta dietro a dei non so. No, sei sempre stata limpida, trasparente come acqua, sincera, leale e il tuo amore me lo hai sempre dichiarato, anche nei momenti più bui. Non fosse stato così, il mio dolore e la mia pena sarebbero stati infiniti. L’ambiguità mi avrebbe steso ancor di più, invece così ho potuto accettare il nostro distacco, pur se con la morte nel cuore.” Tacqui un istante, ma solo un istante: “Essere amati fa tanto piacere, si sa, ma io provo anche un immenso piacere nell’amare, e credo sia proprio questo l’amore: darlo senza calcoli o sconti, ma completamente, senza pretendere nulla in cambio. Il mio errore è stato proprio questo, ma era una pretesa sbagliata, non potevo esigere qualcosa, non dovevo. Così sono diventato egoista, perché volevo qualcosa per me. E invece ora posso dirti che tu hai tutto me stesso in modo totale, mi avrai per sempre, te lo posso giurare e sappi che, da te, non pretendo niente e mai lo farò.” Iniziasti a singhiozzare. “Ti amo” mi dicesti soltanto e ti rannicchiasti sulle mie ginocchia. Io continuai: “Si, credo proprio sia questo il senso di questo nostro stare al mondo. La maggior parte di noi vive basandosi sui ricordi di ciò che è stato, per
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sperare in un futuro senza i momenti tristi, costellato invece di cose belle. Io credo sia profondamente sbagliato. E’ giusto invece non pensare a ciò che è stato, liberando la mente da ogni pensiero che può solo condizionare, vivendo invece solo l’oggi, senza aspettative nel domani. Per esempio, per me ora è godere di questo panorama, del tuo abbraccio e dell’incanto che sei e che ho davanti agli occhi, senza aver paura di non poterlo rivedere domani, ma viverlo ora, pienamente e basta. Tutto il resto non conta.” “Non ho parole, dopo le tue.” “Se parole non ne hai, hai invece un po’ di fame? Il sole ormai si è buttato in mare e potremmo rientrare.” “Si, ottima idea, un po’ di fame ce l’ho.” “Buon segno, tra qualche giorno sarai di nuovo in splendida forma, piccola. Cosa ti va?” “Mmhh, ho voglia di qualcosa di dolce…” “Vediamo quello che c’è. Sai, la dispensa non ho avuto tempo di rifornirla…” “Troveremo qualcosa e… me la addolcirai tu.” Ti guardai con un sorriso e ti dissi: “Touché.” La tisana era semplice, al gusto di fragola e la trovasti dolce come volevi, nonostante ci avessi messo solo un cucchiaino di zucchero, ma forse vi assaporasti anche qualcos’altro. Poi ti addormentasti, vinta da una grande stanchezza e dalle mille emozioni provate. La cena con i Lafont saltò e io me ne scusai, nonostante non ce ne fosse bisogno, ma dopo cena li invitai tutti a casa nostra per un calvados… sottovoce, per non svegliarti. Dormisti tutta la notte, fino alle otto del mattino. Quando ti svegliasti la prima parola che pronunciasti fu: “Alessandro!” ma ti accorgesti subito che ero ancora profondamente addormentato, per la stanchezza e altre mille emozioni. Tu allora, senza far rumore, ti alzasti e andasti in soggiorno per preparare la colazione. Prima spalancasti le imposte per far entrare la luce di un sole bellissimo. Poi ti dirigesti alla credenza per prendere le tazze e scorgesti la mensola posta accanto al caminetto. Vi notasti un quaderno di piccole dimensioni, con la copertina blu.
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Incuriosita lo prendesti e lo apristi. Era scritto in calligrafia a volte curata, altre volte sbrigativa, ma la riconoscesti subito. Ti sedesti e cominciasti a leggere. 29 aprile Stasera mi hai chiesto un abbraccio, ma non so chi dei due ne avesse più bisogno. Sento una forte attrazione verso di te, e credo sia la stessa cosa che provi tu. C’è qualcosa che ci sta legando sempre più. 30 aprile Sei venuta in riva al mare per me. Ci siamo detti tante cose, ci siamo intesi anche restando in silenzio, ci siamo conosciuti un po’ di più, molto di più. Ti penso, ti sogno, ti immagino, ti desidero. Vedo i tuoi difetti e dico va bene così. Sei piena di idee, attenzioni, desideri, progetti. Sei intelligente, sei viva, sei bella, sei dolce, sei buona, sei morbida, sei decisa, sei fiera, sei profonda, modesta e umile. Sai parlare, sai tacere, sai ascoltare, sai importi, sai consolare, sai pregare, sai amare. Mi piaci quando parli, quando sorridi, sei allegra o hai il broncio, quando sei pensosa, quando piangi, o ridi, sei truccata o acqua e sapone. Ti amo prima, ora, domani, sempre, mia dolcissima Stella. 10 maggio Piazza Armerina, come potrò mai scordare questo luogo? Una giornata meravigliosa, che ci ha fatto intravedere la nostra vita insieme. Di vederti, guardarti, ammirarti, sentirti, sfiorarti, toccarti, accarezzarti, coccolarti, baciarti, stringerti, amarti, di gustare la tua compagnia, la tua ironia, saggezza, profondità, bontà, pigrizia o noia, o voglia di fare tante cose, la tua forza, fragilità, volontà, sensibilità, bellezza, sensualità, femminilità, il tuo altruismo, il tuo sguardo, ritardo, modo di camminare o di versarti il caffè, o desiderare della cioccolata; del tuo modo di essere donna e della tua voglia di vivere, di te, insomma, non mi scorderò mai e non sarò mai sazio abbastanza.
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25 maggio La prima volta l’amore io e te. Nessuna parola esiste per spiegare noi. Il primo bacio e abbraccio al nostro arrivo. Tutti i baci e abbracci successivi, il riso nei nostri volti, il riso con le mani, la tua espressione di immenso abbandono, a letto per la prima volta insieme, guardare il tuo viso adagiata sul cuscino. Una donna magica, con cui fare qualsiasi cosa diventa poesia. Un brivido lungo che provo ininterrottamente e che non mi abbandonerà mai…che non scorderò mai. 25 agosto Sei fredda, piena di ansie, dubbi, sensi di colpa. Il tuo umore cambia in modo fulmineo e repentino. Ti confesso che la rabbia mi ha più di una volta arrossato il viso ed offuscato la mente, ma non c’è niente da fare. Con te non riesco ad arrabbiarmi. Quando sei così ti immagino più brutta, ma non riesco: sei più bella dell’aurora. Ti immagino più antipatica, ma non si può: sei l’allegria e la gioia. Ti immagino meno intelligente e acuta, ma è impossibile: la tua mente spazia oltre ogni immaginazione. Ti immagino donna qualunque, ma sfoggi una classe che è nata con te. Ti immagino superficiale, ma sei più profonda delle acque dell’oceano. Ti immagino più cattiva, ma ti vedo solo bontà e amore. E allora mi arrendo ad un’impresa inutile. Perché capisco che, se tu fossi anche un briciolo diversa da ciò che sei, non mi sarei mai innamorato di te. Aspettando che tu ti racconti a me ti dico che … mi manchi. 2 ottobre La seconda volta a far l’amore con te. Ti voglio, voglio… voglio… Voglio essere morbido giaciglio, quando stanca vuoi riposarti. Voglio essere brezza, per rinfrescarti in un caldo giorno d’estate. Voglio essere soffice pioggia, per lavarti Voglio essere caldo tepore, quando hai bisogno di scaldare il tuo cuore. Voglio essere nutrimento per saziarti. Voglio darti l’amore del corpo quando ne hai voglia. Voglio essere ciò che desideri, quando desideri qualsiasi cosa. Pensami quando qualcosa ti manca.
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L’amore consola, l’amore allevia, l’amore riempie, l’amore dà. L’amore, tutto l’amore, tutto me stesso ti do. 10 ottobre Stamattina mi hai regalato parole tra le più belle che tu mi abbia mai detto. Non sto nella pelle ripensando a quella tua frase incantata: “Ti amo così tanto che vorrei darti un figlio!” Quando una donna dice questo a un uomo non servono altre dichiarazioni d’amore: questa è la più grande e sublime. E’ ancora breve il mio tempo con te, ma ti conosco propria ora quando, nel corpo e nel cuore, sei nel tuo tempo migliore. So poco del tuo passato, dei tuoi anni verdi, ma ogni giorno ti scopro un po’, sfogliandoti come un romanzo che non posso chiudere, perché toglie il fiato. Si, è ancora breve il mio tempo con te e ancora breve mi sembrerà quando, tra mille anni, ci guarderemo ancora negli occhi in mezzo all’eternità. E so perché, perché ci abbiamo, per sempre ci avremo. Le lacrime scendevano ora sulle tue guance in rivoli ininterrotti, alimentati continuamente dalle sorgenti nascoste dentro ai tuoi occhi, e non ti curavi nemmeno più di asciugarle. Tenevi quel quaderno stretto al petto, e lo sguardo usciva oltre la finestra, a fissare un paesaggio dai contorni offuscati e dai colori mescolati tra le gocce che riempivano i tuoi occhi, tanto da ricordare una tela impressionista, un Monet o un Van Gogh. Il tuo piccolo cuore batteva all’impazzata, alimentato da una gioia incontenibile. Ti alzasti e lentamente ti dirigesti in camera, dove io ancora dormivo. Poi accendesti l’abat-jour sul comodino e attendesti, tenendo il quaderno dietro la schiena, lasciando che le lacrime sgorgassero e cadessero sulla tua camicetta da notte. La luce, anche se fioca, mi svegliò e ci misi un attimo a vederti in piedi, accanto a me. “Ciao piccola ma… che fai? Stai piangendo?” “Si…” rispondesti con un filo di voce, ma con un sorriso. “Cos’è successo? E poi… piangi sorridendo?” Sbuffasti divertita e rispondesti: “E’ una mia specialità…” “Ah, ho capito, tu le cose semplici mica le puoi fare e le lasci agli altri, vero? Allora, mi dici cosa c’è? Non voglio più vederti piangere, lo sai! Dai, vieni qui e… cos’hai dietro la schiena?”
