Renè Girard, per una teorizzazione della letteratura in antropologia

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A.D. MDLXII

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RENÉ GIRARD: PER UNA TEORIZZAZIONE DELLA LETTERATURA IN ANTROPOLOGIA

Relatrice:

PROF.SSA MARIA MARGHERITA SATTA

Tesi di Laurea di:

MARA PORCU

ANNO ACCADEMICO 2012/2013



Indice INTRODUZIONE

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CAPITOLO 1: ANTROPOLOGIA E LETTERATURA

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1.1. LETTERATURA COME FONTE 1.2. LETTERATURA COME RISORSA

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1.3. DUE PUNTI DI VISTA DIFFERENTI: CLIFFORD GEERTZ E JAMES CLIFFORD

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1.4. L'ANTROPOLOGIA DELLA LETTERATURA

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1.4.1. ISER E IL LETTORE IMPLICITO

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1.4.2. GIRARD E IL TRIANGOLO DEL DESIDERIO

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CAPITOLO 2: INTRODUZIONE A GIRARD

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2.1. MENZOGNA ROMANTICA E VERITÀ ROMANZESCA

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2.2. LA VIOLENZA E IL SACRO

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2.3. DELLE COSE NASCOSTE SIN DALLA FONDAZIONE DEL MONDO

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2.3. INFLUENZE E LEGAMI CON ALTRI AUTORI

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2.4. CRITICA E ACCOGLIENZA DEL PENSIERO GIRARDIANO

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CAPITOLO 3: DESIDERIO DI LETTERATURA

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3.1. LA STRUTTURA DEL DESIDERIO

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3.2. L'ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA AL SERVIZIO DELLA 3


LETTERATURA

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3.3. LETTURA COME DESIDERIO

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3.4. SCRITTURA COME DESIDERIO

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3.5. LETTERATURA E ANTROPOLOGIA DIALOGICA

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3.6. LETTERATURA COME TAUROMACHIA

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3.7. LA LETTERATURA E IL MALE

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3.8. CONCLUSIONI

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BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA

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Introduzione La presente tesi si propone di dare una risposta a delle vere e proprie domande antropologiche: perché l'uomo produce letteratura? Da dove nasce il bisogno di raccontare, costruire mondi fittizi o verosimili, sviluppare tecniche e metodologie narrative sempre nuove e accattivanti per il lettore? E di conseguenza, perché l'uomo legge e si accosta alla letteratura? Le risposte a questi interrogativi saranno fondamentali per formulare una definizione antropologica di “letteratura”. Il fenomeno della narrazione e del racconto è presente nella storia dell'uomo sin dalle origini, prima di tutto in forma orale, costituendo un “corpus di miti, leggende, racconti, poesie, ballate che vengono recitati e rappresentati in diverse occasioni, formali e informali” (Fabietti, Remotti 1997:413), specchio della tradizione e del folklore di una comunità, materiale di studio fondamentale per l'antropologia. Per fornire una risposta alle domande iniziali non si può quindi che affrontare un discorso di tipo antropologico. Una branca molto recente di questa disciplina è la cosiddetta antropologia della letteratura, la quale si pone di indagare i legami tra antropologia e letteratura. Possono sembrare due campi di studio molto differenti, in realtà possono essere definiti come forme di un unico discorso sull'uomo. Infatti queste due discipline hanno in comune lo stesso oggetto di studio, ovvero l'uomo: l'antropologia ne osserva le pratiche culturali e cerca di risalire in maniera scientifica al perché di tali comportamenti, fornendo poi resoconti delle varie esperienze di studio in documenti letterari quali sono le etnografie. La letteratura allo stesso modo descrive l'universo dei comportamenti umani, delle relazioni interpersonali e con l'ambiente, costruendo attorno a questo nucleo una cornice narrativa fantastica o molto vicina al reale, a seconda delle intenzioni dell'autore. Condividendo quindi uno scopo comune, presentano però caratteri specifici 5


antitetici: l'una ricorre, generalmente, a un metodo rigoroso ed empirico, rappresentato

dall'esperienza

sul

campo

nella

forma

dell'osservazione

partecipante, l'altra rifiuta caratteri di scientificità e lascia spazio alla creatività e a esigenze di tipo estetico. Ma un altro punto d'incontro è la modalità con il quale perseguono la propria finalità: entrambe infatti sono produttrici di documenti scritti e impiegano uno stesso linguaggio che è quello letterario. Proprio questo aspetto costituisce uno dei più discussi e controversi oggetti di studio all'interno dell'antropologia della letteratura: quello riguardante i prestiti della letteratura in antropologia, cioè quella ricerca di tecniche e strumenti espressivi sempre nuovi che riescano ad esprimere al meglio le scoperte antropologiche e le esperienze di contatto con l'Altro vissute dagli antropologi, ricorrendo appunto alle tecniche narrative già messe a punto e sperimentate dalla letteratura. Ma l'antropologia si pone nei confronti della letteratura anche in maniera diversa e tenta di considerarla non solo come strumento per assolvere al meglio il proprio compito, ma anche come fonte e risorsa, cioè come archivio di informazioni di carattere antropologico nel primo caso, o come rivelatrice di mondi culturali reali e percepibili in virtù del carattere estetico del romanzo e della letteratura in generale. Per quanto recenti, gli studi di antropologia della letteratura affrontano aspetti molto vari di un campo di indagine alquanto vasto, non raggiungendo mai un punto di arrivo e delle conclusioni certe, ma piuttosto mettendo in continua discussione le varie affermazioni e teorie proposte. All'interno di questa molteplicità di opinioni, metodi e studi intendo tirare le fila di un discorso che possa rispondere ai quesiti posti inizialmente, facendo riferimento all'attività intellettuale di René Girard, studioso francese il cui ambito di studio parte dalla letteratura per approdare all'antropologia religiosa, costruendo quella che viene definita “cattedrale girardiana”. La mia intenzione è di dimostrare infatti che il sistema triangolare del desiderio da lui individuato nella narrativa europea possa essere utilizzato per spiegare lo sviluppo dell'attività letteraria dell'uomo. 6


Il lavoro che ho svolto per accostare le teorie girardiane al fenomeno della letteratura è consistito principalmente in uno studio attento delle opere del professore francese per cogliere i concetti e i passaggi chiave che potessero essere utilizzati per rispondere a domande antropologiche diverse da quelle che egli stesso si pone. Inoltre è stato fondamentale cercare di capire in che modo l'antropologia si fosse già posta nei confronti di questo argomento, entrando in contatto con un discorso dai molteplici protagonisti e punti di vista. Gli strumenti a mia disposizione sono stati manuali, testi antropologici, etnografie, saggi e riviste di argomento antropologico, in ambito nazionale e internazionale, i testi di Girard e una nutrita letteratura critica del suo lavoro, le banche dati internet e altro materiale reperito in rete. Tutto ciò mi è stato d'aiuto per conoscere la discussione antropologica riguardo il tema affrontato, le conclusioni a cui la disciplina è già pervenuta, i punti che si dimostrano essere più problematici, e per capire quale taglio dovessi dare al mio discorso: proporre un insieme di strumenti e concetti che potesse spiegare il fenomeno culturale della letteratura, individuato nella teoria mimetica di René Girard. La ricerca e la stesura della presente tesi mi hanno dato modo di approfondire una materia affascinante e di scoprirne aspetti particolari, spesso sacrificati nella scelta degli argomenti da trattare in un corso semestrale per gli studenti. Ho avuto modo di addentrarmi in un contesto di discussione e teorizzazione piuttosto recente e ancora attivo, stimolando la formulazione di una mia personale opinione e apporto, articolato appunto in questo lavoro.

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Capitolo 1

Antropologia e letteratura Gli studi antropologici dedicati alla letteratura hanno inizio, in maniera più o meno organica e definita, solo nella seconda metà del secolo scorso. L'idea di fondo in realtà è la stessa assunta dall'antropologia in generale: lo studio delle manifestazioni culturali con cui l'uomo esprime la propria umanità, intelligenza e sensibilità, la sua originale unione di mente e corpo. La letteratura rispecchia totalmente questa definizione, perciò la sua considerazione antropologica è mutata nel tempo: non solo testimonianza e materiale di studio fondamentale per conoscere la cultura di un popolo o di una società, ma anche strumento d'interpretazione della realtà culturale. E lo sviluppo degli studi oscilla continuamente tra queste due differenti definizioni e funzioni della letteratura, tanto da dover distinguere l'antropologia letteraria dall'antropologia della letteratura: la prima si interessa soprattutto alla questione metodologica che lega antropologia e letteratura, la seconda invece si rivolge al mondo degli scrittori come a un vero e proprio oggetto di ricerca.

1.1. Letteratura come fonte L'uso del termine “antropologia letteraria” si deve a Fernando Poyatos che lo utilizzò per la prima volta nel 1977, in occasione di un convegno, per indicare una precisa corrente interpretativa caratterizzata dall'uso antropologico della letteratura, intesa come contenitore più o meno involontario di informazioni di interesse socio-antropologico: la letteratura viene considerata una fonte antropologica. Questo tipo di intuizione non è totalmente nuova, ma è stata finora scarsamente utilizzata “per l'intrinseca inaffidabilità della fonte, che non è 8


costruita con lo scopo primario di dare informazioni e che mischia in modo incontrollato la realtà con l'invenzione” (Dei 1993), ma soprattutto perché di scarsa rilevanza nelle culture primitive, e quindi illetterate, alle quali si rivolge l'antropologia ai suoi esordi. L'unica forma di letteratura che appare interessante in quel momento è quella popolare, come poesia, novellistica, epica e altri generi, che appaiono come espressione diretta, non mediata, dell'intera collettività e con peculiarità che la contraddistinguono dalla letteratura colta. Verso gli anni '80, gli antropologi iniziano a volgere una maggiore attenzione ai testi letterari, per diversi motivi: l'osservazione partecipante, momento fondamentale dell'indagine antropologica, non appare più come l'unica e più diretta via di accesso di una cultura; le culture orali pian piano si trasformano in culture letterate che si affidano a testi poetici e narrativi come strumenti di auto-rappresentazione; infine gli antropologi tendono ad occuparsi della loro cultura di origine, quella del mondo contemporaneo, nel quale la letteratura è un forte tratto culturale con manifestazioni e caratteristiche proprie. Cambiando oggetto di studio, passando dall'analisi dei miti primitivi a quella dei testi letterari, deve necessariamente cambiare la metodologia di lavoro. L'antropologia letteraria proposta da Poyatos parte dal presupposto che la scrittura letteraria rispecchi fedelmente la cultura d'origine dell'autore, poiché catalogo di notizie, dettagli e rappresentazioni utili per un'analisi intertestuale delle idee e degli usi di una cultura e il loro sviluppo nel corso del tempo. A partire da una concezione semiotica della cultura, egli individua all'interno del testo letterario sistemi di comunicazione non verbale, cioè un insieme di elementi, classificabili in subsistemi e categorie, che rappresentano i vari settori di manifestazione della cultura. Questo approccio semiotico, volto all'analisi dei singoli segni culturali presenti nel testo, si coniuga con l'intenzione di decifrare il messaggio comunicativo e culturale degli elementi selezionati dall'autore al momento della stesura del testo. Un antropologo che sceglie di adottare questo modus operandi deve 9


individuare i tre principali sistemi non verbali presenti nel testo letterario: quello dei comportamenti espressi attraverso il corpo dai personaggi, quello degli oggetti che interagiscono con i personaggi, e quello ambientale, cioè lo sfondo, l'ambiente, lo scenario della storia. La catalogazione dei singoli dettagli narrati può procedere poi con gradi di precisione sempre maggiore: •

all'interno del sistema dei comportamenti, vi sono tre subsistemi, relativi rispettivamente al suono, al movimento e alle reazioni chimico-fisiologiche del corpo. A ogni subsistema appartengono precise categorie: per il suono, riconosciamo il suono del linguaggio verbale, il paralinguaggio e altri suoni emessi dagli organi fonatori e afferenti alla parola; per il movimento, vi sono principalmente movimenti “free and bound” (Poyatos 1981), liberi e legati, praticati con finalità e in occasioni diversi (durante una conversazione, un qualsiasi tipo di rituale, una mansione lavorativa, in interazione con qualcuno o qualcosa); per le reazioni fisiologiche, vi sono quelle che riguardano la pelle, la temperatura corporea e le ghiandole, quindi sudorazione, saliva, lacrime, rossori epidermici.

all'interno del sistema degli oggetti, vi sono tre subsistemi, quello dei body-adaptors, quali cibo, bibite, tabacco, ma anche vestiti, gioielli, prodotti cosmetici, che si applicano e coinvolgono il corpo; quello degli object-adaptors, cioè strumenti e utensili che si afferrano e si utilizzano nello svolgimento di un'attività; quello degli objectualenvironment, cioè oggetti che arredano o decorano i luoghi frequentati dai personaggi.

all'interno del sistema ambientale si distinguono il build-modified environment, cioè strutture architettoniche realizzate dall'uomo e che modificano l'ambiente naturale, e il paesaggio naturale, inviolato, con le categorie di flora, fauna e i vari elementi morfologici dell'ambiente. 10


Come in un sistema di scatole cinesi, ogni elemento che costituisce la narrazione può essere catalogato all'interno di gruppi di appartenenza sempre più precisi e limitati, e ognuno di questi elementi è portatore di un preciso messaggio che aiuta il lettore a conoscere la cultura a cui appartengono i personaggi della storia: gli oggetti di un certo ceto sociale, in una data epoca e in un certo ambiente, la situazione ambientale e l'interazione tra natura e uomo, le procedure di determinate lavori, attività, riti e celebrazioni, i modi di fare e i gesti di un popolo o di certe figure sociali. Si ottiene così una sorta di archivio in grado di includere e sistematizzare tutta l'informazione contenuta in un'opera narrativa di qualsiasi tempo e luogo, secondo una gerarchia di sistemi che copre ogni aspetto di una cultura. L'analisi di questi elementi può essere di tipo “sommario”, uno sguardo di insieme di tutti i sistemi presenti e variamente rappresentati a seconda delle intenzioni dell'autore, o di tipo “analitico”, cioè procedendo dal particolare al generale, individuando prima l'elemento specifico e poi le varie categorie e subsistemi al quale appartiene. Il risultato finale sarà quello di ottenere un quadro preciso e ricco di dettagli minuziosi della società culturale narrata. Poyatos afferma che questa metodologia di ricerca antropologica può essere particolarmente utile nel caso in cui venga negato l'accesso e l'interazione con una cultura, e non si abbia quindi altro modo di ottenere testimonianze e notizie. Inoltre rappresenta un prezioso supplemento all'esperienza dell'osservazione partecipante, perché

capace di fornire informazioni aggiuntive, aiutando

l'antropologo ad ottenere un quadro più completo e dettagliato della cultura studiata. I testi letterari rappresentano una fonte eccezionale anche in una fase di analisi diacronica, testimoniando le differenze tra le varie epoche, registrandone il progresso culturale, o sincronica, permettendo di cogliere differenze o analogie con culture lontane e altrimenti inaccessibili. Ricorrere a un approccio di questo tipo può condurre a risultati diversi: studi classificatori, volti a epurare il testo dalla creatività autoriale, come il lavoro 11


di Vincent O. Erickson1, che studiando il romanzo di Mann, “I Buddenbrook”, tenta di estrarre dal romanzo la realtà oggettiva, cioè tutti quegli elementi necessari a ricostruire la cultura dei ceti borghesi della Germania settentrionale alla fine dell'Ottocento; oppure studi più complessi, di orientamento strutturalista, in cui il testo letterario è studiato per individuare le strutture categoriali che stanno alla base di una cultura, come fa Jean Pierre Albert, nello studio su John Irving2, in cui cerca di cogliere nei romanzi dello scrittore americano gli stessi principi di significato presenti nel mito. Egli individua nei suoi testi delle sequenze che si possono considerare come piccole narrazioni mitiche, legate da precise relazioni che conferiscono unità e coerenza all'universo mitologico che l'autore riesce così a costruire. Secondo Albert questa volontà di organizzare il romanzo secondo un preciso senso di significato è la funzione del romanziere e della sua opera nella nostra cultura. In generale, ciò che emerge da questi studi, è un certo semplicismo metodologico,

pura

selezione

e

catalogazione

di

segni,

ignorando

l'imprescindibile carattere estetico di un testo letterario, eclissando l'apporto creativo e la sensibilità dello scrittore. Si rischia così di cadere nel riduzionismo, assimilando l'opera narrativa a un'opera etnografica, ricca di dettagli e interpretazioni, ma senza un'unità tematica e metodologica a cui fare riferimento. Con il passare del tempo lavori di questo tipo si sono moltiplicati e proprio per la loro eterogeneità, e per il contaminarsi di interessi letterari e interessi antropologici, sono difficili da analizzare in maniera critica e uniforme nel loro complesso.

