Gli anni di piombo. Per una storia delle Brigate Rosse

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

CORSO

DI

LAUREA

IN

LETTERE MODERNE

GLI “ANNI DI PIOMBO”. PER UNA STORIA DELLE BRIGATE ROSSE

Relatore: PROF.SSA GIUSEPPINA FOIS

Tesi di Laurea di: A ZZURRA V AIRA

ANNO ACCADEMICO 2010/2011


A Te, che sei andata via troppo presto.

Più tenace della tua paura Più profonda del tuo dolore Nel silenzio dell’essere La vita canta. WALTER TOBAGI

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Indice

Introduzione

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Capitolo 1 L’Italia dalla nascita del movimento studentesco all’avvento del partito armato 1.1 Dal ’68 al ’77: cosa cambia?

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1.2 Lo scontro dentro la sinistra extraparlamentare

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1.3 Lo stragismo

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1.4 Feltrinelli

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Capitolo 2 Le Brigate rosse 2.1 Nascita e primi episodi

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2.2 La svolta

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2.3 Il caso Moro

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2.4 Il lento declino del terrorismo

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Bibliografia

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Ringraziamenti

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Introduzione Questa tesi nasce come tentativo di raccontare e, per quanto possibile, approfondire un argomento sempre attuale ma che ormai è divenuto storia per il nostro Paese, un tema a volte sottovalutato e non ricordato, ma che in realtà ha segnato la nostra società per sempre. Attraverso tali vicende è cambiato il modo di pensare, di agire, di vivere di molte persone e, nonostante ciò, molti non ne hanno ancora capito il valore. Le stragi, i morti, gli arresti, sono stati una costante di un periodo meglio noto come “anni di piombo”, periodo storico molto complesso e turbolento che insanguinò l’Italia colpendo, indiscriminatamente, colpevoli e innocenti. Il titolo ‘Gli “anni di piombo”. Per una storia delle Brigate Rosse’ racchiude in sé tutto un mondo, che, grazie alle parole di importanti giornalisti e storici, ho potuto ricostruire. Nel primo capitolo mi sono occupata del periodo storico in tutti i suoi punti di vista, dal boom economico degli anni ’60 all’apertura del governo verso il PCI; dal femminismo all’aborto; dal papa “Buono” al divorzio; dal movimento studentesco all’autunno caldo; dagli attentati terroristici neri e rossi alla sinistra extraparlamentare. Insomma un’Italia che in pochi anni ha conosciuto l’illusione della “dolce vita” ma che ben presto è crollata sotto le bombe della strage di piazza Fontana. Ed è stata questa strage, quasi un evento simbolico, a dare il via al decennio del ’70, uno dei più travagliati della nostra storia recente; decennio del quale fu protagonista indiscussa un’organizzazione di sinistra: le Brigate Rosse. Il secondo capitolo è un tentativo di monografia sul fenomeno delle Brigate Rosse. Ho trovato interessante capire, soprattutto attraverso le autobiografie e i diari dei brigatisti, come sono cresciuti, come si sono incontrati, uniti, a volte amati, odiati, separati, traditi e le sensazioni che hanno provato durante i sequestri di importanti personalità del tempo, le sparatorie e gli assassinii. Inoltre, sempre nel secondo capitolo, spicca il caso Moro, caso tuttora controverso, che ha spaccato l’opinione pubblica ed è da sempre avvolto nel mistero tra ipotesi di complotti di Stato, intromissioni dei governi statunitensi e sovietici e dei rispettivi servizi segreti e non solo. Oltre trent’anni dopo, attorno al rapimento e all’assassinio di

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Aldo Moro ci sono ancora troppi misteri. Punti oscuri e depistaggi in una storia che nemmeno le inchieste della magistratura sono riuscite a ricostruire del tutto. Il tempo ha attenuato il ricordo ma non si è mai messa la parola fine a questo capitolo della nostra storia e penso che non se ne verrĂ mai a capo perchĂŠ nel corso degli anni troppe prove sono state insabbiate, troppe voci sono state messe a tacere per sempre. Con questo lavoro spero solo di aver adempiuto ad un desiderio: accendere un’altra luce sulla via del ricordo di quelle vittime delle stragi del terrorismo, per non dimenticare.

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Capitolo 1 L’Italia dalla nascita del movimento studentesco all’avvento del partito armato 1.1 Dal ’68 al ’77: cosa cambia? Gli anni che precedettero quelli di piombo furono piuttosto “anni di gomma” 1. La situazione politica era insieme statica e fragile, con maggioranze parlamentari sempre pericolanti, con governi protesi a parole verso ambiziosi traguardi, ma nella realtà impegnati a risolvere quotidiani dissensi. La sconfitta del 1953, nel tentativo di rinforzare la maggioranza attraverso la riforma elettorale, aveva messo in evidenza la debolezza della formula governativa del centrismo, minacciata da una destra risorgente e da una sinistra, che il risultato elettorale del 1948 non aveva piegato. Dall’altra parte, parallelamente alla “guerra fredda”, si andavano verificando eventi che sembravano permettere il superamento della contrapposizione e dell’intolleranza reciproca tra i partiti. Sul piano internazionale, la morte di Stalin, l’ascesa al potere di Krusciov e l’avvio del “disgelo” sembravano favorire l’allentamento delle contrapposizioni più rigide. Iniziava a farsi avanti la convinzione che fosse necessaria un’alleanza della sinistra socialista con i gruppi della DC, disposti al dialogo. Anche all’interno del mondo cattolico, con la morte nel 1958 di Pio XII, le più aspre rigidità dottrinali furono messe in discussione. Al soglio pontificio saliva Giovanni XXIII, il papa del Concilio ecumenico, della “Mater et magistra” e “Pacem in terris”, che parlava ai popoli della terra con un nuovo linguaggio di pace, di lavoro, e d’amore verso i deboli e i poveri, di riscatto per gli oppressi e di fratellanza fra gli uomini. La sua voce non risuonava solo nel mondo cattolico, ma affascinava anche quanti vedevano nel messaggio papale un prezioso orientamento, al di là delle barriere ideologiche, sulla strada del progresso democratico e della giustizia sociale. Nella Chiesa italiana questa fu una vera e propria rivoluzione rispetto all’epoca precedente in cui le gerarchie ecclesiastiche erano ferme su posizioni difensive di conservazione. Diminuirono le pressioni della Chiesa sulla DC e più in generale le interferenze nella vita politica del paese, che si apriva verso la strada della laicizzazione. Persero

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I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, Milano, Rizzoli, 1991, p 7.

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autorità gli uomini di Pio XII che avevano assicurato sostegno alle destre, interne ed esterne alla DC, mentre ricevevano nuovo impulso i gruppi cattolici di base e della sinistra democristiana, orientati sul dialogo a sinistra 2. Nell’ottimismo degli anni del boom si assistette ad un aumento sistematico della produzione, del reddito e dei salari che portarono benessere e soprattutto l’illusione di una crescita inarrestabile. Gli effetti di questo cambiamento si tradussero in profonde modificazioni di ogni aspetto della vita, dal costume ai consumi, dalla cultura alle abitudini sessuali e alla psicologia collettiva e individuale. Dunque fu il sistema di valori ad essere scosso 3. Questa Italia in movimento cercò – spesso con speranze eccessive – il modo per fare della nuova modernità un’occasione di miglioramento e di crescita per l’intero paese. Intanto il 3 giugno 1963 scomparve Giovanni XXIII e gli succedette Paolo VI. Tra la metà del 1963 e la fine del 1964 la politica di distensione parve subire una battuta d’arresto, oltre che per la morte di papa Giovanni, che ne era stato uno dei simboli, per l’attentato mortale subìto dal presidente John Kennedy e per l’allontanamento di Krusciov dal vertice del potere sovietico: l’esperimento di centrosinistra poté così svolgersi in una situazione internazionale favorevole. Durante gli ultimi mesi del 1964 l’università californiana di Berkeley venne occupata dagli studenti. Iniziava contestazione che in Europa sarebbe arrivata due anni più tardi. La contestazione studentesca prese l’avvio in Italia con “il sommesso ronzio di una zanzara” 4. Era questo il titolo di un giornalino studentesco che veniva distribuito al liceo Parini di Milano. Nel 1966 fu pubblicata una sorta di inchiesta sul tema della libertà sessuale. Purtroppo la provocazione fu presa terribilmente sul serio e i redattori de “La Zanzara” furono inquisiti e incriminati. La contestazione montò dal ’67 in poi. Protagonisti furono i giovani cresciuti in questi anni di cambiamento. Cresceva la politicizzazione, soprattutto a sinistra. Protagonisti erano giovani borghesi e proletari, cresciuti nell’Italia repubblicana del dopoguerra. Varie forme di agitazione attraversavano l’università e le scuole superiori, molti giovani e soprattutto studenti si identificavano con le lotte del terzo Mondo, con

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S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza,1996, pp. 222-224. Ibidem. 4 I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 45. 3

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Cuba, con la Cina, con il Vietnam, con la guerriglia latino-americana e si riconoscevano in valori, quali solidarietà, uguaglianza, individualismo e chiusura nella famiglia. Notevoli furono nella scuola le riforme del centro-sinistra, le quali avviarono processi che furono all’origine del Sessantotto studentesco 5. Nel 1962, l’introduzione della scuola dell’obbligo fino a 14 anni creò i presupposti per la continuazione degli studi di molti giovani appartenenti al ceto piccolo-borghese e alla classe operaia. “Dal 1962-1963 al 1966-1967 l’incremento degli alunni della scuola media statale fu di circa il 18%. Nel 1961 si ebbe la prima riforma diretta ad ampliare gli accessi universitari, con la concessione ai diplomati degli istituti tecnici di iscriversi alle facoltà scientifiche. Dal 1962 al 1967 il numero degli immatricolati crebbe di quasi il 60%. Inoltre nel 1963 fu istituito l’assegno di studio universitario” 6.

Il movimento degli studenti iniziò con l’occupazione di alcune università – quelle di Trento e Torino, la Cattolica di Milano – da parte di giovani della borghesia e del ceto medio, in parte anche della classe operaia e contadina. Il movimento riuniva un gran numero di ragazzi e ragazze che “scoprirono” la politica: una conferma sia della difficoltà della situazione studentesca, sia della consapevolezza che il mondo stesse cambiando. Si denunciava la cultura “ borghese”, e si criticava anche l’istituzione famiglia. Anche se non si ispirava alla non violenza, fino all’inizio del ’68 il movimento fu per lo più pacifico. Il primo marzo 1968, a Roma, il movimento studentesco mostrò l’altra sua faccia: quella degli scontri duri con la polizia, delle spranghe e delle bottiglie Molotov. A Valle Giulia, presso Villa Borghese, dove si trovava la sede della facoltà di Architettura, studenti e agenti s’impegnarono in una battaglia furibonda con lancio di sassi e di bottiglie incendiarie da una parte, manganellate e idranti dall’altra. Si contarono a centinaia i feriti e i contusi e vi furono parecchi fermi e arresti 7. E poi fu la volta del maggio francese. L’agitazione studentesca, che già era in atto, diventò ancora più acuta. I motivi di fondo erano gli stessi della protesta italiana: l’inadeguatezza delle istituzioni, la richiesta di una maggior partecipazione studentesca alla gestione degli atenei, la ribellione alla dittatura “baronale”. Ma presto a Parigi come in Italia, le motivazioni politiche ed ideologiche presero il sopravvento.

p. 223.

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A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia del 1943 al 2003, Bologna, il Mulino, 2004,

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Ibidem. I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 49.

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A quel punto scesero in campo gli operai che mutarono radicalmente la fisionomia della protesta. “Tra il settembre e il dicembre del 1969 la questione operaia esplode con una forza che né imprenditori né operai avevano previsto. Comincia il cosiddetto “autunno caldo”. Ha sullo sfondo il rinnovo contemporaneo di 32 contratti collettivi di lavoro. Oltre cinque milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti e di altri settori sono decisi a far sentire il peso delle loro rivendicazioni […] La combattività dei lavoratori si accentua con l’emergere di una figura nuova: il cosiddetto operaio-massa, generalmente giovane, meridionale, non specializzato, addetto alla catena di montaggio, più combattivo del tradizionale operaio di mestiere” 8.

Gli operai volevano contare di più, socialmente e politicamente. La spinta al miglioramento di status si tradusse in una stagione di lotte che, a differenza degli altri paesi europei in cui si concluse entro l’autunno, in Italia si prolungò fin quasi a metà decennio. Gli scioperi portarono anche ai primi scontri con la polizia. Si scioperava contro i potere dei capi e i ritmi di lavoro troppo veloci, per la fine della disparità di salario e di status fra operai e impiegati, fra operai comuni e specializzati. ‹‹Il nostro Vietnam è in fabbrica›› così recitava uno slogan, ed era caratteristico in esso l’intreccio tra l’anti-americanismo e l’anti-imperialismo e le rivendicazioni operaie 9. Gli imprenditori italiani, che negli anni grassi avevano peccato spesso di insensibilità e di avidità, furono colti da un sentimento di paura e panico. Nelle fabbriche l’atmosfera diventava invivibile per i dirigenti intimiditi, quando non minacciati. Gruppi di operai praticavano “l’autoriduzione”, rallentando di loro iniziativa ritmi e produzione. Cresceva l’assenteismo. Quando le aziende tentavano di punire i sediziosi, spesso si verificava una sollevazione sindacale e politica insieme: non di rado il ministro del lavoro Carlo Donat Cattin interveniva per costringere l’azienda alla resa: niente più denunce, niente più licenziamenti, reintegro dei puniti nelle loro mansioni. L’autunno caldo concorse a provocare, la fuga dei capitali, l’impennata dell’inflazione, una decade recessionistica, per quanto riguarda gli effetti economici. In questi anni il sindacato vide ampliarsi il numero degli iscritti. “Un’importante conquista sindacale fu rappresentata dallo Statuto dei lavoratori, approvato dal parlamento nel maggio del 1970, con cui erano tutelati i diritti costituzionali in fabbrica. Altri obbiettivi furono raggiunti sia nel settore dell’assistenza alla disoccupazione, sia in quello della tutela della salute” 10.

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S. Zavoli, La notte della Repubblica, Milano, Mondadori, 1992. I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 57. 10 A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia del 1943 al 2003, cit., p. 241. 9

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L’accentuata politicizzazione dei gruppi operai si espresse nella costituzione di una pluralità di gruppi e organizzazioni: “Potere operaio”, “Lotta continua”, “Avanguardia operaia”, accomunati dal riferimento al marxismo concepito come base teorica per la lotta contro il capitalismo e l’imperialismo internazionali e per l’instaurazione rivoluzionaria di una società socialista. Il fenomeno si diffuse in varie città, Milano, Pavia, Trento, Bologna, Firenze, Porto Marghera, Terni, Latina e Porto Torres, che erano state o l’epicentro del movimento degli studenti, o il luogo dove era maturata una prima penetrazione di questi gruppi nell’ambiente operaio. Queste nuove formazioni di ultra-sinistra erano consapevoli di giocare una partita decisiva per il loro radicamento sociale e concepirono la loro azione nei CUB (Comitati Unitari di Base)11 in aperta polemica con il movimento sindacale impegnandosi in una radicalizzazione delle posizioni operaie 12. Il CUB aveva deciso di respingere il contratto nazionale firmato dai sindacati e di continuare la lotta nella fabbrica. Il successo ottenuto fece teorizzare la funzione delle avanguardie operaie come strumento rivoluzionario rispetto ai sindacati 13. Il sistema politico risultava profondamente scosso da quella protesta che si era levata a partire dalle università e dalle fabbriche. La reazione del governo, delle opposizioni e della classe dirigente fu prima di stupore, poi di insofferenza e di preoccupazione di fronte a un fenomeno così straordinario come questa ribellione di giovani, per la maggioranza borghesi 14. Il PCI e il PSI non erano in grado, per tradizione culturale e per mentalità dei dirigenti, di guidare un movimento come quello del ’68 che, d’altra parte, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi guidare, perché era distante dalla linea politica seguita da entrambi i partiti negli anni precedenti. Sul piano politico e organizzativo non ci furono rapporti tra i partiti tradizionali della sinistra e i movimenti del Sessantotto. Ma il Sessantotto agì fortemente anche sui partiti e sullo stesso PCI, che subì un’accentuazione della divisione tra «destra» e «sinistra» 15.

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Organismi a composizione mista (lavoratori, studenti, disoccupati) attraverso i quali il movimento degli studenti trovava modo di congiungersi con la realtà sociale della fabbrica. 12 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, UTET, 1995, p. 367. 13 A. Lepre, Storia della prima Repubblica: l’Italia del 1943 al 2003, cit., pp. 235-236. 14 S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 277. 15 A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia del 1943 al 2003, cit., p. 238.

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La democrazia parlamentare venne criticata in nome di una partecipazione diretta alle decisioni. Gli stessi partiti di sinistra e le organizzazioni sindacali vennero messi sotto accusa per il loro burocratismo e riformismo. La contestazione stava ormai andando oltre i limiti, al punto da richiedere soluzioni politiche, rispondenti alla necessità di modernizzazione del paese. Dunque il ’68 non sconvolse solo il mondo dei giovani: cominciò così a delinearsi un movimentismo sociale e civile diffuso. Questa mobilitazione, antiautoritaria, democratica e libertaria giunse fino alla borghesia delle professioni, pilastro del moderatismo, dove la critica ai vecchi organismi corporativi portò alla nascita di nuove associazioni, tutte caratterizzate dall’aggettivo democratico: magistratura democratica, medicina democratica, docenti avvocati, architetti. Via via, la spinta verso nuove aggregazioni entrava nelle famiglie, nelle caserme, nelle carceri, a testimoniare una richiesta crescente di adeguare anche il quotidiano ai bisogni di una società matura, più consapevole dei propri diritti, che esigesse una diversa qualità della vita. Il movimento femminista fu l’esempio più vistoso di questa generale agitazione, anche perché portò con sé la rottura di una serie di tabù, con conseguenze importanti nell’esistenza individuale e collettiva delle generazioni future. Il percorso di emancipazione delle donne, accelerato dalle grandi migrazioni degli anni Cinquanta e diventato incontenibile col boom economico, partì dalla richiesta della parità dei diritti e di opportunità di impiego per allargarsi via via alle tematiche della sessualità, dell’uso del tempo libero, della gestione del corpo e dell’educazione dei figli. L’essere donna divenne il fattore unificante di un nuovo soggetto che, presa coscienza della propria diversità, cominciava a muoversi autonomamente appunto per liberarsi dai vincoli antichi, primo fra tutti la dipendenza dall’uomo, vale a dire dal padre, dal marito, dal fratello, dal figlio e quindi dal padrone, dal potere politico per antonomasia maschili. “Rivolta femminile”, “Lotta femminista”, “Nemesiache”, “Movimento di liberazione delle donne” furono alcuni dei tanti gruppi nati in questo periodo con differenti caratteri (marxisti, libertari, separatisti). Ad essi fece seguito la fioritura dei collettivi, delle riviste, attraverso le quali si sprigionava il nuovo protagonismo

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femminile che dalla richiesta di eguaglianza passava alla definizione di una sfera dei diritti delle donne in quanto tali 16. A giovarsi della mobilitazione femminile e a contribuire al suo sviluppo fu il movimento radicale che prese vigore a metà degli anni Sessanta sull’obbiettivo di introdurre il divorzio nella legislazione italiana. La battaglia divorzista fu scatenante nella ridefinizione dei rapporti sessuali e di un’intera etica familiare, già profondamente scossa. “L’intestazione della legge era, pudicamente, quella di «disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio». Alcune sue forme prevedevano, per il divorzio, casi estremi e in qualche forma accettabili anche dagli ambienti cattolici. La caducità degli effetti civili del matrimonio – non di quelli religiosi, beninteso – poteva essere invocata quando uno dei due coniugi fosse stato condannato all’ergastolo o a una pena superiore a quindici anni, o per incesto o per delitti sessuali nell’ambito familiare, o per incitamento della moglie o della prole alla prostituzione, o per maltrattamenti del coniuge o dei figli. Di gran lunga più rilevante era un’altra disposizione in forza della quale allo scioglimento si poteva dar luogo quando fosse stata pronunciata la separazione fra i coniugi, e la separazione stessa si fosse protratta ininterrottamente per almeno cinque anni. La contesa sul divorzio durava da un secolo. Chi lo invocava faceva presente che la Sacra Rota aveva in effetti monopolizzato il diritto di sciogliere i matrimoni, e nel monopolio si era servita con disinvoltura, soprattutto quando la causa coinvolgesse personaggi famosi. Molte coppie «illegali», che pure avevano tutte le caratteristiche della solidità e dell’onesta, erano costrette a una condizione sociale di disagio in nome di un vicolo sacramentale che secondo la maggioranza del Paese – e lo si vide nel referendum del 1974 – non poteva e non doveva ostacolare il diritto alla rispettabilità formale, oltre che a quella sostanziale. Il divorzio era un istituto vigente nella quasi totalità dei Paesi democratici e sviluppati, e non v’era ragione, secondo i suoi fautori, perché l’Italia non dovesse adottarlo. […] È da notare che la Costituzione italiana non prevede l’indissolubilità del matrimonio. Essa era enunciata nel progetto iniziale («la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio indissolubile»), ma poi per pochi voti, 194 contro 191, il termine «indissolubile» era stato annullato” 17 .

I radicali colsero i primi effetti del processo di laicizzazione che si innescò in una società dove cominciavano a declinare fedi e ideologie. Il caso del divorzio – e poi dell’aborto – mobilitò la società civile, sotto la pressione dei radicali, a vincere le perplessità e la freddezza iniziale del PCI di fronte alla proposta di legge, presentata alla Camera dai deputati Baslini e Fortuna. I due grandi partiti di massa, il cattolico e il comunista sottovalutarono la portata del cambiamento intervenuto nella società: il Partito comunista, convinto che il divorzio 16

S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., pp. 284-286. I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., pp. 109-110.

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interessasse solo settori elitari della società, era restio ad impegnarsi in questa battaglia, anche se alla fine si fece persuadere. I comunisti temevano una frattura col mondo cattolico considerata così lacerante da rappresentare un pericolo per la tenuta del sistema democratico. Quanto alla DC, per nulla rassegnata alla sconfitta in parlamento, si mobilitò per abrogare con un referendum la legge sul divorzio. Prevaleva ancora tra i cattolici la visione di una società immobile; non si tenne conto, cioè, che il processo di laicizzazione, rapidissimo, aveva ormai leso alla base il tradizionale legame di obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, non più sentito come un dovere neanche dai fedeli. La DC si trovava quindi in un dilemma spinoso. Non osava ribellarsi al Papa, ma al tempo stesso voleva raggiungere l’accordo con socialisti, socialdemocratici e repubblicani. Sullo sfondo il calo della religiosità della popolazione italiana si confermava come uno degli effetti più vistosi della trasformazione in atto: le grandi migrazioni, l’abbandono delle campagne, i tumultuosi processi di urbanizzazione avevano distrutto le tradizionali roccaforti cattoliche; il benessere economico più diffuso, l’individualismo crescente, l’affermarsi del modello americano della società consumista stavano minando le fondamenta della famiglia cattolica e producevano, segno non secondario, un vistoso arresto delle vocazioni religiose 18. Per la prima volta il sistema politico sembrò aprirsi alle richieste della società civile. Nel 1974 il referendum sulla legge istitutiva del divorzio venne vinto con il 59 per cento dei voti dagli oppositori dell’abrogazione della legge e dimostrò che il paese si avviava ormai sulla strada del tramonto dell’egemonia della cultura e delle organizzazioni legate alla Chiesa. Questa fase di apertura venne tuttavia segnata da laceranti conflitti: la fine della convertibilità del dollaro, la guerra del Kippur tra arabi e israeliani e la crisi petrolifera. Il 2 giugno 1973 i paesi dell’Opec

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raggiunsero un accordo che, sebbene portasse

all’aumento del costo del petrolio, sembrò dare una certa stabilità al mercato. Ma nei mesi successivi l’Opec decise un nuovo aumento dei prezzi e, contemporaneamente, un calo della produzione. Il costo del petrolio si triplicò e tutta l’economia mondiale entrò in crisi. È innegabile, scrive Lepre, che questo aumento abbia innescato la recessione del 1974, giudicata la più grave conosciuta dal mondo occidentale dopo quella seguita al

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S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., pp. 288-289. Organization of Petroleum Exporting Countries .