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“Scusami, forse non dovevo, magari erano cose che volevi tenere per te, ma ho letto questo…” E mi mostrasti il quaderno. Notasti il mio sussulto: “Sei arrabbiato con me? Scusami, ti prego.” Ti guardai con un’espressione molto serena e stavo per rispondere, ma tu continuasti: “Scusami se non volevi, ma devo dirti che le cose che hai scritto qui sono le più belle che abbia mai letto. Io sapevo che mi amavi tanto, ma ora capisco quanto veramente. E non so… se sono degna di un tale amore. Grazie, grazie…” E ti buttasti su di me, avvolgendomi con le tue braccia e accentuando il pianto che prima si era un po’ smorzato. Ti dissi: “Non sono arrabbiato, stai tranquilla, anche perché quelle cose te le avrei fatte comunque leggere io. In fondo le abbiamo scritte insieme. Senza di te sarebbero rimaste da qualche parte, nascoste per sempre. Sono io che ringrazio te per avermi acceso di emozioni.” “Ti amo, Alessandro. Tu hai tanta poesia dentro di te.” “La poesia l’ho scoperta un giorno guardando un film. Il protagonista era un professore di lettere. Ai suoi allievi insegnava che la poesia è dentro a ciascuno di noi, solo che spesso non ne esce perché stiamo correndo sempre dietro a qualche cosa e non ci fermiamo a sentirla, non riusciamo a cogliere l’attimo, come dicevano gli antichi. Carpe diem diceva, cogli l’attimo e farai della tua vita un’avventura fantastica. Sai, molta gente pensa che la poesia sia tempo sprecato. Tutte parole evanescenti, senza costrutto, mentre nella vita bisogna badare al sodo. Anch’io la pensavo così. Ricordo che, a scuola, non le sopportavo, le poesie e non capivo che senso avesse studiarle, non riuscivo a cogliere l’importanza di entrare nel cuore di chi le aveva scritte, per capire cosa gliele aveva suggerite. Ora lo so, perché con una parola, con una rima, si dà voce alle emozioni, contagiando chi legge e magari facendogli scoprire le proprie. Ecco, credo che scrivere una poesia sia un po’ raccontare la magia della vita, la magia di essere parte di questo mondo.” Mi baciasti e mi dicesti: “Grazie di amarmi.” “Se qualcuno ti ama è perché l’amore che prova, nasce da te e da quello che vede in te, senza che tu ti sforzi per fare qualcosa o diventare diversa da quello che sei per indurlo a farlo.” Cambiai espressione e ti chiesi: “Cosa hai preparato di buono?”
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“Niente. Sai, non ho avuto tempo.” “Niente? Ma… e cosa hai fatto finora?” “Beh… ho letto delle cose su un quaderno, poi ho pianto, sopra a quelle pagine, poi sono venuta a svegliare te… e… cosa vuoi che ti dica… non ce l’ho proprio fatta!” “E’ chiaro che non potevi, troppo da fare. Sei giustificata e sai una cosa? Vai a sederti, che la colazione la preparo io.” Un’ora dopo eravamo pronti per uscire e tu mi dicesti: “Dai, vieni, camminiamo un po’. E’ una splendida giornata.” Cominciammo a passeggiare, scaldandoci al sole e respirando a pieni polmoni l’aria, di una freschezza inebriante. A un tratto ti mettesti a correre e mi gridasti: “Dai, prendimi se ne sei capace.” Per un attimo rimasi sorpreso ma, subito, ridendo, presi a rincorrerti. “E’ inutile che scappi, tanto ti prendo, lo sai!” “Parla meno e corri di più, lumaca!” “Lumaca a me? Ora ti faccio vedere!” Tu correvi e ridevi, rallentando progressivamente e vistosamente il passo, per la tua comprensibile debolezza fino a che, stremata, ti accasciasti sull’erba, distesa sulla schiena, completamente senza fiato, ansimante, con il petto che si gonfiava e ritraeva a ritmo frenetico, ma senza smettere di ridere, presa da una sorta di gioia incontenibile. In un attimo ti fui sopra ed esclamai: “Presa! E non ti lascio più!” “E chi vuole scappare?” Arrivò il giorno della festa che avevo organizzato per festeggiare il tuo ritorno a casa. C’erano i Lafont e i loro amici, quelli che avevo conosciuto a Capodanno. C’erano Lisa ed Ellie. Avevo invitato anche il dottor Renard con la moglie, che accettarono di buon grado. C’era anche Francesca, poteva forse mancare? Era arrivata nel mattino, con la sua famiglia al completo. Non potendo ospitarli tutti a casa nostra, avevo prenotato a mie spese una camera, in un piccolo, ma grazioso albergo lì vicino. E poi, di tanto in tanto, arrivavano anche altre persone dai dintorni, richiamate da volantini che avevo fatto stampare e distribuito in giro, infilati nelle cassette delle lettere, o lasciati sui banconi dei negozi in paese. Volevo tanta gente alla tua festa.
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Un servizio di catering aveva allestito dei gazebo con tavoli imbanditi, presidiati da camerieri a servire gli ospiti. “Bella, bellissima festa, caro Alessandro.” Stavo conversando con Henry e a quelle parole mi voltai e vidi Francesca: “Sono contento che ti piaccia.” “Si, tutto ottimo, ma devo dirti che secondo me, manca qualcosa.” “Dici sul serio? E cosa?” “Musica mio caro. Una festa non può mai essere senza musica.” In quel momento si sentirono delle note prodotte da strumenti inconfondibili: erano cornamuse e una banda, di circa quindici elementi, tutti con il tradizionale kilt, avanzava con un lento passo di marcia, fino a che arrivò al centro della festa, fermandosi, ma continuando a suonare. “Dicevi?” le dissi ironicamente. “Accidenti, stavolta mi hai lasciato a bocca aperta! Hai fatto davvero le cose in grande, non c’è che dire!” “Penso che l’occasione lo pretendesse.” Francesca per tutta risposta, mi abbracciò e mi disse: “Sono tanto contenta per voi, Alessandro, non sai quanto.” “Lo so e te ne ringrazio.” La banda a un certo punto smise di suonare, perché si era sentito un forte scoppio, come un colpo di cannone, e tutti si interrogavano su cosa potesse essere stato. Tu mi venisti vicina con aria intimorita, ma io ti tranquillizzai: “Non aver paura e guarda in alto.” Il dubbio ben presto si sciolse, quando il cielo scuro e punteggiato dalla miriade di stelle di quella magnifica serata, fu squarciato dai bagliori di tanti fuochi d’artificio che salivano su, su, in alto, per poi aprirsi in cascate luminose e colorate, come petali di giganteschi fiori infuocati. Ogni dardo luminoso veniva accompagnato dai mormorii di ammirazione degli invitati e tu ti stringesti a me, dicendo: “Ma… i fuochi d’artificio… anche i fuochi…” “Si, per te, tesoro. Te lo avevo promesso quando eri in ospedale.” “Ti sentii.” “Lo so. E ogni promessa è debito.” Eri senza parole, aggrappata a me e guardavi lo spettacolo estasiata. La sequenza di scie luminose e bagliori variopinti durò per alcuni minuti, finché ci fu una pausa di una manciata di secondi, che fece ritenere finito lo spettacolo. Ma a un tratto si sentì un altro colpo e una scia di fuoco, più grande delle precedenti, si alzò nel cielo fino a un punto ancora più
