Emozioni: acquisizione ed interpretazione dall'infanzia all'età adulta

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CORSO

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FORMAZIONE

EMOZIONI: ACQUISIZIONE ED INTERPRETAZIONE DALL’INFANZIA ALL’ETÀ ADULTA

Relatore: PROF. SANDRO MOCCI

Tesi di Laurea di: DÈSIRÈE POLA

ANNO ACCADEMICO 2010/2011


INDICE Introduzione 1 - DEFINIRE UN'EMOZIONE 1.1 Introduzione: cos'è un'emozione? 1.1.1 All'origine della definizione 1.2 Emozioni di base e teorie componenziali 1.3 L'aspetto fisiologico è la causa o l'effetto? 1.3.1.Aspetti biologici 1.3.2. Emozioni e cervello 1.4 Componente cognitiva: quanto può determinare l'esperienza emotiva? Approcci cognitivi 1.4.1 Coping 2 - ACQUISIRE ED INTERPRETARE LE EMOZIONI

2.1.

Le emozioni nell'infanzia

2.2.

Comprendere ed interpretare le emozioni

2.3.

La regolazione delle emozioni

2.3.1. Strategie di regolazione emotiva nell'infanzia 2.3.2. Strategie di regolazione emotiva in età prescolare e scolare 2.3.3. Strategie di regolazione emotiva in adolescenza e in età adulta 2.3.4.Strategie di regolazione emotiva nella terza età 2.4.

La condivisione sociale

3 - LE COMPETENZE SOCIALI DELLE EMOZIONI 3.1.

Mentalizzare le emozioni

3.2.

Intelligenza emotiva

3.3.

Emozioni e salute

3.4.

Alfabetizzazione emotiva

Conclusioni

Bibliografia

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INTRODUZIONE Il termine emozione deriva dal latino exmovere, cioè trasportare fuori, smuovere o scuotere. L’emozione infatti, può essere intesa come un allontanamento dal normale stato di quiete dell’organismo, cui si accompagna un impulso all’azione e alcune specifiche reazioni fisiologiche interne, ognuna delle quali si esprime attraverso una diversa configurazione e designa diverse risposte emotive (gioia, tristezza, paura ecc.). Nello stesso tempo, quindi, l’emozione è una risposta fisiologica, motivazionale, cognitiva e comunicativa, sempre accompagnata da una dimensione sia soggettiva che sociale. Un'emozione è un peculiare stato fisiologico, ha un aspetto biologico fondamentale e soprattutto una parte cognitiva che viene spesso sottovalutata. Il primo capitolo si configurerà proprio in questo senso, come definire un'emozione tra biologia e razionalità. Partendo da una ricerca sulla origini del termine e sulla sua valenza sin dall'epoca più antica, si giungerà ad una accezione in termini puramente strumentali, da cui nasce il concetto di emozioni base. Da qui seguirà un'analisi delle maggiori teorie psicofisiologiche, contrastanti fra loro, ma fondamentali, sino ad una breve spiegazione sui correlati neuro anatomici del fenomeno, cioè il cervello e i sistemi neuronali che coinvolgono l'evento emotigeno; passerò poi agli approcci cognitivi, al ruolo che svolgono e descriverò quanto sia fondamentale il verificarsi di un'emozione. A queste modificazioni si accompagna una dimensione cognitiva, capace di mediare il rapporto con l’ambiente, di valutare e dare significato a quello che accade. La 3


valutazione cognitiva consente sia di attribuire significato alle reazioni che l’organismo mette in atto, sia di stimolare e guidare l’individuo a far fronte all’evento che ha scatenato l’emozione. Vi è, infatti, un livello motivazionale che orienta all’azione e modifica il comportamento, in funzione dei desideri e degli scopi. Tendenzialmente, gli eventi spiacevoli vengono evitati, mentre quelli piacevoli sono attivamente ricercati. La dimensione motivazionale dà origine a piani capaci di regolare il comportamento, stabilire le priorità e i sistemi di risposte: tutti aspetti che, a lungo termine, contribuiscono a formare gli interessi, ad organizzare le preferenze e ad orientare gli scopi. Questo lavoro, più che mirare a un punto di arrivo, vuole mostrare un percorso, che parte dall’analisi della natura delle emozioni, dal loro ruolo svolto nella società: come vengono apprese durante l'infanzia e soprattutto, che ruolo avranno nell'età adulta e come influenzeranno le competenze sociali.

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Capitolo I Cos'è un'emozione? All'origine della definizione 1.1 - Introduzione: cos'è un'emozione?

Le emozioni comportano dei cambiamenti corporei e dei sentimenti (feelings), tuttavia rappresentano molto più di questo, sono legate al comportamento all'azione e all'interazione sociale e sono strumenti di interpretazione del mondo. Ci aiutano a comprendere se “siamo sulla strada giusta e le cose vanno bene”(Dalgleish, 1998). Oggi è riconosciuto che le emozioni siamo composte da più elementi, anche se non si è ancora riusciti a definire quali e in che modo questi elementi siano legati tra loro. Secondo un'opinione unanime (Dalgleish, 1998), si è ipotizzato che le emozioni sono costituite da quattro componenti: primo coinvolgono mutamenti fisiologici e generano forme di espressione emozionale; in secondo luogo sono associate con la preparazione all'azione, che alcuni autori definiscono “potenziale d'azione” (Frijda, 1986), che potrebbe essere associato ad un comportamento affettivo o meno. Inoltre una situazione emozionale potrebbe venire concettualizzata tra più individui, in una situazione sociale. Terzo , le emozioni coinvolgono sicuramente l'esperienza cosciente, in quanto noi “sentiamo qualcosa”. Infine, ultima componente, è quella cognitiva o di significato, in cui le influenze del mondo condizionano gli interessi attuali, che formano concetti di valutazione e interpretazione della realtà, i quali creano modelli che vanno da quello individualistico, a quello cognitivo sino a quello sociale (Dalgleish, 1998). Con il termine emozione si indica un insieme complesso di fenomeni che si manifestano su almeno tre piani : − il piano fenomenico-esperienziale 5


− il piano fisiologico (periferico e centrale) − il piano espressivo-comportamentale. Nonostante la difficoltà tra i vari studiosi a concordare su una definizione univoca di emozione, si è giunti attualmente a definirla come una sindrome, ovvero come insieme di diversi “sintomi” (neuropsicologici, fisiologici, espressivi, fenomenologici, ecc..) che la costituiscono; ognuno è più o meno presente , ma nessuno è necessario né partecipa singolarmente alla definizione di uno stato emozionale (Lombardo-Cardaci, 2005). Le emozioni pervadono ogni aspetto della nostra vita; caratterizzando ogni istante con sfumature di sentimenti, diversi stati di umore (mood) e affetto (affect). Il modo in cui esprimiamo e sperimentiamo le emozioni ci aiuta a capire chi siamo e come gestiamo i fatti della vita. Le emozioni sembrano così scontate, ma se ci chiedessero di trovare un'esatta definizione, ci renderemmo conto che non sarebbe affatto facile, perché il concetto di emozione e la sua natura risulta chiaro e inafferrabile allo stesso tempo. L' area della psicologia che tratta le emozioni è tra le più ricche di teorie, e ciascuna adotta una diversa definizione. Wilhelm Wundt (1874) ad esempio, sostenne che un oggetto viene appercepito (si è coscienti in modo vivido e chiaro di un oggetto, attraverso un processo di percezione e attenzione) e dà origine ad un sentimento che ha il potere di interrompere ed alterare l'andamento dei pensieri e delle azioni che la persona sta compiendo e dello stato di equilibrio fisiologico dell'organismo. Definirle non è mai stato facile ma la ricerca che riguarda le emozioni ha origini lontane...

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1.2. All'origine della definizione

Il dibattito sulla natura delle emozioni risale all'epoca degli antichi greci e rappresenta una parte fondamentale degli scritti filosofici di importanti autori come Platone e Aristotele. Le loro opere rappresentano due diversi approcci ed entrambi hanno aperto dibattiti che persistono ancora ai giorno nostri. Le idee di Platone sulle emozioni influenzarono i nomi più illustri: da Renato Cartesio a David Hume, a John Locke sino a William James. Prima del ventesimo secolo le idee aristoteliche al riguardo erano invece largamente impopolari. Ciò nonostante tracce del suo pensiero si possono ritrovare in Seneca, Tommaso d’Aquino e Baruch (Benedetto) Spinoza. Come si è detto però, le riflessioni di questi due grandi esponenti della filosofia, Platone ed Aristotele, si distinguevano per diversi aspetti. Platone vedeva le emozioni come forze incontrollabili e selvagge, in continuo contrasto con la ragione; come che la mente fosse un continuo campo di battaglia fra l'impetuosità senza senso e ostinata delle emozioni e la pacatezza razionale e prudente della ragione. Inoltre Platone credeva che l'essenza della civiltà,quindi l'essenza di una vera Repubblica, risiedesse nel domare le emozioni, nel loro asservimento al potere della ragione. Questo modo di vedere le emozioni è tutt'ora largamente sostenuto nel senso comune. Infatti spesso ci si riferisce ad esse come se fossero forze irrazionali e vane, che oscurano i nostri giudizi e ci impediscono di ragionare in modo nitido, e potrebbero quindi impedirci di prendere decisioni sensate. Contrapposto a Platone fu Aristotele, che per primo aprì la strada ad una teoria funzionalista delle emozioni, le sue idee oggi verrebbero definite in una prospettiva cognitiva. Le sue riflessioni portarono a due importanti contributi: in primis ipotizzò che c'è un collegamento tra emozioni ed azione, in quanto le e 7


mozioni rappresentano in qualche modo una funzione del modo in cui ci comportiamo; e in secondo luogo suggerì che le emozioni rappresentano il modo personale con cui ognuno di noi interpreta il mondo. Quindi, mentre per Platone la rabbia simboleggiava una forza tumultuosa dell'anima in lotta con la razionalità, per Aristotele essa rappresentava un'appropriata emozione che ci consente di prepararci alla vendetta per qualcosa che abbiamo percepito come un torto. Nel libro L'arte della retorica, Aristotele presentò le sue idee sulle emozioni e le descrisse come uno strumento che gli oratori possono utilizzare per attirare gli ascoltatori. Il suo discorso è molto simile alla maggior parte degli scritti degli ultimi anni del ventesimo secolo sugli aspetti cognitivi delle emozioni. Dunque in questa prospettiva funzionalista, le emozioni non sono affatto marginali nella vita quotidiana ma piuttosto strumenti funzionali, i quali si sono evoluti nel corso dei secoli per la loro funzione adattiva all'ambiente circostante. Emozioni come rabbia e paura infatti rappresentano uno stato di emergenza della mente, chiamate in causa quando l'intero corpo e mente devo mobilitarsi per risolvere qualche problema; mentre emozioni come gioia o serenità, indicano che gli obiettivi personali si sono realizzati o sono in fase di realizzazione e che si sta quindi, procedendo per il verso giusto. Le emozioni, in questa prospettiva sono degli strumenti che ci aiutano sia a livelli semplici, come correre più velocemente, sia a livelli più complessi, come nelle forme di comunicazione sociale. Occorrerebbe perciò non immaginarle come un fenomeno unitario, ma considerarle piuttosto, come se fossero caratterizzate da diversi componenti fondamentali, come i sentimenti, i cambiamenti corporei, la tendenza ad agire o interagire in un certo modo (Dalgleish, 1998). In un'ulteriore prospettiva, lontana dalle teorie anticipatrici del cognitivismo (che vuol dire lontana? Il cognitivismo non esisteva ancora, anzi Darwin può 8


considerarsene anche lui precursore- ho aggiunto anticipatrici), troviamo Charles Darwin che con i suoi studi sull'origine della specie ha sviluppato diverse riflessioni riguardanti le emozioni e come Aristotele fu il padre delle teorie cognitiviste sulle emozioni, Darwin lo fu per l'analisi degli aspetti fisiologici o corporei. Il suo studio partì con l'osservazione delle espressioni emozionali sia negli animali che negli uomini, adulti e bambini. Realizzò anche delle ricerche trans-culturali sulle emozioni, inviando una serie di questionari a dei missionari e ad altre persone che avrebbero potuto osservare le popolazioni appartenenti a differenti culture lontane. Giunse alla conclusione che le emozioni fossero l'elemento di continuità tra gli umani e gli animali. Nonostante le sue vaste ricerche, Darwin considerò le emozioni come prive di qualunque funzione; definendo le espressioni emozionali come modelli di comportamento che si presentano in reazione agli stimoli presenti nell'ambiente...“nonostante essi non possano...essere di nessun utilizzo” (Darwin 1858). Il sorriso potrebbe dunque essere considerato come il primo stadio nello sviluppo del riso;[...] l'abitudine di emettere suoni fragorosi e ripetuti per il piacere portò in un primo tempo alla retroazione degli angoli della bocca e del labbro superiore e alla contrazione dei muscoli che circondano gli occhi, [...] ora, a causa dell'associazione e della lunga abitudine, quegli stessi muscoli vengono messi in leggera attività ogni volta che vengono suscitati in noi, per una qualsiasi causa, quei sentimenti che, se fossero più forti, ci porterebbero al riso; e il risultato è il sorriso (Darwin, 1872). [...]Al pari di altre espressioni emozionali, il sorriso testimonia del passato ancestrale dell'uomo, rinnovandolo nel presente di ciascun atto individuale e conservandone l'impronta morfologica adattata (Darwin, 1872). [...]Nell'esaltazione di una gioia o di un piacere molto forti, tendiamo a compiere 9


una serie di movimenti del tutto inutili, e a emettere svariati suoni. Lo vediamo nei bambini piccoli, nelle loro risate fragorose nel battito delle mani, nei salti di gioia; nell'agitazione e nell'abbaiare di un cane quando va a spasso col padrone; nei balzi di un cavallo quando è condotto in un campo aperto. La gioia accelera la circolazione sanguigna, che stimola il cervello, che a sua volta ha ripercussioni sull'intero corpo (Darwin, 1872). Le precedenti citazioni sono estratte dal saggio L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali, pubblicato nel 1872 da Charles Darwin. All'interno di questo scritto tentò di spiegare i meccanismi cognitivi animali e umani estendendo la teoria dell’evoluzione per selezione naturale ai substrati biologici della conoscenza. Si trattava di un programma scientifico interdisciplinare completamente nuovo che nel novecento porterà alla nascita dell'etologia e delle neuroscienze. Nel saggio, l'autore vuole dimostrare che le espressioni dell'uomo, come degli altri animali, sono innate e sono un semplice prodotto dell'evoluzione, per cui molte espressioni che indicano paura, rabbia, stupore si ritrovano invariate non solo in uomini di diversa estrazione culturale o appartenenti a civiltà diverse, ma anche in primati non umani o in altri animali; il fatto che il riso, ad esempio, sia molto simile nell'uomo e nello scimpanzé testimonia un'origine comune fra le due specie. Darwin basò queste sue teorie su tre principi generali, secondo i quali si poteva spiegare un'emozione. Il primo fu il principio dello "effetto immediato del sistema nervoso", il quale affermava che quando il sistema sensorio è colpito da una forte eccitazione si crea una energia eccessiva che si diffonde nelle direzioni determinate dai collegamenti delle cellule nervose e dalla natura dei movimenti compiuti abitudinariamente. Il secondo principio è invece quello dell' ”antitesi”, per cui una situazione che provoca una data espressione del sentimento si 10


manifesta automaticamente in modelli motori completamente opposti (ad esempio un modello respiratorio diverso nel riso e nel pianto). Un terzo concetto sostiene invece che le espressioni emozionali sono residui di vecchie funzioni adattive, che si manifestano anche oggi, seppur in forme attenuate, nei momenti che ricordano situazioni primitive, come il digrignare dei denti nel caso di una aggressione. Ci sono stati diversi studi che hanno sostenuto quest'ipotesi, vediamone ora qualcuna.

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1.2 Emozioni di base

Sebbene il senso comune pensi che gli studi psicologici siano nati solo in età moderna, l'idea che alcune emozioni siano alla base di tutte le altre, risale persino ai filosofi dell'antica Grecia( Dalgleish, 1998) e, benché gli approcci successivi a questi studi siano stati molto diversi (Ekman, 1973), la maggior parte dei ricercatori concorda su sei emozioni di base, quali: felicità, sorpresa, rabbia, paura, tristezza, disgusto/disprezzo (Dalgleish, 1998). Ma è da Darwin in poi che ebbero inizio tutti gli studi contemporanei sulle emozioni di base; infatti i suoi primi studi sulle espressioni delle emozioni, portarono a diverse scoperte che influenzarono molto le ricerche successive e vennero pubblicati nel suo libro “L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali”(1872), sostenendo che ogni emozione rappresentasse uno stato discreto caratterizzato da un'unica espressione. La sua ricerca ha avuto luogo in un contesto evolutivo e in gruppi di soggetti adulti all'interno di diverse culture che avevano portato l'autore alla conclusione che alcune espressioni facciali : a) compaiono in una forma simile negli animali inferiori, specialmente nei primati; b) presentano nei neonati e nei bambini la stessa forma che si osserva negli adulti ; c) sono identiche in persone nate cieche e in individui con vista normale; d) sono simili in razze e gruppi umani molto diversi fra loro .

Diede vita ad una teoria sulle espressioni delle emozioni articolata in diversi punti: alcune espressioni facciali sono innate 12


le espressioni facciali, sono dei segnali o dei modi per comunicare tra organismi esse riflettono una stato di motivazione o un' intenzione che è indicativa di una disposizione all'azione la quale potrebbe essere utile alla sopravvivenza dell'individuo; per cui le espressioni delle emozioni hanno un certo ruolo nell'evoluzione della specie nello studio delle espressioni delle emozioni bisogna porsi il problema della capacità dell'osservatore di riconoscerle correttamente dal fatto che poggino su basi innate (Darwin, 1872). Alle prime teorie evoluzionistiche delle emozioni di Darwin sono seguiti diversi altri studi che hanno portato nuove prove a favore o contro di una teoria generale secondo cui le emozioni fondamentali o basiche sarebbero delle unità discrete regolate da meccanismi innati, a cui corrispondono processi motivazionali ed esperienziali distinti, questi ultimi largamente o totalmente indipendenti dall'influenza dei processi cognitivi (D'Urso, Trentin, 2007). Ekman e Friesen (1969) proposero una versione contemporanea alle teorie di Darwin, nella quale descrissero cinque classi di espressioni emozionali non-verbali: (1) gli emblemi (i gesti); (2) gli illustratori, le espressioni che accompagnano il linguaggio verbale e che variano in base all'intensità di ciò che si sta comunicando(sventolare la braccia quando si è agitati); (3) i regolatori; espressioni sottili utilizzate per regolare il flusso del discorso (cenno del capo); (4) affect display ( dimostrazione d'affetto) come il sorridere; (5) gli adattatori; espressioni complicate, in cui l'individuo mostra ansia o disagio. 13


Nonostante le creazioni di accurate tassonomie per classificare le espressioni in generale, la maggior parte dei ricercatori si è però concentrata sulle espressioni facciali, cioè gli affect display; tali ricerche hanno avuto due obiettivi:; in primis classificare le diverse espressioni facciali in base all'emozione corrispondente. Tutti sanno che il sorriso è associato alla felicità, ma il punto era trovare un corrispettivo emozionale per ogni espressione facciale, o ancora meglio, capire se ciascuna ne aveva uno. Mentre il secondo obiettivo era quello di scoprire se gli si poteva attribuire un carattere universale. Ad esempio, la teoria delle emozioni differenziali di Izard (1971, 1977) studioso rappresentativo di questa corrente, sostiene che ci siano delle differenze qualitative nelle emozioni primarie o basiche. Le emozioni di base come l'allegria, la rabbia,l'angoscia hanno diverse proprietà neurofisiologiche, fenomenologiche, fisionomiche e motivazionali ; sono predeterminate e attive già dai primi mesi di vita, sostenendo che la coscienza infantile è affettiva per sua natura. Fa riferimento a 9 emozioni di base dalla cui combinazione derivano tutte le altre, nonché i tratti delle personalità, e sono: interesse, gioia, paura, rabbia, angoscia, disprezzo, vergogna, colpa, sorpresa; ognuna di queste emozioni deve avere quattro criteri: 1. una qualità soggettiva unica 2. un'espressione facciale unica 3. una modalità di scarico unica 4. produrre conseguenza comportamenti uniche Queste emozioni sono unità discrete, dal punto di vista soggettivo, biochimico e comportamentale; ed avrebbero dei corrispondenti precisi nelle espressioni facciali, molto specifici, capaci di fornire informazioni sia all'osservatore che al soggetto stesso in un secondo momento. Questi sono schemi di risposte facciali emotive che hanno una base innata (Izard ,1977). Infatti l’autore sostenne che le 14


persone non hanno bisogno di imparare ad aver paura, a piangere, né tanto meno ad esprimerlo; ciò che deve essere appreso sono le condizioni e gli stimoli specifici che provocano pianto o vergogna. L'autore è convinto che gli elementi cognitivi non siano una parte essenziale dell'emozione, perché anche se vi è interazione fra i vari processi, quello emotivo è totalmente indipendente da quelli cognitivi . Inoltre la teorie delle emozioni differenziali parte dai presupposti (1977) che: le emozioni basiche rappresentano il principale sistema motivazionale; ogni emozione fondamentale ha aspetti motivazionali e fenomenologici distinti; emozioni fondamentali come gioia,tristezza, rabbia, e vergogna danno luogo a esperienze interne e a comportamenti diversi; le

emozioni

fondamentali

interagiscono

tra

loro,

attivandosi,

amplificandosi, e attenuandosi l'un l'altra; i processi emotivi interagiscono e influenzano l'omeostasi, i meccanismi pulsionali, e i processi percettivi, cognitivi e motori. Un ulteriore esempio, invece, ci viene da Tomkins (1962, 1970), collaboratore di Izard nella ricerca sulle emozioni di base, il quale parla di sistema affettivo piuttosto che di emozioni; questo sistema è quindi, primario, ha determinanti innate e interagisce con il sistema motivazionale. Per l'autore, le pulsioni (fame,sesso) non sono responsabili delle azioni ma sono segnali, con cui l'organismo manifesta i suoi bisogni, che vengono poi amplificati dalle emozioni. La teoria prevede 8 emozioni di base, sempre concepite su base innata in risposta a specifici stimoli, e sono: interesse sorpresa, gioia, angoscia, paura, vergogna, disgusto, collera, le quali si riflettono nelle risposte corporee, e in modo più significativo, nelle risposte facciali. Per ognuna di queste risposte ci 15


sarebbe un programma innato, codificato nel sistema nervoso centrale a livello subcorticale; così l'espressione facciale di ogni emozione poggerebbe su una base genetica, adattata ad ogni specie. Quindi in questo contesto le emozioni di base non solo hanno una base innata ma anche una funzione adattiva data la loro evoluzione da una specie all'altra (D'Urso, Trentin, 2007), una funzione che deve far fronte alle richieste dell'ambiente, con azioni che coinvolgono l'intero organismo e servono per l'adattamento. Secondo alcuni autori questi comportamenti adattivi sono molto numerosi e comprendono (Plutchilk, 1980) : − incorporazione, di stimoli esterni piacevoli, entro l'organismo − il rifiuto di stimoli potenzialmente nocivi (defecazione o vomito) − la distruzione di ciò che si contrappone fra l'organismo e la soddisfazione dei bisogni − la protezione, cioè tutti i comportamenti messi in atto in condizioni di dolore minaccia per evitare la distruzione − la riproduzione, che comprende tutti i comportamenti di avvicinamento e contatto che portano a rapporto sessuale − la reintegrazione, reazioni in seguito alla perdita di elementi nutritivi; o di qualcosa di perduto che si amava(nell'uomo provoca tristezza e dolore) − l'orientamento, reazione immediata(sorpresa) davanti ad uno stimolo nuovo che non è ancora stato valutato; − l'esplorazione, comportamenti casuali o intenzionali utili alla scoperta dell'ambiente( curiosità, il gioco) Questi comportamenti adattivi sono risposte innate che è possibile trovare dai livelli più bassi della scala filogenetica, sino agli animali superiori e negli esseri 16


umani; sono fondamentali alla sopravvivenza dell'individuo e vengono considerati alla base delle reazioni emotive negli animali e nell'uomo. Le emozioni possono perciò, essere considerate forme di controllo dell'organismo su eventi ambientali importanti per la sopravvivenza. “Le emozioni sono le forme di adattamento evolutivo ultraconservativo [...] che hanno avuto successo come gli aminoacidi, il DNA e i geni, nell'aumentare le probabilità di sopravvivenza [...] e pertanto sono state mantenute in forme funzionalmente equivalenti per tutti i livelli filogenetici “ (Plutchik 1980). Un altro contributo importante lo abbiamo da Ekman (1992) che propose nove caratteristiche in grado di distinguere le emozioni di base: 1) caratteristiche universali degli eventi antecedenti(le stesse situazioni provocano le stesse emozioni in tutte le culture) 2) segnali universali caratteristici (espressioni facciali) 3) fisiologia distinta 4) la presenza anche in altri primati oltre agli esseri umani 5) coerenza delle risposte emozionali 6) inizio rapido 7) breve durata 8) valutazione automatica 9) attivazione spontanea Analizzando i primi due punti della sua teoria si può capire meglio il perché Ekman e altri studiosi sostengano l'esistenza delle emozioni di base. Con antecedenti universali viene rappresentata l'idea che le emozioni sono strumenti funzionali che si sono evoluti per far fronte a problemi comuni alla vita degli esseri umani di ogni cultura e quindi ci si deve aspettare che esistano degli 17


elementi in comune negli eventi antecedenti in cui hanno avuto origine le emozioni

