Losservazione della comunicazione non verbale. Un'indagine nei diversi stili di attaccamento

Page 1

A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

CORSO

DI

LAUREA

IN

S C I E N ZE

D E L L ’E D U C A ZI ON E E D E L L A

F OR M A ZI O N E

L’OSSERVAZIONE DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE UN’INDAGINE NEI DIVERSI STILI DI ATTACCAMENTO

Relatore: PROF. ARCANGELO UCCULA

Tesi di Laurea di: DAVIDE PALA

ANNO ACCADEMICO 2010/2011


INDICE

Introduzione

3

1. Introduzione allo studio della Comunicazione Non Verbale

4

2. Classificazione e funzioni dei segnali non verbali

8

2.1.

L'aspetto esteriore

2.2.

Il comportamento spaziale

12

2.3.

Il comportamento cinesico

15

2.4.

I segnali vocali

21

2.5.

Il volto

28

9

3. La teoria dell'attaccamento

37

3.1.

Le fasi dell'attaccamento

40

3.2.

La Strange Situation

43

3.3.

I differenti stili di attaccamento

46

3.4.

La distribuzione degli stili di attaccamento

50

4. CNV e PBI: un'indagine tra comunicazione non verbale e stili di attaccamento

52

4.1.

Il test del PBI

53

4.2.

Il test di valutazione della CNV

55

4.3.

L'analisi dei dati

58

5. Conclusioni

64

Bibliografia

65

Allegato

72

2


Introduzione

In questa tesi, di tipo sperimentale, verranno analizzati gli aspetti principali della comunicazione non verbale, con particolare cura all'analisi dei diversi segnali non verbali prodotti dal nostro corpo, nel tentativo di far luce su quel “vocabolario” non verbale che quotidianamente utilizziamo, spesso senza rendercene conto. Successivamente verrà descritta la teoria dell'attaccamento, dall'ormai celebre psicoanalista britannico John Bowlby, al fine di analizzare quei tratti psicologici, che sin dai primi anni di vita si strutturano in un individuo, in base al tipo di relazione intercorsa con la propria figura di accudimento. La seconda parte della ricerca, a partire dal terzo capitolo, riguarderà invece l'analisi dei dati ottenuti grazie alla somministrazione di due tipi di test. Il primo, detto test del PBI, servito per fornirci i profili psicologici degli individui sottoposti al test, sviluppato sulla teoria dell'attaccamento sopra citata, il quale verrà confrontato con i risultati ottenuti con il secondo tipo di test, appositamente realizzato per questa indagine, il quale servirà invece per raccogliere informazioni utili riguardo l'interpretazione della comunicazione non verbale, da parte di questi stessi soggetti. Lo scopo finale della ricerca è quello di verificare se per un differente profilo psicologico, possa corrispondere una differente interpretazione dei segnali non verbali di una comunicazione, cosi da osservare fino a che punto la soggettività di un individuo possa influire sulla visione del mondo circostante, anche per un linguaggio da molti ritenuto universale, quello non verbale.

3


1. Introduzione allo studio della Comunicazione Non Verbale Due individui possono stare in silenzio, eppure questo non basta per interrompere la comunicazione tra di loro: “Non si può non comunicare!” (Watzlawick, Beavin, e Jackson, 1967)

Lo studio della Comunicazione Non Verbale o CNV, appare tanto interessante quanto complesso. E' difficile infatti riuscire ad identificare e codificare un linguaggio che non fa uso della parola e che si presenta come un universo molto vasto e articolato. In effetti della CNV non esiste un vero e proprio codice condiviso come il linguaggio parlato, con regole grammaticali e sintattiche, alle quali tutti possono fare riferimento per una corretta costruzione o decodificazione di un messaggio.

La stessa definizione “comunicazione non verbale” in realtà, è una falsa definizione, in quanto si tenta di definire questo tipo di comunicazione come semplice negazione di quella verbale. Questo, per alcuni aspetti, appare riduttivo e fuorviante e non a caso alcuni autori come ad esempio Argyle (1975), preferiscono definire la CNV con il nome di Bodily Communication ovvero “Linguaggio Del Corpo”, il che rende senz'altro meglio l'idea. Se per comunicazione verbale infatti, intendiamo semplicemente tutta quella comunicazione che fa uso del verbo, sia in forma orale che scritta, altrettanto velocemente non possiamo pretendere di identificare la CNV.

E' indubbio che l'acquisizione del linguaggio verbale rappresenta, dal punto di vista comunicativo, la caratteristica che più differenzia l'essere umano dagli altri esseri viventi. I mammiferi, anche i più evoluti, interagiscono e comunicano tra di loro esclusivamente con il comportamento, mediante cioè segnali non verbali, e lo stesso avviene anche per l'uomo nei primi mesi di vita. Lo stesso Charles Darwin, nel 1872, pubblicava “L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali”, il cui volume discuteva le origini biologiche e innate della CNV come 4


comportamenti adattivi funzionali alla storia evolutiva dell'uomo. Sarebbe tuttavia un errore interpretativo, ritenere che i linguaggio verbale abbia soppiantato evolutivamente la CNV. Nell'uomo, infatti, la capacità di comunicazione non verbale non è affatto decaduta nei confronti con le altre specie ma bensì aumenta, da potersi ritenere superiore per potenzialità espressiva e capacità significativa. Nel fare un paragone tra i due stili comunicazionali (verbale e non verbale), sarebbe più logico considerare il linguaggio verbale come un'opzione comunicativa in più, la cui funzione è quella di integrare e non sostituire quelle comportamentali della CNV.

Per dare qualche numero a riguardo, verrà citato di seguito uno studio condotto da Albert Mehrabian nel 1972 ("Non-verbal communication") che rimane valido ancora oggi, secondo il quale risulta che in uno scambio vocale tra due individui, bel il 93% del messaggio recepito sia ti tipo non verbale, a dispetto di solo un 7% di messaggio verbale. Le percentuali di messaggio veicolato, tra verbale e non verbale, sono le seguenti:

• il 55% dai movimenti del corpo (soprattutto espressioni facciali) • il 38% dall'aspetto vocale o paraverbale (la voce: volume, tono, ritmo) • il 7% dall'aspetto verbale (le parole)

Quindi il 93% del significato dei nostri messaggi è veicolato dal linguaggio non verbale! Questo non significa che le parole siano da considerarsi poco importanti nel determinare l'efficacia della comunicazione rispetto agli altri elementi non verbali. Lo studio evidenzia che se il 55% di linguaggio non verbale non è adeguato, nessuno è disposto a prestare attenzione al restante 45%, e anche qualora qualcuno si dimostri attento, se il 38% (il modo in cui parliamo) lo induce a perdere interesse, allora non presta attenzione neppure al 7% (le parole effettivamente pronunciate). Perché la comunicazione nella sua totalità sia efficace, è dunque necessario che i segnali verbali e quelli non verbali, siano 5


coerenti l'uno rispetto all'altro, altrimenti ciò che viene detto non risulta credibile. Questi numeri sono senza dubbio importanti, e ci invitano ad una riflessione, visto che comunemente si ha l'abitudine di pensare il contenuto verbale, come superiore di quello

non

verbale,

nella capacità di

comunicare un

messaggio.

Approssimando, si potrebbe dire che il linguaggio verbale sia più idoneo per lo scambio di informazioni a livello logico, mentre quello non verbale sia da considerarsi più idoneo nell'espressione di emozioni e stati d'animo, anche se spesso, come vedremo nei capitoli successivi, risulta riduttivo analizzare gli aspetti della CNV considerandoli separatamente da quelli della comunicazione verbale. I due “livelli” di comunicazione, sono infatti molto spesso compresenti e per una giusta comprensione del significato, si rende necessaria un'analisi contemporanea dei due “linguaggi”.

D'altra parte viene da chiedersi cosa sarebbe l'uomo se si esprimesse soltanto attraverso il linguaggio verbale, probabilmente assomiglierebbe più a una macchina che a un essere umano. Il linguaggio verbale infatti, è di per se un semplice codice arbitrario, cioè un sistema di segni tenuto assieme da un accordo sociale: “la lingua, (intesa come codice di regole e di strutture grammaticali) esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto tra i membri di una comunità” (De Saussure, 1978).

La CNV invece ha caratteristiche di arbitraria molto ridotte a confronto, ciò significa che esiste un rapporto di analogia tra i gesti e il loro significato, che non deriva da convenzioni o abitudini sociali ma da una connessione diretta con ciò che rappresenta. Non è, in sostanza, stata arbitrariamente creata dalla coscienza dell'uomo e questo rende il linguaggio non verbale una lingua, per certi aspetti, universale quanto misteriosa. Se vediamo una persona imbronciata, l'espressione del suo volto ci comunica immediatamente il suo stato d'animo a prescindere da quale sia la sua lingua (verbale) o cultura di appartenenza. Questo, oltre ad essere un chiaro sintomo di universalità del linguaggio non verbale, ci fa riflettere anche su un'altra importante 6


caratteristica della CNV, ovvero la sincerità riguardo il messaggio inviato. In questo caso, infatti, la velocità con cui avviene l'espressione di uno stato d'animo, ci fa intuire come a livello non verbale sia molto difficile intervenire per modificare arbitrariamente il messaggio. Alcune informazioni infatti, specie quelle sullo stato emotivo, “filtrano” all'esterno scavalcando le censure e i controlli operati dalla coscienza. Questo spiega come, con il linguaggio non verbale, sia molto difficile mentire ed intervenire su manifestazioni espressive che nascono a livello istintivo ed inconscio. Alle caratteristiche di universalità e sincerità, va a sommarsi quella che chiamerò caratteristica di continuità, citata in apertura con una frase di Paul Watzlawick: non si può non comunicare. Questa affermazione, definita anche come “primo assioma della comunicazione”, fa implicitamente riferimento alla CNV e al suo continuo manifestarsi. E' infatti impossibile sospendere l'evento comunicativo a livello non verbale: ad un'interruzione di parlato non corrisponderà un'interruzione della CNV. Spesso anzi, proprio il silenzio, come si vedrà nel secondo capitolo, risulta essere uno dei momenti più comunicativi.

Come è stato sottolineato da diversi studiosi della CNV, sia in trattati (come ad esempio Argyle, 1975) che in approfondimenti specifici di psicologia sociale (ad esempio DePaulo e Friedman, 1998), non esiste una vera e propria teoria generale della CNV o un'unica disciplina che si occupi o si sia occupata dello studio dei suoi aspetti e delle sue funzioni. Lo studio della CNV ha, infatti, origini e radici diverse, che si ritrovano in varie discipline scientifiche le quali, nel corso del loro sviluppo, si sono interessate dello studio dell'uomo e delle sue comunicazioni e relazioni.

Nel capitolo successivo, sfruttando classificazioni già esistenti e diversi studi di numerosi autori, tenteremo di analizzare la CNV classificando i vari messaggi non verbali che il nostro corpo e il nostro comportamento può produrre, allo scopo di aiutarci a chiarire meglio il complesso articolarsi di questo linguaggio.

7


2. Classificazione e funzioni dei segnali non verbali Come già accennato sopra, non è semplice individuare e classificare l'insieme dei segnali non verbali per ricavarne un “vocabolario” del linguaggio non verbale. Le caratteristiche non verbali della comunicazione infatti sono insite nelle interazioni della vita quotidiana ed il loro uso è cosi frequente, naturale e spontaneo che risulta difficile essere pienamente consapevoli della loro funzione e del loro significato.

Tuttavia esistono diverse classificazioni dei segnali non verbali prodotti dal corpo umano, le quali variano in base al tipo di approccio che i diversi autori hanno preferito nelle loro ricerche. La classificazione proposta di seguito, prende spunto da ricerche svolte da diversi autori, tra i quali Ekman e Friesen (1969) e la più classica di Argyle (1974). Lo scopo di questa classificazione, non facendo riferimento ad un approccio in particolare, è quello di dare una descrizione sommaria dei diversi messaggi non verbali. Procedendo dall'alto verso il basso nella tabella sotto si parte dal più generale dei messaggi, al più particolare, ovvero dai segnali più manifesti, come l'aspetto esteriore ed il comportamento spaziale, a quelli che esprimono più intensità comunicativa, i quali richiedono una certa vicinanza con l'interlocutore, quali espressioni del volto e segnali vocali, questi ultimi detti anche paraverbali.

Una classificazione delle CNV Tabella 1. Conformazione fisica Abbigliamento

Aspetto esteriore

Distanza interpersonale Contatto corporeo Orientazione 8


Comportamento spaziale

Postura Movimenti di busto e gambe Gesti delle mani

Comportamento cinesico

Movimenti del capo Sguardo e contatto visivo Espressioni del volto

Volto

Segnali vocali verbali Segnali vocali non verbali

Segnali vocali

Silenzio

Fonte: adattata da Mastronardi (1998)

Vedremo ora di analizzare uno per uno tutti gli aspetti appena elencati cercando di tracciarne le caratteristiche principali, utilizzando anche alcune ricerche scientifiche che hanno aiutato ad approfondirne la conoscenza.

2.1.

L'Aspetto esteriore

L'aspetto esteriore viene incluso nella classificazione della CNV in quanto fornisce una serie di informazioni importanti riguardo gli l'individui. Comprende diversi elementi definiti “staticiâ€? da Cook (1973), ovvero elementi che all'interno di un'interazione non possono essere modificabili nel breve termine, e possono essere riassunti in due principali caratteristiche che sono: la conformazione fisica e l'abbigliamento. La prima riguarda tutto ciò che è costituzionale del fisico della persona: la corporatura, la forma del volto, il colore degli occhi e della pelle e ci aiuta a 9


definire nell'immediato i tratti caratteristici e generali di una persona, quali il genere, l'età, lo stato di salute, il gruppo etnico e altro ancora. E' facile intuire come questi elementi costituzionali dell'essere umano siano difficilmente modificabili durante un'interazione e perciò definiti statici. Fanno parte della conformazione fisica anche i lineamenti del volto, da non confondersi con le espressioni del volto, le quali invece sono molto mutevoli e delle quali ci occuperemo successivamente. Restano comunque delle informazioni che per quanto utili, danno solo una conoscenza superficiale della persona, nonostante esistano diverse discipline pseudoscientifiche quali la Fisiognomica, che vide come uno dei principali esponenti il pastore svizzero Johann Kaspar Lavater, il cui saggio sulla fisiognomica fu pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1772 e divenne subito popolare. Questa disciplina pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto facendo riferimento ai lineamenti ed alle espressioni del volto. Ancora oggi nessuna ricerca scientifica ha dimostrato la validità di tali asserzioni, anche se probabilmente sarà capitato a chiunque di basarsi su determinati aspetti del volto per trarre veloci conclusioni riguardo la psicologia e la morale di qualcuno. Gli aspetti del volto legati ad alcuni tratti della personalità comunque continuano ad essere un argomento di interesse per diversi ricercatori che tentano di definire un legame tra i due aspetti o se non altro di definire in che modo questa possibile corrispondenza venga percepita dagli individui. Cunningham, Barbee e Pike (1990), hanno trovato, ad esempio, che gli uomini considerati più attraenti dalle donne sono quelli con occhi grandi, zigomi prominenti e mento largo, segnali questi ritenuti steriotipici di maturità. Mentre gli uomini considerano più attraenti le donne con gli occhi grandi, naso e mento piccoli, ma anche con zigomi prominenti, guance scavate, sopracciglia arcuate, pupille grandi e ampio sorriso. Queste caratteristiche del volto sono risultate indicatori di tratti di personalità come: l'inclinazione altruistica, l'interesse riproduttivo e un'attitudine per l'allevamento dei figli.

L'abbigliamento, invece, è la componente più mutevole dell'aspetto esteriore, 10


dunque un elemento della comunicazione “dinamico” e comprende, oltre agli abiti, anche il trucco, l'acconciatura, gli accessori, gli oggetti posseduti e i segnali di status symbol (Ricci Bitti, Caterina, 1995). Viene considerato come il canale principale di presentazione di sé, soprattutto nel periodo adolescenziale, dove rappresenta anche uno strumento di socializzazione, di definizione delle appartenenze di gruppo e dunque dell'identità sociale. L'aspetto comunicativo dall'abbigliamento secondo Stone (1970), segue un percorso di sviluppo in ogni individuo, partendo dall'infanzia dove attraverso il modo di vestire i bambini ricevono da parte dei genitori una preciso ruolo sessuale, per poi proseguire nell'adolescenza, dove invece inizia ad esservi una scelta attiva dell'abito sempre su modelli offerti dal mondo degli adulti o dai media, per poi raggiungere una fase finale di costruzione e codificazione dell'apparenza di sé, che tutti possono riconoscere e utilizzare per individuare appartenenze sociali o identità individuali. Uno degli esempi più eclatanti di quanto appena descritto, è l'utilizzo dell'abito “standardizzato”, ovvero le uniformi, che gli individui spesso utilizzano per comunicare una posizione sociale, di potere, subordinazione o uguaglianza rispetto ad altri individui.

