A.D. MDLXII
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CORSO
DI
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B E NI C UL T UR AL I (C L A S S E L1)
LA POLITICA DI RIMOZIONE DELL’IMPRONTA IBERICA NELLA SARDEGNA DEL XVIII SECOLO
Relatore:
PROF. GIUSEPPE MELE
Tesi di Laurea di:
ROBERTO LOI
ANNO ACCADEMICO 2012/2013
Introduzione..........................................................................................................................................3 Capitolo I. La dominazione iberica: uno sguardo d’insieme...........................................................7 I.1. Premessa storiografica .................................................................................................7 I.2. La fase catalano-aragonese ......................................................................................10 I.3. La fase "spagnola" ......................................................................................................15 Capitolo II. La guerra di successione spagnola, gli accordi tra le grandi potenze e gli esordi dell'occupazione piemontese in Sardegna.....................................................................................20 Capitolo III. Gli aspetti generali....................................................................................................26 Capitolo IV. Gli aspetti istituzionali..............................................................................................38 Capitolo V. Gli aspetti linguistici e culturali..................................................................................43 Capitolo VI. La repressione...........................................................................................................49 Conclusioni....................................................................................................................................57 BIBLIOGRAFIA..................................................................................................................59
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Introduzione
Il presente elaborato vuole essere un saggio di sintesi storiografica da sviluppare con l’ausilio delle conoscenze e delle metodologie apprese nel triennio del corso di laurea in Scienze dei Beni Culturali. La scelta dell'ambito storico è stata determinata, oltre che da propensioni personali, dal fatto di aver individuato la disciplina storica come quella che in qualche modo forse più di altre potesse garantire tale esercizio di sintesi. Ne è scaturito un approccio multiprospettico che ha portato a pensare (o ripensare) la storia non come pura e semplice successione di eventi nel tempo, ma come indagine complessiva di fenomeni economici, politici, sociali, culturali, ideologici, filosofici, psicologici e delle rispettive interconnessioni. Non un esclusivo elenco di fatti, luoghi, date e personaggi, dunque, ma una ricerca e un tentativo di dare spiegazione razionale di cause e conseguenze, sviluppata nel contesto di una metodologia di lavoro orientata alla scientificità, ossia in grado di fornire elementi di verifica dei dati riportati e delle ipotesi vagliate. Il primo passo che si è compiuto è stato quello di circoscrivere lo spazio e il tempo, individuando nella Sardegna del Settecento (con particolare riferimento alla prima metà del secolo) un'interessante prospettiva da cui muovere per sviluppare un discorso che, a partire dall'analisi del particolare, permettesse di giungere a considerazioni di carattere generale. Il tentativo che si è voluto portare avanti è stato quello di approfondire alcune questioni e problematiche inerenti la storia sarda che si è ritenuto fossero determinanti nel creare i presupposti per il decisivo passaggio della Sardegna dall'età moderna a quella contemporanea, e che consentissero dunque di poter meglio comprendere alcune dinamiche della Sardegna attuale. Il Settecento è stato certamente secolo di grandi trasformazioni, caratterizzato, nel contesto mediterraneo in cui la Sardegna è inserita (e dal quale non deve né può mai essere decontestualizzata), dallo sviluppo di inedite dinamiche politiche: l'arretramento della potenza turca ed il suo ritiro dal bacino occidentale, la fine dell'antagonismo franco-spagnolo che aveva caratterizzato i due secoli precedenti e lo sviluppo dell'antagonismo anglo-francese, il declino delle potenze marittime di Genova e Venezia sui versanti tirrenico e adriatico della penisola italiana, l'apparizione e consolidamento 3
di nuove potenze come Austria e Russia ed il declino delle reggenze barbaresche. Per la Sardegna il XVIII secolo ha significato un decisivo mutamento di regime, con il passaggio dell'isola dall'area iberica, di cui aveva fatto parte per quasi quattro secoli, a quella italica, segnando a nostro avviso, ed è questa la tesi di fondo su cui si svilupperà il discorso e di cui si terrà conto nelle conclusioni, la trasformazione in senso moderno di quell'insieme di problematiche e contraddizioni economiche, politiche, sociali e culturali che costituiscono tuttoggi la cosiddetta questione sarda. Concependo l'analisi storica come una vera e propria indagine, si è proceduto innanzitutto ad interrogare i "testimoni", le fonti. Dati i limiti imposti da un elaborato finale del corso triennale non si è ritenuto di dover sviluppare un lavoro di ricerca, ma ci si è limitati ad una relazione di tipo compilativo per fornire una panoramica introduttiva sull'argomento trattato tramite una visione critica della storiografia esistente che potesse, in qualche modo, mettere in contatto i differenti punti di vista che si sono ravvisati. Questo significa che le fonti di riferimento sono esclusivamente di tipo bibliografico e che le citazioni documentarie sono tutte tratte dalla bibliografia e non sono invece frutto di una personale ricerca d’archivio. In questo caso le citazioni sono accompagnate in nota dal rifermento bibliografico, ossia dall'indicazione dell'autore e del testo in cui sono state rinvenute e, là dove fosse precisato, dalle coordinate relative alla collocazione del documento in archivio, che, si specifica, non è tuttavia stata verificata ed è stata riportata proprio per consentire un'ulteriore successivo controllo. Questa operazione, carente della dovuta verifica sulle fonti dirette, non deve tuttavia essere ritenuta sintomo di trascuratezza nel lavoro svolto, né di ingenuità nel prendere per oro colato le affermazioni o le tesi storiografiche prese in considerazione. È invece da intendersi come un tentativo di coniugare le già accennate ristrettezze imposte da un elaborato del triennio con la possibilità di aprire la strada per un futuro percorso di ricerca, con una più puntuale ricerca su un argomento inerente la storia sarda che merita a nostro avviso un ulteriore approfondimento. Si è piuttosto potuto osservare che talvolta le fonti citate da autorevoli studiosi, se sottoposte ad accurato confronto, risultano talmente divergenti tra loro da suscitare il sospetto che queste informazioni possano non essere tratte dalle fonti dirette. Si segnala ad ogni modo che le fonti archivistiche citate risultano comunque nella bibliografia, in modo da essere facilmente rintracciabili e consentire un'eventuale verifica. 4
Non si è trascurato, nel condurre l'"inchiesta", di tenere in considerazione, pur con la cautela con cui devono essere necessariamente trattati, i semplici "indizi", individuabili in fonti letterarie e tradizioni orali: una funzionalizzazione della letteratura e dell'antropologia nei riguardi della storia che ha consentito di constatare l'effettiva presenza di tracce di patrimonio storico nascoste e criptate in racconti, leggende, proverbi, modi di dire, canti, credenze, suggestioni ed espressioni della cosiddetta "saggezza popolare". Gli aspetti dell'ispanizzazione prima e della piemontizzazione dopo sono innumerevoli e hanno riguardato la società sarda nel suo complesso. In questa sede non trovando lo spazio per un quadro esaustivo che comprendesse tanto gli aspetti strutturali quanto quelli inerenti la vita di tutti i giorni, abbiamo optato per isolare alcuni elementi che abbiamo ritenuto maggiormente rilevanti, in primo luogo gli aspetti istituzionalilegislativi e quelli linguistici-culturali, mossi dall'esigenza di fornire un quadro generale che costituisse la base di necessari approfondimenti. Nel primo capitolo si è cercato di fornire un quadro generale degli sviluppi dell'influenza iberica (prima catalano-aragonese e poi castigliana) sulla Sardegna. Le ragioni di una tale panoramica sono da ricercare nella volontà di fornire un metro di paragone rispetto ai progressivi cambiamenti operati dal governo piemontese al fine di de-spanificare e piemontizzare l'isola. Il capitolo è stato introdotto da qualche rapido accenno al dibattito storiografico ancora oggi in atto in Sardegna, sebbene in termini molto diversi rispetto al recente passato, riguardo il modo di interpretare la dominazione spagnola e gli esiti dell'acquisizione sabauda dell'isola. Ampio spazio è stato riservato all'analisi delle relazioni diplomatiche internazionali, che hanno sancito formalmente la decadenza della sovranità spagnola e l'assegnazione della Sardegna alla casata dei Savoia. Un capitolo apparentemente avulso ma in realtà organico alla tesi che si è voluta sviluppare è quello relativo alla repressione, che si ritiene sia stata strumento imprescindibile della politica piemontese al fine di imporre istituzioni, elementi strutturali e sovrastrutturali esterni o comunque "altri" rispetto a quelli precedentemente esistenti. Il discorso sulla repressione ha tra l'altro consentito di fare qualche accenno al razzismo antisardo, fenomeno che lo Stato piemontese ha lasciato in eredità a quello italiano e che riteniamo origine di molti pregiudizi che ancora oggi vengono espressi nei confronti dei sardi. Per quanto concerne il linguaggio adottato si è cercato di coniugare il rigore 5
richiesto da un lavoro di carattere storico con la chiarezza esplicativa che si ritiene di dover avere nei confronti dei non specialisti. Al conseguimento di questo scopo si deve l'ampio utilizzo delle note, utilizzate, oltre che per fornire i riferimenti bibliografici delle citazioni, per inserire nel testo riferimenti biografici inerenti i personaggi citati o una rapida sintesi di alcuni eventi storici di ampia portata. Il fatto dunque che il testo assuma talvolta toni didascalici è dovuto alla scelta di provare a rendere chiaro un quadro generale relativamente al tema trattato anche a chi dovesse essere a digiuno di questioni e problematiche relative alla storia generale ed a quella sarda in particolare.
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Capitolo I. La dominazione iberica: uno sguardo d’insieme
I.1. Premessa storiografica L'età della dominazione spagnola, non solo in Sardegna ma in tutto quello che è il territorio dell'attuale Stato italiano, è stata a lungo interpretata come un periodo di malgoverno e decadenza, caratterizzato dall'immobilismo e da una costante, ininterrotta crisi economica, politica, sociale, culturale e morale. L'antispagnolismo, categoria propria della storiografia italiana tanto da essere da alcuni considerato come elemento culturale fondamentale nel processo di formazione dell'identità italiana 1, è pertanto anche una componente importante della tradizione storiografica sarda2. Nel caso specifico della Sardegna, la lettura storiografica della dominazione spagnola è stata a lungo viziata da quella che Francesco Manconi ha definito la «leggenda nera» anti-ispanica3, nata all'indomani della cessione dell'isola ai Savoia e trasformata, con un'evidente operazione politico-ideologica4, in vulgata dalla storiografia di ispirazione risorgimentale, a lungo impegnata nel tentativo di dimostrare l'"italianità" dell'isola non meno di quanto la storiografia iberica si fosse precedentemente affaticata nel tentativo di dimostrarne la españolidad5. Per lungo tempo la storiografia sarda, fortemente influenzata dall'esaltazione della 1
Cfr. Maria Antonietta Visceglia, Mito/antimito, spagnolismo/antispagnolismi: note per una conclusione provvisoria, in AA. VV., a cura di Aurelio Musi, Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, Guerini e Associati, Milano, 2003, pp. 407-429. 2 Cfr. Antonello Mattone, Antispagnolismo e antipiemontesismo nella tradizione storiografica sarda (XVI-XIX secolo), in AA. VV., Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, cit., p. 267-309. 3 Francesco Manconi, L'«ispanizzazione» della Sardegna: un bilancio, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, Attilio Mastino e Gian Giacomo Ortu, Storia della Sardegna, Editoriale La Nuova Sardegna, Sassari, 2007, pp. 236-237. Il riferimento di Manconi è presumibilmente volto al termine introdotto dal funzionario spagnolo Julian Juderias, che nel 1913 vinse un concorso letterario con un volume dal titolo La Leyenda negra y la verdad histórica, successivamente ripreso da da Miguel Molina Martínez, La leyenda negra, Madrid, 1991, e da Ricardo García Cárcel, La leyenda negra. Historia y opinión, Madrid, 1992. Cfr. a tal proposito Maria Antonietta Visceglia, Mito/antimito, spagnolismo/antispagnolismi: note per una conclusione provvisoria, in AA. VV., a cura di Aurelio Musi, Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, cit., p. 408. 4 Questo tipo di operazione si è reso possibile anche grazie alla sottrazione dagli archivi sardi di un'enorme quantità di documenti, i più antichi dei quali risalenti al periodo compreso tra il 1119 e il 1131 (e tra questi il celebre Libellus Iudicum Turritanorum, unica cronaca del Medioevo sardo) e al loro trasferimento nel Regio Archivio di Corte di Torino. Cfr. a tal proposito Antonello Mattone, Prefazione a Giuseppe Manno, Storia di Sardegna, Ilisso, Nuoro, 1996, p. 11. 5 Gli spagnoli arrivarono, per dimostrare l'appartenenza anche geografica della Sardegna alla penisola iberica, a produrre, nel corso del Seicento, un vasto campionario di analisi geologiche finalizzate a dimostrare l'appartenenza di Sardegna, Baleari e penisola iberica ad un'unica entità geologica. Cfr. AA. VV., a cura di Francesco Manconi, Il Regno di Sardegna in età moderna, CUEC, Cagliari, 2010, p. 23.
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dinastia sabauda, ritenuta motore del processo di unificazione dello Stato italiano, ha sviluppato la teoria che il passaggio della Sardegna dal Regno di Spagna ai Savoia avesse consentito di "riprendere" un processo storico interrotto a causa dell'inefficienza della dominazione spagnola. In quest'ottica l'acquisizione sabauda della Sardegna è stata letta come una sorta di "ritorno", il ricongiungimento ad una "grande patria" da cui l'isola (declassata a "piccola patria" dei sardi) sarebbe stata indebitamente sottratta nei secoli precedenti, e come l'inizio di un progressivo processo di emancipazione dall'arretratezza e di integrazione portato avanti dal riformismo sabaudo. Il naturale sbocco storico di tale processo non poteva che essere il Risorgimento e la creazione di uno Stato unitario. Questa interpretazione, che si affermò in particolar modo durante il fascismo 6, può essere rintracciata anche in tempi molto più recenti: secondo Rossana Poddine Rattu, ad esempio, «La Sardegna, che per tanti secoli fu sotto il dominio aragonese, e poi spagnolo, ritornò finalmente (corsivo nostro) alla madre patria col trattato di Londra (2VIII-1718) che disponeva la cessione dell'Isola al Piemonte» 7. Non sono esclusi da questo tipo di approccio i testi scolastici. Nei manuali di storia adottati nelle scuole medie dell'isola, era infatti possibile (e assai frequente) ancora fino a pochi anni fa leggere affermazioni come la seguente: «L'11 settembre del 1720 segna per la Sardegna la fine di tutte le invasioni e di tutte le dominazioni straniere che per oltre 25 secoli (duemilacinquecento anni, pensate!) le avevano arrecato, tra pochi benefici, molte guerre, lutti e rovine. Da questo momento l'isola è nuovamente un lembo d'Italia e, quindi, dell'Europa»8. In realtà attribuire all'azione politica sabauda del XVIII secolo una qualsiasi volontà "unificatrice" (o addirittura ri-unificatrice) è chiaramente una forzatura: i Savoia, in particolare nel primo Settecento, perseguivano mire espansionistiche e interessi particolaristici e non avevano nessuna funzione "italiana" da esercitare, né tantomeno alcuna italianità da preservare in un'isola che per quattro secoli aveva fatto organicamente parte della Corona d’Aragona e la cui identità, oltre che sarda, era certo molto più spagnola che piemontese o italiana. Una lettura di questo tipo è stata indubbiamente influenzata dall'opera del barone 6
V. ad esempio Celebrazioni sarde, anno XV e. f., Urbino, 1936; Raffaele Ciasca, L'opera di italianità di casa Savoia in Sardegna avanti il Risorgimento, in «Rassegna del Risorgimento», n. 1, 1935. 7 Rossana Poddine Rattu, Biografia dei viceré sabaudi del Regno di Sardegna (1720-1848), Edizioni Della Torre, Cagliari, 2005, p. 15. 8 Alberto Caocci, La Sardegna, Mursia, Milano, 1987, p. 126.
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Giuseppe Manno9, generalmente riconosciuto come il padre della storiografia sarda moderna, che tra il 1825 ed il 1827 pubblicò la «Storia di Sardegna» e nel 1842 la «Storia moderna della Sardegna»10. La sua esposizione delle vicende storiche della Sardegna, senz'altro influenzata dal suo ruolo politico, è pervasa dal discredito gettato sulla dominazione spagnola e su una lettura negativa, conservatrice e a tratti reazionaria di qualsiasi evento che in qualche modo potesse rompere l'equilibrio di cui i Savoia erano ritenuti i custodi. Scrive Antonello Mattone che la Storia di Sardegna era un'opera che guardava al passato. Il suo modello politico era un assolutismo paternalista e riformatore. Non deve quindi stupire che finisca per esaltare il potere assoluto del Principe e s'impegni a tracciare un sottile filo di continuità nell'azione di quei sovrani – da Mariano IV a Eleonora, da Alfonso V a Filippo II, sino al momento culminante del regno di Carlo Emanuele III – che col loro saggio governo avevano tentato di migliorare le condizioni della Sardegna. [...] L'opera esercitò una influenza straordinaria sulla cultura e sulla storiografia sarda del terzo e del quarto decennio dell'Ottocento11.
La storiografia più recente ha tuttavia cominciato ormai da tempo un graduale processo di rilettura della dominazione iberica, ridimensionando conseguentemente la dominazione sabauda fino ad arrivare alla conclusione che «Non vi è chi non veda come i limiti di metodo e di contenuti della vecchia storiografia discendano da una tradizione sabauda e risorgimentale che del pregiudizio antispanico aveva fatto uno strumento ideologico per sostenere una presunta italianità della Sardegna d'antica data»12. A questa lettura storiografica abbiamo fatto riferimento in particolare per tentare di individuare i meccanismi dell’ispanizzazione della Sardegna al fine di evidenziare le caratteristiche della successiva piemontizzazione13. I.2. La fase catalano-aragonese
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Alghero, 1786-Torino, 1868. Entrato in magistratura, percorse una brillante carriera fino a raggiungere il grado di Reggente del Supremo Consiglio di Sardegna. Storico e studioso di filologia, fu anche membro dell'Accademia della Crusca. Nominato nel 1845 presidente del Senato di Nizza, nel 1848 divenne senatore del Regno di Sardegna e tra il 1849 ed il 1864 fu Presidente del Senato, ricoprendo, dal 1859, l'incarico di Ministro di Stato. Segretario ed ispiratore dell'azione politica di Carlo Felice, si distinse come uno dei personaggi più influenti dell'ultimo periodo dell'assolutismo "illuminato" sabaudo. 10 Edizioni di riferimento della presente relazione sono Giuseppe Manno, Storia di Sardegna, cit., e Id., Storia moderna della Sardegna dall'anno 1773 al 1799, Ilisso, Nuoro, 1998. 11 Antonello Mattone, Prefazione a Giuseppe Manno, Storia di Sardegna, cit., p. 27. 12 Francesco Manconi, Introduzione a AA. VV., a cura di Francesco Manconi, Il Regno di Sardegna in età moderna, cit, p. 8. 13 Segnaliamo in particolar modo gli studi di Bruno Anatra e di Francesco Manconi riportati in bibliografia.