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in alto, per scoppiare in un tripudio di saette scintillanti che formarono le lettere di un nome: STELLA Ci fu un battimani fragoroso e tutti vennero a farmi i complimenti. Tu provavi una felicità incontenibile e mi dicesti: “Grazie, solo tu potevi avere un’idea del genere! E’ una cosa… fantastica! E tutto per me… grazie, grazie, amore!” Fu davvero una serata speciale, come del resto volevo che fosse. Era l’una di notte quando rincasammo, dopo che l’ultimo ospite se ne fu andato. Appena chiusa la porta, sentendoci finalmente protetti tra le nostre mura, io e te ci cercammo freneticamente, ci baciammo, ci toccammo, ma io improvvisamente mi staccai da te e ti dissi: “Aspetta, non è ancora finita la serata di gala. Devo darti una cosa.” “Un’altra sorpresa? Ma tu mi ubriachi, con le tue meravigliose sorprese. Cos’altro mi devo aspettare, ora?” “Rimani qui, torno subito.” Entrai nel piccolo ripostiglio attiguo al bagno, per uscirne con un oggetto delle dimensioni di una cinquantina di centimetri, infagottato in un telo azzurro, che lo celava completamente. Tu, ancora una volta, morivi di curiosità e mi dicesti: “Che cos’è, amore?” Per tutta risposta io tolsi il telo, appoggiando l’oggetto sul tavolo, sotto al lampadario, che lo illuminò. Era una statua in legno, che raffigurava due persone, un uomo e una donna abbracciati nell’atto di baciarsi. Ti spiegai: “Hai mai visto il quadro di Klimt, Il bacio?” Tu balbettasti: “Si, me lo ricordo, è… proprio così, mi ricordo l’espressione dei volti, in una sorta di estasi d’amore. Però mi sembra, ma no, non è possibile, non dirmi che… assomigliano a noi…” “Bene, allora vuol dire che sono riuscito nel mio intento.” “L’hai fatta proprio tu…, non posso crederci. Hai davvero delle mani d’oro. E’… è bellissima!” “Si, l’ho fatta io, prima che tu arrivassi qui. Mi ricordavo di quel quadro, mi aveva colpito per il trasporto amoroso che l’artista era riuscito a dare ai volti dei due amanti, e da quando ti ho conosciuta, ho sempre identificato nei due personaggi abbracciati noi due. Così li ho fatti il più possibile somiglianti a noi, prendendo come modello una nostra foto che
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ci eravamo fatti una volta con l’autoscatto. Ma ho apportato una variante all’originale.” “E sarebbe?” “Vedi, Klimt aveva dipinto la figura femminile in posizione inginocchiata, in una sorta di sottomissione a quella maschile, e questa era l’unica cosa che per me stonava. Così ti ho scolpita in piedi, quasi alta come me, be’, dai… sei un po’ più bassa.” “Questo è vero e va proprio bene così.” “Ma se noti, tra me e te c’è pari dignità, nessuno prevarica in qualche modo l’altro.” “Hai ragione, ma quel che è troppo emozionante sono le espressioni di attesa estasiata del bacio, di un qualcosa di a lungo atteso, inseguito, e che ora sta finalmente per realizzarsi. E’ magnifica! Sei il mio artista preferito!” “Non è male, ma non dirmi così, artista è una parola troppo grossa. Mi fai arrossire così, piccola.” Mi buttasti le braccia al collo e mi dicesti: “Proviamo dai… come loro…” Ci abbracciammo allo stesso modo, chiudemmo gli occhi allo stesso modo e ci baciammo allo stesso modo. “Mhh. Siamo meglio dell’originale” sussurrasti. “Siamo noi, l’originale” ti risposi. Poi cominciammo ad accarezzarci, a esplorarci con le mani, togliendoci i vestiti…e facemmo l’amore tutta la notte una, due…più volte.
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CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Aprimmo la porta per uscire verso le 11, ancora sconvolti da una indimenticabile notte d’amore e Francesca, che stava per bussare, se ne accorse subito, tanto che non riuscì a trattenersi dall’esclamare: “Dio, ma cosa avete fatto? Sembrate due reduci dal fronte!” Tu un po’ arrossisti e rispondesti: “Ma… si vede così tanto?” “Si vede, altro che! Ma va bene così e non ditemi niente, magari riuscireste a sconvolgere anche me, solo raccontandomi i particolari…” E si mise a ridere, imitata anche da noi. “Comunque sono qua perché devo dirvi una cosa che è successa una settimana fa, ma allora non ritenevo fosse il momento più indicato, soprattutto per te Stella. Ancora non sapevo come stavi, ma ora stai bene e… be’, so che ne soffrirai, ma ora penso sia giusto tu lo sappia.” Tu, un po’ preoccupata, le dicesti: “Su, dimmi, non farmi stare sulle spine, cosa è successo?” “Tuo zio…” “Mio zio Vito? Che ha? Sta male?” “Non proprio. Anzi si, tanto bene non penso che stia, lo hanno arrestato.” Si fermò, come liberatasi di un peso. “Cosa? Arrestato? E perché?” chiese Stella, esterrefatta. “Sembra che sia un’accusa di collusione con la mafia.” “Mio zio… con la mafia?” “E si sa di cosa è accusato in particolare, Francesca?” chiesi. “Sembra che sia coinvolto in un omicidio, ma aspetta, per te ho questa, da parte di Salvo Ayala. Ha saputo che ti avrei incontrato e mi ha chiesto il favore di portartela. E’ una busta, ma non so cosa ci sia dentro. Ecco qua! Guarda tu.” A Salvo avevo detto che per qualsiasi cosa che mi riguardava, avrebbe potuto rivolgersi a lei. Mi porse una busta chiusa, senza intestazione. “Una busta da Salvo? Mmhh, sono curioso.” E la aprii subito, estraendo un giornale. Era di sette giorni prima e cominciai a sfogliarlo, cercando ciò che però già immaginavo. E alla quarta pagina, quella di cronaca locale, c’era
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un articolo evidenziato in rosso, che mi dipinse un sorriso in volto. Tu e Francesca mi chiedeste: “Cosa c’è scritto?” C’è un articolo, questo è il titolo: Vito Zagaria, imprenditore in vista nel settore delle costruzioni, arrestato per attività di stampo mafioso. Iniziai a leggere l’articolo: La squadra mobile di Vittoria ieri ha prelevato dalla sua abitazione il noto industriale Vito Zagaria, con l’accusa di essere coinvolto nell’omicidio di Gaspare Sarnielli, avvenuto pochi mesi fa. Di più, per il momento, non è dato sapere. Da quanto a conoscenza, il Sarnielli era deceduto in un incidente stradale, ma evidentemente gli inquirenti devono aver scoperto qualcosa che li ha portati a ipotizzare che la sua non sia stata una morte accidentale, ma potrebbe essere invece collegata alle poco chiare attività condotte dallo Zagaria, di cui per la verità si era sempre vociferato, ma a cui non si era mai trovato riscontro. Il questore per il momento si è chiuso in un silenzio motivato dal segreto istruttorio, per non inquinare e compromettere le indagini ancora in corso. “Ecco, l’articolo finisce qui, ma ora ho io qualcosa da raccontare a voi, anche a te, Francesca, che in qualche modo hai diritto di saperla in anteprima.” Mezz’ora dopo sapevate tutto e tu venisti a sapere del ricatto che avevo subito da tuo zio. Scoppiasti in un pianto di profonda delusione: “Mio zio, non posso crederci! E tu hai abbandonato tutto, non mi hai mai detto niente per… me?” “Si, solo per questo, perché altrimenti lo avrei fatto saltare già allora. Stella, quella minaccia di tuo zio mi ha impedito anche di combattere contro la tua decisione di dividerci. Ecco perché l’ho accettata supinamente, e non sai quanto mi è costato.” ”Dio, ora capisco tutto, ora capisco!” e mi abbracciasti, lisciando la tua guancia vellutata contro la mia irsuta, che ti arrossò vistosamente la pelle. “Su, su, ora tutto è finito anzi, non è proprio finita. Devo fare ancora una cosa.” Mi guardaste senza capire. “Devo andare a testimoniare contro quell’uomo!”