Le funzioni principali dell'abbigliamento e degli accessori, secondo Bonaiuto, sono infatti quelle di aiutare a negoziare le proprie identità con gli altri oltre che aiutare a definire le situazioni e i contesti dell'interazione. L'abbigliamento, dunque, influenza l'immagine percepita degli altri e non solo alla prima impressione: alcune ricerche hanno dimostrato, infatti, che taluni aspetti dell'impressione iniziale persistono nel tempo, anche dopo il persistere dell'interazione tra gli stessi individui. Vi è un altro fenomeno inoltre che influenza il modo di vestire stagionalmente, specie nel mondo occidentale: la moda. E' un fenomeno questo socioculturale molto importante che vede come caratteristica principale la ricerca di costumi che accomunino le persone all'interno di una comunità o cultura. Per certi versi può essere ritenuto anche un fenomeno psicologico-sociale, infatti all'interno delle 11


relazioni interpersonali detiene una funzione comunicativa, in quanto dal punto di vista individuale, dà la possibilità alle persone di poter comunicare la propria identità di individuo che essendo “al passo con i tempi” si mostra essere partecipe della vita sociale e capace di interpretarne le variazioni ed i cambiamenti.

2.2.

Comportamento spaziale

Come è noto ogni corpo occupa e si muove in uno spazio assumendo una certa posizione rispetto agli oggetti e alle persone che lo circondano. Studiare i movimenti del corpo all'interno di un ambiente e le distanze che quest'ultimo assume dagli altri può aiutare a comprendere alcuni aspetti della personalità, stati emotivi e altre importanti caratteristiche quali atteggiamenti interpersonali, norme, valori ecc. Gli elementi definiti nella tabella 1, che compongono il comportamento spaziale sono: la distanza interpersonale, il contatto corporeo, l'orientazione e la postura, definiti da Kendon (1973) come “configurazione spaziale”.

La distanza interpersonale identifica l'intimità del rapporto tra gli interlocutori, le relazioni di dominanza e i ruoli sociali. Hall (1968) è il primo a introdurre il termine di “prossemica”, definendola appunto come lo studio dell'uso che gli individui fanno dello spazio sociale e personale e

distingue quattro tipi di

distanza interpersonale ovvero la distanza che la persona mette tra se e gli altri. Secondo Hall il confine dell'individuo non corrisponde a quello del proprio corpo ma è come se esistesse intorno a lui una bolla invisibile detta “spazio personale” nella quale non è gradita un'intrusione altrui. É dunque il variare della distanza interpersonale durante l'interazione che può fornire importanti informazioni riguardo le intenzioni degli individui. I quattro tipi di distanza interpersonale individuati da Hall fanno riferimento ai comportamenti spaziali nei nordamericani e logicamente non sono distanze da ritenersi universali, come fa notare lo stesso Hall infatti, sono spesso dettati da differenze culturali e da caratteristiche socio12


ambientali del contesto in cui avviene l'interazione. Possono esistere infatti popoli che amano maggiormente il contatto fisico rispetto ad altri, come ad esempio gli arabi paragonati ai popoli anglosassoni.

Il contatto fisico o corporeo viene definito da Anolli (2002) con il nome di “sistema aptico”. Esistono diversi tipi di contatto corporeo che possono variare a seconda del grado di intimità, del luogo pubblico o privato, delle differenze interculturali. Si può toccare o essere toccati, dunque si può esplorare attraverso il contatto o ricevere dall'interlocutore un determinato messaggio. Nelle interazioni possono quindi esserci contatti sia di tipo reciproco come ad esempio stringersi la mano, sia di tipo individuale come ad esempio poggiare un braccio sulle spalle di qualcun altro il che denota un rapporto tra gli individui di tipo asimmetrico. Esistono inoltre zone del corpo il cui contatto è pressoché permesso a chiunque, ed altre invece considerate accessibili solo da individui con cui si ha una relazione intima, o da specifici professionisti come ad esempio medici, fisioterapisti, massaggiatori ecc. Rifiutare invece un contatto corporeo con un altra persona intenzionata ad instaurarlo, indica chiaramente a livello non verbale l'intenzione, da parte di chi lo rifiuta, di non cambiare il livello di confidenza tra gli interlocutori.

L'orientazione è il modo di orientarsi delle persone l'una rispetto all'altra (Ricci, Bitti, Zani, 1983), questo a prescindere dalla posizione, in piedi o seduta, assunta dagli interlocutori. Come il contatto corporeo, è un comportamento spaziale, la cui funzione principale è quella di comunicare le intenzioni relazionali e gli atteggiamenti interpersonali. In un interazione tra due persone (diadica), esistono principalmente tre tipi di orientazione: l'orientazione “faccia a faccia”, ovvero uno di fronte all'altro, “inclinata”, ad esempio a 90°, come persone sedute ad un tavolo su due lati contigui, o “fianco a fianco”. Varie ricerche di etologia hanno mostrato che negli animali la posizione uno di fronte all'altro, è caratteristica di situazioni di sfida e scontro; negli umani può invece essere anche una posizione di contatto e intimità, come nella stretta di 13


mano, nell'abbraccio o in atteggiamenti amorosi. Tuttavia, si è visto che nel corso di colloqui tra persone non in intimità tra di loro, gli attriti e i conflitti sono più frequenti se esse sono disposte faccia a faccia, mentre si riducono sensibilmente con la posizione a 90°. Delle tre, la posizione fianco a fianco, rappresenta la più pacifica ma anche la meno interattiva. Sul piano relazionale questa posizione comunica un messaggio simbolico molto chiaro: siamo dalla stessa parte, cosi simili che si riduce al minimo il bisogno di comunicare, e se lo si fa è più per confermare la propria affinità che non per discuterne. L'aspetto dell'orientazione appare rilevante anche in interazioni tra più di due persone. In questi casi orientarsi verso un interlocutore in particolare è sintomo di interesse. Solitamente un individuo che si trova ad interagire con più persone tenderà a disporsi in una posizione mediana, che gli consenta di mantenere una buona comunicazione con tutti.

Se l'orientazione riguarda l'angolazione di un corpo rispetto a un altro, la postura va intesa come il modo in cui le diverse parti del corpo sono disposte tra loro. Si parlerà pertanto di postura in piedi o seduta, a gambe divaricate o incrociate, col busto eretto o inclinato (di fianco, in avanti, indietro). Rientra nel concetto di postura anche il modo di camminare, di muoversi ecc. Mehrabian (1972) ha trovato che il significato di postura si delinea lungo le dimensioni di dominanza-sottomissione e rilassamento-tensione. Le sue ricerche sulla postura in ambienti pubblici mostrano come vi sia una relazione tra postura e attività svolta. Ad esempio, gli oratori assumono spesso posture erette, ma non necessariamente rigide, come invece mostrano i commercianti nei confronti dei loro clienti. Ekman e Friesen (1969), studiando la postura in relazione allo stato emotivo, sostengono che sia indicativa dell'intensità dell'emozione provata più che dal tipo di emozione. Sono convinti inoltre del fatto che la postura sarebbe uno dei segnali di comunicazione non verbale tra i più spontanei, ovvero meno sottoposti ad un controllo volontario e cosciente. Una ricerca svolta da Bull (1987), nella quale veniva analizzata la postura nel 14


contesto dei colloqui clinici, dimostrò una correlazione positiva tra determinate posture e stati emotivi: ad esempio, la tristezza era indicata dal tenere la testa bassa e la noia era riconoscibile attraverso il capo appoggiato su una mano. A sostegno di queste argomentazioni possiamo notare come la postura sia strettamente legata al tono muscolare, il quale è un mezzo di espressione e comunicazione di stati emotivi: quando siamo imbarazzati o in ansia abitualmente diciamo di essere “in tensione” o che ci sentiamo “bloccati” e a ciò fa realmente riscontro uno stato generale di tensione muscolare. Si può notare dunque come postura, tono muscolare, vissuto psichico e attività cognitiva si influenzino reciprocamente. Oltre agli stati emotivi, le abitudini posturali di un individuo possono fornire importanti informazioni riguardo la sua personalità: il modo di camminare, di sedersi, di cambiare posizione, in presenza di altri denota il grado di autostima e estroversione in modo spesso assai preciso, anche perché, come detto prima, la postura è l'aspetto comportamentale meno controllabile, in quanto legato ad automatismi motori sedimentati negli anni che riflettono in buona parte anche i vissuti sociali e emozionali dell'individuo.

2.3.

Il comportamento cinesico

Detto anche cinesica, riguarda i movimenti del corpo di busto e gambe e i gesti delle mani che comprendono anche i movimenti delle braccia e in generale tutta l'attività motoria corporea, che più o meno direttamente ha un significato espressivo in chiave dinamica. La danza, ad esempio, rappresenta nelle diverse culture, una ritualizzazione di determinati comportamenti sociali rilevanti (il corteggiamento, la caccia, l'atto sessuale ecc.) espressi mediante i movimenti significativi del corpo. Questi movimenti, utilizzati mentre si parla, comunicano svariate informazioni soprattutto relative ai contenuti verbali e tra i segnali non verbali sono da ritenersi come quelli maggiormente influenzati dal contesto sociale e dalla cultura. Non è 15


semplice riuscire a classificare tutti questi gesti e movimenti anche se diversi studiosi tra cui uno dei principali Birdwhistell (1970), al quale si deve la prima introduzione del termine cinesica, hanno creato diverse classificazioni. E' stato lui infatti a individuare e descrivere una serie di unità di comportamento che ha chiamato “cinemi”, i quali comprendono i movimenti di tutto il corpo. I movimenti del busto e delle gambe sono una categoria poco studiata nell'ambito della CNV. Il metodo di Birdwhistell consisteva dopo una breve analisi di sequenze filmate nello studio particolareggiato dei cinemi ai quali veniva attribuito un significato comportamentale. Il risultato di queste osservazioni è stato un vocabolario di sessanta cinemi utilizzando come campione soggetti nordamericani e che comprende tutte le zone del corpo.

I gesti delle mani e delle braccia sono movimenti generalmente legati al linguaggio parlato e quelli che accompagnano il discorso in modo più evidente. Di conseguenza, anche in questo caso, tali gesti sono influenzati dalle regole culturali proprie della lingua e della cultura di riferimento dell'individuo. Diversi autori hanno tentato una classificazione di tali gesti, alcuni dei quali ritengono siano gesti principalmente intenzionali come Morris (1990), ed altri invece come Ekmann e Friesen che sostengono meno la tesi dell'intenzionalità poiché nell'interazione, l'emittente può produrre un comportamento non verbale formato da gesti indipendentemente dalla sua consapevolezza o intenzione. In base a tre criteri di classificazione che sono l'uso, l'origine e la codificazione del gesto, questi due autori propongono cinque principali categorie di gesti: i gesti emblematici, essenzialmente gesti convenzionali e molto semplici da intuire, come agitare la mano per salutare o alzare il pollice verso l'alto in segno di conferma positiva. Stessi gesti definiti “simbolici” da Ricci Bitti (1987) o “autonomi” da Kendon (1983); i gesti illustratori, sono strettamente legati al contenuto verbale e lo accompagnano nel tentativo, attraverso la simulazione, di chiarirne l'informazione, come ad esempio riprodurre con le mani la forma di un oggetto che si sta tentando di descrivere a livello verbale. Vengono anche definiti rapresentational gestures da McNeill (1992) o gesticulations da Kendon; i segni 16


regolatori, spesso indicati anche come segnali di attenzione o di feedback, sono tutti quei piccoli gesti o micromovimenti non solo delle mani, che accompagnano la conversazione con il compito di controllarne il flusso e modificarne l'andamento;

le

espressioni

dell'emozione,

le

quali

trovano

maggiore

manifestazione nel volto più che nelle mani ed esprimono le emozioni primarie e in fine i gesti adattatori. Questi ultimi sono per lo più appresi durante l'infanzia e si manifestano principalmente in maniera inconsapevole. Si dividono in tre differenti tipologie: i gesti che riguardano il contatto di una parte del corpo con un'altra, come grattarsi o strofinarsi naso o capelli; i gesti di contatto fisico o lo scambio di oggetti con un'altra persona, come passare una penna o dare una pacca su una spalla e in fine i gesti che riguardano il contatto esclusivo con oggetti, come giocare con una penna o tamburellare con le dita su un tavolo. Secondo alcuni autori i gesti adattatori possono rivelare stati d'ansia, disagio, agitazione e fastidio e possono non essere essenzialmente legati al discorso. Anche in questo caso i due autori Ekmann e Friesen, ammettono che questa categorie non hanno un carattere di esclusività, nel senso che possono esservi dei gesti per la cui catalogazione bisogna far riferimento a più di una categoria.

Altri autori hanno tentato una classificazione dei gesti delle mani. Una delle più note è quella di McNeill, il quale considera errato separare nell'analisi la componente gestuale da quella verbale. La sua classificazione infatti prende in considerazione solo quei movimenti delle mani e delle braccia che seguono e accompagnano l'eloquio verbale e al quale sono strettamente legati. Gesti spontanei, speculari e sincronizzati con precise unità linguistiche e di conseguenza inscindibili da queste ultime, dunque gesti che risulterebbero non interpretabili in assenza di parlato. Per classificare tali gesti McNeill utilizza le diverse collocazioni del gesto all'interno del discorso e individua due principali gruppidi gesti: i gesti proposizionali e i gesti non proposizionali. I gesti proposizionali, appartenenti al processo di ideazione, si suddividono in tre categorie: i gesti iconici, i gesti metaforici e i gesti deittici. I gesti iconici, sono quelli che tentano di riprodurre qualche aspetto concreto 17


descritto nel contenuto semantico, come ad esempio simulare la forma di un oggetto del quale si sta parlando, cosi come i gesti illustratori nella classificazione di Ekmann e Friesen, sopra citati. I gesti metaforici sono simili a quelli iconici con la differenza che fanno riferimento ad un concetto astratto e non concreto. Ad esempio stringere un pugno quando si parla di forza: in questo caso il pugno rappresenta metaforicamente il concetto astratto di forza. I gesti deittici, sono gesti detti “puntatori” e sono realizzati con una varietà di forme assunte dalla mano. Possono indicare un qualcosa realmente presente nell'ambiente in cui avviene la comunicazione, oppure in modo ideale fare riferimento a qualcosa presente solo all'interno del discorso. I gesti non proposizionali invece, che caratterizzano l'attività discorsiva in senso stretto, sono composti dai beats e dai gesti coesivi. Per beats, la cui traduzione sta per “colpi” o “battiti”, si intendono quei colpi delle mani, spesso su una superficie o anche sul corpo stesso del soggetto, il cui scopo è quello di accompagnare ritmicamente il discorso enfatizzandolo, come a sottolineare e mettere l'accento su determinate parole o concetti espressi nel discorso verbale. Infine i gesti coesivi, il cui compito sarebbe quello di cooperare alla costruzione della coesione discorsiva, in maniera tale da ottenere un certo dinamismo comunicazionale. Nei gesti coesivi viene spesso incluso il sottosistema di categorizzazione

sviluppato

da

Contento

(1999)

in

riferimento alla forma e al movimento del gesto della mano: chele, matassa, telaio, stella, mulinello, pennello, pinza. Secondo Contento tali gesti, compaiono nel repertorio gestuale del soggetto, intorno ai sette, nove anni di età, questo a dimostrare che la competenza necessaria per il loro utilizzo non è innata ma si sviluppa solo in età scolare, a differenza di altri gesti, come ad esempio quelli eiettici, che si sviluppano già nella prima infanzia.

Un'altra classificazione dei gesti delle mani, che prende spunto e riassume alcune delle classificazioni già descritte, è quella elaborata e verificata in un contesto di 18


discussioni di gruppo da Bonaiuto, Gnisci e Maricchiolo (2002). In questa tassonomia il criterio di distinzione è il legame che i gesti hanno con il discorso e le macro-categorie di gesti individuate sono state: i gesti connessi al discorso e i gesti non connessi al discorso. I primi, ovvero quelli legati al discorso, sono quei gesti eseguiti esclusivamente durante un discorso, hanno il compito di accompagnare il discorso stesso, ragion per cui la presenza di un discorso diventa necessaria ma non sufficiente affinché, tali gesti, siano messi in atto. Questa categoria comprende sia i gesti emblematici di Ekmann e Friesen sia quelli proposizionali di McNeill, sia la classificazione dei gesti coesivi sviluppata da Contento. I gesti non legati al discorso invece fanno riferimento ai segni adattatori di Ekmann e Friesen, e quindi vengono considerati gesti con nessuna apparente relazione con il contenuto verbale del discorso.