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La storia dell'influenza iberica sulla Sardegna risale al 4 aprile 1297, allorché il papa Bonifacio VIII, nel tentativo di trovare una risoluzione alla cosiddetta Guerra dei Vespri14 e con la finalità di eliminare una delle principali cause di lotta tra le potenze marinare di Pisa e Genova, creò motu proprio, appellandosi alla sovranità sul territorio sardo che gli sarebbe derivata dalla cosiddetta donazione di Costantino 15, il Regnum Sardiniae et Corsicae16 infeudandolo e concedendo di fatto la cosiddetta licentia invadendi dell'isola al re di Aragona e Valenza Giacomo II, conte di Barcellona. La conquista della Sardegna, iniziata nel giugno del 1323, divenne di fatto una guerra lunga e dispendiosa. La dominazione, inizialmente catalano-aragonese, viene impropriamente definita "spagnola" dal 1479, anno dell'unione di Castiglia e Aragona da parte dei re Cattolici Ferdinando II e Isabella, unitisi in matrimonio dieci anni prima, unione dalla quale scaturì il Regno di Spagna. L'infeudazione papale segnò l'innescarsi di un lungo processo che, dopo un difficile avvio, avrebbe visto, pur tra ripetuti ma mai decisivi tentativi di opposizione e/o resistenza17, la «costruzione» del Regnum passare attraverso una progressiva, profonda assimilazione e conseguente integrazione istituzionale, politica, sociale e culturale che ha portato la Sardegna, a divenire una provincia periferica della Spagna 18; o meglio ancora, con l'introduzione del feudalesimo, di strutture amministrativeburocratiche e di istituzioni come l'Inquisizione19 e con la diffusione della lingua (prima catalana e poi castigliana), a "ispanizzarsi". Nel suo complesso la dominazione iberica, durata quasi quattro secoli (dal 1324 al 1708), fu caratterizzata da una serie di modifiche delle strutture politiche e amministrative. La situazione tese a stabilizzarsi nel corso del XVI secolo e a 14
Nata da una rivolta della popolazione di Palermo contro la dominazione angioina nel 1282, durò fino alla stipulazione del Trattato di Caltabellotta nel 1302, sancendo la cacciata dei francesi dalla Sicilia e l'inizio del predominio iberico nell'Italia meridionale. 15 Recante la data del 30 marzo 315, il documento noto come Constitutum Constantini, affermava di riprodurre un editto emesso dall'imperatore romano Costantino, con con il quale si sarebbero attribuite al papa Silvestro I e ai suoi successori concessioni quali il primato sulle chiese patriarcali orientali o la superiorità del potere papale su quello imperiale. A lungo oggetto di strumentalizzazioni da parte della Chiesa, si rivelò essere un clamoroso falso dopo l'analisi condotta dal filologo umanista Lorenzo Valla nel 1440. 16 È tuttavia da notare che già nel 1164 Barisone d'Arborea era stato incoronato a Pavia Rex Sardiniae. 17 Da individuare innanzitutto nella lunga, per quanto discontinua, guerra condotta dal Logu (o Giudicato) di Arborea: momenti decisivi per le sorti dell'isola furono le sconfitte dell'esercito arborense nelle battaglie di Sanluri del 30 giugno 1409, e di Macomer del 16 giugno 1478. 18 Cfr. Francesco Manconi, L'«ispanizzazione» della Sardegna: un bilancio, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, Attilio Mastino e Gian Giacomo Ortu, Storia della Sardegna, cit., pp. 221-236. 19 Introdotta in Sardegna nel 1492, ebbe inizialmente sede a Cagliari. Nel corso del XVI secolo, dopo il Concilio di Trento, assunse il carattere di vero e proprio organo giurisdizionale e fu trasferito a Sassari, dove ebbe sede nel castello aragonese.
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degenerare nel corso del XVII con l'inizio della crisi dell'egemonia spagnola. L'analisi di un periodo tanto lungo risulta naturalmente complessa e rischia di scadere in generalizzazioni e semplificazioni. Tenteremo comunque di fornire un quadro generale della Sardegna durante la dominazione iberica per sviluppare poi un confronto con le trasformazioni attuate dal governo piemontese nel Settecento. La Sardegna entrò a far parte della Corona d'Aragona 20 come Regnum autonomo e non come dominio: aveva pertanto diritto, per norma costituzionale della confederazione aragonese, di mantenere i propri ordinamenti e leggi, purché organici e non in contrasto con quelli generali della Corona. Ciononostante i catalano-aragonesi, che nel 1354, con l'ordinamento organico, suddivisero l'isola nelle due governazioni (circoscrizioni amministrative) del Capo di Sassari e di Logudoro (o Capo di Sopra) e del Capo di Cagliari e di Gallura (o Capo di Sotto), vi introdussero da subito un ordinamento di tipo accentrato. Al vertice di questo ordinamento, in qualità di alter nos del sovrano, risiedeva il Governatore di Cagliari con il titolo di Governatore Generale, magistratura che all'inizio del XV secolo si evolse in quella del viceré. In continuo contatto con il re tramite il vicecancelliere (ossia il presidente) del Consiglio d'Aragona, cui relazionava regolarmente circa i territori di sua competenza, il viceré di norma durava in carica tre anni (per evitare che prendesse troppa confidenza con il territorio sottoposto alla sua giurisdizione) anche se il mandato poteva essere prolungato per motivi di opportunità politiche o di esigenze militari, ed assolveva funzioni politiche, amministrative, giudiziarie e militari. Gli apparati amministrativi aragonesi si svilupparono secondo tre direttrici: regia, municipale e feudale. L'amministrazione regia era costituita da officia in capite, indipendenti da quelli della corte, retti da officials di nomina regia, scelti in forma pressoché esclusiva tra gli iberici, con funzioni di governo, patrimoniali, giudiziarie e militari. Era questa evidentemente una struttura fortemente gerarchizzata al cui vertice era posto il Governatore Generale e, dal 1417, il viceré. Allo stesso livello era l'Amministratore Generale (e, dal 1413, il Procuratore Reale), cui spettava l'amministrazione del patrimonio regio (comprendente sia i beni 20
La Corona di Aragona si sviluppò nell'area mediterranea come confederazione di Regni nei quali vigeva un principio di autonomia fondata sull'unione personale col sovrano. Tali Regni erano: il Principato di Catalogna, il Regno di Aragona, il Regno di Valencia, il Regno di Maiorca, il Regno di Sardegna, il Regno di Sicilia e, dal 1448, il Regno di Napoli.
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personali del sovrano che quelli fiscali) e l'esercizio di poteri politici. Al di sotto di questo primo livello si snodava un'articolata gerarchia di ufficiali minori, giudiziari (vicari, podestà, avvocati fiscali) e militari (capitani, castellani). L'amministrazione municipale, controllata da vicari, si faceva garante di una forma di autonomia ridotta (municipio rudimentario) propria della città di Barcellona, costituita da un corpo consiliare di cinquanta giurati di nomina cittadina a capo dei quali si ergeva un gruppo di cinque consiglieri, affiancati da un piccolo gruppo di impiegati. L'amministrazione feudale, di fatto creata ex novo per premiare militari e funzionari che si erano distinti nella conquista dell'isola, pur conservando alcuni degli istituti del precedente ordinamento giudicale, come ad esempio quelli del camerlengo 21 o del maiore22, costituiva di fatto l'imposizione di un sistema ormai in declino nel resto d'Europa. L'introduzione sistematica del feudalesimo da parte degli aragonesi, che riorganizzarono il sistema politico istituzionale giudicale secondo un preciso disegno strategico volto al consolidamento del proprio dominio, costituì senz'altro una svolta traumatica nella storia della Sardegna, sia a breve che a medio-lungo termine, portando, nel giro di un secolo, ad una radicale trasformazione dell'economia e della società dell'isola e un cambiamento del suo ruolo nella rete dei traffici mediterranei23. Il territorio sardo, con l'eccezione delle città di Sassari, Alghero, Iglesias e Cagliari, fu diviso in feudi di diversa grandezza (dei quali peraltro risulta essere estremamente difficile seguire i continui cambiamenti di proprietà e degli sviluppi territoriali), e spartito tra i nobili che avevano partecipato alla conquista militare, le principali famiglie borghesi che l'avevano finanziata e, in alcuni casi, gli elementi locali, di origine sarda o pisana, che l'avevano sostenuta, così come i superstiti signori locali (i Donoratico nel Sulcis, i Doria ed i Malaspina nel Nord). Ridotta al minimo la proprietà privata, si diffuse la pratica dello sfruttamento 21
Funzionario istituito nella città di Villa di Chiesa (Iglesias) che aveva il compito di riscuotere le rendite cittadine. Sotto l'amministrazione aragonese ebbe l'incarico di ricevere le rendite del patrimonio reale in città e acquisì grande importanza, potendo controllare le rendite delle miniere d'argento, delle quali regolava l'attività estrattiva e la produzione, al fine di pagare con le somme ricavate gli ufficiali regi ivi risiedenti. 22 Magistrato che nell'ambito dell'organizzazione amministrativa giudicale aveva una funzione di preminenza nella pubblica amministrazione. 23 Secondo Marco Tangheroni, dal punto di vista economico «l'introduzione del feudalesimo portò ad una netta frattura tra città e campagna, ostacolando l'attività dei ceti mercantili urbani, compresi quelli di origine catalana. Essa, accompagnandosi ad una minore circolazione economica e ad una minore mobilità sociale, determinò una contrazione della domanda di prodotti lavorati e incise in senso riduttivo anche sulla quantità e mobilità della produzione». Vedi Marco Tangheroni, Il feudalesimo, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, La Sardegna, cit., I, 2, La storia della Sardegna, p. 160.
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comunitario della terra tanto per le coltivazioni quanto per i pascoli e gli usi civici. Le terre, comunali o baronali, rimasero generalmente aperte, mentre scarso era il numero delle tanche, i fondi chiusi, destinate più ai pascoli che alle coltivazioni. Le popolazioni rurali si concentravano nelle ville, il territorio di ciascuna delle quali era distinto in due parti chiamate rispettivamente vidazzone e salto. La vidazzone era il territorio attorno al centro abitato, ed era diviso in due parti: il seminerio, destinato alla coltivazione, e il paberile, destinato al pascolo, che si alternavano tutti gli anni secondo la tecnica della rotazione24. Il salto era la porzione di territorio improduttivo ricoperto da boschi o da macchia mediterranea su cui si praticava in maniera comunitaria l'allevamento di capre e maiali e venivano esercitati dai vassallos i diritti di ademprivio25. La novità istituzionale più rilevante introdotta dagli aragonesi fu sicuramente l‘istituzione nel 1355, ad opera di Pietro IV il Cerimonioso, del Parlamento sardo. Fondato sul principio giuridico del do ut des do ut facias, era diviso in tre ordini o stati, chiamati estaments26, e fungeva sostanzialmente da anello di congiunzione tra la periferia sarda ed il centro aragonese. Non si trattava, naturalmente, di un istituto parlamentare costituzionale di tipo moderno, ma di stampo medievale: ispirato al modello dei parlamenti iberici, ed in particolare alle Corts catalane, non aveva funzioni 24
Il sistema, che raggiunse uno sviluppo completo nel corso del XIV secolo, fu utilizzato dai feudatari per far fronte allo spopolamento dei feudi dovuto a guerre, epidemie e carestie, attirando gente che venisse a popolarli. Lo sviluppo del sistema del vidazzone determinò profondi mutamenti nell'assetto sociale delle ville, la cui popolazione finì per essere costituita prevalentemente da una massa di contadini nullatenenti che, spesso provenienti da realtà estranee ai centri abitati ed attirati dal nuovo sistema di sfruttamento della terra ne divennero col tempo quasi prigionieri. Infatti, nel corso del XVI secolo i contadini furono chiamati a rispondere collettivamente delle lavorazioni ed al pagamento dei tributi feudali. In questo modo furono praticamente costretti a lavorare all'interno del feudo e quello che era sembrato inizialmente un beneficio si rivelò essere una nuova forma di servitù della gleba. 25 Il termine, dall'etimologia ancora incerta deriva dal catalano adempriu, a sua volta forse legato all'espressione latina ad manum privatam, che indicherebbe la consuetudine di utilizzare come bene privato un bene pubblico. In Sardegna indica alcune forme di godimento collettivo della terra corrispondenti agli usi civici: i diritti di ademprivio consistevano pertanto nella facoltà di godere di pascoli, boschi, stoppie, di seminare porzioni di terra e di sfruttare corsi d'acqua che gli abitanti delle ville avevano sia nei confronti delle proprietà appartenenti al demanio reale, baronale o comunale, sia di quelle private che non fossero recintate. 26 In italiano "stamenti", derivante a sua volta dal basso latino stamentum, definiti braços (bracci) quando riuniti congiuntamente. Lo Stamento militare (o feudale) era composto da feudatari, nobili e cavalieri, tutti di origine spagnola, cui spettava l'amministrazione civile e giudiziaria dei rispettivi feudi, oltre che il diritto di esigere tributi, in natura o in denaro, dai vassalli; quello ecclesiastico da arcivescovi, vescovi, abati mitrati, superiori maggiori degli ordini religiosi e procuratori dei capitoli diocesani e dei beneficiati delle cattedrali; quello reale dai rappresentanti, in qualità di sindaci o procuratori, delle sette città regie (Sassari, Castelsardo, Alghero, Bosa, Oristano, Iglesias e Cagliari), ossia le città sottoposte a diretta ed esclusiva giurisdizione del re e pertanto sottratte a qualsiasi dipendenza feudale. Cfr. AA. VV., La Sardegna e la storia, Celt Editrice, Cagliari, 1988, p. 16-17. V. anche Federico Francioni, Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all'insurrezione del 28 aprile 1794, Condaghes, Cagliari, 2001, pp. 37-38.
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legislative,
ma
di
ordine
eminentemente
finanziario.
Si
occupava
infatti
prevalentemente di votare il donativo, cioè il tributo in denaro che il Regnum era tenuto a versare periodicamente al sovrano e che il sovrano stesso fissava da sé. Rateizzato in quote annuali, il donativo veniva addebitato agli abitanti dell'isola e riscosso attraverso gli organi della burocrazia fiscale: città e ville dovevano versare annualmente la rispettiva quota, calcolata in base al numero dei fuochi, cioè dei nuclei familiari, mentre un'altra quota veniva addebitata ai nobili, prelati e funzionari della burocrazia in base ai loro redditi. Il voto sul donativo costituiva la base della contrattazione tra il sovrano ed i ceti privilegiati rappresentati negli Stamenti, che avevano occasione di presentare richieste o doléances, valutate in primis dal viceré. Le competenze legislative del Parlamento erano limitate alla possibilità di avanzare proposte normative al Sovrano. In ambito amministrativo invece l’istituto poteva intervenire esprimendo il proprio giudizio sui greuges (gravami). Si occupava inoltre di questioni inerenti la difesa del territorio, di opere di interesse generale, della tutela di privilegi ottenuti o del riconoscimento di nuovi, di questioni secondarie come ad esempio la concessione della cittadinanza. Il Parlamento, che veniva convocato e diretto periodicamente – di norma ogni dieci anni – dal viceré, avrebbe dovuto costituire nelle intenzioni originarie l'organismo rappresentativo delle diverse componenti sociali del Regno, ma in realtà si configurò come strumento dei ceti privilegiati e in particolar modo del ceto feudale. Con la creazione dell'istituto parlamentare, l'Aragona mirava evidentemente a creare in Sardegna un ambito costituzionale di assorbimento della dissidenza identificatasi con la casata di Arborea e allo stesso tempo riuscire a contenere i contrasti interni al ceto feudale catalano. Secondo l'analisi di Helmut Georg Koenigsberger, per altro aspramente criticata da Bruno Anatra, «il Parlamento sardo fu fondamentalmente l'istituzione rappresentativa di una classe dominante coloniale, alla quale i sardi indigeni potevano partecipare solo in forza della consuetudine medievale di estendere il privilegio ai pari nella società» e pertanto costituì «l'imposizione di una società essenzialmente coloniale su una popolazione indigena»27. I.3. La fase "spagnola"
27
Cfr. Bruno Anatra, L'età degli spagnoli, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, La Sardegna, cit., I, 2, La storia della Sardegna, p. 50. Il riferimento di Anatra è a Helmut Georg Koenigsberger, Parlamenti e istituzioni rappresentative negli antichi Stati italiani, in Storia d'Italia. Annali, I. Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, 1978.
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Durante la fase propriamente "spagnola" della dominazione iberica, il Regnum Sardiniae conservò l'autonomia formale di cui aveva potuto godere già durante la precedente fase catalano-aragonese; allo stesso tempo fu oggetto di una politica di redreç, cioè di importanti riforme amministrative sviluppate, nel contesto generale della confederazione catalano-aragonese, secondo tre direttrici principali: il rafforzamento degli apparati amministrativi, burocratici, patrimoniali e giudiziari dello Stato; il ridimensionamento dello strapotere feudale; il ridimensionamento delle spinte autonomistiche delle città. Per tutta la prima metà del XVI secolo la preminenza dei problemi internazionali, legata al fatto di essere l'Impero di Carlo V la più grande potenza europea, relegò la Sardegna ai margini degli interessi del governo centrale, favorendo in tal modo l'insorgere di profondi dissidi tra le classi dirigenti locali e, contestualmente, il prevalere degli interessi feudali. La situazione si modificò profondamente nella seconda metà del secolo: l'abdicazione di Carlo V nel 1556, la divisione della sua eredità con la nascita di due rami della casata asbugica, l'ascesa di Filippo II e l'uscita della Spagna dall'ambito dell'Impero attivarono un processo di modernizzazione degli apparati statali con la ristrutturazione interna dei domini spagnoli, il ripristino dell'ordine nelle zone periferiche e la riorganizzazione della burocrazia, che si fece sentire anche in Sardegna con un più stretto controllo nei confronti dei particolarismi locali. Significativa da questo punto di vista fu l'istituzione, con carta reale datata 18 marzo 156428, da parte di Filippo II, della Real Audiencia (Reale Udienza), una magistratura con funzioni di suprema corte d'appello, di consulenza, di collaborazione e di controllo tecnico-giuridico sugli atti dell'intera amministrazione e di assistenza del viceré. La Reale Udienza, composta da cinque magistrati (Reggente, Avvocato Fiscale e tre giudici togati, uno dei quali assolveva la funzione di Giudice di Corte specializzato nell'istruzione delle cause penali), accordava l'exequatur (la registrazione e l'esecuzione di tutti i provvedimenti provenienti dal di fuori del Regno, comprese le bolle ed i brevi pontifici); interveniva nell'afforo del grano, cioè fissava il prezzo calmierato del grano prima del raccolto; tutelava la produzione agricola e il commercio; esprimeva pareri nelle controversie tra comunità di villaggio e feudatari riguardo la validità dei diritti baronali contestati; proponeva al sovrano in concorso con il viceré le terne dei 28
L'istituto raggiunse tuttavia una fisionomia definita solo in seguito alla prammatica del 3 marzo 1573. Vedi Carla Ferrante, Antonello Mattone, L'età spagnola (1478-1700), in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, La Sardegna. Tutta la Storia in mille domande, Editoriale La Nuova Sardegna, Sassari, 2011, pp. 45-46.
