QuimMonzò: Tre Natali, introduzione e traduzione

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QUIM MONZÓ: TRE NATALI, INTRODUZIONE E TRADUZIONE

Relatore: Dott.ssa LAURA LUCHE

Correlatore: Dott. IBAN L EON L LOP

Tesi di Laurea di: ALESSIO ONIDA

ANNO ACCADEMICO 2009/2010


1 INDICE

INTRODUZIONE

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1. QUIM MONZÓ E LA SUA OPERA

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1.1. Quim Monzó e l’assurdo del quotidiano

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1.2. Tres Navidades: il natale monzoniano

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2. TRE NATALI

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Bianco Natale

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La piccola fiammiferaia

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Il comitato

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3. ANALISI TRADUTTOLOGICA

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3.1. Termini di riferimento socio-culturale

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3.2. Traduzione di locuzioni e strutture sintattiche

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3.3. Termini non tradotti

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TRES NAVIDADES

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BIBLIOGRAFIA

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2 INTRODUZIONE

L’obbiettivo di questo elaborato è proporre la traduzione e l’analisi letteraria e traduttologica dell’opera Tres Navidades (2003), Tre Natali, dell’autore barcellonese Quim Monzó. Il testo preso in esame, come suggerisce il titolo stesso, è composto da tre racconti. Tre racconti di natale alquanto anomali per il loro genere perché in chiave ironica l’autore gioca con i classici stereotipi e luoghi comuni del natale nell’intento di svelare l’ipocrisia, la falsità e le banalità che ciclicamente si manifestano sotto svariate vesti durante la ricorrenza delle “sante” festività natalizie.

Nel primo capitolo si procede alla presentazione dell’autore, Quim Monzó, e a un breve studio delle principali caratteristiche della sua narrativa. Monzó, è infatti un autore per lo più sconosciuto in Italia, ma considerato in Spagna come uno dei maggiori esponenti della letteratura Catalana contemporanea, molto conosciuto anche per la sua attività come giornalista e per le sue numerose apparizioni in radio e televisione. La sua produzione è bilingue, alcune opere infatti sono scritte in catalano e altre in castigliano. I tre racconti che si propongono nel presente lavoro furono scritti originariamente in catalano e poi tradotti al castigliano dallo stesso autore. Sempre nel primo capitolo alla presentazione dell’autore segue un’analisi di ciascuno dei tre racconti. Il primo racconto, Blanca Navidad, Bianco Natale, è la parodia del racconto evangelico sulla nascita di Gesù visto con l’immaginazione di un bambino dei tempi moderni. Il secondo racconto, La Cerillera, La piccola fiammiferaia, è la parodia del celebre racconto di Hans Christian Andersen. Infine il terzo racconto, La Comisión, Il comitato, mette alla berlina, mostrandone i lati eccessivi e risibili, l’attuale ossessione del politicamente corretto e lo fa mettendo in scena la riunione di un comitato di paese che ogni anno si riunisce per organizzare le manifestazioni che fanno da contorno alla celebrazione del Natale.

Il secondo capitolo è costituito dalla traduzione dei tre racconti che compongono l’opera analizzata. È il lavoro principale dell’elaborato e per realizzarlo ci si è basati sul metodo interpretativo comunicativo, che si basa sul principio di equivalenza del significato. Si è quindi tradotto rispettando il testo originale in ogni sua costruzione, in tutte le scelte


3 lessicali, ma senza violare la lingua di arrivo, anzi cercando di renderla il più naturale possibile.

Nel terzo capitolo si propone una riflessione teorica sulla traduzione fatta. Partendo dall’analisi preliminare dal sottotesto presente in ogni racconto in quanto parodia, si spiegano i motivi che hanno condizionato le scelte lessicali, gli stili e i registri linguistici adottati. Vengono poi analizzate e spiegate le soluzioni applicate e le strategie impiegate nel corso della traduzione per risolvere i principali problemi traduttivi. Sarà così possibile mostrare le difficoltà che presenta la traduzione di un testo, in particolare quelle difficoltà che si riscontrano nel tradurre termini di riferimento socio-culturale e nel trasportare dalla lingua di partenza alla lingua di arrivo locuzioni e strutture sintattiche prefiggendosi di rimanere il più fedeli possibile all’originale.


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CAPITOLO I

Quim Monz贸 e la sua opera


5 1.1. Quim Monzó e l’assurdo del quotidiano

Quim Monzó è nato a Barcellona nel 1952. Artista poliedrico, Monzó è attualmente considerato una delle voci più provocatorie nel panorama letterario europeo e uno degli scrittori di maggiore successo nel mercato catalano. Attivo sin dagli anni Settanta, nella sua lunga carriera Monzó è stato disegnatore grafico, corrispondente di guerra, autore di canzoni, disegnatore di fumetti, sceneggiatore per la radio e la televisione, traduttore, ma soprattutto uno scrittore di racconti e romanzi, principalmente in lingua catalana ma anche in castigliano. Sin dagli inizi degli anni Settanta scrive dei reportage di guerra da paesi quali il Vietnam, la Cambogia, la Tailandia, il Mozambico, il Kenya, la Tanzania e il Nord Irlanda per il giornale Barcellonese Tele/eXprés. Nel 1976 pubblica il suo primo romanzo, L’udol del griso al caire de les clavequeres, che vince il premio Prudenci Bertrana. Da questo momento con una cadenza quasi annuale è un susseguirsi di pubblicazioni che alternano romanzi, raccolte di racconti, genere che predilige, articoli giornalistici, saggi e collaborazioni con vari periodici. Attualmente lavora come giornalista per il quotidiano di Barcellona La Vanguardia. Tra gli autori che lo hanno maggiormente ispirato Monzó è solito indicare l’influenza determinante di Franz Kafka e di molti autori latinoamericani: Julio Cortázar, Felisberto Hernández, Bioy Casares, Monterroso, Arreola... Ma anche europei: Boris Vian, Dino Buzzati, Giorgio Manganelli... E americani: Donald Barthelme, Robert Coover... Ma alla base della scrittura di Monzó ci sono anche fonti quali il cinema, la televisione, la musica, i videogames, i fumetti… Con la sua scrittura Monzó ambisce a evadere dal quotidiano, infrangere i luoghi comuni, uscire dagli schemi servendosi dell’umorismo, dell’assurdo, dell’iperrealismo. Prende spunto da una situazione comune, spesso abituale, ripetitiva, teoricamente logica e razionale e inserisce un nuovo fattore che scombina la ripetitività, la razionalità. Prende il via un carosello di avvenimenti a catena che sfociano nell’assurdo, nel parodistico e che sfuggono al ragionamento lineare. È questo, ad esempio, il caso di uno dei tre racconti tradotti, La Comisión, dove un semplice comitato di paese diventa il teatro nel quale mettere in scena i difetti dell’uomo comune come la corruzione, l’invidia e la gelosia. Da quella che sembrerebbe l’innocua proposta di uno dei membri su chi dovrebbe interpretare i Re Magi si scatena una reazione a catena che scombussola la macchina organizzativa sino ad allora perfetta.


6 Monzó è, infatti, un acuto osservatore dei comportamenti e delle nevrosi del cittadino moderno ingabbiato in una vita preconfezionata. È proprio l’uomo comune il protagonista principale dei suoi racconti, si pensi ad altri esempi come l’esaminando, protagonista del racconto Estratègies1 la cui vita è un perenne ripetersi di esami o al bugiardo patologico presente in Dia cada dia.2 Figure secondarie, da contorno, che con Monzó diventano protagoniste, e nelle quali il lettore riconosce l’assurdità quotidiana in cui vive immerso. Monzó dubita di tutto ciò che ci circonda perché niente è ciò che sembra, la realtà che ci vuol far vedere si nasconde nell’irreale dei suoi racconti, dei suoi dialoghi, ed è attraverso l’esasperazione della quotidianità che intenta provocare il lettore, come ad esempio nel racconto L’accident3 dove un automobilista viene ripetutamente linciato dalla folla, con ogni immaginabile tecnica di tortura, per aver investito un passante, che ci mostra la rabbia e l’aggressività della società attuale. O ancora, si pensi al racconto El meu germà,4 dove una famiglia colpita dalla morte di un figlio, la nega e fa di tutto per fare in modo che sembri vivo, addirittura facendolo sposare senza che la sposa si accorga che è morto, mostrandoci così in modo esasperato il rifiuto del dolore e della morte nella società contemporanea. Monzó racconta situazioni esasperate ma senza alcuna esasperazione stilistica, anzi con uno stile piano, come ha osservato giustamente Jordi Galves: «La literatura de Monzó no es tan comprensible como parece a simple vista […]. Su fuerza está precisamente en su despoblamiento retórico, en su falta de pomposidad, en su actitud serena, sin efectismos. La importancia del texto no está en el propio texto sino en la complicidad con el lector».5

1.2. Tres Navidades: il natale monzoniano

Tres Navidades è stato pubblicato nel 2003; raccoglie tre racconti di Natale, Blanca Navidad, La Cerillera e La Comisión, originariamente scritti in catalano per il supplemento domenicale del quotidiano La Vanguardia e tradotti al castigliano direttamente da Monzó, con splendide illustrazioni dell’artista catalano Ramon Enrich. Tre racconti alquanto anomali per il loro genere, infatti, in realtà si tratta di racconti volti alla demolizione dei classici luoghi comuni natalizi, come spiega lo stesso scrittore: «Justament en aquests 1

Q. Monzó, Guadalajara, Barcelona, Quaderns Crema, 1996. Ibid. 3 Q. Monzó, El millor dels mons, Barcelona, Quaderns Crema, 2001. 4 Ibid. 5 J. Galves, «Poema sobre la nada», La Vanguardia, www.lavanguardia.es, 2007. 2


7 tres contes jugo amb els tòpics nadalencs. La felicitat, la germanor, la solidaritat, la bondat humana [...]. L'Església catòlica ens ha venut durant segles tota una sèrie d'hipocresies i ara, com que molta gent s'ha tornat descreguda, fins i tot per Nadal n'han pres el relleu aquestes noves religions de l'oenagenisme i la solidarita».6

Il primo racconto, Blanca Navidad, Bianco Natale, è la narrazione della nascita di Gesù così come viene raccontata ai bambini prendendo come riferimento l’immagine del presepe. La voce narrante accompagna il lettore per tutto il racconto, evidenziando, di volta in volta, gli anacronismi dell’iconografia occidentale cosi come sovente sono rappresentati nel presepe, come nel caso delle colonne romaniche presenti nel porticato della casa di Maria o la presenza della neve in Palestina. Sfruttando queste incongruenze l’autore si può allora permettere di prendersi la libertà di modificare a suo piacimento la storia e fare in modo che Maria invece di partorire un solo bambino partorisca due gemelli. Solo alla fine del racconto si riesce però a comprendere appieno il senso generale. Monzó racconta con gli occhi e la fantasia di un bambino. È come una maschera dietro la quale l’autore si nasconde, fa sì che il surreale possa prendere vita. Partendo dalle incongruenze dei classici racconti natalizi ne introduce altri che portano all’assurdo (reductio ad absurdum) alcune caratteristiche del Natale e della società occidentale in generale. Ed ecco allora come uno dei due neonati stupisca i genitori e il fratello camminando sull’acqua della vasca da bagno o come l’altro a sua volta possa moltiplicare gli yogurt invece che i pesci. Bisogna inoltre aggiungere un’altra tecnica sovente adottata da Monzó, utilizzata anche negli altri racconti, che consiste nel riassumere più volte all’interno della narrazione descrizioni o avvenimenti già raccontati, come scrive Ana M. Pérez Cañamares: «La repetición crea un ritmo casi obsesivo».7 Ad esempio nel primo racconto viene più volte introdotta la figura dell’arcangelo ripetendo sempre le sue caratteristiche fisiche «el ser fabuloso, de rizos rubios hasta los hombros» (TN11)8 piuttosto che limitarsi a chiamarlo per nome. Oppure nel terzo racconto La Comisión uno dei protagonisti viene sempre introdotto in base alla condizione per la quale è entrato a far parte del comitato «el que ha entrado en sustitución del que este verano murió en accidente» (TN47). È con l’utilizzo del “tormentone” che Monzó crea l’effetto comico; così come se ne fa uso nel linguaggio 6

E. Piquer, «Quim Monzó: "El borreguisme cultural d'aquest país m'ha atribuït molts fills que no reconec"», Avui, http://www.xtec.cat/~jducros/Quim%20Monzo.html, 03/12/03. 7 A. M. Pérez Cañamares, «El porqué de Quim Monzó», www.babab.com, 2002. 8 Q. Monzó, Tres Navidades, Barcelona, Acantilado, 2003. D’ora in poi si citerà nel corpo del testo con due iniziali maiuscole tra parentesi (TN).