, nonostante le influenze sociali e le differenze trans-culturali. É

appropriato perciò parlare di apprendimento biologicamente preparato; perché è probabile che sia necessario solo un input minimo in termini di addestramento, per avere risultati di risposte persistenti che non si estinguano facilmente (Ohman, 1986: 128-9). Gli studiosi Boucher e Brandt (1981), hanno esaminato gli antecedenti emozionali in diverse culture occidentali e non; le differenze nelle risposte furono minime, e concordarono che c'era affinità fra gli universali antecedenti in tutte le culture; ad esempio, la perdita di una persona importante risultava un antecedente della tristezza molto forte in ogni cultura. Chi invece rappresentasse la persona cara, era determinato dall'apprendimento e quindi dalla società di riferimento. Sfortunatamente

vi è una scarsa descrizione etologica degli

elementi in comune tra i naturali eventi antecedenti delle emozioni attraverso le culture (Ekman 1998). Comunque i dati ottenuti hanno spinto diversi studiosi (Ekman e Friesen 1975; Lazarus 1991) a stabilire cosa l'universalità degli eventi antecedenti potrebbero rappresentare per le diverse emozioni di base, seppur con minime differenze e quindi con idee generali. Ad esempio la paura è una funzione dell'appraisal (valutazione) della minaccia; la tristezza è una funzione dell'appraisal della perdita; la rabbia è una funzione dell'appraisal di un obiettivo bloccato da un altro agente riconoscibile; la felicità è una funzione dell'appraisal del raggiungimento di un obiettivo; e il disgusto è una funzione dell'appraisal della violazione degli obiettivi gustativi. Il secondo punto è quello dei segnali universali, sono stati raccolti molti dati sui segnali universali delle emozioni e la maggior parte di essi riguardano le espressioni facciali; il metodo per esaminarli consiste nel mostrare fotografie di espressioni facciali a degli osservatori di diverse culture e nel chiedere loro che 18


significato attribuiscono ad ognuna di esse. Se vengono etichettate nella stessa maniera (sempre in base al sistema linguistico di ogni cultura), allora si ritiene sia una prova dell'universalità di quell'emozione. I dati sulla percezione delle espressioni facciali sono stati raccolti in 21 paesi istruiti tra cui Africa, Argentina, Brasile, Cina, Inghilterra, Estonia, Etiopia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Giappone, Malesia, Kirghizistan, Scozia, Svezia, Sumatra, Svizzera, Turchia e Stati Uniti; i partecipanti osservavano fotografie ritraenti espressioni facciali, successivamente dovevano indicare un termine fra quelli mostrati in una lista di 6-10 termini tradotto in ogni lingua, che pensavano definisse l'espressione. Ekman (1998) osservando questi dati notò un frequente accordo fra le culture, soprattutto per le emozioni riguardanti felicità,tristezza e disgusto. I segnali universali erano dimostrai dal fatto che nessun paese aveva associato un'espressione ad un termine in netto contrasto con un altro paese. Le conclusioni di Ekman furono contestate da Russell (1993), il quale ha sostenuto che il grande accordo fra paesi è dipeso da un “paradigma di riconoscimento a scelta forzata”, in cui l'individuo doveva scegliere il termine in una breve lista che gli veniva mostrata, piuttosto che esprimerlo a parole proprie. Dunque per Russell era praticamente scontato che scegliessero tutti gli stessi termini fra quei pochi proposti. Ma se i termini proposti avessero totalmente differito dalle effettive espressioni, ogni paese sarebbe stato in disaccordo e non avrebbe scelto nessun termine dalla lista (Ekman, 1999). In ogni caso questa metodologia sperimentale porta a una lieve forzatura, come hanno dimostrato ulteriori studi (Izard, 1971; Boucher e Carlson 1980; Ekman e Rosemberg, 1998; 2005) in cui si chiedeva ai partecipanti di proporre personalmente una descrizione dell'espressione facciale osservata; le descrizioni presentavano leggere differenze ma riuscivano comunque ad essere inserite in uno standard. Un'ulteriore critica all'universalità dei segnali, fu quella che sostenne che le 19


culture a cui vennero somministrati i test erano state influenzate dai mass-media occidentali e quindi le loro risposte sarebbero frutti di apprendimenti di associazioni fra termine ed espressione. Ma Ekman verso la metà degli anni 70, applicò la sperimentazione ad una cultura analfabeta e isolata della Nuova Guinea, i Fore del Sud, che di sicuro non era stata influenzata dai mass-media non avendo mezzi tecnologici; dichiaravano di non aver mai visto una foto o un giornale, utilizzavano strumenti di pietra e non avevano un vero e proprio linguaggio scritto, quindi Ekman dovette utilizzare una diversa metodologia rispetto agli studi precedenti ; ne venne fuori che anche questa popolazione lontana dall'occidente e da ogni mezzo di comunicazione, riconobbe nelle espressioni mostratele, la stessa descrizione dei 21 paesi della prima ricerca (Ekman e Friesen 1971). Altri contributi vengono dagli studiosi Kraut e Johnson (1979), i quali si sono interessati allo studio della tra l'espressione delle emozioni e l'esperienza reale dell'emozione. Registrarono,a loro insaputa, degli individui che praticavano o osservavano sport, al fine di capire la relazione tra l'evento che stavano vivendo e le loro espressioni facciali. I risultati delle ricerche, tra espressioni emozionali ed esperienza emotiva, furono piuttosto confusi. In conclusione si può dire che non è ancora del tutto chiaro se cambiamenti espressivi specifici corrispondono o meno all'esperienza di emozioni specifiche. Agli autori che hanno sostenuto le emozioni primarie, se ne contrappongono altri che hanno posto varie obiezioni (Ortony e Turner, 1990) tra cui: 1- Non è mai stato trovato un accordo su quante e quali siano le emozioni primarie. Un spiegazione potrebbe essere legata alla lingua di appartenenza, per cui ciascuno studioso definiva la propria classifica in base alle convenzioni linguistiche della propria lingua e cultura. 2- Alcune emozioni primarie non sono “vere” emozioni; Ad esempio può essere 20


contestata la sorpresa, dal momento ce non è immediatamente associata ad una valenza affettiva, positiva o negativa. 3- L'irriducibilità delle emozioni non trova supporto empirico. L'impossibilità di un'ulteriore scomposizione delle emozioni di base non è dimostrabile. Soprattutto dal punto di vista biologico: esistono pattern di espressioni facciali, ciascun pattern però costituisce un insieme di movimenti facciali che, singolarmente si riscontrano in varie emozioni e addirittura in stati non emozionali. Ad esempio l'aggrottare le sopracciglia non è riscontrabile solo nella rabbia ma anche nell'interesse, quando si è concentrati o quando si fa uno sforzo fisico. É molto più probabile quindi che esistano sotto-componenti espressive innate e non emozioni primarie accompagnate da pattern di espressioni tipiche In alternativa alle teorie differenziali (emozioni primarie), Ortony e Turner propongono una teoria componenziale secondo cui non esistono categorie discrete di emozioni di base , ma componenti primarie(ad es. appraisal affettivo) associate a specifici antecedenti situazionali e a specifiche classi primarie di risposte (espressioni facciali, attivazione dei sistemi di risposta periferica, ecc.). Perciò da questi processi cognitivi, fisiologici e fenomenologici ha origine quel complesso di reazioni che costituiscono l'emozione. Emozioni diverse quindi, sono

il

risultato

di

diversi

building

blocks,la

cui

stabilità

dipende

dall'associazione con stabili classi di antecedenti situazionali. Le emozioni sono quindi il risultato di un'azione congiunta di più componenti, e secondo Ortony e Turner, si costituiscono secondo due processi: 1. Generalizzazione: processo che parte da una complessa combinazione di elementi costitutivi di un'emozione e arriva ad estendere l'emozione ad altre situazioni, eliminando alcuni elementi. Ad esempio il disgusto, è una tipica reazione caratterizzata un pattern di attività periferica ed espressiva 21


e da sensazioni di repulsione, di rifiuto. L'eliminazione dell'attivazione fisiologica consente di estendere l'esperienza soggettiva e l'espressione di disgusto a situazioni sociali. 2. Specializzazione: genera un'emozione a partire da un'altra, attraverso l'aggiunta di una componente ad un pattern con altri elementi costitutivi preesistenti. Ad esempio la sofferenza (distress), deriva da un avvenimento improvviso. Se quest'ultimo è la morte di un caro, allora si avrà il cordoglio (grief). Ma cosa accade nel corpo umano durante queste modificazioni, che siano emozioni semplici o complesse, differenziali o componenziali?

22


1.3

L'aspetto fisiologico è la causa o l'effetto?

Nel 1884 William James e, indipendentemente, Carl Gustav Lange (1885) suggerirono che l'informazione che riguarda gli stimoli emotigeni (stimoli interni ed esterni in grado di elicitare una risposta emozionale) venga registrata dagli organi di senso ed elaborata dai centri sottocorticali e corticali. L'elaborazione produrrebbe quindi una fredda e pura registrazione cognitiva, se non fosse accompagnata dall'attivazione automatica di schemi innati di risposte motorie e viscero-somatiche ; e proprio la percezione di quest'ultima ,la sensazione che abbiamo da queste variazioni a livello viscerale, che definirebbe appunto l'emozione. Questa venne definita la teoria periferica delle emozioni. Secondo Wundt “se io vedo un orso mi spavento e scappo” ,secondo James invece “se io vedo un orso scappo” e l'emozione non è altro che la percezione di ciò che sta accadendo nel nostro corpo dopo la fuga. Per fuga James intende sia l'attività motoria del correre, nella quale vengono coinvolti muscoli volontari dello scheletro, sia complesse modificazioni globali (respiratorie, circolatorie, gastroenteriche) dell'organismo, che si prepara all'azione e la esegue. Per spiegare questi schemi d'azione, l'autore si rifà a Darwin e ipotizza che alcuni comportamenti (come lo stringere i pugni, il tendere i muscoli o il digrignare i denti per la rabbia) siano adattivi, e venissero eseguiti un tempo, volontariamente dai nostri progenitori. La loro continua espressione li hanno resi automatici, ereditari ed elicitabili (dal lat. elicere «tirare fuori»; in psicologia, riferito a comportamenti o condotte: stimolarli, ottenerli mediante domande o altri stimoli) ancora oggi da stimoli che hanno acquisito proprietà emotigene. Inoltre, la presenza di nuovi stimoli, interpretati dall'organismo come simili agli originali, porterebbero ad una generalizzazione delle risposte espressive simili a 23


quelle originarie. Ne è un esempio l'ammiccamento che viene attivato automaticamente sia in condizioni di pericolo per gli occhi, che con stimoli intensi ed improvvisi. Lange (1885) elaborò una teoria simile quasi contemporaneamente a James. Entrambi infatti sostengono che le emozioni siano la percezione delle modificazioni viscerali direttamente dalla registrazione dello stimolo. Tuttavia a differenza di James, Lange rivolge l'attenzione agli aspetti fisiologici della dinamica emozionale. Da fisiologo e patologo quale era, egli descrisse nei dettagli l'anatomia dell'emozione indicando tre distretti muscolari: i muscoli scheletrici, i muscoli lisci dei visceri ed i muscoli lisci del sistema vascolare. Da tutte le possibili combinazioni dei tre tipi di attivazione (aumento,riduzione, attivazione irregolare nello spazio e nel tempo), hanno origine nei tre distretti muscolari, le diverse espressioni corporee delle emozioni. Alcune di queste combinazioni risultano più frequenti di altre e costituiscono le emozioni di base o primarie, da cui hanno origine complessi stati emotivi come l'amore, l'odio, l'ammirazione, ecc. Per spiegare il meccanismo con cui si passa dalla percezione dello stimolo all'attivazione muscolare e alla successiva attivazione dei distretti viscero- somatici, Lange ipotizza l'esistenza di uno specifico centro “vasomotorio” corticale responsabile del controllo della motilità del sistema vascolare. La percezione di uno stimolo emotigeno attiva questo centro, che a sua volta innesca una serie di reazioni specifiche che definiscono una particolare emozione piuttosto che un'altra. Queste teorie ebbero un grande impatto nella comunità scientifica e molti altri studiosi si cimentarono in studi e ricerche sperimentali a favore e contro questa teoria. Ne vennero fuori diverse critiche, fra cui quella di Cannon (1927), il quale spiegò che erano state fatte nuove scoperte in ambito fisiologico e perciò la teoria James- Lange era da considerarsi superata ed occorreva che fosse sostituita con una nuova che desse importanza agli aspetti cognitivi del processo 24


emozionale e in particolare al ruolo del sistema nervoso centrale; questa teoria prese il nome di teoria centrale delle emozioni. Cannon sostenne che lo scopo ultimo delle attività che l'organismo compie ,anche quelle sociali, fosse il mantenimento dell'omeostasi, cioè il mantenimento dell'equilibrio dello stato psicofisiologico interno e perciò il bilanciamento delle energie in entrata e in uscita (Cannon, 1932). Il consumo di una maggiore quantità di risorse psicofisiologiche è necessaria per affrontare situazioni di emergenza e per ristabilire l'equilibrio iniziale. Ne consegue che se l'obiettivo è l'omeostasi, le modificazioni viscerali hanno la sola funzione di preparare l'organismo all'azione e non hanno alcun ruolo nell'esperienza soggettiva dell'emozione. L'esperienza dell'emozione, secondo quest'autore, dipende dall'attività di alcune strutture del sistema nervoso centrale, in particolare dalla neocorteccia e dal talamo, struttura sottocorticale. In quest'ultimo infatti, sarebbero presenti meccanismi e schemi preformati che regolano le azioni e le risposte viscerali che normalmente non vengono espresse a causa della funzione inibitoria della corteccia. A causa di questa inibizione la maggior parte degli stimoli viene percepita come non emozionale. Quando uno stimolo potenzialmente emotigeno raggiunge la corteccia sensoriale e poi quella associativa, i processi associativi corticali gli attribuiscono valore emozionale; viene così rimossa l'inibizione sul talamo, che può così attivare gli schemi di risposta viscero- somatica. Successivamente un altro autore, Bard (1950), estese ad un'altra struttura dell'encefalo, l'ipotalamo, il ruolo di centro responsabile dell'attivazione degli schemi d'azione emozionali. A dimostrazione della sua teoria Cannon, riportò dei dati empirici, di studi sperimentali effettuati sui gatti. A questi ultimi veniva asportata la corteccia, mantenendo però illeso il talamo. Ciò procurava disinibizione delle reazioni 25


emozionali; infatti appena svanita l'anestesia, i gatti presentavano dei comportamenti emozionali spropositati e frequenti, come se si trovassero continuamente davanti a stimoli emotigeni (Cannon, 1929). Inoltre per dimostrare l'inadeguatezza della teoria periferica di James-Lange, Cannon la criticò punto per punto. a) Le afferenze dai visceri alla corteccia sono essenziali, senza esse non potrebbe verificarsi il vissuto emotivo (James). Cannon, Lewis e Britton ( cit. in Cannon, 1927) , riportano invece esperimenti in cui la separazione chirurgica dei visceri dal sistema nervoso centrale, non elimina nÊ altera il comportamento emozionale. Operando una resezione chirurgica in un gruppo di gatti -lasciando quindi i visceri privi di connessioni con il sistema nervoso centrale- tutti i segni comportamentali di rabbia e paura rimasero inalterati. b) Dovrebbero esistere specifiche vie neurali che trasportano le informazioni raccolte da specifici recettori situati negli organi interni alla corteccia (James). Sulla base delle conoscenze del suo tempo e sugli studi di Sherrington (1906), Cannon afferma che i visceri non sono dotati di specifiche vie di trasmissione delle informazioni e che le modificazioni viscerali non sono percepibili consapevolmente. c) La presenza di uno stato di attivazione viscero-somatica artificialmente indotto dovrebbe essere condizione necessaria sufficiente a dare origine ad un vissuto emozionale (James). Cannon, per contestare questo punto, fa riferimento agli effetti di iniezioni di adrenalina, uno dei neuromediatori del sistema nervoso autonomo. Se iniettata nel circolo sanguigno induce negli organi interni le stesse modificazioni che indurrebbe se fosse prodotta dall'organismo: dilatazione dei bronchioli, vasocostrizione arteriolare, liberazione di glucosio nel sangue, ed altre 26


modificazioni tipiche di una forte emozione. Su massicce iniezioni di adrenalina somministrata a studenti, Cannon aveva osservato che nonostante le modificazioni periferiche fossero le stesse rispetto ad una forte emozione, il vissuto soggettivo di un'emozione non si produceva. d) Poiché a livello soggettivo esistono tante classi differenziate di emozioni, ogni esperienza emozionale dovrebbe avere uno specifico pattern di attivazione viscero- somatica correlato (James). Al contrario secondo Cannon, quando uno stimolo attivante di qualunque tipo( emozionale e non) arriva all'organismo, questo risponde con una “reazione generalizzata di allarme”(attivazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-corteccia surrenale; liberazione di adrenalina). Tale reazione, non è caratteristica di una particolare emozione e spesso comparirebbe addirittura in situazioni non emozionali, come ad esempio, in presenza di forte calore che porta ad una cardio-accelerazione, oppure dopo un'intensa attività fisica. Una risposta tanto generalizzata non potrebbe spiegare la ricchezza delle esperienze emozionali. Inoltre Cannon aveva riscontrato che i gatti che avevano subito una resezione del midollo spinale continuavano a manifestare comportamenti emotivi. L'autore ne aveva dedotto che, se il comportamento emozionale restava intatto anche dopo l'eliminazione delle afferenze periferiche, queste sono ininfluenti sull'emozione. Tuttavia gli studi condotti sull'uomo evidenziarono che pazienti con lesioni traumatiche accidentali del midollo spinale riportavano una riduzione dell'intensità delle proprie emozioni. La riduzione era tanto maggiore quanto più grande era la lesione e quindi maggiore era la riduzione delle informazioni periferiche che raggiungono la corteccia (per esempio, Hohmann, 1966; Jasnons, Hakmiller, 1975). Anche se gli studi citati non sono conclusivi nel determinare il ruolo del feedback periferico , in quanto una lesione di questo genere non solo altera lo stato fisiologico dell'organismo, ma comporta cambiamenti nello stato 27


dell'umore e nell'adattamento sociale e trasforma l'individuo normale in un portatore di handicap. Perciò è possibile che le difficoltà di adattamento sociale alterino l'esperienza emozionale più della riduzione dell'input sensoriale periferico (Chwalisz, Diener, Gallagher, 1988; Bermond, Nieuweuhyse, Fasotti, Schuerman, 1991). Ma l'associazione tra specifiche risposte fisiologiche e conseguenti emozioni specifiche, è stata una delle domande a cui è stato più difficile rispondere. Storicamente i primi a fare ricerche in questo senso, furono Wolf e Wolff (1948); osservando un paziente con una fistola gastrica, riscontrarono alcune variazioni dell'attività gastrica come, depressione della secrezione acida, afflusso di sangue e motilità dello stomaco, associate ad ansia e voglia di fuggire; mentre, accelerazione delle funzioni gastriche con arrossamento della mucosa ed aumento di secrezione acida, erano associate invece ad un vissuto di rabbia e risentimento. Questa ed altre teorie smentirono dunque la concezione cannoniana, senza d'altra parte riuscire neanche ad affermare appieno le teorie periferiche. Come si è già detto l'emozione è un evento che coinvolge più livelli e stati del corpo sia cognitivi, che linguistici, che gestuali, ma in che modo avvengono le risposte neurofisiologiche? . Fin dal secolo scorso, ma in particolare negli ultimi decenni, molte ricerche sono state dedicate allo studio delle basi neurofisiologiche della competenza emozionale; si è cercato di comprendere quali strutture del sistema nervoso centrale, in particolare degli emisferi e del tronco cerebrale, siano più strettamente implicate nei comportamenti emotivi.