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1929

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. La ripresa economica cominciò solo negli anni 1975-1976, ma sempre con

importanti oscillazioni. La crisi petrolifera provocò anzitutto un forte aumento delle spese per l’energia. “Nel 1974 il costo del petrolio importato in Italia crebbe di oltre il 220% e il deficit nella bilancia dei pagamenti, in questo settore, di oltre il 230%. In complesso, le spese energetiche si triplicarono. Sembrò allora necessario a molti dare impulso alla costruzione di centrali nucleari. In attesa di nuove fonti energetiche, si ricorse alla restrizione forzosa dei consumi con l’introduzione di una serie di misure che vennero decise dal governo il 23 novembre ed entrarono in vigore il 2 dicembre: l’illuminazione pubblica fu ridotta del 40%, gli esercizi commerciali avrebbero dovuto chiudere alle 19, spegnendo le insegne pubblicitarie; alle 23 sarebbero dovuti terminare gli spettacoli teatrali e cinematografici e anche le trasmissioni televisive. La domenica e gli altri giorni festivi le automobili non avrebbero potuto circolare” 21.

Tali misure suscitarono gli entusiasmi di ecologisti e di intellettuali, ma misero in crisi l’industria dell’automobile (la Fiat ridusse gli orari di lavoro) e anche alcuni settori turistici. Comunque le misure restrittive ebbero breve durata: a marzo si tornò alla circolazione automobilistica nei giorni festivi, sia pure a targhe alterne, e ben presto tutte le restrizioni furono tolte. Il 1975 fu l’anno peggiore: svalutazione della lira, inflazione, recessione dell’economia, aumento del debito pubblico, disoccupazione. La ripresa sul piano industriale già nel 1976 divenne evidente. Essa durò fino al 1980 e si fondò soprattutto sulla piccola e media impresa. Nel Mezzogiorno, però, tale crescita fu più limitata. In ambito politico, nel novembre del 1972, il XXXIX congresso del PSI vide la vittoria dei sostenitori di un ritorno al centro-sinistra. Nel giugno del 1973 anche la DC si schierò per un nuovo centro-sinistra organico, che trovò espressione nel governo Rumor, formato da DC, PSI, PSDI e PRI. Si parlò di «cento giorni decisivi». Ma un programma di risanamento non poteva fondarsi sulle sole forze che avevano dato vita al centro-sinistra. Era anche indispensabile l’appoggio, o un opposizione non rigida, da parte del PCI. La situazione interna fu presentata in termini drammatici e gli avvenimenti del Cile contribuirono in misura notevole a questa drammatizzazione. Nel settembre 1973 la notizia che il presidente del Cile, Salvador Allende, era stato assassinato colpì profondamente la sinistra italiana: infatti in Cile si stava testando un esperimento politico che poteva avere punti in comune con quello italiano. Il leader 20 21

A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia del 1943 al 2003, cit., p. 252. Ivi, p. 253.

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comunista e segretario del partito, Enrico Berlinguer ne fu particolarmente colpito. In un suo articolo pubblicato su «Rinascita» iniziò ad avanzare la proposta del «compromesso storico». Questa nuova strategia puntava a un accordo di governo tra le forze democratiche popolari del paese: comunisti, socialisti e cattolici. L’uso dell’aggettivo «storico», che configurava il «compromesso» come una strategia ad ampio respiro, implicava per il PCI l’archiviazione di alcune linee ideologiche: della teoria leninista sulla distruzione del capitalismo e della tesi gramsciana sull’alleanza fra operai e contadini. Sul piano politico tale percorso venne interpretato come un’offerta di collaborazione alla DC 22. Nel luglio 1973, al congresso della DC, Aldo Moro aveva sostenuto che la storia avrebbe potuto, «forse in tempi imprevedibili», far cadere la preclusione contro il PCI. Non era molto, ma era già qualcosa di diverso dalle prese di posizione che la DC aveva assunto in precedenza. La nuova linea politica auspicata da Berlinguer incontrò una forte opposizione. Nonostante tutto, il progetto sembrava avere possibilità di successo. Il PCI si presentava, sul piano economico, con un aspetto più rassicurate rispetto al passato. Inoltre i suoi successi elettorali lo rendevano un partito degno di governare, ormai, insieme con la società italiana, in via di trasformazione, che non coinvolgeva più solo operai e contadini, ma anche i settori della piccola e media impresa. Pur seguendo una linea politica che si rifaceva alla tradizione, col «compromesso storico» Berlinguer cercava di dare risposte ai processi di trasformazione che erano in corso nel partito stesso, nella società italiana e anche in Europa. Nel 1973 in Europa esistevano ancora regimi fascisti (in Grecia, in Spagna, in Portogallo) e gli avvenimenti cileni sembravano indicare una tendenza reazionaria. Il 25 aprile 1974 cadde il governo di Caetano: iniziava così il processo di democratizzazione in Portogallo. Finiva anche il governo dei colonnelli greci: questi ultimi nel 1967, con un colpo di stato guidato dal colonnello Georgios Papadopoulos, avevano rovesciato il governo, avevano sospeso la Costituzione e fatto arrestare tutti i leader dell’opposizione di sinistra. La dittatura cessò dopo che, con l’invasione turca di Cipro, i colonnelli furono costretti a convocare nuove elezioni, vinte dal partito conservatore. Ma in Italia l’atmosfera politica continuava a restare pesante: la strage sul treno Italicus sembrava prevedere un possibile colpo di Stato. L’ipotesi del compromesso

22

S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio Editori, 1992, cit., p. 407.

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storico era un incubo per i socialisti, che sapevano quale rischio esso rappresentasse per il loro peso e la loro identità. “L’abbraccio DC-PCI – hanno scritto Montanelli e Cervi avrebbe ridotto il PSI al ruolo d’un vassallo non indispensabile e a molti non gradito 23. La situazione si chiarì solo con le elezioni regionali che si tennero il 15-16 giugno 1975. “Il PCI ottenne un rilevante successo con il 33% dei voti; la DC, invece, scese al 35,3%. Insieme PCI e PSI arrivarono al 47,3% e i risultati modificarono il governo di regioni e di grandi città. La sinistra conquistò una parte importante del potere locale” 24.

L’arrivo della sinistra al governo delle città e delle regioni d’Italia portò ad una particolare attenzione verso le successive elezioni politiche, nelle quali il PCI puntava al «sorpasso» della DC. Berlinguer continuava, comunque, a cercare motivi validi per creare un’alleanza con la DC. Il segretario del PCI si dedicava ad un programma di «austerità», ponendo l’accento su problemi internazionali come la fame nel mondo, la difesa e trasformazione dell’ambiente naturale, la lotta contro l’inquinamento, la difesa contro le calamità, la prevenzione e la cura di malattie epidemiche. Però alla nobiltà di tali propositi non corrispondeva la società italiana, che tendeva ad un elevato consumismo. Gli «elementi di socialismo» che Berlinguer avrebbe voluto introdurre avrebbero frenato il benessere fondato sui consumi. Nonostante ciò non fosse visto di buon occhio dagli italiani, il ’75 e il ’76 furono gli anni della massima popolarità di Berlinguer e del PCI. Nelle elezioni politiche del giugno del 1976 il PCI riportò il 34,4% dei voti, mentre la DC risalì al 38,7%, riconquistando i consensi perduti nelle precedenti regionali. Il PSI col 9,6% registrò una sostanziale sconfitta che portò alla crisi del vecchio gruppo dirigente e all’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi leader della corrente autonomista. L’esito delle elezioni lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo. Poiché i socialisti non erano disponibili a una riedizione del centrosinistra e non esistevano i presupposti per un ritorno al centrismo, l’unica soluzione consisteva in un coinvolgimento del PCI nella maggioranza. Si giunse così, in agosto, alla costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti, che ottenne l’astensione in Parlamento di tutti gli altri partiti, esclusi il MSI e i radicali: si parlò di governo della «non sfiducia» 25. 23

I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 156. A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia del 1943 al 2003, cit., p. 268. 25 S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., pp. 488-489. 24

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I governi della “solidarietà nazionale” furono considerati come il punto di approdo della politica del “compromesso storico”. In realtà, il primo governo di “solidarietà nazionale” nacque in una situazione gravissima a causa del rapimento Moro, “grazie” al quale si giunse all’ingresso del PCI nella maggioranza. Entrando nella maggioranza il PCI ottenne pochissimi vantaggi: il suo maggior risultato fu ottenuto con le dimissioni nel giugno del 1978 del presidente della repubblica, Giovanni Leone, al quale sarebbe succeduto, l’8 luglio 1978, Sandro Pertini. Ma qualcos’altro scosse questi anni. Nel marzo del 1977 si assistette a due fatti clamorosi: il segretario comunista della Confederazione generale del lavoro, Luciano Lama venne insultato e fischiato dalla nuova sinistra romana; e a Bologna un’insurrezione giovanile costrinse il governo a ricorrere allo stato d’assedio. I protagonisti furono ancora una volta i giovani: disamorati dalla politica tradizionale, spesso incapaci o riluttanti a trovare un’occupazione che non fosse solo marginale o precaria, desiderosi soprattutto di stare insieme e di divertirsi, i giovani del movimento del “settantasette” differivano radicalmente dai loro analoghi compagni, idealisti e ideologizzati del ‘68. A Milano gruppi di giovani occupavano edifici e li trasformavano in centri sociali. I loro principali interessi riguardavano l’organizzazione di concerti, film, laboratori di fotografia e di musica, centri di discussione, lezioni di yoga, e inoltre servizi consultorio per tossicodipendenti, poiché in quegli anni le droghe pesanti, soprattutto l’eroina, si erano largamente diffuse nelle città italiane, con conseguenze spaventose per una generazione sottoccupata e disillusa. Era possibile individuare nel movimento del ‘77 due tendenze, che spesso si intrecciavano. La prima era ”spontanea” e “creativa”, sensibile al discorso femminista, ironica e irriverente, incline a creare strutture alternative piuttosto che a sfidare il potere. Gli ”indiani metropolitani”, con il loro abbigliamento e la faccia dipinta simbolo del rifiuto della società industriale, ne erano i rappresentanti più vivaci. La seconda tendenza, “autonoma” e militarista, intendeva valorizzare la cultura della violenza degli anni precedenti e organizzare i “nuovi soggetti sociali” per una battaglia contro lo Stato26. Questa strategia venne espressa, teorizzata e praticata dai gruppi di “autonomia organizzata”, che comprendevano al proprio interno intellettuali ed ex leader di Potere operaio.

26

G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, Milano, Rizzoli, 1978, pp. 87-98.

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Il paese si rese conto che era nato qualcosa alla sinistra del partito comunista, qualcosa di confuso ma carico di minacce: si trattava di decine di gruppi in dissenso fra loro ma uniti dalla comune delusione verso il PCI. Propugnavano la lotta armata in piazza e consumarono la rottura col partito comunista, contestando con forza la politica del “compromesso storico”. Si avvertì un legame fra il Movimento e il terrorismo. Un’insurrezione a Bologna aveva costretto il partito comunista a rinunciare all’autodisciplina tradizionale delegando l’ordine pubblico alla polizia. Il “partito di governo” doveva fare una scelta: o stare con la maggioranza borghese o mettersi dalla parte della minoranza in protesta. Scelse la prima, naturalmente. Il “Movimento” di Bologna non era in grado di opporsi alla polizia. Però si capì che nell’Università vi erano migliaia di giovani disponibili a comportamenti estremi 27. Iniziò a diffondersi l’idea che il Movimento prima o poi si sarebbe dovuto armare e che a breve in Italia si sarebbe scatenata una guerriglia urbana. Si creò dunque una disponibilità alla violenza che si espresse in modi diversi: una parte dei giovani del “Movimento” decise di passare alla lotta armata e alla clandestinità, mentre altri continuarono a lavorare per la formazione di un partito armato legato alla fabbrica 28. Il momento culminante del “Movimento” del ’77 fu il “Convegno contro la repressione” svoltosi a Bologna tra il 23 e il 25 settembre 1977. Da Bologna era partita la scintilla con la morte dello studente Francesco Lorusso, la conseguente occupazione dell’università e lo sgombero armato. Verso la fine degli anni ’70 il Movimento aveva esaurito la spinta iniziale: il convegno di Bologna si rivelò un fallimento e da allora il “Movimento” cominciò a spegnersi rapidamente.

1.2 Lo scontro dentro la sinistra extraparlamentare e non La contestazione studentesca fece da incubatrice a formazioni politiche minoritarie extraparlamentari. Tecnicamente con sinistra extraparlamentare si indicava quell’area politica della sinistra che non partecipava al sistema politico-istituzionale. Di solito questi gruppi preferivano l’azione diretta e puntavano a coinvolgere le masse 29.

27

Ibidem. Ibidem. 29 Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 279. 28

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I primi movimenti di estrema sinistra nacquero agli inizi degli anni '60, quando dopo la caduta del governo Tambroni, si aprivano prospettive concrete di riforma e di allargamento democratico del sistema di potere. Fu così che furono fondati, per iniziativa di nuclei di dissidenti della sinistra e di intellettuali radicali marxisti, delle formazioni minoritarie extraparlamentari, che erano in dissenso con la linea riformista della sinistra storica. Nell'ottobre '61 uscì il primo numero dei “Quaderni Rossi” 30; l’anno successivo videro la luce il primo gruppo marxista-leninista ("Viva il leninismo") e “Quaderni piacentini”, probabilmente la rivista più importante, dal punto di vista teorico, del movimento studentesco 31. L'impulso più profondo ed efficace allo sviluppo della "sinistra rivoluzionaria" venne dalla drammatica contraddizione, interna al PCI, tra politica riformistica e ideologia rivoluzionaria rappresentata dal marxismo-leninismo. Così alla prassi riformista e al revisionismo dei partiti ufficiali, i movimenti estremistici andavano opponendo un ritorno alla purezza originaria e alla teoria rivoluzionaria di Marx e Lenin, magari riletta ed interpretata attraverso il filtro della Scuola di Francoforte

32

.

Anche all’interno dello stesso PCI, attorno a Luigi Pintor e Rossana Rossanda, nacque il 23 giugno del '69 "Il Manifesto", rivista di ricerca politica, ma soprattutto di contestazione a sinistra della linea ufficiale. A novembre dello stesso anno i responsabili del periodico vennero espulsi, e “Il Manifesto”, che due anni dopo si trasformerà in quotidiano, assunse, parallelamente ai caratteri editoriali, le caratteristiche di un piccolo, ma agguerrito partito. La sua funzione culturale, prima ancora che politica, fu quella di affrontare criticamente il ruolo controverso della sinistra italiana interpretandolo al di là delle sue funzioni costituzionali, ma senza mai giungere alla violenza. Accadde poi che quando all'interno del movimento studentesco e non iniziarono a prendere corpo e voce le diversità di vedute, si ritenne indispensabile, per il trionfo delle masse di operai e studenti (dunque per la realizzazione di una società comunista), la formazione di vari gruppi. Anche il movimento studentesco milanese si trasformò in “Movimento studentesco”.

30

G. Vettori, La sinistra extraparlamentare in Italia, Roma, Newton Compton, 1973, p.20. Ivi, p. 24. 32 La Scuola di Francoforte si proponeva di elaborare una teoria critica della società attuale, guidata dall'ideale rivoluzionario di una umanità futura libera e non alienata. In vista di questi obiettivi i francofortesi si riallacciavano a tre autori fondamentali: Hegel, Marx e Freud. 31

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Impossibile non notare come la carta stampata fosse il medium preferito di quella fase che si radicalizzava sempre più verso i temi fondamentali dell'organizzazione rivoluzionaria, ed il rifiuto per i consueti ma soprattutto obsoleti mezzi di informazione. In quasi tutti questi gruppi il mito dell'operaio era pari solo a quello della Resistenza, ed il concetto di «autonomia operaia» era di centrale importanza. Questi gruppi si configurarono quasi come “sette chiuse”, spesso contrapposte l’una all’altra: i maoisti di “Servire il popolo”, i leninisti ortodossi di “Avanguardia operaia”, gli stalinisti del “Movimento studentesco di Milano”, i libertari di “Lotta continua”, gli operaisti di “Potere operaio”, i comunisti del “Manifesto”, nucleo storico del dissenso interno al PCI che si scisse definitivamente in questo periodo, e “Collettivo Politico Metropolitano” 33. “Avanguardia operaia” venne fondata a Milano nel 1968, e nel dicembre dello stesso anno usciva il primo numero dell'omonima rivista. Fu uno dei gruppi più solidi dal punto di vista organizzativo, e dei più avanzati dal punto di vista dell'elaborazione teorica. Si proponeva di creare il "Partito rivoluzionario marxista-leninista", ma riconosceva che il processo non poteva che essere graduale. Criticava la frantumazione della sinistra rivoluzionaria, che aveva impedito di « trovare una via rivoluzionaria alternativa in grado di portare le masse al potere », e sosteneva anche la necessità di un coordinamento a livello internazionale 34. Presente, come organizzazione comunista, in quasi tutti i punti strategicamente fondamentali del centro-nord, legata da unità d’azione con “Sinistra Operaia” di Sassari, il “Collettivo di Lenin” di Torino, era la forza alla guida della grande maggioranza dei CUB

35

. Comunque il gruppo non aveva mai teorizzato né attuato concretamente

sanguinosi atti di terrorismo, ed il suo contributo di violenza si era limitato agli scontri di piazza. Un’altro gruppo era “Potere Operaio”, un'organizzazione nazionale presente nei principali centri, specie del centro-nord che annoverava migliaia di militanti nelle fabbriche, nelle scuole, nelle università e nei quartieri. La forza di “Potere Operaio” stava in un gruppo dirigente formato da persone culturalmente preparate e dotate di una notevole capacità d'elaborazione ideologica, in grado quindi di diffondere e radicare, mediante un'intensa attività pubblicistica e propagandistica, idee rivoluzionarie. A capo 33

Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., pp. 279-282. G. Vettori, La sinistra extraparlamentare in Italia, cit., p. 121 35 Ibidem. 34

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dell'organizzazione vi era di fatto un triumvirato composto da Franco Piperno (attivista, politico e fisico), da Oreste Scalzone (già leader del movimento studentesco romano) e Toni Negri (docente universitario a Padova, considerato l'ideologo del gruppo). La parola d’ordine «rifiuto del lavoro» fu al centro dell’analisi dell’organizzazione. Essa costituiva, per “Potere Operaio” il motivo unificante delle lotte e degli interventi

36

.

Nelle lotte dell'autunno '69, “Potere Operaio” tentò di far saltare le piattaforme sindacali, estremizzando le rivendicazioni, proponendo il concetto rivoluzionario di salario svincolato dalla produttività, il rifiuto del lavoro come esigenza dell'uomo, ma dopo la firma dei primi contratti, che PotOp (come veniva chiamato) non esitò a definire "contratti bidone", la parola d'ordine diventò una sola: «Tutto e subito». Le lotte dovevano essere "lotte dure", nelle fabbriche (con scioperi, sabotaggi ecc) come nei quartieri (con le occupazioni delle case, il rifiuto a pagare bollette e i biglietti di tram o metropolitana). Alla tregua sindacale che seguì la firma dei contratti, PotOp, dunque, rispose alzando il livello dello scontro. Di questo loro stessi non fecero mai mistero: «Organizzando la nostra violenza – scrivevano sul loro giornale – possiamo avere tutto quello che vogliamo [...] l'unica soluzione è la violenza aperta». Ma l'insurrezione, da loro teorizzata, non avvenne ed il gruppo si trovò sempre più isolato, soprattutto dopo la tragedia passata alla storia come il "rogo di Primavalle", di cui vennero accusati 3 membri di PotOp. Le scarse prospettive e soprattutto, le divisioni interne al gruppo portarono alla fine dell'esperienza politica del gruppo. Il congresso di Rosolina a mare (31 maggio-3 giugno 1973) decretò la fine di PopOp. La spirale della violenza aumentò ancora di più con l'apporto delle frazioni più radicali che si staccarono da PotOp, formando, nella seconda metà degli anni '70, nuove e più potenti organizzazioni terroristiche o, in alcuni casi, andando a rinvigorire le fila delle BR. Il giornale “Potere Operaio” pubblicò anche documenti delle organizzazioni clandestine della lotta armata (BR e GAP). Di questi gruppi, “Lotta Continua” fu il più significativo e, forse, quello destinato – nel decennio '68-'78 – a lasciare il solco più profondo. “Lotta Continua” nacque nel 1969 dalle ceneri de "Il Potere Operaio" di Pisa su iniziativa di quello che poi diventò il suo leader indiscusso, Adriano Sofri. “Lotta Continua”, almeno nei suoi primi anni, fu il più “libertario, fantasioso e anarcoide” dei gruppi, forse quello più fedele alla scintilla movimentista e spontaneista

36

Ivi, p. 90.

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del '68, quello più “allergico” all'idea della burocrazia, anche se poi si strutturò in partito. Come molte altre organizzazioni extraparlamentari, sosteneva che il sistema democratico-borghese si venava sempre più di fascismo. Col passare del tempo e l'affievolirsi delle lotte in fabbrica, le iniziative di “Lotta Continua” si orientarono verso gli strati più oppressi ed emarginati. Fu protagonista di innumerevoli scontri nelle piazze con la polizia, ed il suo servizio d'ordine fu ricordato come uno dei più violenti e spietati. Resta però il fatto che, a parte l'omicidio del commissario Luigi Calabresi, per il quale le condanne avrebbero colpito parecchi anni dopo i vertici di “Lotta Continua”, al gruppo non furono mai direttamente attribuiti episodi di terrorismo. È innegabile però che il gruppo diede un suo sostanziale contributo alla cultura della violenza esercitando, tramite l'omonimo giornale, una potente ed efficace suggestione su migliaia di giovani. “Lotta Continua” prenderà quasi subito le distanze degli episodi di terrorismo approvati invece apertamente da “Potere Operaio” e non si propose mai come organizzazione politico-militare, pur rimanendo fedele al suo estremismo. In verità al convegno nazionale tenutosi a Rimini nell'aprile '72, anche “Lotta Continua” scelse la linea della militarizzazione per “preparare il movimento ad uno scontro generalizzato”, con un programma politico contro lo Stato e “l'esercizio della violenza rivoluzionaria, di massa e d'avanguardia”. Ma fece ben presto marcia indietro, lasciando cadere l'idea della lotta armata come strumento politico. Anche da questa contraddizione alcuni militanti di LC presero lo spunto per lasciare il gruppo e dar vita ai N.A.P. (Nuclei Armati Proletari); altri intrapresero in un secondo momento la via della lotta armata, dopo lo scioglimento della stessa “Lotta Continua”, avvenuto nel 1976. Molti che volevano passare agli atti di terrorismo, ruppero ufficialmente con LC per confluire in altri gruppi. Il caso più eclatante riguardò senza dubbio il sanguinario gruppo di "Prima Linea", mentre scarso fu l'apporto di militanti verso le BR.

1.3 Lo stragismo Che cosa s’intende con il termine “strage”? “giuridicamente la strage non è considerata tra i delitti contro la persona ma tra i reati contro l’incolumità pubblica. Il reato di strage si ha quando, al fine di uccidere, qualcuno che compia atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità causa la morte di più persone” 37.