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nominativi per gli impieghi e i pubblici uffici. In opposizione alle sue deliberazioni era possibile ricorrere in via di supplicazione, ossia in un secondo grado di giudizio in cui veniva cambiato il relatore mentre il presidente poteva essere assistito dagli stessi componenti del collegio giudicante. La creazione della Reale Udienza segnò un momento di svolta nella storia giudiziaria e amministrativa del Regno, perché favorì il processo di centralizzazione dei poteri monarchici e riuscì ad instaurare anche in Sardegna il regime di controllo reciproco degli organi di governo. Il primo passo nell'edificazione della struttura istituzionale di impronta iberica era tuttavia già stato compiuto con la creazione, il 20 settembre del 1480, dell'ufficio del Maestro Razionale, il revisore dei conti presso cui tutti gli ufficiali patrimoniali dovevano presentare, a scadenze regolari, le scritture contabili per le verifiche. Caposaldo dell'amministrazione patrimoniale era l'ufficio del Procuratore Reale, la cui organizzazione di matrice aragonese, risalente al 1413, fu potenziata nel 1481 con l'aggiunta di personale addetto alla scrivania e all'archivio. Il Procuratore sovrintendeva alla politica patrimoniale, curava gli interessi del fisco, rilasciava concessioni feudali e licenze di esportazione (dette sacas), stipulava i cosiddetti arrendaments, cioè contratti di appalto e di vendita di beni della Corona, indiceva la capibreviazione, cioè la ricognizione dei beni del re in possesso a vario titolo di feudatari, amministrava il demanio regio, composto dal marchesato di Oristano, dal contado del Goceano, dai feudi minori, dalle saline, peschiere e, dal XVI secolo, dalle tonnare; dirigeva inoltre gli uffici patrimoniali dell'isola (dogane, bailìe, maggiorìe di ville, portolanìe, zecche, pesi, incontrade reali). Nel 1487 fu introdotto da Ferdinando il Cattolico l'istituto del Reggente la Reale Cancelleria, ispirato al vicecancelliere della Cancelleria e del Consejo de Aragón. Il Reggente, che era scelto tra i magistrati degli Stati della Corona d'Aragona operanti nelle Audiencias, assieme al viceré esercitava la giurisdizione sugli ufficiali e soldati d'artiglieria e sugli ufficiali e alcaidi delle torri. A lui spettava fornire al viceré l'elenco dei laureati in giurisprudenza, noti per competenza e dottrina, tra i quali il re sceglieva i giudici della Reale Udienza. Insieme all'avvocato fiscale, era il responsabile dei registri compilati dai segretari delle Sale civile e criminale della medesima Reale Udienza, ed era inoltre incaricato di proporre e nominare gli attuari, cioè i cancellieri. A questi uffici si andò ad aggiungere, a partire dal 1560, quello del Reggente la Reale Tesoreria, che rilevava e riuniva le due precedenti distinte cariche di Ricevitore 16
del Riservato (tesoriere) e di Collettore delle rendite del marchesato di Oristano. In materia fiscale e patrimoniale aveva competenza giurisdizionale il Consiglio del Real Patrimonio, costituito dai più alti ufficiali patrimoniali con l'avvocato fiscale e l'assessore della Procurazione Reale. La figura del viceré assunse una fisionomia stabile, che si mantenne sostanzialmente invariata fino al Settecento. Le sue competenze, in quanto luogotenente del sovrano, erano vastissime, ed erano di tipo politico, legislativo, amministrativo, giudiziario, patrimoniale e militare. Le competenze politiche consistevano nel poter convocare il Parlamento e nel presiedere la Reale Udienza, oltre che tenere i rapporti con i Governatori dei due Capi, con i vicari delle città regie, con i feudatari, le gerarchie ecclesiastiche e con gli ordini religiosi, funzioni nelle quali era assistito dal Reggente della Reale Cancelleria. In ambito legislativo poteva emanare atti legislativi sotto forma di grida 29 o pregoni30 in materia di amministrazione, di ordine pubblico, di igiene e di commercio e provvedimenti esplicativi sotto forma di istruzioni, regolamenti, lettere, manifesti e decreti. Dal
punto
di
vista
amministrativo
il
viceré,
essendo
al
vertice
dell'amministrazione reale, aveva un proprio apparato amministrativo centrale da cui dipendevano gli organismi periferici distribuiti sul territorio del Regno. Inoltre era al vertice dell'organizzazione giudiziaria del Regno, assistito, prima della creazione della Reale Udienza, dal Reale Consiglio. In ambito patrimoniale e finanziario presiedeva il Consiglio del Reale Patrimonio, che sovrintendeva all'attività finanziaria del Regno e di cui facevano parte il procuratore reale, il maestro razionale e il tesoriere reale. In ambito militare, infine, in qualità di capitano generale del Regno, era al vertice dell'organizzazione militare e della Reale Amministrazione delle torri, in ciò assistito dai commissari generali e dal capitano delle torri. Per quanto concerne invece la struttura feudale, è da notare, al di là della presenza sul territorio di una nobiltà sarda di origine iberica, il progressivo affermarsi di un fenomeno, quello dell'assenteismo, che a lungo avrebbe caratterizzato il feudalesimo in 29
Bandi resi pubblici a voce tramite la figura del banditore oppure tramite avvisi a stampa che assumevano il significato di provvedimento regio o viceregio. 30 Dal latino praeconium. Erano gli editti regi e viceregi resi pubblici tramite circolari a stampa. Suddivisi in crida e ordini, erano spediti in forma cancelleresca, firmati dal Reggente la Reale Cancelleria e dall'Avvocato Fiscale Regio, avendo forza perenne di legge. Se invece alla firma viceregia seguiva solo quella del segretario, evevano vigore solo per il tempo in cui restava in carica il viceré che lo aveva emanato. A volte venivano chiamati pregoni anche gli ordini dell'intendente generale, che ordinariamente avevano il nome di manifesti e ordinanze.
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Sardegna. Sintetizzando alcune peculiarità del feudalesimo sardo, Marco Tangheroni ha fatto notare come I feudi sardi, che non avevano mai conosciuto una gerarchia feudale basata sulla sub-infeudazione a catena, vennero sempre più acquisendo un carattere quasi esclusivamente patrimoniale e giurisdizionale, perdendo gli originali connotati militari. La mobilità dei feudi era grandissima, come dimostrano le continue alienazioni (vendite, doti, donazioni): essa fu favorita dal prevalere degli «allodi» sui «feudi» propriamente detti: questi ultimi avevano infatti un maggior numero di limitazioni proprio sotto il profilo della libera disponibilità di trasmissione31.
Di fatto il sistema feudale si limitava a una serie di diritti consuetudinari e alla riscossione delle rendite fondiarie da parte del ceto baronale. I diritti più importanti, di antica origine consuetudinaria, erano l'incarica e la machizia. La prima consisteva nell'ammenda a cui erano sottoposti gli abitanti delle comunità nei cui territori fossero stati commessi delitti, furti o altri reati nel caso in cui non ne fossero stati scoperti o denunciati gli autori entro un mese. Questo istituto, che nel corso del tempo si trasformò in un tributo ordinario percepito dai baroni, rimase in vigore fino al 1827, anno di pubblicazione delle Leggi Civili e Criminali del Regno di Sardegna volute da Carlo Felice. La seconda consentiva di macellare le bestie tenturate (sequestrate) perché sorprese a pascolare nei cuniatos (fondi recintati) o nei seminati32. Le bannalità erano invece diritti che obbligavano i vassallos a servirsi delle macine, dei forni e dei mulini baronali. I tributi feudali si suddividevano in personali, reali e misti. Tra quelli personali il più importante era il feu (o feudu, feudo), un tributo annuo in denaro o in natura che i vassallos erano tenuti a versare come riconoscimento della signoria, cioè del dominio diretto del feudatario. I tributi reali, che ricadevano sui redditi derivanti dall'attività lavorativa, si riscuotevano sui terreni coltivati e sul pascolo: i tributi agricoli più comuni erano il laor 31
Marco Tangheroni, Il feudalesimo, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, La Sardegna, Edizioni Della Torre, Cagliari, 1982, I, 2, La storia della Sardegna, p. 161. 32 In realtà l'esatta essenza di tale multa non è ancora del tutto chiara: Max Leopold Wagner, nel Dizionario Etimologico Sardo la definisce «multa per contravvenzione commessa tanto in macello come in strada o altrove»; altri studiosi la equiparano alla tentùra e la considerano una «indennità derivata dal diritto che le antiche leggi accordavano di macellare un numero di bestie del branco trovato a pascolare vagamente nei luoghi seminati»; Giulio Paulis l'ha definita invece «pena pecuniaria da pagare all'erario statale come sanzione di un comportamento antigiuridico». V. Francesco Cesare Casula, Dizionario Storico Sardo, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2003, p. 877.
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de corte (o terratico), che corrispondeva ad una certa quantità di grano seminato ed era preteso da tutti i coltivatori in quantità fissa, senza tener conto dei cattivi raccolti o della scarsa superficie coltivata; la roadia, consistente in una prestazione di lavoro agricolo per conto del signore; il deghino (o sbarbagio, o erbatico) consistente nel dare al signore uno su dieci capi di bestiame posseduti. I tributi misti, infine, erano quelli giurisdizionali, legati alla delega alla giustizia che veniva esercitata dai feudatari attraverso i maiores de justicia: oltre alle già citate incarica e machizia, il laudèmio, pagato per la vendita di un feudo, e la regalìa, consistente nel versamento di un canone per l'uso dei forni e dei mulini del signore. A questi tributi si aggiungevano quelli per l'espletamento delle cause, per il mantenimento delle carceri e per il compenso dei carcerieri, con uno sviluppo che nel tempo assunse toni grotteschi: al barone di Ossi era dovuto un tributo per ringraziarlo di essersi trasferito da Alghero a Sassari, ossia più vicino ai suoi vassallos; al marchese dell'Asinara se ne pagava un altro, denominato sos uppeddos de sos sorighes33 per risarcirlo del grano mangiato dai topi nel suo granaio; al marchese di Samassi un altro ancora per poter raccogliere le spighe nei campi altrui34.
33
Letteralmente è intraducibile: s'uppeddu era un mestolo in sughero utilizzato per raccogliere e bere liquidi, pertanto suonerebbe come "i mestoli dei topi". 34 Cfr. Albeto Caocci, La Sardegna, cit., p. 143.
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Capitolo II. La guerra di successione spagnola, gli accordi tra le grandi potenze e gli esordi dell'occupazione piemontese in Sardegna
Le ragioni del passaggio della Sardegna dalla Spagna all'Austria e infine al Piemonte devono essere innanzitutto cercate nel complicato intrico di alleanze e trattati che si venne a delineare nella politica europea del primo Settecento. Una situazione decisamente complessa che vide le grandi potenze dell'epoca – Inghilterra, Francia, Olanda e Austria – spartirsi, in nome del "principio di equilibrio" 35 le aree di reciproca influenza, dando al vecchio continente una nuova conformazione geopolitica e delineando assetti di cui possiamo scorgere alcune tracce ancora oggi. Ci limiteremo in questa sede a menzionare i fatti che abbiamo ritenuti decisivi rimandando ad altre sedi i relativi specifici approfondimenti36. Innanzitutto è necessario soffermarsi sulle ragioni di un coinvolgimento della Sardegna in questioni di carattere internazionale, contestualizzando l'isola in un quadro più vasto. L'ambito geo-politico e culturale di riferimento è quello mediterraneo. Situata al centro del Mediterraneo occidentale, la Sardegna ha costituito nei secoli una sorta di ponte tra Europa e Africa. Punto d'incontro di popoli e genti, proprio a causa della sua collocazione è stata oggetto del desiderio per le potenze che l'hanno dominata nel corso dei secoli. Fondamentale dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse naturali, delle rotte marittime commerciali, per motivi strategici di ordine militare. I romani ne fecero una delle tria frumentaria subsidia reipublicae firmissima, i catalani importante punto di riferimento delle rotte commerciali ma anche del sistema difensivo Mediterraneo teso a limitare la spinta islamica. Si può anzi senz'altro affermare che, contrariamente al luogo comune che ne vuole un'isola fuori dal mondo e dal tempo, non sia esistito fenomeno storico, politico e culturale di respiro mediterraneo che non abbia coinvolto la Sardegna37. Ad ogni modo, nel XVIII secolo l'isola aveva perduto gran parte della propria importanza e versava in condizioni di estrema povertà, nonostante una serie di 35
Cfr. Isidoro Soffietti, Nota introduttiva a Elisa Mongiano, Universae Europae securitas. I trattati di cessione della Sardegna a Vittorio Amedeo II di Savoia, Giappichelli, Torino, 1995, p. VII. 36 Per un a dettagiata analisi dell'argomento vedi in particolare Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna dal Trattato di Utrecht alla presa di possesso sabauda (1713-1720), in «Rivista Storica Italiana», Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, anno CIV, Fascicolo I, pp. 5-89 e Elisa Mongiano, Universae Europae Securitas, cit. 37 Vedi a riguardo Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, 2 voll., Einaudi, Torino, 2002.
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descrizioni entusiaste, probabilmente riprese da quelle dell'antichità classica e per lo più di origine francese, finalizzate a renderla il più appetibile possibile sottolineando la bellezza del paesaggio e la dolcezza del clima, la ricchezza delle miniere, la prosperità dell'agricoltura, dell'allevamento e della pesca38. L'idea di un'acquisizione dell'isola da parte della casata dei duchi di Savoia si era configurata già nel febbraio del 1703 nel corso delle trattative diplomatiche tra Austria e Piemonte. Gli austriaci prospettarono a Vittorio Amedeo II 39 di Savoia la possibilità di acquisire il Monferrato e la Sardegna confidando di attrarlo con il titolo regio derivante dal possesso di quest'ultima. La conquista di tale titolo era un'antica aspirazione della casata sabauda, coltivata sin dal XVI secolo ed in qualche modo soddisfatta dall'assunzione, nel 1632, del titolo di re di Cipro da parte di Vittorio Amedeo I sulla base dei diritti sul regno cipriota dovuti al duca Carlo I da parte della regina Carlotta di Lusignano nel 1485. Ma il duca di Savoia aveva rifiutato replicando che il Regnum «non gli conferiva che un vano titolo, senza alcun accrescimento di potenza»40 e che non aveva comunque la forza «per difenderla da aggressioni esterne» 41. Da questa affermazione si può desumere l'effettiva rilevanza internazionale del ducato di Savoia, il cui sovrano era perfettamente cosciente di non avere una forza militare che gli garantisse capacità contrattuali. L'idea fu pertanto accantonata ma non del tutto abbandonata, come parrebbe dimostrare il memoriale, risalente al 1714 e andato perduto, del marchese Solaro del Borgo «sovra l'idea della compra del Regno di Sardegna»42. Decisivo per le sorti dell'isola, fu l'evento che segnò la fase conclusiva della decadenza spagnola, ossia la Guerra di Successione 43, che, configuratasi come grande 38
Vedi ad esempio (attribuita a Jean Rousset de Missy), La Sardaigne paranimphe de la paix aux souverains de l'Europe, Boulogne, 1714. Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., pp. 5-11. 39 1666-1732. Appartenente alla dinastia comitale sabauda degli Amedei, acquisì pieni poteri nel 1684, anno del suo matrimonio con Anna d'Orléans e del ritiro a vita privata della madre Giovanna Battista di Savoia-Nemours. 40 Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 12. Cfr. anche D. Carruti, Storia del Regno di Vittorio Amedeo II, Firenze, 1863, pp. 256-257. 41 Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 12. 42 Ivi, p. 8. 43 Combattuta tra il 1702 ed il 1713 in Italia, Paesi Bassi, Germania e Spagna per conquistare il diritto di successione al trono di Spagna rimasto vacante dopo la morte di Carlo II d'Asburgo, che non aveva lasciato eredi diretti. Venendo meno agli accordi con le altre potenze, Carlo II aveva infatti designato come proprio successore il nipote del re di Francia Luigi XIV, il duca d'Angiò Filippo di Borbone, che salì al trono col nome di Filippo V. La minaccia di un possibile predominio francese indusse l'imperatore Leopoldo d'Austria, l’Olanda, l’Inghilterra e alcuni principi tedeschi a formare la Grande Coalizione e dichiarare guerra alla Francia. L'ascesa al trono imperiale nel 1711 di Carlo VI, riconosciuto dagli alleati come sovrano legittimo di Spagna, rese concreta l'ipotesi di una nuova egemonia asburgica in Europa, spingendo gli alleati dell'Imperatore a concludere gli accordi per il conseguimento della pace.