28


1.31. Alcuni aspetti biologici

Le componenti fisiologiche, vengono intese come reazioni connesse all'attivazione del sistema nervoso centrale (SNC), del sistema nervoso autonomo o neurovegetativo(SNA), e del sistema ormonale endocrino. Il sistema nervoso centrale comprende l'encefalo e il midollo spinale; nell’encefalo (cioè il cervello) sono collocate l'amigdala e l'ipotalamo, le quali hanno un ruolo importante nella gestione delle emozioni. C'è poi il sistema nervoso periferico, che comprende nervi afferenti ed efferenti e mette in collegamento il SNC con tutto l'organismo; il sistema nervoso autonomo (SNA) ne fa parte, ed è responsabile delle risposte autonome o vegetative (salivazione,variazioni della pupilla, modificazioni dell'apparato gastroenterico e cardiovascolare) che generalmente coincidono con il manifestarsi di uno stato emotivo. Il sistema nervoso autonomo si divide in due sezioni, il sistema simpatico (ortosimpatico)

e quello parasimpatico. I neuroni pregangliari del sistema

simpatico sono collocati nel midollo spinale dell'aerea toracica e lombare, mentre quelli del parasimpatico si trovano nel tronco dell'encefalo e nel midollo sacrale. Entrambi i sistemi, simpatico e parasimpatico, hanno azioni antagoniste, in quanto il primo stimola alcune funzioni legate alla produzione di energia (aumenta la ventilazione polmonare, la forza di contrazione del muscolo cardiaco e la frequenza del battito, l'afflusso di sangue ai muscoli, ecc.), mentre il secondo ha la funzione di risparmiare e conservare le riserve energetiche. Entrambi possono trovarsi in uno stato di equilibrio oppure nella condizione in cui uno domina sull'altro , perciò si manifesteranno le reazioni di uno e saranno invece inibite quelle dell'antagonista. In condizioni di rilassamento si ha una dominanza del parasimpatico mentre le 29


risposte

attive

del

sistema

parasimpatico

hanno

funzione

difensiva:

predispongono a contrastare i pericoli ambientali con tutte le energie possibili. Alcuni autori, hanno ipotizzato che i due sistemi corrispondano a due diverse classi di emozioni, al simpatico corrisponderebbero risposte positive, al parasimpatico, negative (Frijda 1986). In realtà si può avere eccitazione del simpatico anche in situazioni piacevoli e reazioni parasimpatiche in situazioni di forte paura o un calo di pressione sanguigna negli stati depressivi. Frijda, ad esempio, tende ad identificare i due sistemi, non in associazione alle emozioni, ma come passività/ attività. Infine abbiamo il sistema endocrino, con funzione di integrazione e mediazione fra SNC e SNA ; il SNC infatti riceve tutte le informazioni che influenzano le funzioni endocrine, come quelle sensoriali ricevute dall'ambiente esterno,o quelle interne all'organismo, e quelle derivanti da schemi comportamentali e biologici propri di ogni specie. Se un'informazione relativa ad uno stimolo stressante

arriva

all'ipotalamo,

questo

stimola

il

fattore

liberante

corticotropinico (CFR) nel flusso sanguigno locale, che a sua volta stimola l'ipofisi anteriore a produrre l'ormone adrenocorticotropo (ACTH) che si diffonde nel circolo sanguigno; l'ACTH compare dopo circa dieci secondi dall'evento stressante, stimola le surrenali che producono catecolamine, tra cui dopamina, adrenalina, noradrenalina (midollare del surrene) e ormoni corticosteroidi (corteccia del surrene) tra cui è fondamentale per l'attivazione emotiva, il cortisolo (Buck 1999; Cassini e Dell'Antonio 1982; Palomba e Stegagno 1989). Fra gli ormoni indicativi dello stato emozionale ricordiamo la tiroxina (ormone tiroideo), l'ormone ipofisario della crescita (GH: Growth Hormone) e le endorfine, che regolano la sensazione di dolore. Tutti questi ormoni hanno effetti diretti o mediati sul metabolismo e producono, per esempio,un risparmio di sodio e di acqua, che dal punto di vista biologico, può essere importante in condizioni di stress accompagnate da sudorazione o da 30


emorragie. L'attivazione degli “ormoni dello stress” hanno andamenti simili nell'uomo e negli animali, ed alcuni studiosi ritengono sia possibile individuare dei profili multiormonali capaci di caratterizzare le singole emozioni (Mason, 1975). L'adrenalina e la noradrenalina invece agiscono su tutti gli organi innervati dal sistema simpatico e producono effetti come la stimolazione cardiaca,la dilatazione delle valvole coronarie, la vasodilatazione dei muscoli volontari, la vasocostrizione del tratto intestinale, la mobilitazione del grasso e del glucosio; anche queste possono essere funzioni di emergenza, che migliorano l'efficienza fisica in situazioni di attacco, combattimento e di fuga. Ci sono degli stimoli, come il dolore, il calore o il freddo che aumentano la produzione di questi ormoni per azione riflessa, mentre le reazioni sollecitate da stimoli sociali, richiedono la mediazione del SNC. Ad esempio, sulla variazione dell'adrenalina e della noradrenalina sono stati condotti diversi studi, sia in condizioni naturali come giocatori di hockey e paracadutisti (Elmadijan, Hope e Lamson, 1957) sia in condizioni sperimentali con soggetti umani e animali (scimmie Rhesus), (Brady, 1970). I dati hanno confermato che le due sostanze hanno andamenti diversi: l'adrenalina viene secreta prima della noradrenalina nei paracadutisti,; lo sforzo fisico degli hockeysti produce forte incremento della noradrenalina (stress psicofisico), mentre negli spettatori passivi(stress psicologico) si ha solo un aumento di adrenalina. Frankenhaeuser e Rissler (1970) hanno studiato anche l'effetto dell'incertezza verso la capacità di controllo situazionale. I risultati hanno mostrato che se i soggetti sono posti in situazioni nuove, imprevedibili e mutevoli(come essere esposti a shock elettrici improvvisi e incontrollabili), la quantità di adrenalina presente nelle urine aumenta, segnalando così lo stato di stress, e diminuisce poi gradualmente man mano che ai soggetti viene data la possibilità di controllare in alcuni casi, l'emissione di shock. La noradrenalina sembra invece meno sensibile alle variazioni dello stato emotivo dei soggetti, in quanto la 31


secrezione resta ad un livello abbastanza elevato fintantoché i soggetti restano impegnati in qualche compito. 1.3.2. Emozioni e il cervello

Il cervello è strettamente connesso all'evento emotivo e molti studi hanno indagato questa interazione così importante per l’organismo. Le strutture corticali sono implicate nell'esperienza e nell'espressione delle emozioni; per entrambi questi aspetti esiste una lateralizzazione delle elaborazioni corticali. Lateralizzazione, come è noto, significa differenziazione delle funzioni cerebrali secondo la parte del cervello (emisfero) destra o sinistra in cui sono eseguite. Negli esseri umani le informazioni proveniente dal mondo esterno si incrociano, decussano, da decus, nome latino del numero dieci, espresso con una X cioè una croce, raggiungendo il lato cerebrale opposto rispetto a quello da cui provengono. Un buon esempio è rappresentato dalla vista, le informazioni che cadono sulla retina dell'occhio sinistro passano per il nervo ottico e raggiungono la corteccia visiva presente nel lato destro del cervello. Questo incrocio delle proiezioni cerebrali è simile per quasi tutte le altre funzioni corticali. Quindi se una persona subisce un ictus nell'emisfero destro, è probabile che perda le funzioni motorie del alto sinistro del corpo, e restare paralizzato da quel lato. Sono stati raccolti diversi risultati che dimostrano che la corteccia destra è fortemente associata all'elaborazione dell'espressione emozionale, mentre il lato sinistro, non ha un ruolo importante. Una dimostrazione della superiorità del lato destro del cervello per quanto riguarda il riconoscimento delle espressioni facciali, ci è dato dallo studio sperimentale di Strauss e Moscovich (1981), i quali proiettarono un'immagine di volti emotivamente espressivi, alternando campo visivo destro e sinistro, a soggetti 32


privi di danni cerebrali. Gli autori trovarono che il riconoscimento era migliore nel caso delle proiezioni al campo visivo sinistro(ovvero, quelle proiettate dall'emisfero destro). Ulteriori dimostrazioni derivano dalle ricerche condotte su pazienti split-brain (Gazzaniga, 1988). Tali pazienti avevano subito un'operazione chirurgica con la quale gli era stata rimossa una parte del cervello nota come corpo calloso che collega le due parti della corteccia. Questa operazione viene effettuata in genere per prevenire la diffusione delle scariche epilettiche da una parte all'altra del cervello. I pazienti split-brain sono in grado di riconoscere eventi emozionali significativi solo quando questi sono proiettati al lato destro della corteccia(cioè al campo visivo sinistro). Il riconoscimento delle espressioni facciali, quindi, sembra dipendere dalle aree posteriori o dorsali della corteccia destra. Al contrario le aree frontali controllano l'esperienza e l'espressione emozionale. Diversamente che nel caso del riconoscimento, sembra esserci poca lateralizzazione dell'espressione e dell'esperienza emozionale che coinvolgano entrambi i lati della corteccia frontale. Tuttavia quando si osservano le differenze fra emozioni positive e negative, allora emergono effetti di lateralizzazione. Sembra che alcuni meccanismi alla base dell'espressione e dell'esperienza emozionale positiva dipendano dalla corteccia sinistra, mentre le emozioni negative sembrano essere controllate dalla corteccia frontale destra. Difatti i pazienti che hanno subito un ictus nel lato sinistro della corteccia frontale hanno un'alta possibilità di soffrire di depressione, mentre un ictus nella regione frontale destra provoca i sintomi della mania (Starkstein e Robinson, 1991), una condizione caratterizzata da stati d'umore euforici. Inoltre Schiff e Lamon(1994), in uno studio chiesero ai propri soggetti di contrarre a turno i muscoli di destra e di sinistra del volto. Ne emerse che la contrazione dei muscoli del lato sinistro tendeva ad indurre emozioni negative, in particolare tristezza; al contrario la contrazione dei muscoli del lato destro del volto, tendeva a produrre emozioni 33


positive e a volte, rendevano i soggetti asserviti. Un'altra importante ricerca fu condotta da Gainotti (1972), che fece degli studi sull'adeguatezza delle reazioni emotive; osservò dei pazienti con lesioni cerebrali nell'emisfero destro o sinistro, che erano paralizzati o impediti nella metà opposta del corpo. Egli rilevò, che mentre i cerebrolesi sinistri, presentavano drammatiche reazioni emotive di angoscia e disperazione, i cerebrolesi destri mostravano di solito una sostanziale indifferenza per i propri disturbi motori, quando non ci scherzavano su. La sua conclusione fu che la lesione all'emisfero destro, aveva danneggiato la capacità di sentire, o quanto meno di manifestare delle emozioni adeguate alla situazione. In sintesi quindi, le regioni corticali sono importanti per il riconoscimento, per l'esperienza e per l'espressione delle emozioni; in particolare il riconoscimento sembra essere controllato dalla corteccia dorsale destra, mentre l'esperienza e l'espressione dalle aree corticali frontali. Gli studi nell'ultimo secolo sono stati diversi, ed ognuno ha dato il proprio contributo per capire cosa avvenga nel cervello durante tutto ciò che riguarda un evento emozionale. Fin ad ora sono stati presentati dati che hanno mostrato la superiorità dell'emisfero destro nell'elaborare importanti aspetti della competenza emotiva. Vi sono però delle ricerche, centrate su particolari emozioni, che hanno rilevato una superiorità dell'emisfero sinistro nell'identificare emozioni positive, come gioia o sorpresa, mentre l'emisfero destro restava dominante per l'elaborazione di emozioni di tipo negativo, come tristezza e paura (Fox e Davidson, 1984). Davidson ed alcuni dei suoi colleghi in una ricerca mostrarono ai soggetti dei filmati a carattere emotivo; mentre quest'ultimi osservavano i video e mostravano espressioni positive o negative in base alle scene, venivano sottoposti ad una registrazione elettroencefalografica (EEG). I risultati mostrarono che mentre i soggetti avevano un'espressione felice, si verificava un 34


incremento significativo dell'attivazione nella regione frontale sinistra della corteccia, rispetto a quella destra; ma tale situazione si ribaltava quando invece mostravano disgusto. Anche Etcoff (1986) partì dall'ipotesi che le emozioni positive e negative fossero elaborate da emisferi diversi; la loro organizzazione concettuale dovrebbe risultare disorganizzata in modo prevedibile nei cerebrolesi destri, che avrebbero le emozioni negative confuse, mentre nei cerebrolesi destri quelle positive. Nei suoi esperimenti l'autore ha però trovato che questi ultimi, nonostante avessero più difficoltà a riconoscere la somiglianza fra le emozioni, facevano gli stessi errori dei normali e dei cerebrolesi sinistri. Ulteriori studi sul cervello sono stati determinanti nel comprendere meglio quali sistemi intervengano nell'attivazione dello stato emotivo. Ad esempio, le reazioni emozionali richiedono che l'ipotalamo sia integro (Bard, 1928). Papez (1937) ha proposto una teoria del circuito dell'emozione, il cosiddetto “circuito di Papez”, che coinvolge l'ipotalamo e le strutture connesse. MacLean(1949;1952) ha nominato sistema limbico le strutture del circuito di Papez, insieme ad altri componenti, far cui l'amigdala. Tale sistema secondo McLean, consisteva in un circuito in cui intervengono diverse funzioni necessarie alla sopravvivenza dell'organismo, incluse le emozioni. Tuttavia, in tempi più recenti, il sistema limbico è stato oggetto di discussione della comunità scientifica, in quanto crebbe la consapevolezza che l'elaborazione emozionale attribuita al sistema limbico in realtà fosse controllata dall'amigdala (Ledoux, 1992;1993;1996). Le prime ricerche sull'importanza dell'amigdala provengono dalle ricerche di Kluver e Bucy (1937). Come si sa le amigdale sono due, una per emisfero e sono due piccoli corpuscoli che hanno la forma di una mandorla, amigdala, appunto, in latino. Rimuovendo ampie zone del sistema limbico inclusa amigdala, notarono che le 35


scimmie

perdevano la loro solita paura degli umani e la loro normale

aggressività ,diventando docili e prive di espressività facciale; questi soggetti inoltre, mostrarono un comportamento curioso: esaminavano qualunque oggetto e mettevano qualunque cosa in bocca, inclusi dei vetri rotti e oggetti ardenti. Diventarono anche carnivori e sessualmente disinibiti. Tali sintomi andarono a costituire quella che viene riconosciuta come la Sindrome di KluverBucy, sindrome legata ai danni o alla rimozione dell'amigdala (Weiskrantz, 1956). Ma perché l'amigdala causa tali cambiamenti? Un prima risposta la provò a dare Ledoux (1993;1996). Secondo quest'autore, l'amigdala rappresenta il centro emozionale del cervello che analizza gli input sensoriali di qualunque significato emozionale ed esegue le funzioni cognitive dell'appraisal. Certamente tale sistema possiede le connessioni giuste per svolgere questo ruolo , riceve gli input delle regioni corticali legate al riconoscimento udivo e visivo e possiede strette connessioni con l'ipotalamo. Ma l'aspetto più caratteristico della teoria di Ledoux è che l'amigdala possa computare le conseguenze

emozionali

dell'informazione

sensoriale

da

due

fonti:

dall'informazione sensoriale proveniente dalla corteccia visiva e uditiva, ma anche direttamente attraverso il talamo. La prima informazione è importante nell'elaborazione della rilevanza dello stimolo emozionale rispetto agli obiettivi in corso e i bisogni attuali dell'organismo; al contrario l'informazione sensoriale via talamo è una funzione dell'apprendimento emozionale e si basa sulle caratteristiche più semplici degli stimoli, come l'intensità, che hanno avuto delle conseguenze emozionali per l'individuo in passato (Ledoux, 1993). Parallelamente agli studi sulle aree del cervello implicate nell'elaborazione delle emozioni, sono state svolte numerose ricerche su come queste regioni cerebrali comunichino tra loro. Ad esempio, grazie ai lavori di Brazier (1959) sulle rane, ora sappiamo che tali comunicazioni cerebrali dipendono da diverse sostanze 36


chimiche note come neurochimiche, che possiamo classificare in tre famiglie funzionali: I.

le prime sono i trasmettitori, (o meglio neurotrasmettitori) rilasciate dalle sinapsi delle cellule nervose.

II. La seconda famiglia comprende gli ormoni, sostanze chimiche trasportate nel sangue e che raggiungono gli organi che sono sensibili ad essi.. III. L'ultima riguarda i neuromodulatori, molti dei quali peptidi (proteine elementari); ma sul loro funzionamento si sa poco. La maggior parte delle ricerche si è concentrata su come questi modulino il sistema del dolore, e molte di esse hanno una certa somiglianza con droghe che provocano assuefazione, come l'oppio e l'eroina. Un ulteriore importante studio ci viene da Oliver Sacks (1973), il quale descrive una particolare esperienza i cui protagonisti furono i sopravvissuti della malattia del sonno, l'Encephalitis Lethargica. Le vittime caddero in uno stato di morte apparente, non accennavano alcun movimento e non parlarono per interi giorni, o addirittura anni. Molti di loro vissero in ospedale per 50 anni, fino a quando nel 1969 venne scoperto il farmaco denominato L-DOPA, che è un precursore biosintetico della dopamina, fondamentale nella comunicazione cerebrale. Somministrando tale sostanza, le funzioni nei pazienti vennero apparentemente ristabilite. Ciò succede specialmente nei pazienti affetti dal morbo di Parkinson che distrugge le popolazioni neuronali. Tali pazienti agivano spontaneamente, riuscivano a pianificare il loro tempo e a provare una serie di diverse emozioni. Tuttavia i pazienti non ritornavano al loro stato emozionale precedente alla malattia. Essi vivevano emozioni, passioni, desideri piÚ intensamente e con maggiore disinibizione rispetto a prima. Questi studi dimostrarono che la neurochimica ha una fondamentale importanza nel funzionamento emozionale. Abbiamo dunque finora elencato e discusso le diverse teorie che hanno 37


sostenuto la superiorità dell'aspetto neurofisiologico nel vissuto emozionale. Ma questo vissuto emozionale, ci chiediamo, è davvero riducibile al solo aspetto biologico?

38


1.4

Componente cognitiva: quanto può determinare l'esperienza emotiva? Approcci cognitivi

Inizialmente lo studio scientifico delle emozioni, influenzato dalla tradizione filosofica, ha posto in due blocchi distinti la cognizione e l'emozione, considerando quest'ultima al pari delle “passioni”, forme primitive di attività psichica (Lange, 1885). Ciononostante, il tentativo di spiegare le emozioni attraverso l’attività cognitiva ha basi molto antiche più di quanto si pensi. Secondo Epitteto (ca.50-138 d.C.) l'uomo è turbato più che dagli eventi, dall'opinione che ha egli stesso degli eventi, cioè dai problemi e dalle angosce generate dai suoi pensieri. Anche Spinoza (1677; trad. it. 1971) fa riferimento all'attività cognitiva che sta alla base delle emozioni : «la nostra mente fa alcune cose altre invece patisce, cioè in quanto ha idee adeguate , fa cose necessariamente e in quanto ha idee inadeguate certe altre necessariamente patisce […] un affetto la cui causa immaginiamo ci sia presentemente vicina è più forte che se immaginassimo non fosse vicina» Nonostante le intuizioni di questi filosofi, soltanto alla fine degli anni Sessanta si è cominciato a formulare vere e proprie teorie cognitive (ad esempio Averill, 1974; Lazarus, 1966) Alcune importanti teorie elencate qui di seguito possono essere accomunate partendo dal principio secondo cui la mediazione cognitiva, e in particolare i processi di valutazione dello stimolo (appraisal), costituiscono un elemento cruciale per la genesi dell'emozione (Lombardo-Cardaci, 2005). Possiamo raggruppare le teorie delle emozioni in tre categorie affini (D'Urso, Trentin, 2007): 39


1. Teorie Interpretative (Schachter e Singer, 1962); Mandler, 1984) : l'emozione è composta di aurosal (livello di attivazione della corteccia cerebrale necessario a mantenere questa in uno stato di vigilanza e quindi di adeguata ricezione degli stimoli provenienti dal mondo esterno ) più interpretazione cognitiva della situazione; questi processi cognitivi non hanno in sé nulla di emotivo, la loro funzione è di giudizio e attribuzione causale, con lo scopo di definire la qualità dell'esperienza emotiva; 2. Teorie delle Valutazioni Cognitive (Appraisal) e delle Tendenze all'azione (Arnold,1960; Lazarus, 1966; Frijda, 1986; Smith e Ellsworth, 1985; Roseman, 1991; Schrer, 1984): gli elementi cognitivi sono a) parte integrante dell'emozione; ogni emozione equivale ad una specifica struttura di significato o valutazione cognitiva della situazione; b) tali elementi sono anche causa diretta dell'esperienza e del comportamento emotivo; 3. Teorie della Rappresentazione Cognitiva (categoriale e schematica) (Fehr e Russell, 1984; Shaver et al., 1987; Conway e Bekerian, 1987) : le esperienze emotive sono concettualizzate nella mente della persona in forma di prototipo e/o script; queste strutture e i loro contenuti regolano le aspettative della persona nei confronti dell'ambiente , e codificano il significato degli eventi emotigeni.

Per quanto riguarda le teorie interpretative ricordiamo alcuni studi condotti da Schachter Singer (1962), i quali condussero un famoso esperimento in cui manipolarono sistematicamente l'attivazione fisiologica, le aspettative e il contesto situazionale. Per produrre attivazione fisiologica veniva praticata ai soggetti un'iniezione di adrenalina(presentata come composto vitaminico). Per creare differenti aspettative gli autori avevano formato i seguenti gruppi di 40


soggetti: uno informato sugli effetti collaterali della sostanza ( sudorazione, arrossamenti del viso, tremolii alle mani, aumento della frequenza cardiaca); uno male informato cui veniva detto che il farmaco non aveva alcun effetto collaterale; e uno del tutto disinformato. A tutti i partecipanti veniva poi chiesto di compilare un questionario con domande offensive e imbarazzanti. Il contesto situazionale veniva manipolato introducendo un complice dello sperimentatore che durante la compilazione del questionario simulava di volta in volta un comportamento euforico o uno aggressivo. Il disegno sperimentale includeva anche un gruppo di controllo a cui veniva iniettata una soluzione fisiologica senza effetti (placebo). I risultati riportarono che i soggetti informati sugli effetti collaterali del farmaco non si lasciavano influenzare dal contesto, mentre i soggetti non informati interpretavano le modificazioni fisiologiche come eccitazione emozionale e si lasciavano coinvolgere in atteggiamenti di euforia o ira, anche in associazione al comportamento del complice dello sperimentatore. Facevano eccezione i soggetti cosiddetti autoinformati (cosÏ valutati in base all'intervista finale), i quali avevano intuito che l'attivazione e le modificazioni fisiologiche erano conseguenti al farmaco e si comportavano come quelli informati. Gli autori conclusero che l'attivazione viscero- somatica indotta dall'adrenalina crea un evaluative need che spinge l'individuo alla ricerca delle cause che hanno generato lo stato di attivazione. Tuttavia quest'ingegnoso esperimento si è rivelato difficilmente ripetibile (ad esempio Marshall, Zimbardo, 1979; Maslach, 1979) cosÏ come le ipotesi sulla teoria cognitivo-attivazionale non ha ricevuto conferme univoche dalla ricerca empirica successiva (cfr. Reisenzein, 1983). Mandler propose una teoria simile a quella di Schachter e Singer, prestando particolare attenzione ai fattori che nella vita reale determinano l'attivazione e inducono l' evaluative need. 41


Secondo l'autore (1975) alcuni stimoli interni ed esterni hanno per loro natura o per esperienza passata, il potere di interrompere le operazioni cognitive in corso o l'esecuzione di piani integrati di azione. L'interruzione delle attività in corso è la causa, ovvero la condizione necessaria e sufficiente dell'emozione, sia dal punto di vista psicofisiologico (attivazione) che su quello cognitivo (vissuto emozionale). Interrompere il corso delle azioni o delle elaborazioni cognitive, a causa di una stimolazione improvvisa e inattesa ad esempio, ha un forte valore adattivo per la persona: è infatti il segnale di cambiamenti ambientali da elaborare e da affrontare prioritariamente, per il proprio benessere. Il livello di attivazione che segue all'interruzione può influire sull'esperienza emozionale determinandone l'intensità ma non la qualità. Il contenuto, la qualità positiva o negativa dell'emozione, dipende invece da specifiche valutazioni cognitive sulle circostanze che hanno prodotto l'interruzione. A loro volta le valutazioni cognitive dipendono da fattori quali l'esperienza passata, il contesto situazionale esterno, l'attività cognitiva precedente e le conseguenze dello stimolo. Le teorie della valutazioni cognitive, invece, tentano di spiegare la molteplicità delle emozioni complesse partendo dall'analisi, che ognuno di noi è in grado di fare, e che porta più o meno a orientarci circa l'emozione provata; ogni esperienza emotiva ci appare caratterizzata da una particolarità, definibile come vissuto soggettivo, un insieme di sensazioni psicologiche capace di distinguere uno stato emotivo dall'altro. Le teorie degli appraisal e delle tendenze all'azione, si propongono di individuare i contenuti mentali che fanno si che certe esperienze siano vissute come emotive, e rendano diverse e inconfondibili le varie emozioni. Secondo queste teorie, non è la natura dell'evento a suscitare l'emozione bensì l'interpretazione al proprio benessere. Uno stimolo può essere interpretato in maniera diversa e suscitare quindi emozioni diverse. Le esperienze emotive sono quindi essenzialmente esperienze della situazione 42


emotigena e delle sue potenzialità positive o negative per la persona; emozioni diverse saranno caratterizzate da strutture di significato situazionale diverse (Frijda, 1986). Innanzitutto il modello di appraisal a cui tutti i teorici fanno riferimento è quello proposto da M. Arnold (1960;1970), che fu la prima (Magda Arnold) a definire le valutazioni cognitive come elementi che: (a) completano la percezione, permettono di valutare in modo immediato, automatico e quasi involontario la presenza o l'assenza di un oggetto e la sua tendenza positiva o negativa; (b) spingono alla tendenza all'azione; queste tendenze vengono vissute come emozioni, producono modificazioni dell'organismo e posso tradursi in azioni concrete. Il sistema di valutazioni proposto dalla Arnold si basa su tre dimensioni di giudizio dicotomiche con cui si stabilisce se uno stimolo è presente o assente, benefico o nocivo, e facilita il raggiungimento di uno scopo positivo o il sottrarsi a qualcosa di dannoso. Secondo la Arnold dovrebbe essere possibile distinguere le emozioni fondamentali in base a queste tre dimensioni, ma le ricerche empiriche successive dimostrarono che occorre assumere un sistema valutativo molto più complesso. In questo senso Roseman (1979; 1984) propose una teoria che utilizza cinque appraisal motivazionali e valutativi, alle cui combinazioni corrisponderebbero 13 diverse emozioni. 1. stato motivazionale; si distingue fra motivazione appetitiva o “aversiva”, cioè fra la tendenza dell'individuo a cercare di ottenere un premio o ad evitare una punizione; 2. stato situazionale; si riferisce alla presenza/assenza, nella situazione, del premio o della punizione, cioè dello stato motivazionale; 43


3. probabilità; valutazione della certezza o incertezza con cui un dato evento potrà verificarsi; 4. legittimità; convinzione che una persona ha di meritarsi un premio o una punizione; 5. agente, con cui si distingue se un esito è prodotto da circostanze impersonali , da se stessi o da altre persone.