37 V. Mastronardi, S. Ciappi, Le stragi di sangue che hanno sconvolto il mondo, Roma, Newton Compton, 2009, p. 8

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Nessun paese occidentale come l’Italia ha dovuto registrare nella sua storia recente un così alto numero di stragi che si sono protratte dalla fine della guerra di liberazione fino ai giorni nostri. Stragi fasciste, naziste, foibe, stragi del terrorismo rosso e nero, stragi di mafia e di camorra: a cadere sono stati militanti, politici, sindacalisti, magistrati, gente comune. Lo “stragismo”, ovvero il ricorso alla strage quale strumento per la realizzazione di un preciso disegno politico, adombrava la storia della nostra democrazia (in particolare la fase compresa fra il 1969 e il 1984). Le stragi furono caratterizzate dal fatto di non essere rivolte quasi mai a gruppi sociali particolari o a persone che ricoprivano ruoli specifici, ma comportavano vittime casuali. Infatti, i luoghi scelti dai terroristi in cui far scoppiare una bomba erano molto frequentati, luoghi in genere di pubblico transito o che rivestivano un valore simbolico per i cittadini: piazze, stazioni ferroviarie, aeroporti, banche e uffici pubblici. Si trattava, perciò, di luoghi in cui si svolgeva il diritto-dovere di essere cittadini. La strage fu per questo un attacco alla democrazia, al suo luogo simbolico che era la piazza: colpendo la piazza si voleva colpire l’essenza dello Stato 38. 12 dicembre 1969. Nel pomeriggio, alle 16,37, nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana, a Milano, esplose una bomba da circa sette chili di tritolo che provocò la morte di 16 persone e il ferimento di altre 88. Si seguì subito la pista anarchica. Una seconda bomba fu rinvenuta, inesplosa, nella sede milanese della Banca commerciale italiana. Una terza bomba esplose a Roma alle 16,55 della stesso giorno nel passaggio sotterraneo che collega l’entrata di via Veneto con quella della Banca nazionale del lavoro, facendo 13 feriti. Nello stesso giorno altre due bombe esplosero a Roma tra le 17,20 e le 17,30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra in piazza Venezia, facendo 4 feriti. Sembrò trattarsi di un disegno unico, almeno per quanto riguardava i materiali usati, le tecniche e la sincronizzazione degli attentati. Le indagini si orientarono inizialmente su tutti i gruppi estremisti

39

. La sera stessa venne

arrestato Giuseppe Pinelli, anarchico, che morì precipitando da una finestra della questura milanese. Tre giorni dopo venne arrestato Pietro Valpreda, anche lui anarchico, indicato dal tassista Rolandi come l’uomo che era sceso quel pomeriggio dal suo taxi in 38

Ivi, p. 164

39

Ibidem.

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piazza Fontana con una valigia. Ma dopo vari processi fu assolto, così come vennero assolti altri due indagati Franco Freda e Giovanni Ventura, esponenti del gruppo neofascista “Ordine Nuovo”. Le indagini e i processi si susseguirono nel corso degli anni, con imputazioni a carico di vari esponenti anarchici e di destra; tuttavia alla fine tutti gli accusati furono sempre assolti. Non fu mai emessa una condanna definitiva per la strage. 28 maggio 1974.

A Brescia durante una manifestazione antifascista, indetta dai

sindacati, che avevano proclamato lo sciopero generale per protestare contro gli attentati, scoppiò una bomba, nascosta in un cestino dei rifiuti in piazza della Loggia: morirono 8 persone e 102 rimasero ferite. Poche ore dopo la strage, finirono in carcere alcuni volti noti dell’eversione nera. Ma anche in questo caso nessun colpevole. Nel 1993 fu aperta una nuova inchiesta, ma è tutt’ora una strage irrisolta. 4 agosto 1974. Sul treno Italicus, che percorreva il tratto tra Firenze e Bologna, all’1,20 di notte venne fatto esplodere un ordigno posto su un vagone, all’altezza della galleria di San Benedetto Val di Sambro. Morirono 18 persone e 48 furono i feriti. Fu un massacro che mise in luce la strategia del depistaggio, finalizzata a coprire soprattutto le responsabilità di un gruppo di terroristi aretini collegati a Licio Gelli (capo della più segreta e potente loggia massonica, la P2)

40

ed ai servizi segreti. Ma intanto anche i

terroristi di Ordine Nero, che avevano continuato a realizzare il loro programma di attentati, trassero giovamento dall’intervento di importanti uffici statali, impegnati a neutralizzare le indagini. Alla fine il risultato fu quello voluto dai terroristi e dai loro protettori: le sentenze, con esiti contraddittori, non portarono a nulla. E anche questa strage, come quella di Brescia, restò senza colpevoli. 27 giugno 1980. Un aereo civile DC-9 della società Itavia, partito da Bologna e diretto a Palermo, giunto sulla verticale dell’isola di Ustica, si squarciò in volo e scomparve inabissandosi in mare. Nessun superstite: i morti furono 81. Sulle prime la catastrofe poteva apparire come un incidente aereo. Scartate dalle numerose perizie sia l’ipotesi di un cedimento strutturale, sia quella di un’esplosione in volo (una bomba collocata per un’azione terroristica o uno scoppio dovuto a cause interne), si affermò l’ipotesi della deflagrazione per cause esterne, ovvero lo scoppio di uno o più missili, lanciati premeditatamente o per errore contro l’aereo.

40

A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia del 1943 al 2003, cit., p. 296.

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Nel 1987 il ministro Giuliano Amato dispose il recupero del DC-9. La profondità di 3700 metri alla quale si trovava il relitto rese complesse e costose le operazioni di localizzazione e recupero. Ma l’aeronautica italiana, sostenuta dai ministri della Difesa che si succedettero, cercò di impedire l’accertamento della verità. Con il procedere delle indagini, il disastro aereo assunse una configurazione anomala rispetto alle stragi programmate. Si sarebbe infatti trattato di un incidente più colposo che doloso. 2 agosto 1980. Alle 10,25, nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna Centrale, un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, esplose uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200. Per Bologna e per l’Italia fu una drammatica presa di coscienza della recrudescenza del terrorismo. La bomba era composta da 23 chilogrammi di esplosivo: una miscela di 5 chilogrammi di tritolo e T4, potenziata da 18 chilogrammi di nitroglicerina ad uso civile. L’esplosivo era contenuto in una valigetta sistemata a circa 50 centimetri d’altezza su un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest, per aumentarne l’effetto. La detonazione si sentì nel raggio di molti chilometri e causa il crollo di un’ala

interna della stazione, investendo il treno Ancona-Chiasso e il

parcheggio antistante dei taxi. Al centralino dell’Hotel Hilton di Milano, dieci minuti dopo l’esplosione, giunse una telefonata dei Nuclei armati proletari (NAR) che dichiaravano: “Abbiamo colpito Bologna, colpiremo Milano”. Alle 17,00 di quello stesso giorno, all’agenzia torinese Italia giunse una nuova telefonata di rivendicazione da parte dei NAR che si assumevano la paternità della strage. Nelle ore successive alla strage venne messa in discussione la natura dolosa dell’esplosione. La versione sostenuta dal presidente del consiglio Francesco Cossiga e dalle forze di polizia ipotizzava lo scoppio per cause fortuite di una caldaia nel sotterraneo della stazione. Questa versione, però, non trovò spazio nell’opinione pubblica, in quanto si trovò il cratere provocato dalla bomba. 23 dicembre 1984. La strage del rapido 904, o strage di Natale, fu il nome attribuito ad un attentato dinamitardo avvenuto presso la galleria di san Benedetto Val di Sambro, ai danni del treno proveniente da Napoli e diretto a Milano, nei pressi del punto in cui si verificò la strage dell’Italicus. La detonazione fu provocata da una carica di esplosivo radiocomandata, sistemata su una griglia portabagagli nel corridoio di una carrozza al centro del convoglio. Al contrario del caso dell’Italicus, questa volta gli attentatori avevano atteso che il veicolo fosse penetrato nel tunnel per massimizzare l’effetto della detonazione. L’esplosione causò 15 morti, che per le conseguenze dei 23


traumi salirono a 17, e 267 feriti. Anche la composizione chimica dell’esplosivo era la stessa della strage precedente. La strage è stata lo strumento privilegiato degli “eccidi” avvenuti in questo periodo della Repubblica. Innanzitutto le stragi ebbero lo scopo di generare insicurezza e tensione fra i cittadini, inducendoli ad un atteggiamento di sfiducia nelle istituzioni, consolidando perciò nell’opinione pubblica l’immagine di uno Stato debole, incapace di proteggere e fare giustizia. Le stragi quindi “come un’arma di lotta politica, capaci di annientare il già debole senso di appartenenza alla nazione e allo Stato”. Era lo Stato la vittima del terrorismo. Era lo Stato che si voleva colpire. “Sono centinaia i morti e i feriti per strage, colpevoli di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’innocenza assoluta delle vittime delle stragi del terrorismo rende questo delitto più orrendo, e il più difficile da capire” 41.

1.4 Feltrinelli “Durante il telegiornale della sera del 16 aprile 1970, una voce s’inserisce: ‹‹Attenzione: qui Radio GAP, gruppi di azione partigiana…››. Panico in RAI, sconcerto nelle case degli italiani, nessuno capisce cosa stia succedendo. La sigla GAP poteva ricondurre agli anni della Resistenza, ma gli “addetti ai lavori” sapevano perfettamente che dietro a ciò si celava un importante editore: Giangiacomo Feltrinelli, che da qualche tempo aveva fatto perdere le sue tracce” 42.

Nato a Milano il 19 giugno 1926, Giangiacomo Feltrinelli era figlio di Carlo, presidente del Credito Italiano, della Edison e di altre società. Dopo la morte del padre nel 1935, la madre, Gianna Elisa Gianzana Feltrinelli, sposò in seconde nozze il giornalista Luigi Barzini jr: avvenimenti, questi, che avrebbero segnato in qualche modo l’infanzia dorata del giovane Giangiacomo 43. Durante la guerra la famiglia si trasferì all’Argentario. Nel ’44 il giovane Feltrinelli si arruolò nel Corpo di Liberazione, e a guerra finita si iscrisse al Partito Comunista, per poi interessarsi sempre più al movimento operaio, dando vita infine alla Biblioteca Feltrinelli, destinata a trasformarsi poi in Fondazione. I passi successivi furono la creazione della casa editrice e la rottura col PCI a causa della pubblicazione de Il Dottor Zivago di Pasternak censurato in Unione Sovietica. 41

V. Mastronardi, S. Ciappi, Le stragi di sangue che hanno sconvolto il mondo, cit., p. 174. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, Newton Compton , 2007, p. 59. 43 Ibidem. 42

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Giangiacomo Feltrinelli era un miliardario, apparteneva all’alta borghesia milanese. Si trattava di una borghesia che alla fine della guerra mondiale si era trovata più ricca di prima, e incerta sulla propria funzione e sulla propria credibilità 44. La sua decadenza era cominciata molti anni prima, nel 1922, con l’avvento del fascismo. Nei vent’anni del regime, i grandi padroni italiani, soprattutto i milanesi, avevano disimparato a intraprendere. In questa situazione i figli avevano dovuto scegliere: o iniziarsi alla scuola del cinismo, o coltivare la loro crisi d’identità in un isolamento dorato 45. “ Da ragazzo ero molto solo” – avrebbe detto Feltinelli a Giorgio Bocca – Leggevo, fantasticavo. Poi mi stancavo di fantasticare e scendevo nel giardino di villa Feltrinelli a Gargnano a parlare con i giardinieri. Giorno per giorno. Erano anziani, mi raccontavano i fatti del socialismo e ciò che avevano combinato i fascisti. Ascoltavo avidamente. Così ebbe inizio il mio socialismo” 46.

Che cosa fosse stato il socialismo di Giangiacomo Feltrinelli è difficile dirlo. Nel 1944 Giangiacomo mancò la grande occasione della sua vita: partecipare alla guerra partigiana. Mancata quella occasione, cercò in vari modi di dare una ragione alla sua vita: fondò una casa editrice e creò l’Istituto Feltrinelli per lo studio del movimento operaio, il migliore del mondo assieme a quello di Amsterdam, una delle rare istituzioni culturali italiane di livello internazionale. L’Istituto Feltrinelli fu un serio e importante lavoro culturale 47. Ma soprattutto Feltrinelli incappò in due colpi di fortuna: la pubblicazione de Il dottor Zivago e Il Gattopardo 48. Nel 1969 il giovane editore di sinistra sembrò aver trovato il suo fondamento ideologico e operativo: la certezza che il colpo di stato autoritario fosse imminente e che esso giustificasse, anzi imponesse una preparazione alla resistenza armata. Uscì a fine ’69 un opuscolo con la sua firma che aveva il titolo: “Persiste la minaccia di un colpo di stato in Italia!” Era implicito l’invito a costituire il partito armato. L’intervento delle forze repressive fece crollare, la prospettiva di riuscire a cambiare le cose senza ricorrere alle armi. Da questo momento la preoccupazione ossessiva di Feltrinelli era quella di passare alla clandestinità e di mettere assieme quei nuclei di guerriglieri con cui candidarsi a 44

G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, cit., p. 23. Ibidem. 46 Ivi, p. 25. 47 Ivi, p. 26. 48 I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 99. 45

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comandante e ideologo della nuova resistenza. Il modello partigiano dettò il nome della nuova organizzazione i GAP o gruppi di azione partigiana, sigla copiata da quella resistenziale, che però significava Gruppi di Azione Patriottica. Il GAP più consistente sembrava essere quello di Genova che fu anche il primo a entrare in azione: il 16 aprile ’70 i gappisti genovesi riuscirono a inserirsi nel canale audio della televisione e ad annunciare la loro presenza. Poi diedero segno di vita i GAP di Milano, Trento, Teramo, Verona, La Spezia. Le azioni furono minime: qualche sabotaggio a impianti militari, qualche trasmissione pirata. Feltrinelli andò via dall’Italia nel novembre del ’69, anche se non c’era contro di lui un mandato di cattura, ma una semplice comunicazione giudiziaria per aver fornito una falsa testimonianza in difesa di due anarchici. Di fronte alla stampa internazionale si atteggiava a perseguitato. I GAP, cioè Feltrinelli, in un documento pubblicato dal giornale estremista, “Potere operaio”, denunciavano “il ruolo sempre più preminente delle forze militari dello stato” 49. Infine, a coronamento di questa esistenza spericolata, il traliccio di Segrate. Un nastro trovato in un covo delle BR a Robbiano di Mediglia così descriveva la fine del “miliardario guerrigliero”, che si faceva chiamare a quei tempi “Osvaldo”, accompagnato, in quella notte fatale, da due “collaboratori”: “Osvaldo era una persona che faceva di tutto per dimostrare agli altri di essere più proletario di loro o almeno quanto loro. Sembra che non si lavasse per intere settimane, ma loro dicono addirittura mesi, questo per annerire le mani, renderle callose, per ridurre il suo volto e le sue mani stesse al livello degli operai che lavorano nelle fabbriche…” 50.

Alle 19,35 del 14 marzo 1972 “Osvaldo” con i due gappisti Gallo e Bruno, sabotarono due tralicci dell’alta tensione sulla Cassanese. Gallo aveva ricordato che Osvaldo-Feltrinelli era salito in alto con la carica esplosiva e poi aveva chiesto a Bruno, l’altro collaboratore, di raggiungerlo per aiutarlo. Gallo venne scaraventato indietro di molti metri dallo spostamento d’aria, e aveva una scheggia nella coscia. Vide il cadavere di Osvaldo a braccia aperte e Bruno che correva verso la strada, con una mano incollata all’orecchio. Gli era saltato un timpano. Uno era sotto shock, l’altro non sapeva guidare. Scapparono attraverso i campi 51. 49

Ivi, p. 31. I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., pp. 103-104. 51 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 61. 50

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L’indomani Milano apprese che l’uomo trovato dilaniato ai piedi del traliccio era l’editore Feltrinelli. Venne seppellito nel cimitero monumentale, nella tomba di famiglia. Seguirono il funerale la madre, la sorella e trecento persone, in gran parte della buona borghesia che salutarono la salma a pugno chiuso al canto dell’Internazionale. “Potere Operaio” il 26 marzo annunciò nel suo giornale la morte del “compagno Osvaldo” 52 con queste parole: “Lo dipingono ora come un isolato, un avventuriero, come un deficiente o come un crudele terrorista. Noi sappiamo che dopo aver distrutto la vita del compagno Feltrinelli ne vogliono infangare e seppellire la memoria - come si fa con i parti mostruosi. Si, perché Feltrinelli ha tradito i padroni, ha tradito i riformisti. Per questo tradimento è per noi un compagno. Per questo tradimento i nostri militanti, i compagni delle organizzazioni rivoluzionarie, gli operai di avanguardia chinano le bandiere rosse segno di lutto per la sua morte. Un rivoluzionario è caduto. […] “Il compagno Feltrinelli è morto. E gli sciacalli si sono scatenati. Chi lo vuole terrorista e chi vittima. Destra e sinistra fanno il loro mestiere di sempre. Noi sappiamo che questo compagno non è né una vittima, né un terrorista. E' un rivoluzionario caduto in questa prima fase della guerra di liberazione dello sfruttamento. E' stato ucciso perchè era un militante dei GAP. E carabinieri, polizia, fascisti esteri e nostrani lo sapevano e lo sanno benissimo. E' stato ucciso perchè era un rivoluzionario che con pazienza e tenacia, superando abitudini, comportamenti, vizi, ereditati dall'ambiente alto-borghese da cui proveniva, s'era posto sul terreno della lotta armata, costruendo con i suoi compagni i primi nuclei di resistenza proletaria.E' probabilmente vero che la ricerca affannosa che, da mesi, fascisti e servizi segreti vari avevano scatenato per prendere Feltrinelli, si è intensificata dopo il contributo ulteriormente portato dei GAP nello smascheramento dei mandanti e degli esecutori della strage del dicembre del '69. E' probabilmente vero che questo compagno ha commesso, per generosità, errori fatali di imprudenza - cadendo così in un' imboscata nemica la cui meccanica è a tutt' oggi oscura”.

La domanda che tutti si posero fu: incidente o assassinio? Unico indizio: la mattina del 15 due gappisti andarono a Segrate e videro un’auto e delle persone ferme vicino al pulmino. Chi erano? Non lo si seppe mai 53. Si chiudeva così un capitolo ambiguo, molto legato alla complessità e alla fragilità del personaggio. Poco dopo tale avvenimento i GAP si dissolsero, finendo in parte nelle BR. Nel 1979 a Milano fu celebrato un processo per terrorismo. Prima che i giudici entrassero in camera di consiglio per la sentenza gli imputati lessero il «comunicato numero quattro» firmato, tra gli altri, da Renato Curcio. Il comunicato diceva: 52 53

G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, cit., p. 34. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 61.

27


“Osvaldo [sempre il nome di copertura] non è una vittima ma un rivoluzionario caduto combattendo. Egli era impegnato in un’operazione di sabotaggio di tralicci dell’alta tensione che doveva provocare un black-out in una vasta zona di Milano al fine di garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell’attacco a diversi obbiettivi. Fu un errore tecnico da lui stesso commesso, e cioè la scelta e l’utilizzo di orologi di bassa affidabilità trasformati in timers” 54.

54

I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, Milano, cit., p. 104

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Capitolo II Le brigate rosse 2.1 Nascita e primi episodi Renato Curcio, Margherita (Mara) Gagol, Marco Boato, Mauro Rostagno, Alberto Franceschini, Mario Moretti: sono questi alcuni dei nomi da cui questa storia ha avuto inizio. Renato Curcio, nato nel 1941 a Monterotondo, in provincia di Roma, frequentò un istituto per periti chimici, diplomandosi con ottimi voti nel 1961. All’università ci aveva pensato più volte, ma con il diploma tecnico non poteva accedere alle facoltà umanistiche, le uniche che lo interessassero. E invece a Trento si poteva. Partì, cercò lavoro e ottenne, inoltre, una borsa di studio grazie alla sua buona votazione conseguita alla maturità. Fra i primi studenti che conobbe in questo nuovo ambiente c’erano Marco Boato e Mauro Rostagno. Curcio e Rostagno vivevano assieme in una comune, discutendo di università e politica con altri studenti, fra cui Margherita Cagol, Giorgio Semeria e Paola Besuschio, che insieme abbracciarono in seguito la lotta armata. Margherita Cagol, trentina di buona famiglia, cattolica, aveva attinto dal cristianesimo la sua parte più autentica, quella riguardante l’attenzione verso gli ultimi. Per lei ciò significava impegnarsi concretamente. Le pagine del suo diario erano piene di considerazioni amare che riguardavano la società sempre più votata alla distrazione, che perdeva progressivamente ogni valore. Sentiva come imperativo il dover dare il suo contributo per una società migliore. E poco importavano i mezzi (se fosse stato necessario imbracciare un fucile, l’avrebbe fatto, perché moralmente accettabile oltre che politicamente necessario), importava il risultato. Diplomatasi in ragioneria nel ’64, si era poi iscritta alla neonata facoltà di Sociologia di Trento. Nel frattempo, il clima universitario era diventato effervescente e in questo contesto Margherita era entrata a far parte del Movimento Studentesco dove avrebbe conosciuto Renato Curcio. Pur rimanendo “una brava ragazza”, la Cagol aveva quindi deciso di passare dall’altra parte della barricata. E nel ’67 era entrata a far parte di un gruppo di studio di cui facevano parte pure Curcio e Rostagno.

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Il gruppo di studio si chiamava “Università negativa”: fra le sue attività quella di prendere in considerazione testi ignorati dai corsi universitari, tra i quali quelli di Mao Tse-tung, Marcuse e Guevara 1. Curcio poi parte della redazione della rivista “Lavoro politico” di ispirazione marxista-leninista. Il ripensamento sul tema della violenza da parte di Curcio e della Cagol derivava dai fatti di Avola del 2 dicembre ’68, quando la polizia aveva sparato sui braccianti uccidendone due. L’impressione suscitata nell’ateneo trentino fu fortissima: alla fine la linea che passò nella maggioranza dell’assemblea studentesca fu quella che diceva sì alla violenza sulle cose, no agli attentati sulle persone ( questa fu la linea delle future Brigate Rosse fino al ’76 ). Il primo agosto 1969 Renato e Margherita si sposarono e si trasferirono a Milano, dove trovarono la realtà che cercavano: se il ’68 era stato l’anno della rivolta studentesca, ora la nuova fase era quella della svolta operaia e sindacale. In questo contesto nacque e si sviluppò la figura del militante rivoluzionario che si nutriva di quella “centralità operaia”, posta come fulcro politico dal movimento studentesco: operai e studenti unirono le loro organizzazioni accomunando le loro lotte. Gli studenti spostarono il baricentro della loro azione dalle aule universitarie ai cancelli delle fabbriche. Si generarono rivendicazioni e forme di lotta assolutamente inedite. Ma questi cambiamenti provocarono la peggiore delle reazioni: la strage di piazza Fontana che chiuse l’autunno caldo e aprì una nuova stagione: quella della “strategia della tensione” 2. Dopo la strage, il clima cambiò improvvisamente: “nel Collettivo, – testimonia Curcio – con sede in un vecchio teatro in disuso in via Curtatone, si cantava, si faceva teatro, si tenevano mostre di grafica. Era una continua esplosione di giocosità e invenzione. Con la strage il clima improvvisamente cambiò. […]” 3.

Dunque nel ’69 Curcio e la Cagol erano a Milano: si trovavano lì perché era nella metropoli che “succedevano le cose”, ed era lì che bisognava farle succedere. A loro, a breve, si sarebbe unito Alberto Franceschini. Nato a Reggio Emilia, entrò giovanissimo in politica nelle fila della FGCI 4, ma ben presto si dimise insieme ad altri giovani, fra i quali Lauro Azzolini, Fabrizio Pelli, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari, 1

P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 21. Ivi, pp. 25-26. 3 Ivi, p. 27. 4 Federazione Giovanile Comunisti Italiani 2

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tutti futuri brigatisti. Dunque Reggio Emilia fu una fucina di un terrorismo i cui esponenti venivano da una militanza nel Partito comunista. Erano studenti e operai che avevano cercato nel PCI l’esercito della rivoluzione e che ricordavano la Resistenza e gli eccidi dei fascisti. Di lì a poco avrebbero dato vita al “gruppo dell’appartamento”: le loro prime azioni risalivano all’autunno del ’69, seguirono le prime rapine in banca per autofinanziarsi e qualche “esproprio” nelle armerie. Nel 1970 i rapporti tra il “gruppo dell’appartamento” di Reggio Emilia e quello di Milano si intensificarono fino alla loro fusione nell’organizzazione di “Sinistra Proletaria”. La conseguenza, alla luce di un’azione comunque limitata in quel di Reggio Emilia rispetto alla realtà milanese, fu il trasferimento a Milano. Per Franceschini la scelta della clandestinità risaliva al febbraio 1971, quando, per renitenza alla leva, divenne l’unico brigatista latitante 5. Avrebbe in seguito raccontato che oltre all’ideologia comunista e alla voglia di cambiare il mondo, che quello che lo spinse definitivamente alla lotta armata fu il richiamo, che sentiva potente, da parte della generazione comunista precedente, che aveva combattuto la Resistenza, per poi “deporre le armi”, obbedendo ad un ordine mai digerito: era la generazione di suo padre, i cui ideali erano stati traditi dalla “svolta di Salerno” di Togliatti nel ’44 6. A Milano dunque iniziò la “svolta”. Curcio e la Cagol avevano allacciato contatti con diversi operai e tecnici delle fabbriche lombarde, tra cui Mario Moretti, Pierluigi Zuffada e Carletta Brioschi. Avevano conosciuto anche Corrado Alunni, leader di un collettivo operai-studenti, col quale Curcio concordava sulla costituzione di un collettivo capace di coagulare tutte le esperienze maturate fino ad allora. Così, in un vecchio teatro in disuso, in via Curtatone, l’8 settembre 1969 nasceva il Collettivo Politico Metropolitano (CMP). Non era il classico collettivo, ma anche un laboratorio di analisi e di iniziativa politica in cui si tenevano corsi di teatro, di grafica, di canto. Fu, come già detto prima, la strage di piazza Fontana a modificare la caratteristica ludica del CPM, che sposò la tesi dell’autonomia operaia. Per definire una strategia, venne indetto un convegno a Chiavari dove l’idea della lotta armata diventava concreta. La lotta dell’autonomia proletaria dovette dunque diventare sociale, superando le limitate posizioni operaiste e studentesche dei gruppi extraparlamentari. Dopo il

13-14.