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conflitto europeo, determinò trasformazioni di fondamentale importanza negli assetti politici e nei rapporti di forza tra Stati, definendo un volto nuovo per il vecchio continente. La conclusione della guerra produsse un ribaltamento degli scenari geopolitici europei: la crisi definitiva dell'egemonia spagnola; il ridimensionamento delle mire egemoniche della Francia, in ascesa durante il lunghissimo regno di Luigi XIV (1661-1715); l'affermazione dell'Inghilterra come grande potenza marittima e coloniale; l'emergere dell'Austria come grande potenza continentale; la nascita della Prussia, futura potenza, e l'affacciarsi per la prima volta sulla scena europea di una casata fino a quel momento marginale come quella dei duchi di Savoia. Il 13 agosto del 1708 una flotta anglo-olandese dopo un breve bombardamento sbarcò a Cagliari le truppe dell'arciduca Carlo III d'Asburgo, contendente di Filippo V d'Angiò per la successione al trono. La Pace di Utrecht, sottoscritta l'11 aprile 1713, sancì l'ufficialità del passaggio della Sardegna dalla Spagna all'Austria, passaggio ulteriormente rafforzato dal trattato di Rastadt del 7 marzo 1714, con cui la Francia si impegnò formalmente a riconoscere il possesso della Sardegna da parte dell'Austria. Il governo austriaco non poteva avere nessun reale interesse al possesso della Sardegna: la grande distanza da Vienna e le conseguenti difficoltà relative da una parte a un controllo diretto e immediato e dall'altra ad una eventuale difesa, oltre al fatto che l'Austria non fosse certo una potenza marittima né probabilmente aspirasse a diventarlo, furono certo elementi importanti nel determinare il fatto che l'isola non fosse considerata più che altro un'utile pedina di scambio, da utilizzare al momento opportuno al tavolo delle trattative diplomatiche. In attesa che questo avvenisse, gli austriaci si distinsero per lo più per lo scrupolo manifestato nello sfruttamento delle risorse dell'isola, dando in tal modo continuità ad una consolidata tradizione di sfruttamento coloniale44. È in questo clima di precarietà che probabilmente si diffuse la celebre quartina gallurese: Pa' noi no v'à middori, no impolta lu c'à vintu sia eddu Filippu Cuintu o Carralu imperatori45 44
Cfr. Gian Giacomo Ortu, La Sardegna sabauda: tra riforme e rivoluzione, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, Attilio Mastino, Gian Giacomo Ortu, Storia della Sardegna, cit., p. 242. 45 Per noi non c'è un migliore,/ non importa chi abbia vinto/ se sia Filippo Quinto/ o l'imperatore Carlo. Di
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dalla quale si possono dedurre lo sconforto e la rassegnazione con cui i sardi, o almeno una parte di essi identificabile con i ceti popolari, dovettero assistere per lo più passivamente agli eventi. L'aristocrazia autoctona, nel frattempo, si suddivise in due partiti, uno filo-spagnolo ed uno filo-austriaco a seconda della parte che ritenesse più adeguata ad assecondare i propri interessi. Nel gioco della diplomazia europea era intanto opportunisticamente riuscito ad inserirsi il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, «che, inizialmente alleato della Francia, aveva compiuto un altro degli abituali voltafaccia della sua casata 46». In tal modo egli riuscì a salire in extremis sul carro dei vincitori e poté sedersi al tavolo della pace in una vantaggiosa posizione di forza per quanto subordinata agli interessi delle grandi potenze, alle cui scelte dovette adeguarsi passivamente. Il congresso apertosi a Utrecht nel gennaio del 1712 portò, il 14 marzo del 1713, alla sottoscrizione, da parte di Francia e Savoia, di una convenzione per la sospensione delle ostilità in Italia, sottoscritta tra i rappresentanti del re di Francia (Huxelles e Mesnager) e quelli del duca di Savoia (il conte Maffei, il marchese Du Bourg e P. Mellarede). Ratificata dal re di Francia il 19 marzo, la convenzione si configurò di fatto come un armistizio, ossia una tregua. Si trattava dunque in pratica di una temporanea sospensione delle ostilità, senza che tuttavia fossero abolite formalemente le condizioni di belligeranza, il cui scopo principale era quello di ripristinare la situazione esistente prima dell'inizio delle operazioni militari: in sostanza un primo passo, un momento preliminare della negoziazione e della definitiva, successiva stipulazione della pace. Il 13 luglio 1713 venne sottoscritto il trattato di pace tra il re di Spagna e il duca di Savoia mediante il quale venne riconosciuto a quest'ultimo il diritto di successione alla questa quartina sono state individuate innumerevoli varianti: Par noi non ci ha migliori/ Né importa qual ha vintu/ Sia ellu Filippu Quintu/ O Carolu imperadori, in Francesco Loddo Canepa (a cura di), Dispacci di corte, Ministeriali e Vice-regi concernenti gli affari politici, giuridici ed ecclesiastici del Regno di Sardegna (1720-1721), Roma, 1934, p. XV; Pal noi no v'ha middori/ nè impolta cal'ha vintu:/ sia Filippu Chintu/ o Carolu Imperadori in Michelangelo Pira, La rivolta dell'oggetto. Antropologia della Sardegna, Giuffrè, Milano, 1978, p. 411; Pà noi no v'ha middori/ne impolta cal'ha vintu/ sia iddu Filippu Quintu/ o Carolu imperatori, in Francesco Masala, Storia del teatro sardo, in Opere, Alfa Editrice, Quartu S. Elena (Ca), 1993, p. 42; Pal noi non v'ha middori/ O vincia Filippu Chintu/ O Càralu Imperatori in Francesco Cesare Casula, La storia di Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari, 1994, III, p. 1171; Pal noi non v'ha meddori/ né impolta qual ha vintu/ sia iddu Filippu chintu/ o Carlu imperadori, Salvatore Cambosu, Miele amaro, Il Maestrale, Nuoro, 1999, p. 20, dove è attribuita al tempiese Gavino Pes (1724-1795); Pal noi non v'ha middori,/ Né impolta lu chi ha vintu,/ Sia iddu Filippu Quintu/ o Càrrulu imperadori in Gian Giacomo Ortu, La Sardegna sabauda: tra riforme e rivoluzione, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, Attilio Mastino e Gian Giacomo Ortu, Storia della Sardegna, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 242; Pà noi non v'ha middori/ né impolta cal ha vintu/ o Càrrulu imperadori/ o sia Filippu Chintu in Manlio Brigaglia, Storia e miti del banditismo sardo, Editoriale La Nuova Sardegna, Sassari, 2009, p. 53. 46 Renata Ago-Vittorio Vidotto, Storia moderna, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 154.
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Corona di Spagna e contestualmente gli venne ceduto il Regno di Sicilia. È questo un passaggio decisivo, poiché consentì ai duchi di Savoia di elevarsi di grado conseguendo l'ambito titolo regio al di là dell'effimero titolo di re di Cipro cui si è precedentemente accennato. Gli accordi di cui sopra lasciarono tuttavia irrisolte alcune questioni, in particolare quella relativa al controllo e ai rapporti di forza nel Mediterraneo. Tale questione si rivelò di importanza strategica, tanto da portare ad un nuovo conflitto, la cosiddetta Guerra della Quadruplice Alleanza. Le operazioni militari iniziarono nel 1717 col tentativo di invasione spagnola della Sardegna ispirato dal cardinale Giulio Alberoni, primo ministro di Filippo V, il quale, il 12 luglio 1717, appena nominato cardinale dal papa Clemente XI, scriveva segretamente al duca di Parma: «Partirà la scuadra navale il 17 del corrente mese dal porto di Barcellona e anderà a la conquista del Isola di Sardegna come la più facile a conservarsi, unico motivo che ha dissuaso quella del regno di Napoli»47. La difesa austriaca nonostante i proclami di resistenza ad oltranza lanciati dal viceré Antonio de Rubì, si rivelò del tutto inadeguata a causa della mancanza di una flotta e dell'esiguità delle truppe imperiali: Cagliari, cannoneggiata, si arrese senza neanche combattere e le truppe spagnole nell'arco di due mesi conquistarono Alghero e Castellaragonese. La definitiva conquista da parte dell'esercito spagnolo, comandato dal marchese di Lede Juan Francisco de Bette si concluse nel mese di ottobre, ma ebbe breve durata. Venuto a conoscenza dei progetti di Inghilterra e Francia di affidare la Sicilia a Carlo VI, sottraendola ai Savoia in cambio della Sardegna, Vittorio Amedeo II fece ogni sforzo per impedire che ciò avvenisse: le istruzioni fornite al conte Provana il 9 ottobre 1717 indicavano come irrinunciabile per il Piemonte il mantenimento della Sicilia 48. Obiettivo dei Savoia, così come esplicitamente dichiarato nei colloqui diplomatici di Geertruidenberg nel 1710, era l'ingrandimento territoriale verso l'area del Milanese 49, sia per questioni di continuità territoriale che per l'indubbia ricchezza dell'area padana, soprattutto se confrontata alle limitate risorse economiche della Sardegna. Vittorio Amedeo era ben consapevole di dover sottostare suo malgrado alle regole di un gioco che lo vedeva essere semplice comparsa, ottenendo una terra povera e spopolata con un valore finanziario stimato in otto milioni di lire contro i sessantadue e mezzo della
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Francesco Cesare Casula, La storia di Sardegna, cit., III, p. 1176. Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., pp. 23-25. 49 Ivi, p. 15. 48
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perduta Sicilia50. Il 2 agosto 1718 il Trattato di Londra sottoscritto dalla Quadruplice Alleanza tra Inghilterra, Francia, Province Unite dei Paesi Bassi e Impero, stabilì lo scambio del possesso del Regno di Sicilia e del Regno di Sardegna tra Carlo VI d'Asburgo e Vittorio Amedeo II di Savoia. Il 17 febbraio 1720 la fase conclusiva del passaggio della Sardegna dalla Spagna all'Impero d'Austria e da questo ai Savoia fu segnata dalla sottoscrizione del Trattato dell'Aia. Il 12 giugno l'imperatore conferì i pieni poteri per compiere le formalità di ricevimento e trasmissione dell'isola al principe di Ottaiano Giuseppe de' Medici, plenipotenziario e commissario imperiale; il 13 luglio lo stesso principe di Ottaiano stipulò a Genova la convenzione preliminare con il rappresentante sabaudo, il barone Federico Levino di Schulemburg; il 4 agosto, a Cagliari, il rappresentante del re di Spagna, capitano generale del Regno di Sardegna Gonzáles Chacón y Orellana sottoscrisse l'atto di resituzione del Regnum; l'8 agosto il medesimo siglò con il rappresentante sabaudo Louis Desportes, signore di Coinsin, l'Atto di Remissione del Regno di Sardegna, ratificato da Vittorio Amedeo II il 24 agosto e dall'imperatore Carlo VI il 10 ottobre51. A partire dal 3 agosto 1720, a cominciare da Cagliari, le truppe spagnole iniziarono ad abbandonare l'isola, immediatamente occupata dai piemontesi, e contestualmente fu avviato l'invio di lettere ufficiali nelle rocche dell'interno affinché non si opponesse resistenza alle truppe dei Savoia52.
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Le stime sul valore finanziario di Sicilia e Sardegna, sono state effettuate da Luigi Einaudi, La finanza sabauda all'aprirsi del secolo XVIII e durante la guerra di Successione spagnola, Torino, 1908, pp. 415418. 51 Vedi Elisa Mongiano, Universae Europae Securitas, cit., p. 45. 52 Pietro Meloni Satta, Tutti i giorni della Sardegna. Effemeride sarda, Carlo Delfino Editore, Sassari, 2006, II, p. 259.
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Capitolo III. Gli aspetti generali
Al momento del passaggio sotto l'amministrazione piemontese la popolazione sarda era di 310.096 abitanti53, con una densità, al 1728, di 12,87 abitanti per chilometro quadrato. Evidenti lo spopolamento diffuso e le ridotte dimensioni dei principali centri urbani: Cagliari contava 16.294 abitanti e Sassari 13.733. Al di fuori delle città la popolazione era distribuita in circa 370 biddas (o ville, villaggi), centri rurali facenti parte di un'ottantina di feudi così distribuiti: 1 ducato, 16 marchesati, 11 contee, 1 viscontea, 28 baronie, 24 tra signorie e incontrade feudali54. A povertà ed arretratezza delle strutture produttive e politiche si affiancava l'incapacità della classe dirigente, completamente spagnolizzata, di esercitare un ruolo politico e culturale autonomo, mentre le classi subalterne, schiacciate dai privilegi della struttura feudale e clericale, non avevano la forza di esercitare alcun tipo di pressione volta al cambiamento. Alla nobiltà "maggiore", costituita da famiglie con titolo feudale, si affiancava una nobiltà "minore", di origine rurale, in possesso di una patente o diploma di nobiltà acquistata dal sovrano. Nobiltà e clero, cioè i ceti che detenevano il potere effettivo, erano divisi in due fazioni, una filospagnola e l'altra filoaustriaca. In particolare la Chiesa, potendo disporre di un'organizzazione capillare, era potenzialmente in grado di alimentare l'opposizione al nuovo regime. Alla base dell'atteggiamento del clero, immediatamente rivelatosi ostile, al di là di una certa atavica tendenza al conservatorismo, vi era il contrasto tra dinastia sabauda e papato riguardo ad una questione di principio, dato che la Santa Sede non aveva voluto riconoscere a Vittorio Amedeo II il diritto di patronato regio, che era stato riconosciuto invece ai re di Spagna, e premeva per sottoporre il nuovo sovrano ad un'investitura, affermando in tal modo la propria autorità sull'isola. 53
Nel precedente censimento, l'ultimo effettuato dall'amministrazione spagnola nel 1698, la popolazione sarda risultava essere composta da 260.551 abitanti. In questi dati non figurano tuttavia i cosiddetti esenti, che godevano del privilegio di esenzione dal pagamento delle tasse, calcolati intorno alle 5.000 unità. I dati, ottenuti dal censimento effettuato nel 1728 durante il viceregno di Tommaso Ercole Rovero, marchese di Cortanze, sono in Archivio di Stato di Torino (da ora AST), Donativi, Sussidio, Crociata, Mazzo 2. Cfr. Francesco Corridore, Storia documentata della popolazione di Sardegna (1479-1901), Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese, 1976, p. 40 e pp. 215-232. Sulla demografia in Sardegna in epoca sabauda vedi anche Bruno Anatra, Giuseppe Puggioni, Giuseppe Serri, Storia della popolazione in Sardegna nell'epoca moderna, AMeD Edizioni, Cagliari, 1997. 54 V. Luciano Carta, Il Settecento e gli anni di Angioy, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, La Sardegna. Tutta la Storia in mille domande, cit., p. 22.
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Difficile risultava la situazione a proposito dell'ordine pubblico, con il dilagare di fenomeni che sono suscettibili di essere interpretati in maniera differente, ma che sono stati a lungo comunemente definiti brigantaggio o banditismo senza tenere presente che quella che i piemontesi liquidavano come criminalità nasceva dal disagio nel quale erano costretti a vivere i ceti popolari, ed in particolare le popolazioni delle campagne. La fase iniziale della dominazione piemontese in Sardegna è caratterizzata soprattutto dallo scrupoloso rispetto, da parte sabauda, delle clausole che avevano regolato la cessione del Regnum da parte della Corona spagnola. Le ragioni sono molteplici, e spaziano dal delinearsi di una situazione internazionale particolarmente delicata, con il costante e concreto pericolo di un tentativo di colpo di coda della decadente potenza spagnola, allo scarso interesse inizialmente manifestato nei confronti del nuovo possedimento, considerato niente più che un'utile pedina di scambio55. Vittorio Amedeo II, che non si era recato nell'isola neanche in occasione del giuramento56, mirava infatti ad acquisire territori nella più ricca e contigua area lombarda57; i suoi successori, a più riprese e in maniera pressoché ininterrotta fino al 1861, cercarono di liberarsi della Sardegna in cambio di territori il cui possesso era ritenuto più vantaggioso o semplicemente più prestigioso. La ragione principale parrebbe tuttavia la necessità di rispettare gli accordi internazionali e anche per la consapevolezza, da parte dei Savoia, del ruolo marginale svolto in Europa e dell'impossibilità di contrastare il volere di una grande potenza, ancorché in decandenza, come la Spagna. Sembrerebbe pertanto, come andremo a vedere, che la politica piemontese dei primi anni in Sardegna fosse innanzitutto dettata dalla necessità di prendere tempo per meglio organizzarsi e osservare l'evolversi della situazione, al fine di poterne sfruttare gli sviluppi a proprio vantaggio come di fatto avvenne. Nel X capitolo della convenzione successiva al trattato di Londra, sottoscritta a Vienna il 29 dicembre 1718, l'imperatore aveva infatti posto la condizione che «les privilèges des habitans de ce Royaume seront conservés comme ils en ont jouis sous la domination de sa Majesté Impériale et Catholique»58. 55
Cfr. Gian Giacomo Ortu, La Sardegna sabauda: tra riforme e rivoluzione, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, Attilio Mastino e Gian Giacomo Ortu, Storia della Sardegna, cit., p. 243. 56 Secondo Antonello Mattone il fatto sarebbe interpretabile col fatto che «a differenza della Sicilia, il Regno di Sardegna non aveva mai avuto una dinastia regnante autonoma: il sovrano si sentiva pertanto sciolto dal dovere di intervenire personalmente alla cerimonia del giuramento delegando in propria vece, secondo l'antica prassi, il viceré». Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 80. 57 Luigi Bulferetti, Un progetto di baratto della Sardegna durante il Regno di Vittorio Amedeo II, in Archivio Storico Sardo, a cura della Deputazione di Storia Patria per la Sardegna, CEDAM, Padova, 1954, XXIV, pp. 225-235. 58 Cfr. Isidoro Soffietti, Nota introduttiva a Elisa Mongiano, Universae Europae Securitas. I trattati di
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La relazione del conte Antonio Francesco Nicolis di Robilant, primo presidente della Camera dei Conti, datata 18 aprile 1720, sulla situazione del Regnum, descrivendo i sardi come «di natura altieri quanto alle persone civili», e sostenendo che essi «nell'interno del Regno paiono selvaggi»59, aveva fatto presente che è principio politico che il Governo debba essere conforme alla condizione naturale de' Popoli principalmente quando passano sotto un nuovo dominio, e perciò convenga uniformarsi alle leggi, e maniere, con le quali i sardi hanno vissuto per l'addietro [...]. Poiché questo Regno deve venire sotto il Dominio di Sua Maestà, pare che convenga che il suo governo sia aggiustato a' quelle regole, sotto le quali viveva a' tempi di Philippo quarto e Carlo secondo, mentre che con questo sarà facile che quei popoli gustino il nuovo Dominio [...]. Questa base politica devesi principalmente incaricare al viceré, ad effetto che tanto nel comportamento della sua persona, della sua Corte, e delle disposizioni, e provvidenze, che gli occorrerà dare si uniformi alle leggi, constituzioni, ed usi cerimoniali che per l'addietro si praticavano60.
Sulla base di tali indicazioni, Vittorio Amedeo II aveva deciso di fare in modo che i sardi non si avvedessero del cambio di dinastia al vertice del Regnum: dette pertanto ordine al viceré Filippo Guglielmo Pallavicino barone di Saint Remy61 di non dare favore di sorta ad alcuna opinione; attraesse tutti a sé; mescolasse le cariche e gli impieghi senza chiedere ad alcuno la professione di fede; che rispettasse le usanze del paese; che non facesse pratica alcuna per abbandonare la lingua spagnuola; che mantenesse colle dame le maniere spagnuole senza permettere che s'introducessero le piemontesi; che facesse in modo che i sudditi non si accorgessero di avere cambiato signoria62.
Il viceré non doveva dunque tentare di imporre l'utilizzo di una nuova lingua, né cercare di apportare innovazioni in campo ecclesiastico, né provare a indurre le fazioni austriaca e spagnola a superare una rivalità che di fatto poteva rivelarsi molto vantaggiosa per il nuovo governo, quanto piuttosto acquisire il maggior numero di informazioni possibile sul loro conto, al fine di riuscire a tenerle agevolmente sotto controllo o addiritura di cessione della Sardegna a Vittorio Amedeo II di Savoia, cit., p. XI. Il riferimento è a Traités publics de la Royale Maison de Savoie avec les puissances étrangères depuis la paix de Château-Cambrésis jusqu'à nos jours, II, Turin, 1836, p. 392. 59 Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 10. Il riferimento è a AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 4, n. 4, «Sentimento del conte Nicolis di Robilant per le provvisioni da farsi per il Governo della Sardegna». 60 Ivi, p. 38. Il riferimento è a AST, Corte, Paesi, Sardegna, Politico, cat. 2, mazzo 4, n. 4, «Sentimento del conte Nicolis di Robilant per le provvisioni da farsi per il Governo della Sardegna». 61 1662-1732, fu viceré dal 1720 al 1723 e poi dal 1726 al 1727. 62 Pietro Meloni Satta, a cura di Manlio Brigaglia, Tutti i giorni della Sardegna. Effemeride sarda, cit., p. 260.
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manovrarle63. In riferimento agli accordi di Vienna, con l'Instruzione del 20 maggio, sempre rivolta al viceré barone di Saint Remy, Vittorio Amedeo II scriveva: la conformità [...] degl'usi praticati nel Governo dell'Imperatore, e dai Viceré Spagnuoli dovrà essere anco in riguardo alle Leggi, Constituzioni, et Usanze Cerimoniali. Vi trasmettiamo a quest'effetto per vostra informazione copia delli due articoli di detto trattato portante la restituzione che il re di Spagna fa all'Imperatore dell'isola e regno di Sardegna e della cessione che questi ne fa a noi, come anche copia del capo X [...] e siccome essi articoli sono la base della cessione, e che il predetto capo X contiene la sostanza circa il modo dell'esecuzione, è nostra intenzione che venghino da voi esattamente eseguiti 64.
