Contagio

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Collana LaBlu Serie BIG‐C Grandi Caratteri La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (generalmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in particolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti). Assieme a questo libro e fino a esaurimento scorte, viene dato in omaggio un audiolibro su CD che permette in particolare a persone non vedenti o con problemi di dislessia, di ascoltare il racconto anziché leggerlo. Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo. La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice. Gli audiolibri forniti, offerti in omaggio a scopo promozionale e realizzati in collaborazione con l’Associazione Servizi Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole.


Grazie a una particolare e rivoluzionaria iniziativa, JukeBook, i CD allegati ai libri possono essere scambiati con altri CD. All’interno del CD sono presenti tutti gli approfondimenti sull’argomento. www.jukebook.it www.labandadelbook.it www.0111edizioni.com


FRANCESCO LUPO

CONTAGIO

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www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it CONTAGIO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978‐88‐6307‐425‐3 In copertina: Immagine Shutterstock.com Finito di stampare nel mese di Marzo 2012 da Logo srl Borgoricco ‐ Padova


Dedicato a M.



7 12 maggio 2010. Ore 01.15 a.m.

Mancava ormai poco. Era una fresca notte di marzo e una lieve pioggerella batteva incessantemente sui vetri dell'abitazione. Seduto nel suo studio, stava rileggendo per l'ennesima volta il contratto firmato qualche giorno prima. Il rumore della pioggia si mescolava al martellante ticchettio dell'orologio, che all'interno della stanza scandiva inesorabile lo scorrere del tempo. Era un vecchio pendolo che stonava con l’arredamento moderno dell’appartamento, ma si trattava pur sempre di un regalo di Clara, la zia che si era presa cura di lui quando, appena bambino, aveva perso entrambi i genitori in un incidente stradale. La mezzanotte era passata da un pezzo, tuttavia l’uomo, assorto nei suoi pensieri, sembrava quasi non accorgersene. I suoi occhi si erano soffermati su una


8 clausola del contratto, che rigirava ossessivamente tra le mani: “...I membri della missione non potranno in alcun modo abbandonare il modulo abitativo per i tre anni pattuiti nel presente contratto, neppure per problemi fisici o di natura mentale. Alla scadenza del terzo anno un dispositivo automatico provvederà all’apertura del portellone di uscita…”. Era chiaro. Per conferire realismo a una simulazione bisognava valutare attentamente e verificare sul campo tutti gli eventuali rischi che ne sarebbero potuti derivare. Era chiaro che nel peggiore dei casi, se qualcosa fosse andato storto, sarebbero potuti morire lì dentro. Il cosmonauta lo sapeva bene, ma partecipare a quell’esperimento costituiva la sua occasione della vita. Tre anni erano tanti ma che importanza poteva avere per chi come lui non aveva ormai più nessuno ad aspettarlo a casa? Trentadue anni e una vita dedicata quasi completamente alla carriera. Convinto di non avere tempo per le relazioni sentimentali, all'amore aveva preferito il lavoro, una vera passione a cui si era dedicato con fervore assoluto. Inoltre zia Clara era morta l’inverno precedente, lasciandolo solo. Pensava a quante volte aveva cercato una scusa per giustificarle la sua assenza... La missione in


9 cui si stava imbarcando era di assoluta segretezza e lui avrebbe preferito non mentire alla donna che lo aveva cresciuto come una madre. La sua scomparsa lo esentava dal raccontare ulteriori fandonie, però non poteva nascondere a se stesso un cupo dispiacere per quell’angosciante solitudine che l’accoglieva a ogni rientro in casa. Posò il contratto per scrutare le foto dei quattro cosmonauti che lo avrebbero accompagnato durante quei tre anni sotto la sua diretta responsabilità. Lucy Bin, nata a Bejing ma cresciuta a Londra, psicologa e medico sportivo; il tedesco Henrik Krass, fisico aerospaziale; il francese Michael Husson, pilota con il quale aveva già condiviso alcune precedenti missioni spaziali e il russo Andrei Zotoik, ingegnere con il pallino della biotecnologia, uomo tanto geniale quanto eccentrico. E infine lui, Matthew Allen, semplicemente Matt, un americano il cui volto lentigginoso e i folti capelli rossicci lasciavano intuire le sue chiare origini irlandesi. ‘Orso Matt’ lo chiamavano gli amici più intimi, per quel carattere schivo e quel suo parlare a monosillabi, che lo avvicinava tanto al burbero plantigrado. Se nel privato era decisamente goffo e privo di tatto, sul lavoro si trasformava: si trattava indubbiamente di un