Un altro studioso, Weiner, (1985, 1986) collegò la struttura delle emozioni alla struttura del pensiero causale, ritenendo che le tre principali dimensioni della causalità (luogo, stabilità e controllabilità) siano anche elementi di valutazione capaci di caratterizzare alcune emozioni come rabbia, gratitudine, colpa, pietà, orgoglio, vergogna. Questo autore attribuisce un valore fondamentale agli antecedenti cognitivi delle emozioni, mentre ritiene che il concetto di aurosal sia addirittura superfluo, dato che si tratta di una sorta di impulso che non può spiegare né la qualità né la direzione dell'esperienza emotiva. Suggerisce che l'aurosal debba essere ritenuto più come una conseguenza che come una causa dell'attività cognitiva che determina l'esperienza emotiva. Weiner non sostiene che la relazione tra emozione e attribuzione causale sia sempre necessaria ma piuttosto rileva e dimostra sperimentalmente che gli antecedenti causali sono spesso associati a certe emozioni. Il giudizio sulla stabilità di un evento può determinare emozioni come impotenza

o

rassegnazione, se la persona affronta una conseguenza negativa di una sua azione, perché questo tipo di attribuzione porta a pensare che quell'episodio spiacevole durerà anche in futuro e induce a credere che la causa percepita sia permanente. Ad esempio l'orgoglio

è definito “locus causale” perché è

un'emozione che consiste nell'attribuire a sé il merito di successi e di eventi positivi; la rabbia invece nasce dall'attribuire agli altri e alle loro possibilità di 44


controllare un evento sgradevole al sé; la colpa e la vergogna hanno ambedue cause controllabili ma la prima è diretta verso l'interno mentre la seconda è indirizzata il più delle volte verso l'esterno, ed entrambi implicano un'autovalutazione negativa, ma mentre la vergogna è attribuita a scarsa abilità, la colpa è associata ad una mancanza di impegno. Gli studi condotti da questo autore mostrano che le emozioni di rabbia e pietà sono associate al concetto di controllabilità già a sei anni, mentre le associazioni tra colpa e controllabilità e fra auto-attribuzione di un successo e sentimento di orgoglio, si sviluppano più tardi e più gradualmente. Scherer (1984) e Leventhal e Scherer (1987) hanno proposto una teoria più complessa delle precedenti che vuole riunire in un unico quadro

tutte le

componenti che fanno parte dell'esperienza emotiva. L'emozione viene definita come sequenza di cambiamenti di stato che si verificano nei seguenti cinque sottosistemi dell'organismo: 1) l'elaborazione dell'informazione (valutazione della situazione); 2) il sostegno (regolazione omeostatica); 3) l'organizzazione comportamentale (orientazione dell'azione); 4) il sottosistema motore (esecuzione di un'azione e comunicazione della reazione e dell'intenzione); 5) il supervisore (riflessione e valutazione degli stati degli altri sotttosistemi). Questi cambiamenti sono interdipendenti e si verificano subito dopo la valutazione di uno stimolo interno o esterno in una fase subito successiva alla valutazione di uno stimolo interno considerato utile per un bisogno o un obiettivo dell'organismo. Secondo questi autori la valutazione della struttura del significato dello stimolo va concepita come un processo a tre stadi che porta alla successiva attivazione del livello senso-motorio (LSM), di quello schematico (LS) 45


e di quello concettuale (LC). La valutazione viene operata a ciascun livello su cinque parametri: novità, piacevolezza, capacità di condurre allo scopo o alla soddisfazione dei bisogni, possibilità di far fronte (coping), compatibilità con il sé e con le norme sociali. Ogni livello contribuisce alla valutazione dello stimolo. − Novità: il livello senso motorio registra la presenza di uno stimolo intenso ed improvviso; il livello schematico verifica la familiarità dell'evento in base al contenuto degli schemi presenti e il livello concettuale gestisce le stime delle aspettative, come i probabili esiti e le connessioni causa/effetto; − Piacevolezza: rifiuti e preferenze innate (LSM) ,rifiuti e preferenze apprese (LS) e valutazioni positive/negative/ ricordate, anticipate o inferite (LC); − Capacità di condurre allo scopo: si hanno bisogni fondamentali( LSM), motivazioni e bisogni acquisiti (LS), scopi consapevoli e piani (LC); − Possibilità di far fronte: attivazioni di energia che vengono rese disponibili (LSM), attivazione di schemi corporei espressivo- comportamentali (LS), e capacità di risoluzione dei problemi (LC); − Compatibilità con il sé e con le norme sociali: si differenzia in forme di adattamento empatico (LSM), attivazione degli schemi sociali e di sé (LS) e in valutazione morale e idealizzazione del sé (LC). Questa è una teoria molto complessa, che ha però il merito di aver tentato di riconciliare la storica dicotomia fra corpo e mente, fra posizioni periferiche e centrali. Non dà maggior peso o valore né al SNC né a SNA e neanche ai processi cognitivi, suggerisce invece una parità e una costante interazione e cooperazione fra tutti i componenti. Infine, è doveroso ricordare le ricerche di Smith e Ellsworth; il contributo di questi due autori è importante per quanto riguarda le verifiche empiriche sulle 46


teorie delle valutazioni cognitive. Nella prima ricerca (1985) studiarono le strutture cognitive multidimensionali, ossia le dimensioni di valutazione che caratterizzano le differenti esperienze emotive. Successivamente gli autori (1987) tentarono di studiare il rapporto tra valutazioni cognitive ed emozioni, ma non più in laboratorio, bensì in una situazione naturale capace di suscitare intense emozioni. I soggetti erano studenti che dovevano descrivere i loro stati emotivi e le loro valutazioni cognitive subito prima di sostenere gli esami di metà trimestre e subito dopo aver saputo le votazioni ottenute. Confrontando i dati così ottenuti, con quelli dello studio precedente, registrarono variazioni relative alle valutazioni cognitive, fra cui la ricomparsa di legittimità e percezione dell'ostacolo, mentre per la dimensione agente compare solo l'eccezione agente umano e non circostanze esterne. Inoltre come era accaduto nel primo studio, non c'è una chiara distinzione tra sentirsi colpevole e vergognarsi, neanche nella seconda prova dove i punteggi del sentirsi colpevole aumentano notevolmente. Secondo Manstead e Tetlock (1989) questo dipende dal fatto che le dimensioni dell'appraisal usate non consentono di cogliere gli aspetti sociali e relazionali del sentirsi colpevole di uno studente che dopo un esame, si confronta non solo con l'eventuale bocciatura, brutta figura ecc., ma anche con le aspettative di genitori e insegnanti. Confrontando invece i dati delle due fasi pre/post esame, si rileva una certa instabilità del sistema emotivo- valutativo. Ovviamente cambiano le emozioni private, ma è interessante notare che fra quelle registrate nella prima fase non ci sono correlazioni negative, il che significa che gli studenti, prima dell'esame, provano contemporaneamente emozioni positive e negative. Come è stato dimostrato da altri studi (Diener e Emmons, 1985; Diener e Iran-Nejad, 1986) la compresenza di emozioni opposte è possibile, a condizione che esse si mantengano ad un livello medio di intensità. 47


Nella seconda fase (post-esame) invece, dove predominano rabbia, felicità, speranza/sfida, apatia, paura e colpa, la felicità si associa negativamente alla rabbia, paura e colpa, mentre

speranza/sfida si associano negativamente

all'apatia; non viene però rilevata la tristezza, né prima né dopo l'esame. In due studi successivi Ellsworth e Smith (1988) studiano separatamente e con procedure diverse, le dimensioni valutative delle emozioni positive e negative. I dati ottenuti da questi esperimenti suggerirono una distinzione tra valutazioni periferiche e centrali (intendendo queste ultime come particolari valutazioni che individuano gli aspetti funzionali e adattivo dell'emozione a cui si riferiscono). Avendo notato l'instabilità dei dati ottenuti dai loro studi, gli autori si resero conto che il quadro delle valutazioni cognitive necessarie per definire le emozioni fosse ancora incompleto e che richiedesse delle associazioni che legassero gli appraisal con le preparazioni all'azione (Frijda, 1986) e con le attività poste in atto per fronteggiare una situazione (coping) (Lazarus, 1984). Infine abbiamo le teorie della rappresentazione cognitiva (schematica o categoriale) dell'emozione, che sono basate su studi volti a verificare se i costrutti di categoria e di script sono estendibili alla rappresentazione delle esperienze emotive. Quello che viene studiato qui, non è come si produce l'emozione, né quali elementi fisici e psichici la sostengono, ma piuttosto che cosa resta di queste esperienze nella mente di un individuo e con quali modalità questi contenuti vengono analizzati e codificati in memoria. Fehr e Russell (1984) hanno condotto alcuni esperimenti con l'intento di rispondere ad un'apparente semplice domanda: se è tanto difficile definire cos'è un'emozione, è possibile scoprire se esiste nella mente delle persone il concetto di emozione e quali proprietà abbia? L'ipotesi degli autori è che l'emozione sia concettualizzata come una categoria sfuocata (fuzzy) organizzata intorno ad un prototipo (Rosch, 1978), che è descrivibile come un insieme astratto di proprietà 48


che sono condivise in diverso grado dai membri della categoria. Ad esempio, il prototipo di una categoria pesci può comprendere caratteristiche come nuotare,squame, pinne, branchie,forme, allungate,ecc.; alcuni pesci condividono molte caratteristiche del prototipo, mentre altri sono poco rappresentativi (serpente di mare, delfino, balena) perché condividono poche proprietà e sono al confine con altre categorie, come quella dei mammiferi. Quindi la categoria ha, a livello psicologico, una struttura interna graduata e comprende esemplari che hanno vari gradi di appartenenza. Fehr e Russell ipotizzano che anche le emozioni siano organizzate entro una categoria che: a) a livello più astratto, è concettualizzata semplicemente come emozione positiva o negativa: b) a livello intermedio o basico dovrà comprendere un prototipo, cioè l'insieme delle caratteristiche che definiscono un concetto e una serie di esemplari, alcuni molto prototipici come rabbia, paura, tristezza, felicità e altro meno prototipici come orgoglio, coraggio, invidia; c) a livello subordinato comprende sentimenti che possono essere considerati espressioni specifiche delle emozioni di base; così rabbia sarà distinta in irritazione, indignazione furia; per paura si avrà apprensione, panico, allarme; per amore ci sarà la distinzione fra amore romantico e amore filiale, ecc. L'intento di Fehr e Russell è quello di distinguere tra l'esperienza emotiva e la sua rappresentazione cognitiva, e ritengono che studiando la struttura gerarchica delle parole delle emozioni, si arrivi così a conoscere la natura del concetto di emozione.

49


1.4.1

Il Coping

Un importante studio sugli approcci cognitivi ha riguardato il coping, cioè l'insieme delle modalità con cui si affrontano le richieste dell'ambiente. Il termine coping deriva dal verbo inglese to cope, che significa farcela, riuscirci. Il coping è stato ed è parte integrante delle teorie cognitive sulle emozioni. I sostenitori delle teorie cognitive sottolineano l'importante funzione di due processi che intervengono nel generare e modulare le emozioni: da un lato la valutazione della rilevanza emozionale dello stimolo (appraisal), dall'altro la valutazione delle possibilità di coping, cioè delle varie strategie cognitive e comportamentali utilizzabili per gestire efficacemente le situazioni emozionali. Il coping è stato originariamente indagato in una prospettiva psicanalitica e successivamente animale. Già Freud descrisse una serie di meccanismi di difesa a disposizione dell'Io, necessari a risolvere i conflitti fra gli impulsi interni e la realtà. Questi meccanismi (nei quali si può trovare qualche analogia con il coping) comportano l'espressione indiretta degli impulsi sessuali e aggressivi grazie all'intervento di particolari modalità cognitive; hanno funzione difensiva in quanto impediscono la manifestazione diretta degli impulsi inaccettabili e sono finalizzati alla riduzione della tensione emotiva (Moos, Billings, 1982). Successive elaborazione hanno distinto il coping vero e proprio dai meccanismi di difesa (Menninger, Mayman e Pruyser, 1963). I modelli animali e quelli psicodinamici hanno dominato gli studi sul coping per molto tempo e indirizzato la ricerca empirica in particolare verso gli stili di coping, ritenuti espressione di differenze disposizionali nelle condotte individuali. Un esempio dell'approccio disposizionale al coping

riguarda la

distinzione fra stile monitoring, caratteristico delle persone che tendono a 50


prestare molta attenzione agli aspetti problematici e potenzialmente nocivi di una certa situazione, e stile blunting, che invece caratterizzerebbe le persone che tendono a negare l'esistenza degli aspetti negativi (Miller, 1980). Le persone che usualmente utilizzano lo stile monitoring, presentano anche un maggiore disagio psicologico e una maggiore reattività fisiologica rispetto alle persone che elaborano la realtà in modo blunting. Gli approcci cognitivi e cognitivo-comportamentali al coping, a differenza di quelli psicanalitici, non considerano lo stile coping in termini disposizionali, bensì in termini situazionali e interazionali. Mentre la concezione diposizinalista ipotizza che le condotte siano espressione di caratteristiche individuali stabili e indipendenti dal contesto, le moderne teorie interazionali, al contrario sostengono che gli stili comportamentali siano condizionati dall'influenza di molteplici variabili: motivazionali, emozionali, cognitive da un lato, sociosituazionali dall'altro. La combinazione di queste variabili entra in relazione con i processi di valutazione cognitiva (appraisal) che governano la selezione dei comportamenti da parte della persona (Endler, Edwards, 1982). Perciò lo stile comportamentale non è una caratteristica immodificabile dell'individuo, ma è soggetto a cambiamento (talvolta anche con appropriati interventi di rieducazione o di counselling). Vari autori riconoscono che gli eventi della vita, uniti alle risorse personali e ai fattori ambientali, influenzano il processo di appraisal e di reappraisal, nonché la selezione delle risposte di coping e la loro efficacia. Inoltre il modo in cui viene valutato un evento dà modo di presagisce quale sarà la strategia di coping adottata (Moos, Billings, 1982). Uno dei due più noti studiosi del coping è Lazarus, nella cui teoria cognitiva adopera il termine coping per indicare le strategie cognitive e comportamentali usate dal soggetto per gestire richieste ambientali o interne e i conflitti fra 51


richieste incompatibili (Lazarus, 1991). Lazarus (1966) elaborò dunque, una teoria per spiegare la reazione di stress. Successivamente ne elaborò una più ampia in cui veniva inclusa un'analisi “fenomenologica” delle emozioni (Lazarus, Folkman, 1984). Si tratta di una concezione affine alle teorie attribuzionali di Weiner e Graham (Weiner, Graham, 1984) i quali hanno suggerito che le convinzioni sulle cause degli eventi e i significati che gli individui attribuiscono alle situazioni, ne influenzano gli atteggiamenti, le sensazioni e le emozioni stesse. Oltre ai processi attribuzionali, Lazarus ritiene particolarmente importante il cosiddetto appraisal o valutazione cognitiva. Nel valutare gli eventi il soggetto può limitarsi a darsene una spiegazione “fredda” oppure considerare anche le ripercussioni che hanno avuto sul proprio benessere. L'autore distingue così tre tipi di valutazione cognitiva: 1. Appraisal

Primario

:

consiste

nella

valutazione

immediata

dell'importanza (positiva, negativa o neutra) di una situazione per il proprio benessere; 2. Appraisal Secondario : consiste il valutare quali siano le strategie più efficace per affrontare la situazione (coping); 3. Re-Appraisal : consiste nella valutazione del cambiamento individuoambiente in funzione dell'appraisal primario e di quello secondario. Inoltre i processi di appraisal primario e re-appraisal avvengono sia automaticamente che sotto il controllo consapevole dell'individuo, mentre i processi di coping e appraisal secondario sono controllati consapevolmente. La teoria di Lazarus sostiene che l'appraisal determini l'emozione, e il processo di casualità è concepito come bidirezionale o per meglio dire, circolare; l'attività cognitiva e l'esperienza emozionale sono infatti espressioni di un processo circolare continuo che può basarsi anche su cues (segnali) parziali; le emozioni possono essere già presenti ai primi stadi della valutazione cognitiva e non ne 52


costituiscono necessariamente il risultato finale. Inoltre Lazarus, per sostenere il legame tra attività cognitiva e ambiente, introduce il concetto di emotional encounter (incontro emozionale) fra il soggetto e la valutazione. I valori, le credenze, gli obiettivi dell'individuo influenzano attivamente ogni incontro emozionale, creando ostacoli, vincoli e definendo i possibili scenari situazionali ai quali ognuno è maggiormente sensibile. I diversi significati attribuiti all' emotional encounter differenziano secondo Lazarus, la qualità e l'intensità delle risposte emozionali sia sul piano soggettivo che su quello psicofisiologico . Il secondo autore maggiormente ricordato negli studi sul coping è Frijda. Per quest'autore (1986) l'emozione è la risposta interna a stimoli emotigeni, cioè a stimoli potenzialmente in grado di soddisfare o di ostacolare gli interessi e i bisogni dell'individuo. Il processo emozionale, va dalla registrazione dello stimolo emotigeno all'esecuzione della risposta, è di tipo sequenziale così suddiviso: (1) Codifica: in presenza di un evento-stimolo (interno ed esterno all'individuo), tutti gli aspetti rilevanti che lo costituiscono vengono codificati, per cui gli si attribuiscono delle cause e delle conseguenze; (2) Appraisal Primario: viene valutata la rilevanza dello stimolo in funzione della possibile soddisfazione dei bisogni dell'individuo; (3) Appraisal Secondario: vengono valutate le possibili azioni attuabili per fronteggiare le circostanze (coping); (4) Valutazione delle priorità: sulla base delle precedenti informazioni viene valutata la difficoltà, la serietà dell'evento e stabilite delle priorità per poterlo affrontare. (5) Disposizione all'azione: viene attivato uno stato di prontezza all'azione e selezionato un programma motorio che sulla base delle operazioni precedenti, sia appropriato alla situazione. La prontezza all'azione è ciò 53


che definisce un'emozione. (6) Attivazione viscero-somatica: una volta stabilito un piano d'azione, viene attivato il substrato fisiologico necessario affinché l'azione possa attuarsi. (7) Esecuzione dell'azione: riguarda l'esecuzione del programma cognitivocomportamentale scelto fra i possibili programmi dell'individuo. A differenza della casualità circolare ipotizzata da Lazarus, Frijda ritiene che l'esperienza emozionale sia l'output dell'intero processo sequenziale. La diversità fra le emozioni deriva dall'associazione di specifiche valutazioni cognitive, con la consapevolezza del piano d'azione che si sceglie. Ad esempio, uno stesso appraisal che attiva un'emozione etichettabile con la stessa definizione , come la rabbia, produrrà due diverse tendenze all'azione, una verso comportamenti apertamente aggressivi (moving against), e l'altra verso il reprimere (boiling inwardly) (Frijda, Kuipers, Schure, 1989). Inoltre questi atti percettivo-valutativi con cui viene colto il significato di un evento

sono

sia

costituenti,

dato

che

gli

appraisal

entrano

nella

rappresentazione della situazione emotigena come dati già di per sé emozionali e non come dati neutri, che determinanti delle emozioni, in quanto gli atti sono anche particolari conoscenze valutative capaci di produrre emozioni: se una persona crede di essere stata offesa, questa convinzione la farà arrabbiare; dunque queste conoscenze valutative possono essere anche la causa quindi le determinanti delle emozioni. Sia Lazarus (Lazarus, Folkman, 1984) che Frijda (1986) fanno coincidere il coping con l'appraisal secondario, ponendo quindi l'accento sulla valutazione, prima ancora che sulle effettive condotte. Come si è già detto precedentemente, il concetto di coping, si è diffuso inizialmente in psicologia animale e nella letteratura clinica fin dagli anni Quaranta,e viene tutt'ora adottato in molti programmi psicoterapeutici e 54


riabilitativi nell'ambito di ricerche sulle conseguenze dello stress. I modelli animali proposti sulla scia del pensiero darwiniano hanno concepito il coping come l'insieme dei programmi d'azione necessari per gestire situazioni pericolose o virtualmente tali e per garantire l'adattamento all'ambiente e la sopravvivenza della specie. L'animale presta attenzione agli stimoli ambientali potenzialmente nocivi ed è dotato di un appropriato repertorio di comportamenti per tenerli sotto controllo (come attacco, fuga, evitamento ecc.). Le teorie classiche (modelli animali e quelli psicanalitici) vedono nel coping un insieme di strategie elicitate dall'emozione. Questa prospettiva ha spinto i ricercatori ad ipotizzare due meccanismi tramite i quali la nascita di un'emozione può avere effetti sul comportamento: 1. Un meccanismo motivazionale: in presenza di uno stimolo emotigeno la reazione emozionale sposta le risorse attentive dal compito che si stava svolgendo alla situazione d'emergenza(emozionale). Per esempio l'emozione della paura funziona come motivazione quando innesca le strategie cognitivo-comportamentali adatte a modificare la situazione che l'ha determinata (può indurre la fuga da un predatore). 2. Un meccanismo di interferenza cognitiva: pensieri ansiogeni o legati ad uno stato emozionale, ma irrilevanti rispetto al compito, interferiscono con il funzionamento ottimale e quindi con la sua esecuzione. Per esempio, con una situazione d'esame l'attivazione di uno stato di paura o di ansia comporta, secondo alcuni autori (Sarason, 1984) anche l'attivazione di pensieri negativi e preoccupazioni che interferiscono con la prestazione , ostacolandola.

Secondo Lazarus questi due meccanismi moderatori

sono insufficienti a

spiegare la complessa relazione fra emozione e coping. I modelli classici sono 55


infatti unidirezionali: l'emozione influisce sul coping o facilitandolo (meccanismo motivazionale) o inibendolo (meccanismo di interferenza cognitiva). Mentre per Lazarus, la relazione fra emozione e coping è circolare, in quanto entrambi i processi si influenzano reciprocamente. Per meglio mostrare la differenza fra una spiegazione unidirezionale e una circolare di questa relazione, l'autore distingue fra variabile moderatrice e variabile mediatrice. La prima è un antecedente che influisce in modo unidirezionale sulla relazione organismo-ambiente contribuendo a produrre un certo risultato emozionale: in presenza degli stessi antecedenti (una provocazione) l'appartenenza di genere(una tipica variabile moderatrice) può elicitare reazioni emozionali e comportamentali diverse;. In proposito è stato riscontrato che un gruppo di studentesse dell'Università di Lovanio, di fronte ad una provocazione, reagivano manifestando più liberamente comportamenti apparentemente aggressivi rispetto a un gruppo di coetanei maschi (Lombardo, 1996). Il mediatore invece, è una variabile prodotta dalla relazione organismo-ambiente che, a sua volta, modifica la relazione fra antecedente e risultato e si può considerare espressione della bidirezionalità emozione/coping. Varie conferme di una simile circolarità si ricavano dagli studi che indagano l'impatto delle emozioni (di solito stress) sulla salute o sul benessere fisico. É stata infatti rilevata ripetutamente una relazione presente fra presenza di eventi stressanti e incidenza di malattie somatiche o psicosomatiche. Si è trovato però che questa relazione è generalmente piuttosto bassa (circa 30; varianza spiegata 9%) proprio perché lo stress non sembra esercitare un'influenza causale unidirezionale sullo stato di salute. Uno stesso evento stressante può generare effetti differenti secondo le particolari strategie di coping adottate dalle persone(Higgins, Endler, 1995). A 56


sua volta lo stress non è un processo unitario, ma il prodotto dell'azione congiunta di variabili interdipendenti (appraisal e coping) che ne regolano la frequenza e l'intensità (De Longis, Folkman, Lazarus, 1988). In questo complesso scenario, il ruolo del coping sarebbe quello di un “mediatore” delle emozioni: attraverso un meccanismo circolare, i processi di appraisal generano l'emozione e influiscono sul coping (appraisal secondario); il coping modifica la relazione persona-ambiente(ciò che Lazarus definisce emotionl encounteer); il cambiamento viene ri-valutato (ri-appraisal); la rivalutazione modifica l'emozione associata al momento del primo appraisal e determina la relazione che ne consegue. In proposito, come notano Folkman e Lazarus (1988), coloro che reagiscono a circostanze stressanti (stressful encounter) e mettono in atto strategie di coping

mirate a pianificare la

situazione e a modificarla, riescono a rendere meno spiacevoli anche le corrispondenti emozioni. Per esempio una persona che sa di essere stata licenziata (stress) e che quindi si sente depressa o agitata per questo evento (emozione) si sente risollevata nel progettare come trovare un nuovo lavoro. Lo stesso meccanismo di influenzamento reciproco è stato messo in evidenza dagli autori per altre strategie di coping (distrazione, ridefinizione cognitiva della situazione , ecc,.) Sebbene ancora oggi il meccanismo causale alla base della relazione circolare fra emozioni e coping rimanga da chiarire, possiamo comunque escludere che un meccanismo di tipo lineare e unidirezionale spieghi adeguatamente il fenomeno (Lombardo, Cardaci, 2005).