Il Saint Remy, giunto in Sardegna in incognito già il 16 luglio del 1720 65, tenne il proprio discorso di insediamento il 2 settembre giurando pertanto, in ottemperanza alle clausole sottoscritte, di operare in osservanza e col fine di mantenere le norme in vigore nel regno: juramos [...] de tener y observar [...] qualquesquier privilegios, constituciones, capitulos de corte, pragmaticas, sanctiones, estatutos, ordenaciones, libertades, franquesas, exempciones, buenos usos, fueros, costumbres escritas o no escritas, indultos y otros qualesquier generos de concessiones y gracias, tanto en parlamento general hechas como singularmente, las que se hizieron a las universidades, collegios y particulares personas de este Reyno, capitolos de breu, Carta de Logu y todas qualesquier cosas que en semejantes juramentos se ha acostumbrado jurar por los Serenissimos Reyes de Aragon de imortal memoria concididos y otorgados»66.
L'atto di remissione del Regno sottoscritto a Cagliari l'8 agosto 1720 precisava che il nuovo sovrano quod idem Rex Sardiniae libenti animo confirmabit et observabit, prout vigore praesentis confirmat leges, privilegia et statuta Regni praedicti eodem modo et forma, quibus observabantur et reperiebantur in usu tempore dominationis Suae Maiestatis Caesareae67.
Vittorio Amedeo preservò pertanto intatte le istituzioni pubbliche del Regnum, a 63
Cfr. Anna Girgenti, La storia politica nell'età delle riforme, in AA. VV., a cura di Massimo Guidetti, Storia dei Sardi e della Sardegna, cit., pp. 27-28. 64 Francesco Loddo Canepa (a cura di), Dispacci di corte, Ministeriali e Vice-regi concernenti gli affari politici, giuridici ed ecclesiastici del Regno di Sardegna (1720-1721), cit., n. 3, p. 6. Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 39. 65 Cfr. Elisa Mongiano, Universae Europae Securitas, cit., p. 48. 66 Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 89. 67 Elisa Mongiano, Universae Europae Securitas, cit., DOC. 3, p. 130.
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cominciare dalla figura del viceré: uguali restarono il sistema delle fonti normative, la Reale Udienza, la Reale Governazione di Sassari, l'amministrazione feudale, l'amministrazione delle torri, le truppe miliziane. Altra preoccupazione del nuovo sovrano era quella di fare in modo di apparire equidistante rispetto alle due fazioni, quella filo-austriaca e quella filo-spagnola (mentre non vi era nessuna fazione filo-piemontese), che avevano diviso le classi dirigenti locali sin dai tempi della guerra di Successione spagnola, al fine di poterle manovrare: «Trattando egualmente li seguaci dell'uno, e dell'altro partito, [bisogna] lasciarli divisi, ed evitare, che si possino unire per ricavarne all'occasione quel buon uso, che la rivalità può produrre»68. Il 7 gennaio 1721 scriveva al Saint Remy: A quel che vediamo dalle vostre lettere e relazioni, li partiti spagnolo e austriaco, e molto più il primo hanno molto radice nel Regno. È però di nostro servizio che venghino trattati ambi indifferentemente perchè ambi possono essere utili e che per altro nella provvisione di posti s'abbia di mira di nominare soggetti dell'uno e dell'altro partito69.
Il primo ottobre dello stesso anno, a rimarcare l'importanza attribuita all'atteggiamento imparziale nei confronti dei due partiti, aggiungeva: Mais sur tout il faut absolument, comme nous vous l'avons marqué dans vos instructions observer, une perfaite impartialité entre eux, qui sont de different génie [...], les traiter, et chatier egalement, les recevoir avec la même acueil, et les favoriser egalement, et de s'en rendre egalement le maître70.
Sin dagli esordi, dunque, la nuova dinastia manifestava la preoccupazione di prevenire qualsiasi rischio di opposizione nei propri confronti, assumendo da un lato un atteggiamento equidistante nei confronti dei due partiti che si erano venuti a creare, ma allo stesso tempo utilizzando la mano pesante nei confronti di coloro che in qualche modo potevano costituire un pericolo: il visconte del Porto, accusato di istigare una rivolta antipiemontese, fu arrestato ed espulso dal Regno, mentre i sostenitori del partito filo-spagnolo che gli erano vicini, ed in particolare il conte di S. George, furono "avvisati" delle spiacevoli conseguenze di un atteggiamento ostile e richiamati all'ordine 68
Cfr. Maria Lepori, Dalla Spagna ai Savoia. Ceti e corona nella Sardegna del Settecento, Carocci, Roma, 2003, p. 15. 69 V. Francesco Loddo Canepa (a cura di), Dispacci di corte, Ministeriali e Vice-regi, cit., p. 95. Cfr. Maria Lepori, Dalla Spagna ai Savoia, cit., p. 15. 70 V. Francesco Loddo Canepa (a cura di) Dispacci di corte, Ministeriali e Vice-regi, cit., p. 234.
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così come si evince dalla lettera inviata da Vittorio Amedeo II al viceré il 10 novembre 1720: Vous devez aussi faire dire à ceux qui sont attachés au dit Vicomte del Puerto qu'ils doivent bien reflechir aux suites des déferences et assiduités qu'ils ont avec une personne qui tient des discours imprudents, que leurs assiduités pourroient leur être préjudiciables [...] principalement le faire dire au Comte de S. George71.
I piemontesi temevano la possibilità, ritenuta concreta, che i sardi potessero vedere con favore un eventuale ritorno degli spagnoli e, dunque, un reinserimento dell’isola nel contesto del Regno di Spagna, per cui si riteneva indispensabile consolidare in tutti i modi l'attaccamento delle popolazioni isolane alla nuova dinastia. Allo stesso tempo furono imposte la vigilanza sulla corrispondenza e sulle partenze dal regno: Si avrà per massima generale di diffidare di tutti gli Spagnoli che resteranno nel regno, con impieghi o senza impieghi, come altresì di tutti gli aderenti o beneficiati dai medesimi. Si dovrà mantenere il regno nell'ignoranza delle nuove pubbliche et nell'otiosità in cui presentemente si trova, stando nell'avvertenza di sapere il carteggio e corrispondenze dei principali regnicoli, che sono fuori del medesimo, con procurare etiandio di intercettare le lettere per scuoprire le loro mire e intenzioni 72.
Ai procuratori dei feudatari spagnoli fu vietato, per i primi cinquant'anni di governo piemontese, di assistere alle assemblee dei nobili per il rinnovo del donativo. Nel frattempo non si disdegnava di prendere tutte le precauzioni possibili, anche da un punto di vista militare, predisponendo una serie di misure atte ad impedire un eventuale tentativo di sbarco nell'isola. L'atteggiamento assunto dal governo piemontese nei primi decenni ha per lungo tempo condizionato la lettura storiografica di questo periodo, liquidato come una fase di immobilismo nell'azione politica. Le origini di questo tipo di interpretazione devono essere ancora una volta ricercate nell'opera del Manno, che influenzò con la propria autorevolezza in ambito di storia locale, se non tutta, la gran parte della storiografia Otto e Novecentesca. In realtà più che di immobilismo sarebbe maggiormente appropriato parlare di attendismo, nel senso che in effetti, la politica piemontese mirava ad aggirare i vincoli 71 72
Ivi, p. 71. Cfr. Maria Lepori, Dalla Spagna al Piemonte, p. 16. Ibidem.
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posti dagli accordi internazionali, senza tuttavia violarli apertamente, cercando nel frattempo di svuotare delle rispettive funzioni essenziali le istituzioni pre-esistenti, che avrebbero potuto in qualche modo esserle di intralcio. La volontà di "piemontizzare" la Sardegna può per altro essere facilmente dedotta dalle relazioni inviate a Torino dai burocrati che per conto del governo piemontese visitarono l'isola, occupandosi prevalentemente di verificare la situazione politica, il funzionamento degli apparati amministrativi, le caratteristiche demografiche e produttive, ma disinteressandosi tuttavia delle condizioni reali della popolazione 73. D'altro canto le istruzioni fornite ai viceré nei primi anni ne facevano dei semplici esecutori di ordini, dei missi dominici con la responsabilità unica di far eseguire alle struture di potere locali quanto stabilito a Torino dal sovrano. Il 3 settembre 1730 il re Vittorio Amedeo II abdicò a favore del figlio Carlo Emanuele III74, salvo poi ripensarci, tentare di riprendere il potere e finire i suoi giorni confinato nel castello di Rivoli in preda a deliri e farneticazioni. Anche il regno di Carlo Emanuele III si caratterizzò, particolarmente nei primi anni, per il tentativo di garantire una continuità o quanto meno di non rendere evidente la rottura con la passata dominazione iberica: nelle isruzioni al viceré Gerolamo Falletti, marchese di Castagnole e di Barolo75, in data 20 ottobre 1731, raccomandava di seguire in ogni cosa la traccia, che ci hanno lasciata gli spagnuoli da Carlo II in dietro. Perciò usando nel parlare la lingua italiana vi valerete della Spagnuola nello scrivere, seguendo anche il Cerimoniale, che vi troverete in uso [...]. Vi conformerete nel resto alle leggi, prammatiche, capitoli di Corte, lettere Reali, ed usi del Regno per quanto li troverete in osservanza, accomodandovi eziandio alle maniere di codesti popoli con impedire che s'introducano le piemontesi e molto meno che si dimostri alcun disprezzo dei loro costumi, dovendo i nostri Ministri avere in considerazione i medesimi, e procurare di non deviarne76.
I piemontesi, che con la Sardegna ed i sardi non erano mai entrati in contatto e non avevano nessuna affinità ma solo differenze, operarono al fine di assimilare l'isola, 73
Vedi ad esempio Lorenzo Del Piano, Una relazione inedita sulla Sardegna nel 1717, in Archivio Storico Sardo, a cura della Deputazione di Storia Patria per la Sardegna, CEDAM, Padova XXIX, 1964. 74 1701-1773. Detto beffardamente Carlin, regnò dal 1730 per quarantatrè anni ponendosi come elemento di transizione tra l'assolutismo ed il "riformismo" della politica sabauda. Nel 1773 gli successe il figlio Vittorio Amedeo III. 75 1699-1735. Viceré dal 1731 al 1735. 76 Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 47. Il riferimento è a Luigi La Rocca, Istruzioni al marchese Falletti di Castagnole viceré di Sardegna dal 1731 al 1735, in Studi storici e giuridici dedicati ed offerti a Federico Ciccaglione nella ricorrenza del XXV anniversario del suo insegnamento, III, Catania, 1910, pp. 111-112.
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servendosi di un apparato burocratico rigidamente gerarchizzato ma allo stesso tempo scarsamente professionale e per niente efficiente. Inaugurando una tradizione destinata a protrarsi a lungo e diffusa ancora per tutto il Novecento, il governo piemontese iniziò ad inviare in Sardegna in forma punitiva funzionari la cui presenza non era gradita negli Stati di terraferma o comunque vicino al potere centrale. Allo stesso tempo le classi dirigenti locali erano quasi totalmente escluse dagli organismi di direzione politica ed amministrativa del Regno, dando il via a quella "questione degli impieghi" che fu una delle rivendicazioni della rivoluzione antipiemontese (oltre che antifeudale) del 1793-96. Quello che si venne a creare fu dunque un rapporto unilaterale fortemente vincolato dall'intrasigente centralismo del governo sabaudo, il quale, con la pretesa di governare ogni cosa da Torino si poneva nelle condizioni di «avviare un processo, che, comunque lo si voglia definire, stabiliva un rapporto di subordinazione di tipo coloniale tra la Sardegna e gli Stati di terraferma»77. La semplice osservazione dell'isola e delle sue specificità territoriali, storiche ed antropologiche era filtrata dall'inappropriato confronto con una realtà, come quella piemontese, considerata in termini che oggi definiremmo etnocentrici come un modello positivo universalmente valido e, dunque, da imporre al di là dalle condizioni oggettive che ne favorissero o meno l'imitazione: «Ogni informazione ricevuta veniva letta solo in luce della sua somiglianza o differenza dal modello piemontese, ogni provvedimento doveva segnare un passo nel raggiungimento di questo»78. Prese forma in tal modo lo stereotipo negativo del sardo che tanta fortuna ebbe nelle cancellerie sabaude, assumendo nel tempo i toni di vero e proprio razzismo protrattosi praticamente fino ai giorni nostri. A conclusione del primo triennio di governo, il barone di Sain Remy scriveva che Li sardi sono generalmente ladri, omicidi, vindicativi e falsi testimoni, e questi protetti sia dagli ecclesiastici che dalla nobiltà, ministri ed altri, e così il viceré deve [...] non creder né fidarsi di nessuno, poiché occultano la verità con menzogne così ben concepite che per certo ingannano79.
Nel 1728, incontrando a Torino Montesquieu e confidandogli che se il re avesse
77
Girolamo Sotgiu, L'età dei Savoia (1720-1847), in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, La Sardegna, cit., I, 2, La storia della Sardegna, p. 67. 78 Cfr. Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, UTET, Torino, 1987, p. 5. 79 Cfr. Maria Lepori, Dalla Spagna ai Savoia, cit., p. 19.
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voluto donargliela non avrebbe mai accettato80, gli descriveva la Sardegna come una terra senza «né aria né acqua»81, i cui abitanti «non falciano l'erba per nutrire il bestiame d'inverno, perché i loro padri non lo hanno mai fatto; non piantano un albero, perché i loro padri non lo hanno mai fatto»82. Il viceré Alessandro Doria del Maro83 scriveva invece che la causa dei mali del Regno «è da ricercarsi nella natura stessa di questi popoli, poveri, nemici della fatica, feroci e dediti al vizio»84, «la loro rusticità giunge al segno di preferire di gran lunga l'impiego di sbirro a quello di soldato» 85 e che «la loro corporatura è tanto infelice che talvolta fra dieci, non ve n'è uno che non sia di rifiuto [...] Questi sardi non sono nati per servire in guerra non volendosi accomodare alla disciplina militare, oltrechè sono poltroni e ladri»86. Nella relazione completata nella primavera del 1731 ed inviata al marchese d'Ormea presso la direzione della Segreteria di Stato, il conte Beraudo di Pralormo scriveva che tanto più che per la natural pigrizia, di cui abbondano questi regnicoli, naturalmente aborriscono il darsi all'agricoltura, non hanno fondo né genio per intraprendere negozi, sì che non hanno altro partito a prendere, che di studiare qualche poco, per poscia determinarsi, o a vestir l'abito clericale, affine di pervenir a qualche beneficio dei quali ne abbonda il Regno, o di prendere la laurea, se hanno fatto qualche riuscita nelle scienze, o finalmente di fare il notaro se hanno potuto avanzarsi tanto nelle lettere per poter giungere alla laurea, posto che anche non hanno il genio per fare il soldato»87.
I sardi, come abbiamo precedentemente accennato, erano dunque esclusi dai pubblici impieghi, destinati ai piemontesi. Ma non solo: la Sardegna intanto era esposta agli insulti e ai motteggi dei piemontesi [...] molti dei piemontesi lanciavano di continuo contro i sardi dei tratti satirici, e ne parlavano con disprezzo anche in pubblico, tacciandoli di 80
Cfr. Antonello Mattone, La storia della Sardegna: una chiave di lettura, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, La Sardegna, cit., I, 2, La storia della Sardegna, p. 1. 81 Cfr. Aldo Accardo, Prefazione a Rossana Poddine Rattu, Biografia dei viceré sabaudi del Regno di Sardegna (1720-1848), cit., p. 7. 82 Ibidem. 83 Abate di Vezzolano, di lui non si conoscono né la data di nascita né quella di morte. Viceré dal 1723 al 1726. 84 V. Girolamo Sotgiu, L'età dei Savoia, cit., p. 66. 85 Cfr. Francesco Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793. 2. Gli anni dal 1720 al 1793, Gallizzi, Sassari, 1986, p. 71. Il riferimento è a Archivio di Stato di Cagliari (da ora ASC), Regia Segreteria di Stato e di Guerra, I, Dispacci a Torino (dispaccio del 08/04/1724). 86 Ibidem. 87 Cfr. Anna Girgenti, La storia politica nell'età delle riforme, in AA. VV., a cura di Massimo Guidetti, Storia dei Sardi e della sardegna, cit., p. 55.
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stolidezza e d'ignoranza, oramai passata in proverbio88.
E ancora le fonti riportano «i dileggiamenti e le canzoni, con cui i piemontesi con maggior ardire e sfrontatezza insultavano alla nazione sarda89». I sardi venivano comunemente chiamati «sardo molente 90», cioè asino, ed erano considerati «scrocchi, vili e canaglie91». Una delle prime preoccupazioni dei nuovi dominatori fu senz'altro quella di operare al fine di riuscire a creare un ceto dirigente che fosse loro alleato nel tentativo di liberarsi dell’aristocrazia spagnola. A tale scopo fu elaborato nel 1744 un progetto di riscatto dei feudi in possesso dei nobili residenti in Spagna, il quale però fu bloccato dall'opposizione del governo spagnolo, che vigilava sul rispetto dei patti relativi alla conservazione dei privilegi feudali in seguito alla cessione della Sardegna ai Savoia. L'alternativa fu quella di un lento passaggio di feudi tramite l'acquisto da parte della borghesia piemontese (che acquisì in tal modo anche titolo nobiliare), che andò a costituire un nucleo di fedeli alleati della dinastia sabauda92. Resta tuttavia diffusa la convinzione che i Savoia, al di là dei progetti riformisti, continuarono ad appoggiarsi sul ceto feudale. La storiografia antispagnola e filosabauda ha a lungo voluto rappresentare le leggi spagnole all'avvento del dominio sabaudo come un qualcosa di caotico e disordinato. Per quanto anche questo giudizio sia stato oggetto di revisione, bisogna osservare che la situazione giuridica era in effetti piuttosto complicata, con una stratificazione di fonti che vedeva aggiungersi alla base costituita dall'antica Carta de Logu d'Arborea93 e dalle consuetudini "sardesche", le costituzioni emanate dai sovrani catalano-aragonesi prima e spagnoli poi. Le
leggi
piemontesi
costituirono
88
dunque
semplicemente
un'ulteriore
Acta Curiarum Regni Sardiniae, Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari, 2000, 24, II, 119/6, p. 1083. 89 Ivi, p. 1086. 90 Ivi, 24, II, 165/2, p. 1276. 91 Federico Francioni, Vespro Sardo, Dagli esordi della dominazione piemontese all'insurrezione del 28 aprile 1794, cit., p. 67. 92 Cfr. Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, cit., p. 3. 93 Raccolta legislativa fondamentale del Logu di Arborea, divisa in 183 capitoli. Promulgata nel 1392 ed estesa ai feudi nel 1421, fu emendata in alcune sue parti nel corso del XVI e del XVII secolo, sviluppando una tradizione interpretativa inaugurata dai Commentaria et Glosa in Cartam de logu dello spagnolo Gerolamo Olives. Scritta in sardo logudorese ed ispirata prevalentemente alla tradizione locale, anche in conseguenza della crescente importanza politica e delle conquiste territoriali dei giudici di Arborea, estese progressiavamente la propria validità su quasi tutta la Sardegna (con l'esclusione di alcuni centri cittadini: Cagliari, Sassari, Alghero, Bosa, Iglesias, dove la legislazione statutaria si configurava come residuo della fioritura di brevi, capitula e statuti comunali del XIII e XIV secolo), sostituendo le norme e le carte vigenti negli alti tre giudicati.