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“Ma sei matto?” mi diceste entrambe “Non ti rendi conto che potresti avere dei guai enormi anche con lui in prigione? La mafia non è solo lui, lo sai bene come funziona.” “Non m’importa. Sento di doverlo fare, per Sarnielli, per Lo Prete e per gli altri cento Sarnielli e Lo Prete pestati sotto ai suoi piedi.” “Ti prego, amore, ora siamo qui, finalmente tranquilli, io e te insieme. Non sopporterei di perderti, se ti dovesse succedere qualcosa.” “Non aver paura, non succederà niente, agirò con prudenza. Contatterò la polizia, chiedendo un colloquio lontano dalla Sicilia, anche qui, perché no? Poi laggiù ci andrò solo per testimoniare, al processo e solo allora sarà finita.” Francesca mi disse: “Ti vedo risoluto e non cercherò di farti cambiare idea.” “E’ così, Francesca. Quanto a te, Stella, ti chiedo scusa se, indirettamente ti ho procurato ancora dolore.” “No, ti ringrazio invece, per avermi aperto gli occhi. A mio zio sono comunque grata per avermi preso con sé, anche se a questo punto potrebbe averlo fatto per proprio tornaconto, ma non me ne importa. La coscienza è la sua.” Guardai Francesca e ci bastò quello sguardo per intenderci. Era meglio che almeno l’ultimo baluardo di fiducia che tu riponevi in tuo zio ti rimanesse. Dopotutto, a cosa sarebbe servito dirti che poteva c’entrare anche nella scomparsa di tua madre, se non a procurarti altro inutile e ancor più grande dolore? Magari lo avresti saputo in seguito, con gli sviluppi delle indagini, ma sarebbe passato del tempo e lo avresti sopportato meglio. Poi Francesca, con tempestiva intuizione, cercò di attenuare la tensione e, guardando alle mie spalle la scultura dei due amanti abbracciati, mi chiese: “E quelli, ma siete voi…?” Ridesti con me, e le rispondesti: “Hai visto Alessandro? Sei davvero un artista. Hai fatto proprio noi e lei se ne è subito accorta.” “Ma davvero l’hai fatta tu? Sei bravissimo, Alessandro. Potresti farlo per lavoro!” esclamò Francesca.“ Le risposi: “Vi farò vedere anche qualcos’altro, ma è a casa di Henry, perché io non ho molto posto. Ho deciso che domani ricomincio a lavorare, sempre se lui mi vorrà ancora.” Henry fu invece felicissimo della mia decisione.
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Il giorno dopo Francesca e le due ragazze avevano deciso di partire. Se ne andarono per prime Lisa ed Ellie. Prima di salire sul loro camper ci salutarono. Con profonda riconoscenza le ringraziai: “Ragazze, non so come dirvelo, ho passato dei giorni difficili e, senza voi vicine, non so come avrei fatto. Siete state qui con noi per tutto questo tempo…” Lisa mi rispose: “Gli amici servono anche per questo, Alessandro e vorremmo anche noi farti sentire quanto felici siamo ora che le cose sono tutte al loro posto. Stella, mi raccomando, attenta a quando attraversi la strada, qui corrono come pazzi.” Scoppiammo tutti a ridere, poi Ellie si rivolse a noi: “Ragazzi, conservatevi sempre così e coltivatevi insieme senza smettere mai. Ciò che avete è cosa rara.” Le buttasti le braccia al collo e le dicesti: “Grazie, di tutto…” A turno ci scambiammo tutti un abbraccio, poi chiesi: “Dove avete intenzione di andare, ora?” “Ellie rispose: “Sai che non ne abbiamo la minima idea? Vero, Lisa?” “Certo, di sicuro andiamo verso sud. Qui è tanto bello, ma abbiamo bisogno di un caldo perlomeno… tropicale.” “Ah, ho capito, mai mezze misure, voi…” “Già, ce lo hai detto tu, siamo esagerate.” “Direi di si e forse avete ragione voi. Vi vogliamo tanto bene.” “Anche noi.” rispose Lisa. Bisognava smorzare la commozione che stava prendendo un po’ tutti e così Lisa disse: “Ehi, mica spariremo dalla circolazione! Dài, che ci rivedremo!” E salirono, mettendo in moto il loro pittoresco automezzo, che subito emise una enorme nuvola di fumo nero, che avvolse tutti i presenti, ma paradossalmente dissipò la tensione creatasi per quell’addio. Fu poi la volta di Francesca, che ci disse: “Abbiate cura di voi.” “Anche tu, mi raccomando.” le risposi e tu aggiungesti: “Grazie per essere venuta. Ti telefono.” “Certo, anch’io, amica mia.” “Ciao Salvo, sono Alessandro.”
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“Alessandro, finalmente! Quanto ci hai messo!” “Ho ricevuto il tuo plico. Grazie.” “Hai visto che terremoto? E scommetto che l’epicentro sei tu.” “Ti dirò, per la verità qualcosa c’entro, io…” “Accidenti, potevi dirmi, almeno, cosa bolliva in pentola, no?” “Scusami Salvo, non ho voluto dirti niente, perché avevo i miei buoni motivi e ho aspettato a consegnare ciò che sapevo alla polizia, per evitare che, qualcuno che mi sta a cuore, potesse patire delle conseguenze da tutto questo. Poi, quando questo pericolo è svanito, ti ho chiamato e il resto ti è noto. Ma ora penso sia giusto che ti racconti un po’ di cose.” “Ok, era ora! Comincia pure…” “Ascolta allora…” E anche a Salvo raccontai le mie vicissitudini e gli eventi che mi avevano portato a quelle scoperte così esplosive. Alla fine Salvo mi disse: “Tu non sai che casino hai scatenato qui! Ne parlano tutti; Zagaria in carcere, assieme a un buon numero di gente sul suo libro paga, compreso il sindaco e altri individui che ricoprivano cariche pubbliche sia a Cedara che a Ragusa. Posso solo dirti che, assieme a me, c’è tanta gente che ti vorrebbe ringraziare! Era da tanto che c’era bisogno di pulizia qui da noi. Ora che succederà?” “Non so a che punto siano le indagini, ma cercherò di sveltirle un po’ io. Ho deciso di testimoniare.” “Alessandro, apprezzo il tuo coraggio, ma che bisogno c’è che il tuo nome diventi di dominio pubblico, quando i colpevoli sono già in arresto?” “Perché voglio che ci rimangano e per un bel po’, in prigione. Ma non preoccuparti. Andrà tutto bene.” “Ok, comunque… complimenti!” “Grazie, ci sentiamo, amico mio.” Subito dopo chiamai Antonio. Glielo dovevo, e anche a lui raccontai tutto. Alla fine mi disse: “Adesso capisco e non devi scusarti. Ora tocca a me e, quello che so, lo dirò anch’io in tribunale. A mio padre glielo devo.” “Sei sicuro?” “Si, ho paura, te lo confesso, ma voglio che chi è giovane oggi, domani non si trovi come noi ora, alle prese con questi dilemmi dettati dalla paura. Non voglio essere come chi si nasconde dietro la giustificazione che lui, da solo, non può cambiare il mondo. Io invece, che sia poco o tanto lo voglio fare.” “Tuo padre avrà giustizia.”
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“Ora lo penso anch’io. E grazie a te.” “Oh, lascia stare. Ciao Antonio.” Mi diressi verso il centro, dove ricordavo di aver visto uno di quegli ormai rari reperti archeologici, chiamati cabine telefoniche. Le telefonata che stavo per fare non volevo lasciasse tracce sul mio cellulare. Vi entrai e composi un numero: “Pronto, è la questura? Vorrei il dottor Pasquali, ho qualcosa da dire a proposito del recente arresto di Vito Zagaria.” Dall’altra parte una voce mi rispose: “Attenda un attimo.” Dopo qualche secondo sentii un’altra voce: “Pronto, sono il questore, con chi parlo?” “Il mio nome è Casati, Alessandro Casati. Sono la persona che vi ha fatto avere una certa busta.” Il questore rispose: “Capisco perfettamente. Mi dica pure.” “Sono disposto ad avere un colloquio con voi. Penso possa esservi utile per avere un quadro più completo delle cose.” “Quando vuole venga pure, la aspetto.” “Vede, preferirei che ci incontrassimo in un luogo da concordare. Io mi trovo all’estero.” “Non è un problema. Mi dica, dove si trova?” “In Francia e pensavo che potremmo incontrarci a Nantes.” “A Nantes, d’accordo. Quando?” “Tra un paio di giorni?” “Ottimo. Oggi è martedì. Facciamo allora per giovedì.” “Ok, giovedì nel pomeriggio. Se mi dà un numero di cellulare, la chiamerò al mattino per dirle dove e a che ora.” “Va benissimo.” Il questore mi dettò un numero, che salvai sul telefono, poi ci accomiatammo: “Arrivederci e a presto, allora.” “Arrivederci, signor Casati.” L’incontro avvenne verso le quattro del pomeriggio, in un caffè del centro scelto da me. Non gli nascosi nulla. Gli dissi che ero venuto a denunciare il fatto, appena era successo, ma parlai con la persona sbagliata. Questa notizia lo alterò parecchio. Lo portai anche a conoscenza dell’episodio relativo al tuo incidente, che mi faceva supporre essere stato un tentativo premeditato di toglierci
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di mezzo. Per fortuna quel fatto non aveva avuto seguito. Probabilmente l’investitore non aveva avuto modo di far sapere a chi lo aveva inviato dove si trovava. Poi gli chiesi: “Avete ritrovato il corpo di Sarnielli?” Pasquali rispose: “Si, lei è stato molto preciso nelle sue indicazioni. Siamo anche stati fortunati, perché quel Sante è diventato un pentito di mafia e ci ha indicato dove cercare. Abbiamo così demolito quel pavimento di cemento nel punto esatto dove era stato gettato il corpo. Ci ha confessato la dinamica che ha portato alla morte di quel poveretto, una gestione maldestra di quella che doveva essere una semplice intimidazione e invece sfociò nella morte, seppur accidentale, di Sarnielli. Lo avevano prelevato mentre saliva in auto per rincasare, per portarlo in quel posto isolato e fargli, diciamo così, una ramanzina. Poi lui ebbe una reazione inaspettata, che li fece venire alle mani. A un tratto cadde all’indietro, battendo violentemente la testa contro un sasso, cosa peraltro confermata anche dall’autopsia. Sante sta anche spifferando un sacco di altre cose e questa indagine può riservare ancora nuove sorprese. Ora Zagaria è accusato dell’assassinio di Sarnielli e, indirettamente di Lo Prete, perché l’incendio del suo capannone fu doloso. Gli vengono addebitati anche atti vari di corruzione. Non so se ne è al corrente, ma abbiamo scoperto che, con la complicità di un funzionario di banca, quando la madre della sua compagna, morì, si appropriò di un notevole patrimonio depositato a nome della defunta. La perizia calligrafica ha stabilito che i moduli di disinvestimento dei titoli e di prelevamento dai conti, non erano stati firmati dalla signora, ma la firma appariva, a detta degli esperti, chiaramente imitata e le operazioni furono agevolate da un funzionario corrotto della banca, che poi ha confessato. Inoltre abbiamo chiesto la riesumazione del cadavere, per procedere a un’autopsia. Pensiamo di scoprire che le sia stato somministrato qualcosa di nocivo, allo scopo di indurle una morte precoce.” Mi ricordai di ciò che mi disse Francesca, quella sera al party a casa di Vito. Pasquali proseguì: “Se così fosse, la signora Ranieri potrebbe avere diritto a un cospicuo indennizzo economico.” “Sono sicuro che è l’ultima cosa che può importarle. A proposito di risarcimenti la informo che io, piuttosto, ho intenzione di costituirmi parte civile sia contro Zagaria, che contro il Comune di Cedara, per chiedere i danni sia economici che morali.”