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2

Erickson, V., 1988 Buddenbrock, Thomas Mann and north German social class: an application of literary anthropology, in Poyatos, F., 1988 Literary Anthropology: toward a new interdisciplinary area Albert, J. 1989 Du Roman au mythe. Lecture de John Irving, L'Homme, 29 (111-112)

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1.2. Letteratura come risorsa Un altro lavoro, tra i tanti che rileggono gli scrittori come etnografi e che merita un particolare approfondimento, è quello condotto da Richard Handler e Daniel Segal sull'opera di Jane Austen3. I due antropologi americani, utilizzando come fonte i romanzi della scrittrice, cercano di ricostruire le regole sociali e il modo di pensare della società a lei contemporanea, su temi quali la parentela, lo status sociale, il corteggiamento e il matrimonio. L'obbiettivo perseguito dai due è molto simile a quello che Poyatos e la sua antropologia letteraria vogliono assolvere, ma la loro analisi presenta due aspetti differenti. In primo luogo, non credono che la sola testimonianza narrativa della Austen sia sufficiente a definire un ordine sociale statico e conchiuso in precise coordinate spazio-temporali e sociali: vedono nel romanzo l'espressione di voci diverse, spesso discordanti, che tentano di dare risposte pratiche a tensioni interne a un universo sociale dai confini instabili. In secondo luogo, i romanzi non vengono visti come specchi involontari di una cultura, che spetta poi all'etnografo decifrare, ma sono considerati essi stessi delle interpretazioni etnografiche, che commentano e tentano di fornire una spiegazione alle diverse pratiche sociali. In questa prospettiva, “a rendere antropologicamente significativi i testi della Austen non è una presunta finalità mimetica, che ci mostrerebbe la realtà nonostante la mediazione autoriale e linguistica, bensì un'interpretazione della realtà che passa proprio attraverso quella mediazione” (Dei 1993). Se inizialmente la letteratura viene considerata una fonte di dati ed elementi per l'antropologia, ora si profila come una risorsa, un modo per scrivere etnografie senza rimanere legati ad un'aura di scientificità asettica e descrivere al meglio l'esperienza sul campo, il contatto con l'Altro. Ciò è possibile perché, come già detto, l'antropologo e lo scrittore fanno un lavoro molto simile: osservano, studiano, interpretano l'uomo, ciò che dice e fa, e infine scrivono. 3

Handler, R., Segal, D., 1990 Jane Austen and the Fiction of Culture. An Essay of the Narration of Social Realities, Tucson: University of Arizona Press

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Solo che i prodotti del loro lavoro rispondono ad esigenze differenti: l'una assume carattere di spiegazione oggettiva e scientifica, l'altra invece è una rappresentazione artistica e soggettiva, secondo criteri di natura estetica. Nonostante questa differenza, portano avanti lo stesso discorso e la stessa analisi dell'uomo e ciò non le rende immuni da reciproche influenze. Il testo letterario rivela la sua aspirazione antropologica nelle descrizioni e nelle interpretazioni etnografiche, il testo etnografico tenta di sperimentare nuove forme comunicative che non possono prescindere dal piano retorico e, in senso lato, estetico. L'antropologia letteraria sposta il proprio interesse da ciò che la letteratura dice e rappresenta al modo in cui rappresenta e comunica la conoscenza di cui è portatrice. La controindicazione che si profila in seguito all'influsso dell'una sull'altra e viceversa, è la difficoltà a conciliare le pretese oggettive antropologiche con la modalità soggettiva della sua esperienza. L'antropologo nel suo resoconto può raccontare al meglio il momento di incontro e interazione con l'Altro, dal suo personalissimo punto di vista, ma come può assicurare che ciò non distorci in senso etnocentrico la realtà di una cultura diversa dalla propria? E allo stesso tempo non può esprimere al meglio l'esperienza vissuta dall'Altro, di cui possiede solo una visione oggettiva, dal proprio punto di vista. Si ritrova quindi a fare una scelta: assumere un atteggiamento relativista, che aiuti il lettore a comprendere le conseguenze e gli effetti della propria esperienza, o un atteggiamento razionalista, che si ponga come scopo una relazione il più possibile oggettiva ed esplicativa dell'altra cultura. Queste due posizioni hanno dato vita a una lunga discussione in cui si giunge sempre allo stesso vicolo cieco, la contrapposizione tra Noi e l'Altro. Un contributo significativo è stato dato dalle scienze sociali le quali, adottando un approccio di tipo ermeneutico, volto ad abbandonare una concezione trascendentale della conoscenza, sono giunte alla conclusione che “la comprensione interculturale è piuttosto una forma di interazione tra esseri umani storicamente e socialmente situati, il cui successo dipende da strategie 14


pratiche, messe in atto sulla base delle risorse culturali che si hanno volta per volta a disposizione” (Dei 1993). La strategia pratica messa in atto dall'antropologia è proprio quella della scrittura.

1.3. Due punti di vista differenti: Clifford Geertz e James Clifford Il momento della scrittura è, per l'antropologo, la sfida più difficile: si tratta di mettere nero su bianco non solo tutto ciò che si è visto e vissuto, ma anche cercare di renderlo comprensibile a chi legge. Per fare ciò l'antropologia si è spesso avvalsa della monografia etnografica, considerata per lungo tempo il risultato di una mera attività di osservazione e descrizione e che, con il passare del tempo, si è dimostrata sempre più insufficiente nella sua neutra oggettività di parole. Ci si rese conto che l'esito finale del lavoro di campo, la buona accoglienza da parte della comunità antropologica e la possibilità di convincere i lettori della validità delle proprie ipotesi e teorie, dipendevano sempre più da come l'antropologo scrive, dallo stile che sceglie, dalla forma di scrittura che adotta, dal modello di monografia etnografica che segue o crea. É così che si dedica maggiore attenzione alla fase di scrittura e si verifica, verso la fine del XIX secolo, una tendenza al cambiamento: si passa dalla trascrizione dei dati ottenuti durante il lavoro sul campo a una forma di scrittura in cui la monografia etnografica perde i suoi confini definiti e si perde nella forma romanzesca, quasi divenendo letteratura (Fabietti Matera 1997). Il rilancio metodologico si verifica in seguito alla pubblicazione dei diari di Bronislaw Malinowski, nel 19674. Prima di questo momento, l'antropologia conosce una prima fase proto-scientifica, caratterizzata dal lavoro di natura teorica dei cosiddetti “antropologi da tavolino”, privi di qualsiasi esperienza sul campo, o da qualche ricercatore e viaggiatore che al contrario, vivono esperienze dirette, ma non hanno alcuna preparazione teorica. I resoconti di queste figure sono inaffidabili, un insieme di dati messi insieme in maniera confusa e senza 4

Malinowski, B., 1967 A Diary in the strict sense of the terme

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nessuna coerenza metodologica di osservazione, studio e analisi. Con figure come Boas o Malinowski si apre una fase autenticamente scientifica, con una rigorosa acquisizione dei dati attraverso l'esperienza di fieldwork per ricostruire in maniera organica e composita un intero contesto culturale. Il prodotto finale è la monografia etnografica, in cui l'antropologo racconta ciò che ha osservato e descrive, con taglio sincronico, il periodo che ha vissuto a contatto con l'Altro. Con Argonauti del Pacifico occidentale, resoconto del periodo trascorso sulle isole Trobriand da Malinowski, si apre l'era della monografia etnografica, in cui il lavoro sul campo rappresenta la fonte legittimante del lavoro e delle teorie dell'antropologo. Lo stile adottato segue precise tecniche stilistiche prese in prestito dalla narrativa realista e naturalista, e il rispetto di tali norme retoriche assicura compattezza e scientificità al testo, trasformando la monografia etnografica in un vero e proprio genere “letterario”. Ma nel diario dell'antropologo polacco, pubblicato postumo dalla moglie, proprio per il fatto che nel redigerlo seguì altre regole stilistiche, emerge un resoconto molto diverso, in cui l'incontro tra la propria soggettività e l'Altro si rivela un'impresa ardua e difficile e la professionalità scientifica lascia il posto a un soggetto poco neutrale ed empatico, come invece non sembrerebbe dalla letteratura “ufficiale”. La pubblicazione dei diari manda in crisi le certezze metodologiche conquistate fino a quel momento e spinge la disciplina a interrogarsi sulle forme più adatte con cui raccontare il lavoro sul campo. Si apre una fase di rilancio metodologico, denso di sperimentazione, che lascia spazio a nuove tecniche di rappresentazione: etnografie

di

impianto

autoriflessivo,

incentrate

sulla

soggettività

dell'antropologo intesa come fulcro dell'incontro interculturale; o testi di tipo dialogico o polifonico in cui il narratore si eclissa e lascia parlare, senza alcun filtro autoriale, i rappresentati dell'altra cultura. In questo panorama sono significative le opinioni di due antropologi che osservano il cambiamento in atto ed esprimono contributi differenti. Il primo è Clifford Geertz che elabora il cosiddetto approccio interpretativo: traendo spunto 16


dall'ermeneutica, definisce il compito dell'antropologo come “interpretare un'interpretazione”. Il ricercatore che si accosta ad un contesto culturale differente da quello di origine deve riuscire a comprendere il significato che ciascuno dei simboli culturali espressi rappresenta per il nativo, deve cogliere il valore di ogni gesto e rappresentazione culturale, la sua interpretazione nativa e originale, all'interno di una prospettiva definita, quella di forme locali di conoscenza (Geertz 1988). In seguito, reinterpretare quei valori e quei significati per renderli comprensibili a tutti coloro che sono estranei a quella cultura: si tratta di mettere in luce la loro logica con le nostre parole, attraverso una forma di traduzione. Per fare ciò non vi è più una metodologia definita, dato che la monografia etnografica si è rivelata insufficiente, ed è quindi necessario sperimentare e trovare nuovi modi per assolvere questo compito. Geertz afferma che la soluzione a questo ostacolo si trovi in testi dal carattere interdisciplinare: colui che scrive deve essere in grado di acquisire da discipline diverse ciò che gli torna utile per rendere il ritratto culturale credibile. Risorsa fondamentale sarà ovviamente il bagaglio di tecniche e soluzioni rappresentato dalla letteratura: la costruzione di fictions “letterarie”, cioè di finzioni composte secondo un modello che si rifà direttamente al mondo della letteratura, è la soluzione pratica con cui l'etnografo supera il gap tra il punto di vista del nativo e il proprio. Si ricorre a stili di scrittura, metafore, analogie prelevati dalla letteratura vera e propria, cosicché le fictions etnografiche non si distinguono per natura da quelle artistiche e letterarie. L'uso più esplicito e consapevole delle tecniche letterarie e retoriche ha portato avanti un processo di compromissione della scrittura etnografica: è quello che afferma James Clifford e i suoi colleghi nel filone di studi prevalentemente statunitensi degli anni '80, che ha il suo momento più rappresentativo con la pubblicazione di una raccolta di saggi dal titolo Writing Culture. Il risultato dei dibattiti che hanno dato luogo ai saggi del libro è un insieme di sistematici tentativi di “decostruzione” della scrittura etnografica, cioè svelarne le pretese 17


mimetiche e le strutture testuali attraverso gli strumenti dell'analisi retorica e narratologica. Da questo esame emerge che l'immagine del fieldwork come fonte di autorità etnografica è una costruzione retorica interna al testo: fuori dal testo esistono sì le diverse esperienze dell'incontro etnografico, ma divengono “fieldwork”, cioè modello di esperienza culturale, solo dentro le monografie e attraverso gli strumenti retorici usati dall'autore. Lo dimostrano la differenze tra i testi prodotti da Malinowski sull'esperienza presso le isole Trombiand. Anche Clifford e colleghi, come Geertz, vedono quindi i testi etnografici come vere e proprie costruzione letterarie e ciò ne fa emergere i limiti: non lasciano abbastanza spazio a particolari e importanti aspetti come la soggettività del ricercatore, la dimensione dialogica del rapporto con gli informatori, lo sfondo politico e storico dell'incontro etnografico, che sono celati dagli strumenti retorici del genere letterario (narrazione impersonale, punto di vista unico, dimensione atemporale). Tutto ciò porta a quella fase di sperimentazione che Clifford definisce etnografia post-moderna, in cui si ricorre a tecniche di scrittura finora ritenute inadatte perché “non scientifiche”, e con il quale il testo, e non la costruzione letteraria insita al suo interno, sembra ritrovare autorità etnografica. A questo punto, le tesi dei due antropologi proposti divergono: infatti Clifford afferma che questo sperimentalismo sia causa dell'indebolimento del ruolo autoriale dell'antropologo, che perde di vista lo scopo rappresentativo ed esemplificativo del suo lavoro; secondo Geertz invece l'autore non perde la propria centralità ed il suo obbiettivo ma, anzi si mette in gioco tentando di rinnovare le diverse modalità narrative per meglio assolvere al proprio compito. Ė comunque ormai in atto un rinnovamento del repertorio espressivo dell'antropologia e del suo rapporto con la letteratura: lo testimoniano i numerosi esempi di etnografie narrative scritte tra gli anni '60 e '80, e i casi di narrativa etnografica, in cui l'autore parla dell'Altro attraverso il proprio Sé.

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1.4. L'antropologia della letteratura La differenza rispetto all'antropologia letteraria è la prospettiva da cui si osserva e si studia il mondo della letteratura: non più contenitore di magie e oggetti affascinanti che catturano l'attenzione dell'antropologo tanto da volerli provare personalmente, ma manifestazione di una necessità culturale dell'uomo e quindi vero e proprio oggetto di analisi antropologica. Il rapporto tra le due discipline non si basa più sull'uso delle competenze critico-letterarie nel campo delle scienze umane, ma sull'apporto dell'antropologia alla teoria e alla critica letteraria. Questo tipo di analisi è molto più difficile ed è necessario un cambiamento nelle modalità di indagine, ora volte a rispondere a domande ben precise: qual è la natura della letteratura, che ruolo svolge all'interno delle istituzioni culturali, e che impatto ha sulla sensibilità umana (Bortoluzzi 2009). Si tratta di un approccio nuovo all'interno degli studi letterari che finora hanno attribuito maggiore rilevanza a metodi elaborati dalla linguistica e dalla semiotica, e solo in parte dalla psicanalisi e dalla sociologia. Il testo letterario non viene considerato un serbatoio di dati, non sono più i fatti narrati a costituire l'interesse dello studioso, ma i suoi procedimenti interni. Una ricerca antropologica di questo genere ha come obbiettivo quello di capire perché canoni letterari diversi e opposti coesistono, partendo dal confronto di modelli culturali differenti. Inoltre deve individuare le ragioni per cui uno specifico canone è ritenuto valido, da chi, dove e quando: lo scopo è dare risposte sull'agire umano, attraverso la letteratura. Perciò è necessario intraprendere una ricerca che non si limiti a una sola lingua o una sola cultura, poiché l'antropologo dovrà concentrarsi su un determinato momento che è l'atto della lettura: il vero significato del testo si svela solo nel momento in cui viene letto da un individuo e mette in moto in lui determinate reazioni. Per analizzare il senso del testo in maniera empirica si dovrà studiare tale fenomeno, l'incontro tra i segno del testo e la mente del lettore, tenendo conto delle variabili possibili: testi diversi letti da 19


diversi lettori con diverse conoscenze del mondo. Studi di questo tipo richiedono un lavoro transdisciplinare, con il coinvolgimento di esperti di varie discipline come la linguistica, la psicologia, la sociologia, la storia letteraria, la filosofia, la statistica (Nemesio 2008). Emerge la necessità di dare un maggior peso alla figura del lettore, vero destinatario dell'interesse antropologico all'interno della letteratura e le teorie di due professori di letteratura, Iser e Girard, cercano di dare risposta a questa necessità, adottando una prospettiva antropologica. 1.4.1. Iser e il lettore implicito Wolfgang Iser, rappresentante autorevole insieme a Jauss della cosiddetta scuola di Costanza, elabora una teoria della ricezione estetica contro corrente rispetto ai suoi colleghi, recuperando il ruolo attivo del lettore e la sua interazione con il testo. Mentre Jauss ritiene che il processo comunicativo che coinvolge autore, testo e lettore possa essere interpretato diversamente a seconda del contesto storico in cui viene inserito, Iser invece abbandona una visione prettamente storicistica e si concentra sul processo di interazione tra testo e lettore. Il testo è luogo di incontro tra elementi della realtà fisica ed elementi irreali che costruiscono una realtà fittizia interna al testo: la realtà testuale non coincide mai con la realtà del mondo e questa asimmetria crea uno spazio d'azione per il lettore. Infatti la sua facoltà immaginativa, definita da Iser con il termine “immaginario”, il suo bagaglio di esperienze, ricordi, emozioni e opinioni permette di conciliare il gap tra realtà e testo, mettendo a punto un'interpretazione del mondo testuale, un significato del testo, che è unico. Nel rapporto tra il mondo rappresentato nel testo, che è una riformulazione del mondo secondo l'ottica dell'autore, il mondo reale e il lettore, quest'ultimo, con il suo immaginario, è in grado di colmare in parte il potenziale di significato del testo. In questo modo il baricentro della discussione si sposta dal testo, e da ciò che