5

A. Franceschini, P. V. Buffa, F. Giustolisi, Mara, Renato e io, Milano, Mondadori, 1988, pp.

6

P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 38.

31


convegno, il CMP si trasformò in un’organizzazione più centralizzata: “Sinistra Proletaria” che con la propria rivista, anch’essa chiamata «Sinistra Proletaria», svolse la sua attività alla luce del sole per poco, fino alla clandestinità, preludio delle Brigate Rosse 7. L’esperienza di “Sinistra Proletaria” proseguì per qualche tempo parallelamente alle prime azioni brigatiste. Fu attraverso la rivista che il 20 ottobre 1970 veniva annunciata la nascita delle Brigate Rosse con un volantino dal titolo “l’autunno rosso è già cominciato” 8. Il nome “Brigate Rosse” venne scelto dopo una lunga discussione, mentre la stella a cinque punte era un preciso riferimento alle brigate Garibaldi, all’Armata Rossa, alla bandiera dei Vietcong e ai Tupamaros, il movimento guerrigliero uruguaiano, vero punto di riferimento della nascente banda armata. Per disegnare il simbolo della stella a cinque punte era sufficiente una moneta da cento lire, che qualsiasi militante poteva avere in tasca. La stella risultava simmetrica perché i fondatori, Franceschini e Curcio, non riuscivano a disegnarla correttamente. Comparve per la prima volta nel 1971 su volantini distribuiti a Milano, ma le loro prime azioni risalivano ad un anno prima 9. Per le BR il partito comunista e il sindacato erano troppo morbidi: la loro linea riformista era suicida. Erano convinte che fosse necessario agire, e diventare avanguardia politica armata. La frase di Lenin: “colpirne uno per educarne cento” divenne il loro motto. Il 14 agosto 1970 nello stabilimento milanese della Sit-Siemens comparirono i primi volantini con la stella a cinque punte: il contenuto era allarmante e illustrava precise situazioni aziendali, oltre a prendere di mira i dirigenti e i capi reparto, definiti “aguzzini”. Le prime azioni riguarvano, quindi, le fabbriche Sit-Siemens e Pirelli, nelle quali le BR iniziarono a bruciare le auto dei dirigenti. La prima fu quella del capo del personale della Sit-Siemens Giuseppe Leoni, il 17 settembre 1970. Il giorno dopo dieci righe sul giornale annunciavano: “sono nate le Brigate Rosse” 10.

7

Ivi, pp. 40-41. Ivi, p.42. 9 Ivi, p. 48. 10 C. Lucarelli, Blu notte. Misteri italiani, 14-01-2009, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a160efda-5f99-4e6f-91a16ac455edce94.html#p=0 . 8

32


Il comunicato ufficiale della nascita delle BR fu dato da “Sinistra Proletaria”, il 20 ottobre 1970, esattamente un mese dopo la prima azione. Ma nessuno si allarmò più di tanto, perché queste azioni vennero confuse con altre di analoga violenza compiute da diversi gruppi presenti in fabbrica. Volantini lasciati negli spogliatoi delle fabbriche, automezzi commerciali e auto dei dirigenti bruciate: la chiamavano “propaganda armata”. La prima azione che impressionò stampa e opinione pubblica fu quella di Lainate, dove c’era la pista “prova-pneumatici” della Pirelli. Nella notte del 25 gennaio 1971 un commando innescò otto bombe incendiarie, che causarono l’esplosione di tre autotreni. Questa volta il titolo del “Corriere della Sera” era a cinque colonne e “l’Unità”, che aveva ignorato i precedenti attentati, ne diede la notizia. Nel marzo del 1972, invece, il gruppo fece il suo primo salto di qualità: il 3 marzo l'ingegnere Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, fu prelevato di fronte allo stabilimento da tre brigatisti, chiuso in un furgone, ammanettato e sottoposto a un processo politico. Dopo poche ore, il dirigente venne rilasciato con un cartello al collo: «Brigate Rosse – Mordi e Fuggi! – Niente resterà impunito! – Colpiscine uno per educarne cento! – Tutto il potere al popolo armato!» 11 Le BR diffusero una fotografia, scattata nel furgone, che mostrava “l’imputato” con il cartello al collo e con due pistole puntate contro, mentre una didascalia spiegava: «Milano 3-3-’72, Maccarini Idalgo, dirigente fascista della Siemens, processato dalle BR. I proletari hanno preso le armi, per i padroni è l’inizio della fine». Fu un breve sequestro dimostrativo-punitivo di un personaggio simbolo, particolarmente odiato, attraverso il quale il messaggio brigatista “si sparse a macchia d’olio” sull’opinione pubblica. Individuare i primi obiettivi da colpire non fu difficile. I brigatisti che lavoravano in fabbrica si sentivano ripetere continuamente dagli altri operai che bisognava punire i capi. Nelle fabbriche, quindi, spesso si sapeva chi fossero i brigatisti 12. Il rapimento di Macchiarini fu il primo di una serie di sequestri lampo. A questo fecero seguito il rapimento del sindacalista torinese della CISNAL, Bruno Labate (12 febbraio 1973), rapato a zero e incatenato in mutande al cancello n.1 della FIAT Mirafiori; del dirigente della Alfa Romeo, Michele Mincuzzi (28 giugno 1973) e del capo personale della FIAT torinese, Ettore Amerio (10 dicembre 1973). Quest'ultimo 11 12

P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 63. Ivi, p. 67.

33


venne interrogato direttamente da Curcio e il suo fu il primo sequestro che si protrasse per ben otto giorni 13 . Grazie a queste azioni, efficaci sul piano politico e senza spargimento di sangue, le BR aumentarono il loro “prestigio”. Iniziarono a darsi una vera organizzazione: si divisero in piccoli gruppi di militanti, “le brigate” riunite in “colonne”, ognuna per ogni città. Per ognuna di esse eleggevano una “direzione strategica”, una specie di assemblea per elaborare le linee politiche. Dividevano gli obiettivi in “fronti”: fronte logistico attraverso il quale procuravano i soldi con le rapine e i sequestri; il fronte delle fabbriche; il fronte della lotta alla controrivoluzione. Anche i militanti si dividevano in “regolari”, che vivevano nella clandestinità, “irregolari”, che partecipavano alle attività delle BR mantenendo, in parte, una vita normale, i “fiancheggiatori” e i “simpatizzanti”14. Il 18 aprile 1974 segnò la fine della fase della “propaganda armata”: iniziava “l’attacco al cuore dello Stato”. In quel 18 aprile avvenne l’azione più ambiziosa, chiamata in gergo «operazione girasole»: il sequestro del giudice Mario Sossi 15, un magistrato noto nella nuova sinistra come il “dottor manette”16 per lo zelo con cui aveva perseguitato i militanti e la foga con cui aveva chiesto “secoli” di carcere per gli aderenti al gruppo “XXII Ottobre”

17

. Sossi attirava accuse di vario genere per il fatto di essere,

innanzitutto, considerato un individuo di destra, totalmente asservito al potere. Ciò nonostante, le reazioni al suo sequestro furono tutte di condanna. Per “Lotta Continua” l’azione era una sorta di provocazione; mentre Enrico Berlinguer affermò che il Paese era preoccupato e indignato e il presidente Leone espresse sdegno, manifestando solidarietà alla magistratura

18

. Sossi venne rapito con un’azione di gruppo: cinque

giovani armati e ben vestiti lo attendevano tra la fermata dell’autobus e il portone di casa. Il magistrato non poté fare niente contro gli aggressori che lo imbavagliarono e lo trascinarono a bordo di un furgone che si allontanò seguito da una “127” 19.

13

I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., pp. 131-132. C. Lucarelli, Blu notte. Misteri italiani, 14-01-2009, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a160efda-5f99-4e6f-91a16ac455edce94.html#p=0. 15 I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 132. 16 G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, Milano, Rizzoli, 1978, p 59. 17 Formazione armata nata il 22 ottobre 1969 che si proponeva come “avanguardia partigiana” e adotta come modello quello dei gruppi operanti durante la Resistenza, dichiarando di voler scatenare la guerra partigiana rivoluzionaria. 18 Ibidem . 19 B. Fontana, P. Serarcangeli, L’Italia dei sequestri, Roma, Newton Compton, 1991, pp. 82-83. 14

34


Il motivo politico di tale azione era scontato: il periodo era abbastanza delicato e carico di fermenti. Si era infatti alla vigilia di importanti consultazioni politiche e le città erano tappezzate di manifesti in occasione del referendum pro o contro il divorzio, fissato per il 13 maggio 20. Alle 7,45 del 19 aprile le Brigate Rosse diffusero il primo comunicato. Il “Messaggero” pubblicò, invece, un verbale dell’interrogatorio Sossi, falso ma ritenuto autentico dal procuratore generale Coco. Queste ipotesi provocarono la reazione delle BR, che il 23 aprile emisero un duro comunicato al quale allegarono una fotografia e due messaggi autografi di Sossi, uno era indirizzato ai familiari, ai quali chiedeva di stare sereni e il secondo era rivolto al sostituto procuratore della Repubblica Luigi Francesco Meloni, al quale chiedeva di ordinare l’immediata sospensione delle ricerche, ritenute “inutili” e “dannose”

21

. Il procuratore generale Coco riconobbe la grafia di

Sossi, e il sostituto procuratore sospese le indagini. Ma la polizia e in particolare il questore Sciaraffa non erano d’accordo, e per questo motivo le indagini continuarono. Il 26 aprile giunse un nuovo comunicato in cui si diceva che il “prigioniero” non solo “collaborava”, ma soprattutto forniva informazioni precise. Negli ambienti della questura, della magistratura e del governo si iniziò a diffondere il timore che Sossi avrebbe potuto rivelare alcuni retroscena delle indagini di cui si era occupato. Le BR fecero poi circolare alcune considerazioni sul “processo proletario” in atto, informando i compagni che il “prigioniero” aveva collaborato alla ricostruzione dei fatti, accennando quanto fossero state pesanti nel processo alla banda “XXII Ottobre” le responsabilità del giudice Castellano, di Coco e del ministro dell’Interno Taviani. Il 28 aprile ripresero le indagini e alcuni giorni dopo giunse un secondo messaggio di Sossi alla moglie: « Non sono soltanto io il responsabile – scriveva il magistrato – dei miei errori. Ogni indagine e ricerca è dannosa». L’allusione a Coco era chiarissima. La situazione si fece tesa: sia Coco che Lucio Grisolia, il sostituto di Sossi, evitavano le interviste sulle indagini. Il secondo messaggio di Sossi provocò il blocco delle informazioni: venne annullata la quotidiana conferenza stampa mentre televisione e radio parlarono pochissimo del caso 22. Il giallo di Mario Sossi fu gestito dal potere in modo incerto: la polizia diede prova di totale impotenza; il rifugio delle BR era esattamente nella zona in cui tutti pensavano 20

Ibidem. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 89. 22 Ivi, pp. 90-91. 21

35


che fosse, cioè in una località dell’Appennino ligure piemontese. La celerità e la puntualità con cui giungevano i messaggi delle BR confermavano questa ipotesi: ma solo nei primi giorni un reparto della polizia si avvicinò al villino mettendo in agitazione i “carcerieri”, poi per tutta la durata del sequestro (trentacinque giorni) non ebbero più allarmi 23. Le BR nel frattempo inondavano mezza Italia con volantini e altro materiale propagandistico. La questura mise una taglia di venti milioni sui rapitori. Infine il 5 maggio venne diffuso dalle BR il comunicato nel quale si chiedeva lo scambio di Sossi con i detenuti della banda “XXII Ottobre”. Intanto, mentre a Genova si svolgeva una marcia silenziosa per salvare la vita di Sossi, il 9 maggio le BR si rifecero vive col comunicato numero 5 nel quale ribadivano con fermezza la richiesta di liberazione dei compagni. Il 14 maggio Sossi, che temeva sempre più di essere ucciso non dalle BR ma dalle forze dell’ordine, inviò un messaggio al presidente della Repubblica Leone, nel quale ricordava i motivi giuridici che avrebbero consentito di liberare gli otto della “XXII Ottobre” e quindi permettere lo scambio e lamentò il fatto di non aver ricevuto un’adeguata protezione da parte dello Stato. «Sono abbandonata da tutti, – disse amaramente la moglie in quell’occasione – lo Stato ha condannato a morte mio marito»24. Mentre la presidenza della Repubblica e il governo sembravano aver condannato a morte Mario Sossi, gli avvocati difensori degli otto della “XXII Ottobre” apparivano indecisi a presentare l’istanza di scarcerazione. All’interno delle stesse BR si formarono due fronti: il primo, del quale facevano parte la Cagol e Franceschini, che avrebbe voluto liberare subito Sossi perché riteneva la richiesta della scarcerazione un’utopia, e il secondo, con Moretti, per il quale era necessario “giustiziare” il prigioniero. A suo giudizio, infatti, le BR avrebbero semplicemente dovuto attuare quanto avevano proclamato nei loro comunicati. Una linea che sarebbe stata riproposta da Moretti durante il sequestro Moro. Ma il 20 maggio avvenne un fatto che diede una svolta decisiva alla vicenda. La corte d’Assise d’ Appello di Genova concesse d’ufficio la libertà provvisoria agli otto della XXII Ottobre, e il nulla osta per il passaporto, «subordinatamente alla condizione che fosse stata assicurata la incolumità personale e la liberazione del dottor Mario Sossi». Il 21 venne diffuso dalle BR il comunicato numero 7, nel quale veniva fissato, 23 24

G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, cit., p. 62. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., pp. 93-99.

36


come luogo d’asilo per i detenuti liberati, l’ambasciata cubana presso la Santa Sede. Insieme al comunicato venne consegnato un messaggio autografo in cui Sossi assicurava di stare bene mettendo così fine a certe voci sul suo stato di salute. Il 23 maggio le BR, finalmente, liberarono Sossi. «Lo lasciammo sulla panchina – avrebbe raccontato più tardi Franceschini – di un giardino pubblico di Milano con in tasca i soldi che aveva al momento del rapimento e il biglietto del treno per Genova» e lo salutò dicendo: «vai Mario, metti giudizio» 25. Il magistrato cercò di attraversare la stazione senza farsi riconoscere. Solo quando si trovò al sicuro nel suo appartamento avvisò i suoi colleghi della liberazione. Il suo comportamento non era condizionato solo dallo stress causato dalla prigionia, ma dalla paura, non solo nei confronti delle Brigate Rosse. Si fece rilasciare un certificato medico che attestava la sua sanità mentale; usciva soltanto scortato da agenti della finanza di fiducia ed evitava incontri con la polizia 26. Il “carcere del popolo”, che aveva ospitato il magistrato per oltre un mese, era una stanza metallica, di pochi metri quadrati, che si trovava a Sarezzano, località a pochi chilometri da Tortona, in un casolare acquistato dai brigatisti con documenti falsi 27. Le dichiarazioni di Sossi nei riguardi delle BR furono accomodanti e diplomatiche. Insistette sul ruolo “positivo e istruttivo” di quell’esperienza, mentre mantenne un tono insoddisfatto e provocatorio, già manifestato nei messaggi, verso coloro i quali avevano evitato di assumere le responsabilità che la situazione richiedeva. L’allusione a Coco era evidente. Coco infatti insistette sul presunto “stress psichico” subìto da Sossi, dopo la liberazione, si adoperò per non mantenere la parola data, riguardo la scarcerazione, prendendo tempo in attesa che la Cassazione annullasse l’ordinanza di Genova. Per non convalidare lo scambio, sfruttò il fatto che per lui Sossi era “libero fisicamente ma non spiritualmente”. “Invalidare quanto aveva detto Sossi durante la sua prigionia fu uno dei trucchi usati da chi stava al potere” 28. Così si chiudeva la “propaganda armata”, dopo la quale sarebbero seguiti i fermenti e le uccisioni 29.

25

A. Franceschini, P. V. Buffa, F. Giustolisi, Mara, Renato e io, cit., pp. 101-102. B. Fontana, P. Serarcangeli, L’Italia dei sequestri, cit., p. 94. 27 Ibidem. 28 Ivi, pp. 94-95. 29 I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 132. 26

37


2.2 La svolta Ci fu un momento, nel ’74 in cui l’avventura delle BR sembrò sul punto di finire: non solo per le sconfitte, gli arresti, ma anche perché i carabinieri del generale Alberto Dalla Chiesa 30 utilizzavano nelle ricerche le mappe catastali. Si cercavano cioè i nomi di coloro che avevano acquistato un appartamento o lo avevano affittato negli ultimi due anni, poi si controllava l’anagrafe e chi aveva dato un nome falso era un sospettato, l’alloggio veniva controllato e fu così che si arrivò a scoprire alcuni covi. Il secondo strumento del quale si servì il generale erano gli “infiltrati”, primo per importanza era stato Silvano Girotto

31

. Era davvero un punto di svolta perché ormai

l’organizzazione, così come l’avevano concepita Curcio e gli altri del gruppo storico, non poteva sopravvivere alla repressione poliziesca. Le nuove BR, quelle che vennero dopo la morte di Mara e i due arresti di Curcio, furono molto diverse: più feroci, più terrorizzanti, più numerose, più legate a piani di terrorismo internazionale. Le BR “romantiche”, come le ha definite Giorgio Bocca, morirono per errori banali 32. Ma tornando agli “infiltrati” la figura di Silvano Girotto, studente, rapinatore, ladro, legionario in Algeria, disertore, frate, guerrigliero era un po’ ambigua: “sempre salvo mentre chi gli stava attorno veniva arrestato” 33. Poteva circolare facilmente, nonostante fosse “additato” come terrorista. Eppure Renato Curcio cadde nella trappola: lo volle incontrare, incapace forse di resistere ad un incontro con il frate rivoluzionario. Girotto, noto anche con il nome di frate Mitra, chiese a fine luglio di essere affiliato alle BR, ma Curcio dovette rinviare l’iniziazione a settembre. Fu fissato un appuntamento a Torino per l’8 settembre, ma Curcio e Franceschini, che viaggiavano insieme in auto, furono intercettati dai carabinieri e catturati. “ Girotto non mi era mai piaciuto – avrebbe in seguito raccontato Franceschini – perchè esibiva troppo il suo passato di guerrigliero e tutta la

30

Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1978 venne promosso generale con poteri su tutto il territorio e una dipendenza diretta dal ministero dell’Interno fino al 1982 per far fronte alla minaccia del terrorismo: in tre anni, anche grazie alla collaborazione dei pentiti, riuscì ad assestare un colpo mortale alle BR. Nel 1981 venne inviato a Palermo come prefetto antimafia, ma il 3 settembre del 1982 venne assassinato insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo dalla mafia. 31 Figlio di un maresciallo dei carabinieri, Silvano Girotto era nato a Caselle il 4 aprile 1939. Avrebbe in seguito combattuto nella legione straniera, e sarebbe entrato nell’ordine dei francescani con il nome di padre Leone; per questo motivo e per la sua militanza nella guerriglia sudamericana verrà soprannominato “Frate mitra”. Questo era il soprannome con cui era conosciuto nell’ambito delle Brigate Rosse, tra le cui fila si infiltrerà, provocando l’arresto di Curcio e Franceschini l’8 settembre 1974. 32 G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, cit., p. 77. 33 Ibidem.

38


sinistra, soprattutto Lotta Continua, gli faceva la “corte”. Ma Girotto rifiutava ogni offerta e ripeteva in continuazione che a lui interessava quello che stavano facendo le Brigate Rosse. Si sparse così tanto la voce di questo suo interesse per le BR che, alla fine, riuscì ad agganciare Enrico Levati, un nostro compagno di Torino che aveva fatto alcuni mesi di galera perché brigatista. Levati, attraverso un nostro compagno che lavorava in FIAT, lo mise in contatto con noi. Frate Mitra si fece precedere da alcune lettere dei dirigenti del Partito comunista di Cuba nelle quali si parlava dei suoi rapporti oltre che con i cubani anche con i tupamaros. E la cosa non poteva non interessarci. Le trattative per la liberazione di Sossi ci avevano fatto capire che dovevamo stringere rapporti internazionali più saldi: bisognava avere contatti diretti con Cuba. Così decidemmo di incontrare Girotto e al primo appuntamento andarono Renato e Mario: tornarono entusiasti, dissero di aver conosciuto un vero guerrigliero che avrebbe portato nelle BR, direttamente, l’esperienza dei “tupa”. Ma né io né Mara eravamo convinti. Ci sembrava un personaggio troppo esibizionista per diventare un buon brigatista ma alla fine anche io diedi il mio assenso al reclutamento di Girotto. Mara, invece, restò contraria, continuava a dire che quell’ex frate non era affidabile” 34.

Margherita Cagol diffuse allora tramite l’ANSA un comunicato in cui denunciò la spia: “la cattura è avvenuta in seguito a un’imboscata tesagli attraverso Silvano Girotto, più noto come padre Leone, il quale sfruttando la fama di rivoluzionario costruita ad arte in America Latina, presta l’infame opera di provocazione al soldo dei servizi antiguerriglia dell’imperialismo. Ma se il potere riesce ‘con brillanti operazioni di polizia’ a colpire qualche nostro militante non riuscirà a neutralizzare la forza politica della nostra proposta strategica: la lotta armata per il comunismo” 35. “Era con Girotto che Renato aveva appuntamento quel giorno che ci presero a Pinerolo. L’appuntamento lo avevano fissato loro due, l’ultima volta che si erano visti: si faceva sempre così, in modo che nessun altro potesse conoscere luogo, data e ora. Io e Mario, infatti, sapemmo del previsto incontro solo il giorno prima. Non poteva quindi che essere stato Girotto a segnalare ai carabinieri i nostri spostamenti. Ovviamente, e quel che successe dopo il nostro arresto lo confermò, aveva cercato le Brigate Rosse soltanto per infiltrarvisi e farne arrestare i capi. L’arresto l’avremmo però potuto evitare. Giovedì 5 settembre Levati aveva ricevuto una telefonata a casa: una voce che non conosceva gli disse di avvisare Curcio che domenica mattina sarebbe stato arrestato. Levati si mise subito in contatto con il compagno della FIAT, ma forse l’informazione venne sottovalutata. Non riuscirono a mettersi in contatto con Renato. Due anni dopo, quando ci ritrovammo tutti nel carcere di Torino per il primo processo al «nucleo storico» chiesi se era vero che Levati aveva ricevuto quella telefonata. Mi dissero di sì: il sabato pomeriggio riuscirono a trovare Mario che venne incaricato di rintracciare Renato. Mario rispose che ci avrebbe pensato lui ma, come poi egli stesso mi riferì, arrivò con un’ora di

34 35

A. Franceschini, P. V. Buffa, F. Giustolisi, Mara Renato e io, cit., pp. 115-116. G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978,cit., pp.79-80.

39


ritardo, quando eravamo già stati arrestati. Non capii il comportamento di Mario” 36.

Silvano Girotto scrisse la sua autodifesa politica, ammettendo di essere un infiltrato: “È così, signori, mentre strombazzavate ai quattro venti il vostro folle proclama di attacco al cuore dello Stato siete stati colpiti voi. È vero: i carabinieri hanno agito con la mia attiva collaborazione. Di legnate ne avete avute e ne avrete ancora finché non la smetterete di provocare le masse lavoratrici con le vostre assurde imprese di piccolo borghesi frustrati e megalomani. Chiusi nel vostro castello di illusioni, febbricitanti di sacro furore contro tutto e tutti, non avevate saputo interpretare correttamente neppure il ripudio espresso con chiarezza estrema da quegli stessi di cui vi siete autonominati avanguardia: la classe operaia” 37.