8 teatrale con la battuta ripetuta in modo ossesivo o nel linguaggio giornalistico dove un tema, riferito sempre allo stesso soggetto, spesso sintetizzato in una frase o in un’immagine efficace e incisiva, viene continuamente riproposto in modo martellante.

Se, come dice Ana M. Pérez Cañamares, «El inertexto es el juego por exelencia de la literatura con la literarura»,9 Monzó è da sempre attratto dalla rielaborazione di altre storie. Il secondo racconto, La Cerillera, è una rivisitazione in chiave ironica della famosa fiaba di Hans Christian Andersen La piccola fiammiferaia, come il primo racconto, Bianco Natale, è una riscrittura del racconto biblico del vangelo. L’autore mette in evidenza la pateticità del tipico racconto di natale che ha come scopo principale quello di rabbonire e commuovere il lettore. Lo fa attraverso il punto di vista della stessa bambina che «Está harta de la bondad navideña, está harta de los buenos sentimientos de diciembre, de los insoportables villancicos» (TN34). Monzó denuncia, inoltre, la monotonia della vita quotidiana, il ripetersi quasi meccanico di gesti e situazioni che si ripresentano non solo nella letteratura ma nella vita di ogni giorno. È la voglia di evadere dal convenzionale. Monzó lo fa accompagnando passo dopo passo la piccola protagonista che si ritrova rinchiusa all’interno del proprio racconto, obbligata a ripetere ogni natale quei gesti e quelle parole che fanno parte del suo copione. Anno dopo anno si ritrova sempre preadolescente in mezzo alla strada obbligata a sentire la mancanza dei genitori che in realtà non ha mai conosciuto. Intrappolata in questo racconto pateticamente melodrammatico cerca di ribellarsi maledicendo il fantasma della povera nonna e la fantasia del suo creatore, ma senza nessun risultato. Monzó si avvale di una tecnica che si può definire di circolarità infinita, ovvero il ripetersi infinito di un ciclo di tempo al termine del quale i ricordi dei personaggi vengono cancellati, tutti tranne quelli del personaggio principale che è l’unico a conoscenza del ripetersi ciclico del tempo. Questa è una tecnica utilizzata in diversi campi artistici, dal cinema alla letteratura e che si rifà al mito di Sisifo condannato da Zeus a spingere verso la cima di un monte un masso enorme che, appena raggiunta la cima, ricadeva in basso dall’altro versante costringendo così Sisifo a ricominciare il lavoro senza tregua, all’infinito. Possiamo facilmente vedere un’analogia con il racconto di Monzó ritrovando in Sisifo la figura della povera fiammiferaia e in Zeus quella del sadico autore del racconto originario che costringe la poveretta a rivivere perennemente la vigilia di natale senza poter sperare in un finale alternativo.

9

A. M. Pérez Cañamares, op. cit, p. 7.


9 Il terzo ed ultimo racconto, intitolato La Comisión, Il comitato, parla di una tipica riunione di uno dei tanti comitati dei festeggiamenti di provincia intenti ad organizzare le manifestazioni che si terranno durante le feste natalizie. Dei tre racconti è quello che in maniera diretta affronta una scena di vita reale, una classica riunione di comitato. Ecco così che appaiono i giochi di potere e la corruzione, infatti i cittadini sono soliti corrompere i membri del comitato per essere scelti per interpretare uno dei Re Magi solo per suscitare l’invidia del vicinato, «Ser Rey Mago ha sido siempre un gran honor y, en épocas pasadas, para conseguirlo era habitual recorrir a los sobornos» (TN42). Ancora un malinteso senso di giustizia induce il comitato a far passare a tutti i costi la processione in strade semi deserte solo per essere equi con tutti «en los esfuerzos de la comisión por ser justa […] a veces se llega al absurdo de evitar calles céntricas para favorecer vías secundarias» (TN41). Chiaramente ispirata allo stile dei Monty Python e in particolare al loro film Life of Brian del 1979, dove in una scena viene proposta la riunione di un'organizzazione rivoluzionaria anti-imperialista, il Fronte Popolare di Giudea, che ricorda molto quella del comitato di Monzó. La riunione sfocia nel delirio più assurdo nella ricerca di correttezza sociale al limite del razionale. Viene messa in scena l’esplosione delle piccole cause, delle piccole ideologie che finisce per far apparire quel piccolo microcosmo che è il comitato, come un caos irrazionale in cui collidono argomentazioni divergenti. Si fa beffa di alcuni aspetti sociali quali il falso buonismo natalizio o la difesa delle minoranze, che arrivano allo stravolgimento delle tradizioni. Quando nel corso della riunione si sente il bisogno di rispettare tutto e tutti c’è chi propone che Baldassarre, il Re nero, sia interpretato da uno dei tanti extracomunitari presenti in città, invece di dover ricorrere al trucco, che uno dei Re Magi sia donna o addirittura omosessuale per rispettare tutte le categorie. È una vera e propria messa in scena dell’estremizzazione del concetto di «politicamente corretto», concetto contro il quale si scaglia lo scrittore: «la correcció política és una font inacabable de possibilitats perquè és la hipocresia en estat pur, la perpetuació, per altres sectes, de la hipocresia de la bondat religiosa. Ens volen fer creure que canviant les paraules o els tants per cent de quota de cada sector discriminat de la societat se soluciona el problema. Això no és veritat, el problema no se soluciona en absolut, fins i tot s'empitjora perquè se l'emmascara».10

10

E. Piquer, op. cit, p. 7.


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CAPITOLO II

Tre Natali


11 Bianco Natale

In principio tutto era normale, se per normale si intende che un esser fantastico, dai riccioli biondi sino alle spalle e ali di piuma d’oca, come quelle che a volte sfuggono dalle cuciture delle trapunte, scenda sino alla casa di Maria e là, nell’atrio di colonne romaniche – questo sì che era strano: colonne romaniche a Nazareth – le annunci la buona novella. Ma, in effetti, tutto andò esattamente in quel modo: l’essere fantastico, dai riccioli biondi e le ali di piuma d’oca, con gli occhi a mandorla tra l’azzurro, il verde e il rosa, e di una bellezza inenarrabile, asessuata, discese sino alla casa di Maria – una casa umile ma pulita e molto curata, e con vasi di gerani lungo l’atrio di colonne, romaniche come abbiamo detto – per annunciarle la buona novella: che era piena di grazia e benedetta fra le donne. Maria rimase a bocca aperta. L’arcangelo, vedendo il turbamento della donna, comprese che l’apparato scenico era stato davvero impressionante; forse gli era scappata la mano. Per tranquillizzarla le disse che non c’era motivo di avere paura e che era venuto semplicemente ad annunciarle che avrebbe avuto un figlio e che lo avrebbe chiamato Gesù. La donna – che altro, se no? – accolse la notizia di buon grado e l’arcangelo scomparve in un battibaleno, con la stessa disinvoltura con cui era apparso. Qualche ora dopo, quando suo marito Giuseppe, rientrò dalla bottega – era falegname –, Maria gli spiego l’accaduto. Giuseppe ci restò di sale. Rientra nella normalità più assoluta anche la disposizione dell’imperatore Augusto, che ordinava che tutti i sudditi dell’Impero Romano si registrassero nel paese o nella città d’origine della propria famiglia. Per questo, Giuseppe e Maria presero l’asino e andarono a Betlemme. Maria era in groppa alla bestia, seduta di lato, e Giuseppe a piedi, che teneva le redini. Quello che – come le colonne romaniche – non era assolutamente normale era tutta la storia della neve. Quando giunsero a Betlemme videro che l’intero paese era innevato, sino all’orizzonte, sul quale spiccava un cielo nero con stelle di cinque e sei punte, immobili come fossero ritagliate. In Palestina la neve era un fenomeno meteorologico quasi sconosciuto. Generazioni e generazioni di abitanti nascevano e morivano senza averla mai conosciuta e senza che ciò li preoccupasse minimamente. E se ne avevano sentito parlare era grazie a viaggiatori di paesi lontani che raccontavano persino di montagne in cui la neve è perpetua. I nativi li ascoltavano assorti, ma quando i viaggiatori terminavano la loro storia, ritornavano ai propri impegni senza che la neve facesse perdere loro nemmeno un’ora di sonno. Adesso invece tutto era innevato: le


12 montagne, le strade, i tetti delle case, la bancarella della castagnaia… Era neve polverosa, così polverosa che sembrava farina. A causa dell'affluenza di persone per il censimento, non trovarono una sola stanza libera in tutta Betlemme. Gli abitanti non erano troppo ospitali; neppure la vista di una donna incinta li muoveva a compassione. Per questo si videro obbligati a sistemarsi in una stalla abbandonata. Rassettarono un cantuccio, vicino a un bue assonnato e al loro asino. Fu lì dove, il 25 dicembre, Maria partorì. Era un bambino incantevole, sano e piagnucoloso. Giuseppe lo prese in braccio per pulirlo, ma Maria richiese di nuovo la sua attenzione. Stava nascendo un secondo bambino. Erano due bambini bellissimi, e ognuno con la sua aureola tipo ologramma sopra la testa. Dopo averli nutriti e aver messo i pannolini – per fortuna Maria aveva previsto dei cambi – li misero su un mucchio di paglia, uno accanto all’altro. Muovevano le mani. Il bue e l’asino osservavano la scena con la coda dell’occhio. – Sei sicura che ti abbia parlato di un bambino? Non avrà detto due e non ci hai fatto caso? Giuseppe non capiva cosa fosse accaduto. Il fatto che fossero due stravolgeva tutti i piani. Persino una cosa così poco importate come il nome. L'arcangelo aveva detto che avrebbe dovuto chiamarsi Gesù. Era un nome che non dispiaceva loro, ma non li entusiasmava nemmeno, ad essere sinceri. A quei tempi, i nomi in voga erano Sandra, Vanessa, Kevin, Jonathan e persino Sue Ellen, che a loro sembravano frivoli e pretenziosi. Giuseppe e Maria avevano pensato ad altri nomi e avevano addirittura fatto una lista dei loro preferiti: Davide, Samuele, Alessandro, Abele, Mosè, Ivan... Tra tutti, quello che più piaceva loro era Alessandro. Era un nome armonioso e vibrante. Se l'arcangelo non avesse lasciato detto ben chiaro che dovevano chiamarlo Gesù, gli avrebbero dato il nome di Alessandro, senza alcun dubbio. Ma, alla fine, non potendosi chiamare Alessandro, a Maria il nome Gesù sembrava andare bene. A un certo punto, Giuseppe aveva proposto che si chiamasse come lui: Giuseppe. Molti dei suoi amici davano il proprio nome ai loro primogeniti. Perché lui no? Maria non aveva nemmeno voluto sentir parlare di un possibile cambiamento. – L’arcangelo ha detto che avrebbe dovuto chiamarsi Gesù e si chiamerà Gesù. Non toccarono più l’argomento. Si sarebbe chiamato Gesù; era deciso. Ma adesso si trovavano con due bambini, il doppio di quello che si aspettavano. Come li avrebbero chiamati? Dopo averci pensato a lungo trovarono la soluzione. Uno si sarebbe chiamato Gesù Maria e l'altro Gesù Giuseppe. Così rispettavano l'ordine di chiamarlo Gesù e già


13 che c'erano soddisfacevano il desiderio di Giuseppe: se non altro uno dei due si chiamava come lui, sebbene solo come secondo nome. Questo non era che l’inizio delle duplicazioni. Da quel momento, rimuginava Giuseppe, tutto sarebbe stato doppio. Le culle, i vestiti, i ciucci, il consumo di pampers. Un rumore di zoccoli lo distolse dal suo rimuginare. Erano dei cammelli che attraversavano, sopra un fragile ponte di legno, le acque del fiume, che sembravano immobili e simili alla carta stagnola. Quando arrivarono alla stalla i tre Re Magi rimasero allibiti. Era lo stesso stupore che Maria e Giuseppe avevano visto nelle facce dei pastori che si erano avvicinati per adorare il bambino e invece che uno ne avevano trovati due. Uno dei pastori, che aveva portato come regalo un passeggino Chicco monoposto, corse a cambiarlo con un modello doppio. Melchiorre, Gaspare e Baldassarre – uomini segnati da mille battaglie ed esperti nel prendere decisioni – reagirono in modo rapido e, senza che Maria e Giuseppe se ne rendessero conto, facendo finta di cercare i regali, divisero in due parti più o meno uguali l’oro, l’incenso e la mirra. Erano entrambi figli di Dio? O lo era solo uno di loro? La domanda non aveva una risposta chiara perché, sebbene quando li lavavano nella vasca da bagno uno di loro (Gesù Maria) camminava sull’acqua – lasciando di sasso non solo suo fratello ma anche i genitori – era l’altro (Gesù Giuseppe) che quando finivano i fruttolo li moltiplicava senza problemi. Questa dualità – calcolava Alessandro, mentre collocava il caganer11 accanto al prete con gli ombrelli – si sarebbe mantenuta nel corso degli anni, sino alla fine dei loro giorni. Alessandro riallineò le due culle, ammirò ancora una volta il presepe e corse a chiamare suo padre, stimato membro dell’Opus Dei, per farglielo vedere. Era sicuro che si sarebbe congratulato con lui per il suo ingegno: invece di gettare via la statuetta del bambino Gesù del vecchio presepe (una delle poche che non erano rotte), l’aveva unita a quelle nuove, che avevano comprato il giorno prima al mercato di Santa Lucia. Non sapeva che, quella notte, il suo ingegno gli sarebbe costato andare a letto senza cena.