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l'autore vuole dire, al lettore e all'interpretazione di significato che legge tra le righe, sempre diversa al variare della soggettività del lettore: il testo è custode di molteplici sensi e significati, e non del solo messaggio autoriale, tanto ricercato e studiato dalla critica letteraria. Spostando il discorso di Iser sul terreno antropologico, l'immaginazione e la fantasia dell'uomo rappresentano i “sintomi” di una necessità antropologica manifestata dall'uomo: la letteratura può essere considerata una forma di antropologia estensiva che fornisce lo strumento utile all'uomo per rapportarsi con le contingenze e i problemi del mondo reale. La capacità immaginativa sarebbe, sempre secondo Iser, non soltanto in grado di creare mondi alternativi, sia in senso sincronico che diacronico, ma permetterebbe di canalizzare nel quotidiano la quantità di fantasia necessaria, affinché abbia luogo lo sviluppo culturale. La letteratura non rappresenterebbe soltanto un utile strumento d'indagine antropologica, ma anche un elemento attivo di sviluppo culturale, in quanto mezzo di comunicazione in uso. (Gambino 2004:74)

Il lettore di Iser è il lettore “implicito”, cioè l'ideale destinatario del testo, capace di creare connessioni tra i vari elementi del testo in virtù della sua facoltà immaginativa. Il lettore passa da soggetto passivo, semplice ricevente e spettatore di una storia, a un ruolo attivo nel progresso culturale. Ciò non priva comunque il testo di una funzione attiva e centrale all'interno della letteratura e della cultura in generale: il testo assurge a luogo di costruzione dell'identità, specchio nel quale l'uomo può osservarsi, riflettere su sé stesso, compiere confronti, prendere decisioni e operare cambiamenti dall'impatto rilevante sul mondo reale e sulla sua vita. 1.4.2. Girard e il triangolo del desiderio René Girard, altro professore di letteratura, è stato in grado di sviluppare un approccio antropologico che, a partire dallo studio di un gruppo di opere letterarie5, è riuscito a fornire la chiave di lettura per rispondere alle domande 5

M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia; G. Flaubert, Madame Bovary; Stendhal, Il

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poste dall'antropologia della letteratura. Ponendo la sua attenzione sui tre elementi reali che intervengono nella comunicazione letteraria, autore, lettore e testo, li inserisce in una struttura triangolare che possa esplicitare il rapporto e le interazioni reciproche. Non è qualcosa di nuovo, ma le varie correnti della teoria della letteratura che si sono sviluppate lungo tutto il XX secolo hanno sempre portato avanti le loro teorizzazioni concentrandosi su un solo lato del triangolo e su uno dei tre elementi: psicanalisi, filologia e storia della letteratura spesso hanno analizzato il vertice corrispondente all'autore, formalismo e strutturalismo quello del testo, e infine sociologia e teorie della ricezione quello del lettore (Bortoluzzi 2009). Studi di questo tipo non sono riusciti a intraprendere un'analisi completa che coinvolga tutti e tre gli elementi, limitandosi a identificare le loro relazioni all'interno di una struttura di tipo comunicativo: l'autore vuole dire qualcosa e comunicarlo al lettore destinatario, e per farlo utilizza il testo. Girard invece ribalta questo triangolo, ne ricostruisce i lati e ne spiega le interazioni secondo un unico punto di vista che abbraccia e coinvolge tutti e tre gli elementi: il triangolo rappresenta una relazione di tipo erotica, espressione di un desiderio. In questo schema il lettore è colui che desidera, il testo l'oggetto desiderato e l'autore funge da mediatore, colui che fornisce al soggetto desiderante il testo, e senza il quale il moto desiderativo non si svilupperebbe. La letteratura si manifesta, nei testi esaminati da Girard, come un sistema fondato su un “desiderio triangolare” che si rivela in tutte le sue caratteristiche e implicazioni all'interno del romanzo. Si tratta di una lettura antropologica limitata ai testi presi in considerazione dallo studioso francese, ma può rappresentare anche il sistema con cui interpretare e rappresentare il rapporto dell'uomo con la letteratura: lo stesso desiderio, apparentemente presente solo nel romanzo, è invece la necessità antropologica che spinge l'uomo a scrivere e a leggere, a costruire ed entrare in un mondo fantastico e irreale quale è quello della rosso e il nero; M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto; F. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Delitto e castigo, L'idiota, L'eterno marito, I demoni, L'adolescente, I fratelli Karamàzov

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letteratura. L'uomo si rifugia in questo mondo alternativo per soddisfare un desiderio di alterità, di fuga dalla realtà, di seconde possibilità che è possibile vivere solo attraverso i personaggi e le vicende dei romanzi.

Figura 2: il triangolo del desiderio di Girard e di cui parla in Menzogna romantica e verità romanzesca, presenta al vertice il mediatore e alla base il soggetto desiderante e l'oggetto desiderato. Traslato nell'ambito della letteratura e della sua ricezione, i diversi ruoli vengono assegnati a lettore, autore e testo. (Bortoluzzi 2009)

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Capitolo 2

Introduzione a Girard

René Noël Théophile Girard nasce il 25 Dicembre 1923 ad Avignone, in Francia. Il padre, conservatore del museo cittadino, era anticlericale e repubblicano, mentre la madre, cattolica, fu la prima donna a laurearsi nel dipartimento della Drôme. Dal 1943 al 1947 studia presso l'École nationale des chartes a Parigi, divenendo un archivista-paleografo specializzato in Medioevo. Ottiene una borsa di studio per studiare negli Stati Uniti e tre anni dopo ottiene un dottorato in storia all'Indiana University. Da qui inizia la sua carriera accademica: insegna letteratura spostandosi alla Duke University, al Bryn College, alla State University di New York e infine alla John Hopkins dove rimane fino al 1981. Fino al 1995, anno del suo pensionamento, rimane a Stanford, dove risiede ancora oggi e dirige insieme a Jean-Pierre Dupuy il “Program for interdisciplinary

research”,

organizzando

importanti

convegni

di

approfondimento che ben rappresentano l'interesse interdisciplinare che lo caratterizza. Il 17 Marzo 2005 viene eletto membro dell'Académie Française. Durante il suo periodo di studio e insegnamento in America ha la possibilità di individuare il concetto fondamentale attorno al quale si articola tutto il suo sistema antropologico: la natura mimetica del desiderio. Nel 1961 esce il suo primo libro Mensogne romantique et vérité romanesque, uno studio comparato dei romanzi di Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij e Proust, mettendo in evidenza la comune struttura triangolare del desiderio, che non ha quindi una natura spontanea ma nasce dalla mimesi di un mediatore. Individua anche il legame tra desiderio e religione, perciò si dedica ai diversi aspetti del mimetismo, in particolare la sua funzione nel sacrificio e nel sacro. Le sue riflessioni trovano spazio, nel 1972, in La violence et le sacré, nel quale dimostra come il meccanismo mimetico sia alla base dei miti e dei riti religiosi, e in particolare del 24


sacrificio: questo rappresenterebbe la valvola di sfogo della rivalità mimetica e allo stesso tempo è strumento di pacificazione sociale, acquisendo valenza sacrale e religiosa. L'opera non ha una buona accoglienza perciò Girard decide di trovare un modo per renderla più comprensibile: adotta la forma dell'intervista e collabora con due psichiatri francesi, Michel Oughourlian e di Guy Lefort. Il libro, Des choses cacheés depuis la fondation du monde, ha un buon riscontro da parte del grande pubblico, mentre viene ignorato dagli ambienti intellettuali. Il discorso portato avanti fino a questo punto si sposta dalle religioni primitive alla religione giudaico-cristiana, rivelando la vera chiave di lettura dei testi biblici: i Vangeli non rappresentano una storia sacrificale ma la rivelazione del meccanismo vittimario e la dimostrazione della radice unica del mondo sociale e religioso. Sono queste tre le opere fondamentali che costituiscono le fondamenta della così detta “cattedrale girardiana”, arricchita poi con altre opere, digressioni e interventi che meglio delineano la prospettiva antropologica dello studioso francese6. Tra queste è possibile citare Le bouc émissaire del 1982 e La route antique des hommes pervers del 1985, dove il discorso si radicalizza nell'ambito della religione cristiana.

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Per una bibliografia completa degli scritti http://www.sifp.it/didattica/bibliografie/girard-rene

25

di

Girard

si

rimanda

a:


2.1. Menzogna romantica e verità romanzesca Il primo saggio dell'autore rappresenta uno dei più autorevoli esempi di interazione tra studio antropologico e critica letteraria. Si tratta infatti di uno studio comparato delle strutture e dei personaggi del romanzo moderno e della società in cui esso si afferma, attraverso l'analisi delle opere di Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij e Proust. L'originalità del saggio consiste nella metodologia adottata, di impostazione storico-antropologica, e alle conclusioni psico-sociologiche a cui l'autore perviene. La tesi che Girard intende dimostrare lungo il corso dell'opera e attraverso l'analisi dei romanzi di questi autori è la struttura triangolare del desiderio: all'ideale romantico (la menzogna del titolo del saggio) che rappresenta il desiderio con una linea retta che dal soggetto si muove verso un oggetto, in maniera del tutto spontanea e originale, Girard contrappone una struttura triangolare, ponendo al vertice un terzo elemento, un modello, detto mediatore, sul quale si plasma il moto desiderativo. In poche parole l'atto del desiderare è sempre frutto di una mimesi del mediatore e questo meccanismo regola ogni rapporto umano, come dimostrerà attraverso l'analisi comparata di determinati romanzi dell'età moderna. I cinque autori presi in considerazione infatti sono riusciti a rendere espliciti attraverso personaggi e storie le implicazioni del desiderio mediato e le relazioni tra i vertici del triangolo. La mediazione, l'influsso del modello sul soggetto desiderante, può essere di due tipi: si tratta di mediazione esterna quando il mediatore è lontano dall'universo del soggetto e la distanza che li separa è molta; si tratta di mediazione interna quando invece il mediatore fa parte dell'ambiente del soggetto e quindi la distanza che li divide si riduce. Il primo caso è ben rappresentato da Cervantes nel romanzo epico-cavalleresco El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, in cui il protagonista, Don Chisciotte, si mette in viaggio per difendere i deboli e affrontare i prepotenti che 26


incontra sulla sua strada, seguendo l'esempio del coraggioso Amadigi di Gaula, “uno dei più perfetti cavalieri erranti […] fu la bussola, l'astro, il sole dei valorosi e innamorati cavalieri, ed è lui che dobbiamo imitare tutti noi che militiamo sotto la bandiera dell'amore e della cavalleria” (Cervantes 1957:250). Sono queste le parole utilizzate dal protagonista per esprimere la venerazione nei confronti del suo mediatore, modello di valori e azioni a cui si ispira e che fedelmente imita. Ma Amadigi è l'abitante di mondi fantastici che prendono vita nelle pagine dei libri, è un modello irreale e irraggiungibile: la sua mediazione è di tipo esterno. La mediazione interna si può incontrare invece nel romanzo Le rouge et le noir di Stendhal, in cui il protagonista Julien Sorel diviene l'oggetto di contesa tra due famiglie: il sindaco M. de Renal decide di assumere Julien come precettore per i suoi figli perché convinto che il suo rivale nel predominio sul paese, M. Valenod, intenda fare altrettanto. Quest'ultimo funge da mediatore, e il suo desiderio immaginato suscita il desiderio reale di M. de Renal: soggetto e mediatore sono vicinissimi, fanno parte dello stesso mondo reale e sociale, e il loro desiderio, in uno presunto e nell'altro assolutamente reale, innesca la rivalità tra i due. Il mediatore non è più solo un modello di condotta ma è anche un ostacolo, un pericolo per l'ottenimento dell'oggetto ambito. Dalla mediazione interna ha origine inoltre il fenomeno della doppia o reciproca mediazione, cioè quando il mediatore può essere il soggetto di un proprio desiderio, invertendo i ruoli con il soggetto del triangolo originario. I ruoli di soggetto e mediatore sono opposti ma simili, perché in grado di compiere gli stessi gesti mimetici, e quindi intercambiabili. In base a ciò chiunque può essere soggetto e mediatore, consapevolmente o no, ed esserlo allo stesso tempo e in relazione con individui sempre diversi: il desiderio mimetico è contagioso, universale e può interessare un'intera comunità. Gli esempi di mediazione svelatici in questi romanzi ben dimostrano come l'insorgere di un desiderio è sempre conseguenza, conscia o no, di un processo 27


imitativo, e smascherano l'ideale romantico che sostiene la spontaneità e l'autonomia dei desideri umani. Girard distingue quindi tra opere romantiche e opere romanzesche: le prime riflettono la presenza di un mediatore, senza svelarla, le seconde hanno la funzione di rivelare il processo mimetico e la conseguente rivalità, e quindi la realtà conflittuale dei rapporti umani. Proseguendo nell'analisi e nel confronto dei desideri narrati nei romanzi presi in considerazione, Girard illustra come la piccola distanza tra soggetto e mediatore comporti la perdita di importanza dell'oggetto desiderato. La linea diretta che unisce soggetto e oggetto è una mera illusione, trasfigurata dalla presenza e dall'influenza del mediatore: il desiderio non è di tipo oggettuale, concentrato e unicamente diretto quindi sull'oggetto, ma è di tipo metafisico, anela all'essere del mediatore: il desiderio secondo l'Altro diventa desiderio di essere l'Altro. Questo è dimostrato dal fatto che una volta soddisfatto il desiderio con il possesso dell'oggetto tanto ambito, questo perde tutto il suo valore, e subentra la delusione che spinge il soggetto a cercare nuovi desideri, più difficili da appagare. Ci si rivolge a mediatori sempre più implacabili, che rappresentino un ostacolo sempre più grande al raggiungimento dell'obbiettivo: se prima era la mimesi che produceva un ostacolo, ora si sceglie il mediatore in funzione dell'ostacolo che può rappresentare. Il desiderio triangolare degenera a questo punto in masochismo: il mediatore è ora causa di infelicità, vergogna, insuccesso, schiavitù, ma il soggetto è pronto ad accettare tutto questo in vista del premio finale. Ma il desiderio, essendo espressione di un desiderio di alterità, non troverà mai piena soddisfazione e condurrà immancabilmente il soggetto alla delusione. Il masochismo può degenerare in sadismo quando il soggetto da vittima diviene carnefice, cioè mediatore consapevole e impietoso, ostacolo principale al desiderio di un soggetto. Il sadico perseguita perché è perseguitato e si illude di essere diventato mediatore, ma nell'altro inevitabilmente riconosce sé stesso allo specchio, rivede la propria natura di vittima. Masochismo e sadismo sono 28


degenerazioni del desiderio triangolare che sanciscono il passaggio da un desiderio fisico, basato sull'oggetto, a uno metafisico, basato sul volere essere l'Altro, e perciò impossibile da soddisfare a causa della prolificazione pandemica di mediatori: dal sorgere di nuovi desideri si radicalizzano le contrapposizioni e i conflitti, e l'atto del desiderare diviene male ontologico, malattia dell'essere. I capolavori analizzati da Girard scandiscono le tappe di questa metamorfosi e i tempi per la scoperta della verità : nelle conclusioni dei romanzi i protagonisti prendono coscienza della natura mimetica del desiderio, e questa consapevolezza conferisce forma e senso al testo letterario (Lo Vecchio 2008).