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stratificazione, tanto che ancora nel 1775 la raccolta delle leggi voluta dal governo sabaudo consisteva in una «semplice collezione» delle disposizioni che non abrogava la normativa del periodo precedente prescrivendone invece l'osservanza 94, cosa che perdurò praticamente fino al 1827 con l'entrata in vigore delle Leggi civili e criminali emanate da Carlo Felice. Le disposizioni della corte sabauda si suddividevano in: editti, riguardanti materie generali; patenti, se relative a singole persone o cose; biglietti, quando riferite a materie di minore importanza; e pregoni. Anche nel momento in cui furono avviate le prime riforme, relative all'amministrazione della giustizia, alle istituzioni scolastiche, all'Università, ai Monti Frumentari95 ed ai Monti Nummari (o di soccorso)96, queste non andavano ad intaccare l'antica normativa, né tanto meno i privilegi feudali 97. Il 15 gennaio 1770 fu emanato l'editto che restringeva la facoltà di fedecommettere, che oltre a causare il malcontento generalizzato dei feudatari, comportò una presa di posizione ufficiale da parte del governo spagnolo facente capo a Carlo III che, tramite un memoriale della prorpia ambasciata, accusava esplicitamente la corte di Torino di essere venuta meno alla «fede de' pubblici trattati» e chiedeva che le nuove norme venissero annullate «indistintamente per quanto concerne i maggiorati, feudi, e vincoli già instituiti, ed esistenti in detto Regno»98. Dal punto di vista economico l'orientamento fu quello di adottare i mezzi fiscali necessari affinché il possesso dell'isola non gravasse sulle finanze piemontesi. In tal senso si spiegano i provvedimenti atti ad incrementare la coltura del tabacco e la 94
Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 56. il riferimento è a Editti, Pregoni ed altri provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna, I, Cagliari, 1775, Introduzione, pp. VIII-IX. 95 Istituiti dal viceré Lodovico d'Hallot conte des Hayes con pregone del 4 settembre 1767, gestivano il credito agrario anticipando le sementi agli agricoltori. In realtà essi erano un'innovazione nell'ordinamento agricolo sardo introdotta dagli spagnoli nella seconda metà del XVII secolo sul modello dei positos (depositi) diffusi in Spagna nel secolo precedente: dovevano assicurare le provviste di grano alla popolazione e, in via subordinata potevano anticipare la semente ai contadini poveri, proponendosi di eliminare la pratica dei prestiti ad usura di cui erano vittime i contadini mediante la costituzione di un fondo dotale in natura, a cui ciascuno potesse attingere per le necessità della semina con l'impegno della restituzione a raccolto avvenuto. 96 Istituiti con editto del 22 agosto 1780 fornivano ai contadini prestiti a basso tasso d'interesse per l'acquisto di strumenti da lavoro o per far fronte alle spese del raccolto. 97 Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna dal trattato di Utrecht alla presa di possesso sabauda (1713-1720), cit., p. 56. 98 Ibidem. Il riferimento è a ASC, Regia Segreteria di Stato e di Guerra, serie I, Dispacci ministeriali ai viceré, vol. 40, «Memoriale dell'ambasciatore di Spagna per la deroga ad alcuni articoli dell'editto pubblicato in Sardegna sopra i testamenti e i fedecommessi» (22 giugno 1772), inviati in copia a Cagliari in appendice al dispaccio del 19 agosto.
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produzione di sale. I piemontesi trovarono le miniere definitivamente abbandonate e favorirono numerosi tentativi di sfruttamento da parte di diverse societĂ .
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Capitolo IV. Gli aspetti istituzionali
L'affermazione del potere piemontese vide un momento fondamentale nella riorganizzazione e razionalizzazione secondo canoni filo-piemontesi degli apparati amministrativi e burocratici del regno. I Savoia erano d'altra parte pienamente coscienti che la distribuzione degli impieghi era il nodo fondamentale attraverso cui i precedenti governi spagnoli erano stati in grado di creare e mantenere alleanze ed equilibri con i gruppi di potere locali. Tale processo può essere individuato come il primo tentativo di sostituire nell'apparato burocratico gli appartenenti alla nobiltà con elementi della classe borghese, probabilmente perché ritenuta in questa fase più "docile". La struttura politica ed amministrativa di base restò tuttavia quella vigente sotto la dominazione iberica. Alter nos nominato dal sovrano con incarico di Luogotenente Generale e Capitano Generale era il viceré, che guidava l'amministrazione civile e giudiziaria e comandava le forze armate di terra e acqua, costituite da un contingente limitato di truppe piemontesi integrate da mercenari svizzeri. Nei primi decenni lo spazio di intervento dei viceré era in realtà piuttosto limitato. Il governo sabaudo cercò di rafforzare la sua influenza e di integrare i ceti dirigenti locali nell'amministrazione del regno, cosa che avvenne verso la fine degli anni Quaranta del secolo, quando la monarchia riuscì a disporre di una struttura economica, politica ed amministrativa nella quale i vertici e il personale intermedio si consideravano legati da vincoli di fedeltà al sovrano. Il viceré, che faceva capo a due distinti Ministeri torinesi, quello dell'Interno e quello della Guerra, era affiancato da un Segretario di Stato, con relativo personale addetto alla segreteria, ed assistito, per quanto concerne le funzioni giudiziarie e negli uffici politici, dalla Reale Udienza, costituita da giudici a loro volta di nomina regia, sia "nazionali"99 che piemontesi. Al viceré venne affiancato (e spesso si sovrappose in conflitto di competenza, dato che rispondeva del proprio operato direttamente al governo centrale) l'ufficio dell'Intendenza Generale, che dal 20 maggio 1720 sostituì quello della Procurazione Reale, conservandone gli stessi compiti e prerogative in ambito di amministrazione finanziaria del Regno, assumendo fra l'altro la veste di tribunale (sul modello della Capitania Generale), cui spettava la cognizione dei naufragi e dei contrabbandi, in quanto d'interesse del Real Patrimonio. 99
"Nazionali" erano definiti i cittadini del Regno nati in Sardegna.
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Il 31 dicembre 1721 fu istituito a Torino il Supremo Consiglio di Sardegna, che ereditò le competenze del Supremo Consiglio d'Aragona sovrintendendo alle questioni di maggiore importanza e rilevanza politica per il governo dell'isola, fornendo al sovrano pareri e consulenze inerenti l'amministrazione della giustizia, la giurisdizione ecclesiastica, il conferimento di impieghi e cariche, l'emanazione di nuove leggi e la convocazione degli Stamenti. Il Consiglio risiedeva a Torino ed era composto da piemontesi, mentre i sardi potevano prendervi parte con ruolo consultivo in rappresentanza dei tre Stamenti. Assolvendo al ruolo di tribunale supremo, era posto al vertice della complessa struttura giudiziaria dell'isola, che manteneva una doppia giurisdizione, regia e baronale, oltre a quella ecclesiastica, decisamente caotica, caratterizzata com'era da disfunzioni e soprattutto conflitti di competenza che ne rendevano estremamente lento il funzionamento. I baroni, che avevano giurisdizione nei loro feudi, amministravano il primo grado di giustizia per mezzo di ufficiali da loro stessi nominati, mentre se risiedevano fuori dal regno erano sostituiti da reggitori o procuratori, la cui nomina doveva essere approvata dal viceré. I vassallos potevano pertanto rivolgersi ai tribunali per gli appelli o in caso di negata giustizia, casi che si verificavano assai raramente a causa dei giustificati timori di ritorsioni e vendette. Tutti gli affari passavano per le mani del Reggente la Cancelleria di Stato, subordinato solo ed esclusivamente al viceré, di cui era segretario particolare non esistendo di fatto la Cancelleria. Il controllo sull'andamento dell'amministrazione della giustizia era affidato ad un Avvocato Fiscale Regio; la tutela dei diritti patrimoniali dello Stato e delle città regie ad un Avvocato Fiscale Patrimoniale; il patrocinio dei nullatenenti ad un Avvocato dei Poveri. A questi istituti si andavano ad aggiungere i rappresentanti dei ceti dell'isola, riuniti negli Stamenti che si sarebbero dovuti riunire in Parlamento ogni dieci anni, ma che in realtà si riunirono per la prima volta solo nel 1793 al momento del mancato tentativo di conquista della Sardegna da parte dei francesi. A Sassari, capitale del Capo di Sopra, esisteva una struttura analoga alla Reale Udienza ma a questa subordinata, la Reale Governazione, costituita dal Governatore del Capo del Logudoro e dai suoi giudici, mentre a capo delle due sezioni civile e penale stavano due Assessori. Le sette città regie, tra cui la medesima Sassari, si amministravano secondo gli 39
statuti tradizionali con una certa autonomia nei confronti del potere viceregio. In esse l'organo di governo era costituito dal Consiglio Civico, composto da cinque consiglieri e presieduto dal Primo Consigliere o Consigliere Capo. La giurisdizione di prima istanza era competenza del Tribunale del Vegherio, composto da un assessore togato e da un consigliere politico, con l'eccezione di Iglesias, dove per antico privilegio il tribunale era composto da un capitano di giustizia non togato. A capo della magistratura civica stava il Veghiere o PodestĂ , mentre l'amministrazione cittadina era curata da diversi uffici, tra i quali particolare importanza ricoprivano quelli dell'annona e del mostazzaffo, che soprintendevano rispettivamente ai viveri ed ai prezzi del mercato pubblico. Nelle ville gli ufficiali, scelti dal vicerĂŠ, si avvalevano del voto di un assessore e trasmettevano le cause per le relative sentenze al Tribunale del Consultore Reale (con l'eccezione del Capo di Sassari, dove vi era un Proconsultore). Per le cause di valore non eccedente i 40 scudi o per la tutela di vedove ed orfani, si poteva ricorrere al Tribunale della Reale Cancelleria, retto dal primo magistrato della Reale Udienza. Completava la struttura giudiziaria di prima istanza il Tribunale dell'Intendente, che aveva competenza per le cause relative al patrimonio regio e che era costituito appunto da un intendente e dall'avvocato patrimoniale. Contro le sentenze emesse dalle curie subalterne, sia regie che baronali, era possibile presentare appello alla Reale Governazione o alla Reale Udienza. Al di lĂ dell'appello erano previsti anche altri gradi di giustizia: le sentenze della Reale Governazione potevano essere impugnate presso il Tribunale della Reale Udienza, mentre all'interno di quest'ultima era possibile presentare appello dalla sala criminale a quella civile e, in alcuni casi, chiedere il cosiddetto giudizio di supplicazione, che consisteva in una sorta di appello a sale unite. In ultima istanza era infine possibile ricorrere presso il Supremo Consiglio di Sardegna, che aveva competenza per tutte le cause civili, penali e feudali. La giurisdizione ecclesiastica era invece esercitata in primo grado nelle curie vescovili, mentre per l'appello si poteva ricorrere al Tribunale del Metropolitano e successivamente al giudice dei Gravami, che era nominato ogni cinque anni dal pontefice. Al Tribunale delle Contestazioni spettava infine la decisione senza appello nei conflitti di competenze tra curia laica e curia ecclesiastica100. 100
Cfr. Anna Girgenti, La storia politica nell'etĂ delle riforme, in AA. VV., a cura di Massimo Guidetti,
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Il governo sabaudo mirava evidentemente ad operare trasformazioni complessive nella società sarda. Il 15 ottobre 1726 Vittorio Amedeo II si occupò di redigere una protesta contro l'investitura da parte del Papa del Regnum Sardiniae, dichiarando di aver ricevuto e di voler ritenere il Regno libero da ogni dominio temporale dei pontefici. In risposta, il 25 ottobre ricevette da parte di Benedetto XIII uno speciale indulto per sé e per i suoi successori e il conseguente patronato sulle chiese della Sardegna, con la facoltà di presentare alla Sede apostolica la terna delle persone da proporsi alle chiese metropolitane e vescovili dell'isola101. Come la monarchia spagnola aveva per secoli collocato sulla cattedra episcopale cadetti di famiglie nobili di origine iberica o isolane, così Vittorio Amedeo II riuscì ad ottenere a sua volta il patronato della chiesa sarda, inaugurando un periodo di oltre un secolo durante il quale i vescovi furono quasi tutti piemontesi102.
Mantenendo
l'uso
spagnolo
nella
distribuzione
delle
cariche
ecclesiastiche il sovrano affidò i tre arcivescovadi a ecclesiastici provenienti dalla terraferma, mentre i prelati sardi potevano accedere solo ai quattro vescovati103. Tra i più importanti istituti introdotti ex novo dalla legislazione sabauda in Sardegna va senz'altro segnalata l'Insinuazione degli atti pubblici (15 maggio 1738), che divideva il territorio sardo in circoscrizioni dette "tappe d'insinuazione", in cui era obbligatorio insinuare (ossia registrare) gli atti dei rispettivi distretti. Del 1759 sono le nuove norme penali e il concordato sulla limitazione del diritto di asilo; del 1761 la riduzione delle immunità giurisdizionali per gli ecclesiastici. L'editto del Bogino, promulgato con l'intento di riorganizzare gli ordinamenti amministrativi delle città, del 24 settembre 1771, istituiva i Consigli Comunitativi. L'istituzione dei Consigli costituì motivo di scontro con la Corona spagnola, giacché rappresentava solo l'ultima tappa di una lenta ma progressiva limitazione, iniziata già da tempo, delle prerogative concesse da aragonesi prima e spagnoli poi con cui in pratica il governo piemontese mirava a creare nei villaggi un ceto di amministratori locali autonomo dalle istituzioni feudali e direttamente soggetto al potere regio104. I Consigli erano costituiti da nove membri nelle città di Sassari e Cagliari, da sei membri nelle altre cinque città regie in modo che costituissero rappresentanza di ognuna Storia dei Sardi e della Sardegna, cit., pp. 31-34. 101 Pietro Meloni Satta, a cura di Manlio Brigaglia, Tutti i giorni della Sardegna. Effemeride sarda, cit., p. 265. 102 Cfr. Rossana Poddine Rattu, Biografia dei viceré sabaudi, cit., p. 35. 103 Cfr. Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, cit. p. 5. 104 Cfr. Antonello Mattone, La cessione del Regno di Sardegna, cit., p. 59. Il riferimento è a Pietro Sanna Lecca, Editi, Pregoni ed altri provvedimenti emanati dal Regno di Sardegna, Cagliari, 1775, II, tit. XIII, ord. VII, pp. 86-93.
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delle tre classi in cui erano stati raggruppati i cittadini eleggibili. Eliminata l'estrazione a sorte (anche per quel che riguardava il conferimento degli impieghi amministrativi), si stabilì che la designazione avvenisse per anzianità e che annualmente dovesse essere rinnovato soltanto un consigliere per classe. Si stabilì inoltre che le votazioni all'interno del consiglio avvenissero per maggioranza e che, in caso di parità, potessero partecipare i consiglieri dell'anno precedente non più in carica; mentre per le deliberazioni di particolare importanza, il numero dei partecipanti sarebbe stato, col consenso del viceré, raddoppiato, facendo intervenire quanti avrebbero dovuto far parte della stessa assemblea l'anno successivo105. Per quanto riguardava invece le comunità rurali, precedentemente prive di un organo di rappresentanza che ne tutelasse gli interessi, si stabilì che i Consigli fossero composti da tre a sette membri, secondo la popolazione di ciascun villaggio, eletti da un'assemblea di capifamiglia. Una volta eletti si autoperpetuavano provvedendo mediante cooptazione alla sostituzione annuale di un terzo dei componenti106.
105
Cfr. Anna Girgenti, La storia politica nell'età delle riforme, in AA. VV., a cura di Massimo Guidetti, Storia dei Sardi e della Sardegna, cit., pp. 104-105. 106 Cfr. Gian Giacomo Ortu, La Sardegna sabauda: tra riforme e rivoluzione, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, Attilio Mastino e Gian Giacomo Ortu, Storia della Sardegna, cit., p. 253.
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Capitolo V. Gli aspetti linguistici e culturali
Nel corso della dominazione iberica, la lingua catalana prima e quella castigliana poi erano diventate strumento essenziale dell'omologazione culturale attraverso la quale in Sardegna le classi dirigenti tendevano a manifestare i processi di identificazione collettiva nei confronti del Regno di Spagna. Imponendosi progressivamente come lingua del potere e della cultura, il castigliano si affermò definitivamente nella seconda metà del XVI secolo, uscendo dalle aree urbane e diffondendosi anche in periferia, coinvolgendo dunque anche quegli strati popolari che pure continuavano ad avere come strumento di comunicazione preferenziale la lingua sarda. Al momento dell'annessione della Sardegna da parte dei Savoia, il contesto linguistico isolano era caratterizzato dalla notevole prevalenza della dialettofonia e dall'utilizzo, nei centri urbani, di spagnolo (nobili, ecclesiastici e curiali) e catalano (nelle città di Cagliari ed Alghero). A queste andava ad aggiungersi, in certi contesti, come ad esempio quello commerciale, l'italiano, parlato in alcuni limitati ambienti cittadini ed ecclesiastici. Queste lingue si imponevano come varietà "alte", destinate cioè a raporti formali. I ceti popolari invece utilizzavano comunemente le diverse varietà del sardo: campidanese, logudorese, arborense, gallurese, sassarese, barbaricino e, dal 1738, tabarchino a Carloforte e successivamente a Calasetta, relegate a varietà "basse", cioè legate a contesti comunicativi informali o famigliari. I sardi dunque comunicavano tra loro in lingua sarda (non diversamente da quanto può essere riscontrato ancora oggi in molte aree) e in spagnolo, catalano o italiano con le istituzioni e con l'esterno. La situazione linguistica isolana era nota al governo piemontese e così riportata nell'anonima Descrizione dell'isola e regno di Sardegna nel 1717: «il parlare ordinario della gente civile è spagnuolo o cattalano, ma oggi prevale lo spagnolo. Gli strumenti politici si stipulano promiscuamente in catalano, e in spagnuolo, lo stesso praticandosi ne' memoriali, suppliche e simili scritture; le sentenze si fanno in latino»107.
107
Vedi Lorenzo Del Piano, "Una relazione inedita sulla Sardegna nel 1717", in «Archivio Storico Sardo», a cura della Deputazione di Storia Patria per la Sardegna, CEDAM, Padova, 1964, XXIX, p. 191.