Le teorie precedenti hanno spiegato in che modo i processi cognitivi influenzano, generano o valutano un'emozione, ma i processi cognitivi di valutazione, sono socialmente appresi durante l'infanzia? In che maniera?. 57


Alcuni casi interessanti Tratti da Dalgleish (1998).

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Capitolo 2- Acquisire le emozioni .

2.1.Le emozioni nell'infanzia

I ricercatori, così come le persone nella vita di tutti i giorni, si chiedono che cosa i bambini siano in grado di esprimere a livello emotivo, che cosa capiscano delle proprie emozioni, di quelle degli altri e quali siano i temi di sviluppo in questo campo. Le ricerche sono state molteplici e non è semplice sintetizzarle in un unico quadro, ma si può partire da ciò su cui la maggioranza degli studi oggi concorda (Carocci, 2007): il bambino, sin dalle precoci fasi del suo sviluppo è un essere attivo, emotivamente coerente e competente, ed è in grado già durante i primi mesi di vita, di partecipare attivamente alla comunicazione con altre persone orientate in modo emotivamente appropriato verso di lui. La comunicazione non- verbale è il metodo esclusivo con cui nella prima infanzia, il bambino interagisce con gli altri; essa ha la capacità di convogliare in maniera immediata e spontanea i significati associati alle emozioni: questa caratteristica di immediatezza e spontaneità, che implica un minor controllo volontario, verrà mantenuta per l'intero arco dell'esistenza ed è la ragione per cui, da adulti, di fronte ad un segnale emotivo ambiguo facciamo naturalmente affidamento agli aspetti non-verbali della comunicazione come per per esempio il tono della voce, l'espressione del volto o la postura. Le emozioni rappresentano organizzazione e regolazione fondamentali per lo sviluppo psicologico e costituiscono una risorsa di cui siamo dotati molto precocemente. Le prime ricerche di Darwin, avevano mostrato come i bambini, non solo siano in grado di produrre espressioni facciali su base innata, ma riescano a riconoscerle 61


negli altri e a reagire ad esse sempre grazie a meccanismi a base innata. Gli studi successivi hanno ampliato queste conoscenze , osservando che i piccoli sono anche molto selettivi e capaci di coordinamento intermodale riguardo a ciò che osservano (Stern, 1977): essi infatti, sono sia capaci di categorizzare insieme diversi segnali della stessa espressione, che di associare un'espressione del volto con un tono di voce congruo. Da circa 10 settimane di vita in poi, il comportamento sociale del bambino cambia in modo adeguato in risposta a espressioni del volto differenti da quelle del genitore; verso la fine del primo anno, questo fenomeno si esprime in maniera completa in quanto il bambino mostra la capacitĂ di tenere conto dell'espressione emotiva espressa dalla madre per regolare la propria emozione e il proprio comportamento (fenomeno definito come “ rifermento socialeâ€?). Lo studioso Sroufe (1995) mostra una schematizzazione della sequenza emotiva, nella quale sottolinea l'interconnessione tra il piano dello sviluppo emotivo, relazionale, sociale e cognitivo. Riportiamo qui di seguito una tabella esemplificativa.

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ossiamo inoltre, individuare tre momenti che scandiscono lo sviluppo delle emozioni (Anolli, 2002): Il primo è rappresentato dalle risposte emotive già presenti alla nascita, in cui è operante un sistema edonico (in grado di discriminare tra due macro dimensioni: piacevolezza -spiacevolezza) ,una risposta di trasalimento, di sconforto e di interesse verso il volto umano. Il secondo periodo copre l'arco temporale fra 2 mesi e un anno ed è caratterizzato dall'emergere del sorriso sociale e delle emozioni di rabbia, gioia, tristezza, collera e paura. Il terzo periodo comprende la comparsa delle emozioni complesse o sociali quali vergogna, imbarazzo e colpa, e più tardi intorno ai 15-18 mesi, la comparsa dell'emozione del disprezzo e delle emozioni miste. Ciò attesta che l'abilità di comprendere sé-altro compare subito dopo la dimensione edonica (che riguarda la discriminazione tra ciò che è piacevole e ciò che non lo è) e costituisce un elemento essenziale per lo sviluppo delle emozioni complesse. La comunicazione verbale è fondamentale per sapere cosa una persona pensi delle proprie emozioni, perciò quando l'oggetto di studio è un bambino nei suoi primi mesi di vita, è complicato capire cosa effettivamente percepisca di evento emotivo. Alcuni studiosi hanno affrontato questo problema sfruttando il processo di assuefazione. Si basa un concetto semplice: i bambini passano più tempo ad esaminare un nuovo elemento piuttosto che uno già noto; quindi essi si assuefanno e si disinteressano agli stimoli che riconoscono. Field et al. (1982) utilizzarono questo metodo in uno studio sui neonati: lattanti con appena 36 ore di vita erano in grado di assuefarsi a tre espressioni mostrate da un adulto, la felicità, al sorpresa e la tristezza. Essi mostrano anche la capacità di imitare tali espressioni (spalancavano la bocca e gli occhi quando l'adulto 65


mostrava un'espressione di sorpresa). Questi risultati furono replicati da Haviland e Lelwicka (1987) su neonati di 10 settimane. Sembrerebbe quindi che i bambini molto piccoli siano in grado di di distinguere le emozioni espresse da una persona adulta.. Tuttavia, è possibile che i neonati si assuefanno ad alcuni aspetti delle espressioni facciali che non hanno nulla a che fare, ancora, con le emozioni. La prima di queste proposte è coerente con la teoria delle emozioni differenziali, mentre una secondo con la teoria dei sistemi dinamici. Caron et al. (1985) contribuirono a chiarire tale questione. Presentarono a bambini di 4-7 mesi delle fotografie di espressioni facciali di felicità e rabbia, in cui si vedevano o meno i denti della

ritratta. Utilizzando il metodo

dell'assuefazione, i risultati mostrarono che i bambini erano in grado di distinguere le espressioni facciali in cui venivano mostrati i denti da quelle in cui non comparivano; nel caso di espressioni facciali come rabbia e tristezza in cui venivano mostrati i denti, essi non riuscivano ad effettuare distinzioni rispetto a quelle positive. Così, sembra che i bambini possano assuefarsi a caratteristiche diverse delle espressioni che non necessariamente corrispondono alle diverse emozioni. Dunque dai risultati ottenuti dai diversi studi sul riconoscimento dell'espressione di emozioni nei bambini prima dello sviluppo del linguaggio, si possono trarre le seguenti conclusioni (Dalgleish, 1998): − i bambini piccoli sembrano essere in grado di esprimere in modo differenziato il piacere/felicità e lo stressante − i bambini piccoli sembrano essere in grado di percepire i principali cambiamenti

de

comportamento

emotivo

della

persona

che

maggiormente se ne prende cura. Da un punto di vista funzionale, sembrerebbe quindi che i bambini abbiano tutto ciò che gli occorre per attuare una comunicazione emozionale significativa 66


(Oatley e Jenkins, 1996). A partire dal secondo anno di vita , la competenza emotiva si arricchirà anche della capacità di comprendere il carattere intenzionale dell'emozione dell'altro, facendo sÏ che i bambini mostrino comportamenti mirati a confortare o ferire deliberatamente l'altro (Harris, 1989). Ma quando è che i bambini iniziano a comprendere realmente le emozioni?

67


2.2 Comprendere ed interpretare le emozioni

Quale tipo di comprensione hanno i bambini dei loro stati emotivi? Quanto correttamente interpretano quelli degli altri? Quando comincia a svilupparsi questa competenza e che tipo di stabilità ha nel corso dello sviluppo? . I precedenti quesiti fanno parte della ricerca che opera nel settore della psicologia orientato a comprendere il modo in cui i bambini accedono ai significati guidati dalle emozioni. È un settore che solo di recente si è affermato; infatti solo all'inizio degli anni Novanta queste domande hanno acquisito un crescente interesse

orientando gli studi verso nuove ricerche di tipo

naturalistico e altri ad impostazione sperimentale. Quest'approccio riconosce alla componente sociocognitiva dell'emozione un ruolo di base, definendola un atto che implica processi di natura valutativa e un ruolo attivo da parte del soggetto (Barone, 2007) inteso come soggetto agente che concepisce la mente in maniera sempre più complessa e organizzata; inoltre questi approcci indagano l'origine e lo sviluppo della capacità di comprendere le emozioni, occupandosi di un aspetto specifico dell'esperienza emotiva a cui possiamo avere un accesso consapevole e che possiamo comunicare attraverso il linguaggio. Ciò che capiamo e di cui siamo consapevoli riguardo le emozioni, non coincide necessariamente con ciò che si intende con esperienza emotiva in senso lato, ma ne rappresenta senz'altro aspetto importante. Quando si pensa ai bambini piccoli è difficile ritenerli in grado di cogliere una componente valutativa, o immaginare che possano avvalersi del linguaggio per comunicare in modo diretto o univoco se e che cosa stiano comprendendo di un determinato stato emotivo. Infatti, è solo dopo la prima infanzia che la nostra vita emotiva si arricchisce di almeno due fattori: la consapevolezza di che cosa stiamo provando e la consapevolezza di che cosa stanno provando gli altri. É su queste basi che si 68


sviluppa la nostra comprensione delle emozioni (Barone, 2007). Gli studi relativi alla prima infanzia dimostrano che la comprensione delle emozioni nel primo anno di vita si basi sulle prime comunicazioni non-verbali del bambino con la madre, e attestano che essa presupponga un'ampia categoria di conoscenze rispetto alla concezione infantile della mente. Comprendere le emozioni significa infatti dare significato ad una serie di segnali espressivi (vedi 2.1), ed è strettamente legato al modo in cui il bambino concepisce la mente propria e altrui e come ne ordina i significati. La prima forma che assume la comprensione emotiva è il riconoscimento. Il neonato mostra molto precocemente una preferenza percettiva per i volti ed è in grado di discriminare le espressioni facciali prodotte da altri. Molte sono le ricerche empiriche che ci mostrano come la sensibilità ai segnali espressivi inizi precocemente (Simion et al., 2001). I bambini riescono ad organizzare la loro percezione in maniera selettiva grazie ad una precoce capacità di riconoscere e discriminare segnali a valenza sociale. Risultano cioè inseriti, in processi di transazione con l'ambiente, cruciali per organizzare la loro percezione le loro azioni. È attraverso tali transazioni che essi sviluppano le prime forme di riconoscimento dell'importanza dei significati, comprendono cioè, cosa è rilevante e degno di interesse da ciò che non lo è, e anticipano in questo modo, lo sviluppo dei processi più articolati di attribuzione semantica che caratterizza la comprensione emotiva nei momenti successivi dello sviluppo (Stern, 1985). Un altro dato che attesta la precocità di forme rudimentali di comprensione emotiva è la precoce espansione della coscienza e dell'attenzione. Ad esempio la consapevolezza dell'attenzione dell'altro, che è alla base dell'emozione della timidezza e dell'imbarazzo, può essere già riscontrata durante il primo anno di vita.

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Tabella n.2

(tratta da Reddy, 2005)

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Già a sei mesi il bambino lancia occhiate minacciose alla madre e la fissa negli occhi se questa non risponde a sua richiesta urgente. Ma è a partire dai 10 mesi che la consapevolezza di sé si espande, ad esempio, nel senso comico. Ed è sempre intorno a quest'età che compare il fenomeno del riferimento sociale, che attesta l'avvenuta elaborazione di un sistema di comprensione delle emozioni proprie e altrui, sul quale si baserà la regolazione emotiva e lo sviluppo del legame di attaccamento (Klinner et al., 1983). Il fenomeno del riferimento sociale implica un altro importante fattore: l'intenzionalità (Harris, 2004). Nel primo anno di vita i bambini cominciano a riconoscere l'intenzionalità connessa agli stati emotivi, ossia il fatto che siano diretti verso oggetti o situazioni dell'ambiente. Invece Reddy e collaboratori (1999) suggeriscono di considerare la conoscenza

delle emozioni e

dell'intenzionalità come dimensione della comunicazione che cambia nel corso dell'intero ciclo dell'esistenza e non solo nelle sue prime fasi. Inoltre l'esperienza emotiva, già dai primi momenti dello sviluppo, implica accurate valutazioni dell'ambiente, sia interno che esterno, e conseguenti strategie d'azione. Esiste un rapporto fra cognizione ed emozione ed è importante definire uno stato emotivo sulla base delle valutazioni ad esso associate (Schachter, 1962). Ma come fanno i bambini ad accedere a questo tipo di esperienza? LA risposta la troviamo nelle teorie dei modelli dell'appraisal (vedi 1.4.), che come possiamo consideriamo l'emozione un particolare atto valutativo e cosa significhi questo per la qualità dell'esperienza emotiva. Valutare significa dare un senso intuitivo alla percezione di eventi attraverso un processo in cui si valuta se un determinato evento va incontro o ostacola i miei interessi, mi piace o non mi piace e ,in questo modo, si orienta l'azione. Ad esempio, quando il bambino piccolo è coinvolto in un'interazione giocosa con la 71


madre, che di colpo blocca ed immobilizza la propria espressione, egli risponderà con un'espressione negativa che segnala il fatto che valutato quello stimolo come negativo.; di tutta l'informazione disponibile egli ha selezionato ciò che ha ritenuto importante rispetto ai propri interessi e ha organizzato la propria risposta emotiva in relazione a questo. Quindi si può dire che il bambino è sulla buona strada che lo porterà a saper riconoscere e discriminare le emozioni in modo appropriato. A seconda dei contenuti mentali compresi nelle valutazioni cognitive, alcune esperienze verranno intese come emotive e,le emozioni, vissute come diverse e inconfondibili.

Non è la natura dell'evento infatti, a suscitare l'esperienza

emotiva ma è la valutazione che ognuno ne dà in base al proprio benessere. Inoltre esiste una differenza sostanziale tra il concetto di conoscenza (knowledge) e quello di valutazione cognitiva (appraisal), in quanto con il primo indichiamo gli aspetti generali e contestuali delle conoscenze, organizzati nella mente in forma di atteggiamenti, credenze, ecc., mentre con il secondo intendiamo una forma di significato personale che consiste in valutazioni compiute sul significato che le conoscenze hanno per il benessere cognitivo (Barone, 2007) (studi attinenti: Weiner, 1985; Roseman, 1991). La sensibilità che i bambini hanno nei confronti delle diverse componenti dell'appraisal, muta nel corso dello sviluppo e, di conseguenza, il loro comportamento emotivo. Si può parlare di emozioni in sensi proprio solo a partire dalla seconda metà del primo anno di vita quando «la comparsa di un'emozione e il tipo di emozione che compare dipendono dal significato che l'evento acquista per il bambino» (Sroufe, 1995). L'importanza del significato resta una costante che continua ad espandersi oltre il primo anno di vita e si arricchisce gradualmente di un numero sempre maggiore di fattori e delle loro interazioni reciproche. Anche se la comprensione 72


delle emozioni inizia nel periodo preverbale è con l'acquisizione del linguaggio che essa conosce una vera e propria «rivoluzione psicologica» (Harris, 2004), in quanto i bambini piccoli possono esprimere, non solo ciò che provano sul momento, ma anche comunicare in base a ciò che è legato alle esperienze emotive correnti, passate e future. Entro la fine del primo anno non sono gli eventi in sé a determinare le risposte emotive e le differenze individuali, ma come il bambino li interpreta. È nella relazione soggetto-oggetto che si crea il significato: a partire dalla seconda metà del primo anno di vita la comparsa di un'emozione e il tipo di emozione che compare, dipendono dal significato che che l'evento acquista per il bambino. Il significato coincide perciò sempre meno con lo stimolo “oggettivo” e sempre più con la valutazione soggettiva fondata sull'esperienza passata e sulle circostanze attuali. La riflessione sull'interpretazione parte dalla compito imprescindibile del linguaggio, data la sua funzione sociale. L'importanza del linguaggio sta nel suo significato che non è quello letterale ma quello del parlante, ossia l'insieme di aspettative, credenze o intenzioni che ciascuno condivide con i propri interlocutori. Il sistema di assunti contestuali non è unico né costante, per cui è fondamentale capire come la salienza delle situazioni che suscitano le emozioni, si trasformi sia a livello individuale sia in relazione al grado di sviluppo raggiunto. È dall'importanza(o salienza) che diamo ad alcuni eventi piuttosto che ad altri che nasce la prima forma di significato specifico dell'emozione della gioia così come dell'imbarazzo. Per un bambino in età prescolare può suscitare vergogna fare una recita di fronte al pubblico dei genitori. Lo studio degli antecedenti situazionali costituisce il primo passo verso la comprensione delle emozioni e rappresenta uno degli strumenti d'indagine privilegiati per analizzare la struttura rappresentativa attraverso cui viene 73


codificato il significato associato alle diverse esperienze emotive. A partire da quando il bambino padroneggia il linguaggio è possibile interrogarlo sulle situazioni che hanno suscitato in lui determinate emozioni, individuando così i riferimenti situazionali interni che egli elabora in base alle sue competenze. Le indagine relative all'infanzia hanno delineato un quadro e di significati delle situazioni associate alle emozioni di base e a quelle complesse. Mentre per alcune emozioni, come felicità e paura, il nucleo semantico risulta omogeneo già in età prescolare, per altre come rabbia e tristezza, la specificità aumenta progressivamente con l'età fino a definirsi in adolescenza grazie alla piena acquisizione delle competenze attributive, ossia alla capacità di individuare la causa dell'emozione in fattori esterni o interni all'individuo (Barone, Galati, Marchetti, 1992; Zammuner, Cigala, 2001). La domanda relativa al perché si provi una determinata emozione comunque, riesce ad essere affrontata, a livello consapevole, a partire dal padroneggiare dello strumento linguistico. È chiaro poi che non tutta la conoscenza sull'esperienza emotiva si esaurisce nella dimensione consapevole e comunicabile verbalmente, ma sapere a che cosa possiamo imputare un nostro stato emotivo rappresenta tuttavia un elemento essenziale dei processi con cui regoliamo la nostra emotività e ne influenza la qualità in maniera sostanziale. La conoscenza delle situazioni elicitanti è dunque un aspetto della nostra conoscenza “ingenua” delle emozioni, accessibile a partire dall'età prescolare e soggetto a cambiamenti e integrazioni nel corso dello sviluppo (Barone, 2007). La complessità di un processo semplice e quotidiano, come quello con cui definiamo la nostra esperienza emotiva e quella altrui, deriva dalla presenza simultanea di tre aspetti (Pons et al., 2003): − il primo riguarda la natura della comprensione emotiva che va dal semplice riconoscimento di emozioni di base quali gioia, paura, tristezza e 74


collera, fino alla comprensione dell'influenza dei ricordi, desideri e credenze sulle emozioni; − Il secondo riguarda l'ordine gerarchico che segue lo sviluppo e il definirsi delle differenze individuali in relazione al possesso o meno delle singole competenze. In merito a quest'ultimo aspetto le ricerche più recenti mostrano che i bambini esibiscono molto precocemente, intorno ai 3 anni, le prime differenze individuali nel livello di comprensione delle e mozioni e tendono a mantenerle tali fino all'età di 11-12 anni; − Il terzo riguarda le conseguenza del modo in cui si comprendono le emozioni sulla qualità dei comportamenti sociali del bambino e, in generale, sulle competenze sociali. A partire dalla preadolescenza quindi, i ragazzi possiedono una gamma ampia, stabile e articolata di abilità che definiscono la loro capacità di comprendere le emozioni. I periodi successivi dello sviluppo non porteranno sostanziali cambiamenti, eccetto l'eventualità in cui le differenze individuali dovute a caratteristiche peculiari delle competenze cognitive, dell'ambiente familiare, di crescita, del genere o dei contesti sociali d'interazione, ne influenzino il funzionamento. Sin qui si sono trattati i temi riguardanti la comprensione delle emozioni, ma una volta acquisite come avviene la loro gestione nel corso della vita?.

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2.5.

La regolazione delle emozioni

La regolazione delle emozioni è un tema di grande rilevanza in quanto imparare a regolare le emozioni permette all'individuo di adattarsi alla società, alle sue norme e di adattare le proprie azioni e i propri desideri alla molteplicità dei propri interessi (concerns) nel corso delle diverse relazioni emozionali (Frijda, 1989). La nozione di regolazione delle emozioni può essere utilizzata in diverse accezioni, come ad esempio sociologica o interazionale: processo interpersonale causato da altri individui oppure da norme socioculturali. Ma il significato preso qui in esame sarà quello di regolazione delle emozioni inteso come controllo delle emozioni (come tratta la teoria bifattoriale) ,utilizzando questa nozione in senso strettamente psicologico. La regolazione delle emozioni è qui intesa (Matarazzo, Zammuner, 2009) come il modellamento (shaping) di un'emozione suscitata da un evento emozionale, tale per cui l'emozione di fatto risulta diversa da quella che presumibilmente sarebbe stata generata da quello stesso evento, e ciò come risultato di processi intraindividuali. Tale modellamento dell'emozione può riguardare l'intensità dei sentimenti, l'impatto personale

e sociale delle manifestazioni comportamentali (che

potrebbe essere più forte o più debole di quello atteso), il tipo di comportamenti messi in atto e infine il tipo di emozioni suscitate dell'evento. Ad esempio, un pesante insulto potrebbe generare anche solo una debole protesta, o una rabbia che viene provata ma è non espressa nella voce, nei movimenti o nel volto, o ancora potrebbe causare un atteggiamento di orgoglioso silenzio o allontanamento. L'evento emozionale dell'insulto potrebbe anche non suscitare rabbia ma ansia, vergogna o semplice infelicità. Al fine di comprendere questa varietà di risposte a uno specifico evento emozionale, è necessario fare ricorso 76


ai processi di regolazione. 2.3.1.

Strategie di regolazione emotiva nell'infanzia

Durante l'infanzia i processi regolatori risultano fortemente influenzati da alcuni processi fisiologici e attentivi di base (fattori intrinseci) che rappresentano i rudimenti dai quali si sviluppano abilità regolatorie più complesse svolte in interazione con l'adulto affettivamente significativo (valori estrinseci). Le recenti scoperte nell'ambito delle neuroscienze, che riguardano l'età evolutiva, hanno identifictao specifiche aree della corteccia prefrontale deputate alla funzione di effortful control, ossia di controllo comportamentale volontario, le quali agiscono attraverso il sistema cognitivo e attentivo guidato dalla corteccia cingolata anteriore insieme al sistema limbico (Lane e McRae, 2004). A livelli precoci si ha quindi un potenziale di intervento di natura consciacontrollata che interagisce con i meccanismi automatici di natura fisiologica. Da qui si può quindi introdurre il concetto di strategia regolatoria come indicatore di una forma, seppur accennata, di pianificazione comportamentale. Entro i primi tre anni di vita, la combinazione delle strategie di accudimento del genitore e dei fattori intrinseci deputati all'autoregolazione (la componete biologica e temperamentale), produrranno un pieno sviluppo delle differenze individuali nelle abilità regolatorie. Ciò è stato studiato grazie a numerose ricerche sullo scambio espressivo-comunicativo tra la madre e il bambino. Le teorie in questione riguardano innanzitutto l'idea che il contesto evolutivo in cui avviene l'integrazione tra emozione e cognizione - insista nella capacità di regolazione emotiva - sia costituita da un particolare tipo di relazione sociale, di natura diadica, rappresentata dall'interazione madre-bambino. A partire da questo sistema diadico, una competenza costruita a livello relazionale, diventerà una competenza di natura individuale, capace di autoregolazione (Sroufe, 1995). 77


Tabella 3 (Calkins & Hill, 2007)

Per comprendere le diverse strategie regolative dei bambini, il metodo utilizzato è stato quello della Strange Situation (Ainsworth et al., 1978) impiegato piÚ recentemente da Riva Crugnola e colleghi (2007). Questa procedura offre la possibilità di capire come il bambino organizza la sua richiesta di aiuto al genitore modulando o regolando le proprie emozioni. In questo studio viene utilizzato un sistema di codifica che identifica nei fattori estrinseci la fonte principale di organizzazione delle strategie regolatorie infantili, ponendo una distinzione tra l'uso di strategie orientate al genitore (eterodirette o di eteroregolazione) oppure orientate al sÊ (autodirette o di 78


autoregolazione). Le prime comprendono il coinvolgimento sociale positivo (comportamenti comunicativi distali rivolti all'adulto come il riferimento sociale, i gesti referenziali come indicare, interazioni volte a condividere l'interesse per oggetti o a segnalare la ricerca di contatto fisico) e il coinvolgimento sociale negativo (comportamenti comunicativi distali come la protesta e il ritiro), mentre le seconde comprendono gesti di autoconforto come la ricerca del contato orale con una parte del proprio corpo o con un oggetto. I risultati ottenuti da questo studio mostrano come i bambini utilizzino specifiche strategie di regolazione emotiva in base alla qualitĂ delle del loro attaccamento alla madre. Tabella 4 (Calkins & Hill, 2007)

79


2.3.2. Strategie di regolazione emotiva in età prescolare e scolare

Con il progredire delle pratiche di socializzazione delle emozioni all'interno dei vari

contesti

familiari,

l'influenza

dei

fattori

intrinseci

diminuisce

progressivamente, mentre il peso dei fattori estrinseci subisce vero e proprio ampliamento del numero e della qualità delle figure affettivamente significative coinvolte. Il processo regolatorio rimane ancora prevalentemente diretto i caregivers primari (i genitori), ma comincia a subire l'influenza di una gamma più estesa di persone costanti e presenti nella vita affettiva e socioemotiva del bambino (come altre figure parentali o gli educatori delle istituzioni scolastiche) (Thompson e Meyer 2007). Dai 2 anni l'autocontrollo risulta sviluppato e comprende la capacità di inibire alcuni comportamenti e di regolarne altri di natura non complessa, anche in assenza del genitore; è però a partire dai 36 mesi che il comportamento può essere considerato pienamente capace di autoregolazione, in quanto si organizza sulla base di una modulazione delle risposte alle domande provenienti dal contesto delle relazioni sociali in cui il bambino cresce. È dunque all'interno delle relazioni significative, e nel rispetto delle regole implicite e d esplicite c che le regolano, che si sviluppa la prima conoscenza dei significati emotivi, della reciprocità, della coscienza di sé e dell'altro, delle aspettative reciproche, tutti elementi che contribuiscono

ad alimentare le abilità regolatorie. Nell'arco

dell'età prescolare l'aumento della conoscenza delle emozioni fa sì che si organizzino per diventare effettive strategie di azione interpersonale.