In carcere i brigatisti si rifiutarono di rispondere durante gli interrogatori e si appellarono alla Convenzione di Ginevra, ritenendosi prigionieri di guerra e continuarono la lotta anche in carcere. Curcio scrisse in carcere importanti documenti, tra cui una sorta di intervista, pubblicata da “L’Espresso”, nella quale chiarì che chi credeva che la lotta fosse finita solo per qualche arresto, si sbagliava. Le BR, decimate, attraversarono così la loro prima grave crisi. Le forze “regolari” ancora libere non erano più di una dozzina, un indebolimento che segnò di fatto la fine del primo ciclo, e con esso la leadership del gruppo fondatore delle BR. Riunitasi in Veneto, la direzione strategica aveva sostituito Curcio e Franceschini nell’esecutivo con Giorgio Semeria e Mara Cagol. E quest’ultima aveva programmato la liberazione di Renato. Un’azione che venne preparata scrupolosamente, ma che era anche abbastanza facile date le scarse misure di sicurezza del carcere di Casale Monferrato. Mara preannunciò l’evasione con un telegramma, scritto con inchiostro simpatico – “pacco arriva domani” -. E così avvenne: il 18 febbraio 1975 Mara arrivò con un pacco di cartaccia all’interno del quale vi era un mitra. Riuscirono a far evadere Renato, facendo poi trovare un comunicato dell’azione. Dopo la liberazione di Curcio il regime carcerario per i brigatisti detenuti si fece più duro

38

. Vennero

istituite delle carceri speciali e di massima sicurezza per i “detenuti politici” e venne approvata la cosiddetta legge Reale, che assegnava alla polizia poteri eccezionali nella

36

A. Franceschini, P. V. Buffa, F. Giustolisi, Mara, Renato e io, cit., p. 116. G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, cit., p. 80. 38 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., pp. 123-124. 37

40


prevenzione al terrorismo. Ma questo non fece altro che intensificare gli attacchi dei terroristi rossi contro le istituzioni. Dopo l’evasione di Curcio, i brigatisti si rifugiarono

presso Aqui nel

Monferrato, nella cascina Spiotta: il gruppo storico non era in grado di reggere all’offensiva poliziesca. Inoltre, in mancanza di denaro, optarono per un sequestro di persona: il prescelto era un personaggio della zona, Vittorio Valeriano Gancia, l’industriale vinicolo più noto del Monferrato. Riuscirono a trascinarlo nel loro “covo”, dove tuttavia giunsero i carabinieri. Nello scontro che ne seguì Mara Cagol fu colpita a morte. Perse la vita anche l’appuntato Giovanni D’Alfonso, mentre il tenente Umberto Rocca ebbe una gamba spappolata

39

. Era il 5 giugno 1975 e come fosse morta Mara

non lo si seppe mai. Ci furono varie versioni sia da parte dei carabinieri che da parte dei brigatisti. Curcio non era presente, in quei giorni si trovava a Milano. Le BR avevano deciso che non dovesse partecipare all’operazione Gancia perché era evaso da poche settimane, il suo volto era conosciuto e le sue foto erano state distribuite in tutta Italia. Alle due del pomeriggio un compagno avvisò Curcio che alla Cascina Spiotta c’era stato un conflitto a fuoco. Curcio capì subito che Mara, l’unica donna del commando, era rimasta uccisa. Di getto scrisse da solo il comunicato: “oggi è caduta combattendo Margherita Cagol - Mara – dirigente comunista e membro del comitato esecutivo delle Brigate Rosse. La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà dimenticare. Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile. Noi, come ultimo saluto, le diciamo: Mara, un fiore è sbocciato e questo fiore di libertà le Brigate Rosse continueranno a coltivarlo fino alla vittoria” 40 .

Da questo momento si ebbe la conferma della “svolta”: altri brigatisti, fra cui Mario Moretti, avevano capito che Curcio non era più in grado di guidare l’organizzazione e che era necessario cambiare metodo. Curcio, emarginato, si stabilì a Milano, in via Mantovani. I carabinieri scoprirono l’alloggio e il 18 gennaio 1976 ci fu una sparatoria: prima di arrendersi, Renato combattè a colpi di mitra e di pistola, e un proiettile lo ferì a una spalla. Venne medicato al Fatebenefratelli e trasferito alla caserma dei carabinieri in via Moscova. Contestò aspramente l’uccisione di Mara: “voi carabinieri avete giustiziato Mara finendola con un colpo al cuore quando era già ferita gravemente al torace, il colpo mortale fu esploso

39 40

I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 135. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 128.

41


a bruciapelo. Non avete atteso che morisse magari in ospedale, l’avete finita, insomma l’avete giustiziata” 41.

L’arresto di Curcio segnò la fine di una fase del terrorismo, forse la meno cruenta e feroce. Di lì a poco avrebbe avuto inizio una fase “misteriosa” delle nuove BR. Gli arresti si diradarono, quei pochi che finirono nelle mani dei carabinieri o della polizia continuavano a dichiararsi prigionieri politici e non collaboravano. Si avvertirono però due novità: le norme della clandestinità divennero ferree e i brigatisti alzarono il tiro: iniziarono cioè ad uccidere

42

. La leadership dell’organizzazione passò in mani nuove:

del gruppo fondatore restarono per qualche mese Giorgio Semeria ( che fu arrestato il 22 marzo 1976) e Mario Moretti, i due più attenti all’organizzazione. A Torino, intanto, il 17 maggio iniziava il processo contro i militanti delle BR per i fatti che andavano dal febbraio 1973 (sequestro Labate) alla fine del 1975 (compreso il sequestro Sossi). Nel 1976 maturò la decisione di abbracciare “l'omicidio politico” come mezzo di lotta rivoluzionaria: alle 13,38 di martedì 8 giugno 1976 quattro brigatisti attesero l’auto del procuratore Coco presso la salita Santa Brigida a Genova. La macchina del magistrato, una FIAT 132 blu del servizio di stato, si fermò ai piedi della scalinata che portava all’abitazione del magistrato. L’autista, Antonio Deiana, rimase in macchina, Coco era accompagnato dalla guardia del corpo, Francesco Saponara: i due avevano salito una ventina di gradoni quando tre uomini aprirono il fuoco con le pistole con il silenziatore. Il magistrato e la guardia caddero crivellati di colpi; un solo colpo andò a vuoto, e questa era una caratteristica delle nuove BR: possedere per le grandi azioni militari dei tiratori scelti di “bravura eccezionale”

43

. Altri due brigatisti uccisero

l’autista. Francesco Coco, procuratore di Genova, sessantacinque anni, sposato, aveva tre figli. “Aveva cominciato a morire” due anni prima: nel maggio ’74, quando, bloccando la liberazione degli otto appartenenti alla “XXII Ottobre” dopo il rilascio del giudice Sossi, era venuto meno alla parola data alle Brigate Rosse. Quella di Coco fu la “cronaca di una morte annunciata”: «Uccidendo Coco – una mano anonima aveva scritto pochi giorni prima di quell’8 giugno su un muro del palazzo di Giustizia di

41

Ivi, p. 131. G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978,cit., p. 99. 43 Ivi, pp. 103-104. 42

42


Genova – uccideremo gran parte dello stato borghese». Sei ore dopo l’agguato, arrivò una telefonata di rivendicazione alla redazione del quotidiano genovese “Secolo XIX”44. Dopo la propaganda armata, aveva inizio, dunque, concretamente “l’attacco al cuore dello Stato”, alzando il livello dello scontro, accettando e includendo l’assassinio come strumento di lotta politica. Una lotta che divenne drammatica due anni dopo con la cosiddetta “Operazione Fritz”: il rapimento di Aldo Moro 45. Nel frattempo le BR si erano riorganizzate, e se molti dei loro militanti erano ormai dietro le sbarre, ne erano arrivati di nuovi, spesso anche giovani, come Walter Alasia, al quale, morto a ventun’anni a Sesto San Giovanni, venne intitolata la colonna milanese delle BR. Era un giovane come tanti altri che di fronte alla crisi dei gruppi extraparlamentari scelse la via delle armi. Mario Moretti lo ha così descritto, nel suo libro-intervista con Carlo Mosca e Rossana Rossanda: “Walter era un compagno molto giovane, con un’intelligenza non comune delle tensioni sociali di quegli anni. Veniva da una famiglia di operai di Sesto San Giovanni, gente del PCI. Erano un mucchio i ragazzi della sua età e della sua provenienza che ci giravano attorno. E anche se erano studenti, tendevano a prendere subito un punto di vista rigidamente operaio” 46.

In via Leopardi la mattina del 15 dicembre 1976 c’erano dieci poliziotti. Avevano un mandato di perquisizione per l’abitazione di Walter Alasia. Il padre aprì la porta, i poliziotti si diressero verso la camera del ragazzo, Walter sparò e si buttò in cortile. Partì una raffica di colpi: colpito alle gambe, Walter cadde. Walter era stato scoperto quando furono trovati i suoi occhiali in una base brigatista a Pavia. Aveva ignorato il mandato di cattura per associazione sovversiva e banda armata 47. Intanto la necessità di reperire denaro si faceva sempre più impellente: c’era necessità di un nuovo sequestro di persona per autofinanziarsi, le rapine in banca non servivano a molto. La persona che venne scelta per il sequestro si trovava a Genova: si trattava dell’armatore Pietro Costa che venne rapito da sei brigatisti il 12 gennaio 1977, mentre rientrava a casa. Dopo ottantuno giorni di prigionia, il 3 aprile, le Brigate Rosse annunciarono la liberazione dell’ostaggio: Pietro Costa venne ritrovato in una cabina telefonica; la famiglia aveva pagato oltre un miliardo di lire 48.

44

P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 134. Ivi, p. 137. 46 Ivi, p. 138. 47 Ivi, pp. 137-139. 48 Ivi, p. 140. 45

43


Venti giorni dopo il rilascio di Costa, il 28 aprile, le BR tornarono ad uccidere. La vittima, Fulvio Croce, era un avvocato e “aveva iniziato a morire” quasi un anno prima, quando il 17 maggio era iniziato a Torino il processo contro “la banda armata denominata Brigate Rosse”. Tra gli imputati, alcuni nomi eccellenti dell’organizzazione quali Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari. Il rifiuto dei brigatisti imputati di accettare la difesa d’ufficio, minacciando vendette, aveva fatto rinviare il processo al 3 maggio 1977

49

. Il ruolo di Croce nella vicenda del processo era stato

quello di nominare i difensori d’ufficio per i cinquanta brigatisti. I militanti della stella a cinque punte l’avevano detto chiaramente: «nessuno assuma la nostra difesa, pena la morte, perché la rivoluzione non si processa». Affermando questo, veniva meno qualsiasi presupposto legale per il processo. Nessun difensore quindi. E senza difensori niente processo. Inoltre, si faticò, non poco, a mettere insieme una giuria popolare: chi riceveva la comunicazione da parte del tribunale rispondeva inviando un certificato medico. I dieci difensori nominati rifiutarono, così Croce procedette a nuove nomine, scrivendo al primo posto della lista il proprio nome. Il 28 aprile, Croce uscì di casa con la sua FIAT 125, raggiunse via Perrone e parcheggiò l’auto nel cortile del palazzo, scese dall’auto e incontrò con le sue segretarie. Si avviarono insieme verso le scale, quando dal cortile giunsero tre persone: una si fermò sul portone d’ingresso, le altre due si avvicinarono a Croce, che venne colpito da due pallottole e poi da altre tre: due alla testa e tre al torace. I brigatisti in carcere stilarono un documento: “il primo degli avvocati di regime che si era assunto questo compito infame, Fulvio Croce, è stato giustiziato. Ribadiamo ancora una volta che chiunque accetti coscientemente il ruolo di agente attivo della controrivoluzione imperialista deve essere anche disposto ad assumersi sin da ora le sue responsabilità” 50.

Il ’77 fu l’anno delle campagne contro la stampa borghese, per “disarticolare la funzione controrivoluzionaria

svolta

dai

grandi

“disarticolare”,

gergo

dei

brigatisti

nel

media”.

“Lanciare

significava

una

sparare.

Le

campagna”, cosiddette

“gambizzazioni” furono un sistema che consisteva nello sparare alle gambe: un proiettile nelle ginocchia poteva rendeva storpi e invalidi per tutta la vita. Numerosi giornalisti vennero spiati, minacciati e colpiti per strada o sulla soglia di casa. In tre

49 50

Ibidem. Ivi, pp. 140-141.

44


giorni, dall’1 al 3 giugno ’77, vennero feriti alle gambe Valerio Bruno, vicedirettore del “Secolo XIX”, Indro Montanelli, fondatore e direttore de “il Giornale” e Emilio Rossi direttore del Tg1

51

. Poi le BR alzarono il tiro, e il 16 novembre toccò a Carlo

Casalegno, vicedirettore de “La Stampa” di Torino, che nella sua rubrica dal titolo “il nostro Stato”, si occupava di argomenti politici e quindi spesso anche delle BR. L’ultimo articolo della sua rubrica s’intitolava: “Terrorismo, chiusura dei covi”. Quel 16 novembre, arrivato a casa trovò ad aspettarlo davanti all’ascensore quattro brigatisti, che gli spararono colpendolo alla mascella, alla gola e alla tempia. Morì per complicazioni cardiache in ospedale di lì a qualche giorno. In questa occasione le BR ottennero un grosso successo psicologico: riuscirono a spaccare il fronte degli informatori e a mettere i colleghi di Casalegno gli uni contro gli altri 52. Ma tutto questo fu solo il prologo di quanto sarebbe accaduto di lì a poco: un colpo mortale allo Stato. Nacque la colonna romana con il compito di lanciare la cosiddetta “campagna di primavera”: l’operazione Fritz.

2.3 Il caso Moro Aldo Moro è stato un protagonista di quarant’anni della storia italiana. Nacque a Maglie, in provincia di Lecce, il 23 settembre 1916 53. Conseguì la maturità classica e si laureò presso l’Università degli studi di Bari alla Facoltà di Giurisprudenza. Non aderì al fascismo e durante la guerra lavorò all’interno del mondo cattolico collaborando anche con monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Nel 1945 sposò Eleonora Chiavarelli dalla quale ebbe quattro figli: Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni. Nei primi anni cinquanta fu nominato professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Bari. Nel 1963 ottenne il trasferimento all’Università di Roma, in qualità di titolare della cattedra di Diritto e Procedura penale presso la Facoltà di Scienze Politiche. Tra il 1943 e il 1945 ebbe inizio la sua carriera politica. A 29 anni fu eletto all’Assemblea Costituente e fece parte della Commissione dei 7554 lavorando

51

B. Fontana, P. Serarcangeli, L’Italia dei sequestri, cit., p. 99. G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978,cit., p. 104. 53 M. Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Roma, Rizzoli, 2001, p. 131. 54 La Commissione per la Costituzione, più spesso chiamata Commissione dei 75, fu una commissione speciale, composta di 75 membri scelti fra i componenti dell’Assemblea Costituente della 52

45


nella prima sottocommissione sui diritti e doveri dei cittadini, insieme, tra gli altri, a Giuseppe Dossetti55, Nilde Iotti56, Palmiro Togliatti. Eletto nel 1948 alla Camera di deputati, nello stesso anno entrò per la prima volta in un governo, il quinto di Alcide De Gasperi, come sottosegretario agli Esteri con delega per l’emigrazione, ma ne uscì nel 1950 per contrasti con lo stesso presidente. Nel corso degli anni Cinquanta prese parte a diversi governi in qualità di ministro, finché nel 1959 divenne segretario della Democrazia Cristiana. Furono anni difficili per Moro, che subì attacchi da parte delle gerarchie ecclesiastiche a causa della sua politica di apertura verso i socialisti. Nel 1963 divenne, a 47 anni, presidente del Consiglio, con una coalizione di centrosinistra composta da DC, PSDI, PSI e PRI, che durò tuttavia pochi mesi a causa della situazione economica del Paese

57

. Fino al 1968 Moro ebbe il reincarico per altri due governi,

dopodiché passò all’opposizione interna al suo partito. Dal 1969 al 1974 assunse l’incarico di ministro degli Esteri. Nel ’76 presiedette il suo quinto e ultimo governo che durò pochi mesi. La sua composizione risentì dello scandalo Lockheed58, un caso di corruzione che coinvolse vari stati fra cui l’Italia. Poi tra il ’76 e il ’78 Moro fu il regista accorto e consapevole della strategia del “compromesso storico”, cioè dell’integrazione del PCI nell’area di governo. Con il suo sequestro, avvenuto il 16 marzo 1978, si mise in atto l’attacco allo Stato democratico. “Nell’ottica brigatista, infatti, il successo della loro azione avrebbe interrotto la «lunga marcia comunista verso le istituzioni», per affermare la prospettiva dello scontro rivoluzionario e porre le basi di un’egemonia delle BR a sinistra. Il sequestro Moro avrebbe acceso la scintilla della rivoluzione in Italia, che sarebbe spettato a loro guidare” 59.

I brigatisti prepararono il rapimento in modo dettagliato. Fu la colonna romana ad occuparsene e il compito di costruire “la prigione del popolo” fu affidato a Germano Maccari, meglio noto come “Gulliver” che con il nome falso di Luigi Altobelli, divenne

Repubblica Italiana, che fu incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione repubblicana. La Commissione fu istituita il 15 luglio 1946. 55 Giuseppe Dossetti fu vicesegretario della Democrazia Cristiana nel 1945, il 2 giugno 1946 fu eletto alla Costituente e fece parte della Commissione dei 75. 56 Nilde Iotti fu la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera dei deputati e lo fu per ben tre volte consecutive. Fece inoltre parte della Commissione dei 75. 57 M. Clementi, La pazzia di Aldo Moro, cit., pp. 131-134. 58 Lo scandalo Lockheed fu un caso che coinvolse la Lockheed Corporation, azienda aereonautica statunitense, per forniture di aerei pilotate mediante tangenti. In Italia lo scandalo riguardò la fornitura di aerei C-130, ricevuti dall’Aereonautica militare dal 1972: i coinvolti furono accusati di aver intascato mazzette per miliardi di lire per favorire gli acquisti di tali aerei da parte dello Stato. 59 A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2005, p. 26.

46


l’inquilino di un appartamento al piano rialzato del palazzo in via Montalcini 8, interno I, situato nella zona della Magliana 60. Dunque il ruolo di Maccari fu quello di preparare la “stanza segreta”: dietro a una parete di cartongesso coperta da una libreria vennero posizionati una brandina, un tavolino, un gabinetto chimico, una conduttura per l’aria condizionata e, un microfono inserito nella parete. “Gulliver” non era ancora al corrente dell’identità del personaggio da rapire. Solo più tardi Mario Moretti lo informò: “stiamo lavorando su due obbiettivi da colpire contemporaneamente. A Roma prenderemo un uomo politico, un democristiano di livello nazionale, mentre al Nord toccherà a un famoso industriale. Con questi due uomini in mano potremo chiedere quello che vogliamo: il riconoscimento politico dell’organizzazione e la liberazione dei compagni detenuti nelle carceri speciali” 61.

Le alternative di scelta dell’uomo politico democristiano non erano molte. Erano stati individuati tre o quattro nomi: Andreotti, Moro, Fanfani, forse Zaccagnini, i simboli, insomma, del partito-Stato contro il quale le BR avevano deciso di sferrare il loro attacco. Venne scelto il presidente della DC perché, a quanto detto dai brigatisti, ritenuto il meno protetto. Questa era l’operazione più importante, anche perché capitò in un momento di svolta per l’Italia: dopo lunghe trattative Andreotti e Moro erano riusciti a convincere la DC ad accettare il sostegno esplicito del PCI a un nuovo governo guidato ancora da Andreotti: si trattava di un altro monocolore democristiano. Proprio quel giovedì 16 marzo era fissato il voto di fiducia alla Camera dei deputati sulla nascita del governo. Poco dopo le 9 il rumore degli elicotteri che si alzavano su Roma fu il segnale che qualcosa era successo. Poi le radio interruppero i programmi e annunciarono un agguato terroristico nella zona di Monte Mario, a Roma, con dei morti 62. L’azione brigatista durò solo tre minuti, dalle 9,02 alle 9,05: furono sparati 92 colpi che uccisero cinque persone, mentre il presidente della DC Aldo Moro rimase illeso. Il 16 marzo del 1978 Aldo Moro uscì di casa e, come di consueto, andò a messa in una chiesa vicina; dopo si sarebbe dovuto recare alla Camera. Il commando delle Brigate Rosse composto da dieci brigatisti, sei vedette e quattro del gruppo di fuoco era

60

G. Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico, Torino, Giulio Einaudi editore, 2003, p. 161. Ivi, pp. 161-162. 62 Ivi, p. 173. 61

47


in agguato in via Fani: alcuni brigatisti indossavano una divisa dell’aviazione civile e si trovavano dietro la siepe di un bar, altri si trovavano sul lato opposto della strada, altri ancora su due automobili rubate, la prima bianca e la seconda nera. Tutto era stato previsto: avevano tagliato le gomme al furgoncino di un fioraio perché non si muovesse e non intralciasse le operazioni, e avevano sabotato una cabina telefonica 63. Alle 9,00 la FIAT 130, sulla quale viaggiava Moro, condotta dall’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, percorreva via Mario Fani. A fianco dell’autista, sedeva il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, mentre il presidente della DC, come sempre, si trovava, con le sue cartelle, sul sedile posteriore. A scortare la FIAT 130, l’Alfetta dell’Ispettorato generale di PS presso il Viminale, sulla quale viaggiavano il brigadiere Francesco Zizzi e le guardie Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, che era alla guida. Giunta all’incrocio con via Stresa, la macchina del presidente della DC venne bloccata da una FIAT 128 familiare di colore bianco, guidata da Mario Moretti. La FIAT 130 inchiodò e venne tamponata dall’Alfetta di scorta. Nello stesso istante alcuni brigatisti estrassero pistole mitragliatrici e aprirono il fuoco contro gli occupanti delle vetture, uccidendo Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, mentre ferirono gravemente Francesco Zizzi, che trasportato al policlinico Gemelli, morì più tardi. Moro, rimasto indenne, venne prelevato dall’auto e costretto a salire su una FIAT 132 blu sopraggiunta nel frattempo. In via Fani il carrozziere Gherardo Nucci scattò una serie di fotografie subito dopo l’inizio dell’agguato. In seguito il rullino, da lui consegnato alla magistratura, “sparì” dagli uffici giudiziari

64

. Alle ore 9,10, pochi minuti dopo l’agguato, in quella

zona si verificò un blackout telefonico, le cui origini non sono state mai chiarite del tutto. Alle 10,10 una voce anonima dettò all’ANSA un messaggio telefonico:«Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della DC Moro ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Brigate Rosse». “Il 17 marzo la DIGOS fu in grado di ricostruire un quadro più chiaro dell’agguato, riuscendo a precisare che dopo aver causato l’incidente due persone, armate e a volto scoperto, erano scese dalla FIAT 128 e si erano portate ai due lati della FIAT 130. Avevano infranto, probabilmente con il calcio del mitra, i cristalli degli sportelli anteriori dell’autovettura e avevano esploso una serie di colpi nell’abitacolo. Intanto, quattro complici

63 64

G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, cit., p. 129. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p.148.

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erano sbucati dalle aiuole antistanti il bar Olivetti e avevano sparato contro i militari della scorta, i quali, sorpresi, non erano stati in grado di reagire efficacemente. Solo un agente, poi identificato in Raffaele Iozzino, si era gettato fuori dall’Alfetta, impugnando la pistola d’ordinanza, ma era stato raggiunto dai colpi dei mitra imbracciati da altri due assalitori. All’azione aveva partecipato anche una donna che, all’incrocio con via Stesa, aveva provveduto a regolare il traffico con una paletta, e altri due soggetti, pure armati, che erano su un Honda di grossa cilindrata. La presenza di questa moto Honda sarà però smentita da tutti i brigatisti. Neutralizzati tutti gli agenti, i brigatisti avevano spalancato la portiera posteriore sinistra della FIAT 130 e avevano afferrato l’onorevole Moro trascinandolo sul sedile posteriore della FIAT 132, che si era appunto affiancata alla macchina del presidente della DC dalla parte sinistra. La FIAT 132, imboccata via Trionfale, preceduta da una Fiat 128 chiara e seguita per un tratto da una FIAT 128 blu, era stata poi vista percorrere via Carlo Belli e via Casale De Bustis dove, poiché l’ingresso era delimitato da uno sbarramento costituito da una catena, una giovane donna facente parte del commando l’aveva tranciata, consentendo i passaggio delle tre autovetture e salendo quindi sull’ultima” 65.