10 ottimo professionista che, poco più che trentenne, era già considerato uno dei migliori astronauti del comparto. Matt e i suoi futuri compagni erano stati selezionati dalla compagnia spaziale cinese per il progetto Mars900, ufficialmente per simulare un viaggio su Marte ma principalmente ‐ secondo Matthew ‐ per fornire agli scienziati informazioni utili su come fisico e psiche umani avrebbero reagito alla costrizione fisica e all'isolamento per un periodo così lungo, testando in questo modo lo stress di una forzata convivenza. Si rese conto dell’orario. Posò le foto sulla scrivania e si stiracchiò, tendendo prima le gambe sotto il tavolo, poi le braccia al di sopra della sua testa. Incrociò le mani dietro alla nuca e rimase ancora per un attimo immobile a pensare. Ma era stanco e sentiva le palpebre pesanti dal sonno, desiderose di lasciarsi alle spalle quella lunga giornata. Così finalmente decise di andare a riposare. I giorni successivi sarebbero stati ricchi di impegni ed era fondamentale essere pronto e reattivo per affrontare al meglio ciò che lo aspettava. Si strofinò gli occhi mentre un lungo e profondo sbadiglio gli fece letteralmente sparire la metà inferiore della faccia. Spense l’abat‐jour e lentamente si avviò a tentoni verso la sua stanza, dove si


11 lasciò cadere sul letto abbandonandosi con un gemito sul cuscino.

*** 01 giugno 2013. Ore 07.15 a.m.

Finalmente arrivò il momento tanto atteso. Erano rimasti sigillati in quella struttura per quasi un triennio, fronteggiando le tre fasi previste dall'addestramento. Nella prima avevano dovuto affrontare, anche se solo virtualmente, i duecentocinquanta giorni di viaggio verso Marte. Poi cinquecento giorni articolati tra la simulazione dello sbarco sul pianeta rosso, l’esplorazione di una superficie che replicava alla perfezione il suolo marziano e una serie di test riguardanti numerose nuove tecnologie. Infine i duecentoquaranta giorni del viaggio di ritorno. All'interno della Mars900 le condizioni di vita di un equipaggio in viaggio da e verso Marte erano state emulate fin nei minimi dettagli: pochi contatti con l'esterno, scorte di cibo ed equipaggiamenti stivati all'interno del modulo abitativo, doccia solo una volta alla


12 settimana, imprevisti ed emergenze creati ad hoc dal controllo missione. I nervi di Andrei ed Henrik erano stati i primi a saltare. Andrei in particolare già da tempo non vedeva l’ora di abbandonare quel dannato modulo. Per Matthew, come capo dell’operazione, non era stato affatto facile gestire i momenti di altissima tensione, specie negli ultimi mesi. Tuttavia anche lui era felice di aver portato a termine l’esperimento. Ancora qualche minuto e tutto sarebbe finito. Il simulatore stava procedendo con il rientro verso Terra e a momenti sarebbero entrati nell’orbita terrestre. Nonostante il nervosismo fosse ormai insostenibile, ogni membro dell’equipaggio assolveva alacremente i propri compiti, eseguendo le complesse procedure d’atterraggio. La dottoressa Bin, davanti al terminale della sua postazione, stava verificando gli ultimi dati. Il suo sguardo si soffermò su di un file in particolare. Era quello che aveva trattato con maggiore attenzione in quella interminabile e impegnativa avventura. Aggrottò la fronte, avvicinandosi allo schermo per vedere meglio. Scorreva quelle informazioni con espressione seria e provata. Ma non era il fisico ad aver risentito


13 maggiormente di quell’esperienza. Le condizioni di tutti i componenti erano discrete, considerando che erano rimasti in uno spazio così ridotto per oltre novecento giorni. Avevano svolto continui esercizi fisici, due ore al giorno, un allenamento necessario per evitare i problemi di osteoporosi dovuti alla prolungata assenza di gravità, oltre che per scongiurare una rapida perdita della forma fisica e delle capacità motorie. Era stato invece lo stress il nemico numero uno, lo dimostrava chiaramente quel file, che raccoglieva le informazioni relative a quel lungo ‘viaggio’. La donna iniziò ad annotare nervosamente gli ultimi dati, utili a concludere una volta per tutte il suo rapporto. Perennemente ossessionata dal lavoro, si era lanciata a occhi chiusi nella missione spaziale. Se n’era però pentita: dal suo punto di vista professionale il progetto si era rivelato un totale insuccesso, come dimostravano tutte le ricerche che riempivano i suoi fascicoli. Era stanca, voleva tornare a casa. Già assaporava il piacere di una vera cena e di un bel bagno caldo... Sentiva proprio il bisogno di rilassarsi comodamente per qualche giorno nel suo grazioso loft, un open space arredato secondo il minimalismo dello stile orientale e di fare una passeggiata per Londra assieme alla sua amica Alysha, magari dopo


14 aver cenato da Hakkasan ‐ il suo locale preferito ‐ un ristorante situato in Hanway Place nel quartiere di Soho. Quella con Alysha era un'amicizia nata ai tempi in cui studiava alla University College di Londra. Negli ultimi anni si era gettata a capofitto nel lavoro e non aveva avuto molto tempo da dedicare alla cura delle relazioni interpersonali. Alysha era una delle poche persone di cui si poteva fidare ciecamente. Le era inoltre stata particolarmente vicina nei difficili giorni in cui aveva rotto con Ryan, proprio qualche mese prima della partenza per la missione. Non vedeva l'ora di fare una bella chiacchierata con lei. Le relazioni con i compagni, rifletteva Lucy mentre perfezionava gli ultimi grafici, nate inizialmente in un clima d’intesa e collaborazione, si erano andate deteriorando a poco a poco. Anche i litigi, che erano stati una costante sin dal primo anno di viaggio, erano ormai cessati. Solo lei, si accorgeva con stupore, talvolta esplodeva isterica, stanca dell’imprevedibilità di Andrei, il cui stato mentale era in rapida degenerazione. In questa operazione Andrei aveva probabilmente pagato a caro prezzo la prolungata separazione da sua moglie Irina e dalle figlie Yulia e Anna. Tra le sue missioni spaziali poteva vantare duecento giorni trascorsi sulla stazione orbitante MIR, ma evidentemente tre anni chiuso in quel