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“Fa bene, dopotutto lei ci ha rimesso economicamente in tutta questa storia.” “Non mi fraintenda. Se dovessi portare a casa qualche soldo, so già cosa ne farò, e non sarà per me. Non ne ho bisogno, ciò che volevo ora ce l’ho. Comunque l’importante è che la verità venga a galla.” “Sarà così, ne sono certo.” “Ah, senta dottore, un’altra cosa: avete scoperto di chi era il corpo dentro all’auto bruciata, che si credeva fosse di Sarnielli?” “Di preciso no. Abbiamo fatto eseguire l’autopsia e raffrontato dei reperti organici con un capello del figlio, avendo così la conferma che quel cadavere era di tutt’altra persona. Supponiamo si tratti di un extracomunitario clandestino, qui da noi ce ne sono molti, a lavorare nelle coltivazioni di pomodori e, come non si sa chi e quando arriva, nemmeno si sa quando se ne va, in un modo o nell’altro. Probabilmente era un povero disgraziato che, per qualche motivo, era incappato nelle ire della mafia, pagando con la vita.” “Capisco” gli risposi. “Bene signor Casati, la ringrazio per la sua collaborazione. Le devo chiedere ora una cosa: è disposto a raccontare tutto quello che ha detto a me in un’aula di tribunale?” “L’ho chiamata per questo, ma voglio protezione e poi una copertura, per evitare che in qualche modo qualcuno possa rintracciarmi. Sono stanco di problemi e voglio ricominciare una nuova vita da vivere in tranquillità, finalmente.” “Non si preoccupi. Lei verrà soltanto una volta a testimoniare e saremo noi a occuparci sia del suo trasferimento in Sicilia, sia del suo ritorno a casa. Nessuno potrà mai risalire a dove vive ora.” “Mi sta bene.” “Mi dica come la posso contattare. La terrò informata.” Gli fornii il mio numero di telefono e poi ci accomiatammo. Tornai a casa e ti trovai ad attendermi con una certa inquietudine. “Com’è andata?” mi chiedesti con apprensione. “Bene, stai tranquilla. Il questore è una brava persona e mi ha dato ampie rassicurazioni che non devo temere conseguenze dalla testimonianza che intendo fornire.” “Oh, Alessandro, non vedo l’ora che finisca tutto questo.” “Tranquilla, finirà.” Poi ti chiesi: “Ti piace questo posto?” “Si.”
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“Tanto da viverci?” “Me lo hai già chiesto e ti ripeto che il posto non è importante, mi basta essere con te. Per la verità è un po’ freddino, soprattutto l’inverno ho idea che non passi mai. Sai, sono siciliana io…. ma non è un problema.” “Ho capito. Vorresti tornare in Sicilia?” Ci pensasti un attimo, poi mi rispondesti: “No, lì avrei sempre davanti dei brutti ricordi e io voglio dimenticare.” “Ok, quindi un posto vale l’altro, basta che sia abbastanza caldo?” “Direi… di si.” “Bene, dammi tempo e vedrai.” “Che hai in mente?” “Non lo so ancora, ma qualcosa per accontentare te.” “Alessandro, lascia stare, non possiamo girare il mondo solo perché voglio un po’ di sole. Io sto bene anche qui.” Ti baciai sulla punta del naso e ti risposi: “Sshh…rilassati.” Quando entrai in quell’aula, la mia emozione era palpabile. Non ero mai stato in un tribunale prima di allora. Era venuto a prendermi la sera prima, all’aeroporto di Catania, il dottor Pasquali in persona, accompagnato da un altro ispettore. Mi avevano poi condotto in una casa di campagna, dove passai la notte, sotto la protezione di tre agenti. Il mattino dopo vennero a prelevarmi e mi portarono lì, dove mi trovavo ora. L’aula era gremita di gente. Il nome dell’imputato principale era un richiamo troppo forte per la curiosità dei dintorni. Appena entrato, un commesso mi indicò una sedia, di fronte al banco del giudice, dove mi diressi. Mentre percorrevo i pochi metri che mi separavano dalla meta, buttai lo sguardo sulla gabbia, posta sul lato destro della sala e vidi tuo zio, seduto, attorniato da altre sei o sette persone. Tra queste riconobbi anche Enzo. Sante, invece, non c’era, per motivi di prudenza, legati al suo nuovo status di collaboratore di giustizia. Vidi che Zagaria mi osservava e ti assicuro che non era certo uno sguardo benevolo. Mi accomodai e, da quel momento, per due ore risposi ad un sacco di domande. Ripercorsi così nuovamente quel periodo breve della mia vita, che sarebbe stato fantastico in ogni senso, senza quell’uomo che stavo affossando. Alla fine il giudice mi congedò. Stessa trafila anche al ritorno, come all’andata. Mi accompagnarono in ogni istante, come una mamma fa con il suo bambino e anche stavolta ci fu sempre Pasquali con me. Mi riportarono in un posto segreto fino al
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giorno dopo, per evitare che qualcuno ci seguisse dal tribunale all’aeroporto e potesse risalire alla destinazione che avrei preso. Poi l’indomani, anziché a Catania, mi portarono in auto a Roma, dove presi il volo per Nantes. Non c’è che dire! Pasquali mantenne la sua promessa di garantirmi una impeccabile copertura e non ci fu mai un momento in cui non mi sentii perfettamente al sicuro. Ora il mio compito era finito e la giustizia avrebbe seguito il suo corso, sino alla sentenza finale. Atterrai a Nantes alle cinque della sera e ti trovai lì, all’uscita degli arrivi, ad attendermi assieme ad Henry. L’abbraccio che mi desti lo aspettavo da tre giorni, tre lunghissimi giorni che segnarono la fine della mia parentesi siciliana e, con quell’abbraccio, l’inizio di una nuova avventura, la più bella, quella con te. Non mi chiedesti niente, mi dicesti solo: “Portami a casa, Alessandro.” Zagaria fu condannato. La sentenza arrivò quattro mesi dopo la mia deposizione, che fu rafforzata, se ce ne fosse stato bisogno, anche dalla testimonianza di Antonio. Fu ritenuto colpevole di molti delitti tra cui, primo tra tutti dell’omicidio di Sarnielli. Quello di Lo Prete purtroppo non poté essere provato, anche se tutte le testimonianze raccolte consolidarono i sospetti su don Vito ed ebbero il loro peso nella decisione finale dei giudici. Fu incolpato della morte di tua madre, procuratale lentamente con somministrazione troppo massiccia di farmaci e forse qualcos’altro, allo scopo di mettere le mani sui suoi denari, che gli permisero di evitare la bancarotta. Il medico di famiglia, messo alle strette, aveva confessato. Alla fine si prese venticinque anni di prigione. Il giudice lo condannò anche a risarcire a restituire a te la somma di un milione e mezzo di euro, appartenuta a tua madre, di cui si era impossessato fraudolentemente. Finirono in galera ovviamente il sindaco, un paio di assessori e alcuni funzionari della Regione, oltre a Buscemi , il poliziotto che mi aveva fatto passare per visionario. Ci fu qualcosa anche per me, duecentomila euro, per compensare i danni economici, oltre che morali, da me subiti. Qualche mese dopo, appena ottenuta questa somma, mi tenni solo un euro, e lo incorniciai, a testimoniare che, prima o poi, c’è una giustizia per tutti. Il resto sai bene che fine fece. Ti dissi le mie intenzioni e fosti completamente d’accordo. Allora approfittai di Francesca, in un altro dei
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suoi viaggi che fece per venirti a trovare e le diedi una busta, chiedendole il favore di consegnarla alla vedova Lo Prete. Dentro ci avevo messo un assegno di 199.999 euro e una lettera di poche righe: Suo marito voleva una vita serena con voi, ma gli è stato impedito. Continui lei ciò che è stato interrotto e usi questo denaro per dare a Gianni e Federico quel futuro che vuole per loro e che si meritano. Suo affezionatissimo Alessandro Casati.