Dopo essere stato rapito, Moro fu rinchiuso nella base predisposta, gestita dai brigatisti, Anna Laura ‘Camilla’ Braghetti, Germano ‘Gulliver’ Maccari, Prospero ‘Giuseppe’ Gallinari, Mario ‘Maurizio’ Moretti, Valerio ‘Matteo’ Morucci, Adriana ‘Alexandra’ Faranda, Barbara ‘Sara’ Balzerani e Bruno ‘Claudio’ Seghetti 66. Moro venne chiuso nella prigione dietro la libreria, dove gli erano stati preparati i nuovi abiti da indossare, mentre quelli che indossava vennero accuratamente controllati, in cerca di eventuali microspie. L’operazione Fritz, o “affaire Fritz” (così fu chiamata in codice dai brigatisti tutta la vicenda Moro, per via di una “frezza” bianca di capelli che l'onorevole aveva sulla fronte), scosse subito l’Italia. Le trattative cominciarono subito. Ben presto iniziò lo stillicidio dei comunicati, degli interrogatori e delle lettere dal carcere. Il carceriere Moretti si occupava degli interrogatori che venivano registrati su un magnetofono Philips acquistato appositamente. “Camilla” e “Gulliver” avevano il compito di sbobinare i nastri dei colloqui. All’inizio ascoltavano le cassette e trascrivevano il contenuto, ma presto si accorsero che era un’impresa lunga e inutile. Così i fogli trascritti a mano dai brigatisti vennero distrutti, per non lasciare tratti della loro grafia e da quel momento fu lo stesso Moro a scrivere le sue risposte ai quesiti posti

65 66

Ivi, pp. 150-151. M. Clementi, La pazzia di Aldo Moro, cit., p. 171.

49


da Moretti sul funzionamento dello Stato, sugli scandali del “regime” democristiano, sulle stragi, sugli accordi con gli americani 67. Dopo i funerali degli uomini della scorta di Moro, sabato 18 marzo alle ore 12,00, le Brigate Rosse telefonarono al quotidiano romano “Il Messaggero”, indicando il luogo dove si trovava il “Comunicato n.1”: una busta arancione di formato commerciale venne lasciata sulla parte superiore di un apparecchio per fotografie formato tessera che si trovava in un sottopassaggio di largo Argentina. Vi erano cinque copie del comunicato e una foto Polaroid che ritraevano Moro, in maniche di camicia, seduto sotto una bandiera con la stella a cinque punte e la scritta “Brigate Rosse”. Le BR comunicarono che Moro si trovava in una “prigione del popolo” in quanto responsabile “dei programmi controrivoluzionari della borghesia imperialista” 68. « Chi è Aldo Moro è presto detto: – si leggeva nel primo comunicato delle BR – dopo il degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il “teorico” e lo “stratega” indiscusso di questo regime democristiano che da trent’anni opprime il popolo italiano […] La controrivoluzione imperialista […] ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste». Alle BR, dunque, “interessava Moro in quanto figura emblematica di circa trent’anni di regime democristiano”

69

. I brigatisti erano contrari alla politica di

“solidarietà nazionale” in quanto “tessitura di un sistema di alleanze, che mantenendo la centralità del partito democristiano, ingabbiava senza rimedio le forze parlamentari in opposizione”. Ciò però non significava che avessero rapito Moro per colpire il nuovo governo Andreotti, infatti la coincidenza delle date fu casuale 70. Dal covo in via Montalcini uscirono anche le lettere che il presidente Moro scriveva alla famiglia, alla moglie Eleonora, al segretario della DC Benigno Zaccagnini, al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, al capogruppo della DC Flaminio Piccoli, al segretario del PSI Bettino Craxi, al presidente del Consiglio Giulio Andreotti, al presidente della Repubblica Giovanni Leone, a papa Paolo VI. Erano lettere disperate e

67

Ivi, pp. 176-178. V. Mastronardi, S. Ciappi, Le stragi di sangue che hanno sconvolto il mondo, cit., p. 208. 69 A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, cit., p. 26. 70 Ivi, p. 27. 68

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commoventi, che contenevano spesso molte critiche nei confronti dello Stato e della DC 71

. Attraverso le lettere Moro cercò spesso di aprire una “trattativa” con i colleghi di

partito e con le massime cariche dello Stato. Nella lettera recapitata l’8 aprile “scagliò un vero e proprio anatema”: «Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? […] Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro». Ci furono molti dubbi sulla veridicità delle lettere della prigionia, per alcuni ispirate e controllate dai brigatisti. Leonardo Sciascia, che aveva presieduto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, sosteneva con forza che Aldo Moro attraverso le lettere cercava di inviare messaggi criptici al Governo e al suo partito. Il significato delle lettere, probabilmente, andava al di là del significato letterale delle parole e delle frasi. Per esempio nella sua prima lettera a Cossiga, Moro affermava di trovarsi “sotto un dominio pieno e incontrollato”. Che voleva dire? E suggeriva di far confluire a Roma esponenti della diplomazia internazionale. Secondo lo scrittore siciliano, si trattava di un chiaro suggerimento di Moro sfuggito alla censura brigatista: “Mi tengono a Roma, – scrisse – sono in un condominio molto affollato e ancora non controllato” 72. Anche il papa Paolo VI rivolse un drammatico appello pubblico col quale supplicava “in ginocchio” gli uomini delle Brigate Rosse di restituire Moro alla sua famiglia e ai suoi affetti, sottolineando che ciò doveva avvenire “senza condizioni”73. Ma una condizione era stata posta. I brigatisti avevano proposto di scambiare la vita del prigioniero con la liberazione di 13 terroristi, di Sante Notaricola, appartenente alla banda Cavallero74, e di 3 componenti della banda “XXII Ottobre” 75.

71

C. Lucarelli, Blu notte. Misteri italiani, 14-01-2009, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a160efda-5f99-4e6f-91a16ac455edce94.html#p=0 72 L. Sciascia, L’affaire Moro, Palermo, Sellerio, 1978, pp. 38-46. 73 V. Mastronardi, S. Ciappi, Le stragi di sangue che hanno sconvolto il mondo, cit., pp. 209210.

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Il mondo della politica si divise in due fazioni: il “fronte della fermezza”, costituito dalla maggioranza dei democristiani e dei comunisti, che rifiutava qualunque ipotesi di trattativa, e il “fronte possibilista” o “partito della trattativa”, costituito da radicali, socialisti e sinistra extraparlamentare

76

. Il PCI aveva tutto l’interesse di

dimostrare con i fatti di essere un partito delle istituzioni, un partito che stava con lo Stato democratico. Un partito che non aveva nessuna incertezza nel contrapporsi al terrorismo 77. Enrico Berlinguer, il 19 marzo, così scriveva su “L’Unità”: “viviamo giorni gravi per la nostra democrazia. Abbiamo parlato di pericolo per la Repubblica. Non è un cedimento all’emozione, è un giudizio politico che parte dalla consapevolezza delle forze potenti, interne e internazionali, che muovono le fila di questo attacco spietato contro lo Stato e contro le libertà repubblicane. […] Comunisti, socialisti, democristiani, cittadini e giovani di ogni fede politica si sono ritrovati in piazza con le loro bandiere e con una comune volontà di difendere la democrazia”78.

Sull’autenticità delle lettere, o almeno sul tipo di autonomia che Moro ebbe quando le scrisse, si discusse molto. Alcuni politici vicini al presidente diffusero una dichiarazione nella quale sostenevano che l’uomo chiuso nel “carcere del popolo” era uno strumento “passivo” nelle mani dei sequestratori stessi. Eleonora Moro smentì tali insinuazioni sostenendo davanti ai giudici che processarono gli assassini del marito: «Tutto in quelle lettere – disse – apparteneva a mio marito. Il contenuto, il pensiero, il modo di parlare e di esprimersi, la sua logica. Un’autenticità assoluta. Quelle lettere erano scritte da lui, esprimevano il suo modo di vedere le cose, di valutare» 79. La stampa ebbe un ruolo decisivo nella gestione del caso. Da una parte le BR si affidavano alle agenzie di stampa e ai quotidiani per diffondere i propri comunicati, dall’altra il ministro dell’Interno fece pressioni sui media perché sposassero la linea della fermezza. “Quando il Governo comprese, sin dal primo comunicato del 18 marzo 1978, che Moro sarebbe stato ‘processato’ e che le BR avevano intenzione di porre al centro della loro azione la parola del prigioniero, avviò una condotta di svalutazione dell’ostaggio. Una spietata campagna di

74

’60.

La banda Cavallero era una banda di rapinatori che insanguinò le strade di Milano negli anni

75

B. Fontana, P. Serarcangeli, L’Italia dei sequestri, cit., p. 107. C. Lucarelli, Blu notte. Misteri italiani, 14-01-2009, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a160efda-5f99-4e6f-91a16ac455edce94.html#p=0 77 Ibidem. 78 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 162. 79 Ivi, pp. 203-204. 76

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disinformazione e di antiguerriglia psicologica volta a negare per principio qualsiasi attendibilità alle parole di Moro, come proposto anche da Pieczenik, per il quale doveva sembrare che il prigioniero avesse subito «un lavaggio del cervello» 80.

Tempo dopo si scoprì che alcuni giornali erano sotto il controllo della loggia P2 che era capofila di chi non voleva trattare con i brigatisti. Nel 1981 si scoprì che Franco Di Bella, direttore de “Il Corriere della Sera”, apparteneva alla P2. Si seppe anche che coloro i quali furono scelti dal ministro dell’Interno Cossiga per far parte del Comitato di crisi erano membri della P2 della quale facevano parte anche i capi dei Servizi Segreti. Fu un “piduista”, lo psichiatra Franco Ferracuti, a teorizzare che Moro “non sarebbe dovuto uscire vivo”. «Aldo Moro era politicamente morto – sosteneva lo psichiatra – fin dal giorno della sua prima lettera dalla prigionia. E, dal punto di vista del Governo, è stato meglio che l’incidente di Moro sia finito come è finito». Inoltre Ferracuti avanzò l’idea che Moro fosse affetto dalla “sindrome di Stoccolma”, ossia da un progressivo processo di identificazione con il proprio aggressore. Egli notava anche che tale sindrome portasse ad un aumento dell’emotività che, in questo caso, veniva sfruttata come strumento per lo scambio 81. L’obbiettivo di tutti questi “affiliati” della P2 era quello di “svalutare l’ostaggio”, in modo da rendere lo scambio inutile

82

. Aldo Moro era certamente un personaggio scomodo: molti governi

avrebbero voluto toglierlo dalla scena politica internazionale sia in Occidente, sia in Medio Oriente. Vennero coinvolti nel sequestro almeno sette servizi segreti stranieri: statunitensi (CIA), francesi (DGSE), tedeschi dell’est (STASI), cecoslovacchi (STB), bulgari (DARSAUNA SIGURNOST), sovietici (KGB), israeliani (MOSSAD)

83

. Il

“compromesso storico” era mal visto sia dagli americani che dai sovietici, perché avrebbe potuto accelerare il “crollo del Sistema”. I servizi segreti francesi sapevano, sin dal febbraio 1978, che in Italia di lì a poco sarebbe stato rapito un importante personaggio politico appartenente al partito di maggioranza, facilmente identificabile con l’onorevole Moro. Ma perché i servizi italiani, alleati di quelli francesi, non furono avvisati della situazione? Probabilmente i servizi italiani anziché agire avevano mantenuto il silenzio, perché costretti a non indagare. Dovevano “sacrificare” Aldo Moro per poter stabilizzare il Governo. 80

A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2008, pp. 205-206. Ivi, 208. 82 Sequestro Moro, sentenza di Morte. Il più grande intrigo internazionale della storia italiana. Film – inchiesta. 83 Ibidem. 81

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Durante il sequestro il SISMI84, il SISDE85, l’Anello86 e Gladio87 non solo non fecero nulla per liberare Moro, ma si adoperarono per depistare e per impedire che venisse liberato 88. La debolezza delle istituzioni era evidente. Uno alla volta arrivarono i 9 comunicati delle BR, accompagnati da 39 lettere scritte dallo stesso Moro. I primi sei, “ciclostilati”, riguardavano il “processo” al quale veniva sottoposto il presidente della DC. mentre nei successivi si faceva cenno allo “scambio” di prigionieri. Si era consapevoli della tragedia, ma il Governo proseguì nei confronti dei brigatisti la linea di intransigenza89. Intanto i dubbi e le ipotesi aumentavano e disorientavano gli inquirenti. Il 12 aprile la polizia perquisì tutte le abitazioni di via Bonucci, a poche decine di metri da via Montalcini. Un fatto enigmatico riguardò il presunto covo dei brigatisti, in via Gradoli 96, dove, fino al 18 aprile, Mario Moretti e Barbara Balzerani avevano abitato 90

. Via Gradoli era una traversa della via Cassia, ed era una delle vie utilizzate dai

servizi segreti per gestire operazioni segrete. Si arrivò a sospettare che in questa palazzina fosse tenuto prigioniero l’onorevole Moro, e si scoprì che nello stesso edificio vi erano appartamenti appartenenti ai servizi segreti. Insomma quella base era circondata da proprietà di società immobiliari controllate dai servizi segreti. Quindi via Gradoli era un “covo delle BR”, ma anche un “covo di Stato”. Allora Moretti cos’era? “Un agnello in mezzo ai lupi o un lupo nel suo branco?” 91. Il rifugio era stato scoperto grazie ad una fuga d’acqua che secondo i vigili del fuoco sembrava essere stata provocata intenzionalmente. All’alba del 18 aprile Mario Moretti e Barbara Balzerani avevano lasciato l’appartamento. Alle 7,30, l’inquilina del piano di sotto, Nunzia Damiano, era stata svegliata da rumori di passi provenienti 84

Sismi: servizio per le informazioni e la sicurezza militare. In servizio dal 1977 al 2007, anno in cui fu sostituito dall’ AISE: agenzia informazioni e sicurezza esterna. I suoi compiti erano finalizzati a difendere la sicurezza nazionale da qualsiasi minaccia. 85 Sisde: servizio segreto italiano. Letteralmente: servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, in servizio dal 1977 al 2007. 86 Anello: struttura paramilitare segreta, così segreta da non essere conosciuta dagli altri servizi. Fu creata dal generale Mario Roatta nel 1945 per ostacolare le sinistre e condizionare il sistema politico con mezzi illegali, ma senza sovvertirlo. Era nelle “informali” dipendenze del Presidente del Consiglio. 87 Gladio: struttura paramilitare segreta creata dalla NATO nel 1949 per contrastare un’ eventuale invasione sovietica dell’Europa Occidentale, coinvolta in stragi e operazioni terroristiche in Francia, Belgio, Germania e Italia. Venne particolarmente osteggiata da Moro. Si pensa ci fossero infiltrati di Gladio all’interno delle BR. 88 Sequestro Moro, sentenza di Morte. Il più grande intrigo internazionale della storia italiana. Film – inchiesta, cit. 89 B. Fontana, P. Serarcangeli, L’Italia dei sequestri, cit., p. 107. 90 V. Mastronardi, S. Ciappi, Le stragi di sangue che hanno sconvolto il mondo, cit., p. 210. 91 Sequestro Moro, sentenza di Morte. Il più grande intrigo internazionale della storia italiana. Film – inchiesta, cit.

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dall’appartamento dei brigatisti. Poco dopo la donna notò una macchia d’acqua che si allargava sul soffitto. I vigili del fuoco, accorsi sul luogo, trovarono che “uno scopettone era stato appoggiato sulla vasca, e sopra lo scopettone qualcuno aveva appoggiato il telefono della doccia in modo che l’acqua si dirigesse verso una fessura nel muro”

92

. Alle 10,30 la polizia rinvenne nell’appartamento bombe a mano sparse

sul pavimento, una pistola mitragliatrice, un fucile da caccia e relative munizioni, oltre a divise della PS e dell’Alitalia, una radio ricetrasmittente, documenti falsi, volantini, e ciclostilati delle BR 93. Sempre il 18 aprile alle 9,25 giunse a “Il Messaggero” una telefonata anonima che annunciava il comunicato numero 7. Il comunicato, rinvenuto in un cestino portarifiuti in via Gioacchino Belli, contrariamente al solito, era una fotocopia, che annunciava l'avvenuta esecuzione di Moro, il cui corpo si sarebbe trovato nel lago della Duchessa. Ma il lago della Duchessa aveva una caratteristica: era ghiacciato da novembre a maggio. Nonostante questo, oltre mille uomini incaricati di andare al lago con cani, gommoni e trivelle, cominciarono a trivellare il ghiaccio del lago cercando il corpo del presidente. Il consulente americano di Francesco Cossiga, Steve Pieczenick, del Dipartimento di Stato, avrebbe detto in seguito, che quel depistaggio era stato creato da lui, d’accordo con il ministro dell’Interno, per mandare un messaggio preciso alle BR94. Il messaggio n.7 presentava subito caratteristiche completamente diverse dai precedenti: era molto breve, scritto con uno stile satirico, e, nonostante la brevità, conteneva diversi errori di ortografia assenti nei lunghi comunicati precedenti. “IL PROCESSO AD ALDO MORO Oggi 18 aprile 1978, si conclude il periodo “dittatoriale” della DC che per ben trent'anni ha tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data comunichiamo l'avvenuta esecuzione del presidente della DC Aldo Moro, mediante “suicidio”. Consentiamo il recupero della salma, fornendo l'esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI), zona confinante tra Abruzzo e Lazio. E' soltanto l'inizio di una lunga serie di “suicidi”: il “suicidio” non deve essere soltanto una “prerogativa” del gruppo Baader Meinhof. Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il regime.

92

V. Mastronardi, S. Ciappi, Le stragi di sangue che hanno sconvolto il mondo, cit., p. 211. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 177. 94 Sequestro Moro, sentenza di Morte. Il più grande intrigo internazionale della storia italiana. Film – inchiesta, cit. 93

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P.S. - Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc. che sono sempre sottoposti a libertà ‘vigilata’. 18/4/1978 Per il Comunismo Brigate Rosse.”

A Torino i legali di Curcio espressero dubbi sulla veridicità di quel comunicato. I brigatisti si affrettarono subito a smentirne la paternità. Ben presto, autore del falso comunicato si rivelò essere Toni Chichiarelli, un falsario di opere d’arte vicino alla banda della Magliana, assassinato nel settembre del 1984 in circostanze mai chiarite. Giovedì 20 aprile poco dopo le 12, venne annunciato il comunicato n.7, questa volta quello vero, con una telefonata a “Il Messaggero”. Il comunicato venne fatto trovare a Roma in via dei Maroniti, dietro la sede del “Messaggero”, in una busta arancione che conteneva anche una foto Polaroid che ritraeva Moro con in mano la copia de “La Repubblica” del giorno precedente. Moro era vivo, dunque i brigatisti accennarono allo scambio di detenuti: il presidente sarebbe stato ucciso se non si fosse accettato lo scambio. Mentre Paolo VI, il segretario generale delle Nazioni Unite, Kurt Waldheim, e il leader dell’OLP, Arafat, aggiungevano altri appelli, Craxi provò a scovare, nei fascicoli pendenti, il nome di qualche brigatista che potesse essere rilasciato in segno di collaborazione. Si pensò a Paola Besucchio, studentessa a Trento insieme a Curcio e alla Cagol, accusata di rapine “proletarie”, sospettata di aver ferito il consigliere democratico milanese, Massimo De Carolis, condannata a quindici anni. Poi anche ad un nappista, Alberto Buonoconto. Ma le BR erano intransigenti, volevano che fossero scarcerati brigatisti ritenuti tra i più pericolosi tra cui Curcio e Franceschini e anche delinquenti comuni come Sante Notaricola

95

. Inoltre i brigatisti, tramite telefonate

insistenti, sollecitavano interventi da parte della famiglia Moro. Il governo non cedeva. I messaggi di Moro si facevano sempre più pressanti, e tormentati: in uno di essi rivendicò la piena autenticità dei suoi scritti smentendo chi li riteneva macchinazioni brigatiste. Il 5 maggio nel comunicato n.9, le BR, dopo aver informato il movimento rivoluzionario e i proletari che la DC aveva rifiutato lo scambio e che la proposta socialista era “ipocrita”, così scrivevano: “Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato. Le risultanze dell’interrogatorio ad Aldo Moro e le informazioni in nostro possesso ed un bilancio

95

I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia degli anni di piombo, cit., p. 207.

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complessivo politico militare della battaglia che qui si conclude verrà fornito al movimento rivoluzionario e alle organizzazioni comuniste combattenti attraverso gli strumenti di propaganda clandestini” 96. All’interno delle stesse BR iniziarono a crearsi parecchie divisioni. Cosa bisognava fare? Uccidere il presidente o liberarlo? Il gruppo dirigente si stava dividendo, ma alla fine si decise di accettare la proposta del Comitato esecutivo: uccidere l’ostaggio. Solo Germano Maccari, Valerio Morucci e Adriana Faranda votarono contro. La sera di lunedì 8 maggio Moretti giunse in via Montalcini e comunicò che il giorno dopo si sarebbe proceduto “all’esecuzione della sentenza di morte pronunciata dal tribunale brigatista” 97. Secondo le istruzioni l’ostaggio sarebbe stato portato nella macchina che si trovava nel garage di via Montalcini, non più dentro il baule di legno che si era rivelato “troppo pesante”, ma all’interno di una cesta. Ad occuparsi dell’esecuzione sarebbe stato Moretti assistito da “Gulliver”. All’alba del 9 maggio 1978 Moro venne informato che avrebbe dovuto lasciare la sua prigione: il presidente si vestì e venne accompagnato nel garage dov’era parcheggiata l’auto, una Renault rossa. I brigatisti sistemarono l’ostaggio nel bagagliaio e lo coprirono con una coperta. Moretti fece fuoco sul presidente della DC con una Ppk silenziata, che però s’inceppò. Allora si fece passare da Maccari una mitraglietta Skorpion: “due raffiche e tutto era finito”. Per depistare le indagini, i brigatisti misero della sabbia nel risvolto dei pantaloni e coprirono con un telo il corpo. Poi i due brigatisti salirono sulla Renault, e si diressero verso il centro di Roma, dove il corpo di Moro sarebbe stato depositato 98. Alle 12,13 Valerio Morucci telefonò a casa del professor Franco Tritto, collaboratore di Moro, informandolo su dove avrebbe trovato il corpo del presidente. Sciascia nella sua inchiesta si pose delle domande su come si svolse la telefonata del brigatista al professore. La voce di Morucci era fredda, ma le parole, le pause, le esitazioni tradivano pietà e rispetto: chiamò per quattro volte Moro “l’onorevole” e “il presidente” 99. Il cadavere dell’onorevole Moro venne ritrovato in via Michelangelo Caetáni, a metà strada fra la sede del partito comunista e della DC, nel bagagliaio di una Renault rossa.