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2.2. La violenza e il sacro La riflessione di Girard, partita dalla letteratura approda all'antropologia. Infatti la rivalità del desiderio mimetico è assunto a fattore scatenante di un processo degenerativo che conduce alla violenza all'interno di un gruppo chiuso. É questo un fatto certo che tutti i gruppi sociali hanno dovuto affrontare e per il quale hanno dovuto cercare una soluzione, individuata nel meccanismo vittimario. Questa conclusione è confermata dalla letteratura etnologica a cui si rivolge l'autore e che lo porta a fare la sua seconda grande scoperta, dopo quella della natura mimetica del desiderio: il meccanismo vittimario è all'origine del religioso arcaico. Recuperando la logica del desiderio esposta nel libro precedente, è facile intuire come la rivalità di due individui che aspirano a ottenere uno stesso oggetto, proprio per la natura mimetica di questo desiderio, possa poi diffondersi a nuovi soggetti desideranti: il desiderio è contagioso, così la tensione e la violenza scatenata da un desiderio condiviso si diffondono come una malattia. Questa “epidemia” può giungere a un punto di non ritorno in cui la guerra di tutti contro tutti può mettere in crisi la sopravvivenza della struttura sociale. La via di uscita prospettata è quella di incanalare questa aggressività nei confronti di un solo oggetto, di una vittima prescelta contro il quale si indirizza l'odio e la furia del gruppo. É questo il meccanismo vittimario che consente di aprire una valvola di sfogo mediante la quale far calare il livello di tensione e ristabilire l'ordine e la pace. Per ottenere questo risultato nelle società primitive si è ricorsi quindi al sacrificio, con il quale si pratica una violenza controllata e minima per sventarne una incontrollabile e massima, secondo un meccanismo orizzontale di resa dei conti tra uguali, data l'assenza di un'autorità superiore. Nella società moderna questa funzione è assolta dal sistema giudiziario, che ha il compito di fare giustizia e vendetta al posto del singolo: esattamente come il sacrificio, detiene la possibilità di praticare una violenza “legalizzata” allo scopo di evitare quella 30


incontrollata. Sopita la carica aggressiva, l'uccisione della vittima viene giustificata e legittimata: la sua morte è stata necessaria perché la sua vita era responsabile dello stato di disordine e solo ora che è morta è stato possibile ristabilire l'equilibrio. La vittima da colpevole diviene salvifica e perciò sacra. Da qui ha origine il concetto di sacro e del religioso arcaico, il rituale come ripetizione dell'evento originario, il mito come narrazione che ricorda la crisi iniziale e la sua soluzione positiva, i divieti e le interdizioni che possono causare nuovamente lo stato di crisi: è questo l'insieme degli strumenti messi appunto dalla religione per liberare la società dalla violenza. La trattazione dell'argomento è caratterizzata da una forte tendenza riassuntiva e sistematica, che punta a individuare l'universalità della modalità di gestione della violenza: tutti i caratteri del sacrificio originario (iniziale colpevolezza della vittima che diviene sacra dopo la sua uccisione, la necessità di ripetere sistematicamente il rito sacrificale per mantenere l'equilibrio della comunità) sono presenti in un tutte le società primitive e sono a fondamento non solo del sistema religioso ma anche di quello sociale, quale istituzione culturale capace di regolare il vivere pacifico del gruppo sociale. Se il sacrificio è l'atto originario con il quale si seda la violenza e si crea la divinità, è il suo ripetersi, e quindi la pratica del rituale, ad assicurare l'ordine e la pace della comunità proprio perché garantisce un regolare sfogo delle tensioni sociali. Per ripetere il rito è necessario operare una sostituzione, al posto della vittima originaria si sceglie qualcos'altro che canalizzi su di sé l'aggressività, come già accadde nell'evento originario. Il sacrificio rituale si basa su questo misconoscimento: si fa finta che la vittima sia uccisa, mentre in realtà si sacrifica qualcos'altro che la rappresenta. L'importante è che venga garantita la deviazione della violenza sulla vittima designata. Questa deve rassomigliare alla vittima originaria ma non troppo: infatti una vittima troppo simile a quella originaria non catalizzerebbe l'aggressività, in virtù della sua apparente vicinanza con la vittimadio. Deve assomigliarle ma allo stesso tempo essere “distante”: si scelgono 31


soggetti marginali come prigionieri di guerra o handicappati, coloro che per una peculiarità fisica o per i loro comportamenti vengono isolati. La vittima sacrificale è profondamente legata al rito, e questo a sua volta al mito. Girard dimostra l'erroneità della celebre teoria di Hubert e Mauss, i quali sostengono che il mito nasca dal rito: la presenza continua di una vittima rituale ha portato a considerarla la divinità protagonista poi della narrazione mitica, e che quindi la divinità nasca dalla ritualità. Quello che i due antropologi non spiegano è la causa del sacrificio originario, il verificarsi di quell'evento primordiale da cui ha origine il rito. Girard fa chiarezza in proposito, mettendo in evidenza che gli stessi miti fanno continuo riferimento a una “prima volta”, che non può essere quindi semplicemente ignorata, e data la sua importanza deve essere ritenuto un evento del tutto reale. Vicenda presente nella maggior parte dei miti è un assassinio, che trova corrispondenza nel rito sacrificale della vittima: non ci sono dubbi a questo punto sull'importanza del momento originario, che trova eco nel rito come ripetizione e ricostituzione di un modello prototipico, e nel mito, nel quale si celano i meccanismi costitutivi del sacro, celato dalla narrazione fantastica. Il rituale sacrificale necessita della partecipazione dell'intera collettività la quale, accettando la sostituzione alla base del sacrificio e partecipando al rito, “subisce” la funzione catartica del rito: la violenza viene purificata, non è più un male, ma un bene che conduce all'ordine e alla pace. Il rito rappresenta quindi gli aspetti positivi della violenza che necessariamente si pratica nel sacrificio, mentre gli interdetti sono coloro che ne rappresentano gli aspetti negativi: l'interdetto di sangue, cioè la vittima prescelta su cui si scaglia la violenza, oppure l'interdetto volto a evitare una condotta imitativa, come la paura dei gemelli, dello specchio, del teatro, dell'attore: la mimesi conduce alla violenza per cui si rifugge tutto ciò che può portare a un annullamento delle differenze fisiche e culturali. Conclusione finale è il legame tra violenza e sacro, come dalla prima abbia origine il secondo e come tutte e due siano peculiarità presenti nelle 32


vita culturale dell'uomo (Carrara 1985).

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2.3. Delle cose nascoste sin dalla fondazione dell'uomo Come segnalato nella premessa dell'opera, i testi presentati nel libro sono il risultato di ricerche svolte tra il 1975 e il 1977 presso Cheektowaga e Johns Hopkins, rielaborati e poi integrati con scritti anteriori di Girard7. Nella forma di un dialogo-intervista tra lo studioso e i due psichiatri francesi, vengono ripresi i principali concetti-chiave della teoria mimetica e del meccanismo vittimario, nel tentativo di un'esplicitazione meno ostica che possa raggiungere un pubblico più ampio in maniera più diretta. Da un lato, si sviluppano le implicazioni delle scoperte girardiane sulla questione del passaggio dall'animale all'uomo: la spiegazione più naturale e ovvia non può che essere quel forte grado di mimetismo già presente nel mondo animale e presso i primati antropomorfi e che comporta la rivalità tra esseri simili che convivono in uno stesso territorio. La tensione innescata dalla vicinanza e dalla mimesi si disinnesca con la sottomissione agli individui dominanti. A questo meccanismo di natura istintuale si sostituisce successivamente, quale gestione della violenza mimetica, il meccanismo vittimario, un meccanismo volontario, che rappresenta quindi la prima attenzione di tipo culturale dimostrata dal gruppo. E' così che avviene il processo di ominizzazione, cioè il passaggio dallo status animale a quello umano, dall'essere istintuale all'essere culturale. Il primo segno è quindi l'istituzione del sacro derivante e rappresentato dalla vittima originaria immolata, seguita dalla ritualità e dai tabù che assicurano il mantenimento dello stato pacifico all'interno della comunità: il religioso arcaico è all'origine delle istituzioni politiche e culturali. Ma l'argomentazione più interessante dell'opera è quella relativa al testo biblico e al Cristianesimo. Girard spiega come i Vangeli apparentemente presentino tutte le caratteristiche tipiche di una narrazione mitica (una vittima-dio linciata dalla folla, il cui sacrificio viene commemorato in un evento rituale quale 7

Les malédictions contre les Pharisien, Bulletin du Centre protestan d'études; 1977 Violence and Representation in the Mythical Text, Modern Language Notes.

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la messa eucaristica), ma se ne discostano per l'assenza di altri caratteri fondamentali. Infatti il mito è costruito sulla menzogna della colpevolezza della vittima sacrificata, perciò gli eventi sono raccontati dal punto di vista degli autori del sacrificio. Nei Vangeli invece si proclama in maniera chiara l'innocenza della vittima sacrificata, Gesù Cristo: con l'emergere della verità viene meno il misconoscimento su cui si basa il meccanismo vittimario e l'equilibrio derivante da esso. Il Nuovo Testamento rivela così quelle “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo”, la menzogna che permetteva la funzione pacificatrice di un atto violento, già anticipate nel Vecchio Testamento, in quegli episodi in cui è manifesta l'innocenza delle vittime (Abele, Giuseppe, Giobbe, Susanna). La rivelazione è tanto più probatoria in virtù del fatto che tutto il testo biblico parla del binomio desiderio-violenza e del processo mimetico, espressi attraverso alcuni concetti fondamentali nelle Scritture: lo scandalo rappresenterebbe la trappola della rivalità mimetica; Satana, che in ebraico significa accusatore, sempre descritto come menzognero e omicida, sintetizzerebbe l'intero processo mimetico, dalla rivalità alla violenza collettiva; lo Spirito Santo, detto Paraclito cioè difensore, che difende e assiste la vittima innocente. La scoperta dell'innocenza della vittima mette in luce il misconoscimento su cui si basa il meccanismo violento ma allo stesso tempo salvifico del sacrificio. La conseguenza è il disfacimento dell'ordine sacrificale, del suo valore e del suo effetto pacificatore sulla comunità, ma non viene meno l'uso della violenza, che è apertamente denunciata nei Vangeli. E' questa una singolarità peculiare del mondo occidentale il quale, paradossalmente, è legato da più tempo alla fede cristiana: gli uomini hanno accolto il messaggio di pace del Messia e dei suoi discepoli, ma non sono riusciti a farlo proprio completamente, mantenendo l'attitudine violenta della “prima volta”. Non si tratta più di una violenza sacra, compiuta con uno scopo positivo, ma di un'aggressività consapevole, responsabile e colpevole, che fomenta le crisi mimetiche, le quali, venendo meno l'efficacia del sacrificio, non possono essere sventate neanche temporaneamente. 35


La lettura e l'analisi biblica alla luce della teoria mimetica-sacrificale ha sollevato molte critiche nei confronti di Girard, soprattutto per il fatto che sia portata a compimento dopo la sua conversione al Cattolicesimo, avvenuta durante la stesura del suo primo libro. Egli ha sempre affermato la necessità di una lettura critica e scientifica delle sue opere, giudicandole per i loro contenuti di natura antropologica, la loro capacità esplicativa e comunicativa semplice e diretta. Egli formula un vero e proprio sistema antropologico che è da considerarsi una vera e credibile ipotesi scientifica, frutto di una riflessione attenta e scrupolosa, senza alcun legame con le sue vicende personali.

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2.4. Influenze e legami con altri autori Il pensiero di René Girard è fortemente influenzato dal lavoro di illustri studiosi, precedenti e contemporanei a lui. La prima eredità è quella del sociologo francese Émile Durkheim. Dal suo connazionale Girard riprende un approccio al lavoro, teorico e pratico, di tipo scientifico: per il sociologo i fatti sociali sono assimilabili a veri e propri oggetti di osservazione e di ricerca socio-antropologica. Non solo il mondo naturale, ma anche quello sociale costituisce un insieme di fenomeni degni di uno studio attento, preciso e oggettivo, in virtù della loro inevitabile influenza sull'agire umano: i fatti sociali sono rappresentazioni psichiche collettive, sintesi di fattori individuali, che determinano in maniera coercitiva norme, consuetudini e idee all'interno di un gruppo sociale. A questa prima fase teorica di osservazione deve seguire il momento “pratico” di teorizzazione, ovvero il desumere ipotesi generali in grado di spiegare in maniera universalmente valida la molteplicità di particolarismi di uno stesso fenomeno sociale. É ciò che fa Girard nel momento in cui riconosce nell'atto del sacrificio originario la nascita del sacro primitivo. In entrambi gli studiosi poi il religioso arcaico rappresenta la forma originale della cultura: Durkheim afferma che la religione è un insieme di elementi appartenenti all'ambito del sacro in rapporto di coordinazione e subordinazione tra loro e riflesso della volontà sociale; allo stesso modo Girard vede nell'istituzione di riti e divieti legati alla religione e al meccanismo vittimario il naturale sviluppo di forme culturali e politiche, testimoni del passaggio dell'uomo dallo stato di animalità a quello di umanità, della cosiddetta “ominizzazione”. Le affinità con Durkheim si fermano qui: infatti i due studiosi francesi divergono nell'importanza da attribuire alla ricerca delle origini e delle funzioni e nella contrapposizione tra uomo e società. Nel primo caso, Durkheim ritiene che origine e funzione di un fatto sociale siano complementari e che la scoperta della funzione non aggiunga niente di nuovo a ciò che si era desunto dalla ricerca 37


dell'origine. In quest'ottica ciò che risulta rilevante è mettere a punto una teoria che individui scopi e meccanismi di un fenomeno, estraniandolo dal contesto e dall'origine storica: fine dello studio antropologico è perciò lo scoprire la causa assoluta che innesca il fenomeno in contesti e con manifestazioni diverse ma secondo passaggi logici sempre uguali. Girard invece distingue nettamente l'origine dalla funzione: la prima risponde a un punto di vista storico ed è rappresentata dalla cosiddetta “prima volta”, la seconda risponde a un punto di vista logico e rappresenta la soluzione a un problema reale e sociale, in questo caso la gestione della violenza. Questa concezione è dovuta piuttosto all'influsso di altre figure autorevoli come il padre della ricerca sul campo Malinowski e l'antropologo inglese Radcliffe-Brown. Per quanto riguarda la contrapposizione tra uomo e società, in Durkheim è molto netta, distinguendo nel singolo individuo una cosciente intenzionalità di pensiero e azione, mentre la collettività agisce in maniera incosciente e non intenzionale. Questo comporta la totale esclusione della scienza psicologica nel comprendere i meccanismi sociali. Girard invece riconosce le conquiste della psicologia e le mette al servizio della sua ricerca antropologica, senza abbandonare comunque una visione olistica. La teoria del desiderio mimetico è inevitabilmente derivata da alcune tesi del padre della psicanalisi, l'austriaco Sigmund Freud, colpevole di aver intuito per primo la mimesi del soggetto desiderante nei confronti di un modello ma di non essere riuscito a comprenderne appieno il ruolo operativo. Infatti nella sua formulazione del complesso edipico quale spiegazione della proibizione dell'incesto, Freud individua nel padre quella funzione di mediatore che presso il bambino darà origine all'identificazione con la figura paterna, un'identificazione di ruolo e di desideri: il bambino desidera essere al posto del padre e desidera ciò che egli desidera, quindi anche la madre. Freud insiste però sul fatto che l'identificazione con il padre sia anteriore a qualsiasi scelta di oggetto e che soltanto dopo l'identificazione si sviluppi l'inclinazione libidica per la madre. In 38


realtà i due momenti convergono in uno solo: il figlio desidera essere il padre e desidera quindi inevitabilmente la madre. Freud intuisce la natura mimetica del desiderio incestuoso ma non la formula mai apertamente, la dissimula distinguendo nettamente il momento dell'identificazione da quello del desiderio, che diviene quindi un desiderio puramente oggettuale (gli effetti mimetici verranno poi riservati alla formazione psichica del Super-io). Girard è chiaramente influenzato da Freud; è infatti palese l'analogia del legame tra padre-figlio-madre e quello tra mediatore-soggetto-oggetto, ma si spinge oltre e chiarisce in maniera più dettagliata i ruoli e le dinamiche di questo rapporto. Infatti il francese si concentrerà sulle conseguenze della condotta mimetica, ovvero la rivalità tra soggetto e mediatore, che invece Freud non ritiene frutto dell'identificazione di uno con l'altro ma prodotto cosciente della mente del bambino (questa inverosimile coscienza in tenera età ha costretto lo psicanalista a introdurre i concetti di Inconscio e Rimozione). Girard non fa altro che fornire uno schema triangolare universale in grado di spiegare non solo la nascita del religioso arcaico, ma anche la questione dell'incesto, completando la teoria del complesso di Edipo formulata da Freud, e verosimilmente può essere assunta a chiave di lettura di molti altri fenomeni culturali e sociali. Infine, Girard si pone in netta contrapposizione con un altro antropologo francese, Claude Lévi-Strauss, maggiore esponente della corrente strutturalista, secondo cui i miti di un popolo sono il prodotto di una genesi puramente logica, una successione razionale di simboli, dietro al quale non si nasconde un evento reale. In pratica è impossibile risalire in maniera certa o perlomeno intuitiva all'origine della religione, ci si deve “accontentare” di riuscire a dare significati coerenti e condivisi al fenomeno, secondo un'ottica strutturale. Questo è inaccettabile per Girard che invece vede nel mito la testimonianza narrata del sacrificio originario, individua quindi il momento originario da cui tutto ebbe inizio, senza cadere in uno schema classificatorio e combinatorio. Per questo suo approccio verrà giudicato da Lévi-Strauss un positivista, convinto di poter 39


trovare la genesi della cultura e che questa sia più importante del formulare una teoria dei significati e dei simboli. Il fatto è che Girard ritiene che sia inutile attribuire possibili interpretazioni, per quanto possano sembrare valide e giustificate, se non si risale all'origine, al “perché” primordiale da cui ha avuto senso tutto il resto: ogni studio del professore francese mira a dimostrare questo e vi riesce articolando una teoria antropologica convincente che non lascia più nessun dettaglio incompreso, capace di fornire un'interpretazione coerente partendo dall'uomo e dalla sua natura mimetica.