11

Tipica figura del presepe nella tradizione catalana (ndt).


14 La piccola fiammiferaia

Tutti i 24 dicembre, la ragazza che vende fiammiferi come ultima risorsa per guadagnare quattro spiccioli con cui sopravvivere apre gli occhi sapendo che la città, o per lo meno questa piccola parte della città nella quale ripeterà la sua personale via crucis, è coperta di neve. Per proteggersi dal freddo, la ragazza chiuderebbe le imposte e tirerebbe le tende, ma non può farlo perché non possiede tende né imposte, né una finestra, né una stanza nella quale ripararsi. Ricorda sempre di averle avute tempo addietro (e da qui l’impulso di chiudere le imposte e di tirare le tende), ma in realtà non le ha mai avute. La sua annuale resurrezione avviene sempre nella strada, e in quel momento è già scalza e con i piedi lucenti e violacei come melanzane. Perché è scalza con tutta quella neve? Perché, a quanto pare – ma, di fatto, non lo ricorda nemmeno, ricorda solo che da sempre questo è quello che deve ricordare –, aveva perso una delle scarpette mentre evitava una carrozza che quasi la investiva, trainata da cavalli imbizzarriti. L’altra scarpetta gliela aveva rubata un ragazzo per trasformarla in un nido per uccelli, particolare presumibilmente commovente e ironico che lei ha sempre considerato di tono melodrammatico mediocre. Insomma, la piccola fiammiferaia sa tutte queste cose da sempre, come sa che è perennemente orfana perché i suoi genitori morirono qualche mese addietro. Ogni Natale è orfana da pochi mesi, e sa che il Natale successivo, di nuovo, i suoi genitori – genitori che non ha mai conosciuto – saranno morti da qualche mese e che vagherà per le strade senza alcun posto dove ripararsi. O forse sì ha un posto? E la soffitta dalle finestre rotte? Ma anche questo è un ricordo che non ha mai vissuto. Per tutto ciò – la miseria, la mancanza di genitori e di protezione – deve cercare di vendere i fiammiferi che porta nel grembiule.

Fiammiferi che

dimenticava

deve

elogiare

con

voce

misera.

Meccanicamente, apre la bocca e grida: – Fiammiferi!! Ho fiammiferi di legno ! Non ne venderà nemmeno uno. Non ne ha mai venduto nemmeno uno. Ha una voce così flebile che non la sente nessuno, così, anche se qualcuno fosse interessato a comprare fiammiferi – qualcuno che, per esempio, ne avesse bisogno per accendere un buon fuoco, il fornello della cucina, un sigaro o una sigaretta –, non la sentirebbe, né la noterebbe, da quanto è piccola e magra. È deciso da sempre che uomini e donne le passino accanto di fretta e desiderosi di arrivare subito a casa, per riscaldarsi davanti al camino e preparare la festa di Natale.


15 Quante vigilie di Natale ha già vissuto la piccola fiammiferaia? Più di un centinaio, sicuramente. E succede sempre lo stesso: lei reclamizza la mercanzia e la gente le passa accanto senza nemmeno notarla. Forse dovrebbe adattarsi ai nuovi tempi e, invece di fiammiferi, vendere kleenex, panni o pacchetti di sigarette. Ma questo lei non lo sa, perché nel suo mondo nessuno vende kleenex, panni o pacchetti di sigarette. Che vita fa, il resto dell’anno, i trecentosessantaquattro giorni (trecentosessantacinque negli anni bisestili) tra il momento nel quale muore di freddo nel portale di una casa – sempre la stessa – e il momento nel quale rinasce, un anno più tardi, per rivivere la stessa fiaba? Anche a lei piacerebbe saperlo. Semplicemente sparisce e basta? Le piacerebbe anche conoscere, fosse pure per una sola volta, quei suoi genitori che ogni anno muoiono qualche mese prima. Come erano, perché non li conosce mai, perché ogni volta inizia tutto dallo stesso punto, con lei già preadolescente? Sa sempre ciò che accadrà in ogni momento. Proprio adesso, per esempio, sa che all’improvviso sentirà delle risate infantili e che scoprirà subito che provengono da quella finestra illuminata. In effetti, lo pensa e sente immediatamente le risate infantili, spontanee e melodiche come ogni anno. Corre verso la finestra con lo sguardo febbrile e fingendo di essere interessata, anche se non è assolutamente interessata. Adesso le tocca avvicinasi, tremando dal freddo – per un attimo, quasi si dimentica di tremare dal freddo! –, e mettersi in punta di piedi per osservare da sopra il davanzale. Non ha il minimo dubbio che vedrà un bambino e una bambina che giocano ai piedi di un albero di Natale alto e rigoglioso, di un verde vivo, mentre il padre mette la legna nella stufa che scoppietta. Sono lo stesso bambino e la stessa bambina di ogni anno. Anche per loro la situazione si ripete. Ogni volta, anche la loro vita deve iniziare questa sera e deve terminare il giorno seguente, di mattina, quando un uomo e una donna troveranno la piccola fiammiferaia morta. O forse nemmeno questo, forse la loro esistenza è ancora più breve e non devono nemmeno aspettare che la fiammiferaia muoia, se esistono solo perché lei li possa vedere in questa scena. Ma guarda un po’, dovrà persino considerarsi fortunata, dato che lei è almeno la protagonista della fiaba. Il bambino, la bambina e il padre, si dedicano a qualche altra cosa il resto dell’anno? Studiano, compaiono in altre fiabe o semplicemente spariscono? Se volgessero per un istante lo sguardo verso di lei, potrebbe leggere nei loro occhi se, nonostante l’allegria apparente che mostrano ai piedi dell’albero, anche loro sono annoiati da questa ripetizione annuale. Ma questo non è previsto. Non è previsto che la guardino. Quello che è previsto è che lei desideri avvicinare le mani alla stufa, che provi invidia, che immagini che bene debbano stare in quella casa i


16 tre, immensamente felici e allegri mentre preparano il Natale. Ma si incanta guardandoli e deve già iniziare ad accendere i fiammiferi, finché ne rimanga uno solo. Proprio questo racconta la fiaba. Prende il primo fiammifero tra le dita tremanti come d’accordo e pensa: «Se accendessi un fiammifero forse mi scalderei un po’…». Ci ha già pensato e, pertanto, compiuta la formalità può sfregarlo contro la parete intonacata. Le costa sfregare il fiammifero, perché ha le mani come moncherini di ghiaccio. Ma dopo un po’ il fiammifero si accende. Allora, la fiamma le illumina il viso placido e cresce nella sua immaginazione sino a convertirsi nella stufa della casa che ammira dalla finestra, una stufa che si solleva, le si avvicina e le offre il suo dolce calduccio. Ma come tutti gli anni, il fiammifero si spegne presto e l’incanto – pluff ! – scompare. Ritorna il freddo, la nevicata, la fame e la tristezza. La puntuale raffica di vento gelido la obbliga a rifugiarsi nel portale dove tutto deve terminare un’altra volta. Rannicchiata, continua a reclamizzare la mercanzia. Ah, se almeno sentisse realmente il freddo e la tristezza, se realmente tremasse, soffrisse e ghiacciasse! Ma è tutto apparente, meccanico e prevedibile. Adesso, per esempio, arriva il momento in cui, dato che nessuno le compra i fiammiferi, decide di accendere il secondo. Qui è importante la frase che le serve come scusa: – Me ne rimangono tanti! Ne rimangono tanti, ma a breve non ne rimarrà che uno. Sfrega il secondo fiammifero contro la parete e, questa volta, la fiamma le si manifesta come una tavola colma di manicaretti, preparata per la cena di questa notte, con un enorme tacchino arrosto, una torta dai colori invitanti, dolci barocchi e frutta splendente. Tanto che le sembra di distinguere l’odore di arrosto che tempo addietro inondava la sua casa a Natale, quella casa dove si suppone vivesse con i suoi genitori e i suoi nonni finché le disgrazie – che disgrazie, a proposito? – non si erano abbattute su di loro. Fedele al copione, la ragazza allunga le braccia tremanti e fa come se tentasse di afferrare una coscia del tacchino immaginario finché, in quel momento, cronometricamente, anche il secondo fiammifero si spegne. Perciò ne accende un altro – il terzo – e, questa volta, nella sua immaginazione la fiamma si trasforma in una famiglia intera che celebra il Natale. Vede una madre che osserva incantata suo figlio e sua figlia, vede un nonno e un padre bonaccione. Chi sono? Non importa: sono felici e questo le basta. La fiammiferaia lascia che lungo una guancia le scorra una lacrima. È un momento culminante, perché, proprio adesso, con un gesto improvviso deve spargere il resto dei fiammiferi sulla neve, con tanta sfortuna che ne rimanga solo uno nel grembiule. Solo uno asciutto, poverina. Detto fatto:


17 con un gesto brusco, i fiammiferi si sparpagliano sulla neve e fatalmente si inumidiscono. Ne rimane solo uno, sempre lo stesso. Lo conosce talmente bene che potrebbe dargli un nome e chiamarlo, per esempio, Pepito. Così, il prossimo anno, rivedendolo gli direbbe: «Ciao Pepito! Come hai passato l’anno?». La ragazza sa che quando accenderà quest’unico fiammifero salvato dall’umidità apparirà l’immagine della nonna con l’aureola, sa che le racconterà le sue sofferenze e che la nonna la consolerà e le dirà di accompagnarla nell’aldilà dove adesso vive, con i suoi genitori e con il nonno, in un luogo dove tutti sono felici «perché a nessuno manca nulla e nessuno desidera nulla». Questa frase la irrita particolarmente. È stufa della bontà natalizia, è stufa dei buoni sentimenti di dicembre, degli insopportabili canti natalizi che sente dalle radio e che fuoriescono dalle finestre chiuse male, delle luminarie e di rivivere questa perenne fiaba di Natale nella quale non si progredisce mai. È tanto disgustata che le salta in mente di farla finita una volta per tutte, di accendere il fiammifero, e invece di rivolgersi al cielo in cerca della nonna, di avvicinarlo in fretta alla porta della casa, affinché il legno – forse semplice cartongesso – inizi ad ardere così rapidamente che il fuoco si estenda subito al resto di quella casa di persone falsamente felici, alla città intera – per lo meno alle quattro vie che conosce, perché forse non ce ne sono altre –, e da lì alle pagine del libro dove tutto questo rivive sempre, e dal libro alla scrivania del maledetto narratore che l’ha condannata a ripetere, anno dopo anno, lo stesso melodramma infantile. Che bruci tutto, sussurra mentre sfrega il fiammifero con rabbia e avvicina la fiamma alla porta, che si annerisce, ma è tanto umida che non riesce ad accendersi, per sua sfortuna, perché, prima di averne il tempo, fatalmente le appare la nonna, che la condurrà con i genitori in quel luogo «dove tutti sono felici» affinché, al mattino, un uomo e una donna trovino nel portone il suo cadavere infantile e commentino addolorati: «Poverina, è morta di freddo». Mentre osserva con avversione il viso beato della nonna, la ragazza dubita se già altre volte ci abbia provato e se, il prossimo anno, le servirà a qualcosa cercare di agire con più rapidità.