I movimenti del capo sono spesso e principalmente studiati in relazione all'attenzione. Infatti è proprio all'orientazione del capo, e quindi del volto, che viene associato uno stato di interesse. Si tende ad orientare il capo e spesso di conseguenza anche lo sguardo, verso qualcosa che suscita un certo livello di interesse. Spesso si è giunti a tali conclusioni attraverso studi condotti su animali e più in particolare sui primati, notando inoltre che le informazioni provenienti dallo sguardo, l'orientazione del capo e la posizione del corpo trovano una convergenza in una precisa area del cervello. Tramite i movimenti del capo, possono essere trasmessi anche segnali di feedback, come annuire per mostrare, per esempio, di aver capito o di essere d'accordo, o scuotere la testa per indicare che le parole del locutore non sono chiare o che non si è d'accordo o non si crede al discorso (Cerrato e Skhiri, 2003). Solitamente si annuisce, muovendo la testa dall'alto verso il basso, quando si vuole rispondere in maniera affermativa ad una risposta, oppure per dare enfasi ad un discorso. Quando si ascolta qualcuno parlare, si mostra il proprio accordo con ciò che si sente annuendo. Lo stesso può accadere però anche quando ci si finge interessati. In genere, se l'interesse è reale, lo si esprime annuendo tre-quattro volte di seguito ogni otto-dieci secondi circa. E' dunque il ritmo e l'intensità, in 19


questo caso, a rappresentare una variabile significativa. Annuire di tanto in tanto, magari continuando a guardare altrove cercando inconsciamente una via di fuga, risulta essere un gesto di “cortesia”. Un finto interesse che viene simulato, in questo caso, per evitare di offendere colui che parla. Al contrario e dunque muovendo il capo da sinistra verso destra e viceversa, quando si vuole rispondere negativamente a qualcosa e dunque ci si trova in disaccordo riguardo ciò di cui si sta discutendo. Non sempre però questi gesti vanno di pari passo con le parole che si pronunciano. In questo caso si verifica una reazione asincrona (per esempio mentre si pronuncia la parola “si” con le si produce un gesto negativo con la testa), dove due canali di comunicazione inviano due messaggi differenti. Questo normalmente accade perché viene data più importanza alla parole rispetto ai gesti, lasciando gestire la gestualità al nostro inconscio senza alcun “filtro” e di conseguenza in caso di reazione asincrona, il linguaggio non verbale risulta essere il canale più affidabile per cercare una risposta sincera. Anche mantenere la testa alta o bassa a seconda delle situazioni può dare importanti informazioni non verbali. Tenere la testa alta mantenendo lo sguardo in avanti mentre si parla, mentre si guarda qualcuno, oppure mentre si affronta una situazione, dimostra sicurezza, fierezza e orgoglio. La persona che agisce “a testa alta” non teme ciò che sta dicendo o chi ha di fronte, e lo fa mostrando la gola come parte vulnerabile, comunicando quindi la propria sicurezza. Il gesto assume un significato diverso se assieme alla testa alta si alza anche lo sguardo. In questo caso si manifesta uno stato d'animo vicino alla noia, come lo scarso interesse. Abbassare la testa assieme allo sguardo invece, esprime il rafforzamento di un sentimento negativo ed è sintomo di scarsa sicurezza. In questo caso si tenderà ad alzare le spalle in protezione della testa come gesto di difesa. Abbassare la testa mantenendo lo sguardo dritto con le sopracciglia alzate può invece significare incredulità rispetto a qualcosa appena sentito, mentre mantenendo sempre lo sguardo dritto ma con le sopracciglia abbassate e gli angoli interni delle sopracciglia abbassati verso il centro, può indicare un imminente attacco fisico o

20


verbale, utilizzando la testa come prima arma. Anche piegare la testa di lato, durante un interazione, può essere un indicatore importante di determinati stati d'animo o di attenzione. Inclinare la testa da un lato quanto si sta ascoltando qualcuno, manifesta attenzione e spesso interesse rispetto a ciò che viene detto, come se si tentasse, inclinando la testa, di orientare meglio un orecchio verso l'interlocutore. Sembra essere nella maggior parte dei casi, un segnale positivo, sintomo che ci si trova a proprio agio in una determinata situazione.

2.4.

I segnali vocali

I segnali vocali riguardano un altro aspetto determinante della CNV, che per certi versi può risultare difficile da analizzare, in quanto, tra gli aspetti non verbali già visti in precedenza, è quello che più si intreccia al segnale verbale, ovvero alle parole. Chiunque di noi ad occhi chiusi, sarebbe in grado di riconoscere la voce di un proprio caro mentre parla, anche se dovesse parlare in una lingua differente dalla solita e a noi sconosciuta. Saremmo facilmente capaci di distinguere se colui che parla è un uomo o una donna, un bambino o un adulto, semplicemente sentendone la voce. Questo perché assieme alle parole, viaggiano nell'aria un insieme di altre informazioni non verbali, come il timbro, l'intensità, il volume, l'estensione della voce e altro ancora. Tutto l'insieme di queste informazioni sonore possono essere definite come segnali vocali o paralinguistici. Nel primo capitolo, citando uno studio di Albert Mehrabian, abbiamo visto che durante uno scambio vocale tra due individui ben il 38% del significato del messaggio viene veicolato proprio dall'aspetto vocale o paraverbale (la voce: volume, tono, ritmo ecc.) a cospetto di un 7% veicolato dall'aspetto verbale (le parole). Fu Trager (1958), a coniare il termine “paralinguistica”, facendo distinzione tra 21


due principali categorie vocali: la qualità della voce e le vocalizzazioni. La prima, secondo lo studioso americano, è data dal tono della voce, dalla risonanza e dal controllo dell'articolazione durante il parlato, caratteristiche che aiutano a determinare aspetti individuali della persona, come il sesso, l'età e la provenienza. Le vocalizzazioni, invece, si distinguono ulteriormente a loro volta in: caratterizzatori volcali (sospiri, riso, pianto) i quali esprimono le emozioni; qualificatori vocali (timbro, intensità, estensione) che qualificano il verbale; e segregati vocali (suoni come “uhm”, “eh”) , utilizzati come intercalare tra le parole. La classificazione degli aspetti vocali operata da Laver e Trudgill (1982), vede invece una suddivisione in tre principali categorie: caratteristiche extra linguistiche; caratteristiche paralinguistiche e caratteristiche della realizzazione fonetica. Le prime, extra linguistiche, riguardano quelle caratteristiche, che comprendono aspetti vocali permanenti, dipendenti a loro volta dalla struttura anatomica della bocca e dal modo in cui il parlante interviene sulla regolazione del proprio apparato vocale. Le caratteristiche paralinguistiche, riguardano invece la modalità in cui il tono della voce varia in base allo stato emotivo, agli atteggiamenti interpersonali e culturali e di conseguenza non possono essere definite permanenti, ma dinamiche o tutt'al più acquisite. Infine abbiamo le caratteristiche della realizzazione fonetica, le quali sono le più legate al significato verbale, e si riferiscono principalmente all'accento e la pronuncia. Argyle (1992), propone invece una classificazione, nella quale fa distinzione tra quei segnali vocali connessi al discorso, detti segnali vocali verbali e quelli indipendenti dal discorso, detti segnali vocali non verbali. Questa dicitura, può generare un po' di confusione e bisogna perciò ricordarsi che stiamo pur sempre parlando di segnali non verbali. I primi, connessi al discorso che accompagnano la pronuncia delle parole, sono per loro natura mutevoli e transitori e vengono modificati in maniera sostanziale a seconda del contesto comunicativo e del significato semantico che si vuole trasmettere al proprio interlocutore insieme a quello linguistico delle parole pronunciate. Anolli (2002) distingue tre diversi parametri che determinano le caratteristiche verbali della voce, essenziali per la comprensione dell'enunciato linguistico: tono; 22


intensità; velocità. Il tono è dato dalla frequenza della voce e può essere basso o acuto a seconda della maggiore o minore tensione delle corde vocali. E' una caratteristica questa che tende a variare frequentemente durante un discorso, fornendo colore ed espressione alle parole, con accenti “interpretativi” utili per capire se ad esempio, il discorso è di tipo conclusivo, interrogativo, sospensivo, esclamativo ecc. L'intensità riguarda il volume della voce che può essere più o meno forte e segnala l'accento enfatico, tramite il quale è possibile sottolineare, accentuare, ed enfatizzare particolari elementi, parole o espressioni nel discorso, rispetto ad altri. La velocità è legata al numero di sillabe pronunciate al secondo o parole dell'enunciato e alla lunghezza o brevità delle pause interne all'eloquio: le quali possono essere pause silenziose, dette vuote, o pause scandite da vocalizzazioni, dette piene.

I segnali vocali non verbali, ovvero quelli che Argyle definisce indipendenti dal discorso, corrispondono alle caratteristiche extralinguistiche di Laver e Trudgill, citate in precedenza, ovvero son segnali legati alla qualità della voce di un individuo, i quali costituiscono quella che Anolli chiama “l'impronta vocalica”. E', in sostanza, ciò che permette di distinguere un individuo da un altro, dunque aspetti vocali non verbali particolarmente soggettivi che lo stesso Anolli suddivide in

quattro

principali

categorie:

gli

aspetti

biologici

che

riguardano,

fondamentalmente, le differenze di genere e di età: gli uomini hanno un tono di voce più basso rispetto alle donne; i bambini più acuto rispetto agli adulti, mentre i giovani hanno un'intensità più forte e una maggiore velocità e ritmo di articolazione rispetto alle persone anziane; gli aspetti sociali connessi alla cultura di origine della persona, quindi inflessioni dialettali o il tono più o meno alto di determinate culture. Essi sono connessi anche alle norme sociali all'interno del gruppo d'appartenenza e di socializzazione (ad esempio la persona dominante parla in tono più alto rispetto al subordinato) e alla situazione ambientale in cui ci si trova (ad esempio, in chiesa si parla a volume più basso rispetto a un locale pubblico); gli aspetti di personalità sono connessi a tratti psicologici relativamente permanenti, come, ad esempio, il temperamento euforico o giocoso 23


(intensità enfatica, tono alto, ritmo veloce) , l'umore depresso (intensità della voce poco enfatica), il tratto ansioso della personalità (regolarità nel ritmo della voce); gli aspetti emotivi che riguardano quei tratti psicologici transitori, legati a stati d'animo situazionali e a esperienze emotive. La voce è da considerarsi il canale non verbale su cui è più difficile esercitare un controllo cosciente e intenzionale, è dunque un segnale molto utile per trarre importanti informazioni sulle emozioni e sugli atteggiamenti di una persona visto che esiste una relazione molto stretta tra stato emozionale dell’interlocutore e manifestazioni paralinguistiche. La paura, ad esempio, che è stata l'emozione maggiormente studiata in termini di aspetti vocali, si manifesta con un aumento di volume e tono di voce, assieme a un ritmo nell'eloquio irregolare, mentre la tristezza è espressa con un di voce tono basso, un volume modesto, lunghe pause e un ritmo lento dell'eloquio. Per contro la gioia può essere trasmessa attraverso una tonalità acuta della voce, un aumento dell'intensità e un'accelerazione del ritmo di articolazione. La tenerezza è caratterizzata da un ritmo regolare, una tonalità grave e un volume basso mentre il disprezzo è espresso attraverso una diminuzione della velocità, un aumento della durata dell'enunciato, un tono basso e un'intensità piena.

Il silenzio gioca un ruolo fondamentale nella CNV e rappresenta un potente strumento di comunicazione. Grazie alla sua ambiguità ed apparente neutralità, la sua interpretazione infatti, può dipendere da vari aspetti in cui esso si manifesta, come ad esempio dall'associazione con altri segnali non verbali contemporanei al silenzio, dal tipo di relazione in atto, dalla situazione comunicativa in cui ci si trova, dalla cultura di riferimento e altro ancora. E' senza dubbio uno degli aspetti non verbali tra i più difficili da interpretare e attorno al quale spesso si generano molte incomprensioni comunicative. Un detto popolare, forse nel tentativo di dare un interpretazione univoca del silenzio, esclama “chi tace acconsente!”ovvero “chi resta in silenzio è d'accordo!” Come tutti i detti popolari anche questo nasconde un fondo di verità, in quanto spesso il silenzio può manifestare una condivisione (spontanea o meno) di un idea, riguardo qualcosa sulla quale magari 24


si è discusso, o rispetto ad una domanda posta da parte dell'interlocutore. In realtà non sempre il silenzio nasconde accondiscendenza e come vedremo, i significati che assume possono variare notevolmente di volta in volta. Una tra i primi, a realizzare degli studi sul silenzio e sul suo ruolo del silenzio all'interno dell'interazione conversazionale (pausologia), è stata Goldman-Eisler (1968). Fu la prima infatti a ipotizzare il ruolo della “pausa”, indicandola come un'attività propedeutica alla pianificazione di un discorso. Soprattutto le pause lunghe, come hanno dimostrato diverse ricerche, precedono la presentazione di una grossa quantità di informazioni, di enunciati complessi e di elaborazioni astratte. Non tutti gli autori si trovano in accordo con questi risultati, che vedono le pause di silenzio più lunghe come caratteristiche della fase cosiddetta “esitante” della conversazione, nella quale si programma un discorso e lo si pianifica cognitivamente rispetto ad una fase detta “fluente” dove invece viene esposto un discorso e le pause di silenzio risultano essere molto brevi se non assenti. Tra gli autori che si sono occupati di creare una classificazione dei ruoli del silenzio all'interno di una conversazione, troviamo Sacks, Schegloff e Jefferson (1974). I tre autori distinguono tre tipi di silenzio: gap; lapse e pause. Il primo, chiamato gap, equivale alla pausa interrotta quando un parlante prende il turno, ed è tipico della conversazione continua; il lapse è il silenzio, in cui nessun parlante prende il turno, tipico questo della conversazione discontinua; il silenzio invece detto pause, è quel silenzio interno a un turno o che denota un ritardo di un parlante nel rispondere a una domanda, a una richiesta o a un saluto, il quale diventa una violazione delle attese di un interlocutore e, in qualche modo anche delle regole informali della conversazione. Un altro ruolo fondamentale del silenzio è la capacità, per chi lo esercita, di attirare l'attenzione, soprattutto quando viene associato a certi segnali non verbali. Durante dei discorsi pubblici, ad esempio, stare in silenzio prima di iniziare a parlare, aiuta a far concentrare l'attenzione delle persone (che magari in quel momento si trovano distratte), su ciò che verrà detto. Spesso questo accade perché nei discorsi pubblici si stabilisce un flusso continuo di parole che può facilmente annoiare e distrarre gli ascoltatori. In questo caso smettere di parlare ha la 25


funzione di interrompere questo flusso continuo, generando automaticamente un interessamento da parte di chi ascolta nei confronti di colui che guarda la folla in silenzio. Se invece il discorso ha un carattere educativo, come ad esempio una lezione, il silenzio può essere utilizzato dal docente, per lasciare ai propri allievi il tempo necessario per riflettere su quanto detto o spiegato, e dunque per rielaborarle cognitivamente le nuove informazioni che sono state ricevute. Anche in questo caso, come si è visto in precedenza per altri segnali non verbali, come la postura o lo sguardo, il silenzio può essere indicativo dello status che esiste tra le persone, le cosi dette “relazioni asimmetriche”. Le persone in una posizione di subordinazione, ad esempio, stanno maggiormente in silenzio ad ascoltare rispetto alle persone con uno status sociale più elevato.