15 simulatore per lui erano stati ben’altra cosa. Da subito il suo fare saccente aveva creato qualche malumore col resto dell’equipaggio. Quando era in atto una discussione, poteva andare avanti a parlare per chissà quanto tempo impadronendosi della scena e ostentando le sue ragioni fino alla nausea. Era senz'altro un uomo geniale ‐ laureatosi col massimo dei voti presso l’accademia di S.Pietroburgo ‐ e un perfetto solista sul lavoro, ma quando si trattava di cooperare in un team poteva spesso risultare irritante, soprattutto visto il suo modo di fare estremamente anticonformista. La comunicazione tra Matt e i restanti membri del gruppo invece si era ridotta al minimo indispensabile. I primi veri momenti di tensione non erano però imputabili alle artefatte simulazioni d’inconvenienti tecnici, ma all’improvvisa cessazione dei messaggi dalla base, che in genere ricevevano almeno una volta alla settimana. Già da tempo gli astronauti avevano avvertito una certa apprensione nelle parole del loro coordinatore a terra, il comandante Pearl. L’uomo si era mostrato sempre più scostante in ogni contatto con il gruppo, ma in nessun momento aveva lasciato trapelare la possibilità di problemi esterni. Fino a quando, improvvisamente, non avevano ricevuto più nessuna notizia. Negli ultimi cinque


16 mesi quell’inspiegabile silenzio aveva innescato in loro un forte senso di angoscia e da un giorno all’altro si erano sentiti ancor più soli in quell’angusta dimora. Tutti i loro tentativi di collegamento con la base erano risultati vani. Matthew aveva cercato di tranquillizzare l’equipaggio: “Probabilmente avranno voluto rendere la prova facendo sparire le maggiormente realistica, comunicazioni...” aveva continuato a ripetere. Un’eventualità possibile anche se, dentro di sé, non ne era del tutto convinto... Soprattutto vista la malcelata preoccupazione sul volto tirato di Mr. Pearl. Andrei era quasi impazzito all’idea che fosse successo qualcosa di grave e che quel maledetto portellone non si sarebbe mai aperto. Era questione di poche ore e avrebbero scoperto se quella simulazione di viaggio su Marte, i mesi trascorsi a effettuare test e passeggiate sul Pianeta Rosso, vivendo in un piccolo modulo abitativo, sarebbe stata un successo. Li avrebbero accolti come degli eroi? O tutto era stato inutile e la simulazione un fallimento? Una voce calma e sicura riportò l'attenzione di tutti alla realtà, informando che il conto alla rovescia sarebbe cominciato entro trenta secondi.


17 «Impatto con l’atmosfera terrestre tra 10, 9, 8...» scandì lentamente Michael dalla consolle di comando della navetta.

***

Un contraccolpo, seguito da uno scossone del modulo, indicò l’impatto col suolo. La simulazione d’atterraggio era avvenuta senza problemi. Le potenti turbine dei generatori, che avevano prodotto un’incessante ronzio durante i tre anni di missione, avevano rallentato la corsa e quell’insopportabile brusio cominciò ad affievolirsi. Matthew e i suoi compagni si guardarono senza parlare. Poi, quasi a sorpresa, furono avvolti da una quiete che gli apparve surreale. A tutti i membri dell’equipaggio non sembrò vero... Si erano fermate definitivamente, cedendo il campo a un insolito silenzio. Andrei si slacciò freneticamente le cinture, lanciandosi goffamente verso il portellone. Gli altri l’osservarono rassegnati, impossibilitati a trattenerlo da quella definitiva esplosione di rabbia.


18 «Vedete! Non si apre questo fottuto portellone! Non si apre... Non si apre!» Urlò battendo vanamente i pugni contro la spessa porta di ferro. Aveva gli occhi sbarrati, mentre continuava a lottare come una furia contro il maniglione, ansimando a corto di fiato per via della troppa foga...Ma si dimenava e imprecava inutilmente, il congegno d’apertura era maledettamente bloccato. Stremato da quell’accumulo d’inquietudine e tensione, si lasciò cadere a terra in lacrime. S’inginocchiò con lo sguardo fisso sul pavimento singhiozzando nervosamente, mentre un pianto incontrollato prese a scorrergli giù per le guance. Matthew e i suoi compagni osservavano inermi quella scena di isteria, ma proprio mentre Lucy si stava lentamente avvicinando ad Andrei nel tentativo di calmarlo, spinta da un ultimo slancio di dovere professionale, la luce rossa posta al di sopra del portellone diventò verde, accompagnata dal suono lacerante di una sirena che riecheggiava a tratti, sincronizzata al lento lampeggiare della spia. Si udì un sibilo, poi un suono meccanico simile allo stantuffare di pistoni. Quando il suono fu cessato, la porta si aprì. Andrei si alzò di colpo, scaraventando per terra la collega. Si affrettò ad afferrare la maniglia, spingendo