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2.5. Critica e accoglienza del pensiero girardiano Il pensiero dello studioso francese viene spesso messo in discussione dai suoi colleghi sul versante metodologico. Infatti non se ne apprezza la forte tendenza alla sintesi e si mette in dubbio la “scientificità” delle sue ipotesi (Carrara 1985). In controtendenza rispetto alla cultura moderna, solita a differenziare, precisare e distinguere chirurgicamente concetti, pratiche e aspetti diversi dei fenomeni culturali, Girard tende invece a considerarne la complessità, individuando un punto comune che riesca a unificare e spiegare le diversità di uno stesso fenomeno culturale: il meccanismo vittimario come origine del sacro e del religioso e delle istituzioni sociali. Questo punto di vista totalitario è però causa di una eccessiva continuità tra evento fondatore e istituzioni derivate, conducendo a inevitabili incoerenze. Infatti il filo che lega il sacrificio a determinati aspetti della cultura come riti, interdetti e sistema giudiziario è ben teso e resistente, ma rischia di perdere tensione e di spezzarsi quando cerca di collegarsi ad altre realtà come il matrimonio, la nascita, la morte, il pasto. Il legame tra il principio generatore e determinati aspetti culturali e sociali non è abbastanza esplicito ed esauriente, si perde nella generalità e sinteticità delle opere girardiane. Altro punto critico è il considerare le sue conclusioni come una vera e propria ipotesi di carattere scientifico. Ancora una volta Girard non si attiene alla visione culturale comune che considera la validità di un'ipotesi solo dalla presenza immediata e palese di dati certi, ma va oltre, e predilige una visione d'insieme, complessiva e unitaria, che aiuti a capire se il principio preso in considerazione spieghi ed esemplifichi il fenomeno studiato. Perciò l'importanza e la funzione dell'evento fondatore, il sacrificio originario, è assunto a principio creatore della cultura non perché confermato e ribadito in documenti e prove tangibili ma perché unica spiegazione possibile ed esauriente. Il carattere totalitario e scientifico della teoria del sacrificio può essere spiegata meglio 41


ponendola in analogia con la teoria dell'evoluzionismo di Darwin: come la teoria della selezione naturale delle specie è il principio razionale di spiegazione della diversità di forme della vita, così il meccanismo vittimario è il principio chiarificatore dell'origine di forme culturali infinitamente diverse. Ed entrambe le teorie devono essere definite ipotesi non suscettibili di una certezza probatoria sperimentale a causa del periodo infinito necessario alla produzione dei fenomeni presi in considerazione, ma che si impongono come tali per il loro potere esplicativo. Girard non ha ottenuto solo critiche ma anche profonda ammirazione e condivisione delle sue teorie. Un esempio di ciò è, non solo la nutrita letteratura critica alle sue opere, ma anche i numerosi incontri di studi e conferenze dedicate alla sua figura e alle sue opere. Uno su tutti lo storico convegno tenutosi a Falconara Marittima nel marzo 2006, durante il quale si riunirono, su impulso della casa editrice Transeuropa, che aveva appena varato la collana “Girardiana” (comprendente le ultime opere scritte da Girard8), studiosi di letteratura, di filosofia, di antropologia e di scienze politiche provenienti da tutta Italia, insieme a una compagine di scrittori e di critici interessati al problema del realismo in letteratura. Si tenne anche un memorabile confronto in videoconferenza tra Girard e Gianni Vattimo sul tema “Fede e relativismo”9.

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2005 Miti d’origine. Persecuzione ordine culturale, Transeuropa, Ancona; 2006 Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antropologia, a cura di Pierpaolo Antonello, Transeuropa, Massa. Gli atti del convegno sono stati raccolti in una raccolta di saggi edita da Transeuropa: Antonello, P., Fornari G. (a cura di), 2009 Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, Transeuropa, Massa.

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Capitolo 3

Desiderio di letteratura Mensogne romantique et vérité romanesque rappresenta il punto di partenza dell'antropologia religiosa di René Girard, in cui l'autore individua una struttura che, scoperta all'interno del mondo della letteratura, applica e adopera come spiegazione antropologica del fenomeno religioso. Lo schema triangolare del desiderio può essere quindi considerato una valida chiave di lettura di altri aspetti culturali, come la letteratura, territorio originario in cui si manifesta la sua validità.

3.1. La struttura del desiderio Attraverso l'analisi di alcuni gradi romanzi della letteratura europea, Girard elegge questo genere come luogo di rivelazione della natura del desiderio umano. Don Chisciotte, Emma Bovary, Julien Sorel e i personaggi dostoievskiani agiscono sul palcoscenico del romanzo diretti dall'ambizione di ottenere qualcosa che è già posseduto o desiderato da qualcun altro. Ciò avviene in maniera inconsapevole: questi personaggi si dimostrano convinti che la passione e il trasporto che li fa vivere per raggiungere il proprio scopo, ottenere l'oggetto o la persona desiderata, sia un sentimento sbocciato in modo spontaneo nel loro essere. In realtà, il loro desiderio è sempre preso in prestito da un personaggio che si porrà nei loro confronti, consciamente o no, come mediatore. La presenza di questa figura provoca una deviazione nella linea di congiunzione tra soggetto e oggetto desiderato, passando attraverso il mediatore, e rivelando così la natura mimetica di ogni volontà di desiderio. Dietro questa rivelazione si nasconde l'intento di “smontare” la tesi romantica sulla completa spontaneità delle passioni 43


e delle azioni umani, e rendere palese invece l'importanza per l'uomo, sia nel romanzo che nella realtà, dell'influenza nella sua vita dei suoi simili, della sua cultura, della società in cui vive. I tre elementi cardine dell'atto del desiderare sono il soggetto, il mediatore e l'oggetto desiderato, e il loro rapporto è ben rappresentato da un triangolo. Le vicende di Don Chisciotte della Mancia aiuteranno a capire lo schema triangolare: Don Chisciotte decide di dedicarsi alla vita cavalleresca, parte con cavallo e scudiero alla ricerca di avventure e battaglie per dimostrare il proprio valore e aiutare i deboli in difficoltà. La sua scelta è la conseguenza della lettura dei romanzi cavallereschi a cui si dedica nei momenti di ozio e del fascino subito dalla leggendaria figura del cavaliere errante Amadigi di Gaula, protagonista delle avventure lette da Don Chisciotte. Questo personaggio letterario rappresenta il mediatore, il modello da prendere a riferimento e imitare: Don Chisciotte desidera fare ciò che fa Amadigi, fa propri i suoi desideri e ambizioni, in sostanza desidera essere lui. Ecco che quindi il desiderio rivela non solo la sua natura mimetica ma anche quella metafisica: il desiderio secondo l'altro è in realtà desiderio di essere l'altro. Girard analizza in maniera minuziosa i rapporti tra i tre vertici del triangolo, il loro ruolo, le variabili possibili, le conseguenze del loro legame. Si concentra inizialmente sul primo lato, quello che congiunge il soggetto al mediatore, e sempre tenendo come punto di riferimento i romanzi, distingue due tipi di influenza del modello sul soggetto: Le opere romanzesche si possono dunque raggruppare in due categorie fondamentali, nel cui ambito sono possibili infinite distinzioni secondarie. Parleremo di mediazione esterna laddove la distanza tra le due sfere di possibili, che s'accentrano rispettivamente sul mediatore e sul soggetto, sia tale da non permetterne il contatto. Parleremo di mediazione interna laddove questa stessa distanza sia abbastanza ridotta perché le due sfere si compenetrino più o meno profondamente. (Girard 1965:13)

Il primo caso è quello ben rappresentato da Don Chisciotte o da Emma Bovary, i cui desideri di gloria e onore nel primo, di lusso e romanticherie nella seconda, 44


sono frutto dei protagonisti delle loro letture romanzesche: soggetto e mediatore appartengono a due mondi diversi, uno reale e l'altro non, non vi può essere nessun contatto tra i due e perciò la venerazione dell'uno nei confronti dell'altro è manifesta e proclamata a gran voce. Il secondo caso si trova sempre presente nel romanzo di Stendhal, Le rouge et le noir, in cui i diversi desideri dei personaggi sono sempre suggeriti da mediatori appartenenti allo stesso mondo sociale in cui è ambientato il romanzo: Julien Sorel è l'oggetto del desiderio di due nobili signorotti della campagna francese i quali intendono assumere il giovane come precettore dei loro figli, spinti dal timore che l'altro voglia fare lo stesso; ancora, Julien vorrebbe che il suo amore per Mathilde de la Mole sia ricambiato e per ottenerlo corteggia un'altra dama il cui amore verso il giovane dovrebbe provocare, per imitazione, il desiderio di Mathilde per Julien. La differenza con la mediazione esterna consiste, oltre che nella distanza tra i due, nella prima di tipo “spirituale” e nella seconda “geografica”, anche nel fatto che la mediazione questa volta è celata con cura, affinché il desiderio possa essere soddisfatto. Il mediatore è il modello da imitare, colui che aiuta a far nascere il desiderio, ma allo stesso tempo ne può determinare il fallimento poiché rappresenta un ostacolo sulla strada per ottenere l'oggetto stesso. La mimesi si trasforma in rivalità e accanto alla venerazione sottomessa sorge il rancore più profondo, provocando il sentimento chiamato odio. I due tipi di mediazione condividono, oltre allo slancio verso il mediatore (positivo e imprescindibile in quella esterna, negativo e concorrente in quella interna), un processo di trasfigurazione nei confronti dell'oggetto desiderato. “L'oggetto non è che un mezzo per raggiungere il mediatore. É all'essere del mediatore che mira il desiderio”. (Girard 1965:49) Il desiderio oggettuale nasconde quindi un desiderio metafisico, il voler cambiare vita, il cercare di ottenere uno sconvolgimento della propria esistenza. Girard coglie questo aspetto metafisico soprattutto in Proust e Dostoevskij, i quali ben ritraggono questa “sete” di cambiamento e iniziazione a una vita diversa. Causa imprescindibile di 45


questo desiderio è la ripugnanza, l'odio e il rifiuto di se stessi, ed è questa una maledizione che la soggettività romanzesca si auto infligge, isolandosi dal resto del mondo. Pretende da se stessa un cambiamento che da sola non è in grado di sostenere, l'esigenza della soggettività nei confronti di se stessa le deriva dalla fede in una promessa fallace proveniente dall'esterno. La promessa è rappresentata appunto dal modello che mostra al soggetto che è possibile essere diversi e sembra che il raggiungimento di questo cambiamento sia conseguenza dell'ottenimento dell'oggetto desiderato. Tutto ciò si rivela falso quando l'oggetto dei desideri giunge nelle mani del soggetto, rivelando in maniera sconcertante e inequivocabile l'illusione di quel desiderio. Soddisfatto il desiderio oggettuale, cade in pezzi anche il desiderio metafisico, senza che si sia verificato alcuna metamorfosi della soggettività. La delusione metafisica è legata all'intensità del desiderio che, a sua volta, dipende dalla distanza tra mediatore e oggetto: minore è la loro distanza, maggiore è il desiderio verso l'oggetto. Il mediatore, molto lontano, propaga su una superficie vastissima una luce diffusa. Amadigi non designa niente di preciso, ma designa un po' di tutto. Le avventure si susseguono a ritmo accelerato ma nessuna, da sola, può fare di Don Chisciotte un secondo Amadigi. Per questo l'eroe non ritiene necessario accanirsi contro l'avversa fortuna. A mano a mano che il mediatore si avvicina la “virtù metafisica” aumenta e l'oggetto diventa “insostituibile”. (Girard 1965:74)

Aumentando la funzione metafisica dell'oggetto, simbolo della metamorfosi auspicata dalla soggettività, diminuisce la sua funzione fisica e si svuota di valore concreto. Ma una volta ottenuto l'oggetto tanto ambito, questo rivela solamente le sue proprietà oggettive mentre si dilegua qualsiasi tipo di “virtù metafisica”: è questo lo scacco metafisico, che farà esclamare al Julien stendhaliano: «Tutto qui!», e che farà sprofondare i personaggi dostoevskiani in uno smarrimento così profondo da condurli al suicidio. Questo momento dimostra alla soggettività l'astrazione e l'assurdità del proprio desiderio, conduce il soggetto desiderante in un momentaneo sconforto 46


da cui si risolleva inseguendo un nuovo desiderio: questo può essere suggerito dal vecchio mediatore oppure il personaggio può scegliere un nuovo modello da imitare. Una o l'altra possibilità dipendono ancora una volta dal tipo di mediazione, e ha conseguenze diverse sulla soggettività romanzesca: se il mediatore è lontano e unico, come il paladino Amadigi per Don Chisciotte, si cercheranno nuovi desideri, diversi e molteplici, ma sempre suggeriti dall'antico mediatore, e l'eroe conserva una propria unità, costruita su menzogne e illusioni; se il mediatore è vicino è più facile invece rivolgersi a nuovi modelli, sempre appartenenti al mondo del soggetto, e subire più mediazioni contemporanee, come l'uomo del sottosuolo di Dostoevskij, frantumando la soggettività in molteplici personalità. Il fenomeno della mediazione contemporanea è possibile perché il desiderio mimetico è contagioso. Ancora una volta Girard sceglie Don Chisciotte per dimostrarcelo: vittima del desiderio triangolare non è solo l'aspirante cavaliere ma anche il suo scudiero, Sancio Pancia, il quale, stando a contatto con il suo padrone finisce per imitarlo, sviluppando nuovi desideri presi in prestito da lui, come il voler essere governatore di un'isola. Tali sogni di “gloria” non nascono spontaneamente in Sancio, ma sono suggeriti dai comportamenti e dallo stile di vita di Don Chisciotte, cosicché da soggetto diviene, inconsapevolmente, mediatore. Il contagio e l'avvicinamento provocano la doppia o reciproca mediazione, e l' ”epidemia” può estendersi a qualunque individuo nel momento in cui viene assunto a modello da imitare: “da doppia che era, la mediazione reciproca può divenire tripla, quadrupla, multipla. Può finire per interessare l'intera collettività”. (Girard 1965:91) Il rovescio della medaglia è il fatto che se il soggetto manifesta il proprio desiderio, può divenire agli occhi degli altri mediatore di quello stesso desiderio, causando involontariamente l'insorgere di molteplici rivali. Il segreto per evitare ciò è la dissimulazione, che permette di mostrare un desiderio diverso, spingendo i possibili rivali lontano dal vero oggetto del proprio desiderio. In questo caso 47


prendiamo l'esempio di Julien ne Le rouge et le noir: egli ama Mathilde e per essere ricambiato non solo “mette in scena” un desiderio che ella possa imitare (ovvero il desiderio per Julien da parte di un'altra donna) ma simula anche indifferenza nei suoi confronti. L'indifferenza non è mai mera assenza di desiderio, ma è la facciata esteriore di un desiderio di se stessi: si presenta così agli occhi di Mathilde un secondo desiderio da imitare, quello di Julien nei confronti di se stesso. Il personaggio stendhaliano raddoppia le possibilità di contagio e centra il suo obbiettivo. Dopo lo scacco metafisico, di solito il soggetto si rivolge a nuovi desideri, e la sua ricerca è sempre più accanita in seguito al coronamento dei suoi successi: ogni volta il desiderio soddisfatto rappresenta una delusione che lo spinge a cercare qualcosa di più inaccessibile, quindi di più prezioso. Maggiore è l'ostacolo che lo allontana dall'oggetto, maggiore sarà il suo valore metafisico e lo condurrà all'ennesima delusione. “Nel desiderio “normale” era l'imitazione a produrre l'ostacolo; ora è l'ostacolo a produrre l'imitazione” (Girard 1965:155). Il soggetto diviene masochista, intuisce il rapporto necessario tra infelicità e desiderio metafisico ma non per questo vi rinuncia: è pronto a tutto pur di ottenere il suo premio e l'intensità del desiderio lo induce ad accelerare il processo, scegliendo un desiderio che presenti maggiori ostacoli e un mediatore implacabile. Ovviamente il soggetto non desidera la vergogna, l'umiliazione, la schiavitù, ma è cosciente che solo attraverso il Male raggiungerà la sua felicità, potrà entrare in contatto con l'aura sacra che circonda il suo mediatore. Quando il masochista è stanco di subire, da “martire” diviene carnefice: il masochismo evolve in sadismo, in un vero e proprio capovolgimento “dialettico” in cui il soggetto diviene mediatore. Il sadico imita l'essere del suo mediatore nella sua funzione di persecutore ma si tratta solo di un'illusione: il sadico riconosce nella sua vittima se stesso, la sua vera identificazione è con l'altro che soffre e non in colui che lo perseguita. L'essere del suo mediatore rimane ancora una volta lontano e irraggiungibile, accrescendo il suo prestigio e il suo valore 48