18 Il comitato

Come ogni anno, il comitato dei festeggiamenti si incarica di decidere tutto ciò che riguarda le celebrazioni alle quali partecipano i Re Magi. La cavalcata della notte dei re, naturalmente, ma anche i giorni nei quali, in un piccolo tendone alle porte del municipio e seduti su poltrone di velluto rosso, Melchiorre, Gaspare e Baldassarre ricevono di persona le lettere dei bambini. Nel comitato non ci sono quasi mai facce nuove. Con una routine poche volte alterata, ogni autunno si riuniscono le stesse persone, e questo è un bene perché sono efficienti, hanno altri impegni e gli interessa andare al sodo. Generalmente, solo la morte obbliga a cambiarne uno, e per fortuna la morte si presenta solo di quando in quando. Questa estate, per esempio, uno è morto scontrandosi con la sua macchina contro un camion in uno svincolo della superstrada. Era brillo, ma durante il funerale nessuno lo ha detto. Si riuniscono in una sala del municipio, una grande sala con un ampio tavolo centrale, pareti rivestite di legno e il quadro di un uomo con basette enormi, che è stato sindaco un secolo e mezzo addietro. La riunione è sempre alle sette, e alle sette e cinque tutti sono già al loro posto. La cosa più facile è fissare i giorni e le ore durante le quali il tendone rimarrà aperto perché i bambini possano consegnare le lettere: «Cari Re Magi: quest’anno mi sono comportato molto bene e desidero che mi portiate…». Più complicato è stabilire il percorso della cavalcata per le vie della città. Tutte vogliono che le Loro Maestà le attraversino e le associazioni dei commercianti (e persino quelle di quartiere) fanno pressione per essere le prescelte. Per dare l’opportunità a tutte, il comitato modifica ogni anno l’itinerario nei limiti del possibile, sicché le vie che in altri anni erano state beneficiate cedono il posto a quelle che non sono mai state protagoniste. Ma il compito è arduo, perché ci sono sempre vie nelle quali la cavalcata non è mai passata e, dati gli sforzi del comitato per essere equo, il percorso risulta ogni anno sempre più intricato, e a volte si arriva all’assurdo di evitare vie centrali per favorire via secondarie, strade strette, di periferia o anche vicoli senza uscita dove non vive quasi nessuno, né ci sono esercizi commerciali, ed è ridicolo vedere come i Re si infilino in un cul-de-sac per poi fare marcia indietro e, quasi senza essere visti da nessuno, uscire da dove sono entrati. Per questo, negli ultimi anni, parte importante del dibattito è stabilire se debba prevalere questa equità distributiva o se la centralità delle vie debba essere un fattore per decidere il percorso della cavalcata, e allora succede che nel fragore della discussione molti membri del comitato iniziano a fumare e di lì a poco qualcuno chiede che facciano il piacere di aprire


19 le finestre che qui c’è chi non respira, e nel giro di poco tempo altri si lamentano che fa un freddo cane e chiedono che per favore vengano chiuse le finestre, ma quelli che hanno chiesto di aprirle si rifutano categoricamente a meno che quelli che fumano non smettano. Ogni anno è più o meno sempre la stessa cosa. E così si arriva al momento cruciale: la designazione dei cittadini che quest’anno faranno Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Questo è il più atteso, perché molti desiderano esserlo. Essere Re Magio è sempre stato un grande onore e, in epoche passate, per riuscirci era abituale ricorrere alle bustarelle, al punto che diventarono così sfacciatti che per anni si scelse di accettarle come normali e logiche, di modo che, senza troppi scrupoli, i ruoli di Melchiorre, Gaspare o Baldassarre si concedevano al miglior offerente, a colui che metteva più soldi sul tavolo. Fu così che molti cittadini risparmiarono per anni e decenni (addirittura per tutta la vita) per destinare quei risparmi alla conquista del privilegio che per qualche settimana faceva di loro l’invidia dei vicini. Ma con l’arrivo di stili di vita più democratici, si mise in discussione questa abitudine e alla fine si optò per un sistema di turni che, sebbene in principio era previsto come rotatorio, ben presto si vide che, di fatto, non lo era, perché chi era stato Re un anno non avrebbe più potuto esserlo, dato che, alla lista di aspiranti che c’è in un dato momento (già di per sé lunga), bisogna costantemente aggiungere i bambini che nascono incessantemente, bambini che diventano adulti che, passata l’effervescenza giovanile, nella quale le abitudini dei grandi sono oggetto di scherno e rifiuto, quando arrivano al conformismo della maturità cambiano atteggiamento e iniziano a considerare un onore l’idea di diventare uno dei tre Re Magi che la notte tra il 5 e il 6 gennaio sfileranno per la città tra l’invidia dei loro concittadini adulti e gli sguardi dei nuovi bambini, che impazziscono di gioia. Di conseguenza, seguendo il procedimento abituale, uno dei membri del comitato apre il fuoco proponendo che in questa occasione il re Gaspare sia il dentista della calle Mayor, che lo chiede da anni. Ma un altro membro sostiene che questo sarebbe ingiusto perché Don Isidro, il notaio, lo sollecita da più tempo ancora. – Da più tempo ancora? Mah… – sospetta il primo. Ma gia un terzo spiega che, per quel che ne sa, al notaio piacerebbe essere Baldassarre più che Gaspare. – Ah, amico – Dice un quarto – Ma quasi tutti vogliono essere Baldassarre! Perché? Perché tanti bambini adorano Baldassarre. Mio figlio Gabriel, per esempio, non cambierebbe Baldassarre con nessun altro Re Magio.


20 E con ciò la cosa si complica, perché un quinto chiede che, essendoci degli immigrati in città da molti anni, sarebbe ora di accantonare la vecchia abitudine di truccare di nero uno dei soliti vicini. – Che uno dei nostri immigrati subsaharian faccia Baldassarre ogni anno sarebbe una forma di integrazione esemplare, una strada per rompere barriere e pregiudizi. Basta con facce ricoperte di lucido, giustificabili solamente in epoche nelle quali il nostro paese viveva di spalle al cosmopolitismo e alla multiculturalità! La proposta riceve gli applausi dei membri più progressisti, e sarebbe in procinto di essere dibattuta seriamente se non fosse che il nuovo membro, quello che è entrato in sostituzione di quello che questa estate è morto di incidente, alza il dito e domanda perché Baldassarre debba essere nero. Il resto dei presenti lo guardano con espressione di sorpresa, e poi si guardano tra di loro. – Beh! Perché, tradizionalmente, Baldassarre è nero. Altrimenti, come deve essere – risponde qualcuno, e gli altri ridono. – Ma – dice quello che è entrato in sostituzione del morto di incidente – Non vi rendete conto che, nell’assumere questa tradizione come qualcosa di inevitabile, state rinforzando un cliché che in fondo è anche razzista? Mi sembra eccellente che gli immigrati che da anni vivono tra noi si integrino nelle nostre tradizioni e che partecipino alla cavalcata, certamente, ma non vedo perché non dobbiamo rompere gli stereotipi culturali inutili. E questo lo è. Fate attenzione: Melchiorre e Gaspare sono sempre bianchi, e il terzo (come la quota del 25 per cento di donne che hanno alcuni partiti) è nero. Che bello! Risulta così che Baldassarre è la quota che tranquillizza le nostre coscienze. Non proporrò che due dei tre Re siano neri, perché questo non corrisponderebbe alla nostra realtà sociale attuale; ne sono consapevole. Ma vi domanderò, anzi vi domando: perché fare in modo che Baldassarre sia, sempre, nero? In altre parole: perché il nero lo deve fare sempre Baldassarre? Perché non Melchiorre o Gaspare? Uno sciame di voci mormora nella sala. Si accendono ancora più sigarette di prima, così che immediatamente qualcuno esige che per favore siano aperte un po’ di più le finestre. C’è chi domanda: – Ma che c’è di male nel fatto che Baldassarre sia il Re nero? Non c’è bisogno che risponda il nuovo membro del comitato, quello che è entrato in sostituzione di quello che questa estate è morto di incidente, perché, anticipando la sua replica, un altro risponde per lui:


21 – Che c’è di male? Il luogo comune! Questo è il male. Io ti risponderei con una parafrasi della tua domanda; che c’è di male nel fatto che Melchiorre sia il Re nero? – O Gaspare! – dice un altro. – Sì, sì: Gaspare! Perché non Gaspare? – suggeriscono alcune voci, contente di avere trovato una terza via. La sala si riempie adesso di discussioni incrociate, di proposte e di controproposte, dello schioccare di lingue, di sedie che stridono, di pugni sul tavolo e di qualche parolaccia. Finché, rinvigorita dall’abbattimento dei muri mentali, una delle presenti, antica militante di un partito trotskista scomparso ormai da quattordici o quindici anni, riesce ad alzare la voce più degli altri e arringa contro il sistema monarchico. Domanda se, più che come dei re, Melchiorre, Gaspare e Baldassarre non potrebbero essere descritti come presidenti di governo, o primi ministri, qualsiasi termine che non elogi il governo dello Stato verso un’opzione ereditaria che non passa per il referendum delle urne. Qui entra in azione un ragazzo con i capelli rastafari che ritiene che, se i Re Magi sono un problema, allora eliminiamoli e optiamo una volta per tutti per Babbo Natale. C’è un momento di sconcerto, uno dei presenti alza il dito per indicare addirittura che, se si opta per Babbo Natale, anche lui dovrà essere messo in discussione: perché sempre bianco? Perché sempre barbuto? Perché sempre in sovrappeso? Perché sempre vestito di rosso? Perché non nero? Perché non donna? Ma non fa in tempo a terminare la sua argomentazione perché da un angolo del tavolo il mormorio si alza di tono e si espande sino a diventare una contestazione generale che in breve si traduce in argomenti più concreti: pur essendo rispettabile il suo apporto alla ricca multiculturalità nella quale viviamo, Babbo Natale non è altro che un esponente della globalizzazione acritica e americanocentrica che, a poco a poco e in maniera quasi impercettibile, si è fatta strada tra di noi, sino a soppiantare in molte famiglie e negozi i tradizionali protagonisti del nostro Natale: i tre Re Magi. Qui – rinvigoriti dall’emozione e da qualche bicchierino che ha iniziato a circolare sotto il patrocinio del bar all’angolo – scoppiano gli applausi della maggior parte del comitato. A poco a poco si vanno profilando i ruoli. Definitivamente sono Re Magi, e sono tre (non cinque, né sette, come qualcuno aveva proposto), ma – questo sì – non devono rispondere agli stereotipi tradizionali. Baldassarre e Melchiorre sono bianchi e Gaspare nero. Gaspare ha i capelli grigi (come rappresentante della terza età), ma Baldassarre li porta colorati di blu e adorna la lingua con un piercing (in rappresentanza della gioventù). Decidere chi di loro sarà donna prende molto tempo, soprattutto perché il nuovo membro del comitato, quello che ha sostituito a quello che questa estate morì di incidente, propone


22 a un certo punto che le donne siano due: Melchiorre e Baldassarre. Allora qualcuno ricorda che anche il collettivo gay dovrebbe essere rappresentato, quindi si approva che Melchiorre sia uomo, bianco e omosessuale; Gaspare, uomo, nero ed eterosessuale; e Baldassarre, donna, bianca e dall’orientamento sessuale un po’ ambiguo. «Ma come si nota che Melchiorre è gay?», domanda uno. A un incauto viene in mente di proporre che si noti dai gesti e allora – sono già le dieci di sera, mai una riunione era durata tanto – si riapre e si dibatte, dato che, secondo alcuni, se l’omosessualità di Melchiorre rimane definita dai gesti, siamo di nuovo davanti allo stereotipo. «È come passare dalla padella alla brace!», si lamenta l’antica militante di un partito trotskista scomparso ormai da quattordici o quindici anni e che oggi dirige un negozio di scarpe in una piazza vicino alla calle Mayor. La cosa progredisce quando quello che a suo tempo aveva proposto come re Gasparre il dentista della calle Mayor adesso chiede che almeno uno dei Re mostri qualche segno di invalidità. «Ma quale segno?», gli chiedono. «Non so», risponde, «Io l’ho solo proposto». Con una voce non sufficientemente alta, il suo vicino di sedia ripete una e più volte: «Io credo che i diabetici dovrebbero essere rappresentati». A mezzanotte, una grande ovazione sigla l’accordo finale. Tutti corrono alle proprie case, mangiano una cosa qualsiasi, vanno a letto e, il giorno dopo, mettono in moto la macchina organizzativa. Si telefona a quelli che noleggiano il tendone, si parla con i cittadini scelti (che non stanno nella pelle dalla felicità), dagli armadi del comune dove passano undici mesi l’anno si recuperano i vestiti reali e, dal magazzino, le poltrone in velluto rosso… In poche settimane, un giorno di metà dicembre, il tendone risplende davanti al municipio, accogliendo i bambini che accorrono per consegnare le loro lettere: «Cari Re Magi: Quest’anno mi sono comportato molto bene e voglio che mi portiate…». Si dirige verso il tendone il membro della commissione che aveva spiegato che suo figlio Gabriel non avrebbea mai cambiato Baldassarre con nessun altro Re Magio. Accanto a lui cammina il bambino, con la lettera tra le mani emozionate. Quando arriva al tendone comincia a correre verso la fila dei bambini che si trova davanti al re Gaspare. – No, Gabriel. Questo è Gaspare – dice suo padre –, Baldassarre è questo qua. Gabriel indugia, gira la testa e guarda il Re che il suo papà gli indica. È un Re dalla pelle rosa, ha dei bellissimi occhi, i capelli colorati di blu e una scollatura che rileva delle tette impressionanti. – No, non è questo. Io voglio Baldassarre. – Questo è il re Baldassarre – gli dice il suo papà. – Ma no – dice Gabriel –, Baldassarre è nero. È quello lì.