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Il plurilinguismo di fatto esistente nell'isola creava non pochi problemi ai funzionari piemontesi incaricati di procedere alle trasformazioni necessarie per incidere sulle strutture produttive. La "preoccupazione" destata dalla diffusione dello spagnolo e del catalano non era esclusivamente un problema linguistico, ma era determinata soprattutto dall'opposizione che i piemontesi incontravano nei rapporti con alcune componenti filoiberiche della società sarda, come ad esempio il clero. Il quadro linguistico dell'isola risultava pertanto estremamente frammentario, e in tale contesto la dominazione sabauda rappresenta solo l'inizio di quel lento e complesso processo di italianizzazione che sarà portato a termine solo nella seconda metà del '900. L'atteggiamento dei piemontesi nei confronti delle lingue iberiche attraverò diverse fasi e si modificò nel tempo: inizialmente volto alla tolleranza in un regime di plurilinguismo diventò progressivamente ostile. L'uso dello spagnolo era infatti interpretato in chiave politica e considerato dai piemontesi come uno specchio attendibile dei legami ancora esistenti tra gli ambienti spagnoli ed alcuni gruppi organici alla società sarda come ad esempio il clero. Gli ambienti clericali erano rimasti legati alla Spagna in virtù dei privilegi di cui avevano potuto godere durante la dominazione iberica e costituivano senz'altro un ostacolo al consolidamento del nuovo dominio, soprattutto per l'atteggiamento di aperta contrapposizione assunto da alcuni tra i membri più influenti del clero, un ceto che presentava a sua volta divisioni al proprio interno, ma che si dimostrava unito e solidale nel momento in cui si disponeva a contrastare il disegno di stabilizzazione predisposto dai nuovi dominatori108. L'azione politica volta all'italianizzazione dell'isola, per quanto prudente, fu assai precoce: condizionati dalle clausole dei trattati di cessione del Regno i sovrani piemontesi
assunsero
inizialmente
un
atteggiamento
cauto
caratterizzato
dall'accettazione, per quanto temporanea, della forte influenza culturale e linguistica spagnola, sollecitando solo in un secondo momento un progressivo processo di assimilazione, anche, o forse soprattutto, per contrastare l'influenza di alcuni ambienti caratterizzati da una forte propensione filospagnola. In questa nuova fase la Sardegna fu soggetta a processi di trasformazione finalizzati a farle abbandonare, per quanto gradualmente e senza traumi, i canoni di derivazione spagnola al fine di essere inserita in un contesto piemontese-"italiano". Il processo risulterà tuttavia estremamente lento anche per la netta presa di posizione della classe intellettuale che, fedele a quella Spagna che ne aveva garantito la formazione, 108
Cfr. Anna Girgenti, La storia politica nell'età delle riforme, cit., p. 37.
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rallentò con la propria opposizione i processi di italianizzazione e di integrazione socioculturale e linguistica funzionali al dominio sabaudo. Le prime indicazioni al viceré conte di Saint Remy da parte di Vittorio Amedeo II in ambito linguistico risalgono al 20 maggio del 1720: Il linguaggio ordinario praticato ne' Tribunali per gli ordini, è lo Spagnuolo, od il Cattalano. Nelle Città, e luoghi però, ove è qualche commercio, viene inteso, e vi si parla eziandio l'Italiano. Pratticarete perciò, per quanto vi sarà possibile la lingua Italiana, senz'affettare per altro di non volervi servire della spagnuola, ed in tal modo introducendo insensibilmente la prima, anderà l'altra per se stessa in disuso 109.
Il viceré rispondeva (in francese, dato che questa era la lingua che, nonostante i tentativi di imposizione in Sardegna dell'italiano, parlava la corte sabauda 110) il 22 luglio: «io credo che non sarà difficile introdurre la lingua italiana in questo paese. Tutti la parlano e tutti dicono e si augurano di poter trovare dei maestri italiani per i loro figliuoli»111. Da queste indicazioni pare evidente una strategia di italianizzazione già definita che tuttavia, tenendo conto delle dinamiche conseguenti agli accordi internazionali, mirava a sostituire la lingua vigente, lo spagnolo, con l'italiano senza però dare a vedere che questo stesse avvenendo. Una strategia sottolineata dal dispaccio reale del gennaio 1721 con cui il re sottolineava la necessità e l'importanza che l'italiano si affermasse «insensibilmente»112. Successivamente il sovrano mutò la propria opinione, tenendo in considerazione le difficoltà che avrebbero potuto trovare i funzionari piemontesi e la necessità di alienare linguisticamente e culturalmente gli abitanti dell'isola dall'influenza iberica. Nel dispaccio del 19 maggio 1726, Vittorio Amedeo II affermò di non poter più tollerare le mancate conoscenze, in Sardegna, della lingua italiana, per il danno che portava ai funzionari giudiziari provenienti dal Piemonte113. 109
Francesco Loddo Canepa (a cura di), Dispacci di Corte, Ministeriali e Vice-Regi concernenti gli affari politici, giuridici ed ecclesiastici del Regno di Sardegna (1720-1721), cit., p. 13. 110 «Je crois qu'il ne sera pas mal aisé d'introduire la langue italienne dans ce Pais. Tout le monde la parle, et ils disent eux mêmes qu'ils souhaiteroient que keurs Enfants trouvassent de maitres Italiens pae leurs Etudes. Mon foible sentiment est que je doive faire les ordres dans ce Royaume en Italien et l'acte de serment en Latin, maj je ne fairai cela que de concert avec le Comtador general de V. M.». Per il testo della missiva vedi Francesco Loddo Canepa (a cura di), Dispacci di Corte, Ministeriali e Vice-Regi concernenti gli affari politici, giuridici ed ecclesiastici del Regno di Sardegna (1720-1721), cit., p. 35. Vedi anche Michelangelo Pira, La rivolta dell'oggetto. Antropologia della Sardegna, cit., p. 219. 111 Ivi, p. 146. 112 Roberto Palmarocchi, Sardegna sabauda, I, Il regime di Vittorio Amedeo II, Cagliari, 1936, p. 95; Cfr. Amos Cardia, S'italianu in Sardinna, cit., p. 10. 113 Rossana Poddine Rattu, Biografia dei viceré, cit., p. 31.
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Il dispaccio proponeva di studiare un piano linguistico avvalendosi dell'ausilio del gesuita padre Antonio Falletti, il quale, a sua volta scriveva che: Si dovrà cercare qualche espediente per avere predicatori italiani. Si dovrà ordinare alla Sala, et alla real governazione di votare e parlare italiano, come pure fare le sentenze e decreti et altre provisioni in lingua italiana. E il viceré comincerà a decretare le suppliche in Italiano quando S. M. lo ordini. E con questo si crede si potrà introdurre con facilità la lingua italiana, ed abolire la lingua spagnola, e non la sarda, che è la naturale in questo Regno114.
Predispose dunque, con il viceré Doria del Maro, un piano di studi finalizzato a dare un decisivo impulso per l'abbandono dello spagnolo in favore dell'italiano: ne fecero parte grammatiche e dizionari. Il viceré fece venire dall'Italia dei gesuiti al fine di istruire un buon numero di maestri. L'errore di valutazione del Falletti, nel prevedere una rapida sostituzione dell'italiano allo spagnolo, è dimostrato dal fatto che ancora nel 1816 venivano compilati atti notarili in quest'ultima lingua, oltre che in sardo 115. Ancora nel XIX secolo il Lamarmora riferì di essersi sentito dire da un notabile della zona interna che, per un certo sopruso, avrebbe fatto ricorso a Madrid (e non a Torino). Gli sforzi per introdurre l'italiano nascevano dall'esigenza di sottrarre le classi dirigenti sarde all'influenza culturale spagnola avvicinandole progressivamente alla monarchia sabauda. La Sardegna era infatti «tanto imbevuta delle massime spagnole che per lungo tempo sarà preciso dovere di procedere con grave circospezione, prima di innovare la minima cosa»116. Pur avvertendo l'impellente necessità di despanizzare le istituzioni, il sovrano si oppose al fatto che l'italiano fosse introdotto come lingua ufficiale nei tribunali e reso obbligatorio per i notai, tanto che ancora nella prima metà del XIX secolo, quando ormai l'italiano era di uso generale, almeno a livello istituzionale, alcuni notai erano soliti redigere gli atti in spagnolo117. L'atteggiamento di tolleranza nei confronti dello spagnolo cessò a partire dal 114
Francesco Loddo Canepa (a cura di), Dispacci di corte, Ministeriali e Vice-regi, cit., p. 14. Cfr. Michelangelo Pira, La rivolta dell'oggetto, cit., p. 146; vedi anche Amos Cardia, S'italianu in Sardinna, cit., p. 10. 115 Cfr. Michelangelo Pira, La rivolta dell'oggetto, cit., p. 220. Pira fa riferimento a Pio Canepa, Il notariato in Sardegna, in "Studi Sardi", Cagliari, 1936, pp. 80-82. 116 Cfr. Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, cit., p. 4. Il dispaccio viceregio, del 4 aprile 1724, è citato in R. Bonu, Scrittori sardi dal 1476 al 1950 con notizie storiche e letterarie dell'epoca, Fossataro, Cagliari, 1972, I, Il Settecento, p. 36. 117 Francesco Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793, II, Gli anni 1720-1793, Gallizzi, Sassari, 1975, p. 166.
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1760, con il divieto di utilizzare tale lingua in ogni contesto comunicativo. La svolta fu segnata dal regio decreto del 25 luglio, con il quale il nuovo re Carlo Emanuele III stabilì che Dovendosi per tali insegnamenti adoperare fra le lingue più colte quella che è meno lontana dal materno dialetto e ad un tempo la più corrispondente alle pubbliche convenienze, si è determinato di usare nella scuola predette l'italiana, siccome quella appunto che non essendo più diversa della sarda di quello che fosse la castigliana, poiché anzi la maggior parte dei sardi più colti già la possiede; resta altresì la più opportuna per maggiormente agevolare il commercio ed aumentare gli scambievoli comodi; ed i Piemontesi che verranno nel Regno, non avranno a studiare una nuova lingua per meglio abilitarsi al servizio pubblico e dei sardi, i quali in tal modo potranno essere impiegati anche in Continente 118.
La nuova normativa rappresentava dunque l'intervento radicale che rendeva obbligatorio l'italiano e vietava lo spagnolo: essa stabiliva infatti che la lingua castigliana «si studierà con secondaria importanza e chi trascurerà l'italiano sarà meno bene educato e di meno buona aspettativa»119. La scelta dell'italiano, netta e definitiva, negli intenti del sovrano era dettata dal fatto che fosse quella che meno si discostava dal "materno dialetto", ma soprattutto dal fatto che era ritenuta la più adatta ad agevolare i commerci e gli scambi tra i piemontesi e i sardi. Un'imposizione a trecentosessanta gradi che inglobava anche la vita religiosa e spirituale: «I catechismi, i discorsi sacri, i libri devoti, le esortazioni, in una parola tutta la direzione spirituale non meno della letteraria [devono] farsi in lingua italiana» 120. Vennero così adottati due catechismi in lingua italiana: il catechismo del Bellarmino, religioso, e quello «agrario per i fanciulli di campagna ad uso delle scuole di Sardegna»121. L'apprendimento del castigliano veniva dunque accantonato e rimandato a futuro ed imprecisato momento così come sarebbe dovuto avvenire per il francese o il tedesco. Lo stesso Carlo Emanuele III, ancora nel 1766 insisteva sul fatto che È necessario che il viceré vada sempre più restringendo l'uso dello spagnolo a' casi di mera necessità. E potrà anche far sentire all'occasione alle città, vescovi e particolari che occorrendo loro di indirizzar lettere o rappresentanze alla corte saranno sempre più gradite in lingua italiana 122. 118
Ivi, p. 161. Cfr. Amos Cardia, S'italianu in Sardinna, cit., p. 16. Cfr. Michelangelo Pira, La rivolta dell'oggetto, cit., p. 222. 120 Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., p. 95. 121 Francesco Masala, Storia del teatro sardo, in Opere, cit. II, p. 42. 122 Cfr. Amos Cardia, S'italianu in Sardinna, cit, p. 16. 119
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Uno dei problemi che sorsero era che né gli scolopi né i gesuiti, che erano stati chiamati ad "insegnare", ovvero imporre, l'italiano ai sardi, conoscevano questa lingua: i gesuiti sostenevano che essa dovesse essere insegnata dopo che gli allievi fossero già in possesso della grammatica castigliana e di quella latina. Nelle due università di Sassari e Cagliari, che erano state riaperte, mancavano i libri di testo italiani e si tornò, già dal 1761 all'insegnamento del castigliano (dal quale peraltro ci si era tutt'altro che allontanati). I gesuiti insegnavano un verbo italiano al giorno; gli scolopi tendevano a tenere le loro lezioni in italiano. Nessuno dei librai sardi voleva arrischiare il capitale necessario per la provvista di libri italiani123. Nei confronti delle istituzioni culturali preesistenti, di origine spagnola, il governo sabaudo adottò innanzitutto una politica di assimilazione, da prima cauta e graduale, poi sempre più decisa, sino ad arrivare alla “riforma”, cioè alla piemontizzazione coercitiva delle due Università sarde di Sassari e Cagliari, attuata tra il 1764 ed il 1765, col chiaro intento di creare un'intellighenzia autoctona che fosse in grado di operare da classe dirigente ideologicamente vicina agli interessi dello stato sabaudo, marcando la distanza da quel Regno di Spagna che ne era stato fino a quel momento il referente unico. Ne fu fautore il ministro Bogino, che procedette ad una radicale politica di italianizzazione dell'isola con interventi miranti soprattutto, per l'appunto, ad imporre l'italiano nella didattica con l'intento di raggiungere tutti i centri e tutti i ceti sociali dell'isola.
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Cfr. Michelangelo Pira, La rivolta dell'oggetto, cit. p. 219. V. Anche Emanuele Scano, Storia dell'istruzione e degli istituti educativi in Sardegna, Cagliari, 1894, p. 59 in nota 1.
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Capitolo VI. La repressione Una volta acquisito il possesso della Sardegna Vittorio Amedeo II aveva deciso di concedere un indulto che prevedeva l'immediata scarcerazione per tutti i prigionieri ad esclusione di coloro che si erano macchiati del delitto di lesa maestà divina. Tale provvediamento, tuttavia non era dettato da una particolare propensione filantropica del monarca, quanto piuttosto da ragioni assai pratiche quali, ad esempio, il tentativo di mostrare la volontà di pacificazione della nuova dinastia dominante nei confronti delle lotte di fazione che avevano insanguinato la Sardegna nell'ultimo ventennio124. Al fine di controllare al meglio il territorio, i piemontesi procedettero alla continua creazione di corpi militari e di organismi di polizia a struttura militare. Dal 1720 al 1848 furono istituiti: dragoni leggeri di Sardegna, cavalleggeri di Sardegna, cacciatori guardie, moschettieri di Sardegna, cacciatori di Sardegna, carabinieri reali di Sardegna, cacciatori di Savoia, cacciatori esteri, cacciatori italiani, cacciatori di Nizza, cacciatori d'Aosta, cacciatori della regina, bersaglieri, cacciatori franchi, corpi di spedizione, colonne mobili (note anche come colonne volanti), miliziani, cacciatori provinciali, guardia nazionale, carabinieri veterani, guardia costiera, centuria leggera, corpo degli invalidi. Accanto a questi corpi "regolari" non di rado operarono "corpi franchi", in pratica strutture paramilitari costituite da criminali provenienti dalla penisola italiana cui era concessa la libertà in cambio del loro contributo in ambito repressivo. Il primo viceré sabaudo, il già più volte citato barone di Saint Remy, sostenendo che bisognasse allo stesso tempo farsi «amare e temere» 125, sbarcò in Sardegna accompagnato da cinque battaglioni di fanteria e da un reggimento di dragoni a cavallo, per un totale di circa duemila uomini, cinquanta cannoni e due galere126, stabilendo immediatamente misure severissime, dai dieci anni di carcere fino alla pena di morte, per i sardi che fossero stati trovati in possesso di armi e convinto in tal modo che «quei pochi fuorilegge pezzenti e disorganizzati»127 sarebbero stati in tal modo ridotti 124
Cfr. Anna Girgenti, La storia politica nell'età delle riforme, in AA. VV., a cura di Massimo Guidetti, Storia dei Sardi e della Sardegna, cit., pp. 34-35. 125 Rossana Poddine Rattu, Biografia dei viceré sabaudi del Regno di Sardegna (1720-1848), cit., p. 26. 126 Ibidem. 127 Cfr. Giovanni Ricci, Sardegna criminale, cit., p. 25.
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all'impotenza. Le prime notizie che dal Saint Remy giunsero al sovrano riguardo agli abitanti dell'isola sono che «Les vices, au quel ce peuple est le plus enclein, sont les vols, assassinats, et faux temoignages et je puis assurer Votre majesté que c'est un brigandage qu'est établi depuis vingt ans dans ce pays cy»128. Il Saint Remy introdusse una multa di 2.000 scudi per quei villaggi che non consegnavano i ricercati, costringendo in numerosi casi gli abitanti ad abbandonare i villaggi medesimi in quanto impossibilitati a pagare129. Nel 1722, per "convincere" gli abitanti di Aggius a pagare le imposte si utilizzò un corpo di spedizione di soldati, mentre distaccamenti militari entravano in numerosi altri paesi 130. Nel tentativo di tenere in pugno la situazione dal punto di vista dell'ordine pubblico, impose alle milizie locali la sorveglianza delle vie di comunicazione e il taglio del bosco di Sant'Anna lungo il percorso da Cagliari ad Oristano131. Personaggio di spicco dell'azione repressiva dei primi anni fu il viceré Carlo Amedeo Battista marchese di San Martino d'Agliè e di Rivarolo 132, il quale, sbarcato da pochi giorni nell'isola, scriveva dei sardi: «nel corso di questa settimana ne sono stati impiccati quattro che ho fatto sentenziare non ostante le ferie: cosa che ha sorpreso i giudici abituati a trascinare le cause in lungo»133. Descritto dal Manno come «uomo di severo sopracciglio134» inaugurò, tra il 1735 ed il 1738, la serie delle grandi spedizioni militari disposte per la repressione del cosiddetto "banditismo sardo", condannado al patibolo 432 persone e imprigionandone circa 3.000135. Messosi a dare la caccia in tutta la Gallura a intere famiglie già messe al bando con un mandato di cattura collettivo dal suo predecessore, il marchese Falletti di Castagnole, fece impiccare quelli che non riuscirono a riparare in Corsica e che caddero vivi in sue mani lungo il cammino tra San Pietro di Rudas ed Aggius, lasciando i cadaveri appesi per oltre un mese prima di essere pubblicamente bruciati come monito 128
Lettera del marchese di S. Remy, in Francesco Loddo Canepa (a cura di) Dispacci di corte, Ministeriali e Vice-regi, cit., p. 44. Cfr. anche Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, cit., p. 5. 129 Ivi, p. 15. 130 Cfr. Manlio Brigaglia, Storia e miti del banditismo sardo, cit., p. 53. 131 Cfr., Anna Girgenti, La storia politica nell'età delle riforme, in AA. VV., a cura di Massimo Guidetti, Storia dei Sardi e della Sardegna, cit., pp. 35-36. 132 1699-1749. Viceré dal 1735 al 1738. 133 Cfr. Manlio Brigaglia, Storia e miti del banditismo sardo, cit., p. 55. 134 Giuseppe Manno, Storia di Sardegna, cit., Libro XVIII, p. 146. 135 Cfr. Gian Giacomo Ortu, La sardegna sabauda: tra riforme e rivoluzione, in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, Attilio Mastino e Gian Giacomo Ortu, Storia della Sardegna, cit., p. 244.