divino. Giunge lo stadio del pessimismo: la consapevolezza di non poter raggiungere il suo modello porta alla resa, alla consapevolezza che il Male del mediatore trionferà e lo distruggerà. La naturale evoluzione da masochismo a sadismo si ritrova narrata ne Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij: il protagonista è tormentato dal proprio senso di inadeguatezza che lo fa sentire inferiore anche a coloro che in realtà disprezza e odia. Dopo aver subito diverse umiliazioni decide di risollevarsi e affermarsi in società, frequentando dei vecchi amici. Il loro meschino comportamento nei suoi confronti non farà altro che farlo sprofondare in una maggiore solitudine e abiezione, ma non per questo rinuncia a voler essere alla loro altezza. Dopo aver subito, assume il loro atteggiamento falso e crudele nei confronti di una prostituta che illude e poi violenta: la metamorfosi sadica è completata, non porta a una redenzione del protagonista ma solo all'ennesima identificazione con il ruolo di vittima. L'unica via di uscita dal triangolo del desiderio mimetico ce la rivela Proust nell'opera La recherche du temps perdu: si tratta della memoria e del ricordo, rappresentati dalla madeleine del romanzo, in grado di far rivivere il desiderio puro, senza più l'influenza del mediatore. La memoria priva lo slancio desiderativo della sua contraddizione basilare, il connubio di mediazione e rivalità. Nei ricordi è possibile ritrovare quel desiderio spontaneo tanto celebrato dal Romanticismo e riconoscere la reale portata del ruolo del mediatore: il desiderio originale può adesso essere condannato in tutta la sua contraddittorietà. Il ricordo rappresenta la salvezza del soggetto, restituisce realismo al desiderio. Questo momento fondamentale trova posto, di solito, alla fine del romanzo, nella conclusione che rappresenta il riscatto dalla schiavitù del desiderio. Don Chisciotte, Julien Sorel e i personaggi dostoevskiani vivono una vera e propria conversione in punto di morte, pronunciando parole che contraddicono apertamente le idee di un tempo: nell'estremo momento vitale è possibile osservare tutto il tempo trascorso, riviverlo da un'angolazione diversa e rinunciare al desiderio metafisico, sconfessare il modello tanto venerato. La 49


verità emerge, il desiderio secondo l'altro è sostituito dal desiderio secondo sé: si profila il momento tanto sognato del nuovo inizio, del cambiamento, con un nuovo rapporto con gli altri e con se stessi. “Tutte le conclusioni sono temps retrouvé” (Girard 1965:255). L'atto conclusivo dei soggetti schiavi del desiderio triangolare coincide con lo scopo ultimo del romanzo, cioè svelarne la natura mimetica, in contrapposizione ai miti letterari del Romanticismo. Gli autori scelti da Girard dimostrano proprio questo, e nel farlo utilizzano tecniche narrative differenti. Stendhal ricorre all'opposizione fra personaggio autentico, l' “essere di passione”, e l' “essere di vanità”: il primo rinuncia a piegarsi alla dialettica mimetica, mentre il secondo invece ne è schiavo. Julien rappresenta l'eccezione quando alla fine sceglierà M.me de Rênal invece che Mathilde, andando contro alla norma del desiderio mimetico. Desiderio spontaneo e desiderio mimetico convivono l'uno accanto all'altro ed interagiscono reciprocamente in innumerevoli giochi di prospettiva, a cavallo tra mediazione interna ed esterna. Tutto si conclude alla fine però, nel momento culminante della conversione finale, con la rinuncia al desiderio mimetico, per dare voce ai reali desideri del sé. Altro stratagemma narrativo è invece l'errore, denunciato dallo scrittore perché lo ha superato e, dalla sua posizione privilegiata di sopravvissuto al meccanismo triangolare, è in grado di ergersi a voce profetica. Se ciò è possibile lo si deve al fatto che egli stesso è stato un personaggio di quella commedia degli equivoci che ora dirige: “Il romanziere è un eroe guarito dal desiderio metafisico” (Girard 1965:202). Questo è il caso del narratore in Proust e Dostoevskij. Se in Stendhal era sufficiente distinguersi dal resto della gente, essere l'eccezione, per far emergere la verità del desiderio metafisico, in Proust ciò non è più possibile perché la dissimulazione delle vittime della mediazione è totale: la finzione lucida e cosciente è diventata involontaria e si è radicata nei personaggi. Il romanziere dovrà adottare tempi narrativi più ampi e operare confronti tra fatti 50


anche molto distanti tra loro: solo una visione panoramica di tutti i cambiamenti e i tentativi di ottenere l'oggetto desiderato riveleranno tutta la loro inconsistenza. In tale prospettiva l'autore “nasconde i sentimenti” e “rivela le parole”, perdendo la sua funzione esegetica: il personaggio si costruisce attraverso il turbinio dei suoi comportamenti contraddittori provocati dal desiderio ed è compito del lettore trarre le conseguenze da ciò che osserva. Questo stile narrativo è condiviso da Proust ma portato ai massimi livelli da Dostoevskij. Il saggio di Girard si rivela essere un accurato e interessante viaggio attraverso alcuni capolavori letterari, con un punto di partenza che è la struttura triangolare del desiderio e un punto di arrivo che è la menzogna romantica. Lo scopo del suo lavoro è infatti soprattutto denunciare l'errata critica di matrice romantica, incapace di comprendere i lavori di questi autori e il loro reale scopo: la scoperta, attraverso il romanzo, del ruolo della mediazione nei rapporti umani.

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3.2. L'antropologia interpretativa al servizio della letteratura Nell'opera di Girard si trovano fuse insieme critica letteraria e profonda attenzione antropologica: l'analisi dei comportamenti dei vari protagonisti letterari conduce a conclusioni e osservazioni valide anche per l'uomo che vive nel mondo reale. Si tratta di un interessante uso del materiale letterario per andare a delineare una vera e propria fenomenologia del desiderio umano, e ancora una volta la letteratura dimostra il suo valore nella decodifica del comportamento culturale umano. Allo stesso tempo, è possibile intravedere un altro tipo di interazione tra le due discipline: prima di tutto dalla letteratura all'antropologia, ma anche, al contrario, dall'antropologia alla letteratura. L'analisi compiuta dal professore francese infatti presenta le caratteristiche di un'etnografia, prodotta dopo un lungo periodo di osservazione del fieldwork.: al posto di uno sperduto villaggio tribale nel cuore del continente africano troviamo la Spagna del Seicento e i suoi cavalieri, la nobiltà e i salotti mondani francesi, la desolazione e l'oscurità dell'impero russo. Dopo la lettura delle pagine, lunghe riflessioni e un'importante attenzione ed empatia con i personaggi, l' “etnologo” Girard riesce ad ottenere un quadro complessivo e dettagliato dei mondi che si trova davanti, tanto da poter leggere i significati nascosti dietro ogni singola azione e parola. Si potrebbero cogliere, in particolare, analogie e punti di contatto con l'approccio interpretativo messo a punto da Clifford Geertz nella raccolta di saggi Interpretation of cultures. L'antropologia interpretativa formulata da Geertz si basa su due intenti fondamentali: spiegare come la variabilità culturale sia radicata nell'essere biologico dell'uomo e, al contempo, fornire un apparato teorico e concettuale in grado di esaltarne il significato antropologico-culturale. Per quanto riguarda il primo punto, come spiega Francesco Remotti nell'introduzione all'edizione italiana dell'opera, l'antropologo ritiene che “la cultura interviene ben prima che l'evoluzione biologica abbia condotto l'uomo 52


ad essere quello che è ora.[...] essa è un ingrediente vitale e indispensabile della stessa natura umana considerata da un punto di vista biologico” (Geertz 1987:15). Tenuto ben presente che quindi le manifestazioni culturali rispondono a un preciso profilo biologico, ogni gesto umano acquisisce un significato proprio e definito all'atto del suo compiersi, e non successivamente. Il conferimento di significato non è un fatto individuale ma un fatto pubblico, e ciò permette di essere universalmente capito e poi organizzato. Le due cose coincidono: l'organizzazione della cultura si identifica con il significato che “pubblicamente” si conferisce ad essa, perciò il valore significante di ogni azione rinvia a una concezione semiotica della cultura, metaforicamente rappresentata da una ragnatela di significati o di interpretazioni. Compito dell'antropologo è intraprendere una ricerca di significati attraverso un modello interpretativo. Il lavoro sul campo consiste nell'analizzare un gesto, un evento o qualsiasi altro tipo di comportamento culturale attraverso strutture di significato valide in quel contesto, per coglierne l'importanza e il senso. É come tradurre una frase dal latino: le desinenze delle declinazioni e dei verbi costituiscono quelle strutture di significato che ci permettono di capire il significato della parola e tradurla. Altrettanto è in antropologia: la cultura è un contesto, qualcosa entro cui tutti i fatti possono essere descritti in maniera intelligibile, possono essere prima compresi e poi tradotti, cioè interpretati. Per spiegare il processo di interpretazione, Geertz prende in prestito il concetto di “descrizione densa” di Gilbert Ryle, illustrato attraverso l'esempio dei ragazzi che contraggono la palpebra destra. Dice Ryle di prendere in considerazione due ragazzi i quali, entrambi, contraggono rapidamente la palpebra dell'occhio destro: nel primo si tratta di un tic fisico, involontario, nel secondo invece si tratta di un ammiccamento, un segno d'intesa rivolto a un coetaneo o a qualcun altro. I due ragazzi, colti nell'atto di contrarre la palpebra da una macchina fotografica, non mostrano nessuna differenza che faccia comprendere il diverso significato del gesto: un qualsiasi individuo che non conosce il contesto in cui si compie 53


quell'azione non è in grado di distinguere l'ammiccamento dallo spasmo muscolare. Si può aggiungere ancora un terzo ragazzo il quale, contraendo la palpebra intende fare la parodia del ragazzo con il tic all'occhio. Lo stesso gesto, compiuto nello stesso identico modo, assume questa volta un significato e un messaggio ancora diverso, uno tra le miriadi che può celare. Si distingue quindi tra “descrizione esigua”, ciò che il ragazzo sta facendo (contrarre rapidamente la palpebra destra) e “descrizione densa” (sta contraendo la palpebra destra per per parodiare il tic fisico dell'amico). La “descrizione densa” è, quindi, riconoscere il significato e l'interpretazione del gesto osservato e può rappresentare, in senso lato, il lavoro etnografico, il saper interpretare correttamente una manifestazione culturale conoscendo la gerarchia stratificata di strutture significative che danno senso al gesto compiuto. Se manca questa conoscenza di base il gesto è interpretato erroneamente, l'ammiccamento può essere scambiato per un tic fisico e perdere il suo messaggio comunicativo. L'abilità dell'etnografo è operare l'interpretazione corretta, all'interno del contesto giusto. Questa stessa abilità è richiesta a Girard quando, leggendo le avventure di Don Chisciotte, davanti a quella che può essere considerata a buon diritto la “descrizione densa” delle sue imprese fornitaci dall'autore, interpreta queste come espressione di un desiderio mediato e non come desiderio spontaneo, o ancora, come follia di una mente facilmente influenzabile e distaccata dal mondo reale. A questo primo punto in comune se ne aggiunge un secondo, particolarmente caro a Geertz: l'antropologia oltre a essere interpretativa, è particolaristica. Le interpretazioni antropologiche su vasta scala sono il risultato di un'analisi particolare, di contesti isolati o di fenomeni specifici: solo attraverso l'osservazione microscopica, appunto, è possibile operare collegamenti e giungere a teorie e ipotesi generali. “Le scoperte etnologiche non sono privilegiate, sono particolari: notizie da un altro paese” (Geertz 1987:62). Anche questo punto si può ritrovare nel lavoro di Girard dato che, solo dopo lo studio dei singoli romanzi, è in grado di giungere a una prima considerazione generale a 54


proposito di un autore e poterlo considerare un romanziere del desiderio mediato. Da questa prima generalizzazione può giungerne a una seconda, ancora più ampia, che gli permette di individuare e collegare più autori caratterizzati da una narrazione triangolare, in un contesto temporale e spaziale sempre più vasto. Il movimento è dal microscopico al macroscopico, dal singolo romanzo all'autore e a un genere letterario ben preciso. E ancora, attraverso questo sguardo generale, può individuare le caratteristiche del moto desiderativo, individuarne i punti cardine della struttura triangolare, delineare una vera e propria fenomenologia del desiderio e strutturare una teoria che sia di supporto alla tesi del suo saggio. A seguito di queste considerazioni, è possibile individuare facilmente l'apporto antropologico alla critica letteraria portata avanti in Mensogne romantique et vérité romanesque. Un apporto che più in generale proviene dall'intera disciplina antropologica che non nello specifico dai saggi di Geertz: l'approccio interpretativo è infatti una prospettiva di ricerca e analisi già presente nell'antropologia come parte degli studi di antropologia simbolica, e affonda le sue radici nella filosofia e nelle scienze umane del secondo dopoguerra in Europa (Fabietti 2011). Geertz ebbe il merito di rendere esplicito questo atteggiamento in una vera e propria tecnica e metodologia di lavoro. In ogni caso, è interessante sottolineare le somiglianze tra i due studiosi

soprattutto in virtù del

proseguimento del lavoro del francese vero l'antropologia religiosa, in cui l'uomo dimostra di essere un interpretante attivo nel compiere il sacrificio rituale.

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3.3. Lettura come desiderio Il triangolo disegnato da Girard viene utilizzato dal suo stesso ideatore per spiegare l'origine della ritualità religiosa: ne deriva che la struttura da lui scoperta all'interno dei romanzi è un paradigma utile per poter spiegare diversi fenomeni culturali che coinvolgono l'uomo, dal suo agire e costruire relazioni con gli altri, spinto da un desiderio, all'istituzione della divinità e dell'organizzazione sociale. Verosimilmente si può utilizzare questa stessa chiave di lettura per analizzare e riflettere su altri comportamenti culturali, primo fra tutti, la culla della scoperta girardiana: la letteratura. É sufficiente sostituire ai tre vertici il soggetto, l'oggetto e il mediatore con i tre elementi imprescindibili in un prodotto letterario, cioè il lettore, l'autore e il testo. La disposizione con cui queste tre componenti attive possono essere sistemate lungo il perimetro del triangolo sono due e permettono una diversa analisi del desiderio triangolare della letteratura: il desiderio di leggere e il desiderio di scrivere. Cosa spinge l'uomo a prendere in mano un libro e immergersi nelle vite di personaggi spesso molto distanti da lui? Qual'è il mediatore che ispira questo desiderio? Ponendo alle basi del triangolo il lettore e il testo, al vertice, in funzione di mediatore non vi può che essere l'autore: costui mette a disposizione di tutti le storie e i mondi che il suo talento artistico è riuscito a concepire e creare su fogli di carta, attirando a sé, appunto, il lettore. Per capire come questi tre elementi interagiscano tra loro è necessario capire cosa sia una narrazione e cosa rappresenti per soggetto e mediatore. L'antropologo Victor Turner avanza alcune congetture sulla genesi della narrativa, individuando il suo atto di nascita all'interno di rituali comunitari compiuti dall'uomo primitivo, come il rito della semina, della raccolta, e così via10. Il rituale, presso le popolazioni primitive, rappresentava un importante momento di condivisione a cui partecipava l'intera comunità e in cui il singolo 10

Si veda Turner, V., 1982 From Ritual to Theater: The Human Seriousness of Play, New York: Performing Arts Journal Publications [trad. it. Di P. Capriolo, 1986 Dal rito al teatro, Bologna]

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ricopriva una funzione fondamentale per la buona riuscita del rito. Successivamente, l'esecuzione dei rituali venne affidata a personalità particolari, ammirate e rispettate dall'intera comunità, cioè gli sciamani e i sacerdoti che praticano il rituale, compiendo gesti e recitando formule come se seguissero un copione. Questo sembra essere per Turner l'origine del teatro, che possiamo considerare come una forma particolare di narrazione, basata sul “senso mimetico” umano. Elemento essenziale è però il linguaggio che ci permette di riferirci a oggetti che non sono presenti o a cose astratte, e che grazie alla grammatica dei casi ci permette di distinguere, parlando o scrivendo, secondo determinate strutture diverse a seconda della lingua, l'agente, l'azione, chi la riceve, come, in che ambito, e altre informazioni che otteniamo anche senza bisogno di una palese manifestazione mimetica di ciò che si vuole comunicare (Bruner 2002). Queste caratteristiche permettono di costruire narrazioni verosimili o del tutto fantastiche, in epoche e luoghi reali o inventate, in tutte le epoche passate o che devono ancora arrivare, senza nessun freno, se non l'incapacità di esprimersi attraverso il linguaggio umano. Questi tre aspetti sono centrali nel comprendere l'importanza del testo, della narrativa e della letteratura, per il lettore: il suo originario significato di condivisione culturale e di momento comunitario, il suo impatto mimetico su chi “assiste” all'azione messa in scena dalle parole, la possibilità di esprimere l'impossibile. Il momento narrativo, secondo un determinato rituale e in occasione di eventi importanti che scandivano la vita comunitaria, rappresenta il punto zero del successivo sviluppo letterario: la pratica del raccontare, naturale nell'uomo per mezzo del linguaggio e delle sue possibilità, hanno condotto ad archetipi narrativi e modalità d'espressione che pian piano diventeranno generi letterari e sistemi espressivi sviluppatisi lungo tutta la storia della letteratura. Tutto ciò, almeno inizialmente, si verifica, si è detto, in occasioni particolari: quelle figure socialmente delegate si incaricavano di offrire una sponda 57


rituale/culturale in quei momenti di crisi che minacciavano l'esistenza stessa della comunità. Davanti al pericolo di carestie, epidemie, guerre e così via, l'uomo dimostra la caratteristica tipica della sua specie di affrontare la criticità e superarla. Il mezzo per oltrepassare la crisi è ordinarla, darle un senso, addomesticarla attraverso la narrazione, e in particolare, nelle società primitive, attraverso il mito. Questo patrimonio di storie fantastiche cerca di offrire un modello di azione che guidi la comunità, e più in generale l'uomo, verso una via di uscita. E ancora una volta risulta fondamentale un'altra caratteristica umana, ovvero quello che lo psicologo Lev Vygotskij definisce interiorizzazione 11. Nello specifico, “egli usa l'espressione “interiorizzazione” per descrivere il modo in cui acquisiamo e imitiamo modi di dire tradizionali, per poi appropriarcene” (Bruner 2002:112). Questa abilità, intesa in maniera più ampia e applicata anche in altri ambiti, non è altro che il riflesso della capacità dell'uomo di memorizzare e imparare, per poi imitare. In questo modo “gli esseri umani quanto avranno potuto resistere alla tentazione di emulare le azioni e i modi dei racconti artisticamente presentati dai narratori di storie?” (ibidem). In tutte le epoche, dai miti greci ai romanzi moderni, l'uomo ha sempre avuto a sua disposizione uno “specchio” narrativo in cui potersi riflettere e osservare un'alternativa tra le tante possibili per gestire un momento di crisi, attraverso la sua indole mimetica e l'interiorizzazione. Un esempio di questo ci è fornito dagli stessi romanzi analizzati da Girard: Don Chisciotte non intraprende forse la sua avventura armato di scudo e spada in seguito alla lettura di romanzi cavallereschi? Il lettore quindi ricorre ai testi e alla narrazione in risposta a un bisogno, per rispondere a un'urgenza e individua ciò che gli serve, ciò che desidera per sé, in un romanzo, attraverso le parole dell'autore. Ritorna il disegno triangolare di Girard, con un soggetto che è il lettore che ricerca nell'opera letteraria e, in senso lato, nella letteratura, una soluzione di Alterità, il cui desiderio è mediato dalle parole dell'autore: senza la narrazione 11

Si veda Vygotskij, L., 1962 Thought and Language, Cambridge: MIT Press [trad. it. A cura di Mecacci, L., 2001 Pensiero e linguaggio, Roma-Bari: Laterza]

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proposta dallo scrittore, l'uomo non avrebbe mai individuato proprio quella alternativa come l'unica possibile per se stesso. Esattamente come Madame Bovary non avrebbe mai cercato di fuggire alla vita di provincia inseguendo i suoi amori, se non per la mediazione dei romanzi letti nei momenti di noia, che le hanno mostrato il vuoto della sua esistenza, offrendole una soluzione di “evasione� reale e possibile. La letteratura, come arte del possibile, influenza il nostro modo di pensare e agire.