19 ansiosamente la massiccia porta metallica. Non appena l’uscio fu rischiarato da uno spiraglio di luce, sentì sulla pelle una ventata d’aria che da tempo sognava di respirare. Aria vera e non quella artificiale che per tre anni aveva dovuto sopportare. Finalmente sarebbe uscito da lì, avrebbe lasciato quella che ormai era divenuta una prigione. Non sopportava più i suoi compagni d’avventura o di sventura, come preferiva chiamarli. Spinse a fatica il portello, riuscendo a forzarlo e a fiondarsi all’esterno. Nell’impeto inciampò e cadde per terra. Al suo seguito uscirono gli altri, abbandonando definitivamente il container ad alta tecnologia. Il simulatore nel quale avevano vissuto tre anni era composto da quattro ambienti interconnessi tra loro: il modulo abitativo, quello utilizzato per riprodurre l’ambiente marziano, il magazzino e l’unità medica, per un volume totale di oltre ottocento metri quadri racchiusi in un hangar. Matt si guardò attorno, preoccupato. Strinse gli occhi e la pelle del viso gli si tese. Seppure fossero all’interno di un hangar, quel po’ di luce naturale era comunque più di quanta ne avessero vista fino ad allora. Si portò la mano sinistra alla fronte, per schermare la luce del sole che penetrava dai lucernai.


20 Intorno a loro il nulla. E il silenzio più assoluto. Alla loro partenza erano stati in molti gli addetti ai lavori venuti ad assistere. Non si aspettava una festa nazionale, ma quell’immagine di vuoto incondizionato era inquietante. «Merde! Mais c’est pas vrai? Non c’è nessuno! Che diavolo è successo?» Disse Michael. Il pilota ultimamente quasi senza accorgersene parlava spesso in francese, sua lingua natia, soprattutto nei momenti di forte stress. Ormai i suoi colleghi si erano abituati e anzi quella sua melodica parlata risultava loro gradevole. «Non lo so...» la voce di Matt, che per tutta la missione aveva cercato di trasmettere sicurezza, divenne di colpo titubante. L’enorme hangar dava evidenti segnali di abbandono. Un raggio di sole che filtrava dall’ampio portone semi aperto si rifletteva su una fitta quantità di polvere, che si librava danzando nell’aria. «Un totale insuccesso. Ripudiati senza alcuna spiegazione» Henrik restò immobile, pensieroso. «Forza, avviamoci all’uscita e vediamo di scoprire cos’è successo» decise infine Matt. Si tolsero le ingombranti tute spaziali e si avviarono all’interno dell’aerorimessa. Mentre camminavano a


21 rilento, sbalorditi da quell’assurda accoglienza, continuavano a guardarsi attorno cercando di cogliere qualche elemento che li aiutasse a comprendere il perché di tanta desolazione. Anche quando erano arrivati tre anni prima non c’era nulla all’interno dell’hangar, che era stato destinato esclusivamente a contenere il fabbricato per la simulazione. Ma a differenza di allora, oltre alla mancanza inspiegabile di persone, si percepiva un’opprimente sensazione di oblio. Giunsero innanzi all’enorme portone ed Henrik cercò di azionarlo tramite un display che ne gestiva la movimentazione... Ma i suoi tentativi si dimostrarono inutili. «É fuori uso, non si riesce ad aprire» disse, prendendo in mano alcuni cavi tranciati. «Dovremmo comunque passare dalla fessura. Presto, usciamo di qui!» ordinò Matt, che voleva al più presto trovare risposte plausibili a quella strana situazione. Uno alla volta sgattaiolarono fuori, strisciando con difficoltà nella fenditura creatasi fra i battenti. Una volta all'esterno fecero fatica a mantenere gli occhi aperti e socchiusero all’unisono le palpebre per difendersi da quella luce troppo violenta. Un sole cocente illuminava già quella giornata.


22 “É veramente fantastico il calore trasmesso dal sole sul corpo” pensò Matthew. Inspirò l’aria del mattino che soffiava sul deserto e per un attimo quella piacevole sensazione spazzò via le preoccupazioni. Ma fu solo per un istante. Dovevano raggiungere il quartier generale e non sarebbe stato facile: la base si estendeva su un’area vastissima. Si trovavano nei pressi di alcune piste di atterraggio, delle quali solo alcune erano ancora utilizzate per il trasporto del personale civile impiegato nel centro aerospaziale. Gran parte di quella zona era usata come deposito e qualche chilometro più avanti vi erano i laboratori di ricerca. Dietro gli edifici in lontananza, si alzava la torre di controllo, ma all’orizzonte non si vedeva nessun segno di vita. Erano piombati di colpo in un’immensa area dismessa. Un silenzio mortale li avvolgeva. Quella che un tempo era stata una base spaziale d’avanguardia a livello mondiale, nonché la più grande in assoluto dell’intero globo, ora appariva in completo disuso. Almeno per quello che riuscivano a scorgere fino a quel momento.