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alla popolazione136. Insensibile alle suppliche dei rappresentanti della città di Oristano, volle che in piazza San Martino i giustiziati fossero lasciati appesi al patibolo fino a quando l'azione congiunta degli agenti atmosferici e degli insetti ne avesse scarnificato i cadaveri137. Non solo: nel 1736 stabilì l'arruolamento obbligatorio dei sardi nelle truppe piemontesi, e la deportazione per tutti coloro che avessero avuto qualche problema con la "giustizia", e cioè «discoli, oziosi, vagabondi, ladri già condannati o membri di quadriglia, anche individui che i ministri di giustizia indicavano come malviventi sulla base di notizie attinte ai notabili, in molti casi faziose o dettate solo da volontà di vendetta138». Indicava infatti che «per determinare poi quali prove ed indirizzi si richiedono per la cattura, non vi è regola fissa; sono sufficienti talora la fama, l'inimicizia, la fuga dell'inquisito e simili»139. Tramite dispaccio, dato che «la esperienza ha purtroppo dimostrato non potersi in questo Regno ottenere l'estirpazione dei banditi se non con le truppe 140», ordinava dunque ai soldati che «a chiunque vi cada nelle mani, anche se nobile, fategli tagliare la testa, che esporrete nel luogo più appropriato per servire d'esempio 141». L'anno successivo, al fine di conseguire un minuzioso controllo del territorio dichiarò guerra ai pastori, ordinando che le loro capanne fossero situate «in luoghi di facile accesso, e dove possano essere facilmente riconosciute»142, ossia in vicinanza delle strade pubbliche143, in modo da poter essere meglio controllati. Persuasosi che le difficoltà incontrate dal governo nell'amministrazione della giustizia dipendessero dalla protezione che i ricercati godevano presso autorità e persone influenti locali, con pregone dato in Bosa il 25 marzo 1737, ordinava che per l'avvenire si sarebbe addossato «ai padroni l'arresto dei loro socii, pastori o servitori delinquenti, comminando pene proporzionate per i trasgressori»144. Inoltre era solito organizzare delle vere e proprie spedizioni punitive, avvalendosi delle cosiddette "colonne volanti" con tanto di giudici e forche al seguito, procedendo villaggio per 136
Cfr. Giovanni Ricci, Sardegna criminale, cit., p. 67. Cfr. Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, cit., p. 15. 138 Cfr. Giovanni Ricci, Sardegna criminale, cit., p.30. 139 Pregone del Marchese di Rivarolo, 1736, in Raccolta dei pregoni dei viceré sulla giustizia, ms., Biblioteca Reale, Torino. Cfr. Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, cit., p. 18. 140 Cfr. Giovanni Ricci, Sardegna criminale, cit., p. 30. 141 Ibidem. 142 Cfr. Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, cit., p. 17. Il riferimento è a AST, sez. I, Sardegna, Lettere del Viceré, 1738. 143 Cfr. Giovanni Ricci, Sardegna criminale, cit., p. 30. 144 Pietro Meloni Satta, a cura di Manlio Brigaglia, Tutti i giorni della Sardegna. Effemeride sarda, cit., p. 270. 137
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villaggio a processi ed esecuzioni sommarie. Ritenendo che l'ostilità dei sardi nei confronti dei piemontesi fosse in qualche modo legata all'uso dei primi di portare la barba, ordinò loro, tramite pregone e sotto la minaccia di quattro scudi di multa e un mese di carcere, di tagliarsela a partire dal 9 maggio del 1738, attesoché l'uso di portar le barbe cresciute, che in certo genere di persone serve di edificazione, riesce in altre d'indecenza e di scandalo, il che singolarmente si esperimenta in questo regno, in cui questo, che anticamente fu costume abbominevole d'alcuni dipartimenti, che per la barbarie di tal costume si guadagnarono la denominazione di Barbagie, ed i suoi abitanti di barbaricini, s'osserva in oggi introdotto in tutti i dipartimenti, che avendolo forse nel suo principio adottato per una delle singolarità stravaganti del lutto solito farsi dai villani in occasione del decesso dei loro parenti (singolarità soltanto praticata dagli ebrei) si è poi cangiata in essere distinttivo di banditi e fuoriusciti, che con simile fiorenza di sembiante credono d'incutere maggior terrore ed essere meno conosciuti negli assalimenti nelle strade reali e nei loro omicidii proditorii e per vendetta [...] in tal uso tanto vantaggio hanno trovato i malviventi che molti i quali non hanno ancora barba lunga naturale, la portano falsa e posticcia nel tempo in cui vanno a commettere dei delitti [...] pertanto ordiniamo che nessuno possa in avvenire, nemmeno per motivo di lutto portar la barba cresciuta più di un mese, e che tutti quelli che l'avranno debbano levarsela fra quindici giorni dopo la pubblicazione del presente, sotto pena ai contravventori di quattro scudi e di un mese di carcere per la prima volta; del doppio per la seconda, oltre altre pene arbitrarie riservate al nostro arbitrio contro i più ostinati145.
Era infatti convinto che il nome Barbagia di una delle regioni storiche della Sardegna derivasse dall'uso dei suoi abitanti di portare la barba, fatto che dice assai sul reale interesse dei piemontesi per tutto ciò che concerneva l'isola. Un fatto, questo dell'editto della barba, che Raimondo Carta Raspi non esita a commentare sarcasticamente, sottolineando che «la Storia non era il forte del viceré, né vi fu chi lo informasse, che al contrario, Filippo II aveva consigliato ai Sardi di farsi crescere la barba146». Per «dare il buon esempio»147 il marchese di Rivarolo fece erigere forche ovunque, spargendo il terrore a forza di esecuzioni pubbliche: mentre imponeva ai "rei 145
Ivi, pp. 270-271. Il testo del pregone è rintracciabile in Editti, Pregoni ed altri provvedimenti emanati nel Regno di Sardegna, dappoiché passò sotto la dominazione della Reale Casa di Savoia sino all'anno 1774, riuniti per comando di SS.MM. il Re Vittorio Amedeo II, disposti sotto i rispettivi titoli e tradotti in italiano quelli che furono pubblicati solamente in lingua spagnola, tomo I, Cagliari, Reale Stamperia, 1775; Ordinazione XVII: "Pregone del viceré Marchese di Rivarolo de' 9 maggio 1738 con cui si abolisce l'uso delle barbe lunghe", p. 234. In: Franco Cagnetta, Banditi a Orgosolo, cit., p. 135. 146 Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, cit., pp. 776-77. 147 Pietro Marongiu, Teoria e storia del banditismo sociale in Sardegna, Edizioni Della Torre, Cagliari, 1981, p. 119.
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maggiori" punizioni esemplari quali l'impiccagione, l'attenagliamento coi ferri roventi, la combustione dei cadaveri e la dispersione al vento delle ceneri, l'infilzamento delle teste sulle forche e la loro esposizione pubblica al fine di terrorizzare le popolazioni; riservava ai "rei minori" l'esilio per cinque anni o, in alternativa, il reclutamento nelle milizie del re, in cui i poveretti dovevano militare per tutta la durata della pena148. Non un'eccezione, giacché, come fa notare Federico Francioni «le atroci torture, l'attanagliamento delle carni con ferri roventi, le forche, le impiccagioni, le teste mozzate, i cadaveri squartati e poi bruciati, con relativo seguito delle ceneri gettate al vento [...] saranno sempre uno strumento insostituibile e determinante nella prassi dei governi sabaudi»149. «Nulla da fare coi sardi, così refrattari al progresso» 150, scriveva ancora il Rivarolo, e dunque proponeva di importare in Sardegna gruppi etnici esterni per occuparne il territorio ed impedire ai ricercati di rifugiarsi nelle zone deserte, volendo cambiare abitudini e mentalità dei sardi con «iniezioni di sangue nuovo» 151. E tentativi di colonizzare l'isola furono difatti tentati a più riprese dai piemontesi: innanzitutto con il trasferimento nell'isola di San Pietro, dove in onore del re Calo Emanuele III venne fondata Carloforte, di circa quattrocento liguri152 fatti venire dall'isola di Tabarca, nelle coste tunisine; in seguito altre famiglie liguri e piemontesi si insediarono nella vicina isola di Sant'Antioco fondando Calasetta. Vari tentativi di colonizzazione con contadini piemontesi si ebbero poi nelle regioni della Nurra e della Gallura, falliti a causa della malaria che li decimò e dell'isolamento rispetto alle comunità di villaggio. Il viceré di Valguarnera tentò di inserire coloni greci provenienti dalla Corsica a Montresta 153, mentre il viceré conte don Giovanni Battista Cacherano di Bricherasio fondò Sant'Antioco e La Maddalena con immigrati genovesi e maltesi e tentò di favorire la colonizzazione di elementi greci e francesi154. Il nome del Rivarolo è rimasto nella memoria collettiva dei sardi: può essere rintracciato in alcuni detti popolari, come il modo di dire sa zustissia de rivarò (la 148
Ibidem. Federico Francioni, Vespro sardo, cit., p. 81. 150 Cfr. AA. VV. (a cura di Francesco Floris), La grande enciclopedia della Sardegna, VIII, pp. 92-93. Vedi anche Rossana Poddine Rattu, Biografia dei viceré sabaudi, cit., p. 49. 151 Ibidem. 152 Secondo Luciano Carta «circa 460». Vedi Luciano Carta, Il Settecento e gli anni di Angioy (17001799), in AA. VV., a cura di Manlio Brigaglia, La Sardegna. Tutta la Storia in mille domande, cit., p. 74. 153 Cfr. Rossana Poddine Rattu, Biografia dei viceré sabaudi del Regno di Sardegna (1720-1848), cit., p. 66. 154 Ivi, p. 70. 149
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giustizia di Rivarolo), che indica la giustizia sommaria o un atto spietato, e su palattu de ribarole (il "palazzo" di Rivarolo), termine con cui si indicano le forche, derivante dal dubbio gusto introdotto dal viceré di addobbare i patiboli con i teschi 155. In sassarese, azzà a lu palazzu di Rivarolo significa "andare alla forca"156. Tra i suoi successori sono da ricordare il viceré Giuseppe Maria del Carretto marchese di Santa Giulia157, che organizzò l'ondata repressiva nel 1745, e il viceré Emanuele Gravina principe di Valguarnera158, che nel 1749 fece pubblicare il primo Catalogo Generale dei Banditi. Questo viceré, muovendosi nel solco tracciato dal Rivarolo, condusse varie spedizioni armate, soprattutto in Gallura, procedendo all'uccisione o cattura di circa duecento dei trecento ricercati inseriti nel catalogo che avevano cercato di riparare in Corsica dopo la battaglia del Sasso di Chiaramonti 159. Negli anni successivi i cataloghi, indicanti nomi, connotati, professione, pena e taglia sulla testa dei ricercati, vennero continuamente aggiornati, pubblicati e fatti affiggere ai muri dalla Reale Udienza160. Il 13 marzo 1759 il viceré don Francesco Tana conte di Santena 161, sotto il regno di Carlo Emanuele III, emanò un editto con cui ogni bandito potrà liberarsi della pena impostagli se presenterà nelle forze della giustizia un altro delinquente che sia condannato nella stessa o maggiore pena e descritto nel catalogo, quantunque poi non subisse effettivamente la pena [...] purchè il catturante non sia de‘ capi di quadriglia162.
È questo da considerarsi un ulteriore sviluppo, nel senso dell'utilizzo della delazione come arma al fine di mantenere l'ordine pubblico, del pregone del viceré Giovanni Battista Cacherano conte di Bricherasio163 del 6 novembre 1751: Dichiariamo in oltre che chiunque arresterà a propria diligenza e presenterà alla giustizia alcuno de' banditi esposti alla pubblica vendetta o qualunque altro condannato alla pena della morte o della galera perpetua o che posteriormente venga condannato ad alcuna delle suddette pene, possa nominare se stesso, ovvero suo padre, figlio, suocero, cognato, fratello o genero, affinchè alcuno di questi possa godere 155
Cfr. Lucetta Scaraffia, La Sardegna sabauda, cit., p. 15. Ibidem. 157 ?-1759. Viceré dal 1745 al 1748. 158 ?-1770. Viceré dal 1748 al 1751. 159 Cfr. Manlio Brigaglia, Storia e miti del banditismo sardo, cit., p. 56. 160 Francesco Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793, cit., p. 126. 161 1698-1781. Viceré dal 1758 al 1762. 162 Francesco Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793, cit., p. 127. Vedi anche Rossana Poddine Rattu, Biografia dei viceré sabaudi, cit., p. 79. 163 1706-1781. Viceré dal 1751 al 1755. 156
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dell'impunità164.
Ma l'autentico pezzo da novanta della repressione piemontese fu il ministro conte Giambattista Lorenzo Bogino165, che si occupò di amministrare la Sardegna sotto diversi viceré, senza per altro mai metterci piede, tra il 1759 ed il 1773, quando fu licenziato dal nuovo sovrano Vittorio Amedeo III. Il ministro Bogino era convinto che il controllo dell'isola passasse attraverso una serie di modifiche strutturali e di molti aspetti della vita religiosa, culturale e amministrativa dell'isola, e la sua opera riformatrice era orientata pertanto a realizzare un vasto disegno di contenimento sociale, a partire dalla riorganizzazione della giustizia e dall'ulteriore sterzata in ambito repressivo. Nell'Editto promulgato il 13 marzo 1759, tra le altre cose, in continuità con l'azione repressiva attuata dal Rivarolo, veniva introdotto e regolamentato un procedimento sommario che consentiva la cattura preventiva di delinquenti potenziali o presunti. Si prescriveva pertanto l'arresto dei nullatenenti oziosi e vagabondi e la loro punizione per via di procedimento economico con un anno di catena. Si prescriveva inoltre la carcerazione di "discoli" e "diffamati" di furti, abigeati, grassazioni o di complicità nei medesimi reati, con la pena, sempre tramite procedimento economico, da due a cinque anni di catena166. Il nome del Bogino è stato spesso associato ai termini sardi bogìnu, bugìnu, buzìnu, che in diverse parti dell'isola hanno il significato di "boia" e "carnefice", e in alcune è addirittura denominazione del divolo, indicando una persona particolarmente malevola o crudele. Detti ed espressioni popolari come anki ti currat su bogìnu (o, in campidanese, ki ti ndi pighit su bugìnu: che il boia ti rincorra o ti prenda), è un pessimo malaugurio, così come anche su buzìnu ti sicat (che il boia ti segua) e su buzìnu ti lighet (che il boia ti leghi) sono molto diffusi e parrebbero far riferimento all'azione repressiva portata avanti dal ministro. In realtà l'origine del termine è incerta: i termini boccinu e buccinu figurano già in testi del XVI e XVII secolo, e potrebbe derivare dal catalano botxì (o butxì) o dallo spagnolo antico bochín, da cui deriverebbe a sua volta il termine sardo bokìre (uccidere)167. 164
Pietro Sanna Lecca, Editi, Pregoni ed altri provvedimenti, cit., I, p. 137, XX. 1701-1784. Ministro per gli Affari di Sardegna dal 1759, godette di ampi poteri sotto il regno di Carlo Emanuele III, cadendo in disgrazia e essendo licenziato sotto il regno di Vittorio Amedeo III. 166 Cfr. Anna Girgenti, La storia politica nell'età delle riforme, in AA. VV., a cura di Massimo Guidetti, Storia dei Sardi e della Sardegna, cit., pp. 73-74. 167 Vedi voce "boccinu" in Max Leopold Wagner, Dizionario Etimologico Sardo, a cura di Giulio Paulis, Ilisso, Nuoro, 2008, p. 173. Sul significato del termine vedi anche Manlio Brigaglia, Storia e miti del 165
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Fatto sta che la repressione boginiana fu oltre modo dura. Fin nei piĂš sperduti villaggi della Sardegna il ministro istituĂŹ sas cortes de sas furcas (le piazzette delle forche), al fine di farvi eseguire le impiccagioni168.
banditismo sardo, cit., p. 57. 168 Cfr. Francesco Masala, Storia dell'acqua in Sardegna, in Opere, II, cit., p. 120.
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Conclusioni
Più che di conclusioni si tratta di nuove e più puntuali premesse per un successivo lavoro di approfondimento su un aspetto importante della storia sarda come è stato il passaggio dell'isola dalla Spagna al Piemonte e il conseguente avvio del processo di italianizzazione dell'isola. Il quadro generale inerente l'organicità della Sardegna al contesto iberico, relativamente al quale, pittosto che di Sardegna "aragonese" o di Sardegna "spagnola" si è preferito introdurre la suddivisione in fase catalano-aragonese e fase spagnola (o anche castigliana) della dominazione iberica, ha consentito di porre le basi per l'osservazione dei cambiamenti posti in essere dal passaggio di consegne nella dominazione dell'isola. L'analisi degli aspetti politici, istituzionali, amministrativi-burocratici e legislativigiudiziari ha permesso di notare come, pur nell'apparente rispetto formale degli accordi internazionali che avevano sancito l'acquisizione del Regnum Sardiniae da parte della casata sabauda, nella politica attuata dal governo piemontese sin dai primissimi tempi sia possibile individuare la volontà di apportare impercettibili ma progressivi e costanti cambiamenti finalizzati a: • slegare la Sardegna ed il suo dall'influenza politica, sociale e culturale iberica; • legare politicamente la "periferia" sarda al centro del potere piemontese; • creare una classe di funzionari, e dunque apparati burocratici che fossero in grado di operare da strumento del governo piemontese al fine di realizzare i due punti precedenti. L'apparente immobilismo dell'azione politica sabauda dei primi anni, con particolare riferimento a Vittorio Amedeo II e ai primi anni di regno di Carlo Emanuele III, può dunque essere meglio interpretato come "attendismo", ossia attesa del momento opportuno per conseguire risultati politici concreti dallo sviluppo della situazione senza per questo dover rinunciare a spingere, cautamente, nel verso dei propri interessi. Cancellare l'impronta iberica che i catalano-aragonesi prima e gli spagnoli poi avevano imposto alla Sardegna nel corso dei quattro secoli precedenti, ha significato, da parte del governo sabaudo, condannare la dominazione precedente alla damnatio memoriae cui i vincitori condannano i vinti, proponendosi, con un uso strumentale della
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storiografia, come "liberatori" e non come nuovi dominatori. L'analisi degli aspetti linguistici e culturali ha evidenziato il tentativo di creare una classe dirigente locale fedele al governo piemontese, che sapesse autonomamente fungere da agente degli interessi economici e politici del medesimo. In questo ceto di amministratori, funzionari e burocrati possono senz'altro essere scorti, fatte le dovute distinzioni, aspetti in comune con la funzione svolta dalla cosiddetta borghesia compradora in contesti coloniali dell’epoca contemporanea. Il ricorso a durissime forme di repressione ha costituito strumento di dominio al di là del ruolo di mediazione richiesto ai funzionari statali. Per tutti gli altri aspetti, che vanno da un'analisi economico-finanziaria, alle dinamiche sociali, all'arte, alla letteratura, agli aspetti piÚ diversi della vita di tutti i giorni, rimandiamo, come già anticipato, ad un piÚ puntuale e rigoroso lavoro di ricerca di cui si auspica questo elaborato possa essere utile strumento introduttivo.
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