Come è facile intuire, le funzioni del silenzio non si fermano qua. Alcuni studi sulle interazioni sociali, hanno analizzato il silenzio prendendo in considerazione il significato che gli viene attribuito dagli stessi interagenti, in base alla situazione interattiva nella quale si trovano. E' logico capire come per ogni diversa cultura possano variare i significati, mentre da parte dei membri della stessa cultura, gruppo o comunità, il silenzio può essere all'unanimità usato con il significato e la funzione di chiedere, negare, ammonire, comandare, minacciare, dare consenso. L'utilizzo del silenzio varia da paese a paese e cosi si scopre che gli inglesi o i finlandesi, tendono ad utilizzare mentre parlano pause abbastanza lunghe rispetto ad esempio ai newyorkesi, il cui eloquio ha un ritmo più incalzante. E' dunque presumibile che quando delle persone di questi diversi paesi hanno una conversazione tra loro, il giudizio che rispettivamente avranno l'uno dell'altro riguardo il proprio eloquio sarà molto probabilmente negativo. I newyorkesi giudicheranno negativo il modo di comunicare degli inglesi o dei finlandesi poiché dimostra poco coinvolgimento e interesse, mentre gli inglesi o i finlandesi tenderanno a giudicare negativamente i newyorkesi perché il loro ritmo serrato di conversazione, impedisce loro di prendere la parola. In generale, le culture occidentali (maggiormente individualiste) comunicano 26


attraverso rapide successioni di turni di parlato, con una conseguente riduzione al minimo dei periodi di silenzio, il quale viene considerato come una minaccia alla gestione dell'avvicendamento dei turni. Nelle culture orientali (più collettiviste), i parlanti possono invece utilizzare lunghissime pause di silenzio come segno di riflessione e saggezza: il silenzio diventa un indicatore di armonia, fiducia, confidenza e intesa tra i parlanti (Anolli, 2002). Secondo Menghini e Maroni (1999), inoltre , il silenzio, può anche essere molto ambiguo da interpretare e nascondere falsità in una solo apparentemente sincera comunicazione di informazioni o significati, assumendo cosi una connotazione negativa. Il silenzio, invece, diventerà positivo se usato per dimostrare emozioni e sentimenti talmente intensi da non poter essere espressi verbalmente, per aumentare l'intimità di un legame, per esprimere approvazione, o per cortesia. All'interno di una relazione molto intima, può avere la funzione di dare modo agli interagenti di elaborare e superare momenti di emozione molto intensa. Uno degli segnali non verbali più utilizzati per interpretare il silenzio è senza dubbio lo sguardo. Ad esempio, il silenzio di un parlante può indicare cessione del turno se si dirige lo sguardo verso chi ascolta, come è già stato sottolineato a proposito dello sguardo nella conversazione, mentre guardarsi reciprocamente, durante un periodo di silenzio, nel corso di una conversazione, indica la volontà da parte di entrambi i parlanti di continuare l'interazione comunicativa. Va giudicato invece come un segnale negativo, se assieme al silenzio si associa un movimento del capo e dunque anche dello sguardo, altrove rispetto al viso dell'interlocutore. In questo caso, infatti, questo comportamento può indicare che si desidera finire o interrompere la comunicazione, probabilmente perché non si trova più interesse nell'interazione.

27


2.5. Il volto

Rappresenta l'area del corpo più significativa dal punto di vista comunicativo e senza dubbio la parte più espressiva, dunque quella in grado di inviare il maggior numero di messaggi non verbali. Si è notato che negli animali, la possibilità di eseguire movimenti complessi del volto, e dunque l'espressività del volto, è direttamente proporzionale alla posizione che essi occupano nella scala biologica (Plutchik, 1980). Gli animali che si trovano in una posizione filogeneticamente più elevata, presentano una maggiore capacità mimico facciale, mentre quelli che sono più in basso nella scala evolutiva raramente fanno uso delle espressioni del volto, esprimendosi più che altro attraverso la postura. Si è osservato inoltre, che gli animali che vivono in gruppo e hanno una vita sociale complessa come i primati, presentano un repertorio di espressioni mimico-facciali particolarmente elaborato, dunque si può ipotizzare che le espressioni facciali e i muscoli mimico corrispondenti, si siano evoluti grazie all'elevata importanza che essi assumono nella vita di gruppo dei mammiferi. Per questo motivo, le origini dell'evoluzione di alcune espressioni del volto umano come il sorriso il riso sono state fatte risalire fino ai nostri antenati primati. Essi possiedono espressioni facciali per diverse relazioni interpersonali: dominante, sottomessa, giocosa, di minaccia, parentale, sessuale e così via. A parte questa breve parentesi evoluzionista, possiamo dire con certezza, grazie a studi ormai approfonditi di anatomia, che il volto è formato da oltre venti muscoli, la maggior parte dei quali è localizzata nella fronte e attorno agli occhi. Questo evidenzia la possibilità che si creino innumerevoli espressioni facciali, ad ognuna delle quali sono associati determinati significati non verbali. Ciò spiega, oltre l'importanza dell'analisi del volto nella CNV, la complessità dello studio delle espressioni del viso, per una corretta interpretazione e classificazione. Verrà ora affrontata una delle parti più espressive del volto: lo sguardo. “In termini di linguaggio corporeo, la capacità del viso di rivelare informazioni

28


su noi stessi è seconda soltanto a quella degli occhi.”(Borg 2009). E' proprio per questo motivo che gli occhi sono la parte del nostro corpo che viene guardata di più durante le interazioni, diventando, in alcune situazioni, il “canale” comunicativo privilegiato. La terminologia usata per questo segnale non verbale varia notevolmente da un autore all'altro: Cook (1973) parla di "direzione dello sguardo"; Argyle (1974) di "movimenti degli occhi" fra cui distingue "lo sguardo" (durante l'interazione il soggetto A guarda il soggetto B nella regione degli occhi in maniera intermittente e per brevi periodi) dal "contatto visivo" (quando entrambi gli interlocutori si guardano nella regione degli occhi). I movimenti oculari, rappresentano senza dubbio uno dei più importanti segnali comunicativi a livello non verbale, ed è proprio nello sguardo che la maggior parte di noi ricerca, più o meno consapevolmente, le risposte più significative durante un'interazione. Anatomicamente l'occhio, è composto da un'ampia struttura di terminazioni nervose ed è circondato da muscoli, detti extra oculari, che possono contrarsi migliaia di volte al giorno in altrettanti modi diversi. Attraverso lo sguardo, durante un'interazione, si attiva un'ampia regione cerebrale, e vengono raccolte una grande quantità di informazioni utili per l'avvio e il mantenimento della relazione stessa. E' noto come durante un'interazione venga fatto un largo uso di sguardi, utili a fornire una serie di informazioni sui nostri interlocutori e sull'idea che questi ultimi hanno di noi stessi. Attraverso lo sguardo, infatti, il parlante può intuire il modo in cui gli interlocutori lo percepiscono e lo giudicano, cosa che , di conseguenza, gli permette di regolare il proprio comportamento, salvaguardando l'immagine di se che vuole trasmettere. Sono diverse le funzioni dello sguardo a livello non verbale ed è soprattutto attraverso le variazione e la frequenza degli sguardi che si trasmettono indizi relativi all'intensità delle emozioni: le emozioni positive, sono spesso caratterizzate da una maggiore frequenza di sguardi; mentre le emozioni negative, richiedono un evitamento o uno spostamento dello sguardo. Attraverso lo sguardo è anche possibile comunicare gli atteggiamenti interpersonali, come le relazioni di 29


status e dominanza. Si è notato, ad esempio, che

i contatti visivi sono più

frequenti negli scambi e nelle interazioni cooperative, dunque dove c'è un'intesa tra gli interlocutori, piuttosto che in quelle competitive, dove invece emerge una rivalità. Può essere anche un forte indicatore all'interno di relazioni asimmetriche dove è presente una differenza di status tra gli interlocutori. In questi casi infatti, coloro i quali si trovano in una posizione subordinata rispetto al proprio interlocutore hanno maggiormente la tendenza a evitare lo sguardo. Colui che si trova, invece, in una posizione di potere, tende a guardare meno in fase di ascolto e più a lungo quando invece sta parlando. Esistono poi alcuni studi che che hanno cercato di dimostrare una relazione tra lo sguardo ed altre caratteristiche come il genere sessuale e la necessità di cooperazione. Da alcune ricerche di Exline (1972), ad esempio, è emerso che le donne e più in generale, le persone con una forte tendenza cooperativa, fanno maggiore uso dello sguardo. L'utilizzo del canale visivo è evidente nelle donne a causa, probabilmente, del loro maggiore bisogno di affiliazione dovuto alla loro minore dominanza. Le donne usano più degli uomini lo sguardo e presentano pattern visivi differenti da quelli usati da questi ultimi. Quando una donna prova simpatia per un'altra persona, mentre parla, la guarda, gli uomini, invece, impiegano questo pattern durante la fase di ascolto. In particolare, le donne fanno uso del canale visivo quando parlano con altre donne. Durante l'interazione, coppie dello stesso sesso presentano una frequenza di sguardi superiore a quella che si osserva nelle interazioni tra maschi e femmine. Naturalmente fanno eccezione le coppie di innamorati dove vi è una maggiore intimità. La diminuzione degli sguardi prolungati fra persone di sesso opposto è legata alla consapevolezza che essi possono essere interpretati in termini di attrazione sessuale. Forse ognuno di noi ha sperimentato che se si è guardati da un estraneo in un luogo pubblico per un periodo di breve durata, ci si sente lusingati e si ricambia lo sguardo. Le cose cambiano se l'estraneo continua a guardarci insistentemente: si avverte subito uno stato di disagio, di ansia, di sensazioni spiacevoli (Argyle, 1974).

30


Lo sguardo infatti, tra le sue funzioni, può anche essere utilizzato come strumento di seduzione. Tuttavia, l'essere guardati troppo a lungo (fissazione oculare), come fa notare Argyle, diventa motivo di disagio e può essere percepito, in determinate situazioni, come un segnale con il significato di minaccia e/o di pericolo. Per intrattenere dunque, una relazione equilibrata tra gli interagenti, si dovrebbe raggiungere un certo grado di equilibrio e armonia nell'utilizzo degli sguardi. Sguardi più lunghi sono quasi sempre indice di un interesse vivace per l'altra persona, in senso affiliativo, sessuale, ma anche aggressivo e competitivo. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza che esiste una correlazione fra tratti della personalità e l'uso di questo segnale non verbale: le persone estroverse ad esempio, ne fanno un uso maggiore in frequenza e durata; gli introversi viceversa, guardano molto poco e quasi mai direttamente il proprio interlocutore. Le ricerche inoltre dimostrano che, chi possiede un pensiero astratto, ha un comportamento visivo più attivo, di quello impiegato da coloro che pensano in modo concreto (Exline, 1963). Il tipo di orientamento dello sguardo durante le interazioni sociali, in alcune interpretazioni teoriche del comportamento visivo, è messo in relazione con il tipo di relazione interpersonale dei partecipanti all'interazione. Si è notata una relazione tra sguardo e simpatia che tendono a variare simultaneamente. Le persone guardano più spesso e più a lungo le persone che per qualche ragione suscitano in loro interesse, piuttosto che le persone che non reputano interessanti. In questi casi l'utilizzo dello sguardo, come altri segnali non verbali, quali la vicinanza o il contatto corporeo, può in qualche modo essere utilizzato per ridurre la distanza interpersonale, fisica e psicologica, ed avvicinare cosi la persona che suscita interesse. Anche nel caso dello sguardo, cosi come negli altri segnali non verbali già resi in esame, esistono delle importanti differenze di tipo culturale. Alcuni popoli, tra cui i nordeuropei e i giapponesi, hanno la tendenza a non guardare in modo prolungato i propri interlocutori, mentre nelle culture latine o arabe soprattutto, mantenere un contatto visivo prolungato con il proprio interlocutore è interpretato come un chiaro segnale di sincerità e interesse.

31


Un altro ruolo fondamentale che lo sguardo svolge durante una conversazione inoltre, è quello di regolare l'alternanza di dialogo tra gli interlocutori, segnalare l'intenzione di prendere parola, comunicare che si è finito di parlare e altro ancora che ha a che fare, in un certo senso, con il ritmo dell'interazione. Secondo Kendon (1967), per l'ascoltatore essere guardato da chi parla significa che questi è pronto a cedere lo spazio conversazionale, mentre il fatto che lo sguardo venga distolto indica il contrario. Durante una conversazione le volte in cui i parlanti variano la quantità di sguardi è notevole anche se ci sono dei momenti all'interno dell'interazione nei quali è possibile osservare una certa regolarità. All'inizio di una conversazione, infatti, colui che parla inizialmente è portato a distogliere lo sguardo da colui che ascolta, viceversa quando il turno di chi parla sta per finire, lo sguardo tende a essere rivolto verso l'interlocutore. Lo sguardo si sposterà invece sistematicamente ad intervalli più o meno regolari verso l'ascoltatore, nel mezzo del turno di conversazione. Come già accennato sopra, il volto rappresenta l'area del corpo più significativa dal punto di vista comunicativo non verbale. Non solo per le sue caratteristiche di fisionomia, quindi di conformazione statica del volto, dalle quali si possono raccogliere molte informazioni relative al sesso, l'età, lo stato di salute, e altro, ma soprattutto attraverso le abilità di conformazione dinamica, che più semplicemente chiameremo espressioni del volto. In questo caso, è anche possibile utilizzare con una certa attendibilità le espressioni, come indicatore di personalità, (cosa che con altrettanta certezza invece non possiamo dire riguardo le caratteristiche statiche del volto) visto che spesso alcune espressioni abituali, legate a precisi stati d'animo, tendono a divenire caratterizzanti del soggetto. Attraverso tutti i possibili movimenti del volto, tra cui movimenti di sopracciglia, fronte, occhi, labbra ecc., infatti, il volto è in grado di riflettere la nostra esperienza soggettiva istante per istante, esprimendo i nostri atteggiamenti interpersonali ed in particolare le nostre emozioni. L'espressione del volto, infatti, rappresenta senza dubbio, il principale segnale non verbale delle emozioni. Grazie a una comparazione tra ricerche di diversi autori e ricerche proprie sulle

32


espressioni del volto, Ekman (1982), afferma che attraverso la mimica facciale, osservando alcuni movimenti facciali facilmente riconoscibili, è possibile individuare tutte le fondamentali emozioni dell'uomo in modo inequivocabile. Emozioni che la maggior parte degli studiosi sono concordi nel classificarle come fondamentali: felicità, sorpresa, paura, tristezza, collera e disgusto. Uno dei temi principali, su cui vari studiosi hanno tentato di dare una risposta, effettuando diverse ricerche soprattutto in popolazioni che non sono mai venute a contatto con la civiltà occidentale, è quello di scoprire se l'espressione facciale delle emozioni è qualcosa di innato oppure di appreso. Dunque una volta appurato che le emozioni hanno un fondamento di universalità nell'uomo, si è cercato di verificare se l'espressione di tali emozioni attraverso il volto, fosse un evento altrettanto universale della specie umana, o se subisse influenze di tipo culturale o quant'altro, tali da variare da una civiltà all'altra. E' ciò che hanno tentato di dimostrare Ekman e Friesen (1971) compiendo una serie di esperimenti su popolazioni del Borneo e della Nuova Guinea. Popolazioni, molto ristrette e isolate nella foresta, le quali non erano mai venute in contatto con soggetti caucasici, ne direttamente ne tanto meno tramite stimoli visivi indiretti (film, riviste, disegni o altro). A questi soggetti vennero mostrate delle fotografie di individui di razza caucasica che esprimevano delle emozioni. In seguito venne chiesto loro di dare un'interpretazione di tali emozioni. Nella maggioranza dei casi, gli abitanti di queste foreste, furono in grado di riconoscere le espressioni mostrate loro fornendone un'interpretazione molto vicina a quella data da soggetti della nostra cultura. L'esperimento venne condotto anche in senso opposto, ovvero registrando dei filmati che ritraevano le espressioni spontanee di alcuni individui appartenenti a queste tribù, per poi sottoporli alla valutazione di studenti universitari americani. Anche in questo caso l'esperimento ebbe esito positivo visto che l'interpretazione data dagli osservatori americani riguardo le immagini, fu molto vicina a quella delle emozioni manifestate dalle popolazioni del Borneo. E' evidente come questi studi dunque, depongano a favore di un universalità dell'espressione delle emozioni, lasciando supporre che il linguaggio non verbale dell'emozione attraverso il volto sia universale e perciò innato. 33


Un'altra espressione del volto spesso studiata, visto la sua importanza sotto il profilo comunicativo è il sorriso. Ricci Bitti e Cortesi (1977), lo definiscono come un'espressione facciale indicante affetti positivi come la felicità, il piacere e disponibilità verso l'altro. Si è notato che uno dei contesti in cui maggiormente si tende a sorridere è quello di saluto. I bambini infatti, spesso sorridono a un altro bambino anche se a loro estraneo, utilizzando questa espressione del viso come un saluto e come disponibilità all'approccio e all'avvio di una relazione sociale. Si pensa che il sorriso nel bambino svolga un ruolo di stimolo sociale, a partire dal rapporto che si instaura con la madre, la quale una volta ricevuto un sorriso da parte del bambino, reagisce spesso in maniera positiva, prolungando l'interazione e la cura nei suoi confronti. Queste ricerche, come ad esempio quelle compiute da Van Hooff (1967), tentano di giustificare il sorriso come un atto preventivo o scatenante una determinata condizione, la cui funzione spesso è quella di pacificazione e rassicurazione. A tal proposito l'autore ha discusso la possibile analogia tra il sorriso umano e la faccia silenziosa a denti scoperti di molte altre specie di primati. Esistono però una serie di altre ricerche che si sono preoccupate di studiate il sorriso come evento scatenato e non scatenante. Si è cercato cioè di trovare quali stimoli lo provochino, per poi creare una classificazione, in base a tali stimoli, delle diverse fasi evolutive del sorriso. Molti autori, tra cui Ekman e Friesen, hanno cercato di descrivere queste diverse fasi, partendo dai primi mesi di vita del bambino, fino all'età adulta. Nei primi medi vita appunto, il sorriso, detto sorriso riflesso, si manifesta senza evidenti stimoli esterni. Basta un semplice cambiamento nel campo percettivo del bambino a causare un sorriso. Successivamente, tra il terzo ed il settimo mese, gli stimoli principali possono essere identificati negli aspetti statici e dinamici dei volti umani. Una particolare espressione, o determinati lineamenti di un volto, possono essere sufficienti per scatenare un sorriso, definito sorriso sociale, nel volto del bambino. Vi è poi una fase di sorriso sociale seduttivo, che appare solitamente dopo il settimo mese di vita, dove il bambino reagisce soltanto ad alcuni individui selezionati. Segue la fase di reattività sociale differenziale, che si manifesta poi per tutta la vita, dove il soggetto, mentre sorride a persone note, 34


specialmente nei momenti di saluto, tende a mantenere nei confronti degli estranei un sorriso detto “sociale”. Non risulta semplice l'analisi dei vari aspetti del sorriso dell'adulto, Ekman e Friesen (1982), ad esempio, lo suddividono in tre tipologie: –

il sorriso spontaneo, riconoscibile dal coinvolgimento dell'intero volto, con il sollevamento degli angoli della bocca, con conseguente messa in mostra dei denti e contrazione dei muscoli orbicolari;

il sorriso simulato, che, come si può intuire dal nome, non corrisponde ad un vero coinvolgimento emotivo, riconoscibile dal fatto che coinvolge solo i muscoli zigomatici;

il sorriso “miserabile” che coinvolge la zona inferiore del volto, e si attua in circostanze sgradite dal soggetto, dove risulta necessaria un'accettazione di un fatto spiacevole che rende il sorriso infelice e forzato.