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Tabella 5

Con il pieno sviluppo delle capacità di usare le emozioni in senso strategico nelle relazioni con gli altri, i bambini affinano le loro competenze regolatorie. Il Manchester Child Attachment Story Task (MCAST) [Green et al., 2000], da poco approvato in Italia con uno studio multicentrico che ha coinvolto quattro gruppi di ricercatori e un'ampia popolazione di bambini(Barone et al., 2009), è stato possibile indagare

diverse strategie di regolazione emotiva in rapporto ai

pattern di attaccamento mostrati dai bambini in età prescolare e nei primi anni della scuola primaria. Il comportamento relazionale mostrato dal bambino attraverso il test consente di individuare , due macrodimensioni di strategie, divisibili in strategie di eteroregolazione, ossia in strategie in cui il bambino fa ricorso prevalentemente a sé piuttosto che all'altro, per regolare l'emotività, e in strategie in cui invece il ricorso all'altro è fondamentale per raggiungere 81


l'obiettivo della regolazione. Le strategie di autoregolazione comprendono (Matarazzo e Zammuner, 2009): autocura attività di spostamento (equivalenti all'attività manipolatoria osservata per i bambini più piccoli); monitoraggio metacognitivo, mentalizzazione e coerenza narrativa; abilità di natura attentiva (focus incentrato sugli oggetti o sulle persone e relativa flessibilità nell'uso dello stesso). Le strategie di eteroregolazione sono (Matarazzo e Zammuner, 2009): coinvolgimento sociale positivo (ricerca di prossimità con il caregiver, ricerca di contatto fisico, utilizzo di gesti referenziali e del linguaggio); coinvolgimento sociale negativo (comportamento conflittuale o di natura coercitiva con il caregiver). In questa fase più avanza dello sviluppo rispetto all'infanzia, si può notare una continuità nell'uso delle strategie. Questa continuità si colloca in un percorso evolutivo lineare che prevede la comparsa di nuovi strumenti di autoregolazione (il monitoraggio metacognitivo e la capacità narrativa) che vanno ad integrarsi con le precedenti competenze infantili di natura non verbale. Il bambino con attaccamento di tipo evitante cerca di minimizzare l'impatto che hanno su di lui le emozioni negative , cerca di inibirle oppure di non utilizzare come riferimento sociale il caregiver., che è percepito come inaffidabile, perciò il bambino tende a fare da sé, mostrando una propensione all'autosufficienza che penalizza l'importanza dei legami affettivi. La modalità di regolazione utilizzata in questo caso, fa riferimento ad una forma di organizzazione che sminuisce le difficoltà, esalta le e mozioni positive e fa riferimento principalmente a sé per affrontare gli stressor (ossia situazioni che causano stress) problematici. Il 82


genitore non interviene come elemento di co-regolazione emotiva e l'autosufficienza viene portata avanti comprimendo l'emotività negativa che non può venire espressa all'interno del legame di attaccamento. Questa strategia regolatoria comporta alcune conseguenze anche sul piano della coerenza narrativa, e rivela una scarsa capacità cooperativa nella comunicazione. Sono presenti anche contraddizioni tra il codice verbale e non verbale che rispecchiano l'autoinganno che il bambino porta vanti in maniera inconsapevole (negando o minimizzando l'impatto emotivo dello stressor su di sé).

Le strategie di

Tabella 6 regolazione delle emozioni seguono una loro specificità

organizzativa che comporta un uso strategico, in gran parte inconsapevole e automatico, delle proprie capacità di coinvolgimento emotivo all'interno dei 83


legami affettivi significativi, segnalando sotto questo aspetto un percorso di sviluppo analogo a quello dell'infanzia.

84


2.3.3.

Le strategia di regolazione emotiva in adolescenza e in età adulta

Nel corso della fanciullezza inizia a progredire l'integrazione del codice verbale e non verbale, che in adolescenza e nell'età adulta poi, sarà il

centro

dell'organizzazione della competenza emotiva e regolatoria. I fattori intrinseci continuano a giocare un ruolo fondamentale sempre in relazione con i fattori estrinseci, che saranno arricchiti con i primi importanti riferimenti dei rapporti tra pari e con le prime relazioni sentimentali. Con l'adolescenza infatti, i primi legami amorosi si aggiungono al complesso gioco di influenze relazionali che si sviluppano nel contesto familiare. Inoltre, con il padroneggiare del codice verbale, la regolazione emotiva si integra alla storia delle proprie relazioni interpersonali significative; questa complessa competenza si esprime nella coerenza narrativa, ossia nel modo in cui il soggetto riesce a organizzare il racconto del proprio passato rievocandolo e ricostruendolo nei suoi connotati affettivo-relazionali (Matarazzo e Zammuner, 2009). La narrazione viene considerata il modo in cui osservare e valutare la forma, la struttura, l'organizzazione e il funzionamento delle rappresentazioni mentali d'attaccamento individuali in età successiva alla prima infanzia A questo proposito, Arietta Slade (1999) sottolinea come le diverse categorie d'attaccamento siano in grado di «raccontarci» una storia particolare, una storia che riguarda il modo in cui le emozioni sono state regolate, quali esperienze sono diventate consapevoli e in che grado la persona la persona è riuscita a dare un significato alle sue relazioni primarie. L'attaccamento è dunque, in stretto legame con la regolazione emotiva e con la memoria autobiografica, infatti le modalità con cui l'individuo organizza le proprie emozioni, influenza la capacità della mente di integrare l'esperienza, di orientare i comportamenti e far fronte alle diverse condizioni dell'adattamento 85


relazionale. Sulla base di questi presupposti Main e Goldwin (1994; 2002) hanno basato il sistema di codifica dell'intervista sull'attaccamento adulto (Adult Attachment Interview, George, Kaplan e Main, 1985), che si propone di valutare lo stato della mente dell'adulto rispetto all'attaccamento. Anche nel caso dell'età adulta è possibile è possibile schematizzare l'insieme degli indicatori che consento di rilevare le strategie di autoregolazione emotiva alla base dei diversi aspetti della mente rispetto all'attaccamento. In questa fase dello sviluppo infatti, si fa riferimento solo alle strategie di autoregolazione che prevede l'avvenuta l'interiorizzazione delle strategie di eteroregolazione presenti nei periodi precedenti allo sviluppo (Matarazzo e Zammuner, 2009). Il sistema di codifica dell'intervista sull'attaccamento adulto (Main e Goldwin, 1994/2002) offre una guida per l'identificazione delle strategie che giocano un ruolo significativo nel definire le differenze individuali rispetto al modo di attivare le proprie emozioni e di regolarle: autocura o distanziamento/svalutazione dell'attaccamento; rabbia coinvolgente (comportamento coercitivo); monitoraggio metacognitivo e mentalizzazione; abilità attentive (passività o incapacità di mantenere l'attenzione su un argomento «vagando» nel racconto in maniera frammentata); coerenza mentale narrativa. Ogni tipologia di attaccamento ha i propri riferimenti (Barone e Bacchini, 2009), ad esempio gli

adulti che presentano un attaccamento sicuro fanno uso

specifico di queste strategie e analogamente ai bambini che sono in grado di condividere le figure d'attaccamento, i processi dell'attivazione emotiva rendono capaci di fare una narrazione autobiografica in cui la propria storia si esprime in un racconto libero di esplorare i propri pensieri e sentimenti con una 86


atteggiamento collaborativo nei confronti dell'intervistatore. Essi presentato una visione indulgente ed equilibrata delle proprie relazioni infantili, riconoscendone l'importanza e l'influenza sulla propria organizzazione mentale attuale. La regolazione emotiva si avvale quindi di importanti processi che consentono un pieno funzionamento, garantendone la funzionalità adattiva. A differenza dei soggetti sicuri, gli adulti insicuri presentano delle narrazioni lacunose e /o poco convincenti della propria storia autobiografica, che testimoniano la difficoltà ad integrare in maniera funzionale gli elementi cognitivi e affettivi che concorrono alla regolazione emotiva. N particolare i soggetti insicuri distanziali (o distanzialisvalutati), tentano di limitare l'influenza dell'attenzione emotiva legata all'attaccamento, in un attivo evitamento degli stati mentali propri e altrui. La narrazione autobiografica risulta quindi impoverita, espressa con racconti evasivi, superficiali e poveri di ricordi affettivi, che rendono l'intervista contraddittoria e lacunosa. La regolazione emotiva si avvale, in questo caso, di un tentativo di disattivazione dell'«aurosal» che organizza la mente in modo da limitare l'accesso a esperienze e informazioni definite in senso emotivo. L'ultima categoria di soggetti, gli insicuri preoccupati (o preoccupati-invischiati) presentano, un eccessivo ricorso all'attivazione emotiva che appare confusa e poco controllata. Le narrazioni di questi soggetti risultano come guidate dalle emozioni e invischiate nelle relazioni infantili,; il racconto risultata ridondante di informazioni irrilevanti in cui il passato sembra irrompere nel presente animando emotivamente il contesto attuale. In questa condizione il coinvolgimento emotivo costituisce un ostacolo: impedisce alla persona di prendere un'adeguata distanza dai propri vissuti emotivi e poter così effettuare processi di astrazione che permettono di cogliere il senso complessivo dell'esperienza. Gli episodi infantili narrativi restano frammentati, dispersivi e circoscritti, interferendo con un adeguato processo di generalizzazione che conferirebbe maggiore coerenza al racconto. 87


2.3.4.

Strategie di regolazione emotiva nella terza età

Grazie a recenti studi, oggi è possibile avere una maggiore conoscenza della terza età, e di quali siano i fattori che più contano nei processi in essa implicati durante l'invecchiamento. Un primo dato che emerge è che invecchiamento sembra caratterizzato da una minore propensione a provare disagio emotivo e da un discreto controllo emozionale. Gli studi sui cambiamenti neurofisiologici che contraddistinguono quest'età, segnalano la presenza di una minore reattività agli stimoli emotivi, e ciò spiegherebbe le buone abilità regolatorie riscontrate nei soggetti anziani (Gross et al., 1997). Per quanto riguarda i processi attentivi e di memoria, due sono i dati principali: da un lato la capacità di selezionare gli stimoli sulla base delle loro importanza emotiva subisce un incremento, facendo si che gli anziani siano in grado di usare in maniera selettiva l'attenzione a favore dell'informazione emotiva di natura positiva. Questo spostamento verso la positività avviene riguarda anche i processi di memoria, che non solo risentono di una preferenza selettiva per gli eventi positivi, ma anche di una generale propensione a ricordare in maniera più positiva gli eventi. Vista l'importanza dei processi attentivi e di memoria nella regolazione delle emozioni (Charles e Carstensen, 2007) , è evidente come i processi regolatori siano facilitati in questo periodo del ciclo di vita. Le ricerche hanno mostrano dunque che nonostante negli anziani si verifichi un declino neurofisiologico e cerebrale, questo non sia necessariamente associato a un declino delle abilità regolatorie: l'esperienza emotiva rimane un elemento vitale anche durante l'invecchiamento. Gli anziani sembrerebbero non enfatizzare le informazioni e gli stati d'animo negativi come invece fanno i giovani, il che porta ad un miglioramento della capacità di regolazione emotiva. Un interessante studio è stato condotto sui malati d Alzheimer (Kazui et al., 2000) nel quale è stata rilevata un'influenza positiva delle emozioni sulle abilità di memoria 88


dichiarativa e un'abilità relativamente ben conservata di riconoscere e comprendere le emozioni rispetto a soggetti affetti da altri tipi di demenza, come quella di tipo vascolare (Shimokava et al., 2000). Questo periodo del ciclo di vita comunque non è contraddistinto dallo stesso livello di sistematicità degli studi che hanno caratterizzato i periodi precedenti, ma le ricerche condotte mostrano l'importanza di approfondire l'analisi della regolazione emotiva anche nella terza età.

Come si è visto la regolazione emotiva è parte integrante dello sviluppo di ciascun individuo, ma non è l'unica cosa che determina un'emozione; il bisogno di regolazione non è solo fine a se stesso ma necessita anche di un confronto sociale. Vediamo come.

89


2.4.

La Condivisione Sociale

Le emozioni sono definite come risposte affettive multicomponenti di varia intensità. Ma se le loro manifestazioni esplicite (espressioni e sintomi fisiologici) decadono nel giro di pochi secondi, quelle implicite , come l'esperienza soggettiva possono durare più a lungo finché gli sforzi di regolazione dell'individuo non prendono il sopravvento. Mentre le ricerche sperimentali

sulle

emozioni

si

sono

interessate

prevalentemente alle manifestazioni esplicite a breve termine delle emozioni, la psicologia clinica invece ha preso in esame le manifestazioni implicite più a lungo termine di esse, principalmente quello che Rimé (2005) definisce il residuo emozionale (emotional remanence) dell'emozione, ossia gli aspetti irrisolti di essa. Questi studi hanno mostrato che tale residuo e i metodi con cui si tenta di risolverlo, sono estremamente importanti per il benessere psicofisico dell'individuo. Innanzitutto esso si manifesta negli effetti esercitati sulla memoria, nella quale i ricordi intensamente emozionali restano per lungo tempo vividi e più facilmente accessibili alle forme automatiche di ricordo, per esempio sotto forma di intrusioni (Brewin, Dalgleish e Joseph, 1996). Inoltre si mostra capace di attivare e sostenere in modo prolungato anche processi di elaborazione conscia e volontaria dell'evento emozionale, attraverso la cosiddetta ruminazione mentale (Martin e Tesser, 1998; 1996; Nolen-Hoeksema e Morrow, 1991; Wells e Matthews, 1996), ossia pensare ripetutamente all'evento emozionale, alle sue cause e alle proprie reazione ad esso. C'è un doppio legame tra ruminazione mentale ed emozione. Le emozioni negative insorgono nel contesto dell'interruzione di importanti scopi personali dell'individuo (Oatley e Johnson-Laird, 1987;1996); questa circostanza sollecita 90


sia una ricerca controllata di soluzioni per il ripristino o la sostituzione dello scopo frustrato (Martin e Tesser, 1989; 1996) e contemporaneamente, tentativi di spiegare la causa dell'evento stesso, nei quali si cerca di individuare le ragioni, specie personali del fallimento con conseguenze importanti sull'umore dell'individuo e il suo senso di controllo ed efficacia (Nolen-Hoeksema e Morrow, 1991). Inoltre, immediato di discrepanza e di fallimento, l'umore negativo costituisce un segnale capace di attivare per conto proprio il processo ruminativo. Oltre alla funzione di ridefinizione degli scopi e delle strategie per il loro raggiungimento, la ruminazione mentale è capace di invalidare sistemi più stabili di assunzioni culturali riguardanti l'ordine e la significatività del mondo (Janoff-Bulman, 1992). L'invalidazione di tali assunzioni e la percezione dell'imprevedibilità e incontrollabilità del mondo, suscita sentimenti di paura e di isolamento che spingono l'individuo al contatto sociale, sia in casi di emozioni traumatiche che in forme più ridotte e attenuate come nelle emozioni quotidiane (Schachter, 1959). È in questo contesto che nascono gli studi sulla condivisione sociale delle emozioni (social sharing of emotion) descritti da Rimé negli ultimi vent'anni. Attraverso una serie di ricerche condotte con diversi metodi (sperimentali, correlazionali, basati su questionari retrospettivi, diari giornalieri, follow-up (una serie di controlli programmati o comunque periodici a seguito di un'azione o intervento), Rimé e colleghi (1991; 1992; 1998) hanno mostrato la necessità della condivisione sociale a seguito di episodi emozionali, nell'80-90% dei casi in entrambi i generi e in popolazioni di tutte le età e culture (Baez, 1998; Dozier, 1994; et al., 1996; Rimé, Finkenauer e Sevrin 1995; Mesquita, 1993; Singh-Manuox e Finkenauer, 2001). La condivisione sociale, ossia la tendenza a comunicare verbalmente con altri individui la propria esperienza emozionale, è al pari della ruminazione, sia un effetto del perturbamento emozionale (emotional disruption) che una strategia di regolazione dell'emozione, volta ad alleviare la sofferenza emotiva. In questo 91


senso essa può essere ricondotta alle strategia del coping focalizzata sull'emozione. Emmanuelle Zech (2000) ha infatti mostrato che gli individui, anche di culture diverse, attribuiscono alla condivisione delle esperienze emozionali negative importanti benefici per il proprio benessere personale e la credenza metacognitiva nel potere risolutivo della sofferenza personale è uno dei più potenti incentivi alla rievocazione dell'emozione in contesti che favoriscono l'apertura («disclosure») interpersonale. L'individuo percepisce inoltre la condivisione dell'emozione anche come forma di confronto con l'evento emozionale, attraverso la quale dare ordine a un'esperienza sconvolgente e cercare utili insights con l'aiuto di un partner fidato e disponibile per superare le conseguenze negative dell'emozione (Zech e Rimé, 2005). Il bisogno di condividere costituisce dunque, da un lato un sintomo della sofferenza emotiva derivante dall'invalidazione di importanti necessità personali (scopi, credente di base), e dall'altro il tentativo di affrontarla, confrontandosi con l'evento per risolverla. Mentre la ruminazione mentale agisce a livello intraindividuale, la condivisione sociale dell'emozione si colloca ad un livello interpersonale in quanto essa richiede necessariamente un destinatario, almeno simbolico (Rimé et al., 1998). Il confidente al quale l'individuo si rivolge non può però restare indifferente a una forma di comunicazione molto intima e affettivamente carica e Strack e Coyne, 1983; Shortt e Pennbaker, 1992). Come hanno mostrato Christophe e Rimé (1997), l'ascolto di un'intensa narrazione emozionale suscita una risposta emozionale empatica nell'ascoltare, che da un lato rafforza l'intimità interpersonale, facilitando lo stesso processo di condivisione, e nello stesso tempo pone l'ascoltatore di fronte alla stessa necessità di condividere con altri la propria esperienza emozionale. Secondo la «legge della condivisione» (Rimé et al., 1998) ogni qualvolta un individuo provi un'emozione o direttamente o in seguito all'esposizione a un'emozione condivisa da un'altra persona, l'emozione 92


provata deve essere condivisa. Dalla condivisione sociale nasce l'ingenua aspettativa della catarsi, ossia della possibilità di scaricare la pressione accumulata (Rimé parla in proposito della metafora del bollitore, descritta da Kovecses nel 1990) a seguito dell'evento emozionale, e di poter tornare all'equilibrio. Questa aspettativa è però illusoria. Infatti La rievocazione verbale di un episodio emozionale richiama per semplice associazione (Lang, 1979) anche le componenti non verbali e fisiologiche dell'emozione, rialimentando la sofferenza emotiva e deprimendo l'umore, così come fa la ruminazione mentale. La semplice espressione delle emozioni negative non è sufficiente a recuperare l'equilibrio emozionale. Una volta esaurito l'effetto temporaneo di sollievo derivante dalla disinibizione e dal contatto sociale, ciò che ne consegue è soltanto il ripristino e talvolta un rafforzamento dell'umore negativo. L'illusione della catarsi porta ad una sensibilità emozionale che sviluppa un atteggiamento positivo verso l'espressione e la spontaneità emozionale (Stearns, 2000) e uno opposto verso la loro l'inibizione e la segretezza (secrecy). In questa nuova sensibilità l'intimità e la disclosure (apertura) costituiscono incentivi dalla cultura; in riferimento ad essa si sono moltiplicati studi e ricerche negli ultimi decenni, che hanno messo in rilievo la pericolosità per il benessere personale , di una eccessiva inibizione (Consedine, Magai e Bonanno, 2002). Rimé (2005) ritiene, e ha dimostrato con le sue ricerche, che non solo i traumi emotivi ma anche le emozioni quotidiane provocano una serie di effetti a vari livelli sul mondo soggettivo dell'individuo, in ciascuno dei quali emergono esigenze specifiche di regolazione. Le emozioni insorgono nel contesto dell'interruzione di un importante scopo personale (Martin e Tesser, 1989; 1996) che va necessariamente ripristinato oppure sostituito e sollecitano nell'individuo il bisogno di calore e conforto (Bowlby, 1969). Esse invadono bruscamente i sistemi di aspettative dell'individuo (Horowitz, 1976) e nelle esperienze più 93


intense e traumatiche provocano sconvolgimenti permanenti dei sistemi di assunzione culturale su stessi, sul mondo e le relazioni con gli altri individui (Janoff-Bulman, 1992), minando le basi stesse della sicurezza personale. Il crollo del mondo soggettivo dell'individuo provocato dall'emozione accentua il suo senso di isolamento sociale e il bisogno di reintegrarsi nella comunità sociale come persona pienamente accettata nella sua dignità e nel suo valore, ciò rende necessaria la ricerca di comunicazione sociale. Infine vanno considerati gli effetti sulla memoria: l'informazione emotiva è capace di distribuirsi a livelli diversi del processo mnestico e non solo in formato verbale-concettuale, ma anche in modi associativi (Power e Dalgleish, 1997) mantenendo così costante la possibilità di una riattivazione spontanea dei ricordi traumatici con tutto il loro potenziale destabilizzante. Anche i ricordi emozionali vanno dunque necessariamente assimilati e ricodificati perché si possa recuperare uno stabile equilibrio. La condivisione permette di rispondere a quelle che Rimé chiama anche conseguenze collaterali dell'emozione (senso di destabilizzazione, sentimenti stressanti sotto forma di ansia, insicurezza, senso d'impotenza, alienazione, estraneazione, perdita di autostima, riduzione temporanea della capacità d'azione). Questi effetti non sono però meno devastanti di quelli «centrali», che invece si riferiscono direttamente alla specificità dell'evento emozionale (distruzione dei sistemi di credenze, abbandono delle mete, e/o riorganizzazione della gerarchia delle priorità). Gli effetti collaterali suscitano forti bisogni sociali di soddisfazione, conforto, amore, disponibilità, prossimità e contatto fisico, aiuti concreti, assistenza tangibile, riconoscimento sociale, ascolto, comprensione, accettazione incondizionata e integrazione sociale. Gli effetti centrali invece, suscitano nell'individuo la percezione di una discrepanza tra i modelli mentali interni e il nuovo contenuto traumatico. Per superare tale impatto, l'individuo dovrà impegnarsi in un'intensa attività di elaborazione cognitiva mirata alla modificazione degli schemi di realtà 94


e all'integrazione della nuova informazione emozionale all'interno degli schemi preesistenti. Un compito che non può basarsi sulle sole risorse personali ma deve poter contare anche su quelle messe a sua disposizione dall'ambiente sociale, dato che gli schemi culturali non potrebbero essere ripristinati senza un contributo sociale. La condivisione sociale permette solo il sollievo emozionale, ma perché avvenga il recupero emozionale è necessario che vengano soddisfatti i bisogni cognitivi fondamentali. La loro esclusione dai motivi espliciti di condivisione può essere in parte dovuta al fatto che spesso i soggetti non sono consapevoli della loro presenza e quindi sono incapaci di riferirli verbalmente. Generalmente gli individui riconoscono come motivi della condivisione sociale quelli di natura sociale, mentre quelli cognitivi sono percepiti in minor misura. Ma quali sono quindi i benefici che essi riportano dopo la condivisione?. Gasparre (2008) ha costruito un modello di misura

denominato Scala dei

benefici percepiti di condivisione sociale (SBPCS). Da questi studi ne emergono quattro categorie : 1. la

prima

categoria

dei

ristrutturazione/riorganizzazione

benefici cognitiva.