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CAPITOLO DICIOTTESIMO
La giornata era stupenda, Il caldo sole estivo picchiava sulle cose, saturando talmente i colori da renderli quasi innaturali. Sulla spiaggia c’era un po’ di gente a fare le cose che si fanno in spiaggia: prendere il sole, giocare sulla sabbia, fare il bagno, correre o passeggiare sulla battigia. Le onde increspavano un mare incredibilmente blu. Era un posto incantevole e sonnecchiava al sole, lasciandosi ammirare e gustare da chi ci abitava e da chi lo visitava. Noi ci abitavamo, da due anni. Dove fossimo non aveva importanza, quel che contava era averlo trovato, da quando mi avevi espresso il desiderio di abitare in un posto dove poterti scaldare. Disdegnava tutto ciò che di moderno ne avrebbe deturpato la sua bellezza. Erano banditi i semafori, le insegne luminose, i cartelloni pubblicitari, non c’erano chioschi che vendevano panini e hamburger, né Mc Donalds. Anche le case non avevano i numeri civici attaccati ai muri. In molte abitazioni erano sostituiti da nomi di fantasia, che richiamavano qualcosa di caratteristico del luogo, per esempio La dimora dei ciliegi, o Il rifugio del pescatore. La nostra si chiamava La casa dei sogni, come l’avevi sempre immaginata e definita tu. Sorgeva direttamente a ridosso di una spiaggia di sabbia bianca e finissima. Lisa ed Ellie continuavano a scorribandare felici e già un paio di volte erano venute a trovarci. Arrivò una volta anche Francesca e la sua famiglia. La casetta in Bretagna non avevamo voluto venderla. Così, d’estate, ci facevamo una capatina, non potevamo rinunciare ai nostri amici, che tanto ci furono vicini durante la tua malattia. Lì poi avevo scoperto di saper lavorare il legno e ora questo talento lo stavo mettendo a frutto, creando sculture molto apprezzate in loco. Ciò ci permetteva di condurre un tenore di vita che non ci creava preoccupazioni. Ma la cosa più importante era ciò che quella casa rappresentava per noi. Era stata la nostra prima casa, ci avevamo lasciato una parte del nostro cuore, ma soprattutto… “Gioia! Gioia!” chiamasti nostra figlia, che stava costruendo con un’amichetta un castello di sabbia. “Si, mamma!” ti rispose.
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“Vieni, è tornato papà, è ora di cena.” Si alzò e, con tutto l’argento vivo dei suoi quattro anni, corse verso casa. Era una casa a un piano, proprio di fronte al mare, con grandi vetrate scorrevoli, senza tende, che ne lasciavano sempre ammirare le onde, fin quasi a toccarle. Si sentiva il loro fragore giorno e notte, come una sorta di colonna sonora senza fine. D’estate le vetrate erano sempre spalancate ed entrava il calore del sole, d’inverno si stava rannicchiati sul divano, godendo del calduccio di casa. Era come tu l’avevi sempre sognata. Anche qui arrivava l’uomo dei tuoi sogni, senza il quale quella casa sarebbe rimasta incompiuta. Stavate tanto bene, tu e il tuo uomo. Eccolo, era arrivato, e lo saltasti: “Ciao Alessandro, ti aspettavo…” e ci abbracciammo, come ogni giorno al mio ritorno.…” In quel momento arrivò Gioia, che mi saltò al collo e mi diede un bacio, dicendo: “Ciao, papà, sai cosa sto facendo con Melanie? Un castello di sabbia grande grande.” “Gioia, amore, sarà bellissimo. Dopo me lo mostri? “Si, ma vieni anche con la mamma.” Guardai lei, poi te e risposi: “Si, tesoro, con la mamma, sempre insieme alla mamma.” Poi aggiunsi: “Hai fame?” “Siii, papà, tanta fame.” “Su allora, siediti a tavola. Chissà cosa c’è di buono.” La guardammo mentre andava a sedersi e tu ti dirigesti alla credenza e apristi un cassetto, dal quale prendesti un sacchetto azzurro di seta. Poi tornasti da me e ne estraesti una margherita essiccata, perfettamente conservata. “Ti ricordi questa?” Non ebbi esitazioni: “Si. Di margherite a questo mondo ce ne sono a miliardi, ma questa è molto speciale.” “Me lo scrivesti nel biglietto che la accompagnava. Era un giorno triste, ma questa margherita mi aiutò a superare la mia tristezza giorno dopo giorno, fino a quando ti riabbracciai. Avevi proprio ragione. E’ un fiore magico, che mai una volta mi ha detto non m’ama, ma sempre e solo m’ama, m’ama… Dicesti che ne nasce uno ogni mille anni così. Chissà, tra mille anni, chi avrà la fortuna di cogliere il prossimo.” Ti guardai e ti risposi:
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“Solo un altro innamorato… come me.” Poi lo riponesti con cura. Volgemmo lo sguardo a nostra figlia. Aveva finito di cenare e stava correndo fuori sulla spiaggia. Mi dicesti: “Nostra figlia…” “Ci è venuta bene, non trovi? L’abbiamo fatta cinque anni fa, in un paesino di Bretagna. Ero appena tornato dal mio viaggio in Sicilia e tu eri venuta ad attendermi all’aeroporto. Ricordo che, durante tutto il viaggio di ritorno e poi a casa, finché non ce ne andammo a letto, tu cercasti una vicinanza fisica con me, tenendomi la mano, prendendomi sotto il braccio, o accarezzandomi da qualche parte. Era come se cercassi una sicurezza che ti mancava da tanto tempo, un posto, un rifugio dove ripararti, in mezzo a questa bufera che è la vita e sapevi di averlo trovato, perché avevi cercato nell’unico posto giusto. Eravamo da poco tornati a casa e ricordo che mi stavi parlando, quando distraesti a un tratto lo sguardo da me e fissasti un pezzo di legno appoggiato di fianco al caminetto, di una decina di centimetri di diametro e alto circa venti. Ti alzasti e lo andasti a prendere. Poi, con il legno tra le mani, tornasti verso di me e, mettendolo davanti ai miei occhi, con un’espressione ironicamente supplichevole e languidamente irresistibile, accentuata dal battito accelerato delle ciglia, mi dicesti: Mi fai una bimba? Io ti guardai e la mia mente andò da qualche altra parte, un posto tanto bello, perché sorridevo come se avessi visto qualcosa di meraviglioso. Eppure mi avevi chiesto solo di farti una cosa con quel pezzo di legno. Ma ciò che vedevo mi era chiaro. Ti risposi: La facciamo insieme, piccola. Non prendermi per pazzo, ma in quel momento vidi proprio una bimba, che ci sorrideva e ci diceva: voglio venire con voi. Allora ti presi in braccio e ti posai sul letto, perché dovevamo fare lei. E la facemmo proprio quella notte.” “Dio, se è vero, Alessandro! Di tutte le volte che abbiamo fatto l’amore ho ricordi indimenticabili. Ogni volta era più bello della precedente, ogni volta era un’esperienza nuova, una scoperta continua. Fu così anche allora, quando ti chiesi quella cosa ma, a differenza di tutte le altre, quel giorno in quel letto, sentii qualcosa di inedito, mai provato prima. Quando ti unisti a me sentii dentro di me, nel mio utero, un sussulto, un movimento, non so spiegare. Era come se qualcuno stesse bussando. Ti confesso che altre volte in cui facevamo l’amore, avevo provato sensazioni strane ma stupende nel mio ventre. Quella volta fu ancora più bella. Non
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la potrò mai dimenticare, con te era Gioia che stava entrando dentro di me.” “Me l’avevi chiesta…” “E me l’hai data.” “Ce la siamo data. Come avremmo potuto separarci da quella casa bretone? Lì era nata la nostra bimba. Il mattino dopo ti svegliasti e trovasti lei. Ci avevo lavorato tutta la notte. Dopo aver fatto l’amore, ti eri addormentata e io mi ero alzato e messo al lavoro alacremente, per farti trovare la sorpresa al tuo risveglio. Nel momento stesso in cui tu avevi mi avevi dato quel legno, avevo in mente la bimba che avrei fatto uscire. E dovevo farlo subito, per due motivi: uno era che l’ispirazione va colta prima che svanisca dalla memoria. L’altro era darti ciò che desideravi. Apristi gli occhi e ti dissi: “Questa è Gioia.” Battesti tre o quattro volte le palpebre e quando focalizzasti me e la statuina, non dicesti nulla, guardasti solamente. La bimba aveva le braccia tese in avanti, i capelli lunghi e un sorriso spontaneo e intenso di felicità. Indossava un vestitino con le maniche corte a sbuffo e le gonne larghe sopra il ginocchio. Stava spiccando un salto, come per buttarsi tra le braccia di qualcuno, forse al tuo… Tu rimanesti in silenzio e prendesti tra le mani quella statuina, portandola all’altezza dei tuoi occhi scintillanti. Poi la stringesti al seno, come se fosse stata una bimba vera. Per un lungo minuto rimanesti assorta in mille pensieri e io non ti disturbai, finché non distogliesti un braccio da quell’abbraccio, per trasferirlo su di me e portarmi a te, stringendomi assieme alla statuina, a… Gioia. “Si.” mi rispondesti. Avevamo appena fatto l’amore ed era già con noi.