Il sorriso, come affermano molti autori, oltre a svolgere una funzione di manifestazione delle emozioni, dovrebbe principalmente servire come strumento per l'interazione sociale. Si è notato infatti che le persone tendono a sorridere maggiormente quando interagiscono con gli altri, con lo scopo di mantenere ed agevolare la relazione. Anche nel caso del sorriso, cosi come per altri segnali non verbali, come ad esempio lo sguardo, sono state riscontrate delle differenze di genere. Le donne, infatti, tendono a sorridere di più rispetto agli uomini. Questo sia per motivi di affiliazione, si per una tendenza femminile ad una maggior empatia nei confronti dell'interlocutore. Nell'analisi del volto come strumento di comunicazione non verbale, ci si rende conto, come spesso sia impossibile studiarlo separatamente dal linguaggio verbale. Come altre parti del corpo, quali le braccia e le mani, infatti, anche il volto con le sue espressioni, viene utilizzato, negli scambi interpersonali come supporto del linguaggio verbale, svolgendo una funzione di aiuto costante. Mentre si parla, l'espressione facciale fornisce un commento non verbale a ciò che viene detto, sottolineando, enfatizzando e modulando i significati verbalmente espressi. Come è già stato spiegato per lo sguardo, anche il volto, grazie alle sue espressioni, può intervenire nella 35


regolazione del ritmo di una conversazione, facilitando lo scorrere della conversazione stessa. Sempre grazie alle espressioni del viso, è possibile, durante una conversazione, mostrare dei segnali, detti di feedback, utili per comunicare al proprio interlocutore se si sta capendo ciò che viene detto, se si è attenti e quanto interesse si ha nella conversazione in corso e cosi via.

36


3.

La teoria dell'attaccamento

Lo sviluppo cognitivo ed emozionale di ogni persona è, in parte, determinato dalla relazione che questa ha avuto con i propri genitori. (John Bowlby, 1969).

Esiste una fase della vita, quella dell'infanzia, in cui la CNV assume un ruolo decisivo nello sviluppo cognitivo ed emozionale di ogni individuo. Nei primi anni di vita, infatti, la comunicazione, tra infante e genitore, avviene principalmente attraverso il linguaggio del corpo, con il contatto fisico, lo sguardo, la voce e tutti quegli aspetti non verbali già visti in precedenza. Questo periodo risulta fondamentale nello sviluppo emotivo e psichico di una persona, ed è a tal proposito,

che

cercheremo

di

analizzarlo,

affrontando

“La

teoria

dell'attaccamento”, sviluppata da John Bowlby tra il 1969 e il 1980. In questi anni infatti, l'autore scrisse quella che viene definita una trilogia monumentale, intitolata “Attaccamento e perdita” (1969, 1973, 1980), che può essere considerata come punto di arrivo di lunghi studi effettuati sull'osservazione delle cure materne in relazione allo sviluppo di un individuo. La curiosità dell'autore riguardo questo tema, nasce già dai primi anni di studio nella facoltà di medicina di Cambridge, quando nel 1925 ebbe modo di lavorare come volontario, da psichiatra, in una scuola per ragazzi disadattati. Fu li che per la prima volta probabilmente, iniziò a farsi delle domande riguardo una possibile relazione tra le difficoltà di quei giovani e una loro, più che ipotetica, infanzia infelice. Iniziò ad ipotizzare dunque, come una mancanza di cure materne in età infantile, potesse essere la causa dello stato emotivo e psichico attuale di quei ragazzi. Fu questa la strada che lo porto alla teorizzazione dell'attaccamento, dopo aver preso le distanze dal pensiero psicoanalitico, che a suo avviso, non mostrava validi fondamenti teorici, seppur manteneva una sua efficacia pratica. Il giovane autore trovava invece ispirazione nella teoria dell'evoluzionismo di Darwin, e da alcuni studi etologici che a suo avviso si mostravano come la chiave 37


di volta. Nel 1940 nell'International Journal of Psychoanalysis, venne pubblicato un suo scritto dal titolo “The influence of early environment in the development of neurosis and neurotic character”, il quale proponeva una teoria generale della genesi delle nevrosi, dove l'origine dei disturbi veniva rintracciata in ciò che accade nei primi anni di vita di un individuo, con particolare attenzione alla separazione dalla madre. In questo scritto l'autore, metteva in guardia sugli eventuali rischi derivanti dalla separazione dei bambini dalle loro madri.

Scriveva l'autore:

“...se un bambino dovesse andare in ospedale, la madre dovrebbe essere incoraggiata a visitarlo quotidianamente […]. Se il fatto che i bambini piccoli non siano mai completamente o troppo a lungo separati dai loro genitori fosse diventato parte della tradizione, allo stesso modo in cui il sonno regolare e la spremuta di arancia sono diventati consuetudini nell'allevamento dei piccoli, credo che molti casi di sviluppo nevrotico del carattere si sarebbero evitati.”

Ancora:

“Non ci sono dubbi che la deprivazione prolungata di cure materne subita da un bambino può avere effetti gravi e prolungati sul suo carattere e in tal modo su tutta la vita futura” (Bowlby, 1940; citato in Holmes, 1993).

Nella sua teorizzazione Bowlby, propone una visione del legame primario tra madre e bambino, privo di relazione con la sessualità, come invece proponevano le versioni psicoanalitiche della Klein e di Anna Freud. Furono invece alcuni studi di etologia, a dargli le risposte che andava cercando riguardo la formulazione della teoria dell'attaccamento, che secondo alcuni, come ad esempio la Ainsworth (1982), gli venne in mente nel 1952, quando riusci ad avere alcuni lavori di Konrad Lorenz e Niko Tinbergen. Questi etologi applicavano i principi della teoria dell'evoluzione di Darwin, e della 38


biologia evoluzionistica, allo studio del comportamento animale, enfatizzando i processi di ereditarietà biologica dovuti alla selezione naturale. I successivi incontri con l'etologo Hinde, e la conoscenza dei suoi lavori sulle scimmie Rhesus (pubblicati in Hinde, McGinniss, 1977) furono determinanti per dimostrare una valenza scientifica della teoria dell'attaccamento. Infatti, fino ad ora, il sospetto che la separazione dalla madre in età infantile, fosse l'evento negativo determinate per la formazione delle nevrosi, si basava soltanto su prove retrospettive, ovvero su riscontri che evidenziavano, che certi adolescenti con problemi comportamentali, avevano avuto esperienze di separazione da piccoli. I test invece eseguiti da Hinde sulle scimmie, mostravano inequivocabilmente quanto teorizzato da Bowlby. In questi esperimenti, le madri dei piccoli Rhesus, venivano allontanate per circa sei giorni e poi riavvicinate ai piccoli per studiare il comportamento di questi ultimi al loro ritorno. Oltre alle manifestazioni di “protesta”, “disperazione” e “distacco”, riscontrate già in precedenza in un esperimento condotto dai coniugi Robertson sulla separazione dai genitori dei bambini ricoverati in ospedale, si riscontrarono dei cambiamenti irreversibili nel comportamento dei piccoli Rhesus, anche se non tutti risentivano in modo uguale della separazione. Le conseguenze più gravi, venivano riscontrate in quei piccoli, le cui madri alla riunione rifiutavano il contatto. Quindi le reazioni alla separazione si manifestarono differenti in base alla qualità del precedente rapporto della madre con il piccolo, che si era stabilito prima dell'allontanamento. In questi studi di Hinde, risultano di fondamentale importanza, per la relazione tra il piccolo e la propria madre, il bisogno di protezione e di conforto, che si realizza attraverso il contatto corporeo, essenziale per la sopravvivenza dei piccoli. E' quanto dimostrarono anche alcuni studi condotti da Harlow sui macachi nel Wisconsin (Harlow, Mears, 1979), che con i suoi collaboratori, si rese subito conto che non è il cibo a garantire la possibilità di sopravvivere. Intorno agli anni cinquanta, Bowlby, sfrutta alcuni studi di Mary Ainsworth, la quale riusci a raccogliere alcune prove empiriche, in seguito ad alcune osservazioni dirette e colloqui con delle madri ugandesi, dalle quali emerse come la tendenza del piccolo all'esplorazione era continuamente regolata dalla capacità 39


della madre di porsi come “base sicura”, da cui allontanarsi e a cui tornare in caso di necessità. Era dunque in base al rapporto esistente con la madre, che il piccolo poteva iniziare ad esplorare il mondo e costruire pian piano una propria visione di ciò che lo circondava. E' grazie a questi studi e alla loro impostazione rigorosamente scientifica, che si dimostra come l'espressione delle emozioni, la loro gestione e i comportamenti dipendano dal tipo di accudimento esperito in età precoce, in particolare durante il primo anno di vita (Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978). Dalle osservazioni della Ainsworth emergeva, in particolare, che la formazione del legame del bambino con la sua figura di accudimento (la madre, o chi per lei) nel primo anno di vita, attraversava delle vere e proprie fasi, durante le quali una persona specifica si configurava progressivamente: in un primo momento soltanto come il target di risposte che portavano al mantenimento del contatto, poi come quella che poteva offrire rifugio sicuro, in seguito come colei la cui assenza provocava ansia da separazione, e infine, come la persona da utilizzare come base sicura . E' in questo periodo, cruciale per lo sviluppo emotivo e cognitivo del piccolo, che progressivamente vengono acquisite le capacita di: distinguere sé dall'altro; produrre comportamenti dotati di intenzionalità; padroneggiare le relazioni di causa ed effetto tra gli eventi; rappresentarsi mentalmente oggetti e persone che si trovano fuori dal suo campo visivo (Attili, 2007). E' nell'evolversi di queste tappe, che Bowlby intuisce lo svilupparsi del sistema dell'attaccamento, come un processo progressivo non costante in tutto il percorso di crescita, che raggiunge un suo culmine intorno alla fine del primo anno di vita.

3.1

Le fasi dell'attaccamento

Questi stadi, vengono anche definiti da Bowlby come “fasi dello sviluppo dell'attaccamento”, e ognuna è identificabile in un preciso periodo di vita del bambino. Secondo l'autore l'attaccamento si articolerebbe principalmente in 40


cinque fasi: –

0-3 mesi- pre-attaccamento: in questo primo periodo, che va dalla nascita sino alla fine del secondo mese, il piccolo, pur riconoscendo la figura umana quando compare nel suo campo visivo, non ha ancora la capacità di distinguere una persona dall'altra, per quanto inizi a manifestare alcuni segnali di attaccamento come il pianto o l'aggrapparsi a una persona. E' in questo arco di tempo che si manifestano già dei segnali non verbali utili al mantenimento del contatto con la propria figura di accudimento, tra cui l'utilizzo della voce, il sorriso e alcuni movimenti del corpo.

3-6 mesi- attaccamento in formazione: in questa seconda fase, dalla fine dei due mesi fino all'inizio del settimo mese circa, i segnali non verbali prodotti dal bambino, iniziano ad essere orientati verso persone specifiche che pian piano inizia a riconoscere come quelle che gli offrono cure in modo continuativo. E' in questo periodo che la madre (o chi maggiormente si prende cura di lui), inizia ad essere riconosciuta come il soggetto capace di alleviare lo sconforto, e tutti i segnali non verbali prodotti, sono atti al mantenimento del contatto con questa figura. In questa fase tuttavia, il bambino non riesce a padroneggiare le relazioni di causa-effetto, di conseguenza non protesta alla separazione dalla figura di accudimento, si manifesta giusto uno stato di ansia quando si rende conto di essere lasciato solo.

7-8 mesi- angoscia: in questo breve lasso di tempo, tra il settimo e l'ottavo mese di vita, non avendo ancora sviluppato il concetto di “permanenza dell’oggetto”1, la lontananza dalla figura allevante provoca angoscia nel bambino perché ha paura che il "caregiver"2 non ritorni, inoltre, nell'80%

1 Il concetto di "permanenza dell'oggetto" (Piaget, 1936), riassume la capacità di comprendere che gli oggetti esterni che formano il mondo, sono entità esistenti, a prescindere dalla consapevolezza di essi. Negli stadi precedenti, se l'oggetto scompare dalla vista del bambino è come se non esistesse per lui, mentre in questa fase il bambino ricerca l'oggetto, in quanto è consapevole della sua esistenza. 2 Caregiver è colui che si prende cura del bambino. E' la figura di accudimento, che solitamente corrisponde alla madre.

41


dei casi si manifesta uno stato di paura verso l'estraneo; –

8-24 mesi- fase di attaccamento vero e proprio; in questo periodo, che va dagli otto fino al secondo anno di vita, si forma il legame di attaccamento vero e proprio con la madre. Grazie infatti alle abilità motorie che vanno a svilupparsi sempre più, il piccolo è in grado di seguire a carponi la madre e piange nel caso in cui quest'ultima si allontani da lui. Inizia volontariamente ad esplorare l'ambiente circostante utilizzando la figura di accudimento come base sicura a cui fare ritorno, e la CNV in questo periodo viene anche utilizzata per manifestare segnali di protesa alla separazione.

dai 3 anni in poi formazione di legami: L'ultima fase dello sviluppo dell'attaccamento, considerata dai tre anni in poi, è quella in cui il bambino inizia ad adattarsi al comportamento della figura di accudimento. E' disposto ad attendere entro certi limiti il ritorno della madre, e la separazione, a meno che non sia troppo lunga, non genera più protesta in quanto il piccolo è consapevole dell'affidabilità della madre e quindi dedica il suo tempo all'esplorazione dell'ambiente circostante utilizzando la figura di accudimento come base sicura a cui fare ritorno solo quando si sente la necessità. E' in questo periodo che diviene consapevole del suo provare sentimenti, emozioni, sensazioni, ed iniziano ad essere acquisite le prime capacità linguistiche e di rappresentazione mentale degli eventi, con la conseguente capacità di poter prendere il punto di vista altrui con delle rappresentazioni mentali di se e degli altri, in particolare della madre, le quali dipendono a loro volta dal tipo di rapporto avuto con la figura di accudimento.