***


23

Matthew camminava in testa al gruppo lungo la pista d’atterraggio. Stavano procedendo a fatica verso il centro di ricerca, il calore che l’asfalto cocente rilasciava era infernale. Michael guardava a destra e a sinistra, ma lo scenario era ovunque desolante. Da un lato le recinzioni metalliche che delineavano quell’ala della base, separandola dall’immensa distesa arida del deserto di Taklamakan... Quel panorama gli appariva come un grande mare di sabbia, un oceano di rena e dune dal fascino inquietante e privo di ogni traccia umana. Dall’altro la base stessa, sconfinata e in uno sconcertante stato di abbandono. Hangar vuoti, qualche automezzo abbandonato alla rinfusa, senza alcuna logica. Di fronte, lungo la pista d’atterraggio, l’arsura costante che lungo l’asfalto generava un tremolante effetto fata morgana. A dare segnali di efficienza era rimasta soltanto una cosa, ed effettivamente così era stato fino ad allora: l’impianto elettrico fotovoltaico da 5 Mega Watt, costruito appositamente per alimentare l’hangar e che grazie a uno speciale sistema di accumulatori aveva garantito l’elettricità anche nelle ore notturne. Seppure i pannelli fossero ricoperti di sabbia e visibilmente a corto di manutenzione, adempivano ancora al proprio dovere.


24 Una sgradevole sensazione d’inquietudine si fece improvvisamente viva in Michael. Se fosse mancata l’elettricità, il dispositivo di apertura automatica non avrebbe funzionato... Sarebbero restati chiusi nel modulo al buio a delirare, fino al sopraggiungere di una morte lenta e angosciosa. Quel pensiero gli fece accapponare la pelle, ma al momento era necessario trovare delle risposte, “Meglio non pensare a quello che sarebbe potuto accadere” pensò tra sé e sé. «Je ne comprends pas! Certo che è assurdo!» disse passandosi una mano sulla fronte e sui folti capelli ricci «Che senso aveva lasciarci impazzire là dentro se a nessuno gliene importava più un accidente!» «Basta! Non ne posso più!» con un grido Andrei iniziò a correre all’impazzata verso il centro di ricerca, distante ancora qualche chilometro. «Ormai è inutile cercare di calmarlo» disse rassegnata Lucy «Lasciamolo correre... Questa situazione anomala ha aggravato il suo stato in modo irreparabile.» Matthew scrutava Andrei allontanarsi rapidamente da loro, mentre urlava come un folle a pieni polmoni nel tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno. Gli sembrava impossibile che potesse disporre di tutte quelle energie, dato il caldo insopportabile e lo stress emotivo


25 che stava affrontando. Ma così era e in breve la sua smaniosa galoppata l’aveva condotto nei pressi dell’ingresso. «Si vede che era un vero atleta...» affermò in tono ironico Henrik. Da ragazzo Andrei aveva praticato atletica leggera con discreti risultati, correndo i duecento metri in tempi che per poco non l’avevano fatto entrare nel giro della Nazionale. Lo videro ansimante, chino con le braccia distese fino alle ginocchia, intento a riprendere fiato. Il silenzio spettrale che li circondava fu rotto da un flebile rumore, che con lo scorrere dei secondi si fece più nitido. Dal retro del palazzo sbucò un furgone, che dopo avere affrontato la curva in sbandata sfrecciò sulla pista a grande velocità. Il vecchio Volkswagen inchiodò accanto ad Andrei. Matt e gli altri lo osservavano agitarsi, gesticolando violentemente contro l’autista. Dal retro del veicolo comparve una persona d’aspetto minuto, forse un ragazzo, che cercò di afferrare Andrei. Ma lui si divincolò, spintonando via il giovane che continuava a volerlo condurre con sé sul furgone. L’autista fece un cenno muovendo velocemente il braccio fuori dal finestrino e il ragazzo si precipitò sul retro del furgone, sparendo dalla


26 loro vista. Il mezzo ripartì in sgommata e lo stridere dei pneumatici sollevò una nube di fumo sull’asfalto rovente. Andrei lo seguì con lo sguardo, continuando ad agitarsi. A metà strada tra loro e Andrei il furgone sembrò voler svoltare ma l’autista, probabilmente accortosi della presenza di altre persone, corresse la traiettoria e continuò la corsa in loro direzione. Matthew incrociò lo sguardo degli altri e notò in tutti un'espressione in cui si mescolavano choc, sfinimento e incredulità. Il furgone stava arrivando. Come fatto in precedenza con Andrei, si arrestò inchiodando sull’asfalto. «Presto, lo dico per il vostro bene! Montate immediatamente su, dobbiamo andare via da qui!» Dal posto di guida apparve un cranio calvo luccicante, un uomo di origine asiatica che si era espresso in tono teso e preoccupato, dimostrando una buona padronanza dell’inglese. «Vi spiegheremo tutto dopo, non fate come quel pazzo laggiù seguiteci! Presto...» lasciò la frase in sospeso, fissando le persone davanti a lui con una smorfia che metteva in mostra la bocca sdentata. Si guardarono nuovamente tra loro e Matt, vedendo lo sconcerto generale, decise di ascoltare il suo istinto e si pronunciò per primo: «Facciamo quello che ci dice...» Nessuno sembrò obiettare. Solo Henrik aggiunse:


27 «Tanto, peggio di così che altro ci può capitare?» Dal retro del furgone intanto era sbucato un ragazzino anch’egli asiatico, poco più che adolescente all’aspetto, che gli rispose: «Ma no sapere nulla? No immagina neanche cosa terribile può capitare... Presto salire su!» Matthew salì per ultimo guardandosi alle spalle, mentre una mano lo aiutava a tirarsi su. In quel momento vide uscire qualcuno dalla porta del centro di ricerca. Prima una, poi un paio di persone. Procedevano rapidamente con un’assurda andatura che ricordava un branco di predatori affamati. I pochi vestiti addosso erano stracciati e lasciavano intravedere arti rigonfi e grigiastri. Scorse Andrei girarsi verso di loro, immobile a osservarli. Poi con uno scatto iniziò a correre, ma le persone uscite dal centro lo raggiunsero in fretta scaraventandosi con violenza su di lui e facendolo rovinare a terra. Il portone del furgone si chiuse una volta che Matt fu a bordo e immediatamente ripartì a tutta velocità. Grida di terrore e disperazione, le urla di Andrei restarono sospese nell’aria per un tempo che a tutti sembrò infinito. «Chi erano quelle persone?» chiese in tono esasperato al ragazzo che stava con loro sul retro del furgone. Il


28 giovane assunse un’espressione seria e contrita che non lasciava trasparire niente di buono. «Paura... Morte...» Qualsiasi cosa stesse cercando di spiegare, fu interrotto dalla voce ispessita dall’ira proveniente dal posto di guida. «Che succede?» chiese rivolto all’autista scostando lo sguardo da Matt. «Merda! Una fottuta trappola, ecco dove siamo finiti!» Quell’affermazione lasciò tutti interdetti, senza parole. Poi si scossero e guardarono attraverso il parabrezza: si stavano avvicinando a un’entrata del polo tecnologico che però pareva ostruita da un’autocisterna posta di traverso. «E ora che fare?» chiese il giovane dal retro del furgone. «Non lo so Ming, non lo so...» rispose l’altro a denti stretti. Poi aggiunse: «Sentite, voi siete di questa base, non so cosa ci facciate in giro ma dobbiamo uscire di qui! L’uscita ovest è bloccata e questa sembra nelle stesse condizioni. Non possiamo scendere, verremmo senz’altro assaliti. Vedete là in fondo? Sicuramente attorno alla cisterna vi sono appostati dei mutanti.» «Quoi? Dei… Cosa?» Gridò Michael perplesso.


29 «Dopo! Dopo! Ora ditemi una cosa, qualcuno di voi sa pilotare un aereo? Dove vi abbiamo recuperati ce n’era uno... Se la fortuna ci assiste potrebbe essere funzionante e carico di benzina!» «Io sono un pilota» rispose Michael «Che aereo avete vis...» Non riuscì a finire la frase, udirono un colpo sul furgone, che sobbalzò per l’urto facendo sbalzare Henrik dalla sua precaria seduta. L'impatto di una massiccia forma tondeggiante era apparsa contro la parete deformando la lamiera del mezzo. «Ci vengono addosso, sono inferociti!» gridò l’autista «Non so che aereo fosse, ma se sei un pilota è fantastico, chissà che oggi la fortuna non sia dalla nostra parte! Forse possiamo uscire da questa merda!» Rispose con una grassa balbettante risata isterica e Michael pensò che quell’uomo non fosse molto sano di mente. «Pronti per il volo allora!» Urlò sterzando di colpo e controllando la sbandata, mentre le ruote grattavano nuovamente sull’asfalto. Avevano girato a qualche centinaio di metri dall’uscita bloccata e ora in fondo alla pista si scorgeva un Boeing. Giunti davanti al velivolo, l’autista scese per primo. «Dov’è il pilota? Presto vieni qui!»


30 Michael, nonostante non capisse da chi e da cosa stessero scappando, si affrettò comunque a raggiungerlo. «Dimmi che può volare...» disse, guardandolo dritto negli sbarrati, magnetici occhi verdi. Michael cominciò a ispezionarlo rapidamente. Nel frattempo gli altri erano scesi dal furgone e si guardavano intorno con crescente preoccupazione. «Loro stare arrivando!» Gridò pieno di terrore il ragazzino. Michael, che intanto era salito sull’aereo, si affacciò dal portellone d’ingresso. «Non posso garantire nulla... Ma almeno il livello di carburante sembra essere buono.» «Allora andiamo!» tuonò l’autista, sbracciandosi verso il gruppo e invitandoli a salire «A bordo saremo al sicuro!» Michael corse nuovamente all’interno della cabina per completare i preparativi del decollo. Cominciarono velocemente l’imbarco lungo la rampa di accesso, mentre i motori del velivolo iniziavano a rombare, producendo un fragore che diventava sempre più regolare e potente. Lucy, che fino ad allora aveva mantenuto il suo caratteristico sangue freddo, sembrava ipnotizzata dalle figure che si stavano avvicinando speditamente.