23 – No, tesoro – dice il suo papà, prendendolo per mano e portandolo verso Baldassarre. Il bambino guarda il Re con stupore e scoppia a piangere. Baldassarre lo prende in grembo, lo stringe contro la morbidezza del suo candido seno e con labbra carnose gli domanda: – Perché piangi, tesoro? – Attraverso il velo di lacrime che copre i suoi occhi, il bambino osserva a pochi centimetri il magnifico capezzolo che risalta nella blusa reale.


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CAPITOLO III Analisi traduttologica


25 Tutti e tre i testi, essendo una sorta di parodia, hanno un sottotesto, il vangelo, la fiaba, oppure rinviano a convinzioni diffuse, questo aspetto caratterizzante dell’opera in fase di traduzione ha condizionato le scelte lessicali, gli stili e i registri linguistici. Il tono ironico che caratterizza l’intera opera è dato, infatti, dalla fusione che l’autore fa di due registri linguisti: “alto” e “basso”. Per esempio, nel primo racconto, Blanca Navidad, sono spesso utilizzate terminologie proprie del vangelo e quindi di un registro alto, come ad esempio: «el ser fabuloso […] descendió hasta la casa de María […] para anunciarle la buena nueva: que era llena de gracia y bendecida entre todas las mujeres» (TN12) «l’essere fantastico […] discese sino alla casa di Maria […] per annunciarle la buona novella: che era piena di grazia e benedetta fra le donne». Ma gli echi evangelici si fondono con un testo più basso, come si può vedere nei due esempi seguenti: «un ser fabuloso, de rizos rubios […] y alas de pluma de oca, como las que a veces se escapan por la costuras de los edredones» (TN11) «un essere fantastico, dai riccioli biondi […] e le ali di piuma d’oca, come quelle che a volte sfuggono dalle cuciture delle trapunte»; «bendecida entre toda las mujeres. María se quedó boquiabierta» (TN12) «benedetta fra le donne. Maria rimase a bocca aperta». Inoltre a un registro formale se ne accosta uno colloquiale tipico del parlato dei personaggi, ricco di modi di dire, esclamazioni, frasi interrotte che si presentano nei dialoghi tra i personaggi ma anche nelle personali opinioni che l’autore introduce, delimitate da i trattini: «El arcángel, viendo la turbación de la mujer, comprendió que el aparato escénico había sido realmente impresionante; quizás les había ido un poco la mano. Para tranquilizarla le dijo que no tenía por qué tener miedo, que simplemente había venido a anunciarle que tendría un hijo al que llamaría Jesús. La mujer –¿cómo no?– aceptó la noticia de buen grado» (TN12) «L’arcangelo, vedendo il turbamento della donna, comprese che l’apparato scenico era stato davvero impressionante; forse gli era scappata la mano. Per tranquillizzarla le disse che non c’era motivo di avere paura e che era venuto semplicemente ad annunciarle che avrebbe avuto un figlio e che lo avrebbe chiamato Gesù. La donna – che altro, se no ? – accolse la notizia di buon grado». Il secondo racconto, La Cerillera, si basa su un registro linguistico formale che fa la parodia alla fiaba, La piccola fiammiferaia, costruito attorno all’originale. Una quasi totale assenza di dialoghi e la sola riproposizione di alcune frasi prese dall’originale: «Fiammiferi!! Ho fiammiferi di legno !». Anche in questo racconto l’autore accosta un registro alto dato dalla melodrammaticità della fiaba con un registro più basso attualizzando ai giorni nostri la figura della povera fiammiferaia e paragonandola ad uno


26 dei tanti mendicanti che ai semafori delle grandi città vendono kleenex, panni o pacchetti di sigarette: «¿Cuantas nochebuenas ha vivido ya la cerillera? Más de un centener, seguro. Y siempre pasa lo mismo: ella pregona la mercancía y la gente pasa por su lado sin hacerle ningún caso. Quizás debería adaptarse a los nuevos tiempos y, en vez de cerillas, vender kleenex, paños o cajetillas de tabaco» (TN26) «Quante vigilie ha già vissuto la piccola fiammiferaia? Più di un centinaio, sicuramente. E succede sempre lo stesso: lei reclamizza la mercanzia e la gente le passa accanto senza nemmeno notarla. Forse dovrebbe adattarsi ai nuovi tempi e, invece di fiammiferi, vendere kleenex, panni o pacchetti di sigarette». Nel terzo racconto, La Comisión, si alterna un registro formale ad un registro colloquiale nel parlato dei personaggi: «uno de los miembros de la comisión abre el fuego proponiendo que en esta ocasión el rey Gaspar sea el dentista de la calle Mayor, que lo pide desde hace años. Pero otro membro argue que eso sería injusto porque don Isidro, el notario, lo viene solicitando desde hace aún más tiempo. –¿Desde hace aún más tiempo? No se yo…–recela el primero. Pero ya un tercero explica que, por lo que ha llegado a su conocimiento, al notario lo que le gustaría es ser Baltasar, más que Gaspar. –Ah, amigo– dice un cuarto–, ¡pero es que Baltasar lo quieren ser casi todos!» (TN45) «uno dei membri del comitato apre il fuoco proponendo che in questa occasione il re Gaspare sia il dentista della calle Mayor, che lo chiede da anni. Ma un altro membro sostiene che questo sarebbe ingiusto perché Don Isidro, il notaio, lo sollecita da più tempo ancora. – Da più tempo ancora? Mah… – sospetta il primo. Ma gia un terzo spiega che, per quel che ne sa, al notaio piacerebbe essere Baldassarre più che Gaspare. – Ah, amico – Dice un quarto – Ma quasi tutti vogliono essere Baldassarre!». Per la traduzione dei tre racconti ci si è basati sul metodo interpretativo comunicativo,12 che si fonda sul principio di equivalenza del significato. Questo tipo di traduzione cerca di rispettare il testo originale in ogni sua costruzione, in tutte le scelte lessicali, ma si preoccupa di non violare la lingua di arrivo, anzi di renderla il più naturale possibile. È questo, ad esempio, il caso del primo racconto, Blanca Navidad, dove per tradurre le riproposizioni di alcune parti del vangelo non si è tradotto parola per parola ma si è riproposto il testo del vangelo secondo la lingua di arrivo: «que era llena de gracia y benedecida entre todas las mujeres» (TN11) «che era piena di grazia e benedetta fra le donne», senza tradurre «todas» «tutte» perché presente nel vangelo della lingua di partenza ma non in quello della lingua di arrivo. O nel caso del racconto La Cerillera dove 12

A. Hurtado Albir, Traducción y Traductología. Introducción a la Traductología, Madrid, Cátedra, 2001.


27 al fiammifero che in spagnolo diventa un sostantivo al femminile cerilla viene attribuito un nome proprio di persona Pepita e che in italiano è stato tradotto con uno nome proprio di persona al maschile Pepito.

3.1. Termini di riferimento socio-culturale

Nel testo si trovano alcuni termini di difficile traduzione perché incomprensibili per il lettore del testo di arrivo in quanto fortemente correlati alla cultura del testo di partenza. È questo in particolare il caso dei termini del primo racconto, Blanca Navidad, che fanno specifico richiamo a differenti marche specializzate nel campo dei prodotti per bambini ben note nella cultura del testo di partenza ma praticamente sconosciute ai parlanti della lingua di arrivo. Si è pertanto provveduto a cambiare tali termini con dei possibili corrispettivi della lingua italiana per mantenere lo stesso effetto dell’originale. Cochecito Jané: secondo il sito internet jane.es,13 la Jané è un’azienda di Barcellona leader nella produzione di carrozzine e passeggini per bambini. In italiano si è tradotto con l’equivalente di una altrettanto ben nota marca italiana quale la Chicco. Dodotis: secondo il dizionario online WordReference.com,14 è un «Pañal de celulosa absorbente, de un solo uso, que se ajusta al cuerpo del bebé por medio de tiras adhesivas. Es la extensión de una marca comercial». In italiano si potrebbe perciò tradurre con pannolini. Si è preferito utilizzare il nome di una nota marca italiana di pannolini quale «Pampers» per mantenere lo stesso tono di ironia e assurdità voluto dall’autore. Nel testo, infatti, si legge «Desde ese momento –cavilaba José– todo sería doble. Las cunas, los vestiditos, los chupetes, el consumo de dodotis» (TN19) «Da quel momento – rimuginava Giuseppe – tutto sarebbe stato doppio. Le culle, i vestiti, i ciucci, il consumo di pampers», ossia degli oggetti alquanto anomali per l’epoca in cui è ambientato il racconto. Petitsuis: secondo il sito internet Wikipedia.org,15 i Petitsuis o Petit suisse sono dei piccoli yogurt per bambini, prodotti con latte di vacca, originari della Normandia. Anche in questo caso si è deciso di tradurre con il nome di una famosa marca italiana di yogurt per bambini «Fruttolo» per richiamare l’attenzione su un prodotto dal marcato riferimento

13

Janè, « http://www.jane.es/it-it#», [27.05.2010]. WordReference.com, « http://www.wordreference.com/It/», [27.05.2010]. 15 Wikipedia, «http://en.wikipedia.org», [27.05.2010]. 14


28 culturale e temporale che poco si addice al tema religioso affrontato e all’epoca. Leggendo il testo: «¿Eran ambos hijos de Dios? ¿O solo era uno de ellos? La pregunta no tenía respuesta clara porque, si bien al lavarlos en la bañera uno de ellos (Jesú María) caminaba sobre el agua –dejando de piedra no sólo a su hermano, sino también a sus padres– , era el otro (Jesú José) quién, cuando los petitsuís se habían acabado, los multiplicaba sin problemas» (TN20) «Erano entrambi figli di Dio? O lo era solo uno di loro? La domanda non aveva una risposta chiara perché, sebbene quando li lavavano nella vasca da bagno uno di loro (Gesù Maria) camminava sull’acqua – lasciando di sasso non solo suo fratello ma anche i genitori – era l’altro (Gesù Giuseppe) che quando finivano i fruttolo li moltiplicava senza problemi». Nel secondo racconto, La Fiammiferaia, troviamo altri due termini culturalmente connotati: cuatro duros e villancicos. Cuatro duros: il Diccionario Fraseologico Documentado del Español Actual, definisce il termine un duro come «Una cantidad minima de dinero. Normalmente en construcción negativa de intención ponderativa, como no tener un duro», visto il testo «Cada 24 de diciembre, la muchacha que vende cerillas como último recurso para ganar cuatro duros con los que sobrevivir abre los ojos sabiendo que la ciudad […]» (TN23) in italiano si può facilmente tradurre con l’espressione quattro spiccioli ed avere così «Tutti i 24 dicembre, la ragazza che vende fiammiferi come ultima risorsa per guadagnare quattro spiccioli con cui sopravvivere apre gli occhi sapendo che la città […]». Villancicos: secondo il Diccionario de la Real Academia Española,16 «Canción popular, principalmente de asunto religioso, que se canta en Navidad y otras festividades», tradotto di conseguenza con canti natalizi. Si riporta qui il brano: «[La cerillera] está harta de los buenos sentimientos de diciembre, de los insoportables villancicos que oye por las radios que se escapan por las ventanas mal cerradas» (TN34) «[La fiammiferaia] è stufa dei buoni sentimenti di dicembre, degli insopportabili canti natalizi che sente dalle radio e che sfuggono dalle finestre chiuse male».