42


3.2

La Strange Situation (Ainsworth e Bowlby, 1965)

Queste fasi appena descritte, fanno riferimento ad un rapporto madre-figlio ottimale, ovvero un rapporto in cui lo stile di accudimento si è mostrato lineare con una giusta dose di cure da parte della madre, le quali hanno permesso uno sviluppo regolare della capacità psico-emotive del bambino. In realtà non tutte le figure di accudimento si comportano allo stesso modo, ed in maniera ottimale, ecco perché si può parlare di diversi stili di accudimento, che a loro volta generano diversi stili di attaccamento, quindi differenti comportamenti da parte dei bambini. E' per questo motivo che la Ainsworth, dedica una seconda fase del suo esperimento, all'elaborazione di una situazione sperimentale per determinare il tipo di attaccamento tra madre e figlio. Cercò infatti, di scoprire come i bambini, con diversi stili di accudimento nel primo anno di vita, possano reagire in una situazione di stress da separazione dalla madre, per giunta in un luogo estraneo,verificando dunque le modalità di coping3. Vennero prese in considerazione come variabili, il comportamento esplorativo del bambino e le sue reazioni emotive in presenza o assenza della madre. A partire da queste variabili, e dunque dal comportamento osservato in questi bambini di circa 12 mesi di età, si determinerà lo stile di attaccamento di ogni bambino, formatosi appunto nel primo anno di vita. La situazione sperimentale, denominata Strange Situation, era suddivisa in otto episodi, ciascuno della durata di tre minuti circa, dove il bambino veniva sottoposto a situazioni potenzialmente generatrici di "stress relazionale"(Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978). L'esperimento, si svolge all'interno di una stanza, munita di specchio unidirezionale, dove è possibile osservare la scena senza essere visti, all'interno della quale sono posizionate due sedie ed alcuni giocattoli con i quali il bambino può intrattenersi. Il tutto viene video registrato e si sviluppa attraverso i seguenti 3 Intesa come la capacità di far fronte (coping) ad una determinata situazione.

43


episodi: • 1°episodio, durata 30 secondi. Nella stanza apposita, vengono fatti entrare, e successivamente lasciati soli, la madre (o altra figura adulta verso cui si voglia osservare la relazione di attaccamento del piccolo) con il figlio. È di fatto una fase di preparazione alle successive, in cui viene chiesto alla madre, una volta entrata nella stanza di fingere la lettura di una rivista, mentre il bambino viene posto vicino ai giocattoli, lasciato libero di esplorare l’ambiente o coinvolgere il genitore, se lo desidera; • 2º episodio, durata 3 minuti. Nella stanza si mantiene per tutto il secondo episodio la situazione precedentemente descritta, con la madre impegnata nella lettura della rivista e il bambino tra i giochi. • 3º episodio, durata 3 minuti. Nella stanza fa ingresso un estranea che siede prima in silenzio di fianco alla madre, dopo un minuto, inizia ad interagire con la madre. Dopo un altro minuto l’estranea interagisce direttamente col bambino, cercando di coinvolgerlo in un gioco. Lo scopo del terzo episodio è di osservare le reazioni del piccolo nei confronti di una persona non familiare e di verificare se, e con quali modalità, questo utilizzi il genitore per valutare la situazione nuova e se si lasci o meno coinvolgere nell’interazione proposta dalla sperimentatrice estranea; • 4º episodio, durata 3 minuti o meno. La madre esce dalla stanza, lasciando il piccolo in compagnia dell’estranea. Questa prima separazione dalla figura di accudimento o caregiver, permette di osservare le strategie adottate dal piccolo per far fronte alla situazione di potenziale disagio, le risorse e le abilità che eventualmente mette in campo e l’eventuale messa in atto di comportamenti di ricerca nei confronti della figura di attaccamento; • 5°episodio, durata 3 minuti o più. La madre fa ritorno nella stanza e rimane da sola con il bambino per i successivi tre minuti, durante i quali ha la possibilità di consolarlo qualora il bambino richieda contatto o conforto. Nel caso le cure di conforto non vengano richieste, al genitore viene

44


chiesto di lasciare il bambino libero di continuare le attività che sta svolgendo. E' molto importante in questa fase, osservare le modalità con cui il bambino si ricongiunge al genitore, dunque se ricerca vicinanza e contatto, o se al contrario sembra ignorare il suo ritorno, mostrandosi autonomo o addirittura indifferente; • 6º episodio, durata 3 minuti o meno. Il genitore viene fatto riuscire dalla stanza, lasciando questa volta il bambino completamente solo. Il bambino deve far fronte quindi ad una seconda separazione, la quale spesso può rappresentare la fase più drammatica dell’osservazione. Nel caso in cui i bambini dovessero mostrare chiari segnali di disperazione la procedura viene immediatamente interrotta. Questo episodio permette di osservare coping le capacità del bambino di far fronte alla separazione (coping) quindi se manifesta disagio o mancanza della figura di attaccamento, ricercandone la presenza;

• 7º episodio, durata 3 minuti o meno. La sperimentatrice estranea rientra nella stanza, come la madre anche lei con il ruolo di supporto alle iniziative del bambino. Lo scopo di questo episodio è quello di valutare se e come il bambino utilizza l’estranea come figura di attaccamento sostitutiva e come reagisce al fatto che la separazione venga interrotta da una persona che non sia la figura di attaccamento. Ci si aspetta infatti che la separazione abbia attivato il sistema dell’attaccamento e che il bambino, all’arrivo dell’estranea, mostri una certa delusione, rimanendo in attesa del ritorno del genitore; • 8º episodio, durata 3 minuti o più. La madre rientra nella stanza fermandosi sulla porta, dando così al bambino la possibilità di rispondere spontaneamente, solo dopo lo prende in braccio. Quest'ultimo episodio è particolarmente importante per la valutazione dell’attaccamento. Si possono osservare infatti le risposte e le iniziative del piccolo nei confronti del genitore, se ricerca vicinanza, contatto fisico e interazione, se appare contento, rassicurato, o al contrario indifferente, passivo o arrabbiato. 45


Infine è possibile osservare se la presenza della figura di attaccamento è necessaria e sufficiente a consolare il piccolo e se questo appare in grado di riorganizzarsi dopo la situazione di stress e di riprendere l’esplorazione e l’attività di gioco.

3.3

I differenti stili di attaccamento

Come è facile intuire, i comportamenti dei singoli infanti nella Strange Situation, si manifestarono differenti da caso a caso, non per via di una base comportamentale innata, bensì da un condizionamento riferibile al primo anno di vita del bambino, da parte delle figura di accudimento. Questi risultati resero possibile creare una classificazione dei diversi stili di attaccamento, i quali vennero suddivisi inizialmente in tre categorie: Sicuro (B), insicuro Evitante (A) e insicuro Ambivalente (C). Successivamente è stata definita una quarta categoria, denominata Disorganizzato/Disorientato, nella quale è stato possibile includere i bambini che non mostravano attaccamento di tipo A, B o C, e cosi le categorie divennero quattro con i corrispettivi quattro stili di attaccamento: l'attaccamento sicuro; l'attaccamento insicuro-ansioso, ambivalente-resistente; l'attaccamento insicuro-ansioso, evitante e l'attaccamento disorganizzato.

L'attaccamento sicuro B

In questo stile di attaccamento vengono classificati i bambini che durante l'esperimento giocano in presenza della madre, accettano l'incontro con l'estraneo (sia pure in maniera un po' circospetta) e pur mostrando il loro sconforto alla separazione dalla madre, riescono a riorganizzarsi emotivamente e riprendere con l'esplorazione e l'utilizzo dei giocattoli. Una volta rientrata la madre nella stanza, questi bambini, risultano capaci di comunicare il loro stato di stress dovuto alla separazione, lasciandosi consolare 46


attraverso il contatto corporeo con la madre per poi proseguire a giocare. Questo stile o pattern, viene detto sicuro e contrassegnato con la lettera “B”, la quale sta per base sicura, a rappresentare la capacità del bambino di utilizzare la madre come punto di riferimento dal quale allontanarsi mentre è dedito all'esplorazione, ma al quale poter fare ritorno per il conforto e per l'espressione delle proprie emozioni, come la felicità ma anche l'ansia o la tristezza. La possibilità di poter esprimere le proprie emozioni, infatti, nasconde la sicurezza che queste possano venir comprese ed accolte, e dunque non possano essere un pericolo di rottura della relazione con la propria figura di accudimento. Il primo anno di vita di questi bambini, ha visto dunque una madre capace di riconoscere i segnali di aiuto e stress oltre ad esser pronta ad accorrerne in soccorso. Le persone con attaccamento sicuro dunque, tendono ad essere sicure delle proprie capacita' e visualizzano l'ambiente che le circonda come accogliente e stimolante.

L'attaccamento insicuro-ansioso, ambivalente-resistente C

I bambini classificati in questo stile di attaccamento, mostrano uno stato emotivo e comportamentale fortemente ambiguo. Nella stanza della Strange Situation, comunicano difficoltà, non riuscendo ad esplorare l'ambiente ne i giocattoli, sia in presenza che in assenza della madre. All'ingresso dell'estraneo nella stanza, manifestano intolleranza nei suoi confronti, rifiutando in maniera vivace il contatto e quando la madre fa ritorno, oltre a manifestare molto evidentemente il loro sconforto, mostrano resistenza al tentativo di conforto della madre, piangendo e in alcuni casi aggredendola. Il legame che caratterizza la coppia madre-figlio, viene definito insicuro-ansioso, mentre il bambino è definito di tipo C, a indicare la coercizione che caratterizza il suo comportamento nei confronti della madre e per questo definiti coercitivi-ambivalenti o ambivalenti-resistenti. La forte reazione negativa al rientro della madre e al suo successivo tentativo di confortare 47


il figlio, è dunque oltre che l'espressione normale dello stress accumulato dalla separazione, un modo per mostrare la propria sfiducia nei confronti della figura di accudimento, nonché un'abitudine, ormai formata in un anno di vita, ad enfatizzare i propri bisogni e l'espressione delle loro emozioni, al fine di ottenere maggior considerazione da una madre che evidentemente non sempre si era mostrata pronta a correre in suo soccorso e a comprendere i suoi stati d'animo. La coercizione utilizzata dal bambino è dunque da ritenersi come una forma di controllo esercitata sulla madre, la quale viene vista come una figura imprevedibile. L'osservazione condotta a casa di queste famiglie nel primo anno di vita dell'infante, mostrò infatti differenti tipi di relazione in cui le forme di accudimento si basavano principalmente sull'imprevedibilità e l'incertezza da parte della figura di accudimento, la quale non riusciva a dare adeguate risposte alle richieste emotive del bambino, mostrandosi, a volte affettuosa, altre indifferente oppure esercitando il conforto quando non veniva richiesto e viceversa. Le persone con attaccamento insicuro-ambivalente, nel tentativo di evitare l'imprevedibilità, tendono a muoversi soltanto nel conosciuto evitando le novità le quali potrebbero causare emozioni negative, quali ansia o paure.

L'attaccamento insicuro-ansioso, evitante A

I bambini osservati e classificati in questo stile di attaccamento, mostrano principalmente una falsa autonomia e una soppressione delle proprie emozioni. Nella

prima

fase

dell'esperimento,

appaiono

tranquilli,

concentrandosi

principalmente sui giocattoli, ma all'uscita dalla stanza della madre, cosi come al rientro, mostrano indifferenza emotiva nonostante si possa notare in loro un forte stato di ansia, mentre accettano di buon grado l'ingresso nella stanza dell'estraneo. Utilizzando quella che viene chiamata una strategia di evitamento, questi bambini, prendendo le distanze dalle loro emozioni, come se avessero appreso a rinunciare ai loro bisogni di sicurezza per non correre il rischio di rovinare il rapporto con la madre lasciandosi andare agli stati emotivi, che in questo caso rappresentano per il piccolo un pericolo per la relazione. Nel primo anno di vita si notò come questi 48


bambini ricevettero un rifiuto sistematico dei loro bisogni affettivi e del contatto fisico nei momenti di sconforto, oltre a venir ridicolizzati per le loro ansie con la costante minaccia di un interruzione del rapporto da parte della madre nel caso avessero continuato nella manifestazione delle loro emozioni. Il legame tra questi bambini e la loro figura di accudimento viene definito insicuro-ansioso di tipo evitante A da avoidant, ovvero evitante. Le persone con questo tipo di attaccamento si comportano come se gli altri non esistessero, cercando di rendersi piĂš autonomi possibile dagli altri e dall'ambiente circostante il quale appare inaccessibile.

L'attaccamento disorganizzato D

Questa categoria, come detto precedentemente, venne introdotta successivamente, visto che la stragrande maggioranza dei bambini osservati ricadeva nelle tre categoria precedenti. Solo un 2% che poi diventò un 8% da ulteriori ricerche, risultava inclassificabile in questi tre stili di attaccamento. Fu grazie a studi successivi condotti da Mary Main (Main, Kaplan, Cassidy, 1985), che venne individuato nel comportamento di questi bambini un minimo comune denominatore. Questo stile di attaccamento venne subito definito disorganizzato, da cui la lettera D, in quanto questi bambini mostravano durante la Strange Situation, strani comportamenti nei confronti della madre, senza un apparente nesso logico. Alcuni di questi guardavano la madre con aria impaurita, altri vi si avvicinavano senza guardarla in volto o coprendosi gli occhi con le mani, altri ancora

mostravano

un

avvicinamento

che

si

interrompeva

alternando

comportamenti da evitante al resistente. Fu in seguito chiarito che l'infanzia di questi bambini nascondeva lati oscuri, quali abusi fisici o sessuali da parte del genitore, spesso incapace di offrire un adeguato accudimento anche a causa di problemi psichici o di altra natura, che rendevano la sua figura minacciosa o spaventata, se non una diretta fonte di pericolo. Le persone con questo tipo di attaccamento si presentano ostili o spaventate e intravedono dell'ambiente 49


circostante come minaccioso.

3.4. La distribuzione degli stili di attaccamento.

Essendo statisticamente più ricorrente lo stile di attaccamento sicuro B, viene considerato come stile normale, ovvero quello che un bambino dovrebbe avere se il suo sviluppo psico-emotivo si svolge con una figura di attaccamento sicura e affidabile. Dai campioni della Ainsworth, della Main e da quasi tutti quelli degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale (Van Ijzendoorn, Kroonenberg, 1988) emerge infatti che ben il 66% dei bambini ha un attaccamento sicuro B, il 20% un attaccamento evitante A e il 12%

un attaccamento ambivalente C. Quando

all'interno della statistica viene considerata anche la tipologia disorganizzata D, compare una percentuale di appartenenti a questo stile, che varia dall'8% al 10% dei soggetti a scapito delle altre tipologie insicure. In realtà queste differenze non sono semplicemente derivanti dal rapporto madre-figlio, o meglio, esistono influenze culturali e storiche che possono essere determinanti della qualità di questo rapporto e quindi noteremo come per una diversa cultura o età storica, tenderanno ad esservi percentuali differenti, per ogni stile di attaccamento. Bisogna insomma fare i conti con le modalità allevanti delle madri, le quali vanno lette sullo sfondo dei contesti culturali di appartenenza e di periodi storici (Van Ijzendoorn, Sagi, 1999). Ad esempio nelle culture occidentali si potrà notare uno spostamento verso l'evitamento, (Ammaniti, Canderori, Pola, Speranza, Tambelli, 1994), ovvero sembrerebbero aumentare i soggetti con stile evitante a scapito di quelli sicuri, questo presumibilmente per un maggior impiego delle madri nel mondo del lavoro e quindi per una loro minore presenza accanto ai figli, la quale determina una minore disponibilità al soddisfacimento dei loro bisogni di conforto. Specie in Germania (Grossman e Grossman, 1991) appare una percentuale particolarmente elevata di bambini evitanti, probabilmente a causa dell'importanza data dalle madri tedesche all'obbedienza, al fidarsi di se stessi e all'autonomia 50


precoce, così come è richiesto dalla cultura tedesca. In Israele (Sagi, Van Ijzendoorn, Aviezer, Donnell, Mayseless, 1994) prevalgono i soggetti con stile ambivalente-resistente su quelli di stile sicuro, ben il 50% è di tipo C rispetto agli A. Forse per le pratiche di allevamento basate sul dormire in Kibbutz e su un maternage multiplo, cosi che facilmente i piccoli ricevono risposte ritardate e inconsistenti ai loro segnali di disagio, subendo gli effetti negativi di una “dispersione” dell'accudimento. Lo stesso sembra accadere in Giappone (Miyake, Chen e Campos, 1985), dove emerge una percentuale più alta di stili ambivalentiresistenti, probabilmente qui a causa di una forte tendenza da parte delle madri di questo Paese a incoraggiare la dipendenza emotiva del bambino, a utilizzare stili di interazione centrati molto sul contatto fisico e sull'evitamento della separazione e allo stesso tempo su una minore costanza delle risposte alle richieste di conforto, il che genera una chiusura emotiva da parte del bambino.

Nonostante la teoria dell'attaccamento sia nata con esplicito interesse ai primi anni di vita dell'essere umano, Bowlby (1979) sosteneva che l'attaccamento è parte integrante del comportamento umano "dalla culla alla tomba" e dunque che lo stile di attaccamento formatosi durante l'infanzia, rimanga relativamente stabile durante tutto lo sviluppo dell'individuo fino all'età adulta. Gli adulti quindi come i bambini sono legati nella loro rappresentazioni della realtà, a queste strutture mentali, le cui origini sono da attribuire alla prima infanzia, ma i cui effetti continuano a manifestarsi in modelli di comportamento generati da rappresentazioni mentali relative al Sé e agli altri, che vanno a costituire quelli che Bowlby chiamò Modelli Operativi Interni (1969/1988) , i quali inevitabilmente influenzano i processi di elaborazione delle informazioni e di conseguenza anche la codifica e decodifica dei segnali non verbali.