31 Quell’assurda situazione aveva preso il sopravvento anche su di lei che, intontita, si attardò nel salire. «Lucy!» Matthew cercò di scuoterla dal suo stato di apatia, chiamandola più volte. «Vado a prenderla!» disse infine rivolgendosi agli altri. Ma proprio mentre pronunciava quelle parole due uomini si lanciarono repentinamente su di lei. Erano comparsi all’improvviso da sotto l’aereo, probabilmente erano ormai accerchiati... Altri ne stavano giungendo da tutte le parti. Lucy quasi non reagì. Non capiva chi fossero quegli esseri dai volti deformati che le si avvicinavano urlando minacciosi. “Una nuova razza umana. Una scoperta scientifica eccezionale” pensò. Ma che importanza poteva avere a questo punto? “Che stupida!” mormorò tra sé. Non avrebbe più ricevuto i tanto ambiti riconoscimenti, per i quali si era lanciata in quella folle impresa. In fondo non le importava granché: era stanca, voleva solo tornare a casa, cenare e farsi un bagno caldo. Questi furono i suoi pensieri prima che quella informe massa urlante prendesse il sopravvento su di lei, avvolgendola in una stretta infernale. Matthew vide comparire delle macchie di sangue sui vestiti di Lucy, in un attimo le avevano strappato e


32 lacerato maglietta e pantaloni. I fiotti di sangue che sgorgavano dalle ferite stavano già formando una pozza sull’asfalto, mentre quegli esseri rabbiosi si dimenavano su di lei come cani inferociti che lottano per un pezzo di carne. Non riusciva a credere che quell’orrore fosse reale... Non poteva essere vero, la stavano sbranando. La donna urlò e dalla sua bocca proruppe un suono gorgheggiante, liquido, mentre cercava stremata di respingere i selvaggi aggressori. Era l'urlo di chi è ormai in fin di vita. Matthew rimase impietrito, inchiodato dall'orrore a guardare quella scena irreale comparsa davanti ai suoi occhi. «Tu torna dentro! Ormai non possiamo più nulla fare per lei!» Il ragazzo scostò Matthew dal portellone e si sporse all’esterno per chiuderlo. Si allungò per agguantarlo e afferratolo, cercò immediatamente di serrarne l’accesso. Ma uno dei loro inseguitori aveva iniziato a correre sulla rampa d’imbarco, mentre il fragore dei motori cresceva d'intensità e lentamente, molto lentamente, l’aereo aveva cominciato a muoversi lungo la pista. Quella figura famelica si lanciò dalla scala in direzione del portellone riuscendo ad afferrare il giovane e facendolo fracassare a terra. Matthew si riportò davanti allo sportello e questa volta, con l’aereo in movimento e senza possibilità per


33 altri di salirvi sopra, riuscì finalmente a chiuderlo. Guardò dal finestrino con sconforto e disperazione la persona che gli aveva appena salvato la vita, mentre si dimenava cercando di liberarsi dalla ferocia di quegli essere imbestialiti. Ma non ce l'avrebbe mai fatta, erano in troppi e animati da una violenza disumana. Il ragazzo era precipitato in una situazione senza speranza. Quelle creature iniziarono ad azzannare il suo corpo scosso da spasmi e nell'aria sprizzarono fiotti di sangue scuro...

***

Erano tutti sconvolti da quella violenta fuga improvvisa e dalla brutalità delle immagini che avevano visto, orribili scene rimaste indelebilmente impresse nei loro occhi. Soprattutto a Matt, che non riusciva a togliersi di mente la drammatica aggressione alla dottoressa Bin...Gli sembrava di sentire ancora le grida terrorizzate della donna. E il ragazzo, Ming, così lo aveva chiamato l’autista durante quei frenetici momenti, morto nel tentativo di chiudere il portellone. Un improvviso conato di vomito gli risalì in bocca e fu costretto a correre in bagno. Ciò che aveva visto era troppo anche per lui, uomo


34 apparentemente tutto d’un pezzo, ma che dentro di sé portava le cicatrici di una vita dispensatrice di brutte sorprese. Dopo qualche minuto tornò a sedersi, percorrendo il corridoio a capo chino. Rimase con lo sguardo fisso sul pavimento, sconvolto e incapace di pronunciare qualsiasi parola. L’uomo che li aveva condotti fuori dalla base, sedutosi nella cabina di pilotaggio con Michael durante il decollo, raggiunse Matthew ed Henrik. Entrambi avevano un’aria decisamente turbata. Henrik interruppe quel silenzio surreale, un silenzio che fino ad allora era stato spezzato solo dal rombo dei motori. « Adesso vuoi dirci che diavolo sta succedendo? Cosa è accaduto alla base? Chi erano quegli esseri?» Disse guardandolo con aria sconvolta. «Venite nella cabina di pilotaggio, vi spiegherò tutto.» Rispose lasciandosi sfuggire una smorfia, agitando la mano come per calmare la valanga di domande. Fece un cenno col capo ai due uomini, invitandoli ancora a seguirlo. Raggiunsero Michael nella cabina e non appena si furono riuniti, l’asiatico si rivolse nuovamente a loro. «Però prima ditemi voi, cosa ci facevate in quella base infernale?