3.2. Traduzione di locuzioni e strutture sintattiche

All’interno dei tre racconti sono presenti numerose frasi fatte e modi di dire. Una traduzione letterale avrebbe reso impossibile la comprensione per il lettore della lingua di arrivo, pertanto si è dovuto ricorrere a espressioni di significato equivalente in italiano. 16

Real Academia Española, «http://www.rae.es/rae.html», [27.05.2010].


29 Solo in un caso è stato possibile fare una traduzione letteraria o sia in «abrir el fuego» presente nel terzo racconto, La comisión, tradotto con aprire il fuoco perché in entrambi i casi il significato è lo stesso come si vede dal testo «uno de los miembros de la comisión abre el fuego proponiendo que en esta ocasión el rey Gaspar sea el dentista de la calle Mayor» (TN45) «uno dei membri del comitato apre il fuoco proponendo che in questa occasione il re Gaspare sia il dentista della calle Mayor», ovvero sono due modi di dire dallo stesso significato presenti sia nella lingua di partenza che in quella di arrivo. Negli altri casi si è dovuto invece trovare il corrispettivo in italiano. Di seguito le locuzioni dell’originale e la relativa traduzione. «Quedarse de pasta de boniato»: secondo il Diccionario Fraseologico Documentado del Español Actual, significa: «adj (col, reg) Asombrado o alucinado»; il Diccionario de la Real Academia Española,17 dà la seguente definizione per il termine «boniato» «Tubérculo comestible de la raíz de esta planta», in italiano si è scelto di tradurlo con la frase idiomatica rimanere di sale. Si è pensato anche a espressioni equivalenti quali «rimanere di stucco», ma si è scelta la prima espressione per rimanere nell’ambito semantico del cibo. En un santiamén: secondo la definizione del Diccionario Fraseologico Documentado del Español Actual, significa: «Muy rápidamente o en muy poco tiempo». Come suggerito nel Dizionario bilingue Hoepli di Laura Tam è stato tradotto con l’espressione in un battibaleno. La mar de felices: nel Diccionario Fraseologico Documentado del Español Actual l’espressione «La mar» viene definita come «adverbio coloquial Mucho. Cuando precede a un adjetivo o un adverbio, toma la forma la mar de». In italiano si è tradotto con immensamente felici. Mira por dónde: secondo il Diccionario Fraseologico Documentado del Español Actual, «Se usa para ponderar el carácter sorprendente de lo que se dice a continuación». In italiano si è deciso di tradurre perciò con l’espressione Ma guarda un po’. Ir al grano: secondo il Diccionario Fraseologico Documentado del Español Actual, significa: «Hablar directamente de lo que importa»; in italiano si è potuto facilmente tradurlo con andare al sodo. Hacer un frio que pela: secondo la definizione del Diccionario Fraseologico Documentado del Español Actual, ci vengono rispettivamente presentate la locuzione verbale pelarse de frío «Pasar mucho frío» e la locuzione aggettivale que pela «Pondera 17

Real Academia Española, op.cit, p. 28.


30 la intensidad del frio». L’espressione è stata tradotta con fare un freddo cane per rispettare il registro linguistico colloquiale. Poner en marcha la ma quinaria: che in questo caso è stato utilizzato con il significato di attivare il processo organizzativo dei festeggiamenti è stato tradotto con un’espressione della lingua di arrivo molto simile a quella della lingua di partenza, mettere in marcia la macchina organizzativa.

3.3. Termini non tradotti

Nel primo racconto, Blanca Navidad, sono presenti dei nomi propri di persona di origine inglese quali: Kevin, Jonathan e Sue Ellen che non sono stati tradotti nella lingua di arrivo per conservare la finalità del testo originale ovvero quella di inserire dei nomi propri di persona che contrastano con l’epoca e la situazione nella quale sono inseriti quale è la nascita di Gesù. Si è inoltre deciso di non tradurre il termine caganer perché impossibile trovare il corrispettivo nella lingua e cultura italiana e pertanto si è fatto uso di una nota a piè di pagina per specificarne il significato. Il caganer è una figura tipica del presepe nella tradizione catalana che rappresenta un uomo nell’atto di espletare i suoi bisogni fisiologici. Si è deciso inoltre di non tradurre il termine calle quando seguito dal nome della via, come nel caso di calle Mayor perché è internazionalmente noto il significato del termine calle e la traduzione in via Mayor risultava innaturale.


31 TRES NAVIDADES

BLANCA NAVIDAD

Al principio todo iba normal, si por normal se entiende que un ser fabuloso, de rizos rubios hasta los hombros y alas de pluma de oca, como las que a veces se escapan por las costuras de los edredones, bajara hasta la casa de María y, allí, en el atrio de columnas románicas –eso si que resultaba estraño: columnas romanicas en Nazaret– le anunciara la buena nueva. Pero, en efecto, todo iba exactamente de esa forma: el ser fabuloso, de rizos rubios hasta los hombros y alas de pluma de oca, con ojos almendrados entre el azul, el verde y el rosa, y de una belleza, más que inenarrabile, asexuada, descendió hasta la casa de María –una casa umilde pero limpia y muy cuidada, y con tiestos de geranios a lo largo del atrio de columnas, románicas tal como hemos dicho– para anunciarle la buena nueva:que era llena de gracia y bendecida entre todas las mujeres. María se quedó boquiabierta. El arcángel, viendo la turbación de la mujer, comprendió que el aparato escénico había sido realmente impresionante; quizás les había ido un poco la mano. Para tranquilizarla le dijo que tenía por qué tener miedo, que simplemente había venido a anunciarle que tendría un hijo al que llamaría Jesús. La mujer –¿cómo no?– aceptó la noticia de buen grado y el arcángel desapareció en un santiamén, con el mismo desparpajo con el que había aparecido. Horas mas tarde, cuando su marido, José, volvió del taller –era carpintero–, María le esplicó lo sucedido. José se quedó de pasta de boniato. Tambien entra dentro de la normalidad más absoluta la disposicion del emperador Augusto, que ordenaba que todos los súbditos del Imperio Romano se empadronaran, cada uno en el pueblo o la ciudad de donde su famiglia fuese originaria. Por eso, José y María tomaron el burro y se fueron a Belén. María iba sobre el animal, sentada de lado, y José de pie, tirando de las riendas. Lo que –como las columnas románicas– tampoco era en absoluto normal era todo aquello de la nieve. Cuando llegaron a Belén vieron que el pueblo entero estava nevado, hasta el horizonte, sobre el que campaba un cielo negro y con estrellas de cinco y seis puntas, inmóviles y como recortadas. En Palestina la nieve era un fenomeno meteorologico casi ignorado. Generaciones y generaciones de ciudadanos nacían y morìan sin haberla conocido, y sin que ello les preocupase lo más mínimo. Y si habían oído hablar de ella era por viajeros de países lejanos, que citaban


32 incluso montes en los que la nieve es perpetua. Los nativos los escuchaban absortos, pero, en cuanto los viajeros acababan su narracíon, volvìan a sus tareas sin que la nieve les hiciese perder ni una hora de sueño. En cambio, ahora todo estaba nevado: las montañas, las calles, los tejados de las casas, el puesto de la castañera… Era nieve polvo, tan polvo que paremia harina. Debido a la afluencia de gente para empadronarse, no encontraron ni una habitación libre en todo Belén. Los habitantes no eran demasiado acogedores; ni la imagen e una mujer embarazada los movía a piedad. Por esto se vieron forzados a instalarse en un establo abandonado. Adecentaron un rincón, cerca de un buey adormilado y del burro que llevaban. Fue allí donde, el 25 de dicembre, María dio a luz. Era un niño precioso, saludable y llorón. José lo tomó en brazos para limpiarlo. Pero María requiró de nuevo su atencíon. Estaba naciendo un segundo niño. Eran dos niños preciosos, y cada uno con su halo tipo holograma sobre la cabeza. Tras alimentarlos y ponerles los pañales –afortunadamente María había previsto recambios– los acostaron sobre un montón de paja, uno junto al otro. Movian las manos. El buey y el burro contemplaban la escena de reojo. –¿ Estás segura de que te habló de un niño ? ¿ No diría dos y no te fijaste? José no entendía que había pasado. Que fuesen dos trastocaba todos los planes. Incluso algo tan poco importante como lo del nombre. El arcángel había dicho que debía llamarse Jesús. Era un nombre que no les desagradaba; tampoco les entusiasmaba, si tenemos que ser sinceros. En aquella época, los nombres predominantes eran Sandra, Vanessa, Kevin, Jonathan e incluso Sue Ellen, que les parecían frívolos y pretenciosos. José y María habían pensado otros nombres e incluso habían hecho una lista de sus preferidos: David, Samuel, Alejandro, Abel, Moisés, Iván... De todos, el que más les gustaba era Alejandro. Era un nombre sonoro y vibrante. Si el arcángel no hubiese dejado tan claro que tenía que llamarse Jesús le habrían puesto Alejandro, sin ninguna duda. Pero, en fin, no pudiendo llamarse Alejandro, a María el nombre de Jesús ya le parecía bien. En algún momento, José había propuesto que se llamase como él: José. Muchos amigos suyos ponían su nombre a sus primogénitos. ¿Por qué no el? María no había querido ni oír de un posible cambio. –El arcángel dijo que debía llamarse Jesús y se llamará Jesús. No hablaron más del asunto. Se llamaría Jesús; estaba decidido. Pero ahora se encontraban con dos niños, el doble de lo que esperaban. ¿Como los llamarían? Después de darle muchas vueltas encontraron la solución. Uno se llamaría Jesús María y el otro


33 Jesús José. Así respetaban la orden de que se llamase Jesús y de paso satisfacían el deseo de José: al menos, uno de los dos se llamaba como èl, dunque fuera de segundo nombre. Eso no era más que el inicio de las duplicaciones. Desde ese momento –cavilaba José– todo sería doble. Las cunas, los vestiditos, los chupetes, el consumo de dodotis. De su cavilación lo sacó un ruidos de cascos. Eran camellos que atravesaban, por un débil puente de madera, las aguas del río, que parecían inmóviles y como de papel de plata. Cuando llegaron al establo, los tres Reyes Magos se quedaron pasmados. Era la misma sorpresa que María y Josè habían visto en las caras de los pastores que se habían acercado a adorar al niño y, en vez de uno, se habían encontrado con dos. Uno de los pastores, que había traído como regalo un cochecito Jané monoplaza, corrió a cambiarlo por un modelo doble. Melchor, Gaspar y Baltasar –hombres curtidos en mil batallas y duchos en tomar decisiones– reaccionaron de manera rápida y, sin que ni María ni Josè se diesen cuenta, haciendo como que buscaban los regalos, dividieron en dos partes más o menos iguales el oro, el incenso y la mirra. ¿Eran ambos hijos de Dios? ¿O solo era uno de ellos? La pregunta no tenía respuesta clara porque, si bien al lavarlos en la bañera uno de ellos (Jesú María) caminaba sobre el agua –dejando de piedra no sólo a su hermano, sino también a sus padres– , era el otro (Jesú José) quién, cuando los petitsuís se habían acabado, los multiplicaba sin problemas. Esa dualidad –calculaba Alejandro mientras colocaba el caganer al lado del cura con paraguas– se mantendría a lo largo de los años hasta el final de sus días. Alejandro volvió a alinear la dos cunitas, contempló una vez más el belén y corrió a llamar a su padre, reputado miembro del Opus Dei, para que fuese a verlo. Confiaba que lo felicitaría por su genio: en vez de tirar la figurita del niño Jesú del antiguo presebre (una de las pocas que no estaban rota), la había incorporado a las nuevas, que habían comprado el día antes en la feria de Santa Lucía. No sabía que, esa noche, su ingenio le costaría irse a la cama sin cenar.