Le

è

quella

esperienze

della negative

modificano radicalmente le credenze di base degli individui, ovvero ciò che aiuta l'individuo a costruire la propria rappresentazione del mondo (Janoff-Bulman, 1992): benevolenza, significatività del mondo e valorizzazione del Sé. Per superare questo impatto si dovranno effettuare continui sforzi di tipo cognitivo mirati al ripristino delle assunzioni d base. Janoff-Bulman sostiene che le persone sono intrinsecamente motivate alla ricerca di un significato al fine di ristabilire queste assunzioni. La condivisione sociale offre la possibilità di reinterpretare positivamente l'evento doloroso, di cercare un significato o de benefici dalle avversità, di 95


riorganizzare le priorità e gli scopi di vita e a sviluppare nuove strategie di coping. L'evento emotivo ha un forte impatto sia per la propria identità (self-meaning) sia per la propria immagine sociale (contextual-meaning), e in questo senso deve svilupparsi un processo di costruzione di senso. Janoff-Bulman e Frantz (1997) hanno suggerito una distinzione fra ricerca di senso come ricerca di comprensibilità (sense-making) e ricerca di senso come «ricerca di un significato positivo all'interno dell'esperienza negativa» (benefit-finding). Gli autori sostengono che un efficace adattamento all'evento traumatico implica inizialmente pensieri e interrogativi sul significato dell'evento e solo successivamente la ricerca di quei benefici utili alla propria esistenza. 2. La seconda categoria di benefici è costituita dalla possibilità di ottenere «sostegno sociale» e «ristoro emozionale» (emotional restoring). Il contesto della condivisione rappresenta un ambiente protettivo in cui l'evento doloroso può essere esplorato e affrontato, ricavandone da ciò sostegno, comprensione, considerazione e accettazione, riduzione della solitudine, sentimenti d'integrazione sociale e rafforzamento delle credenze condivise (Rimé). Il contesto ha anche la funzione di stimolare empatia e rafforzare il legame (bonding) tra le persone. Questo tipo di aiuto riduce lo stress, sia risolvendo direttamente il problema sia diminuendo il peso fisico e psicologico della situazione da gestire. 3. Il terzo tipo di benefici offerti dalla condivisione sociale si riferisce a come il contesto sociale permetta di ridurre il «distress» emozionale, di confrontare la propria esperienza e ricevere dagli altri informazioni utili sui modi migliori di affrontare la situazione. Le prime ricerche empiriche vengono dagli studi sull'«affiliazione in situazioni di stress» e sul «confronto sociale» (Festinger, 1954; Schachter, 1959). I risultati ottenuti mostrarono che nelle situazioni stressanti le persone preferiscono trovarsi 96


in compagnia di altri che stanno affrontando la stessa esperienza, nel tentativo di migliorare il proprio umore e valutare l'adeguatezza dei propri sentimenti e pensieri. 4. Infine per la quarta categoria si parla di giustificazione in quanto le persone tendono a giustificare i propri sentimenti, decisioni e comportamenti, e questo piĂš che un beneficio rappresenta una conseguenza della condivisione sociale. Infatti se da una parte la condivisione aiuta ad elaborare cognitivamente l'evento, dall'altra gli individui possono focalizzarsi e irrigidirsi sui propri schemi mentali. Anche RimĂŠ (2007) ha mostrato come, immediatamente dopo l'emozione negativa, le persone non siano ancora pronte a ridefinire e riorganizzare la propria aspettativa e non pensino di abbandonare il raggiungimento de loro precedenti obiettivi o di modificarne la gerarchia. In breve quindi, dagli studi sui benefici percepiti emerge che gli individui a seguito di un evento negativo possono ricevere benefici di natura socioemozionale (sostegno sociale/emotional restoring e conforto sociale) e benefici di natura cognitiva (ristrutturazione/riorganizzazione cognitiva o giustificazione).

Come si è visto il contesto sociale è fondamentale per l'individuo, ma come si arriva ad interiorizzare in maniera adeguata le emozioni all'interno del proprio contesto sociale?.

97


Capitolo 3- Le competenze sociali delle emozioni . 3.1.Mentalizzare le emozioni. La capacità di esprimere le emozioni e di comprenderle in maniera adeguata fa parte di una competenza raffinata e a più dimensioni che prende il nome di competenza emotiva. È grazie ad essa che le persone sono in grado di partecipare agli scambi sociali in maniera appropriata, comunicando i propri stati emotivi, regolandoli a seconda del contesto e riuscendo a decodificare quelli degli altri. IL termine “mentalizzazione”, inteso come teoria della mente (TOM – Theory of Mind), nasce da un lavoro sperimentale di Premack e Woodruff (1978), i quali avevano indagato la capacità degli scimpanzé di prevedere il comportamento di un attore umano in situazioni finalizzate a uno scopo. I risultati dello studio conclusero che per realizzare il compito, questi primati fossero in grado di attribuire stati mentali all'uomo. A trent'anni di distanza esso rappresenta un ampio settore della ricerca psicologica che cerca di descrivere e spiegare la comprensione intuitiva – o ingenua - che gli individui si danno del modo in cui le persone agiscono o pensano nella vita quotidiana e nelle interazioni sociali. Si tratta quindi di una “teoria” che non ha nulla a che fare con il senso scientifico del termine ma vuole spiegare il modo con cui ciascuno di noi comprende e spiega il comportamento degli altri facendo riferimento agli stati interni che lo hanno determinato o che da esso derivano. I tentativi di ogni persona di dare una spiegazione sono ipotesi sugli stati mentali dell'altro e risultano funzionali a rappresentare il significato del suo comportamento consentendo inoltre di avere elementi sui quali fondare le previsioni dei suoi comportamenti futuri. Con il termine “stato mentale” ci si riferisce ad una attività del funzionamento mentale di rappresentazione, articolata in due categorie (Wellman, Bartsch, 1998): 98


− Stati epistemici che riguardano pensieri e credenze, cioè attività mentali orientate alla conoscenza (credere, pensare, aspettarsi); − Stati motivazionali che sono attività mentali connesse a sentire, volere, desiderare, sperare, ossia un tipo di comprensione centrata sui desideri e intenzioni. Di norma si agisce sulla base non di come le cose sono realmente ma di come si pensa che siano, siamo guidati dalla rappresentazioni che si hanno della realtà anche se esse potrebbero non essere accurate o addirittura false. Acquisire un TOM per un bambino, significa quindi capire che esistono punti di vista diversi sulle cose, che il comportamento manifesto può non coincidere con gli stati interni, e in generale comprendere che esso è spiegabile e prevedibile sulla base di ciò che gli altri vogliono, desiderano, pensano o credono. In questo modo arriva a distinguere la sfera soggettiva – i valori e le opinioni - da quella oggettiva – i fatti – e si rende conto che pur esistendo un'unica realtà, persone diverse in tempi diversi possono rappresentarsela in maniera differente. Grazie a questa competenza la soggettività infantile acquisisce una dimensione fondamentale che aprirà l'accesso alla comprensione metaforica

e alla

possibilità di regolare le emozioni in funzione degli stati mentali: la regolazione emotiva, i meccanismi dell'attenzione e lo sviluppo delle capacità di mentalizzazione possono essere considerati tutti elementi di una più generale competenza interpretativa interpersonale, la cui azione combinata porterà l'individuo

alla possibilità di collaborare in modo costruttivo con gli altri

(Bateman, Fonagy, 2004). Questa graduale conquista, accrescerà sempre più la qualità della comprensione che il bambino ha dei significati della rappresentazione mentale, la quale è dapprima parziale e poi diventa più completa con lo sviluppo. A questo riguardo Daniel C. Dennett (1987) fa una distinzione fra sistemi intenzionali di primo e secondo ordine: 99


− Un sistema intenzionale di primo ordine possiede desideri, credenze ma non credenze sulle credenze degli altri. Utilizzandolo, il bambino può influenzare ciò che un altro fa ma non il modo in cui l'altro pensa; − Un sistema intenzionale di secondo ordine è un sistema ricorsivo in grado di riflettere su se stesso e possiede anche le credenze sulle proprie e altrui credenze. In questo caso il bambino è in grado di influenzare ciò che gli altri pensano e non solo ciò che fanno. A questo punto è importante capire il modo in cui l'attività rappresentativa si riferisce a propri “oggetti“ per definirne i criteri di esistenza e verità. Quando il significato della frase è implicito, chi lo interpreta si basa sulle credenze, i desideri e le intenzioni che immagina siano nella mente di chi le pronuncia; le espressioni che usiamo nei nostri scambi quotidiano spesso comunicano (significato del parlante) molto più di quanto dicano (significato convenzionale) (Barone, 2007). Da quanto finora esposto emerge come la funzione primaria della teoria della mente sia di tipo sociale e interpersonale (Colle, Del Giudice, Bara, 2007), di come serva nelle interazioni sociali per comprendere il comportamento altrui. La funzione sociale esercita dalla capacità di mentalizzazione si articola in una serie di altre funzioni: − La prima si riferisce alla funzione comunicativa (Olson, Astington, 1995) e riguarda il fatto che per comunicare in maniera competente e adeguata, è necessario a volte andare oltre il significato letterale di una frase e cogliere l'intenzione comunicativa dell'altro. − La seconda riguarda la funzione adattiva e di regolazione emotiva della teoria della mente (Fonagy et., 2002) che consente di rendere prevedibili e flessibili i comportamenti deducendoli dagli stati mentali ad essi 100


sottostanti. − La terza segue la seconda e rinvia alla funzione protettiva della mentalizzazione, tramite la quale i momenti emotivamente critici o le difficoltà evolutive possono trovare un sostegno o una risposta protettiva nella capacità di disconnettere lo stato mentale dal comportamento. − Un'ultima funzione riguarda il ruolo determinante che l'abilità di mentalizzazione svolge nei confronti della generale organizzazione del sé (Fonagy, Target, 1997), consentendo di dare un senso di continuità e di coerenza all'esperienza soggettiva. Lo sviluppo di questa competenza è un processo che avviene nel tempo e comporta l'acquisizione di basi e poi di sempre più sofisticate forme di autoconsapevolezza, la quale viene preparata da un insieme di precoci conquiste nei primi due anni di vita. La teoria della mente trova le sue basi in fasi molto precoci dello sviluppo in quanto è strettamente connessa alla comunicazione, la quale richiede di tener conto di ciò che l'altro pensa, prova, desidera, ecc. Per capire l'origine dell'abilità di mentalizzazione occorre ripercorrere brevemente lo sviluppo precoce delle competenze interattive e delle competenze comunicative. Nei primi mesi di vita le competenze interattive infantili seguono un percorso che va dalla semplice attribuzione di “agentività” all'altro all'attribuzione di “intenzionalità (Chiesi, Mazzoni, 1996). Si parte da una prima forma di interazione denominata intersoggettività primaria, che riguarda i primi nove mesi di vita e consente al bambino di comprendere che le persone

si muovono di loro iniziativa e

rappresentano perciò una prima forma di “agentività”. Intorno ai dieci mesi il bambino compie un progresso sul riconoscimento dell'intenzionalità e diventa capace di condividere l'attenzione e l'informazione, guardando dove un altro sta guardando. Questo porta ad una forma di intersoggettività di evoluta, 101


denominata secondaria in cui entrambi i partner interagiscono intenzionalmente condividendo un oggetto che media la loro relazione. Queste precoci abilità implicano a loro volta una capacità di attenzione selettiva, di comprensione dell'attenzione negli altri (Baron-Cohen, 1996), di regolazione reciproca e di imitazione (Meltzoff, Gopnik, 1996). A questo proposito, ricerche in campo neurobiologico (Gallese, 2005; Rizzolati, Sinigaglia, 2006) hanno dimostrato l'esistenza, anche nell'uomo, di un particolare tipo di neuroni (neuroni mirror: specchio) capace di attivarsi in occasione non solo dell'esecuzione di un'azione, ma anche dell'osservazione dell'esecuzione della medesima azione nell'altro. La capacità di comprendere il senso delle azioni altrui si avvale cioè, di un meccanismo neurobiologico che ne garantisce il funzionamento facendo sì che le basi dell'empatia

e dell'intersoggettività

poggino su un substrato neuronale congenito. Alcuni studi (Iacobi et al., 2005) hanno dimostrato infatti, come il sistema dei neuroni mirror sia in grado non solo di determinar e il che cosa di un'azione, ma anche il suo perché, cioè intenzione che l'ha generata. Gli studi in ambito neurobiologico sembrano dunque

avvalorare

dell'intersoggettività.

le Nel

affermazioni momento

relative dello

alla

sviluppo

precoce

costruzione

dell'intersoggettività

secondaria il bambino arriva a una prima forma di separazione tra mondo oggettivo e soggettivo scoprendo l'intenzionalità a livello psicologico, cioè comprendendo che il proprio comportamento, così come quello degli altri, è guidato da fattori interni – o stati mentali – ed è quindi interpretabile in base ad essi (Barone, 2007). Anche a livello delle competenze comunicative la capacità di lettura della mente rappresenta un requisito essenziale e molto precoce. La comunicazione nonverbale costituisce il primo canale di comunicazione infantile: a 10 mesi l'intenzione del bambino di comunicare si mostra nell'alternanza dello sguardo. In particolare egli manifesta alcune forme di comunicazione che attestano 102


l'emergere della sua intenzione comunicativa, come la comunicazione protoimperativa espressa attraverso l'indicare richiestivo e la comunicazione proto-ostensiva espressa meditante l'indicare dichiarativo, in cui egli arriva a rappresentarsi e a influenzare intenzionalmente lo stato attentivo dell'altro (Camaioni, 1996a): mostrare qualcosa diventa in questo caso concepire l'altro non solo come agente ma anche come essere dotato di intenzioni, interessi, emozioni, desideri, credenze e volere perciò interviene sui suoi stati interni per modificarli. La precoce acquisizione dell'intenzionalità del comunicare, unita all'espansione della coscienza, dell'attenzione e allo sviluppo del gioco simbolico o di finzione, costituisce la base per lo sviluppo della mentalizzazione che si completerà qualche anno dopo il conseguimento di queste competenze. Ciò che si cerca ancora di capire invece, è il modo in cui i bambini acquisiscono l'abilità di leggere la mente propria o altrui, se dipende dall'ambiente di crescita in cui sono inseriti oppure se sia indipendente da esso. Per affrontare tale quesito bisogno occuparsi dei fattori legati al contesto sociale che concorrono allo sviluppo della TOM e alla comprensione delle emozioni come stati mentali. Che cosa fa sì che i bambini, al pari degli adolescenti e degli adulti mostrano livelli o qualità diverse di abilità di mentalizzazione e abbiano di conseguenza, modi diversi di comprendere e regolare le emozioni? Per rispondere a questa domanda bisogna rimandare l'indagine ai fattori contestuali con i quali si sviluppa la TOM. Astington (1996) distingue una prima fase degli studi sulla mente incentrata sulla definizione normativa dei percorsi di sviluppo tipici e una seconda fase, affermatasi a partire dagli anni novanta, in cui si è aperta una nuova “concezione multilaterale” di ispirazione vygotskijana, attenta a un insieme di fattori che definisce la TOM un'impresa relazionale che si struttura all'interno di contesti 103


emotivamente significativi. È interessante ricordare

i risultati di uno studio

longitudinale condotto su più di 1.000 coppie di gemelli in età prescolare (Hughes et al., 2005) il quale ha dimostrato come pur in presenza di una certa quota d'influenza dei fattori genetici e cognitivi sulla qualità delle abilità di mentalizzazione, la maggior parte della varianza possano essere spiegata dai cosiddetti fattori ambientali non condivisi ossia quei fattori che fanno parte dei contesti relazionali specifici di cui ciascun bambino fa esperienza nel suo percorso di crescita. L'origine delle differenze individuali va dunque ricercata in quell'insieme di fattori, distali o prossimali, presenti nei diversi contesti relazionali di crescita del bambino. Tra di essi l'ambiente familiare è quello maggiormente studiato. La famiglia è importante sotto due aspetti: il primo riguarda la sua ampiezza, il ruolo dei suoi componenti, l'ordine di parentela del bambino e lo status socioculturale dei genitori; il secondo invece si riferisce alla qualità delle relazioni che si svolgono al suo interno, ossia le relazioni diadiche e quelle che coinvolgono contemporaneamente più componenti. Il numero dei fratelli sembra essere una variabile rilevante per lo sviluppo della mentalizzazione della comprensione delle emozioni. Anche se tutti i bambini condividono questo percorso di sviluppo, i progressi sono individuali e variano da soggetto a soggetto: il modo in cui i piccoli partecipano alle discussioni familiari, argomentando le ragioni dei loro stati emotivi e commentando quelli altrui, sembra giocare un ruolo importante in questo processo, in quanto le famiglie più numerose sono quelle in cui si verificano più di frequente interazioni tra fratelli monitorate dai genitori, i quali riprendono i comportamenti emotivi dei figli collegandoli ai diversi stati mentali ad essi sottostanti. Le occasioni d'interazione e discussione tra fratelli sono così all'origine dell'apprendimento della TOM e alimentano, in questo modo le future abilità di mentalizzazione favorendone lo sviluppo (Dunn, Brown, Beadsall, 1991). L'intervento della madre se punta a ristabilire l'armonia relazionale, farà comprendere ai bambini gli stati 104


mentali sottesi ai loro comportamenti per far sì che possano raggiungere un accordo. È evidente come il genitore svolga un ruolo non trascurabile nella possibilità di comprendere gli stati mentali connessi alle emozioni; se all'interno del ligio, il fratello più grande ad esempio, accettasse il messaggio “mentalizzato” della madre l'effetto sarà benefico per entrambi i fratelli e anche il più piccolo farà esperienza del sostegno adattivo che le abilità di mentalizzazione possono avere all'interno degli scambi relazionali. Le ricerche più recenti sul TOM si sono concentrate sulla qualità e la specificità degli scambi relazionali che si svolgono sia all'interno che all'esterno della famiglia, in contesti di interazioni fra pari (Hughes, Lecce, Wilson, 2007) Ciò che conta è il modo in cui la madre comunica con il piccolo quando ancora non ha acquisito competenze verbali: le madri che si rivolgono a figli considerandoli “agenti mentali “ anche quando essi non sono ancora in grado di parlare hanno una maggiore probabilità di avere figli che a 4-5 anni d'età si mostreranno più competenti nelle abilità di TOM (Meins, 1997; Menis et al., 2002). Anche negli scambi quotidiani con i bambini più grandi, già capaci di comunicare verbalmente, l'uso di un linguaggio ricco di riferimenti agli stati mentali da parte della madre favorisce la facoltà di mentalizzazione nei figli (Peterson, Slaughter, 2003). Se si analizzano le stesse abilità al di fuori della famiglia possiamo osservare come nelle interazioni tra pari in età prescolare i bambini differenzino il loro lessico psicologico (riferito agli stati mentali) in funzione della condizione d'interazione in cui si trovano, del genere e del riferimento a stati conoscitivi piuttosto che motivazionali: per tutti i bambini risulta più facile usare un lessico psicologico conversando con un fratello piuttosto che con una amico e per le femmine è in generale più facile menzionare stati mentali nel proprio vocabolario (Hughes, Lecce, Wilson, 2007). Il lavoro di Peter Fonagy e dei suoi collaboratori (Fonagy, Target, 2001; Fonagy et al., 2002) parte del presupposto che le rappresentazioni simboliche degli stati 105


mentali si evolvano nel contesto intersoggettivo fra il genitore e il bambino e dipendano dalla storia relazionale attuale e passata: la capacità del genitore di cogliere in maniera appropriata gli stati mentali del proprio bambino ha le fondamenta nelle abilità di mentalizzazione individuali che a loro volta, rimandano alla qualità della sua storia relazionale. Si può dire perciò che la capacità di riflettere sui propri stati mentali e di accedere a quelli altrui si sviluppa grazie all'esperienza fondamentale di essere stato compreso e amorevolmente accudito all'interno di una relazione d'attaccamento sicura. Un ultimo aspetto del contesto familiare riguarda il modo in cui i genitori pensano le emozioni; il tipo e la qualità dell'influenza esercitati dalle proprie convinzioni rispetto alle emozioni, giocano infatti un ruolo non trascurabile negli stili educativi e affettivo-relazionali adottati in famiglia. Tabella 7

Tratta da Gottam et al. (1996) 106


Ad esempio una tipologia di genitori convinta che le emozioni vadano limitate o minimizzate, porterà ad un clima familiare teso a evitare l'emotività negativa e a massimizzare quella positiva, con una conseguente difficoltà dei figli a riconoscere l'influenza delle emozioni negative sulla loro sensibilità soggettiva. La mentalizzazione sarà ridotta e l'accesso agli stati mentali interni, confinato alla solo emotività positiva. Il bambino proverà un senso di solitudine e di estraneità nei confronti delle proprie difficoltà emotive, diventando perciò potenzialmente più vulnerabile allo stress emotivo. Le visioni soggettive sulle emozioni rappresentano l'aspetto consapevole della mentalizzazione, che per lo più si svolge in maniera automatica e non controllata. I fattori contestuali legati principalmente alla famiglia, rappresentano un aspetto fondamentale per la comprensione degli stati mentali e lo sviluppo di una più ampia competenza sociale (Liverta, Sempio et al., 2005); infatti l'esperienza soggetti e dei diversi punti di vista sulle cose si fa principalmente in famiglia. La capacità di mentalizzazione è un processo graduale e progressivo che ha luogo nei primi 4-5 anni di vita ma si protrae sino all'età adulta. Una volta capita l'importanza delle emozioni per se stessi e le relazioni sociali, viene da chiedersi se le emozioni facciano parte di un'intelligenza che può essere sviluppata e se così fosse, che opportunità in più darebbe all'individuo in termini di integrazione e successo sociale?.