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3.4. Scrittura come desiderio Ribaltando il nostro triangolo, poniamo alla base l'autore e il suo desiderio verso il lettore, e sul vertice in alto il testo. Il desiderio dello scrittore condivide alcuni punti con il desiderio del lettore: non solo la lettura, ma anche la scrittura è riflessiva, anzi autoriflessiva, e aiuta a soddisfare quel bisogno di ordine e significato per il quale il lettore si rivolge a un testo. L'esigenza più forte dell'autore è di mettere un punto fermo, attraverso la scrittura e quindi la comunicazione con l'altro, creare e costruire la propria identità. L'atto del raccontare è infatti il luogo privilegiato in cui ogni individuo può fare i conti con se stesso, su ciò che si è, su quello che facciamo e come lo stiamo facendo, comunicare la propria soggettività attraverso un processo che va dall'interno verso l'estremo, ma anche viceversa: Il suo lato interiore […] è costituito dalla memoria, dai sentimenti, dalle idee, dalle credenze, dalla soggettività. […] Ma gran parte della creazione del Sé è fondata anche su fonti esterne: sull'apparente stima degli altri e sulle innumerevoli attese che deriviamo assai presto, addirittura inconsapevolmente, dalla cultura nella quale siamo immersi. […] Per di più gli atti narrativi diretti a creare il Sé sono tipicamente guidati da modelli culturali taciti e impliciti di ciò che esso dovrebbe e potrebbe essere e naturalmente di ciò che non deve essere (Bruner 2002:73-74)

Il patrimonio interiore su cui poggia la narrazione del Sé è un insieme di elementi personali e unici per ogni individuo, mentre quel patrimonio esteriore costituito dalla cultura e dalle soggettività altrui è qualcosa fuori dal nostro controllo, che “subiamo” e che ci condiziona inconsapevolmente: quando noi raccontiamo agli altri di noi stessi attraverso la narrativa rappresentiamo il Sé percepito dagli altri, il modo in cui gli altri si aspettano che noi dovremmo essere, diverso dalla percezione che noi abbiamo di noi stessi. Perciò ancora una volta la letteratura rappresenta il modo per raggiungere l'Altro, fuori ma anche all'interno di noi stessi. Tutto si gioca in un continuo tentativo di equilibrare queste componenti, senza rinunciare alla propria autonomia esistenziale e volontà di azione, senza lasciarci troppo coinvolgere dalla relazione con l'Alterità. 60


L'esigenza di questo bilanciamento si fa sentire, come per il lettore, in quei momenti di crisi che spingono a un cambiamento. Sono quei punti di svolta presenti anche nei romanzi, necessari per dare inizio alla storia, spingere i personaggi all'azione, intraprendere un cammino che li condurrà alla crescita e all'azione. Ma senza la capacità di narrare e la conoscenza di un linguaggio che ci permetta di esplorare l'impossibile e l'indefinibile, tutto ciò non sarebbe possibile: il nostro Sé non potrebbe essere rappresentato, non ci sarebbe un'identità da raccontare e costruire di volta in volta attraverso le narrazioni, non potremmo andare alla ricerca dell'Altro percepito da chi ci circonda. Il desiderio di un autore, quindi, consiste nel relazionarsi con gli altri, intraprendere una comunicazione produttiva che come un dono o uno scambio (concetti spesso usati come termini di paragone della letteratura) arricchisca se stesso e l'Altro. La letteratura mostra nuovamente le proprie affinità con l'antropologia e la sua attività sul fieldwork, nell'incontro con l'Altro che trova realizzazione nella realtà e tra le pagine delle etnografie. In virtù dell'identificazione tra scrittore e antropologo, quest'ultimo manifesta, nel suo ambito di lavoro, quel desiderio di scrittura già espresso dalla letteratura narrativa, per cui ricorre al mondo delle parole per manifestare questo comune desiderio e costruisce una vera e propria letteratura di genere. Anche l'etnografia presenta i tre aspetti già analizzati per la letteratura in genere: un carattere dialogico e comunicativo, un'esigenza di mettersi in gioco e rilevare la propria soggettività, la possibilità di mostrare la realtà ma, ancora di più, ciò che è tenuto nascosto.

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3.5. Letteratura e antropologia dialogica All'interno degli studi di teoria letteraria si trova un interessante studioso russo, Michail Bachtin, autore di una teoria dell'enunciato capace di svincolarsi dall'ambito della linguistica e poggiante su due principi fondamentali, quello dialogico e quello della polifonia. Per Bachtin, l'enunciato verbale, a differenza della semplice frase, è prodotto in un contesto extra-verbale, cioè sociale: l'enunciato è sempre indirizzato a qualcuno, il parlante è un essere sociale che interagisce con un ascoltatore, in un orizzonte di comprensione e valutazione comune ai due soggetti. Si può considerare ogni enunciato come parte di un dialogo, come unità della comunicazione verbale, e conseguentemente ogni enunciato è in una relazione dialogica o intertestuale con altri enunciati: il principio dialogico è caratteristica insita nella natura del discorso. La dialogicità […] è la dimensione costitutiva di qualsiasi atto di parola, di discorso. Ogni parola si realizza in un rapporto dialogico e risente della parola altrui, è sempre replica di un dialogo esplicito o implicito, e non appartiene mai a una sola voce. […] Ogni testo, scritto o orale, è collegato dialogicamente con altri testi, è calcolato in considerazione di possibili altri testi, che esso può produrre come reazione, anticipando possibili risposte, obiezioni, e si orienta in riferimento a testi precedentemente prodotti a cui allude, replica, obietta, oppure dai quali cerca sostegno, riprendendoli, imitandoli, approfondendoli, ecc. (Ponzio 1992:77-78)

In un contesto strettamente letterario, la dialogicità si riflette nella polifonia del genere romanzesco: la polifonia è uno stile compositivo attraverso il quale l'autore dispone e organizza più voci all'interno del romanzo. L'effetto ottenuto è l'indipendenza del personaggio dall'autore, la sua capacità di esprimere se stesso e la sua visione del mondo in maniera autonoma, con una lingua propria di cui solo è responsabile. Ciò ovviamente è merito dello scrittore che fa in modo che il suo personaggio sia in grado di manifestare la sua logica come parola altrui, come parola del personaggio stesso, diversa se non addirittura opposta all'ideologia dell'autore: il personaggio rappresenta così un'alterità. Nel romanzo polifonico dunque, il personaggio possiede una propria intenzionalità e 62


prospettiva del mondo, un proprio orientamento volitivo-emotivo, in continua interazione con un'altra voce, un altro punto di vista: il romanzo polifonico è anche dialogico. Considerando la teoria bachtiniana da un punto di vista antropologico, emerge una “concezione dell'essere umano dove l'altro svolge un ruolo decisivo. Il principio è dunque questo: è impossibile concepire l'essere al di fuori dei rapporti che lo legano all'altro” (Todorov 1990:129). L'immagine di noi stessi riflessa nello specchio è necessariamente incompleta, abbiamo bisogno dell'altro per completarla, per ottenere la sensazione di una totalità. Per Bachtin, l'intera vita è dialogica, e consiste nell'intraprendere un continuo dialogo con l'altro nel quale ricomponiamo noi stessi. Alla fine prende forma una vera e propria antropologia filosofica, sulla scia di quella contaminazione tra discipline differenti che è tipica dell'età post moderna e che prevede contributi e apporti in ambo le direzioni: come Bachtin invade il campo antropologico, così gli antropologi prendono in prestito per i loro testi etnografici il principio dialogico e polifonico del teorico russo. La necessità di dare voce al nativo e restituire all'incontro etnografico una contemporaneità tra i due soggetti, annullata da narrazioni atemporali e asettiche, spinge l'antropologia a sperimentare nuove forme di scrittura etnografica con un potenziale comunicativo-emotivo maggiore. Un modo per raccontare ciò che è successo sul campo e rendere partecipe il lettore di tutti gli elementi che hanno portato l'antropologo a conoscere ciò che poi racconta è un approccio alla scrittura di tipo dialogico o polifonico: l'autore rinuncia al ruolo di narratore onnisciente e tenta di rendere le voci dei suoi interlocutori nella loro integrità, senza parafrasarle o filtrarle attraverso la propria visione. L'antropologia dialogica viene teorizzata negli ultimi decenni del XX secolo da Dennis Tedlock, il quale sostiene che il dialogo e l'interazione diretta con il nativo rappresenti l'unica via per entrare in un mondo di conoscenze, pratiche, intenzioni e modelli culturali diversi, l'unico modo per “gettare un ponte” tra 63


culture diverse, rispettando le due soggettività in campo. L'osservazione neutrale e silenziosa che è stata da Malinowski in poi la metodologia di indagine sul campo e un resoconto oggettivo di ciò che è stato scoperto comporta la sovrapposizione della soggettività dell'osservatore su quella dell'osservato, si eclissa la validità del momento di interazione che ha permesso di giungere alle interpretazioni e alle intuizioni dell'antropologo. Ponendo come fulcro della monografia etnografica il dialogo con l'informatore si restituisce ruolo attivo al nativo nella fase di ricerca e comprensione antropologica, si riconosce la sua importanza fondamentale nell'accesso a un'altra cultura. Un classico esempio di antropologia dialogica è il lavoro di Vincent Crapanzano, autore di una “storia di vita”, quella dell'arabo del Marocco Tuhami, che l'antropologo ha incontrato regolarmente una volta alla settimana, durante il 1968, interrogandolo sulla sua vita e i legami con la sua cultura. Le conversazioni toccano diversi punti, dalla storia al folklore ad aspetti più intimi e personali, e il rapporto tra i due si è andato consolidandosi acquisendo quasi un carattere filiale tacito. Scrivendo il testo etnografico, Crapanzano è molto attento a mettere in primo piano questa unione e condivisione di soggettività, integrandola con aspetti più teorici e tecnici della disciplina. Tuhami è un libro complicato. È la storia di un marocchino operaio in una fornace, sposato ad uno spirito femminile, una jinniyya, 'A'isha Qandisha. È anche un tentativo di dare un senso a ciò che l'operaio Tuhami ha raccontato a me, l'antropologo, e di comprendere come egli abbia articolato il suo mondo e come vi si sia situato. […] Come ho detto, Tuhami è un esperimento costruito per scuotere l'antropologo e il lettore di antropologia dal loro compiaciuto torpore verso le logiche delle loro rispettive attività: la scrittura e la lettura dell'etnografia. (Fare antropologia è stato normalmente concepito con sempre maggiore angoscia e disorientamento – un'angoscia e un disorientamento che stanno diventando convenzioni della disciplina.) È per questa ragione, come spiego nell'Introduzione, che ho sperimentato una forma non convenzionale per scrivere il mio incontro con Tuhami. Nella sua attuale struttura questo studio consiste in cinque parti inquadrate da un'Introduzione e un Epilogo. L'Introduzione presenta Tuhami e solleva la questione della storia di vita e dei generi che la caratterizzano. La parte prima, la terza e la quinta riportano le narrazioni di Tuhami. Vi sono incluse le mie domande e le mie spiegazioni di riferimenti che possono essere 64


incomprensibili per il lettore che non conosce la cultura marocchina. […] La seconda parte, nella quale tento di comprendere la narrazione dall'interno della cultura marocchina, è per forze di cose statica e dunque nasconde il processo di continuo scambio che l'ha generata. Dice qualcosa sulla natura delle relazioni sociali marocchine, sul significato del pellegrinaggio, sull'alienazione del sé e sull'uso individuale di simboli della cultura e del rituale. Discute la natura delle narrazioni di Tuhami e propone, perlomeno implicitamente, una teoria della narrazione. La quarta parte è una riflessione relativamente personale sulla natura della ricerca sul campo, sull'uso degli assistenti di ricerca e sulla mia relazione con Tuhami. Si incentra in modo particolare sulla conoscenza di altri individui. L'Epilogo parla da sé (Crapanzano 1995:17-19) Un giorno chiesi a Tuhami se fosse mai caduto nella trance della danza Hamadsha. Quando vedo gli Hamadsha danzare il cuore mi batte più forte ma non ho mai partecipato direttamente alla danza. Perché? Non voglio. [Tuhami assume un tono enfatico e distaccato.] Di certo non cado in trance. Le danze jilala e gnawa non hanno effetto su di me. Quando sento gli 'Isawa, battersi il petto, il mio corpo non comincia a tremare. [In alcune danze 'Isawa, gli uomini – detti leoni – cominciano a percuotersi il petto, al ritmo della musica, come fosse un tamburo, arrivando, alla fine della danza, a provocarsi profonde lacerazioni.] Solo sudo un po', ma non vengo trascinato. Se uno prende in giro chi danza sento una rabbia che vorrei ucciderlo. Quando ti è successo? L'anno scorso. Che cosa era avvenuto? Qualcuno rideva degli 'Isawa e degli spettatori che cadevano in trance. Ma prima o poi sarebbe caduto in trappola. Ridere così! [Tuhami era molto turbato.] Pensano che non ci sia nulla di male. Ma forse un giorno, andando a bere ad una fontana, verranno colpite. [Tuhami si mise a ridere.] [Si ritiene che gli jnun gravitino intorno alle fontane.] Oppure, mentre di notte stanno camminando, tireranno un sasso o un pezzo di ferro. Colpiranno così un invisibile e la pagheranno per averlo deriso. [Tuhami allude alla credenza secondo cui lanciare pezzi di ferro, per spaventare gli jnun, rende gli uomini particolarmente esposti all'attacco demonico. Anche nelle pietre ci possono essere jnun.] Che cosa è successo quando ti sei arrabbiato? Il cuore ha cominciato a battermi sempre più forte. La testa diventa pesante. Volevo che nessuno mi parlasse. Tuhami si zittò. Mi guardava in modo evasivo. Capii che ero io l'oggetto della sua rabbia – l'oggetto della sua rabbia per non potersi sottoporre ai rituali di una confraternita che avrebbe potuto aiutarlo. Non aveva ricevuto la chiamata. Il suo linguaggio aveva una sorta di corporeità. In quel momento non mi chiesi perché indirizzasse la sua ira contro di me. Ora credo di aver simboleggiato insieme l'uomo – sempre l'uomo senza un nome 65


– e l'europeo che lo paralizzava, che pur insegnandogli a diffidare dei rituali, non era riuscito a rimuovere il suo intimo bisogno di ricorrervi (Crapanzano 1995:120-121). C'è, almeno per me, un senso elegiaco nella mia ri-creazione di Tuhami. E vedo, mentre sto scrivendo, il caso della nostra esistenza. Com'è potuto accadere che io, un antropologo americano abbia incontrato Tuhami, un operaio marocchino, e sia riuscito ad entrare tanto profondamente nella sua vita, e contemporaneamente abbia permesso a lui di entrare tanto profondamente nella mia? Ora scrivo di lui sperando che un poco di quello che da lui ho imparato serva a correggere i nostri meccanicistici pregiudizi sulla natura dell'uomo e sulle sue relazioni con i suoi simili. Ho situato il mio incontro personale in un edificio teoretico astratto – una conseguenza del mio incontro – che non è né completamente coerente né chiarificatore come avrei desiderato – per richiamare l'attenzione su quei pregiudizi. Sempre con questo bisogno nella mente ho giocato con lo stile e con la forma, senza esserne soddisfatto. Mi son costretto nella posizione teoretica che ritiene possibile conoscere l'esperienza di un altro solo da quel che lui dice (e come può un testo esser compreso senza l'assunto dell'intersoggettività?). Insieme ho difeso la comprensione intersoggettiva più immediata, che è per me necessaria in ogni incontro sociale. È un paradosso, mascherato nei più comuni, convenzionali incontri, che viene alla luce nell'incontro etnografico. Può essere il suo vero marchio. << Probabilmente sono necessari >>, sostiene James Clifford, << specialisti culturali per riconoscere le sottili astuzie della personalità laddove i nonspecialisti sanno vedere soltanto un comportamento tipico >>. Io non lo so. (Crapanzano 1995:179-180)

I testi riportati sono estrapolati da Tuhami: Portrait of a Moroccan e intendono sottolineare le caratteristiche peculiari dell'approccio dialogico: esperienza soggettiva e ricerca sul campo non sono momenti nettamente distinti, ma si fondono nel testo su un unico livello di scrittura, permettendo la convivenza e l'espressione di più soggettività contemporaneamente (l'io che ha svolto la ricerca sul campo, l'io autore del testo etnografico, l'io di Tuhami). Il dialogo, il momento di interazione tra soggettività diverse, la negoziazione diviene oggetto del testo etnografico: “si moltiplicano gli autori, gli io e le voci del campo e del testo insieme, che concorrono alla negoziazione di una realtà condivisa e rappresentata, appunto, nel dialogo” (Fabietti Matera 1997:236). Crapanzano, Dwyer, Dumont e altri dimostrano come la polifonia sia non solo una tecnica narrativa tipica del genere romanzesco, ma anche un concetto 66


chiave per la rappresentazione dell'Altro.