34 LA CERILLERA

Cada 24 de diciembre, la muchacha que vende cerillas como último recurso para ganar cuatro duros con los que sobrevivir abre los ojos sabiendo que la ciudad, o por lo menos esta pequeña parte de la ciudad en que repetirá su particular vía crucis, està cubierta de nieve. Para protegerse del frío, la muchacha cerraría los postigos y correría las cortinas, pero no puede hacerlo porque no tiene cortinas ni postigos, ni ventanas, ni ninguna habitación en la que cobijarse. Siempre recuerda haberlos tenido tiempo atrás (y de ahí el impulso de cerrar los postigos y correr las cortinas), pero en realidad no los ha tenido nunca. Su resurrección anual siempre tiene lugar en la calle, y ya en ese momento va descalza y con los pies brillantes y morados como berenjenas. ¿Por qué va descalza habiento tanta nieve? Porque, según parece –pero de hecho tampoco se acuerda, sólo recuerda que desde siempre eso es lo que debe recordar–, perdió una de las zapatillas cuando se apartaba de un carruaje que casi se le echa encima, tirado por caballos alborotados. La otra zapatilla se la robó un muchacho para convertirla en un nido de pájaros, detalle supuestamente enternecedor y irónico que ella ha considerado siempre de un tono melodramático barato. En fin. La cerillera sabe que es perpetuamente huérfana porque sus padres murieron meses atrás. Cada Navidad es huérfana desde hace pocos meses, y sabe que la Navidad siguiente otra vez sus padres –unos padres que no ha conocido nunca– habrán muerto pocos meses atrás y que vagará por las calles sin ningún lugar donde cobijarse. ¿O quizás sí tiene un lugar? ¿Y la buhardilla de las ventanas rotas? Pero también ése es un recuerdo que nunca ha vivido. Por todo eso –la miseria, la orfandad y el desamparo– debe intentar vender las cerillas que lleva en el delantal. Unas cerillas que –se olvidaba– debe pregonar con voz de miseria. Mecánicamente, abre la boca y grita: –¡Cerillas! ¡Tengo cerillas de madera! No venderá ninguna. Nunca ha vendido ninguna. Tiene una voz tan tenue que no la oye nadie, así que, aunque alguien estuviese interesado en comprarle cerillas –alguien que, por ejemplo, las necesitase para encender un buen fuego, el fogón de una cocina o un puro o un cigarillo–, no la oiría, ni se fijaría, de tan menuda y magra como es. Está decidido desde siempre que hombres y mujeres pasen por su lado con prisa y ganas de llegar a casa enseguida, para calentarse delante de la chimenea y preparar la fiesta de Navidad.


35 ¿Cuantas nochebuenas ha vivido ya la cerillera? Más de un centener, seguro. Y siempre pasa lo mismo: ella pregona la mercancía y la gente pasa por su lado si hacerle ningún caso. Quizás debería adaptarse a los nuevos tiempos y, en vez de cerillas, vender kleenex, paños o cajetillas de tabaco. Pero ella no lo sabe, porque en su mundo nadie vende kleenex, paños o cajetillas de tabaco. ¿Que vida lleva, el resto del año, los trecientos sesenta y cuatro días (trecientos sesenta y cinco, los años bisiestos) entre el momento en el que se muere de frío en el portal de una casa –siempre la misma– y el momento en que renace, un año más tarde, para revivir el mismo cuento? También a ella le gustaria saberlo. ¿Simplemente desaparece y ya está? También le gustaría conocer, aunque fuese una sola vez, a esos padres suyos que cada año mueren pocos meses antes. ¿Cómo eran, por qué nunca los conoce, por qué cada vez todo empieza en el mismo punto, con ella ya preadolescente? Siempre sabe qué pasará en cada momento. Ahora mismo, por ejemplo, sabe que de repente oirá unas risas infantiles que enseguida descubrirá que surgen de aquella ventana iluminada. En efecto, lo piensa y de inmediato oye las risas infantiles, frescas y melodiosas como cada año. Corre hacia la ventana con los ojos encendidos y simulando que está intrigada, aunque no está en absoluto intrigada. Ahora le corresponde acercarse, temblando de frío –¡por un momento, casi se olvida de temblar de frío!–, y ponerse de puntillas para mirar por encima del alféizar. No le cabe la menor duda de que verá a un niño y a una niña jugando al pie de un árbol de Navidad alto y lozano, de un verde chillón, mientras su padre echa leña a una estufa que chisporrotea. Son el mismo niño y la misma niña de cada año. También para ellos la situación se repite. También, cada vez, su vida debe empezar esta tarde y debe acabar al día siguiente por la mañana, cuando un hombre y una mujer encuentran muerta a la cerillera. O quizás ni eso, quizás su existencia es aún más corta y no tienen que esperar ni a que la cerillera muera, si sólo existen para que ella los vea en esta escena. Mira por dónde, hasta tendrá que considerarse afortunada, ya que ella como mínimo es protagonista del cuento. El niño, la niña y el padre, ¿Se dedican a alguna otra cosa el resto año? ¿Estudian, salen en otros cuentos o simplemente desaparecen? Si girasen un instante los ojos hacia ella, les podría leer en la mirada si, a pesar de la aparente alegría que muestran al pie del árbol, también les aburre esta repetición anual. Pero eso no está previsto. No está previsto que ellos la miren. Lo que está previsto es que ella desee acercar las manos a esa estufa, que sienta envidia, que imagene lo confortables que deben que estar en esa casa, los tres la mar de felices y risueños mientras preparan la


36 Navidad. Pero se embelesa mirándolos y ya tiene que empezar a encender las cerillas, hasta que sólo quede una. Justo de eso va el cuento. Coge la primera cerilla entre los dedos estipuladamente tembloroso y piensa: «Quizás si encendiese una cerilla conseguiría un poco de calor...». Ya lo ha pensado y, por lo tanto, cumplido el trámite puede ya rescarla contra la pared revocada. Le cuesta rascar la cerilla, porque tiene las manos como muñones de hielo. Pero al cabo de un rato la cerilla se enciende. Entonces, la llama le ilumina la cara plácida y crece en su imaginación hasta convertirse en la estufa de aquella casa que contempla por la ventana, una estufa que se eleva, se le acerca y le ofrece su calorcillo dulce. Pero, como todos los años, la cerilla se apaga pronto y el incanto –¡plaf!– desaparece. Vuelve el frío, la nevada, el hambre y la tristeza. La puntual ráfaga de viento gélido la obliga a refugiarse en el portal donde todo tiene que acabar una vez más. Acurrucada, continúa pregonando la mercancía. Ah, ¡si como mínimo sintiese realmente el frío y la tristeza, si realmente temblase, sufriese y se helase! Pero todo es aparente, maquinal y previsible. Ahora, por ejemplo, llega el momento en que, como nadie le compra cerillas, decide encender la segunda, Aquí es importante la frase que sirve de excusa: –¡Me quedan tantas! Le quedan tantas, pero dentro de poco no le quedará mas que una. Rasca la segunda cerilla contra la pared y, esta vez, la llama se le manifesta como una mesa llena de manjares, preparada para la cena de esta noche, con un enorme pavo asado, un pastel de colores golosos, dulces barrocos y fruta brillante. Hasta le parece distinguir el olor de asado que tiempo atrás por Navidad inundaba su casa, aquella casa en la que supuestamente vivía con sus padres y sus abuelos hasta que las desgracias –¿qué desgracias, por cierto?– les cayeron encima. Fiel al guión, la muchacha levanta los brazos temblorosos y hace como si intentase atrapar una pata del pavo imaginario, hasta que, entonces, cronométricamente, la segunda cerilla se apaga también. Por eso enciende otra –la tercera– y, esta vez, en su imaginación la llama se convierte en una familia entera que celebra la Navidad. Ve a una madre contemplando embelesada a su hijo y a su hija, ve a un abuelo y ve a su padre bonachón. ¿Quiénes son? Da igual: son felices y con eso le basta. La cerillera deja que por la mejilla le resbale una lágrima. Es un momento culminante, por que, justo ahora, de un gesto abrupto tiene que esparcir el resto de cerillas por la nieve, con tal mala fortuna que sólo le quede una en el delantal. Sólo una seca, pobrecida. Dicho y hecho: de un gesto brusco, las cerillas se esparcen por la nieve


37 y se humedecen fatalmente. Sólo le queda una, la misma de siempre. La conoce tan bien que podría ponerle nombre y llamarla, por ejemplo, Pepita. Así, el año proximo, cuando volviese a verla le diría: «¿Qué tal, Pepita? ¿Como te ha ido el año?». La muchacha sabe que cuando encienda esta única cerilla salvada de la humedad verá la figura con aura de la abuela, sabe que le contará las penas y que la abuela la consolará y le dirá que la acompañe al más allá donde ahora vive, con sus padres y con el abuelo, en un lugar donde todo el mundo es feliz «porque a nadie le falta nada y nadie ambiciona nada». Esta frase la irrita especialmente. Está harta de la bontad navideña, está harta de los buenos sentimientos de diciembre, de los insoportables villancicos que oye por las radios que se escapan por las ventanas mal cerradas, de las estrellas de bombillas y de ese permanente cuento de Navidad en el que siempre revive para no avanzar nunca. Está tan asqueada que se le ocurre la posibilidad de acabar de una vez, de encender la cerilla y, en lugar de obsevar el cielo en busca de la abuela, darse prisa en acercarlo a la puerta de la casa, de forma que la madera –quizás simple cartón piedra– empiece a arder tan rápido que el fuego se extienda de inmediato al resto de esa casa de gente falsamente feliz, a la ciudad entera –por lo menos a las cuatro calles que conoce, porque quizás no hay nada más–, y desde allí a las páginas del libro donde todo eso revive siempre, y del libro al escritorio del maldito narrador que la condenó a repetir, año tras año, el mismo melodrama infantil. ¡Que se queme todo!, musita mintras rasca la cerilla con rabia y acerca la llama a la puerta, que se ennegrece pero, de tan húmeda, no acaba de encenderse, para desgracia suya, porque, antes de tener tiempode nada más, fatalmente se le aparece la abuela, que la llevará con sus padres a aquel lugar «donde todo el mundo es feliz» para que así, por la mañana, un hombre y una mujer encuentren en el portal su cadáver infantil y comenten con pena: «Pobrecita, ha muerto de frío». Mientras contempla con animadversión la cara beatíficada de la abuela, la muchacha duda si ya otras veces lo ha intentado y si, el próximo año, le servirá de algo procurar actuar con más rapidez.


38 LA COMISIÓN

Como cada año, la comisión de festejos se encarga de decidir todo lo relacionado con los actos en los que participan los Reyes Magos. La cabalgada de la noche de Reyes, evidentemente, pero también los días en los que, en una pequeña carpa a la puerta del ayutamiento y sentados en butacas de tercio pelo rojo, Melchor, Gaspar y Baltasar reciben en persona las cartas de los niños. En la comisión apenas hay nunca caras nuevas. Con una rutina pocas veces alterada, cada otoño se reúnen los mismos, y eso es bueno porque son eficientes, tienen otras ocupaciones y les interesa ir al grano. En general, sólo la muerte obliga a cambiar a alguno, y por fortuna la muerte se presenta muy de cuando en cuando. Este verano, por ejemplo, murió uno al chocar su coche contra un camión en un acceso a la carretera general. Iba bebido, pero en el entierro nadie lo mencionó. Se reúnen en una sala del ayuntamiento, una sala grande con una amplia mesa central, paredes forradas de madera y un cuadro de un señor con patillas enormes, que fue alcalde siglo y medio atrás. La reunión es siempre a las siete, y a las siete y cinco ya están todos en sus sitios. Lo más fácil es fijar los días y las horas en los que la carpa estará abierta para que los niños puedan entregar sus cartas: «Querido Reyes Magos: Este año me he portado muy bien y quiero que me traigáis…». Más complicado es determinar el recorrido de la cabalgada por las calles de la ciudad. Todas quieren que Sus Majestades pasen por ellas y las asociaciones de comerciantes (e incluso de vicinos) presionan para ser las escogidas. Para dar oportunidades a cuantas más mejor, la comisión altera cada año la ruta, al menos dentro de lo posible, de forma que calles que otros años salieron beneficiadas ceden su lugar a las que nunca han salido protagonistas. Pero la tarea es ardua, porque siempre hay calles por la que la cabalgada no has pasado nunca y, en los esfuerzos de la comisión por ser justa, el recorrido resulta cada año más enrevesado, y a veces se llega al absurdo de evitar calles céntricas para favorecer vías secundarias, calles estrechas, de arrabal o incluso callejones sin salida en los que apenas vive nadie, ni hay comercios, y resulta ridículo contemplar cómo los Reyes se meten en un cul-de-sac para luego dar marcha atrás y, sin que apenas los hayan visto nadie, salir por donde entraron. Por eso, estos últimos años, parte importante del debate es decidir si debe prevalecer esa equidad distributiva o si la centralidad de las vías debe ser un factor para decidir el recorrido de la cabalgata, y entonces pasa que en el fragor de la discusión muchos miembros del comité empiezan a fumar y al cabo de poco alguien pide que hagan