96

G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, cit., 148. G. Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico, cit., p. 184. 98 Ivi, pp. 185-186. 99 Ivi, p. 126. 97

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“L’autore, il demiurgo del compromesso storico, – ha scritto Giorgio Bocca – il nemico numero uno della prospettiva rivoluzionaria viene abbandonato, cadavere, nel centro del potere democristiano e comunista a sfida e a scherno dell’intero apparato statale e della più gigantesca operazione poliziesca che la storia abbia mai visto” 100. Poco dopo il ritrovamento del corpo, venne diramato dalla famiglia un comunicato “durissimo” nei confronti della DC: “La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità di Stato e di partito, la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia” 101. In quella stessa giornata, a Palermo, poco dopo la mezzanotte, venne trovato ucciso dall’esplosione di un ordigno sulla linea ferroviaria Trapani - Palermo Giuseppe Impastato, dirigente di Democrazia Proletaria e animatore di Radio Aut, impegnata nella controinformazione sul potere mafioso 102. Il 13 maggio si svolsero, celebrati da Paolo VI, i funerali di Aldo Moro: «Tu, Signore della vita e della morte, non hai ascoltato le nostre suppliche»

103

. Il giorno

successivo Aldo Moro fu sepolto nel cimitero di Torrita Tiberina (Roma), alla presenza dei soli familiari e pochissimi amici. In quelle stesse ore il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, presentò le dimissioni in conseguenza del fallimento del sequestro Moro 104. In quella primavera, dei brigatisti che avevano assassinato Moro “non c’era traccia”. Poi all’improvviso una svolta: il nucleo antiterrorismo dei carabinieri comandato dal capitano Roberto Arlati scoprì un covo delle BR alla periferia di Milano in via Monte Nevoso 105. Uno degli inquilini dell’appartamento era un noto brigatista latitante: Lauro Azzolini. Un brigatista regolare, di un certo livello. Si scoprì che Azzolini frequentava Nadia Mantovani, latitante, perché si era sottratta agli arresti domiciliari dopo il secondo arresto di Curcio. Il generale Dalla Chiesa e il nuovo ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, erano convinti della necessità di “fare luce” sulla tragedia di Moro. Dalla

100

G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970-1978, cit., p. 148 Ibidem. 102 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 201. 103 Ivi, p.202. 104 Ibidem. 105 R. Arlati, R. Magosso, Le carte di Moro. Perché Tobagi, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 68. 101

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Chiesa decise di effettuare un blitz che potesse colpire contemporaneamente tutte le basi delle BR. Quando Arlati fece irruzione nell’appartamento si trovò davanti Franco Bonisoli, ricercato, membro del comitato esecutivo del sequestro Moro, e Nadia Mantovani. Quell’appartamento non era solo un covo delle BR, ma anche un vero e proprio archivio. Su una scrivania si trovava un plico con la copertina azzurra all’interno del quale c’era la trascrizione dell’interrogatorio di Aldo Moro nella prigione brigatista. In quelle carte si parlava di segreti di Stato, di strategia della tensione, di intrecci tra politica e affari, di finanziamenti occulti alla DC e di molto altro. Arlati avvertì subito il suo superiore, Nicolò Bozzo, colonnello dei carabinieri 106. Contemporaneamente al covo di via Monte Nevoso, vennero scoperti altri covi, in via Ballanza, in via Olivari e nella tipografia di via Buschi. Alla fine il bilancio dell’operazione era “trionfale”: gli arrestati erano nove ed erano stati trovati verbali, schede, armi, esplosivi, giubbotti antiproiettili, divise da agenti, banconote provenienti da riscatti e documenti falsi. Il generale Dalla Chiesa consegnò le carte trovate nel covo al ministro dell’Interno, Rognoni, che a sua volta, le portò al presidente del Consiglio Andreotti. Quelle carte contenevano anche “giudizi pesantissimi” su esponenti della DC, tra cui lo stesso Andreotti. Mentre il governo valutava se rendere o meno pubbliche queste carte, dalla stampa cominciarono a “filtrare” le prime indiscrezioni e accuse: il 5 ottobre 1978 Giorgio Bocca scrisse su “la Repubblica” che le carte di Moro erano state lette e esaminate da personalità politiche e militari prima che dai magistrati. Il 6 ottobre 1978, sempre su “la Repubblica”, Giorgio Battistini scriveva: “Tutto contro Andreotti il memoriale di Moro. sono stati svelati anche i segreti di Stato?”. Su “l’Osservatore politico” il 17 ottobre 1978 Mino Pecorelli scriveva: “Non c’è blitz senza spina”: alludeva all’esistenza di nastri registrati con la voce del presidente Moro 107. Il 18 ottobre il Governo decise di rendere pubbliche le carte trovate nel covo di via Montenevoso. Franco Bonisoli affermò che una parte dei dattiloscritti era stata portata al comitato d’esecuzione e una copia era rimasta nel covo di via Montenevoso. Secondo Pecorelli, Moro aveva “rivelato segreti esplosivi NATO” tanto che, proseguiva

106

Ivi, pp. 68-84. G. Minoli, La Storia Siamo Noi. Il mistero delle carte di Moro. Faccia a faccia con Miguel Gotor, 2011, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e83d0e69-3123-41d0-b60eee9e6d06f12a.html. 107

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il giornalista, subito dopo il sequestro i vertici dell’Alleanza Atlantica avrebbero deciso di cambiare i piani operativi dello scacchiere europeo. Sergio Flamigni, membro della commissione Moro tra il 1979 e il 1983, disse che Pecorelli aveva continuato a scavare e il 4 ottobre si sarebbe incontrato con il generale Dalla Chiesa e in seguito avrebbe iniziato a pubblicare una serie di articoli nei quali parlava di “memoriali” e non di memoriale. Secondo quanto annotato nella sua agenda, Mino Pecorelli avrebbe incontrato il generale Dalla Chiesa quattro volte. Ma qual era il motivo di quegli incontri? Ancora oggi a questa domanda non è possibile dare una risposta certa. Il 6 febbraio 1979 “OP” cominciò una campagna di stampa contro il presidente Andreotti. Il 6 marzo sull’agenda di Pecorelli compariva il nome di Antonio Varisco, un colonnello impegnato con Dalla Chiesa, o come lo chiamava Pecorelli, “generale Amen”

108

, nella lotta al terrorismo, e di Giorgio Ambrosoli. Il 20 marzo 1979 Mino

Pecorelli venne assassinato nella auto vicino alla redazione del giornale nel quartiere Prati a Roma da quattro colpi di pistola calibro 7,65, i cui proiettili si scoprirono essere dello stesso tipo di quelli che poi vennero trovati nell’arsenale della banda della Magliana nei sotterranei del ministero della Sanità. L’omicidio restò senza colpevoli 109. Il 12 luglio a Milano venne ucciso, mentre rientrava a casa, l’avvocato Giorgio Ambrosoli

110

. Il giorno dopo anche il colonnello Varisco restò vittima di un agguato,

stavolta ad opera delle BR. Il 31 dicembre 1980 moriva anche il generale Enrico Galvaligi. Secondo Flamigni tra la morte del generale e il caso Moro vi era un legame, perché Galvaligi era stato il primo a parlare dell’esistenza di un manoscritto. Aveva rivelato che il memoriale era stato portato a Roma durante la notte da due persone, prima che lo leggessero i magistrati. Il 23 febbraio, tuttavia, di fronte alla Commissione Moro, il generale Dalla Chiesa smentì quella circostanza. Ammise che, dal momento in cui giunse al covo, tutto il materiale andò direttamente “nella mani” della magistratura. Ma in quella stessa seduta, incalzato da Leonardo Sciascia, il generale fece un’ammissione: «il memoriale trovato in via Montenevoso era incompleto». Quindi

108

P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 220. Ivi, p. 221. 110 Giorgio Ambrosoli era un avvocato esperto in liquidazioni coatte amministrative, assassinato da un sicario ingaggiato dal banchiere siciliano Michele Sindona, sulle cui attività Ambrosoli indagò. 109

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mancavano gli originali del dattiloscritto, gli originali del manoscritto, le registrazioni dell’interrogatorio e le borse che Moro aveva con sé al momento dell’agguato 111. Poi però nel ’90 ci fu un “colpo di scena”: il 10 novembre nell’appartamento di via Montenevoso venne trovata un’intercapedine di gesso sotto una finestra. A trovarla fu un muratore, durante i lavori di ristrutturazione dell’appartamento. Vennero rinvenuti una borsa nera contenente 60 milioni di lire ormai fuori corso provenienti dal sequestro Costa, un fucile mitragliatrice avvolto in giornali datati settembre 1978, una pistola Walter PPK e una cartella di carte avvolte in nastro adesivo. Si trattava delle carte di Moro: lettere, disposizioni testamentarie e il memoriale. In tutto 421 carte: 229 erano risposte alle domande dei brigatisti fotocopiate e scritte di suo pugno che nel 1978 erano state trovate in forma dattiloscritta; questa volta però vi erano 53 pagine in più, che rivelavano fatti inediti: i rapporti di Andreotti con Sindona e Gladio. Si trattava di documenti che non erano stati trascritti nei dattiloscritti 112. Moro, comunque, non usò mai la sigla Gladio, parlò solo di una struttura con funzione antiguerriglia. Di conseguenza il 24 ottobre 1990 il presidente del consiglio Andreotti rese pubblica per la prima volta l’esistenza di una struttura segreta della NATO, conosciuta come Stay Behind, in Italia Gladio, per molti una struttura illegale. Secondo il comandante di Gladio, Paolo Inzerilli, Moro sicuramente non era al corrente dell’attività svolta dalla Gladio. Però non si poteva escludere che il ministro della difesa Lattanzio ne avesse parlato. Forse Moro era a conoscenza dei Nuclei di difesa dello Stato perché molte attività di quei nuclei erano analoghe a quelle della Gladio 113. Roberto Arlati scrisse che dopo il blitz in via Montenevoso intorno alle 11 del mattino arrivò il capitano Umberto Bonaventura che si interessò immediatamente al dossier Moro. Prese le carte dicendo di doverle fotocopiare. Ma Arlati non era d’accordo perché i documenti non erano ancora stati verbalizzati. Arlati, che non aveva avuto il tempo di contare i fogli della cartella, si rese, comunque, immediatamente conto che si trattava di un “malloppo sostanzioso”. Verso le 5 di sera un motociclista, mandato da Bonaventura, riconsegnò il dossier: Arlati ebbe la netta sensazione che la

111

G. Minoli, La Storia Siamo Noi. Il mistero delle carte di Moro. Faccia a faccia con Miguel Gotor, 2011, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e83d0e69-3123-41d0-b60eee9e6d06f12a.html. 112

A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, cit., pp. 240-241. G. Minoli, La Storia Siamo Noi. Il mistero delle carte di Moro. Faccia a faccia con Miguel Gotor, 2011, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e83d0e69-3123-41d0-b60eee9e6d06f12a.html. 113

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cartella contenesse una quantità minore di fogli rispetto alla mattina114. Bonaventura non ebbe il modo di replicare alla “presunta sottrazione di documenti” perché il 7 novembre 2002 venne trovato morto. A quanto detto da Miguel Gotor lo Stato fu obbligato a divulgare il 18 ottobre i dattiloscritti: fu una “divulgazione difensiva” perché “la Repubblica” aveva pubblicato una testimonianza anonima, che si scoprì essere di Galvaligi, sull’esistenza dei dattiloscritti e del fatto che il materiale fosse più ampio di quello che si voleva far credere. Poi nel ’90, dodici anni dopo il primo ritrovamento, “uscirono fuori” delle nuove carte. “Il fatto importante – dice Gotor – era che queste carte erano fotocopie di manoscritti, cioè autografe di Moro, invece quelle del ’78 erano dattiloscritti tutti a macchina, non firmati. Quindi non c’era garanzia, non erano direttamente attribuibili a Moro e infatti questo fatto fu sfruttato per screditare quel ritrovamento”. A partire da questo secondo ritrovamento, nessuno, quindi, ebbe più il coraggio di riprendere la tesi degli anni Ottanta e di continuare a sostenere che quegli scritti fossero in realtà di mano brigatista, o estorti con la forza al prigioniero 115. Si noti che, sin dal luglio 1982, alcuni brigatisti tra i quali Barbara Balzerani e Franco Bonisoli, durante il processo in Corte d’Assise, furono i primi a rivendicare l’autenticità del “Memoriale” e delle lettere di Moro. La loro proposta era quella di allegare agli atti del processo «le fotocopie degli originali che erano in via Montenevoso» affinché «tutti potessero avere degli elementi in più per constatare la loro autenticità». Bonisoli ne era certo visto che era stato lui, nel settembre 1978, a sistemare quelle carte nell’intercapedine. L’unica cosa che il brigatista non sapeva era, però, che le forze dell’ordine al momento di quella sua dichiarazione, non erano al corrente dell’esistenza di quelle carte e quindi, durante quel processo, la sua testimonianza non era credibile 116. “Nel corso dei 55 giorni – scrive Miguel Gotor – Moro scrisse almeno 97 testi. Questi documenti sono stati rinvenuti in tre momenti diversi (durante il sequestro, il I ° ottobre 1978 e il 9 ottobre 1990) e in tre distinte modalità di trasmissione (originali manoscritti e autografi, dattiloscritti non firmati e fotocopie di manoscritto). […] Ventisei lettere esistono nella forma originale manoscritta e dunque sono state certamente recapitate dai sequestratori. Sedici sono indirizzate a personalità politiche e istituzionali i cui nomi formano una mappatura attendibile dell’effettiva distribuzione del potere in Italia nella seconda metà degli anni Settanta e dei suoi meccanismi di funzionamento interno. […] Altre ventotto lettere furono rinvenute in

114

R. Arlati, R. Magosso, Le carte di Moro. Perché Tobagi, cit., p. 84. A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, cit., p. 242. 116 Ivi, pp. 243-244. 115

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formato dattiloscritto il I ° ottobre 1978, all’interno del covo brigatista a Milano, in via Montenevoso, 8. Il fatto che si trattasse solo di dattiloscritti ha permesso che sia le lettere che il “Memoriale” di Moro ritrovati in quella circostanza fossero a lungo giudicati non autentici a partire dalla comprensibile considerazione che un dattiloscritto non firmato può essere redatto da chiunque e poi attribuito a qualcuno assieme con il suo contenuto. […] una cartella raccoglitore contenente 419 fogli manoscritti – il 9 ottobre 1990 in via Montenevoso – e due pagine dattiloscritte per un totale di 421 fogli (il doc. 22, una diversa versione dello scritto di Moro a Taviani reso pubblico il 10 aprile 1978). Le carte erano fotocopie di lettere e altri scritti senza ombra di dubbio autografi dell’uomo politico, ma non erano in originale. Delle 419 fotocopie, 190 riguardavano lettere e disposizioni testamentarie di Moro e 229 facevano parte del suo “Memoriale”, una porzione ben più consistente della versione dattiloscritta ritrovata nello stesso covo nel 1978. Di queste 190 fotocopie di lettere manoscritte, 114 pagine riguardavano 48 lettere, messaggi e testamenti di Moro indirizzati ai familiari, documenti che non erano stati mai recapitati e raggiunsero i loro destinatari solo allora, dodici anni dopo quei tragici fatti, come se provenissero da un altro mondo e li cogliessero all’improvviso dentro un’altra vita” 117.

Ma anche dopo il ‘90 il giallo sul caso del “Memoriale” non è ancora risolto. “Dopo il ritrovamento – dice Gotor – non possiamo dire che il memoriale sia completo. Questo perché secondo una serie di testimoni, che nel mio libro “Il memoriale della Repubblica” chiamo lettori precoci, tra il ’78 e il ’90 dimostrarono di aver letto delle parti di memoriale che ancora oggi non si conoscono. Abbiamo due mani e due interventi censori che agiscono uno indipendentemente dall’altro: una mano che si riferisce al gruppo dell’antiterrorismo guidato da Dalla Chiesa che agisce sui dattiloscritti e poi una seconda mano che agisce sui manoscritti nella seconda metà del ’78 ed è una mano di un agente di un servizio segreto italiano. ci sono 3 nuclei importanti nel memoriale: il golpe borghese, il lodo Moro e la fuga di Kappler”.

Perché queste cose erano state tenute segrete? Perché avevano implicazioni – sostiene Gotor – di carattere giudiziario, che riguardavano la reputazione di importanti personalità e un secondo aspetto era la “ragion di Stato” e il rapporto fra l’Italia e altre nazioni. Questo significava anche che Moro, durante la prigionia, avesse avuto una strategia “lucidissima” per salvarsi. Probabilmente aveva la percezione che il suo sequestro si inserisse dentro una dimensione internazionale. Ma se le BR avevano tutte queste informazioni perché non le hanno usate? “non l’hanno fatto perché – ha scritto Gotor – da un certo momento in poi non erano più in possesso degli originali in cui Moro rivelava queste notizie. Del memoriale le BR hanno reso pubblica solo una cosa, uno scritto su Taviani datato 10 aprile in cui si diceva che era stato il fondatore di Gladio; quindi era un messaggio estremamente destabilizzante. C’è stato un 117

Ivi, pp. 223-241.

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lato oscuro nella gestione di quelle carte. Gli originali non sono mai stati trovati. Non sono nelle mani dello Stato italiano, non sono neanche state distrutte perché preziose, ma potrebbero essere state parte di uno scambio” 118 .

Quindi le trattative tra lo Stato e le BR non riguardavano un solo ostaggio, ma due: uno era Moro e l’altro era il “memoriale”. Avevano in ostaggio la persona fisica di Moro e le sue confessioni ed erano pronti a trattare per tutti e due. “Era come se fossero in atto due sequestri in uno” 119. Mentre “ufficialmente” le istituzioni continuavano a mantenere la linea della fermezza, “ufficiosamente” “esploravano” la strada della trattativa

120

. Attraverso l’Anello, lo

Stato entrò in contatto con la criminalità organizzata. Venne contattata prima la banda della Magliana, poi la Camorra, l’Ndrangheta e infine Cosa Nostra. Cutolo, capo della Camorra, dichiarò che i suoi uomini erano pronti a entrare nel covo e a uccidere i brigatisti. Però arrivò lo “stop” da parte dello Stato: le ricerche dovevano cessare, non si voleva più trovare la prigione di Moro. “Se Moro era in via Gradoli perché lo Stato sceglie di non intervenire? Perché farà un controllo in via Gradoli ma dirà di non aver trovato niente? Tuttora non sappiamo dove Moro sia stato portato dopo e se ci sia stata una coabitazione fra soggetti diversi, cioè brigatisti, esponenti della banda della Magliana, uomini dello Stato e Moro” 121.

Inoltre i brigatisti hanno sempre detto che a Moro non fu annunciata l’esecuzione. Questo non corrisponde a verità perché fu trovata una lettera di Moro destinata alla moglie Eleonora che diceva: «dopo giorni di cauta speranza giunge improvviso e terribile l’annuncio dell’esecuzione. Mi hanno promesso che faranno ritrovare il corpo e alcuni ricordi». Quindi sapeva, o comunque era consapevole del fatto, che stava per essere ucciso. Ci si chiese anche in seguito se Moro fosse stato tenuto per tutti i 55 giorni del sequestro nel covo di via Montalcini o fosse stato spostato più volte. Dall’esame autoptico del cadavere risultò fosse impossibile che l’onorevole fosse rimasto rannicchiato per 55 giorni in quel locale largo 93 cm. Moro aveva camminato, e aveva, forse, fatto una certa

118

G. Minoli, La Storia Siamo Noi. Il mistero delle carte di Moro. Faccia a faccia con Miguel Gotor, 2011, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e83d0e69-3123-41d0-b60eee9e6d06f12a.html. 119

A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, cit., p. 255. Sequestro Moro, sentenza di Morte. Il più grande intrigo internazionale della storia italiana. Film – inchiesta, cit. 121 Ibidem. 120

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attività fisica. A parte quattro costole fratturate, era in buone condizioni: non aveva tracce di punture che potessero far pensare all’assunzione di droghe, e aveva le unghie delle mani e dei piedi ben tagliate 122. “E poi c’è la realtà della scrittura, la sua evidenza materiale, decine e decine di lettere dalla grafia il più delle volte rotonda, regolare, simmetricamente distribuita sui fogli, tratti da un bloc notes a quadretti in formato A4. La penna usata è una comune “Bic” inchiostro nero o blu, che si alterna con due “Tratto pen” dei medesimi colori. Quando la lettera occupa più pagine, la mano di Moro si preoccupa di numerare i singoli fogli in alto, al centro della pagina, metodico e pignolo come sempre, ma anche persuaso che quella sequenza potesse essere per i suoi destinatari l’unica garanzia d’integrità della missiva. Eppure Moro, noto per la grafia incomprensibile, avrebbe scritto tutto ciò sdraiato su un letto, con un cuscino dietro le spalle, secondo quanto dichiarato da Moretti, perché mancava «lo spazio per un tavolo vero e proprio» e c’era solo una «specie di piccolissimo tavolino» dove il prigioniero poggiava i suoi fogli a mano a mano che li riempiva” 123 .

Gli interrogativi che restano sono: perché la vicenda si è conclusa con la morte e non con la liberazione di Moro e perché sono scomparsi gli originali dei suoi scritti?

2.4 Il lento declino del terrorismo Conclusa la cosiddetta “campagna di primavera” con l‘uccisione di Moro, le BR continuarono a “giustiziare gli esponenti di quella che chiamavano controrivoluzione”, gli agenti cioè dell’antiterrorismo. Il 6 giugno uccisero a Udine il maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, mentre tre settimane dopo, a Genova, il commissario di PS Antonio Esposito. Il 1 ottobre, a Milano, nell’appartamento di via Montenevoso, furono arrestati Antonio Savino, Nadia Mantovani, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli. A questa azione le BR avrebbero risposto, dieci giorni dopo, uccidendo il consigliere di Cassazione Girolamo Tartaglione, direttore degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, e poi il docente universitario Alfredo Paolella. A metà dicembre sarebbe toccato agli agenti di PS Gian Antonio Pellegrini e Giuseppe Rainone 124. Ma non fu quello l’unico obbiettivo; per tutto il 1978 le loro azioni furono dirette anche contro le gerarchie e i dirigenti industriali: nel corso di questa campagna venne ucciso Pietro Coggiola, capofficina FIAT. In realtà non sarebbe dovuto essere 122

A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, cit., p. 187. Ivi, p. 188. 124 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 219. 123

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ucciso, ma solo ferito e la stessa cosa sarebbe dovuta avvenire, nelle intenzioni dell’organizzazione, nei confronti di Guido Rossa pochi mesi dopo. Infatti il 24 gennaio 1979, a Genova, il sindacalista della CGIL, Guido Rossa125, ritenuto responsabile dell’arresto dell’operaio Francesco Berardi, capoturno all’Italsider, sorpreso a depositare volantini con la stella a cinque punte in fabbrica. Nella rivendicazione, le Brigate Rosse resero noto che l’azione era stata concepita come ferimento e che l’uccisione era stata un incidente. Ma questa morte scosse l’opinione pubblica: “era stato colpito un operaio, un sindacalista, un compagno”. I funerali di Rossa, con la loro “imponente” partecipazione, segnarono una distanza ormai “abissale” fra la classe operaia e il partito armato 126. In breve l’organizzazione dovette affrontare uno dei problemi più gravi della sua storia: “un attacco formidabile proveniente dalle sue stesse fila, e che passò alla storia come la stagione dei pentiti” 127. Nel 1980 venne approvata la cosiddetta legge Cossiga, una delle più importanti innovazioni legislative nate in quegli anni per contrastare il fenomeno della lotta armata. Questa norma fu voluta personalmente dal generale Dalla Chiesa e il 29 maggio 1982 trovò una sistemazione definitiva nella legge n. 304. Attraverso l’uso di tale legge: “lo Stato rinuncia, del tutto o in parte, ad esercitare la sua azione punitiva nei confronti dell’autore del reato associativo che «interrompe il vincolo che lo lega ai concorrenti, fornendo informazioni utili sulla struttura e sulla organizzazione dell’associazione o della banda». La natura del contratto di collaborazione prescrive tassativamente che il collaborante operi un netto passaggio di campo sul piano concreto dell’azione militare. L’utilità della collaborazione è misurata, in soldoni, dalla quantità di nomi che egli rivela, dal numero di basi che indica, dalle informazioni sugli organismi e sui ruoli che fornisce, dal disvelamento delle responsabilità su singoli eventi delittuosi” 128.

Nel febbraio 1980 gli uomini di Dalla Chiesa “misero a segno” un colpo importante, forse il più importante di tutta la lotta alle BR: l’arresto di Patrizio Peci, il

125

Guido Rossa (1934-1979) iscritto al PCI, operaio e sindacalista. Francesco Berardi condannato a 4 anni di reclusione, si suicidò in carcere. L’omicidio di Rossa segnò una svolta nel consenso proletario nei confronti delle BR. 126 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., pp. 219-220. 127 Ivi, p. 222. 128 Ivi, p. 223.