51


4. CNV e PBI: un'indagine tra comunicazione non verbale e stili di attaccamento

Abbiamo parlato fin qua della CNV cercando di analizzare tutti gli aspetti che la compongono, i vari segnali e i significati a loro correlati. Più volte è stato fatto riferimento a determinati segnali non verbali, mettendoli in relazione con differenti caratteristiche psicologiche, notando come per ogni differente “stato” (psichico o emotivo), corrisponda una manifestazione non verbale, più o meno inconscia, dalla quale sia possibile percepire importanti informazioni su un individuo.

In questo capitolo, si tenterà di seguire il cammino inverso, all'interno dell'osservazione della CNV, partendo dall'analisi di alcune caratteristiche di personalità, per arrivare all'interpretazione della CNV che, a partire da queste ultime, ne consegue. Nonostante infatti, come è stato accennato nella premessa, si possa parlare entro certi limiti di un'universalità minima della CNV (Russel e Fernandez, 1997), resta pur vero che ogni individuo mantiene la sua rappresentazione della realtà, alla quale farà riferimento una determinata visione del mondo, naturalmente soggettiva. Più semplicemente, potremo dire che nonostante il linguaggio non verbale utilizzato sia da tutti riconosciuto, ognuno di noi tenderà a proiettare la propria realtà su ciò che vede e di conseguenza, a parità di messaggio non verbale ricevuto, non tutti gli individui daranno la medesima interpretazione, quindi per uno stesso stimolo non corrisponderà sempre una stessa risposta.

A partire da questo presupposto, si è cercato di sviluppare un metodo di ricerca, in grado, oltre che di analizzare precisi aspetti psicologici di alcuni individui, di raccogliere le impressioni ricevute da questi ultimi, relative ad una comunicazione di sola natura non verbale, allo scopo di confrontare le due osservazioni e 52


valutarne un'eventuale relazione. Riguardo la prima parte della ricerca, ovvero l'analisi dei profili psicologici dei soggetti, che volontariamente si sono sottoposti all'esperimento, si è scelto di utilizzare un test messo a punto da Parker, Tupling e Brown (1979), chiamato Parental Bonding Instrument o PBI, basato per l'appunto, sulla teoria dell'attaccamento di John Bowlby, della quale ci siamo occupati nel precedente capitolo.

4.1.

Il test del PBI

Il test del PBI, visibile in allegato, serve per valutare le caratteristiche del legame genitoriale nei primi 16 anni di vita ed individuare lo stile di attaccamento del soggetto. E' composto da 25 quesiti e utilizza come riferimento due dimensioni fondamentali nella relazione genitori-figlo: la cura o accudimento (da ritenersi come caratteristica di accudimento positiva) e il controllo o iperprotettività (da ritenersi come caratteristica di accudimento negativa) Raskin, Boothe, Reating, Schulterbrandt e Odle (1971). Dalla combinazione di queste due variabili di accudimento, come è facile intuire, risulteranno quattro stili di attaccamento: molta cura/poco controllo; molta cura/molto controllo; poca cura-poco controllo; poca cura-molto controllo. Un'elevata cura sotto intende una figura di accudimento capace di dispensare affetto e attenzioni, che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, genera nel bambino uno stile di attaccamento di tipo sicuro, viceversa, un'elevata iperprotettività da parte del genitore, genera uno stile di attaccamento di tipo insicuro.

Per ottimizzare i risultati, visto il numero ridotto del campione (50 individui), si è scelto in questa ricerca di accorpare gli stili di attaccamento insicuro, in modo tale da avere due principali variabili psicologiche: sicuri e insicuri. Il grafico che segue, mostra i risultati di questo primo test.

53


Grafico 1. Percentuale degli stili di attaccamento negli studenti dell'università di Lettere e Filosofia di Sassari 2011.

Tabella 2. Percentuale degli stili di attaccamento negli studenti dell'università di Lettere e Filosofia di Sassari 2011. Stili di attaccamento

Frequenza

Percentuale

Sicuro

22

44,0

Insicuro

28

56,0

Totale

50

100,0

Come si può notare già a prima vista, i soggetti con stile di attaccamento insicuro, prevalgono sui soggetti con stile di attaccamento sicuro. Su 50 individui infatti, come mostrato nella tabella sopra, ben 28 risultano insicuri a discapito di soli 22 sicuri. Questa percentuale, non risulta essere in linea con la statistica ricavata dai campioni della Ainsworth, della Main e da quasi tutti quelli degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale (Van Ijzendoorn, Kroonenberg, 1988) dove emerge che ben il 66% dei bambini ha un attaccamento sicuro, tuttavia nell'analisi finale dei dati, dovremo tenere conto di questa percentuale, per eseguire una valutazione corretta dei risultati.

54


4.2.

Il test di valutazione della CNV

Una volta raccolti i profili psicologici, ha avuto inizio la seconda parte della ricerca, la più complessa, nella quale si è cercato di analizzare l'interpretazione dei segnali non verbali della comunicazione, da parte degli stessi soggetti sottoposti al test del PBI, al fine di individuare una probabile relazione tra i profili psicologici e l'interpretazione della CNV. Per l'individuazione di questa variabile, si è scelto di sottoporre i soggetti alla vista di tre brevi filmati, estrapolati da tre film differenti, della durata di un minuto e mezzo circa ciascuno, in modo tale da avere uno stimolo controllato uguale per tutti. Alla fine di ogni filmato, attraverso un breve questionario, si son raccolte le impressioni generali suscitate dal filmato e i segnali non verbali che hanno aiutato ad interpretarle.

La scelta dei filmati, nei quali appare un'interazione tra due individui, è arrivata dopo un'accurata selezione rispettando tre principali linee guida precedentemente stabilite: la cura del contesto della comunicazione; la percepibilità degli aspetti paraverbali; l'ambiguità comunicazionale. Riguardo il contesto della comunicazione, si è preferito selezionare i filmati dove i due interlocutori, si trovano a tu per tu, seduti al tavolino di un bar o di un ristorante, in modo tale che l'analisi della CNV sia centrata principalmente sul viso e il comportamento cinesico (movimenti del capo e delle mani), con gli interlocutori ripresi in primo piano o a mezzo busto. Questo perché dando risalto alla parte più comunicativa del corpo, il volto, si vuole limitare al minimo il rischio di una cattiva interpretazione dei segnali non verbali dovuta ad una cattiva visione del segnale stesso. Soprattutto nell'area del viso, infatti, si rivela fondamentale poter percepire anche una minima espressione, la quale può essere determinante nell'interpretazione della comunicazione stessa. Eliminare l'audio dei filmati, in maniera che colui che li osserva faccia esclusivo riferimento alla CNV per l'interpretazione dei messaggi, è stata una scelta che si è preferito scartare, per evitare di tagliare fuori dalla ricerca tutti quei segnali non 55


verbali legati alla voce. I segnali paraverbali infatti, come si è visto in precedenza, in uno scambio vocale tra due individui (come nel caso dei filmati) rappresentano un'importante percentuale nella veicolazione del messaggio stesso. Si è cercato dunque di escogitare un sistema che permettesse di separare i contenuti verbali da quelli non verbali della voce. E' per questo motivo che nella scelta dei filmati, si è preferito selezionare brevi spezzoni di film registrati in presa diretta4 in lingua inglese. Questo oltre a minimizzare la percezione del contenuto verbale dell'interazione, garantisce la fedeltà tra il labbiale e i segnali vocali, dunque tra le espressioni del viso e i segnali paraverbali, caratteristica, questa della congruenza tra segnali non verbali, indispensabile per una interpretazione realistica della CNV. Inoltre, l'audio dei filmati durante la proiezione, è stato regolato al fine di risultare secondario alla visione, impostando il volume su un livello medio basso, il che assieme all'uso di una lingua “straniera”, si è mostrato un ulteriore ostacolo nella percezione della comunicazione verbale, permettendo comunque di cogliere quegli aspetti vocali quali il ritmo e il tono. Questa strategia si è rivelata vincente e ha permesso che i soggetti sottoposti al test, pur percependo qualche parola, non potessero capire il contenuto logico-verbale dell'interazione. Dopo aver selezionato i filmati in base a queste due caratteristiche tecniche, una riguardante le inquadrature degli attori e l'altra l'audio del filmato, si è preferito utilizzare quei video il cui contenuto non verbale potesse risultare per certi versi ambiguo, onde evitare che difronte ad un filmato troppo esplicito le interpretazioni dei soggetti sottoposti al test, risultassero concordi all'unanimità riguardo la “direzione” dell'interazione osservata, invalidando i risultati della ricerca. Lo scopo finale infatti è proprio quello di scoprire se i soggetti differenziati nel test del PBI tra sicuri e insicuri, possano avere una differente interpretazione dei segnali non verbali, dunque più un filmato mostra ambiguità comunicazionale, tanto più si rivelerà utile per la ricerca, in quanto i soggetti tenderanno a discriminare interpretando a modo proprio l'interazione osservata. 4

La presa diretta è una tecnica di acquisizione del suono, che avviene in contemporanea all'acquisizione del video, ciò permette di eliminare, nell'assemblaggio del film, la fase del doppiaggio. 56


Per la raccolta dei dati relativi alle impressioni ricevute dal filmato, si è costruito un questionario specifico al caso, in grado di analizzare gli aspetti principali dell'interazione e raccogliere i segnali non verbali rivelatisi utili, per il soggetto, all'interpretazione del video. Nella prima domanda del test si sono utilizzate quattro variabili, ciascuna delle quali dotata di scala Likert5 a risposta chiusa, utili per identificare il tipo di relazione osservata, mentre la seconda domanda, a risposta aperta, è servita per raccogliere i segnali non verbali decisivi per l'interpretazione dell'interazione.

Ecco di seguito le due domande formulate nel questionario:

1. Prova a definire la modalità interattiva che hai appena osservato, selezionando per ogni termine il grado di validità che ritieni più idoneo.

Accordo Per niente □

Poco □

Abbastanza □

Molto □

Poco □

Abbastanza □

Molto □

Poco □

Abbastanza □

Molto □

Poco □

Abbastanza □

Molto □

Intimità Per niente □

Disaccordo Per niente □

Ostilità Per niente □

5 La scala Likert è una tecnica di misurazione utilizzata nella ricerca sociale per misurare atteggiamenti e opinioni attraverso l'uso di affermazioni. Fu ideata nel 1932 dallo psicologo Rensis Likert, da cui prende il nome. 57


2. Quali sono i segnali o gli aspetti della loro interazione che ti hanno aiutato a definirla?

Il questionario è stato somministrato a tutti i 50 soggetti che hanno partecipato al test, subito dopo la visione del filmato, uno per ogni filmato osservato. I video sono stati proiettati in ordine casuale e i test numerati in base al soggetto, in maniera tale da poter poi confrontarli con i test del PBI somministrati in precedenza.

4.3.

L'analisi dei dati

Una volta raccolte tutte le risposte, si è passati alla fase di elaborazione dei dati con l'obiettivo di verificare la presunta relazione tra gli stili di attaccamento e l'interpretazione dei segnai non verbali. Per eseguire questo calcolo, si è utilizzando quello che in statistica viene chiamato test del chi quadro (X²), il quale ci consente di verificare se due variabili siano dipendenti o meno l'una dall'altra. Le prime due variabili risultanti dal test del PBI (sicuri e insicuri), sono state prima confrontate ad ognuna delle quattro variabili del test CNV (accordo, intimità, disaccordo e ostilità) per tutti e tre i filmati, per raccogliere il numero totale di risposte date dai sicuri e insicuri per ogni variabile su ogni filmato. Anche in questo caso, visto il numero ridotto del campione, onde evitare una dispersione nelle risposte, si è deciso nella fase di elaborazione dei dati, di dimezzare le risposte di ogni variabile del test CNV (Per niente , Poco, Abbastanza, e Molto), accorpando le prime due e le ultime due, rispettivamente con un “No” e con un “Si”. Nelle tabelle che seguono, sono riportati i risultati di questa prima verifica per tutti e tre i filmati assieme alle rispettive percentuali.

58


Tabella 3. Relativa al numero e le percentuali delle risposte nel 1° filmato. VIDEO

Accordo

Intimità

Disaccordo

Ostilità

No

Si

No

Si

No

Si

No

Si

Frequenza

39

11

41

9

23

27

16

34

%

78

22

82

18

46

54

32

68

Sicuri

18

4

17

5

8

14

6

16

Insicuri

21

7

24

4

15

13

10

18

%Sic

46,2

36,4

41,5

55,6

34,8

51,9

37,5

47,1

%Ins

53,8

63,6

58,5

44,4

56,2

48,1

62,5

52,9

Tabella 4. Relativa al numero e le percentuali delle risposte nel 2° filmato. VIDEO

Accordo

Intimità

Disaccordo

Ostilità

No

Si

No

Si

No

Si

No

Si

Frequenza

28

22

6

44

27

23

49

1

%

56

44

12

88

54

46

98

2

Sicuri

8

14

2

20

14

8

22

0

Insicuri

20

8

4

24

13

15

27

1

%Sic

28,6

63,6

33,3

45,5

51,9

34,8

44,9

0,0

%Ins

71,4

34,6

66,7

54,5

48,1

65,2

55,1

100,0

Tabella 5. Relativa al numero e le percentuali delle risposte nel 3° filmato. VIDEO

Accordo

Intimità

Disaccordo

Ostilità

No

Si

No

Si

No

Si

No

Si

Frequenza

34

16

34

16

19

31

30

20

%

68

32

68

32

38

62

60

40

Sicuri

12

10

15

7

10

12

17

5

Insicuri

22

6

19

9

9

19

13

15

%Sic

35,3

62,5

44,1

43,8

52,6

38,7

56,7

25,0

%Ins

64,7

37,5

55,9

56,3

47,4

61,3

43,3

75,0

59


Non è semplice a prima vista intuire se vi siano differenze significative nelle risposte tra i due stili di attaccamento. Si può notare con facilità, come su alcune variabili, quali l'intimità nel primo video e l'ostilità nel secondo, la maggioranza del campione non abbia avuto dubbi riguardo la risposta, soprattutto nel secondo video, dove ben il 98% degli individui, ritengono non vi sia ostilità.

E' interessante osservare come vi possa essere una cosi alta percentuale di risposte unanimi, a

conferma del fatto che dinanzi ad una domanda ed un filmato

abbastanza espliciti, non avviene nessuna discriminazione in base agli aspetti psicologici dei soggetti. Come detto in precedenza, nella scelta dei filmati, si è cercato di selezionare quelli in cui fosse presente un sufficiente grado di ambiguità comunicazionale, allo scopo di far “sbilanciare” i soggetti in una propria interpretazione. Proprio perché non si poteva prevedere il limite esatto tra ciò che può risultare esplicito o ambiguo, si è scelto di utilizzare tre filmati con differenti gradi di ambiguità. Scoprire dunque che due sole variabili di due filmati differenti, mostrano queste percentuali di uguaglianza, è sintomo che tutto il tempo dedicato alla scelta dei video è stato ripagato e questo ci fa ben sperare riguardo la fase successiva, quella in cui cercheremo di scoprire, attraverso il test del chi quadro, se vi sia una relazione significativa tra le due variabili principali.

Eseguendo il test del X² e utilizzando un livello di significatività del 5%, appaiono due variabili significative, il che mostra come vi sia un legame di dipendenza tra i due stili di attaccamento (sicuro/insicuro) e il modo in cui hanno interpretato i filmati e quindi risposto al questionario.

Le due variabili significative sono state riportate di seguito e appartengono la prima (accordo) al 2° video e la seconda (ostilità) al 3° video.

60


Tebella 6. Relativa al numero e le percentuali delle risposte nelle due variabili significative, rispettivamente del 2° e 3° filmato. VIDEO

Accordo

Ostilità

2°e 3°

No

Si

No

Si

Frequenza

28

22

30

20

%

56

44

60

40

Sicuri

8

14

17

5

Insicuri

20

8

13

15

%Tot Sicuri

36,4

63,6

77,3

22,7

%Tot Insicuri 71,4 28,6 46,4 53,6 X²=6,148; p=0,013. (Dati relativi alla variabile significativa “Accordo”). X²=4,884; p=0,027. (Dati relativi alla variabile significativa “Ostilità”).