35 Matthew si riscosse dal suo stato catatonico e iniziò a raccontare senza troppi giri di parole, com’era suo tipico. «Siamo un gruppo di élite internazionale di astronauti, selezionati per un ambizioso progetto» si fermò un istante, come se stesse per ricacciare indietro le lacrime. Ma subito dopo si riprese «Io sono Matt Allen, e questi sono i miei colleghi Michael Husson e Heinrik Krass. Si trattava di un test... Per simulare una missione su Marte. Sognavamo di essere il primo equipaggio a spingersi sul pianeta rosso e questo ci ha convinto a partecipare all’esperimento nella base spaziale, qui nel deserto di Taklamakan. Avevamo accettato di non poter abbandonare la missione durante i tre anni del contratto, neppure se la nostra condizione fisica o mentale fosse diventata pericolosa per la nostra stessa sopravvivenza. Ma negli ultimi mesi le trasmissioni... I messaggi periodici verso quella che in gergo chiamavamo la missione ‘A terra’, si sono interrotti. Già da tempo avevamo avvertito una certa preoccupazione quando riuscivamo a comunicare. Forse avrebbero voluto liberarci, o forse no visto quello che ci attendeva all’esterno, resta il fatto che un dispositivo automatico bloccava l’impenetrabile portellone del bunker nel quale si svolgeva la simulazione. Al termine dei tre anni, vale a dire proprio oggi, il


36 portellone si è aperto... Poi abbiamo incontrato voi. Ora dicci tu cosa è successo.»

*** La monumentale terrazza, situata a corona di un’ampia sala del castello, si affacciava su tutta la valle. La fortezza era posta su una collina, il paesaggio però non era più verde e rigoglioso come una volta; il grigio persistente del cielo, dovuto agli innumerevoli incendi divampati ovunque, ne aveva modificato l’aspetto. Ai piedi della collina sorgeva una cittadella, edificata qualche anno prima. Case piccole e bianche con giardino ben curato all’inglese, tutte uguali tra loro si ripetevano in successione regolare, a formare quella che tra i suoi abitanti era denominata la ‘Città Modello’. Invece i sopravvissuti la chiamavano ‘Città della Morte’ e il motivo era semplice: nessuno era mai uscito vivo da quella che a tutti gli effetti assomigliava a una prigione, confortevole certo ma pur sempre una prigione. In gergo era per tutti la CM e il primo a parlarne era stato un giornalista della


37 rete conosciuto come @firepress, ma da qualche tempo la sua voce sembrava essersi spenta. «Price, mettimi in contatto con Spencer, vediamo come procede la sua missione...» Una voce chiara e dal tono controllato si rivolse all’assistente. «Immediatamente, mio Altissimo.» L’uomo gli si avvicinò immediatamente e in maniera oltremodo servizievole, senza però guardarlo negli occhi. Tutti temevano il suo sguardo, la malignità si percepiva in modo netto, incrociando anche per un solo istante quei gelidi occhi celesti. Era un bell’uomo, senza dubbio di grande fascino, non ancora quarantenne e dal fisico atletico. Ma nonostante il viso pulito, i corti capelli color del carbone e il vestire elegante, il suo sguardo aveva sempre un qualcosa di malvagio, con quelle ciglia semi aggrottate che gli conferivano un tono a dir poco demoniaco. Era ‘La Bestia’, così chiamato da tutti. Poco dopo il suo assistente aveva fatto ritorno sul terrazzo, recando un palmare avviato in una video chiamata. «Ecco a lei...» disse l’uomo servilmente. Le comunicazioni sul pianeta erano praticamente impossibili, la relativa tecnologia si stava avviando al degrado, ma nel castello e nella cittadina sottostante


38 tutto era ancora perfettamente integro e funzionante. Sul display comparve un uomo dal volto grigio e insignificante, cerchiato da un paio di occhiali dalla pedante montatura metallica. «Mio Altissimo...» l’uomo chinò il capo in segno di rispetto. «Come procede il tuo compito? «Sono riuscito in quello che mi aveva ordinato, ora sto procedendo con la seconda parte del piano.» Disse con tono tremolante, ma la voce faceva trapelare la soddisfazione di aver portato a termine la prima parte del compito. «Bene,» sogghignò «Ora concludi. Ci aggiorneremo nuovamente. Così dicendo interruppe la comunicazione, senza dare all’uomo il tempo di replicare. Si avvicinò al bordo del terrazzo e quando fu vicino al davanzale aprì le braccia, chiuse gli occhi e inspirò profondamente una boccata d’aria, come a voler assaporare a fondo l’odore di morte che l’impregnava.

*** FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...


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