39 el favor de abrir las ventanas que aquí no hay quien respire, y a la que las ventanas llevan un rato abiertas otros se quejan de que hace un frío que pela y piden que las cierren por favor, pero los que pidieron que las abriesen se niegan en redondo, a no ser que los que fuman dejen de hacerlo. Cada año es más o menos lo mismo. Y así se llega al momento crucial: la designación de los ciutadanos que este año harán de Melchor, de Gaspar y de Baltasar. Eso es lo mas esperado, perque son muchos los que quieren serlo. Ser Rey Mago a sido siempre un gran honor y, en épocas pasadas, para conseguirlo era habitual recurrir a los sobornos, hasta tal punto que, al ser tan descarados, durantes años se optó por aceptarlos como normales y lógicos, de forma que, sin remilgos, los papeles de Melchor, Gaspar o Baltasar se otorgaban al mejor postor, al que más dinero colocase sobra la mesa. Fue así como muchos ciudadanos ahorraban durantes años o décadas (incluso la vida entera) para dedicar esos ahorros a conseguir el privilegio que por unas semanas los convertía en la envidia de sus vecinos. Pero, con la llegada de formas de vida más democráticas, esa costumbre se puso en questión y al final se optó por un turno que, si bien en principio se formuló como rotatorio, pronto se vio que de hecho nunca lo era, porque quien ha sido Rey un año nunca más podrá volver a serlo, ya que, a la lista de aspirantes que hay en un momento dado (de por sí larga), hay que añadir constantemente los niños que nacen sin cesar, niños que se convierten en adultos que, pasada la efervescencia juvenil en la que las costumbres de los mayores son objeto de burla y rechazo, al llegar al conformismo de la madurez cambian de actitud y pasan a considerar una honra eso de convertirse en uno de los tres Reyes Magos que la noche del 5 al 6 de enero desfilarán por la ciudad entre los celos de sus conciudadanos adultos y los ojos de los nuevos niños, que chisporrotean de ilusíon. De modo que, siguiendo el procedimento habitual, uno de los miembros de la comisión abre el fuego proponendo que en esta ocasión el rey Gaspar sea el dentista de la calle Mayor, que lo pide desde hace años. Pero otro membro argute que eso sería injusto porque don Isidro, el notario, lo viene solicitando desde hace aún más tempo. –¿Desde hace aún más tempo? No se yo…–recela el primero. Pero ya un tercero explica que, por lo que ha llegado a su conocimiento, al notario lo que le gustaría es ser Baltasar, más que Gaspar. –Ah, amigo–dice un cuarto–, ¡pero es que Baltasar lo quieren ser casi todos! ¿Por qué? Porque muchos niños adoran a Baltasar. Mi hijo Gabriel, por ejemplo, no cambiaría a Baltasar por ningún otro Rey Mago.


40 Y ahí la cosa se lía, porque un quinto pide que, habiendo inmigrantes en la ciudad desde hace años, ya sería hora de arrinconar esa costumbre de maquillar de negro a uno de los vecinos de siempre. –Que uno de nuestros inmigrantes subsaharianos se converta cada año en Baltasar sería una forma de integración ejemplar, un camino para romper barreras y prejuicios. ¡Basta ya de caras cubiertas de betún, disculpables tan sólo en épocas en las que nuestro país vivía de espaldas al cosmopolitismo y al mestizaje! La propuesta recibe aplausos de los miembros más progresistas, y casi estaría a punto de empezar a ser debatida en serio si no fuese porque el nuevo miembro, el que ha entrado en sustitución del que este verano murió en accidente, levanta el dedo y pregunta que por qué tiene que ser negro Baltasar. El resto de presentes lo miran con cara de sorpresa, y luego se miran entre sí. –Pues porque, tradizionalmente, Baltasar es negro. Si no, ¿cómo va a ser?–contesta alguien, y los otros ríen. –Pero–dice el que ha entrado en sustitución del muerto en accidente–¿no os dais cuenta de que, al asumir esa tradición como algo inevitable, estáis reforzando un cliché que en el fondo es también racista? Me parece excelente que los inmigrantes que desde hace años viven entre nosotros se integren en nuestra costumbres y que participen en la cabalgada, claro que sí, pero no veo por qué no hemos de romper los estereotipos culturales innecesarios. Y ése lo es. Fijaos, si no: Melchor y Baltasar son sempre blancos, y el tercero (como la cuota del 25 por ciento de mujeres que tienen algunos partidos) es negro. ¡Qué bonito! Resulta que Baltasar es la cuota que tranquiliza nuestras conciencias. No propondré que dos de los tres Reyes sean negros, porque eso no correspondería a nuestra realidad social actual; soy consciente de ello. Pero os preguntaré, os pregunto, vaya: ¿por qué hacer que Baltasar sea, siempre, negro? Dicho de otra forma: ¿por que el negro tiene que ser siempre Baltasar? ¿Por qué no Melchor o Gaspar? Un enjamble de voces cuchichea en la sala. Se encienden aún más pitillos que antes, con lo que alguien exige de inmediato que por favor se abran aún más las ventanas. Hay quien pregunta: –Pero ¿qué tiene de malo que Baltasar sea el Rey negro? No hace falta que conteste el nuevo miembro de la comisión, el que ha entrado en sustitución del que este verano murió en accidente, porque, avanzándose a su réplica, otro contesta por él:


41 –¿Que qué tiene de malo? ¡El tópico! Eso es lo malo. Yo te respondería con una parafrasis de tu pregunta: ¿qué tiene de malo que el Rey negro sea Melchor? –¡O Gaspar!–dice otro. –¡Sí,sí: Gaspar! ¿Por qué no Gaspar?–opinan algunas voces, contentas de haber hallado una tercera vía. La sala se llena ahora de discusiones cruzadas, de propuestas y de contrapopuestas, de chasquidos de lengua, de sillas que chirrían, de puñetazos en la mesa y de alguna palabrota. Hasta que, enardecida por el derrrumbe de los muros mentales, una de las presentes, antigua militante de un partido trotskista desaparecido hará catorce o quinte años, consigue levantar la voz más que los otros y arenga contra el hecho monárquico. Pregunta si, más que como reyes, Melchor, Gaspar y Baltasar no podrían ser descritos como presidentes de gobierno, o primeros ministros, cualquier término que no decante la jafatura del Estrado hacia una opción ereditaria que no pasa por el refrendo de las urnas. Ahí entra en acción un muchacho de pelo rastafari que argumenta que, si los Reyes Magos son un problema, pues acabemos con ellos y optemos de una vez por Papá Noel. Hay un momento de desconcierto, incluso alguno de los presentes levanta el dedo para apuntar que, si se opta por Papá Noel, también él deberá ser cuestionado: ¿por qué siempre blanco?, ¿por qué siempre barbudo?, ¿por qué siempre con sobrepeso?, ¿por qué siempre vestido de rojo?, ¿por qué no negro?, ¿por què no mujer? Pero no está a tempo de acabar su alegato porque en un ángulo de la mesa los murmullos suben de tono y se expanden hasta convertirse en un abucheo general que al poco se traduce en unos argumentos más concretos: aun siendo respetable por su aporte a la rica multiculturalidad en la que vivimos, Papá Noel no es más que un esponente de la globalización acrítica y americanocéntrica que, poco a poco y de forma casi imperceptible ha ido abriéndose camino entre nosotros, hasta suplantar en muchos hogares y comercios a los protagonistas tradicionales de nuestra Navidad: los tres Reyes Magos. Aquí–enardecida por la emoción y por algunos chupitos que han empezado a circular bajo el patrocinio del bar de la equina–estallan los aplausos de la mayor parte de la comisión. Poco a poco se van perfilando los papeles. Definitivamente son Reyes Magos, y son tres (no cinco, ni siete, como alguien ha propuesto en algún momento), pero–eso sí–no deben responder a los estereotipos tradicionales. Baltasar y Melcho son blancos, y Gaspar, negro. Gaspar tiene pelo ceniciento (como rapresentante de la tercera edad), pero Baltasar lo lleva teñido de azul y adorna su lengua con un piercing (en


42 rapresentación de la juventud). Decidir cuál de ellos será mujer lleva un buen rato, sobre todo porque el nuevo membro de la comisión, el que ha sustituido al que este verano murió en accidente, propone en un momento determinado que las mujeres sean dos: Melchor y Baltasar. Pero entonces alguien recuerda que el colectivo gay debería estar también representado, de modo que se aprueba que Melchor sea hombre, blanco y homosexual; Gaspar, hombre, negro y heterosexual; y Baltasar, mujer, blanca y de opción sexual un tanto ambigua. «Pero ¿cómo va a notarse que Melchor es gay?», pregunta uno. A un incauto se le ocurre proponer que se note por los gestos y entonces–son ya las diez de la noche, nunca una reunión habia durato tanto-se reabre el debite, ya que, según algunos, si la homosexualidad de Melchor queda definida por los gestos, estamos de nuevo ante el estereotipo. «¡Habrá sido como salir del fuego para caer en las brasas!», se lamenta la antigua militante de un partido trotskista desaparecido hará catorce o quinte años y que hoy regenta una zapatería en una plaza cercana a la calle Mayor. La cosa va a más cuando el que en su momento propuso como rey Gaspar al dentista de la calle Mayor pide ahora que al menos uno de los Reyes muestre algún signo de discapacidad. «Pero ¿qué signo?», le preguntan. «No sé», risponde, «yo sólo lo planteaba». En voz no sufficientemente alta, su vecino de silla repite una y otra vez: «Yo creo que los diabéticos deberían estar representados». A las doce de la noche, una gran ovación rubrica el acuerdo final. Todos corren a sus casas, cenan cualquier cosa, se meten en la cama y, a la mañana siguiente, ponen en marcha la maquinaria. Se telefonea a los que alquilan la carpa, se habla con los ciudadanos escogidos (que no caben en su piel, de tan felices), de los armarios del ayuntamiento donde pasan once meses al año se recuperan los vestidos reales y, del almacén, las butacas de terciopelo rojo… Al cabo de pocas semanas, un día de mediados de dicembre, la carpa reluce frente al consistorio, acogiendo a los niños que acuden a entregar su carta: «Querido Reyes Magos: Este año me he portado bien y quiero que me traigáis…». Hacia la carpa se dirige el miembro de la comisión que explico que su hijo Gabriel no cambiaría a Baltasar por ningún otro Rey Mago. A su lado camina el niño, con la carta entre sus manos emociondas. Al llegar a la carpa arranca a correr hacia la cola de niños que hay frente al rey Gaspar. –No, Gabriel. Ése es Gaspar–dice su papá–, Baltasar es éste de aquí. Gabriel se detiene, gira la cabeza y contempla al Rey que su papá le señala. Es un Rey de piel rosada, tiene unos ojos bellísimos y lleva el pelo teñido de azul y un escute que descubre unas tetas impresionantes.


43 –No, ése no. Yo quiero a Baltasar. –Éste es el rey Baltasar–le dice su papá. –Pero no-dice Gabriel–, Baltasar es negro. Es aquél de allí. –No, cariño–dice su papá, cogendolo de la mano y conduciéndolo hacia Baltasar. El niño contempla el Rey con cara de pasmo y estalla a llorar. Baltasar lo sienta en su regazo, lo acurruca contra la blandura de su pecho níveo y con labios pulposos le pregunta: –¿Por qué lloras, cielo? Entre la cortina de lágrimas que cubre sus ojos, el niño observa a escasos centímetros el soberbio pezón que se marca en la blusa real.


44 BIBLIOGRAFIA

I. Bibliografia primaria

MONZÓ, Quim, Tres Navidades, Barcelona, Acantilado, 2003.

II. Bibliografia secondaria

2.1. Bibliografia su Quim Monzó

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45 PÉREZ CAÑAMARES, Ana M., «El porqué de Quim Monzó», www.babab.com, 2002.

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2.2. Opere citate di Quim Monzó

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2.3. Fonti lessicografiche consultate

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Española,

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Wikipedia,The Free Encyclopedia, «http://en.wikipedia.org».

2.4. Manuale di traduzione

HURTADO ALBIR, Amparo, Traducción y Traductología. Introducción a la Traductología, Madrid, Cátedra, 2001.


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