Una delle prime cose che salta all'occhio osservando la tabella sopra, è come il campione di 50 individui si sia diviso dinanzi a questi due quesiti (sintomo positivo di ambiguità del filmato). Nella variabile “Accordo” appartenente al 2° video abbiamo 28 soggetti che ritengono non vi sia accordo (il 56%) e 22 soggetti (il 44%) che invece ritengono che nel filmato osservato vi sia accordo tra i due interlocutori. Proseguendo nella lettura della tabella vediamo che dei 28 soggetti che ritengono non vi sia accordo, solo 8 appartengono allo stile di attaccamento dei sicuri, mentre i restanti 20 appartengono allo stile di attaccamento insicuro. Osservando la colonna di fianco, ovvero quella che indica i favorevoli all'accordo, vediamo che la situazione si inverte e su un totale di 22 soggetti, la maggioranza di quelli che pensa vi sia accordo appartengono allo stile di attaccamento sicuro e soltanto 8 a quello insicuro. Appare evidente dunque che dopo la visione del secondo filmato, gli insicuri ritengono non vi sia accordo tra gli interlocutori a differenza dei sicuri. La percentuale massima si raggiunge nei “No”, dove ben il 71,4% degli insicuri ritiene non vi sia accordo. Il grafico a seguire, espresso in percentuali, mostra come difronte a questa variabile i pareri si invertano in base allo stile di attaccamento.

61


Grafico 2. Percentuali relative alla variabile significativa “Accordo”, 2° filmato.

Spostandoci sulla variabile “Ostilità” del 3° video, oltre a notare come anche in questo caso il campione tenda a dividersi nella risposta, possiamo vedere come su 30 individui che ritengono non vi sia ostilità, 17

appartengono allo stile di

attaccamento sicuro, quindi ben il 77,3% dei sicuri non vede ostilità tra i due interlocutori, mentre gli insicuri dinanzi a questa domanda si dividono, con 13 che dicono “No” e 15 che dicono “Si”, non mostrando una direzione precisa.

Grafico 2. Percentuali relative alla variabile significativa “Ostilità”, 3° filmato.

62


Per quanto riguarda il secondo quesito del test CNV, dove veniva chiesto di elencare i segnali rivelatisi utili nell'interpretazione dei filmati, si è osservato che tra i segnali non verbali più riconosciti e ritenuti rilevanti vi fossero lo sguardo e le espressioni del viso, con a seguire i movimenti delle mani. Il grafico sotto mostra la somma dei questi segnali citati dai soggetti per tutti e tre i filmati.

Grafico 3. Somma dei segnali non verbali raccolti nel 2° quesito del test CNV.

Si ha la conferma qui di quanto descritto nel primo capitolo, dedicato all'analisi dei segnali non verbali. Primo tra tutti infatti, come importanza nella comunicazione, appare il volto, con lo sguardo e le espressioni del viso, che quasi la totalità dei soggetti sotto posti al test ritiene come i segnali più indicativi per la comprensione dei messaggi non verbali. I segnali vocali, al sesto posto, mostrano come vi sia stata una percezione della comunicazione paraverbale, seppur la maggioranza dei soggetti non l'abbia ritenuta fondamentale per l'interpretazione del filmato.

63


Conclusioni

Queste differenze riscontrate nel test, evidenziano come per un diverso stile di attaccamento possa corrispondere una diversa interpretazione della CNV. Più in generale potremmo dire che i sicuri hanno la tendenza ad interpretare in maniera positiva i filmati minimizzando il conflitto, a differenza degli insicuri, per i quali prevale la tendenza a minimizzare l'accordo se non ad enfatizzare il conflitto. Avviene cosi, come ci si attendeva, una proiezione degli stati psicologici dei soggetti che va ad influenzare l'interpretazione stessa dei filmati. Questo non ci consente di dire quale tra i due stili di attaccamento abbia dato un'interpretazione migliore del filmato, se i sicuri abbiano peccato di ottimismo o viceversa gli insicuri abbiano approssimato per difetto. Quel che appare con evidenza è la relazione di dipendenza tra le due variabili, conferma del fatto che non vi può essere interpretazione univoca della CNV per differenti stili di attaccamento. A parità di messaggio ricevuto infatti, se l'insieme dei segnali non risulta essere sufficientemente esplicito, appare determinate nella decodifica dei messaggi, quell'insieme di strutture mentali, che formatesi già nella prima infanzia, accompagnano ogni individuo nella propria esistenza e si manifestano come rappresentazioni soggettive della realtà.

64


Bibliografia

Ainsworth M., Bowlby J., (1965), Child Care and the Growth of Love. London, Penguin Books.

Ainsworth M. D. S., Wittig B.A. (1969), Attachment and the exploratory behavior of one-year- olds in a strange situation. In B.M. Foss (Eds.) Determinants of the infant behaviour, London: Methuen.

Ainsworth M. D. S., Blehar M. C., Waters E., Wall S. (1978), Patterns of attachment: A psychological study of the strange situation.

Hillsdale, N.J.:

Erlbaum.

Ainsworth M. D. S., (1982), “Attachment: retrospect and prospect”. In Parkes, C.M., Stevenson-Hinde J. (a cura), The Place of Attachment in Human Behaviour. Tavistock, London.

Ammaniti M., Canderori C., Pola M., Speranza A. M., Tambelli R. (1994), “Influenze culturali e dinamiche relazionali nell'attaccamento infantile”. In Attili G. (a cura di), Attaccamento e disadattamento, nucleo monotematico in Età Evolutiva, 47, pp. 99-107.

Anolli L. (2002), Psicologia della comunicazione, Bologna, Il Mulino.

Argyle M. (1974), La comunicazione non-verbale, Roma-Bari, Laterza (ed.or.1972).

Argyle M. (1975), Il corpo e il suo linguaggio, Bologna, Zanichelli.

Argyle M. (1992), Il corpo e il suo linguaggio, Bologna, Zanichelli (ed. or. 1975).

65


Attili G. (2007), Attaccamento e costruzione evoluzionistica delle mente, Milano, Cortina.

Birdwhistell, R. L. (1970), Kinesics and Context: Essays on body motion communication. Philadelphia.

Bonaiuto M., Gnisci A. e Maricchiolo F. (2002), Proposta e verifica di una tassonomia per la codifica dei gesti delle mani in discussioni di piccolo gruppo, in “Giornale Italiano di Psicologia”, 29, pp. 777-807.

Borg J. (2009), Il linguaggio del corpo, Milano, Tecniche Nuove, (ed. or. 2008).

Bowlby, J. (1940), “The influence of early environment in the development of neurosis and neurotic character”. In International Journal of Psychoanalysis, 21, pp. 154-178.

Bowlby, J. (1969), Attaccamento e Perdita, Vol. 1: L'Attaccamento alla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1972.

Bowlby, J. (1973), Attaccamento e Perdita, Vol. 2: La separazione dalla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1975.

Bowlby, J. (1979), Costruzione e rottura dei legami affettivi. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1982.

Bowlby, J. (1980), Attaccamento e Perdita, Vol. 3: La perdita della madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1983.

Bowlby, J. (1988), Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento, Raffaello Cortina, Milano 1989.

66


Bull P. (1987), Posture and gestures, Oxford.

Cerrato L., Skhiri M. (2003),

Analysis and measurement of communicative

gestures in human dialogues. AVSP (pp. 251-256). St. Jorioz, France.

Contento S. (1999), Gestural cohesion in discourse. In M.da Graça Pinto, J.Veloso, B. Maia (eds), Proceedings of 5th Congress of the International Society of Applied Psycholinguistics (pp. 201-205). Porto: Facultade de Letras da Universidade do Porto.

Cook M. (1973), La percezione interpersonale, Il Mulino (ed. or. 1971),Bologna.

Cunningham M. R., Barbee A. E & Pike C. L. (1990), What do women want? Facialmetric assessment of multiple motives in the perception of male facial physical attractiveness. Journal of Personality and Social Psychology, 59, pp. 6172.

DePaulo, B.M. & Friedman, H.S. (1998). Nonverbal Communication. In D. Gilbert, S. Fiske, & G. Lindzey (eds.) Handbook of Social Psychology, 4th edition. Boston: McGraw Hill, vol. II, pp. 3-40.

De Saussure F. (1978), Corso di linguistica generale, Laterza, Bari

Ekman P., Friesen W. V. (1969). The repertoire of nonverbal behavior: Categories, origins, usage and coding, in “Semiotica”, 1, pp. 49-98.

Ekman P., Friesen W. V. (1971), Constants across culture in the face and emotion, in “Journal of Personality and Social Psychology”, 17, pp. 124-9.

Ekman P., Friesen W. V. (1982), Felt, false, and miserable smiles, in “Journal of Nonverbal Behavior”, 6, pp. 238-52. 67


Ekman P. (1982), Emotion in the human face, Cambridge.

Exline, R. V. (1963), Explorations in the process of person perception: visual interaction in relation to competition, sex and need for affiliation. In Journal of Personality, volume 31, issue 1, pages 1-20, March 1963

Exline, R. V. (1972), Visual interaction: The glances of power and preference. In J. K. Cole (Ed.), Nebraska symposium on motivation 1971, Lincoln (NE), pp. 163206.

Goldman-Eisler F. (1968), Psycholinguistics, London.

Grossman K. E., Grossman K. (1991), “La qualità dell'attaccamento come organizzatore delle risposte emotive e comportamentali in una prospettiva longitudinale”. Tr. it. In Parkes C. M., Stevenson-Hinde J., Marris P. (1998) (a cura di), L'attaccamento nel ciclo di vita. Il Pensiero Scientifico, Roma 1995.

Hall, E. T. (1968), Proxemics. Current Anthropology 9:83-108.

Harlow, H., & Mears, C. (1979), The human model: Primate perspectives. New York: Wiley

Hinde R.A., McGinniss L. (1977), “Some factors influencing the effects of temporary mother-infant separation: some experiments with rhesus monkeys”. In Psychological Medicine, 7, pp. 197-222.

Holmes J. (1993), La teoria dell'attaccamento. John Bowlby e la sua scuola, Cortina, Milano.

Kendon A. (1967), Some functions of gaze direction in social interaction, in

68


“Acta Psychologica”, 26, pp. 22-63.

Kendon A. (1973), Review of Birdwhistell: Kinesics and context, in “American Journal of Psychology”, 85 , pp. 441-455.

Kendon, A. (1983), Gesture and speech : How they interact. In J. M. Wiemann & R. P. Harrison (Eds.), Nonverbal Interaction, Beverly Hills, pp. 13-45.

Laver J., Trudgill P. (1982), Phonetic and linguistic markers in speech, in K. R. Scherer, H. Giles (eds.), Social markers in speech, Cambridge.

Main M., Kaplan N., Cassidy J. (1985), “La sicurezza nella prima , nella seconda infanzia e nell'età adulta: il livello rappresentazionale”. Tr. it. In Riva Crugnola C. (a cura di), Lo sviluppo affettivo del bambino. Raffaello Cortina, Milano1993.

Mastronardi V. (1998), Le strategie della comunicazione umana, Franco Angeli, Milano.

Mehrabian A. (1972), Nonverbal communication, Chicago-New York.

Menghini D., Maroni B. (1999), Socializzare al silenzio: La costruzione sociale del suo significato. Una rassegna di studi, in “Età Evolutiva”, 64, pp. 102-15.

McNeill D. (1992), Hand and mind, Chicago.

Miyake K., Chen S., Campos J. J. (1985), “Infant temperament, mother's mode of interaction, and attachment in Japan: an interim report”. In Bretherton I., Waters E., (a cura di), Growing Points of AttachmentTheory and Research. Monographs of the Society for Research in Child Development, 50, 1-2, pp. 276-318, University of Chicago Press, Chicago.

69


Morris D. (1990), L'uomo e i suoi gesti, Mondadori, Milano (ed. or. 1977).

Parker, G., Tupling, H., & Brown, L. B. (1979), A parental bonding instrument. British Journal of Medical Psychology, 52, 1-10

Piaget J. (1936), La nascita dell'intelligenza nel bambino. Tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1968.

Plutchik R. (1980), A general psychoevolutionary theory of emotion. In R. Plutchik & H. Kellerman (Eds.), Emotion: Theory, research, and experience: Vol. 1. Theories of emotion. New York: Academic. Raskin A., Boothe H. H., Reatig N. A., Schulterbrandt J. G. and Odle D. (1971), Factor analyses of normal and depressed patients' memories of parental behavior. Psychological

reports

1971;

29(3):

871-9.

Ricci Bitti P. E., Cortesi S. (1977), Comportamento non verbale e comunicazione, Il Mulino, Bologna.

Ricci Bitti P. E., Zani B. (1983), La comunicazione come processo sociale, Il Mulino, Bologna.

Ricci Bitti P. E. (1987), Comunicazione e gestualitĂ , Franco Angeli, Milano.

Ricci Bitti P.E., Caterina R. (1995), Moda, Relazioni Sociali e Comunicazione, Zanichelli, Bologna.

Russell J. A., Fernandez-Dols J. M. (1997), Psicologia delle espressioni facciali, Edizioni Erickson, Trento.

Sacks H., Schegloff E. A. e Jefferson G. (1974), A simplest systematics for the

70


organization of the turn taking for conversation, in “Language”, 50, pp. 696-735.

Sagi A., Van Ijzendoorn M. H., Aviezer O., Donnell F., Mayseless O. (1994), “Sleeping out of home in a kibbutz communal arrangement: it makes a difference for infant-mother attachment”. In Child Development, 65, pp. 992-1004.

Stone G. P. (1970), Appearance and the self, in G. P. Stone, H. A. Farberman (eds.), Social psychology through symbolic interaction, Waltham (MA).

Trager G. L. (1958), Paralanguage: A first approximation, in “studies in Linguistics”, 13 pp. 1-12.

Van Hooff, J. A. R. A. M. (1967), The facial displays of catarrhine monkeys and apes. In D. Morris (ed.), Primate Ethology. Chicago: Aldine, pp. 7-68.

Van Ijzendoorn M. H., Kroonenberg P. M. (1988), “Cross-cultural patterns of attachment: a meta-analysis of the Strange Situation”. In Child Development, 59, pp. 147-156.

Van Ijzendoorn M. H., Sagi A. (1999), “Modelli trans-culturali di attaccamento: dimensioni universali e contestuali”. Tr. it. In Cassidy J., Shaver P. R. (1999) (a cura), Manuale dell'attaccamento: teoria, ricerca e applicazioni cliniche. Fioriti, Roma 2002, pp. 807-831.

Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma.

71


Allegato 1 Test PBI: Il presente questionario elenca diversi comportamenti e atteggiamenti dei genitori. Rispondi quanto risulta vera per te ognuna delle seguenti affermazioni, che si riferiscono al rapporto con i tuoi genitori fino ai 16 anni. Per ogni affermazione puoi rispondere:

Molto falso

0

Abbastanza falso

Abbastanza vero

1

2

Molto vero

3

1. Mi parlavano con tono caldo e amichevole................................................................i0

1

2

3

2. Non mi sostenevano come ne avevo bisogno.............................................................t0

1

2

3

3. Erano freddi nei miei confronti...................................................................................t0

1

2

3

4. Li sentivo vicini e comprendevano i miei problemi e le mie preoccupazioni....... ....0

1

2

3

5. Mi erano affezionati....................................................................................................t0

1

2

3

6. Parlando di cose che mi riguardavano, si rallegravano..............................................t0

1

2

3

7. Mi sorridevano frequentemente.................................................................................. 0

1

2

3

8. Ho avuto l'impressione che non capissero ciò di cui avevo bisogno...........................0

1

2

3

9. Non mi sentivo desiderato da loro..............................................................................t0

1

2

3

10. Quando mi sentivo abbattuto, mi tiravano su di morale................. …......................0

1

2

3

11. Di solito non è che parlassero molto con me.............................................................0

1

2

3

12. Non mi lodavano né mi incoraggiavano........................................ …...................... 0

1

2

3

13. Mi lasciavano fare le cose che desideravo fare............................. ............................0

1

2

3

14. A loro piaceva che prendessi le decisioni autonomamente...................................... t0

1

2

3

15. Ho avuto l'impressione che desiderassero che non crescessi........ ….......................t0

1

2

3

16. Provavano a controllare ogni cosa che facevo...........................................................0

1

2

3

17. Non rispettavano la mia privacy.................................................................................0

1

2

3

18. Tendevano a trattarmi da bambino.............................................................................0

1

2

3

19. Mi spingevano ad affrontare in modo indipendente i miei problemi.........................0

1

2

3

20. Hanno provato a rendermi dipendente da loro.............................. ….......................t0

1

2

3

21. Non potevo agire senza che loro mi stessero attorno.................................................0

1

2

3

22. Mi hanno concesso la libertà che desideravo.................................….......................t0

1

2

3

23. Mi hanno lasciato uscire e viaggiare come volevo.........................…....................... 0

1

2

3

24. Sono stati iper-protettivi nei miei confronti...................................….......................t0

1

2

3

25. Mi hanno lasciato vestire come mi piaceva.....................................….......................0

1

2

3

72


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.