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3.6. Letteratura come tauromachia La pratica della scrittura può assumere, per autori letterari ed etnografi, una valenza più intima e personale, che vede come principale protagonista il proprio Io: la scrittura è il luogo in cui costruire e manifestare se stessi, è il luogo in cui parlare di sé attraverso l'Altro, privarsi delle barriere difensive e lasciarsi scoprire. Michel Leiris condivide questa concezione della letteratura, uno sforzo che induce l'Io a svelarsi e correre il rischio di essere giudicati: lo scrivere è metaforicamente identificato con il pericolo che corre il Torero mentre sfida il toro, davanti al pubblico della corrida. Ciò che mette a repentaglio chi scrive, e che scrive di se stesso, è la propria identità, che rischia di essere fraintesa e distorta, paradossalmente non capita proprio nel tentativo di farsi comprendere. Leiris, critico d'arte, surrealista, aspirante etnologo e scrittore, sperimenta questo pericolo in prima persona, pubblicando il diario della spedizione etnografica francese Dakar-Gibuti. Fino al 1931, Leiris è redattore della rivista francese di stampo surrealista “Documents”, fondata da George Bataille un paio di anni prima, e che sulle sue pagine dava spazio ad ogni tipo di documento, immagine ed espressione artistica che andasse controcorrente all'idealismo europeo e fosse testimone della portata rivoluzionaria della crisi negra, cioè del sempre più ampio interesse e fascino verso le popolazioni primitive africane e le loro pratiche culturali e soprattutto artistiche. In questo ambiente così ricco di spunti e stimoli, Leiris matura una scrittura “giornalistica” dal singolare carattere autobiografico: la critica dell'arte è l'occasione in cui l'opera diviene specchio della propria soggettività e da avvio a un discorso introspettivo, un'etnografia di se stesso. Già a contatto con termini e temi dell'etnologia (il mondo primitivo oggetto di studio antropologico, appunto), la conversione all'etnologia avviene con la partenza per l'Africa, come segretarioarchivista nella spedizione di ricerca sul popolo Dogon. Viaggio di conoscenza e d'iniziazione, più alla scoperta di sé che non 68


dell'Africa, Leiris annota e scrive di continuo durante quei giorni: 533 pagine riportano dati, immagini, impressioni, paesaggi, osservazioni e inquietudini, in una forma ibrida tra diario di viaggio, testo etnografico e autobiografia: “nel testo arduo e (felicemente) irrisolto, che dipana, senza ambizioni di coerenza e di astratta oggettività, il percorso di un viaggio attraverso un'Africa anche, se non soprattutto, interiore, etnologia e autobiografia s'intersecano e si confondono in unità fragile e preziosa” (Zuliani 2002:63). Pubblicate con il titolo L'Afrique fantôme nel 1934, le pagine scritte da Leiris lasciano ampio spazio alla conoscenza e alla scrittura di se stesso, suscitando una dura reazione di rigetto da parte del mondo accademico, che vedeva lo scritto come un duro attacco ai valori e alle regole della ancora fragile disciplina etnologica. Solo recentemente il testo venne riabilitato dalla critica antropologica, ritenendolo un valido tentativo di coordinare l'osservazione di se stessi e quella degli altri, senza ridursi a una semplice mitizzazione dell'Altro, decisamente in anticipo rispetto alle problematiche di rappresentazione etnografica che, solo in tempi più moderni, hanno portato a un intenso periodo di sperimentalismo, e nettamente controcorrente rispetto alla scrittura oggettiva e scientifica della neonata etnografia. L'Afrique fantôme può essere generalmente inteso come un diario di viaggio, e questa forma letteraria costituisce per Leiris l'accesso stesso all'etnologia, la forma più valida per un testo etnografico: egli ritiene che l'etnologia, ponendosi come obbiettivo lo studio di culture appartenenti a società diverse dalla propria,

non può essere definita una disciplina oggettiva e

imparziale per il fatto di dover ricorrere a una figura estranea a quella civiltà, un osservatore che imporrà al nativo questioni e problemi che non si sarebbe posto senza la sua presenza. Ecco che quindi l'etnologia è osservazione ma anche incontro, interazione e contatto tra l'Io e l'Altro, rappresentato poi nel luogo della scrittura, mischiando elementi soggettivi e oggettivi. L'opera contiene anche diversi caratteri peculiari del genere autobiografico, ma allo stesso tempo se ne 69


discosta: il soggetto che scrive non è il protagonista, è il mezzo della scrittura, un'intimità da sacrificare e mettere a nudo, in relazione dialettica con gli elementi oggettivi del viaggio. Il risultato è “a monster”, come lo definisce James Clifford nel 198812: connubio tra saggio e autobiografia, con una trama che intreccia l'intimità dell'uomo, i suoi vizi e aspetti più scabrosi, con il lavoro dell'etnologo, la prassi dell'osservazione e la conoscenza del contesto. Leiris rinuncia a qualsiasi filtro e non distingue tra uomo e scienziato; racconta della noia del viaggio, del timore di essere ingrassato, delle sue medicine, della sua malinconia e del fatto di essere scampato a un conflitto in cui si sarebbe dovuto arruolare, del suo astio verso i nativi e del suo desiderio verso le donne locali, dei futili litigi dei colleghi. Scrive tutto ciò consapevolmente e intenzionalmente, è la sua occasione per entrare ufficialmente nel campo dell'etnologia, e così sarà, dato che d'ora in poi parteciperà ad altre spedizioni di studio e si occuperà del “départment d'Afrique Noire” del Musée d'ethnographie du Trocadéro. Il testo etnografico è ancora una volta inteso al di là del suo mero intento descrittivo ed esplicativo di una cultura, ma in quanto scrittura è il luogo della soggettività di colui che scrive, che si rivolge a un destinatario, reale o immaginario, donandogli e mettendo in pericolo se stesso: ci si espone al giudizio dell'Altro, ci si compromette stimolando gli altri a una nuova concezione di sé, si sfida se stessi nell'affrontare i propri demoni interiori.

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Clifford; J., 1988 The predicament of culture

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3.7. La letteratura e il male “[la letteratura] è irresponsabile. Niente poggia su di essa. Essa può dire ciò che vuole” (Bataille 1991:24). Da questo presupposto fondamentale George Bataille, filosofo, scrittore, antropologo francese del secolo scorso, è in grado di proporre l'identificazione tra la letteratura e il Male. Questa particolare interpretazione trova spazio in un'opera in particolare, dal titolo La littérature et il mal appunto, in cui attraverso l'analisi delle opere di grandi autori europei (Brontë, Sade, Blake, Baudelaire, Proust, Kafka e altri), porta avanti e dimostra il carattere trasgressivo e pericoloso della letteratura. Attraverso il tema del confine tra bene e male e la lotta per andare oltre una convenzionale distinzione tra l'uno e l'altro, Bataille riesce a convincere il lettore che il romanzo è spesso il luogo in cui l'uomo ha il coraggio di sfidare la realtà in cui vive, contravvenendo a una visione etica e sociale che non condivide. Un chiaro esempio di ciò è il romanzo della scrittrice inglese Emily Brontë, al quale è dedicato il primo dei saggi che compongono il libro di Bataille. Wuthering Heights racconta l'amore tormentato tra Heathcliff, piccolo orfanello adottato da una nobile famiglia della brughiera inglese, e Catherine, “sorellastra” e sua compagna di giochi nella prateria. Il loro è un sentimento che nasce nell'infanzia e nell'innocenza dei giochi, nella libertà di un'età non ancora corrotta dalle leggi e dalle convenzioni della società. L'età adulta li costringerà a interrompere quel rapporto così stretto e forte, divenuto troppo sconveniente, e li allontanerà: lei sposa un giovane nobile degno della sua dote, lui fugge in cerca di fortuna e vendetta verso il disprezzo dimostratogli dal fratello di lei. La distanza geografica non attenua però quel loro sentimento svincolato dalle regole sociali, libero e giusto solo nella dimensione selvaggia dell'infanzia. La figura di Heathcliff e l'amore dei due protagonisti rappresenta la lotta ribaltata del bene contro il male: il Bene rappresentato dall'insieme di regole e norme che regolano la società borghese, prima fra tutti l'organizzazione in classi sociali, si trova a subire la 71


rivolta del Male, cioè di un'etica libera da convenzioni che siano a vantaggio della collettività, un'etica incapace di sacrificare la volontà del singolo: Heathcliff non accetta di essere escluso dalla casta borghese in cui si è ritrovato a crescere e non vuole rinunciare a quella libertà vissuta nell'infanzia con Catherine. Il romanzo è il manifesto di questo slancio primordiale, di una volontà trasgressiva, opposta a ciò che che è convenzionalmente ritenuto Bene: un manifesto che può trovare spazio solo nella letteratura, per arrivare direttamente al singolo, al lettore, e “dire ciò che vuole”, rivelare quella parte nascosta, il Male, che è condizione di libertà. “La letteratura non è innocente e, colpevole, doveva infine ammettersi tale […] La letteratura, come ho voluto gradualmente dimostrare, è il sospirato ritrovamento dell'infanzia” (Bataille 1991:11-12). Responsabile del carattere trasgressivo e pericoloso della letteratura è dunque l'autore, l' unico in grado, in momenti di crisi e di profonda difficoltà, di mettere in campo energie e idee “rivoluzionarie”, che conducano a intuizioni e conclusioni nuove, autentiche, “prometeiche”, capaci di sovvertire il pensiero comune, scuotere il lettore dal torpore in cui la società lo ha relegato. Questo carattere di rivelazione, capace di aprire gli occhi dell'uomo su aspetti della realtà celati ai più, si può ritrovare anche in antropologia, sia per un aspetto generico della disciplina, che appunto si propone di studiare culture e popoli lontani e sconosciuti al mondo occidentale, sia per studi più specifici come quelli relativi all'ambito dell'antropologia della violenza e della guerra. Questa branca dell'antropologia cerca di approfondire e interpretare gli aspetti violenti e tragici di diversi contesti sociali. Spesso gli studiosi si sono posti nei confronti di questa problematica con un approccio comparativo che, attraverso il confronto di diverse situazioni violente (massacri, genocidi, guerre, ecc.), mirasse a individuare i punti comuni, le affinità dei diversi “fieldwork”, cercando di raggiungere spiegazioni valide e universali per spiegare il concetto di violenza. Ma questo tipo di approccio si rivela sbagliato per il fatto di negare la peculiarità storiche, politiche, economiche e sociali di ogni contesto: una visione totalitaria 72


ha nascosto quei dettagli particolaristici validi e presenti solo in quel particolare momento e luogo. Dare una risposta alle domande “perché?” e “come è stato possibile?” necessita una strategia teorica che includa concetti e metodi di lavoro di diverse discipline, dalle scienze umani alla medicina, alle materie economicopolitiche, al fine di determinare un quadro completo del fenomeno violento. Uno studio di antropologia della violenza deve porre uno sguardo profondo a contesti particolari e agli effetti locali: dovrebbe dedicarsi ad etnografie della violenza, ritratti che riescano a rispondere alle domande della disciplina nel solo contesto osservato, tenendo conto delle molteplici variabili e ragioni che producono le diverse espressioni di violenza. Un esempio di questo approccio circoscritto è il lavoro di Paul Farmer, antropologo e medico, che in Patologie del potere: Salute, diritti umani e la nuova guerra sui poveri (2003), ha coniato l'espressione “violenza strutturale” con cui intende indicare uno stato di sofferenza sociale causato da un insieme di molteplici fattori e di varia natura (economica, politica, ideologica, ecc.), una condizione complessa e difficile da risolvere perché riflesso di diverse problematiche presenti contemporaneamente. Una situazione sociale di questo tipo denuncia, di conseguenza, una sofferenza strutturale che viene assimilata al contesto sociale, provocando nuova violenza e nuova sofferenza: Farmer porta alla luce questa situazione ad Haiti e in altri paesi del Sud del mondo dove la tensione e il disagio conducono a una pratica della violenza così assidua e “familiare”, che quasi entra a far parte della mentalità culturale dei popoli interessati. Ciò comporta poi la nascita del pregiudizio, presso l'Occidente, della loro incapacità culturale di gestire determinati conflitti, influenzando negativamente l'aiuto fornito a questi popoli, sempre di natura caritatevole e raramente in grado di portare la società a maturazione politica e/o economica. Farmer teorizza un concetto che risponde alla situazione particolare di Haiti e degli altri luoghi da lui studiati, ma allo stesso tempo si tratta di un paradigma che può rispondere ad altri contesti di degrado e sofferenza. 73


Legato al lavoro di Farmer è quello di Nancy Scheper-Hughes, che ha studiato in Brasile le dinamiche di violenza e sofferenza, resistenza e rifiuto nei confronti del potere, attraverso comportamenti criminali e antisociali. Inoltre l'antropologa americana ha intrapreso anche una rilevante ricerca sul mercato degli organi, portando alla luce le numerose questioni economiche, etiche, giuridiche e politiche che vi si nascondono dietro, oltreché che le ripercussioni culturali presso i popoli maggiormente sensibili e attivi in questo tipo di traffico. Questi due esempi intendono dimostrare come anche la letteratura antropologica sia fautrice e responsabile di quell'attività di denuncia e rivelazione già visto in ambito letterario. Si tratta dell'ennesimo punto in comune tra le due materie, tra due mondi così diversi e lontani, ma paradossalmente così vicini nei metodi e negli scopi.

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3.9. Conclusioni Concludendo il discorso portato avanti fino a questo punto, emerge chiaramente un punto fermo riguardo l'antropologia e la letteratura: in virtù della loro coincidenza di scopi e metodi, è palese la loro affinità come discipline di interpretazione dell'essere umano, e soprattutto del loro ruolo di decodifica e manifestazione di un desiderio di Alterità. In questa analisi, il triangolo del desiderio di René Girard ha dimostrato tutta la sua validità come strumento di confronto e spiegazione delle espressioni culturali, che si tratti di un sentimento religioso o della necessità di comunicare e parlare del proprio Sé attraverso la letteratura. A discapito di una critica antropologica che ha duramente giudicato le intuizioni girardiane ritenendole estranee al proprio ambito di studio, eccessivamente sintetiche e poco approfondite, la loro forza dimostrativa è stata capace di essere esplicativa, in maniera piuttosto esauriente, di più aspetti culturali diversi, eppure con una genesi comune: il desiderio. Si può arrivare a dire che forse, più di ogni altro, Girard è riuscito a individuare l'essenza più profonda dell'essere umano, un'essenza culturale che non può esistere senza la spinta del desiderio mimetico. Ma se questa conclusione è probabilmente un'eccessiva estremizzazione delle teorie girardiane, non lo è di certo il fatto che la letteratura, in ogni sua espressione, dalla narrativa all'etnografia, è comunicazione di un desiderio umano, e tale desiderio può essere posto come base per una teoria antropologica che spieghi l'origine dell'attività letteraria nella società umana.

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dell'umano.

Le

rappresentazioni

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iskire.net


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