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capo della colonna torinese, sebbene in circostanze ancora poco chiare

129

. Il primo

aprile 1980 in carcere, Patrizio Peci “parlò” inaugurando la stagione dei “pentiti”. “Peci fa per le BR – ha affermato Carlo Lucarelli – quello che Tommaso Buscetta farà per la Mafia: rompe il muro del silenzio” 130. Il suo esempio venne seguito anche da Antonio Savasta, capo della colonna romana e da altre decine di militanti. Peci rivelò nomi, indirizzi che portarono ad arresti in tutta Italia. Tra il 1980 e il 1982 le BR subirono una serie di colpi durissimi. Soltanto nell’autunno ci furono circa 800 arresti. A crollare furono intere colonne; i pentiti si rivelarono “un virus mortale per ogni organizzazione segreta” 131. Il “pentimento” di Peci avvenne nel reparto di isolamento del carcere speciale di Cuneo. La crudezza del carcere, l’improvvisa perdita della propria vita di relazione, la paura della violenza furono, sicuramente, fattori che portarono il detenuto ad una condizione di debolezza, tanto che alla fine era pronto a “collaborare”, purché si fosse posta fine a tale condizione. “Non c’era da stupirsi se da un carcere speciale uscisse un pentito o un impiccato o un malato di mente” 132. Fra le indicazioni fornite dall’ex capo della colonna torinese, c’era quella sulla base di via Fracchia a Genova. Fu lì che il 28 marzo 1980, in un conflitto a fuoco con i carabinieri, persero la vita i brigatisti Annamaria Ludman, Riccardo Dura, Piero Panciarelli e Loreno Betassa. Il 30 marzo con una telefonata all’ANSA, veniva fatto trovare il volantino di commemorazione, datato sabato 29 marzo 1980 e firmato dalle Brigate Rosse, in cui veniva descritta l’azione nella quale i loro compagni erano stati “trucidati” dai “mercenari di Dalla Chiesa”. In loro ricordo la Colonna veneta prese il nome di “Annamaria ‘Cecilia’ Ludman” e la Colonna romana quello di Colonna “XXVIII Marzo” 133. Nei primi mesi del 1980 venne colpita la magistratura con due attentati mortali: a Roma il 12 febbraio, poco dopo le 8 del mattino fu assassinato, sulle scale della facoltà di Scienze politiche della Sapienza, Vittorio Bachelet, presidente del Consiglio superiore della Magistratura, con sette proiettili calibro 32 Winchester e il 18 marzo, il quasi direttore generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, Girolamo Minervini, 129

C. Lucarelli, Blu notte. Misteri italiani, 14-01-2009 , http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a160efda-5f99-4e6f-91a16ac455edce94.html#p=0. 130 Ibidem. 131 Ibidem. 132 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 223. 133 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., pp. 225-228.

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“giustiziato” sull’autobus che lo portava al lavoro

134

. Il 12 maggio fu la volta di

Alfredo Albanese, dirigente della DIGOS, ucciso a Mestre mentre si stava occupando dell’organizzazione della riunione dei capi di stato dei Paesi più industrializzati. Il 19 maggio 1980, con l'attentato mortale all'assessore regionale al Bilancio e alla Programmazione, Pino Amato, democristiano, nasceva ufficialmente la Colonna di Napoli 135. “Fu la stagione più cruenta della guerriglia scatenata dalle BR e dalle organizzazioni armate. Un biennio rosso sangue nel quale il Paese continuava a cambiare e ad assistere attonito a nuovi avvenimenti” 136. A mettere in crisi le BR non furono solo i pentiti ma anche le secessioni interne. Per cercare un rimedio il 5 agosto, in provincia di Roma, si riunì la Direzione strategica. Dopo la presa di posizione dei prigionieri del luglio del ’79, che chiedevano le dimissioni dell’Esecutivo, era fondamentale affrontare la questione delle evasioni e, quella operaia, nel tentativo di recuperare il consenso perduto nelle grandi fabbriche. Non fu trovato un accordo e la colonna “Walter Alasia” diede a sua volta le dimissioni dall’Esecutivo. Le differenti posizioni furono addirittura rese pubbliche attraverso la distribuzione di due opuscoli 137. A questi due opuscoli fece seguito nell’ottobre 1980 una risoluzione strategica elaborata dalle BR senza l’apporto del gruppo milanese. Il 12 novembre 1980 la Colonna “Walter Alasia” gestì autonomamente un’azione, l’attentato mortale al dirigente industriale Renato Briano, e con ciò, di fatto, si pose al di fuori del controllo politico dell'Esecutivo. Ci furono tentativi di mediazione ma si rivelarono inutili. A dicembre, con l'Opuscolo n. 10, l'Esecutivo delle BR decretò ufficialmente la separazione organizzativa della Colonna Walter Alasia 138. Il 12 dicembre 1980, a Roma, con il rapimento del giudice Giovanni D'Urso, direttore dell'Ufficio III della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena del ministero della Giustizia, le Brigate Rosse chiedevano la chiusura immediata del carcere dell'Asinara, che era stato tenuto aperto con pochissimi detenuti brigatisti, dopo lo smantellamento della rivolta del 2 novembre 1979. Nell’ambito della stessa campagna

134

Ivi, p. 407. Ivi, p. 228. 136 G. Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico, cit., p. 206. 137 - opuscolo n.9, Grandi Fabbriche, nazionale, 1979. - opuscolo n.9 bis, Fabbriche, Colonna Walter Alasia, Milano 1979. 138 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., pp. 228- 131. 135

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era stato ucciso il già citato generale dei carabinieri Galvaligi durante la rivolta del carcere di Trani. Il sequestro di Giovanni D'Urso si concluse il 15 gennaio 1981 con la liberazione del magistrato e la chiusura del carcere speciale dell'Asinara. L’operazione D’Urso fu un successo per le BR, che ottennero una visibilità propagandistica che solo l’affaire Moro aveva saputo garantire, infatti alla famiglia D’Urso fu concesso di leggere il comunicato brigatista durante la trasmissione televisiva “Tribuna politica”. Queste due azioni, il rapimento del giudice e la rivolta del carcere vennero considerate come le ultime azioni del percorso unitario delle BR, e una svolta nella lotta alla “leadership interna” alle BR di Giovanni Senzani contro Mario Moretti 139. La mattina del 28 maggio 1980 a Milano, Walter Tobagi, trentatré anni, giornalista de “Il Corriere della Sera”, sposato con due figli, venne ucciso da un gruppo “aspirante brigatista” 140 il cui nome era Brigata XXVIII marzo in chiaro riferimento alla strage di via Fracchia. L’operazione venne messa in atto mentre il giornalista usciva di casa tra via Andrea Solari e via Montevideo poco dopo le 11 per raggiungere la sua auto in garage, e fu in quel momento che si avvicinarono due giovani e spararono quattro colpi di pistola. Oggi, mercoledì 28 maggio, un nucleo della brigata 28 marzo ha eliminato il terrorista di Stato Walter Tobagi, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti. Onore ai compagni caduti per il comunismo. Individuare e colpire i tecnici della controguerriglia psicologica. Niente resterà impunito. Unificare il movimento rivoluzionario costruendo il patriota comunista combattente. Per il comunismo Brigata XXVIII MARZO

Ma perché Tobagi fu ucciso? “Due anni prima, il 18 gennaio 1978 i carabinieri Claudio Perosino e Guido Bressan, mentre rientravano in caserma, vennero presi di mira da un fuoco incrociato ma riuscirono a salvarsi buttandosi d’istinto sul fondo della camionetta, riuscendo a dare l’allarme via radio. Un volantino rivendicò l’agguato con la firma inedita FCC141. Marco Barbone, capo della Brigata “XXVIII Marzo”, spiegò perché tale episodio fosse collegato al caso Tobagi: “A proposito dell’azione di Novara, fu proprio dopo la sua attuazione che si parlò per la prima volta della possibilità di compiere 139

Ivi, pp. 233-241. La Brigata XXVIII marzo era aspirante brigatista perché era convinta di poter, con tali azioni, entrare a far parte di diritto delle Brigate Rosse. 141 Formazioni combattenti comuniste. 140

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un’azione contro Tobagi, perché sin da allora lo individuammo come figura di spicco all’interno della corporazione giornalistica. Ovviamente contava anche il fatto che era un giornalista del «Corriere della Sera»” 142.

In un primo momento la brigata aveva rivolto la propria “attenzione” a Giorgio Bocca, ma alla fine la scelta cadde su Tobagi che, occupandosi di terrorismo ed essendo presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, era quasi un “obbiettivo naturale”, anche più facile da colpire 143. “Solo nel 1980 – avrebbe scritto Benedetta Tobagi, figlia di Walter – le varie sigle del terrorismo rosso assassinarono ben ventiquattro persone. […] La Brigata XXVIII Marzo è stata uno dei frutti malati di questa stagione e ne esprime in sommo grado i tratti irrazionali e sconcertanti. Un gruppo raccogliticcio di sei giovanissimi, studenti e disoccupati, quasi di buona famiglia. Tra loro i figli di due noti esponenti del mondo giornalistico ed editoriale. Walter conobbe e frequentò per lavoro Donato Barbone, dirigente editoriale della Sansoni, società affiliata al gruppo Rizzoli, e padre del suo futuro killer” 144 .

Marco Barbone, “killer reo confesso”, dichiarò una finalità intimidatoria e di stampo mafioso dell’attentato: «Il nostro scopo era di fare del vero e proprio terrorismo, cioè di far scaturire in tutti i giornali un clima di intimidazione, di violenza. […] Avevamo scelto questi personaggi [Passalacqua e Tobagi] perché pensavamo fossero più appartenenti a una fascia intermedia, perché colpire il direttore, come avevano fatto le BR, ci sembrava fosse meno congruo rispetto a questo obbiettivo di seminare il terrore nelle redazioni»145. «Sull’uccisione di Walter Tobagi – ha scritto Franco Di Bella – ci sono ancora coni d’ombra, ma forse è meglio che restino tali. Sappiamo chi sono gli esecutori materiali, ma non i mandanti. […] Ho discusso spesso con Dalla Chiesa di molte cose sul caso Tobagi. E, proprio per questo, mi auguro, per il bene del giornalismo italiano, che i mandanti non vengano mai scoperti: avremmo tragiche sorprese» 146. Il 4 aprile 1981, dopo più di dieci anni di latitanza, Mario Moretti venne arrestato. Per le BR fu un durissimo colpo. Fu grazie a Renato Longo, un tossicodipendente di ventisette anni, che la squadra mobile di Pavia riuscì a catturare Moretti, e con Enrico Fenzi, Tiziano Volpi e Silvano Fadda, che nell’aprile ’81 si trovavano a Milano per ricomporre la spaccatura con la colonna “Walter Alasia”. Da

142

P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., p. 232. Ibidem. 144 B. Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore, Torino, Frontiere Einaudi, 2009, p. 125. 145 Ivi, pp. 127-128. 146 Ivi, p. 273. 143

70


questo momento iniziarono ad avanzare due correnti principali in seno alle BR: il “Partito della guerriglia” guidato da Giovanni Senzani, e l’ala militarista, le BR-PCC 147 guidate da Barbara Balzerani, detta “la Primula Rossa” 148. Quindi il fronte brigatista si divise in unità regionali distinte per interessi e obbiettivi. Segnali di divisioni interne emersero dai sequestri Taliercio, Cirillo, Sandrucci e Peci. La colonna veneta e quella romana, al comando di Antonio Savasta e di Barbara Balzerani, che si riconoscevano nel Comitato esecutivo, misero a segno, tra il 20 maggio e il 5 luglio 1981, il rapimento e l’omicidio dell’ingegner Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Mestre. Fu “un autogol clamoroso, visto che la vittima non era affatto, come sostenevano i brigatisti, inviso ai dipendenti del petrolchimico” 149. La colonna milanese “Walter Alasia” il 3 giugno effettuò il sequestro del dirigente dell’Alfa Romeo, Renzo Sandrucci, liberato, il 23 luglio, dopo che l’Alfa revocò le lettere di licenziamento inviate a cinquecento operai; mentre la colonna di Napoli e il “Fronte delle carceri”, facente capo a Giovanni Senzani, rapì l’assessore regionale all’urbanistica democristiano, Ciro Cirillo, dopo aver ucciso l’agente di scorta Luigi Carbone e l’autista Mario Cancello. La prigionia dell’assessore durò 89 giorni e, a differenza del sequestro Moro, la DC scelse di trattare con i terroristi. I soldi del riscatto si trovarono tramite Raffaele Cutolo, il capo della camorra, che però in cambio chiese ed ottenne alcuni favori per il futuro tra i quali sconti di pena per i suoi, perizie psichiatriche e altro. Così il riscatto venne pagato: Senzani intascò su un bus di Roma un miliardo e 450 milioni. Il 24 luglio 1982 Ciro Cirillo fu rilasciato in un palazzo abbandonato in via Stadera a Poggioreale. “Sul fronte cutoliano, nella camorra, per due anni, si scatenò la più violenta guerra della storia, scandita da mille morti all’anno. I rivali di Cutolo videro nel patto stretto dal camorrista con i politici una definitiva minaccia per il loro potere e i loro affari, e partirono all’attacco sterminando sistematicamente gli uomini della nuova camorra organizzata, minacciando i dorotei campani per goderne i favori, assediando gli imprenditori per sciogliere il nodo che li legava a Cutolo” 150 .

Poi, il 16 marzo del 1982, “L’Unità” pubblicò la notizia che, per la liberazione di Cirillo, erano stati coinvolti i vertici dei servizi segreti e il capo della camorra.

147

Brigate Rosse Partito Comunista Combattente. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., pp. 241-243. 149 Ivi, p. 245. 150 Ivi, p. 246. 148

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“Lo scoop de “L’Unità” è l’inizio della più imponente operazione di cancellazione di prove e di morte di testimoni che abbia mai funestato un caso politico-giudiziario. Muoiono infatti i latitanti che trattarono dentro e fuori il carcere per conto di Cutolo. Muoiono gli ufficiali dei servizi segreti che si recarono in carcere da Cutolo per la trattativa. Muore l’avvocato di Cutolo. Muore l’ambasciatore delle Brigate Rosse. Muoiono suicidi i compagni di cella del camorrista. Le Brigate Rosse si incaricarono di ammazzare Antonio Ammaturo che aveva ricostruito la vicenda in un dossier spedito al Viminale, poi scomparso per sempre. La sentenza del processo relativo al caso Cirillo dichiarerà che era stato impossibile accertare la verità” 151.

Poco dopo l’operazione Cirillo, le BR di Senzani attuarono una “vendetta trasversale”, cioè reagirono al tradimento di Patrizio Peci colpendo un suo parente e non attaccando direttamente il pentito

152

. Il 10 giugno 1981 le BR sequestrarono il fratello

di Peci, Roberto, a San Benedetto del Tronto. Lo tennero prigioniero per due mesi e lo processarono “a modo loro”. Il 3 agosto il corpo di Roberto Peci venne ritrovato in una casa diroccata in periferia di Roma

153

. Il sequestro fu scandito da sette comunicati nei

quali Peci fu accusato di aver tradito otto suoi compagni e di aver patteggiato con i carabinieri un arresto del fratello, durante il quale Patrizio avrebbe accettato di tornare in libertà con la promessa di svolgere il ruolo di “talpa” dentro la colonna torinese

154

.

L’interrogatorio al quale venne sottoposto Roberto venne filmato dai suoi carcerieri, Giovanni Senzani e Roberto Buzzati, che freddamente documentarono anche il momento dell’esecuzione, avvenuta con undici colpi di arma da fuoco, mentre risuonavano in sottofondo le note dell’Internazionale. Al momento del ritrovamento indossava ancora ciò che portava al momento del suo rapimento: maglietta, calzoni corti, zoccoli. All’ANSA arrivò la comunicazione dell’avvenuta esecuzione: “la sentenza è stata eseguita. Il corpo si trova a Roma, sull’Appia, nei pressi dell’ippodromo delle Capannelle, sulla destra si trova via di Casal Rotondo, percorrete la strada per qualche centinaio di metri, prendete la stradina sterrata in discesa e arriverete a un gruppo di casette diroccate. In una di queste troverete il corpo di Roberto Peci” 155.

Al suo arrivo, la volante del commissariato di Centocelle trovò il corpo riverso, pieno di sangue, sei bossoli calibro 7,65, un drappo rosso con la stella a cinque punte. Un

151

Ivi, p. 247. C. Lucarelli, Blu notte. Misteri italiani, 14-01-2009 , http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a160efda-5f99-4e6f-91a16ac455edce94.html#p=0. 153 Ibidem. 154 P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., pp. 247-248. 155 Ibidem. 152

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cartello di cartone bianco con una scritta a spray rossa diceva: “Morte ai traditori”. Un sacchettino di plastica per terra con alcuni effetti personali della vittima: la patente, l’orologio, pochi spiccioli. Per terra, il testo di una “Risoluzione strategica” in cui si affermava che “la campagna Peci non è il punto d’arrivo dell’offensiva contro la contraddizione dei traditori” e concludevano che “l’annientamento è l’unico rapporto possibile che intercorre tra proletariato marginale e traditori”. “Probabilmente l’ostaggio non si aspettava di essere ucciso: aveva scritto una lettera al fratello, confermando i racconti fatti ai carcerieri, e chiedendo che Patrizio confermasse la storia del doppio arresto. Probabilmente gli avevano fatto credere che il viaggio in programma per il giorno dopo era verso la libertà, non verso la morte. Roberto aveva le mani legate con una catena, gli occhi, le orecchie, la bocca chiusi con garza e cerotto adesivo e una benda stretta attorno agli occhi. Lo fecero scendere dall’auto e lo condussero in una casetta in rovina, una costruzione senza più il tetto, invasa dalle erbacce. Dopo averlo fatto addossare al muro, spararono quasi a bruciapelo. Peci doveva aver capito, perché cercò di proteggersi istintivamente come risultava da alcuni proiettili, quindi crollò a terra, reclinando la testa verso destra. Furono sparati undici colpi” 156 .

«Nel maggio del 1981 Senzani – ha ricordato Roberto Buzzati nel suo memoriale – ci disse che avremmo dovuto sequestrare Roberto Peci. All’inizio rimasi perplesso, mi sembrava una sorta di rappresaglia nei confronti di Patrizio, una sterile vendetta, contraria all’etica del rivoluzionario comunista. Ma Senzani ci disse che le cose non stavano come sembrava e che l’organizzazione attraverso fonti assolutamente certe aveva scoperto che il vero traditore era Roberto. Alla fine fummo tutti convinti delle sue parole. Siamo in pochi a gestire la campagna Peci: Ennio di Rocco, Stefano Petrella, Natalia Ligas e io naturalmente. Il nostro capo è il professore Giovanni Senzani. Il nostro unico obbiettivo era di dimostrare agli italiani che il pentimento di Patrizio Peci era un’invenzione dello Stato, una perfida strategia per scoraggiare i militanti a distruggere l’immagine delle BR» 157. Torino, 12 giugno 1981, 48 ore dopo il sequestro di Roberto Peci, al processo contro le BR, Maria Teresa Roppoli, ex fidanzata di Patrizio Peci, lesse un comunicato nel quale affermò che il prigioniero Roberto Peci avrebbe subìto un processo proletario con l’accusa di essere “uno sbirro e una spia”. Il giorno dopo, 13 giugno, sarebbe stato 156

Ivi, p.249. G. Minoli, La Storia Siamo Noi, L’Infame e suo fratello, http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-7f0fadd3-f5f2-4d9c-bb5b7cea0b2ffc4f.html#p=6 157

73


diffuso il primo comunicato del sequestro. A decidere della sorte dell’ostaggio sarebbero stati i brigatisti sotto processo a Torino, i compagni detenuti, i proletari e i disoccupati organizzati, i comitati di fabbrica di Napoli, Roma, Porto Marghera e Torino 158. In seguito al rapimento Peci, le BR prepararono il sequestro di un militare, il generale americano di stanza nella base di Verona, James Lee Dozier, cinquantacinque anni, sottocapo delle forze terrestri della NATO del sudeuropa. L’ANSA diede la notizia della scomparsa del generale il 17 dicembre. Presto le BR avrebbero dato la conferma del rapimento. L’operazione si svolse con estrema facilità: alcuni brigatisti travestiti da idraulici si introdussero nell’abitazione del generale e dopo averlo rapito lo trasferirono a Padova. Il colpo fu accusato oltre che dall’Italia anche dagli Stati Uniti, il cui presidente Reagan espresse tutta la sua indignazione. Il rapimento Dozier doveva servire a ricomporre le divisioni interne e al recupero di una credibilità ormai in fase calante. I brigatisti tennero prigioniero il generale per sei settimane senza fare nulla, a parte un breve interrogatorio e l’invio di alcuni comunicati. Dietro “un’apparente immobilità” si scatenò una caccia al generale con indagini segretissime e coinvolgimenti di servizi segreti italiani e americani. Il 28 gennaio 1982, quarantadue giorni dopo il rapimento, Dozier venne liberato da un commando dei NOCS (Nuclei operativi centrali di sicurezza) guidato dal comandante Salvatore Genova. Da tre giorni una cinquantina di agenti in borghese stavano tenendo sotto controllo il condominio della Guizza, nella periferia sudovest della città. In seguito alla collaborazione di tre dei

cinque brigatisti catturati, e in

particolare di Antonio Savasta, nei giorni successivi vennero effettuati decine di arresti in tutta Italia. Dopo il fallimento della “campagna Dozier” le BR emanarono un “laconico” comunicato, nel quale accennavano alla necessità di una “ritirata strategica in presenza di una controffensiva dello Stato senza precedenti” 159. Da quel momento, le Brigate Rosse non esistevano più: “strangolate” da arresti e pentimenti. Dalle BR unitarie erano nate quindi le BR-PCC, che si proclamarono come le legittime eredi delle BR originarie. Per un anno le BR restarono in silenzio. Poi tornarono a colpire: adesso nel loro mirino vi erano “i cervelli”, i tecnici, l’anello di congiunzione cioè tra lo Stato e la 158 159

Ibidem. P. Casamassima, Brigate Rosse, la vera storia, cit., pp. 254-259.

74


Società, tra le Istituzioni e il mondo economico. La prima azione condotta dalle BRPCC all’interno della fase di “ritirata strategica”, sotto la guida di Barbara Balzerani, fu il ferimento a Roma, il 3 giugno 1983, di Gino Giugni, un intellettuale, estensore dello statuto dei lavoratori e dirigente del PSI. Tale azione era diretta contro la politica economica del Governo. Nel frattempo tutte le altre organizzazioni combattenti, compreso il Partito Guerriglia di Senzani, erano state smantellate. Il 15 febbraio 1984 le BR-PCC uccisero a Roma il diplomatico USA Leamon Ray Hunt, responsabile della forza internazionale del Sinai a

seguito

del

conflitto

israelo-egiziano. L’azione venne rivendicata congiuntivamente dai brigatisti e dalla FARL (Fazioni armate rivoluzionarie libanesi). Il 27 marzo 1985 venne freddato all’Università di Roma l’economista della CISL, esperto di problemi di lavoro, Ezio Tarantelli: le BR-PCC lasciarono sul cadavere “la risoluzione numero venti”. Nel volantino di rivendicazione descrivevano la vittima come uno dei massimi responsabili dell’ “attacco al salario operaio” e alla storia delle conquiste politiche e materiali del proletariato del nostro Paese. Era “colpevole – secondo le BR – di aver applicato in Italia le tecniche dello sfruttamento capitalistico apprese negli Stati Uniti presso il famoso Institute of Technology Massachussetts, definito “una delle centrali ai massimi livelli dello sfruttamento e dell’oppressione dell’imperialismo occidentali di tre quarti della popolazione” 160. Il 19 giugno le BR-PCC subirono un colpo mortale: Barbara Balzerani, la figura più rappresentativa della formazione, venne arrestata mentre usciva da una abitazione in via Galli della Mantica ad Ostia. Durante il processo si dichiarò “irriducibile” 161. Così ebbe fine questa fase delle Brigate Rosse: i capi storici, in diverse fasi, dichiararono finita l’esperienza delle BR.

160 161

Ivi, p. 262. Ivi, p. 263.

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Ringraziamenti Scrivere questa tesi è stata, nonostante alcune difficoltà, una bella esperienza. L’interesse per gli argomenti affrontati non si è spento con la fine del lavoro. Per prima cosa ringrazio mio fratello Angelo che ha contribuito alla scelta dell’argomento della tesi. Un grazie importante va a mia madre e a mio padre che non mi hanno mai fatto mancare nulla e hanno sperato insieme a me fino alla fine. E con loro un grazie a Giulio, alle mie cugine speciali, al resto della mia famiglia, alle mie amiche e alle mie due colleghe Maria Antonietta e Nicoletta che ho stressato mattina e sera. GRAZIE DAVVERO. Ringrazio, infine, la mia relatrice, la professoressa Giuseppina Fois che, con pazienza e professionalità, mi ha permesso di portare a termine questo lavoro.

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