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CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Mi svegliai di soprassalto, completamente sudato e con il cuore che sembrava volesse uscirmi dal petto. Fui preso da un panico incontrollabile e cercai febbrilmente di accendere la lampada con il terrore che, assieme alla stanza, quella luce rischiarasse l’amara realtà del mio triste presente, temendo di non saper dominare il dolore di aver vissuto un sogno bellissimo, ma solo un sogno. E non ci misi molto a capire che non avevo te accanto a me, che di là non c’era Gioia nel suo letto, ma che mi trovavo in ospedale ad assistere mio padre. Ricordai di essermi addormentato vinto dalla stanchezza ed erano passate due ore da allora, due ore in cui avevo sognato di me e di te, ma il sogno non si era fermato solo a quel momento che mi vedeva lì triste in ospedale. Non so come, ma avevo visto anche il seguito della nostra storia, bellissimo ma purtroppo solo confinato nella fantasia. Coltivai ancora, per qualche secondo, un piccolo dubbio e mi diedi un pizzicotto. Il male che provai mi convinse del tutto; ora ero sveglio, prima invece, quando avevo vissuto la medesima scena e ti avevo ritrovata accanto a me, no. Prima mi ero risvegliato dentro al sogno e continuavo a sognare, anche se tutto era sembrato così incredibilmente reale. Passarono alcuni giorni e mio padre fu dimesso. Una settimana dopo tornai in Sicilia per vendere il terreno e sistemare le ultime cose. A metà dicembre stavo guidando il mio camper, nel viaggio di ritorno. Ero già in Basilicata ed era pomeriggio inoltrato, con il sole ormai tramontato, che aveva lasciato il campo alle prime ombre della sera. Lungo il ciglio della strada notai qualcuno, circa trecento metri più avanti. Forse era una donna anzi, avvicinandomi, vidi che era una ragazza molto giovane, con uno zaino in spalla, un berretto di lana in testa, da cui scendevano lunghi capelli biondi che le arrivavano alle spalle e il classico pollice all’insù degli autostoppisti. Mi fermai e la feci salire. Stavamo chiacchierando da dieci minuti, quando lei a un certo punto mi chiese: “Non mi hai chiesto ancora come mi chiamo. Di solito è una delle prime cose che mi chiedono tutti.”
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Mi voltai verso di lei, poi tornai a fissare la strada davanti a me e le risposi: “Davvero non te l’ho chiesto? Mi sembrava di si.” La ragazza mi guardò un po’ stupita e mi disse: “Be’, forse te lo sei sognato, comunque si fa presto a scoprirlo, dimmi, su, qual è il mio nome?” “C…” bloccai quella parola che mi stava uscendo di getto, perché mi resi conto improvvisamente di vivere in quel momento una situazione fuori dall’ordinario. Per pochi minuti rimasi assorto e la ragazza, forse pensando fossi un tipo strano, mi lasciò stare. Ero perfettamente conscio del fatto che era vero. Lei ancora non mi aveva detto come si chiamava, ma ero anche assolutamente certo di saperlo già. Stava accadendo qualcosa che non potevo spiegare in modo razionale, qualcosa di surreale, stavo vivendo un deja vu. In quegli istanti che precedettero la mia risposta, nella mia mente accadde qualcosa. Come un computer il mio cervello elaborò una ridda di pensieri e concetti, da cui sarebbe scaturita la decisione che avrebbe determinato il mio destino. In quegli attimi pensai a tante cose, pensai a ciò che ci accade, alle vicende della vita, belle o brutte che siano, alle persone che incontriamo. E mi dissi che niente avviene per caso. Qualsiasi evento, emozione, gioia, dolore, scoperta, distacco: sono tutti mezzi per guidarti da qualche parte, per farti avanzare lungo il cammino difficile e tortuoso verso la conoscenza di te. Come quando si percorre un impervio sentiero di montagna, ci si imbatte in un bivio e non si sa da che parte andare. Si può optare per una o l’altra direzione, magari orientandosi dopo aver elaborato dei ragionamenti logici, per esempio osservando la posizione del sole, oppure fidandosi semplicemente del proprio istinto. Può anche capitare di imbattersi in un viandante, con il quale ci si intratterrà a parlare e dal quale si potranno ottenere utili indicazioni. Poi le strade si divideranno e ognuno proseguirà lungo la propria strada, arricchito da una nuova esperienza. Se si è fortunati può esserci servita la soluzione scritta su dei segnali piantati nel bel mezzo del bivio. In tutti i casi comunque l’esito sarà quello di aver compiuto una scelta. Spesso però, la paura di sbagliare può portare alla rinuncia di scegliere, a decidere di gettare la spugna e a ritornare sui propri passi, oppure all’indecisione, scoprendosi incapaci di prendere qualsiasi strada. E’ questa la cosa peggiore. Non tanto sbagliare strada, quella si può ritrovare, ma arrendersi o non scegliere: questa sarebbe la vera sconfitta.
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Ciò che non deve mai mancare in ciascuno di noi è il coraggio di compiere delle scelte, mettersi in gioco in prima persona, anche se a volte può essere doloroso e quasi sempre costare tanta fatica, ma il premio finale appagherà sempre, spalancando dall’alto del traguardo conquistato scenari fantastici: vette, vallate, fiumi, laghi, colline, declivi e, in fondo, all’orizzonte, l’azzurro del cielo caricarsi di tonalità più forti, per diventare il mare, dove tirare il fiato e riposarsi, godendo la gioia di aver scoperto il bello di questo nostro stare al mondo. L’avevo scoperto sulla mia pelle, quando decisi un giorno di abbandonare quella vita in cui non avevo deciso mai niente. Tu eri stata immensamente importante per me. Con te avevo scoperto sia l’amore dato che ricevuto, avevo scoperto tutto ciò che ne derivava: emozioni, idee pensieri. E lo avevo pensato irrinunciabile, insostituibile. Ma in quell’attimo, che per me fu più lungo di una vita, pensai anche che, grazie a te, avevo scoperto di valere qualcosa, di essere forte, di poter fare qualsiasi cosa, semplicemente con la volontà di ottenerla. Grazie a te avevo conquistato la stima in me stesso. Tu eri stata il viandante incontrato lungo la strada, che mi aveva insegnato a conoscermi dentro. E quando questo avviene non serviranno cose o persone, per vivere, perché avrai te, assieme a te. E’ la non conoscenza di sé che ci porta a non fidarci di noi stessi, a pensare sempre che gli altri siano migliori. Il risultato è quella paura che ci pervade, ci prende, non ci lascia mai, ci fa sentire soli, ci impedisce di sapere chi siamo, ci fa nascere dentro quel bisogno atroce di sentirci amati. Ma appena ci rendiamo conto di quale potere e quali risorse celiamo dentro di noi, quando finalmente ci amiamo, si, proprio così, quando amiamo noi stessi, perché in buona sostanza è questo che spesso non riusciamo a fare, allora non avremo più bisogno di nulla, né di essere gratificati dagli altri, né di cercare conforto e consolazione negli altri, perché avremo scoperto che, la forza che ci serve, è da sempre dentro di noi. Basta solo scoprirla, scoprendo chi siamo. Mi ricordai delle parole di Ellie, la prima volta che ci incontrammo: All you need is always inside you. Tu mi avevi preso per mano, assieme a te avevo percorso in breve tempo una gran parte del mio sentiero, tu eri stata lo specchio davanti al quale avevo visto me stesso. Quindi, proprio perché niente avviene per caso, in quel momento pensai che non era importante quale direzione avrei preso. L’unica cosa che non dovevo fare era non decidere. Se doveva succedere che ci fossimo ritrovati, sarebbe successo, a prescindere da dove sarei andato. Se così
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Fabio Pesce
invece non fosse stato, sarei sopravvissuto ugualmente, anche se privato per sempre della gioia di sentire ancora un Ti amo dalle tue labbra. Ma sentivo che dovevo rischiare. Così accostai sulla destra per far scendere Chiara. Ero giunto al bivio che a sinistra portava a Matera, dove lei era diretta. Se fossi andato da quella parte, sapevo già dove quella strada mi avrebbe portato, ero certo che avrei rivissuto altri deja vu, come quello appena accaduto con quella ragazza, sino ad arrivare a ritrovarti in un angolo sperduto di Bretagna. Sarebbe successo tutto ciò che avevo creduto di vivere realmente e invece avevo solo sognato, addormentato accanto a mio padre. Perché ora ne avevo la certezza: una mano invisibile mi aveva permesso di vedere il futuro che ancora non c’era. E forse ne avevo capito il perché. Si, avevo capito che, anche se sapevo che c’era il lieto fine, una storia, un film, un libro sono belli se non sai quale ne è la loro conclusione, se nessuno te ne svela il finale quindi, non volevo saperla, la fine della mia storia. Papà in ospedale mi aveva detto: Se ci fosse svelato già tutto, che gusto ci sarebbe? Una volta ricordo che, alla TV, vidi una pubblicità. C’era una bella auto, percorreva una strada solitaria, tra distese verdi che si perdevano a vista d’occhio, senza il minimo segno di vita tutt’attorno. A un tratto l’auto arrivava a un bivio, dove si vedevano due indicazioni: freccia a sinistra il grande amore, freccia a destra una nuova avventura. Io scelsi una nuova avventura, che si sarebbe anche potuta rivelare la stessa già vissuta in sogno con te. Certo, c’era anche la possibilità che le cose avessero seguito una via diversa. Magari non ti avrei nemmeno più visto né sentito, magari avresti potuto dimenticarmi, ricordandomi come una breve, bella parentesi, ma solo una parentesi della tua vita. Se si fosse avverata quest’ultima ipotesi, mi sarei reso conto di non averti mai conosciuta veramente e di aver sempre visto in te la persona che non eri. Ma questo sapevo che non sarebbe stato mai, perché ero riuscito con gli occhi dell’amore a leggere il tuo cuore. In ogni caso, se era scritto nel nostro libro della vita (e di questo ora ero assolutamente certo) che ci saremmo comunque incontrati ancora, che da noi sarebbe nata Gioia, che saremmo invecchiati insieme, cantando “Vola, colomba bianca vola…” tenendoci per mano, innamorati come al primo incontro, un giorno tutto questo sarebbe avvenuto ugualmente. Ma non volevo sapere il mio futuro, volevo solo vivere il presente, attimo per attimo.
Sogno dentro a un sogno
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Ora sapevo cosa dovevo fare e pensai tra me: A presto, Stella. “Ecco Chiara, io proseguo dritto” dissi alla ragazza, accostando sulla destra per farla scendere. Lei, stupefatta, mi guardò e mi disse: “Mi chiamo Chiara ma… non te lo avevo detto, ne sono sicura!” “Me lo hai detto, me lo hai detto...” le risposi. Con quella sterzata del volante mi rendevo conto di aver compiuto il gesto più importante della mia vita. Non tanto per ciò che avevo scelto, ma per aver trovato il coraggio di farlo, sconfiggendo le mie mille paure, tra tutte il rischio di poterti perdere. Mi ero sempre trovato a disagio nella vita, in un modo di vivere così lontano da me, dove per la gente erano importanti cose che per me non lo erano, mentre quelle importanti per me, gli altri sembravano ignorarle. Ma finalmente mi conoscevo e mi piacevo così: un sognatore in un mondo che non sembra fatto per i sognatori, ma ci sarei vissuto benissimo ugualmente. Dovevo solo conservare la forza di non cedere e la volontà di non farmi cambiare o condizionare da quello che avrebbero pensato gli altri di me, dovevo solo non tradire, in definitiva, me stesso, a dispetto di tutto e di tutti. Ora sapevo che ci sarei riuscito e che avrei vissuto così la magia di rischiare tutto per inseguire e afferrare infine un sogno nascosto a tutti, tranne che a me. E i sogni nessuno ce li può rubare.
EPILOGO
“Alessandro…” “Dimmi Stella.” “Si sta bene qui…” “Già, tanto bene. Finalmente sei arrivata. Sono passati solo tre mesi, ma…” “Lo so, nemmeno io ho resistito. Mi mancavi troppo.” “E mi hai raggiunto.” “Non potevo starti lontana.” “Però… mi sei ancora un po’ lontana. Aspetta, mi avvicino.” “Ma poi sarai al sole e la tua pelle… Ehi, ma il sole qui non tramonta mai?” “Mai, ma non preoccuparti, qui il sole scalda ma non brucia Sei appena arrivata e ti abituerai, io ci sto già da un po’. Questo è un Posto speciale.” “Quei due ragazzi laggiù, li hai notati?” “Che hanno?” “Quando ci siamo passati accanto, per venire qui, li ho guardati. Sono belli… vero?” “Belli? Be’, certo, si…proprio belli...” “Devono amarsi tanto. L’ho letto nei loro occhi.“ “Tanto quanto noi, stanne certa. Io li conosco e li conoscerai anche tu. Ma rilassiamoci ora, ne abbiamo tutto il tempo.” “Si Alessandro, davvero, pensiamo solo a noi, anche se il pensiero per Gioia non era di sicuro un fardello, no?” “No di certo. Gioia….” “Spero che abbia la nostra fortuna, quella che abbiamo avuto incontrandoci.” “Se la sta costruendo lei, giorno per giorno.” “La fortuna che ho avuto io, nell’incontrare te.” “Non dubitare. Saprà aspettare, senza ansie o fretta, finché lo incontrerà, il suo uomo e saprà riconoscerlo da un sussulto del cuore, da un’emozione nella mente.”
“Chissà cosa starà facendo ora…” “Non crucciarti per questo. Sta vivendo la sua vita, secondo ciò che le suggerisce l’istinto, buttando a mare ogni tipo di condizionamento, solo con l’idea di essere se stessa.” “Si, pensiamo a noi, ora. Siamo invecchiati insieme. Non è magnifico? Se ci penso, sento i brividi sulla schiena.” “E’ una tua parte molto sensibile Stella, ne ho le prove…” “Direi di si, te ne ho fornite tante, in questo tempo. Ah, che grande avventura!” “E’ così, una storia breve, ma infinita. La strada che abbiamo percorso insieme è stata spesso dissestata, tanto da procurarci grandi sofferenze, ma le nostre pene sono state attutite, attenuate, accettate da incredibili discese lunghe e vellutate, che ci hanno tolto il fiato e ci hanno fatto provare tutti i brividi del mondo. Abbiamo avuto la volontà e la forza di percorrerla insieme, la nostra strada. Questa vita ci ha regalato emozioni sempre nuove, fantastiche esperienze, luminose albe, rossi tramonti e tanto, tanto sole che ci ha riscaldato il cuore ma… ne parliamo come se fosse finita e invece…” “E invece continua anche adesso, la scriviamo in ogni momento, anche ora, parlandoci. E continuerà…” “Per sempre.” “Si, Alessandro…” “Paolo, Francesca, venite qui un momento?” “Eccoci!” “Paolo? Francesca?” “Sono i loro nomi.” “ Ma… non vorrai mica che quei due ragazzi siano…?” “Ti ho detto che li conosco. Si, sono proprio loro, Stella. Quando l’ho saputo non ci credevo nemmeno io.” “Non ci posso credere! Ma… non dovevano essere…” “In un altro posto? Be’, forse è una cosa che ci siamo sempre immaginati noi, condizionati da idee che ci hanno nascosto la verità.” “Che vuoi dire?” “Lo hai detto tu e lo sa il mondo intero; si amano… da sempre, fin da quando incrociarono i loro sguardi, mentre leggevano quel libro. Ti ricordi che li hai notati per una luce particolare dei loro occhi?” “Si, occhi meravigliosi, che riflettono qualcosa di speciale, qualcosa di eterno…” “Qualcosa di eterno, hai detto bene. Quindi, perché no? Dopo una vita al tuo fianco, ora che siamo qui, penso di aver capito questa verità:
l’amore è tutto, tranne che peccato. E’ un sentimento talmente puro che può tutto, anche… pulire l’anima…”
UN AIUTO A COLPI DI PENNA &
IL CLUB DEI LETTORI Grazie! TI RINGRAZIAMO PER AVERE ACQUISTATO QUESTO LIBRO, con il quale hai contribuito ad aumentare il fondo di “UN AIUTO A COLPI DI PENNA”, che a fine anno sarà devoluto a scopo benefico a favore di ASSOCIAZIONE DYNAMO CAMP ONLUS terapia ricreativa per bambini con patologie gravi e croniche (www.dynamocamp.org) Vota! INOLTRE, SE VOTERAI ONLINE QUESTO LIBRO parteciperai gratuitamente al concorso IL CLUB DEI LETTORI (www.clubdeilettori.serviziculturali.org) Soddisfatto o “Sostituito” Se la lettura di questo libro non ti avrà soddisfatto, potrai sostituirlo con un altro libro che potrai scegliere dal nostro vastissimo catalogo. (informazioni su www.ilclubdeilettori.com)
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