107


3.2 . Intelligenza emotiva Presupponendo che la giusta regolazione delle emozioni sia un'abilità e quindi un tipo di intelligenza, come si rapporta con la classica intelligenza misurabile con i test e quindi con il quoziente intellettivo(QI)?. La misura del QI riferita alle tradizionali capacità logico-matematiche, verbali e spaziali, misurata con i comuni test di intelligenza, mostra i suoi limiti quando viene utilizzata come indice per prevedere il successo che un dato individuo otterrà nella vita professionale e più in generale in quella sociale. Spesso infatti, a elevati quozienti intellettivi corrispondono risultati modesti o addirittura mediocri nel campo del lavoro e della riuscita sociale. L'intelligenza basata sull'esercizio della pura razionalità costituisce soltanto un aspetto delle più generali capacità che permettono all'uomo di misurarsi con le diverse situazioni quotidiane e di risolvere adeguatamente i problemi che esse implicano. La maggior parte delle nostre scelte e decisioni però, non sono solo il risultato di una attenta analisi razionale dei pro e dei contro sulle possibili alternative: in molti casi infatti, le facoltà razionali verrebbero affiancate dall'apparato emotivo, il quale costituirebbe una sorta di "percorso abbreviato" capace di farci raggiungere una conclusione adeguata in tempi utili. La componente emotiva coinvolta nelle decisioni sarebbe anzi determinante nei casi in cui queste riguardano la nostra persona o coloro che ci sono vicini. Questo tipo di intelligenza viene definita «Intelligenza Emotiva» ovvero la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi e di gestire positivamente le emozioni, tanto interiormente quanto nelle nostre relazioni; l'intelligenza emotiva comporta il funzionamento integrato di questi centri con quelli intellettuali (Goleman, 1995). Questi due diversi tipi di intelligenze, emotiva e intellettuale rappresentano l'attività di due diverse aree del cervello. L'intelletto si basa esclusivamente sulle 108


elaborazioni che si verificano nella neocorteccia, ossia negli strati superficiali del cervello, di più recente evoluzione. I centri emotivi invece si trovano invece in profondità nelle regioni sottocorticali più antiche. Damasio (1994) nei suoi studi ha riportato casi di alcuni pazienti che, in seguito a danni neurologici subiti in determinate zone cerebrali, erano divenuti completamente incapaci di prendere una decisione pur essendo perfettamente in grado di effettuare una valutazione corretta di tutti i fattori implicati. La nozione di intelligenza emotiva, originariamente studiata da Gardner (1983) nelle due forme intrapersonale e interpersonale, è stata in seguito sviluppata nei suoi molteplici componenti e conseguenze pratiche da Goleman (1995), il quale distingue due principali sottocategorie:

1. Le competenze personali, riferite alla capacità di cogliere i diversi aspetti della propria vita emozionale; 2. le competenze sociali, relative alla maniera con cui comprendiamo gli altri e ci rapportiamo ad essi

L'intelligenza emotiva personale comprende la consapevolezza di sé, che ci porta a dare un nome e un senso alle nostre emozioni negative, aiutandoci a comprendere le circostanze e le cause che le scatenano; più in generale essa permette una autovalutazione obiettiva delle proprie capacità e dei propri limiti, così da riuscire a proporsi mete realistiche, scegliendo poi le risorse personali più adeguate per raggiungerle. Anche l'autocontrollo fa parte delle competenze personali. Esso implica la capacità di dominare le proprie emozioni, il che non vuol dire negarle o soffocarle bensì esprimerle in forme socialmente accettabili. L'incapacità di gestire le proprie emozioni può portare infatti ad agire in maniera inopportuna e magari a forme di esagerata aggressività nei confronti degli altri, 109


offrendo di sé un'immagine ben poco lusinghiera. Chi è padrone di sé, riesce di solito a comportarsi in maniera appropriata alla situazione, tenendo conto delle regole del vivere sociale, riconoscendo le proprie responsabilità e i propri errori, rispettando gli impegni presi e portando a compimento i compiti assegnatigli. Tra le competenze personali può essere inoltre collocata la capacità di alimentare la propria motivazione, mantenendola anche di fronte alle difficoltà o quando le cose non vanno come avevamo previsto o speravamo. La capacità di motivarsi è formata da una giusta dose di ottimismo e dallo spirito di iniziativa, attitudini che spingono a perseguire i propri obiettivi, reagendo attivamente agli insuccessi e alle frustrazioni. L'intelligenza emotiva sociale è costituita da quell'insieme di caratteristiche che ci permettono di relazionarci positivamente con gli altri e di interagire in modo costruttivo con essi. Una delle componenti più importanti di questo aspetto dell'intelligenza è costituita dall'empatia, ossia dalla capacità di riconoscere le emozioni e i sentimenti negli altri, ponendoci idealmente nei loro panni e riuscendo a comprendere i rispettivi punti di vista, gli interessi e le difficoltà interiori. Essere empatici significa percepire il mondo interiore dell'altro come se fosse il nostro, mantenendo tuttavia la consapevolezza della sua alterità rispetto ai nostri punti di vista. La comunicazione, altra attitudine "sociale", è invece la capacità di parlare agli altri, facendo coincidere il contenuto esplicito dei messaggi (trasmesso dalle parole) con le proprie convinzioni ed emozioni (involontariamente rivelate attraverso il linguaggio del corpo). Comunicare in maniera efficace è anche saper ascoltare e fare domande, mantenendo una reale attenzione alle risposte emotive dei nostri interlocutori. Diversi autori hanno effettuato studi sull'intelligenza emotiva (fra cui Salovey, Mayer, 1990) ma Goleman è senz'altro il suo maggiore esponente; ha infatti riadattato il concetto di Intelligenza emotiva , definendola in cinque fondamentali competenze emotive e sociali (Goleman, 1995): 110


− Consapevolezza di sé: conoscere in ogni momento i propri sentimenti e le proprie preferenze e usare questa conoscenza per guidare i processi decisionali; avere una valutazione realistica delle proprie abilità e una ben fondata fiducia in se stessi. − Dominio di sé: gestire le proprie emozioni così che esse, invece di interferire con il compito in corso, lo facilitino; essere coscienziosi e capaci di rimandare le gratificazioni per proseguire i propri obiettivi; sapersi riprendere bene dalla sofferenza emotiva. − Motivazione: usare le proprie preferenze più intime per spronare e guidare sé stessi per raggiungere i propri obiettivi, o anche per aiutarsi a prendere l'iniziativa; essere efficienti e perseverare nonostante insuccessi e frustrazioni. − Empatia: percepire i sentimenti degli altri, essere in grado di mettersi nei loro panni e coltivare fiducia e sintonia emotiva con un'ampia gamma di persone fra loro diverse. − Abilità sociali: gestire bene le emozioni nelle relazioni e saper leggere accuratamente le situazioni e le reti personali ; interagire fluidamente con gli altri; usare queste capacità per persuaderli e guidarli, per negoziare e risolvere dispute e per cooperare e saper lavorare in team. Goleman (2005) nel suo libro “L'intelligenza emotiva “ racconta di una sua esperienza in cui un giorno durante un esame di calcolo all'università, si trovò paralizzato dalla paura: la sensazione era quella di avere la mente completamente vuota e di non riuscire a far nulla se non fissare il foglio bianco, pervaso dal terrore mentre il tempo scorreva, sinché l'ora non passò e il tempo giunse al termine. Quest'autore come molte altre persone, ha provato sulla propria pelle l'impatto 111


devastante che la sofferenza psicologica può avere sulla lucidità mentale. Successivamente si rese poi conto che questa sua esperienza era una testimonianza della capacità del cervello emozionale di prendere il sopravvento sul cervello razionale, addirittura paralizzandolo; perciò Goleman nelle sue riflessioni si rivolge anche agli insegnanti, i quali sanno quanto i turbamenti emotivi interferiscano con la vita mentale: quando sono ansiosi, adirati o depressi gli studenti non imparano; chi si trova in questi stati d'animo non assorbe alcuna informazione né è in grado di applicarla. Quando sono forti, le emozioni

negative

dirottano

l'attenzione

dell'individuo

sulle

proprie

preoccupazioni , interferendo con i suoi tentativi di concentrarsi su qualcos'altro. In realtà, aggiunge l'autore, quando i sentimenti diventano talmente invadenti da sopraffare tutti gli altri pensieri e sabotare continuamente ogni tentativo di attuare qualsiasi compito, è un segnale che essi stanno sconfinando nel patologico. Quando le emozioni prevalgono sulla concentrazione , ciò che viene annientato è la capacità mentale che gli scienziati cognitivi chiamano memoria di lavoro, ossia l'abilità di tenere a mente tutte le informazioni rilevanti per portare a termine ciò a cui ci stiamo dedicando. La memoria di lavoro può servire per tenere a mente le cifre di un numero telefonico o la complessa trama di un romanzo. Nella vita mentale la memoria di lavoro rappresenta la funzione esecutiva che rende possibili tutti glia altri sforzi intellettuali, dal pronunciare una frase al risolvere una difficile proposizione logica. La memoria di lavoro ha sede nella corteccia prefrontale, il luogo dove si trovano emozioni e sensazioni. Quando i circuiti del sistema limbico che affluiscono alla corteccia prefrontale sono travolti dalla sofferenza emotiva, a rimetterci è proprio questa memoria. Per capire il funzionamento dell'Intelligenza Emotiva, Goleman non si limita a constatare le conseguenze delle emozioni negative, ma considera anche l'effetto di una motivazione positiva in casi in cui prevalgono sentimenti di entusiasmo, 112


fervore, fiducia in se stessi ai fini della realizzazione dei propri obiettivi. In tal proposito l'autore cita alcuni studi condotti su atleti olimpionici, musicisti di fama mondiale e grandi maestri di scacchi (Ericsson, 1994), i quali hanno un aspetto in comune: la capacità di automotivarsi in modo da sopportare durissimi programmi di studio o allenamento, che spesso vengono intrapresi sin dall'infanzia. Si notò che i tuffatori dodicenni della squadra cinese aveva un numero di tuffi pari agli atleti della squadra americana i quali però erano ventenni. La differenza sta che i primi sono maggiormente abituati a sopportare anni e anni di addestramento durissimo, e tale ostinazione dipende soprattutto dai tratti della personalità, come la capacità di entusiasmarsi ed essere perseveranti nonostante gli insuccessi. Senza tener conto delle abilità innate, le gratificazioni per i successi della vita ottenuti grazie alla motivazione, appaiono evidenti se si considerano le eccezionali prestazioni scolastiche e professionali degli studenti di origine asiatica che vivono in America (Goleman, 1995). Questi soggetti hanno in media un QI di appena due o tre punti superiore a quello dei bianchi (Herrnstein e Murray, 1994), tuttavia intraprendono professioni nella vita – avvocato, medico - come se avessero un punteggio molto più alto. Ciò è dovuto al fatto che sin dai primi anni di scuola i bambini asiatici si impegnano nello studio molto più dei concittadini americani, circa il 40% in più (Dorenbusch, rif. In The Bell Curve,1994). Quindi una forte etica culturale del lavoro si traduce in motivazione, entusiasmo e perseveranza, in pratica in un vantaggio sul piano emotivo. Le emozioni intralciano o potenziano le nostre capacità di pensare, di fare progetti, risolvere problemi e perciò definiscono i limiti della capacità di ciascun individuo di usare le proprie abilità mentali , e dunque determinano il nostro successo nella vita. Sono proprio le azioni motivate da entusiasmo o piacere a spingere gli individui verso la realizzazione. L'intelligenza emotiva è un'abilità fondamentale che influenza tutte le altre facilitandone l'espressione o interferendo con esse. 113


Negli anni 60 in una scuola materna del campus della Stanford University, venne effettuato uno studio (107, 7) su bambini piccoli principalmente figli dei docenti, di studenti laureati e del personale universitario dell'età di quattro anni, seguiti sino al conseguimento del diploma di scuola media superiore. L'esperimento consisteva nel proporre un accordo ai bambini: se avessero aspettato per un breve lasso di tempo lo sperimentatore, avrebbero avuto due caramelle al suo ritorno, se invece proprio non potevano attendere ne avrebbero avuto solo una ma subito. Alcuni di loro attesero pazientemente coprendosi gli occhi per non vederle o dando loro le spalle, altri invece non riuscirono ad aspettare e ne presero una appena lo sperimentatore uscì dalla stanza. Questo esperimento è stata una sfida che potrebbe mettere alla prova qualunque bambino di quell'età perché rappresenta l'eterna battaglia che si affronta fra impulso e repressione, id ed ego, desiderio ed autocontrollo, gratificazione e rinvio (Goleman, 1995). Questo test non solo offre un'interpretazione del carattere del bambino ma anche del percorso che egli probabilmente intraprenderà nella sua vita. Le differenze tra chi aveva aspettato e chi no erano molto evidenti; i bambini che a quattro anni avevano resistito a prendere la caramella, dimostrarono una maggiore competenza sociale da adolescenti: erano efficienti a livello personale, sicuri di sé e più capaci di sopportare le frustrazioni della vita. Si riducevano anche le possibilità che questi soggettivi si paralizzassero o regredissero sotto stress; accettavano le sfide e non si arrendevano di fronte alle difficoltà, avevano fiducia in se stessi ed erano a loro volta degni di fiducia. A distanza di più di dieci anni questi soggetti erano ancora in grado di di perseguire i propri obiettivi, rinviando la gratificazione. Quelli che invece da piccoli non avevano resistito alla tentazione (30%) condividevano un profilo psicologico più inquieto rispetto agli altri. Durante l'adolescenza era probabile che a causa della timidezza non riuscissero a rapportarsi socialmente, che fossero facilmente turbabili dalle difficoltà, testardi e indecisi, che giudicassero se stessi negativamente o privi di 114


valore, che regredissero o si paralizzassero in situazioni di stress, che fossero diffidenti e risentiti perché convinti di non riuscire ad ottenere mai abbastanza, che fossero soggetti a gelosia, invidia e che reagissero all'irritazione innescando litigi e conflitti. E nonostante fossero passati tutti quegli anni, durante l'adolescenza erano ancora incapaci di rinviare le gratificazioni. Ciò che inizia ed emergere nei primi anni di crescita si sviluppa in molteplici competenze nella sfera emotiva e sociale. La capacità di frenare i propri impulsi è alla base di molti sforzi da adulti , dal mettersi a dieta al conseguire una laurea. Inoltre i ragazzi che erano riusciti a resistere alla tentazione, erano risultati anche più bravi scolasticamente rispetto a quelli che non ce l'avevano fatta. Questo studio ha dimostrato che la capacità di rinviare le gratificazioni contribuisce in modo importante e indipendente dal QI, al potenziale intellettuale dell'individuo. Inoltre una scarsa capacità di controllare gli impulsi nell'infanzia può essere anche un fattore predittivo della delinquenza in anni successivi (Jack Block, 1995). La capacità di negare l'impulso per conseguire un obiettivo indipendentemente che si tratti di fare un affare, è alla base dell'autoregolazione delle emozione. Le emozioni negative come si è detto, influiscono sulla capacità di portare a termine i compiti prefissati. L'ansia ad esempio, insidia l'intelletto. Se si chiede a individui inclini alla preoccupazione di eseguire un compito cognitivo (Metzger et al., 1990), i loro processi decisionali vengono disorganizzati da pensieri negativi come: «Non riuscirò mai a farlo» e simili. Se invece si concede loro un intervallo di quindici minuti per rilassarsi prima di intraprendere il compito assegnato – uno stratagemma che riduce l'agitazione – essi non avevano problemi a portarlo a termine. Le persone ansiose possono essere divise in due categorie (Haber e Alpert, 1958 nota 15 pag 111): quelli la cui ansia compromette la prestazione scolastica,e 115


quelli che riescono a far bene nonostante lo stress – o forse proprio grazie ad esso. Per i primi, la preoccupazione di far bene costituisce un'efficace motivazione per prepararsi al meglio, mentre per

i secondi questa

preoccupazione può vanificare ogni loro sforzo di migliorarsi, infatti l'ansia preesame interferisce con la capacità di pensare e la memoria indispensabili per rendere efficace lo studio, e durante il test annulla la lucidità mentale necessaria. Le risorse

mentali impiegate in un'attività cognitiva (la

preoccupazione) vengono sottratte alle risorse per elaborare altre informazioni : se durante un esame si è preoccupati di fallire si presterà meno attenzione alle risposte da dare. Le nostre preoccupazioni diventano così teorie che si autoverificano: non solo predicono il disastro ma ci spingono verso esso (Goleman, 1995). Oppure le persone che sanno di essere intrappolate nelle proprie emozioni possono servirsi dell'ansia anticipatoria per prepararsi al meglio e quindi riuscire nell'esame o in qualsiasi cosa si debba portare a termine. I test classici di psicologia hanno descritto il rapporto fra ansia e prestazione (Yerkes e Dodson, 1908): un livello di ansia troppo basso produce apatia o comunque una motivazione troppo scarsa per impegnarsi a fondo; dall'altra parte un'ansia esagerata si traduce invece nel sabotaggio di qualunque tentativo di successo. Un leggero stato di esaltazione – ipomania, come viene chiamata in gergo tecnico – è risultato essere lo stato ottimale per l'attività di individui impegnati in compiti creativi che richiedono fluidità di pensiero e fantasia. Ma se l'euforia sfugge al controllo e sconfina nella mania (come accade nei pazienti maniacodepressivi soggetti a cambi bruschi di umore), l'agitazione compromette la capacità di pensare in modo coerente, nonostante le idee fluiscano liberamente (in realtà tropo liberamente perché se ne possa seguire anche solo una). Finchè la preoccupazione ha un ruolo positivo, tutto va bene; in effetti la 116


reazione fisiologica che sta alla base della preoccupazione

è un fattore

importante in quanto ci avverte di un potenziale pericolo, una funzione senza dubbio essenziale ai fini della sopravvivenza durante l'evoluzione. Quando la paura mette il cervello emozionale in uno stato di agitazione, parte dell'ansia che viene prodotta serve per fissare l'attenzione sulla minaccia imminente, costringendo la mente ad escogitare un modo per controllarla, ignorando contemporaneamente qualunque altra cosa. Il problema sorge quando le preoccupazioni diventano croniche e ripetitive, quando si ripetono all'infinito e non si riesce mai a vedere una soluzione finale positiva e la preoccupazione finisce per sfuggire ad ogni controllo. Borkovec e colleghi (1973) durante una ricerche per trovare una cura per l'insonnia, si resero conto che a non far dormire i loro pazienti erano pensieri invadenti e inopportuni che li tenevano in preda a preoccupazioni croniche che non riuscivano a far cessare, indipendentemente da quanto sonno avessero. Alla fine l'unica cosa che riuscì a farli addormentare, fu quella di distogliere la mente dalle preoccupazioni, facendoli concentrare sulle sensazioni prodotte da una tecnica di rilassamento. La maggior parte degli individui

affetti da questi

problemi non sembra però ricorrere a questa strategia; secondo lo studioso la ragione ha a che fare con la parziale gratificazione offerta dalla preoccupazione, che produce un rinforzo sull'abitudine. Infatti i pazienti di Borkovec gli riferirono che c'era qualcosa che li aiutava nelle continue preoccupazioni perciò si autoperpetuavano in una spirale infinita di pensieri dominati dall'angoscia: era diventata una dipendenza mentale. Infatti l'autore spiega che l'abitudine di preoccuparsi si autorinforza come la disposizione alla superstizione: la tendenza psicologica è quella di attribuire alle preoccupazioni il merito di allontanare il pericolo, oggetto dell'ossessione. Quindi i pensieri negativi sono ciò che impedisce di progettare i propri obiettivi e di portarli a compimento. L'ottimismo, e il pensiero positivo invece aiutano e 117


favoriscono una buona riuscita di ciò che ci si prefissa. Il buon umore finché dura aumenta la capacità di pensare in modo flessibile e, di raggiungere livelli di complessità maggiori semplificando la soluzione dei problemi, indipendente dal fatto che si tratti di questioni interpersonali intellettuali. Ciò implica che per aiutare qualcuno a riflettere su un problema, gli si può raccontare una barzelletta: una bella risata come l'esaltazione, sembra aiutare l'individuo a pensare in modo più aperto e più libero. I benefici prodotti sull'intelletto da una buona risata sono evidenti quando si deve risolvere un problema che richiede una soluzione creativa (Alice Isen et al., 1991 pag 112 nota 18). Anche i leggeri cambiamenti di umore possono influenzare il pensiero: quando fanno progetti o prendono decisioni, gli individui di buon umore tendono a percepire positivamente la situazione, questo perché la memoria funziona in modo specifico per ogni stato quindi, quando si è di buon umore si ricordano un maggior numero di eventi positivi (Goleman, 1995). La speranza è un altro fattore, classificabile all'interno del pensiero positivo, che contribuisce alla buona riuscita di un obiettivo, vanificando ancora una volta il QI di ciascun individuo. In una ricerca su studenti universitari (tratto da intervista di Goleman a Snyder, 1991) , lo psicologo Snyder giunse alla conclusione che «gli studenti più inclini alla speranza si prefiggono obiettivi più ambiziosi e sanno quanto devono impegnarsi per raggiungerli. Quando si confrontano i risultati accademici di studenti con doti intellettuali equivalenti, ciò che li distingue è proprio la speranza ». Anche essere ottimisti, al pari della speranza significa avere grandi aspettative e credere che gli eventi della vita volgeranno al meglio nonostante i fallimenti e le frustrazioni (Goleman, 1995). Dal punto di vista dell'intelligenza emotiva, l'ottimismo è ciò che impedisce all'individuo di sprofondare nell'apatia o nella 118


depressione, di cadere nella disperazione in situazioni difficili e può rivelarsi fonte di grandi vantaggi (purché si tratti di un ottimismo realistico, troppo ingenuo può essere disastroso), infatti porta ad un atteggiamento intelligente dal punto di vista emozionale. Ciò che bisogna mirare è entrare nel flusso, il quale rappresenta la massima espressione dell'intelligenza emotiva : il flusso è lo sfruttamento delle emozioni al servizio della prestazione e dell'apprendimento e uno stato di profonda concentrazione è l'essenza stessa del flusso. Il cervello in stato di flusso è «freddo»: quando l'individuo si impegna in attività che attirano senza sforzo la sua attenzione, mantenendola poi concentrata, il cervello si «calma», nel senso che una riduzione dello stato di attivazione cerebrale (Hamilton et al., 1984 nota 29 pag 366). Ci si aspetterebbe che le imprese impegnative richiedano una maggiore attività corticale e non il contrario, ma uno degli aspetti chiave del flusso è che si manifesta solo quando c'è eccellenza, là dove le capacità sono bene esercitate e i circuiti neuronali più efficienti. In questo stato anche il lavoro più gravoso, invece di sfinirci sembra darci piacevolmente la carica (Goleman, 1995). Sapendo che le emozioni fanno parte di un tipo di intelligenza e il loro sviluppo può portare ad avere un grande successo nella vita, al contrario la loro cattiva gestione che danni porterebbe all'individuo, solo psicologici e o anche fisici?.

119


3.3.Emozioni e salute Per descrivere il concetto di salute, bisogna prendere in esame una complessità e una molteplicità di fattori che possono concorrere al suo mantenimento, e tra questi non si può escludere il ruolo che le emozioni hanno nell'analisi della relazione fra salute e malattia. La letteratura in ambito psicologico ha ormai ampiamente dimostrato sia l'importante funzione adattiva della risposta emozionale, sia il fatto che ciò che risulta dannoso per la salute dell'individuo non è tanto la presenza o la frequenza più o meno elevata di emozioni negative, ma piuttosto un'inadeguata capacità di regolazione di tali emozioni (Matarazzo e Zammuner, 2009). Secondo Solano (2006), il rapporto tra emozioni e salute è stato originariamente affrontato da due linee di ricerca che miravano a verificare: 1. l'esistenza di una correlazione tra emozioni negative e problemi nell'ambito della salute; 2. la presenza di una correlazione tra espressione delle emozioni (comprese le emozioni negative) ed effetti benefici per la salute. I dati derivanti da queste due correnti sono abbastanza contrastanti fra loro. I dati di alcuni psicoimmunologi (Solano 2001; Shea, Burton e Girgis, 1993) evidenziano tuttavia, che sia espressioni ridotte sia espressioni eccessive delle emozioni negative collegate alla malattia possono provocare effetti negativi sullo stato di salute. È dunque possibile ipotizzare secondo Solano, che la relazione tra espressione di emozioni negative e salute sia di tipo curvilineo e non di tipo lineare (come sostenevano i primi studi), in particolare sia l'espressione ridotta sia quella eccessiva delle emozioni implicherebbero processi inadeguati di regolazione delle emozioni. La relazione tra emozioni e stato di salute può essere affrontata analizzando in particolare cinque specifici aspetti ( Salovey et al. 2000). 120


1) Il primo aspetto riguarda le modificazioni che l'esperienza emotiva può apportare a livello fisiologico, in particolare a livello del funzionamento del sistema immunitario. Come notano Biondi e Marino (1999), i dati emersi da ricerche trasversali e longitudinali nelle quali si esamina l'effetto di situazioni stressanti legate sia a eventi della vita quotidiana (per esempio esame universitario), sia a particolari condizioni esistenziali (per esempio una grave malattia patologica), indicano sia la presenza di significativi effetti dello stress sulla funzionalità del sistema immunitario (valutata su parametri umorali e cellulari), sia l'esistenza di una correlazione tra stress, sistema neuroendocrino e modificazioni immunitarie. 2) Un secondo aspetto ampiamente indagato dalla psicologia positiva, riguarda le conseguenze delle esperienze emozionali sulla mobilizzazione delle risorse patologiche (Isen, 2000) 3) il terzo ambito riguarda la relazione esistente tra specifiche condizioni del tono dell'umore e comportamenti a rischio per la salute quali l'abuso e la dipendenza da sostanze o da psicofarmaci. 4) Un quarto ambito riguarda il legame esistente tra emozioni, sostegno sociale e salute: infatti data la natura umana dell'uomo, già a partire dalle prime relazioni diadiche, la costruzione il mantenimento di relazioni interpersonali soddisfacenti possono portare effetti positivi sulla salute sia direttamente, favorendo il benessere psicofisico, sia in maniera indiretta. È stato dimostrato (Davison, Pennebaker e Dickerson, 2000) aiuta l'individuo ad affrontare e gestire lo stress e la malattia. Fa parte anche delle abilità dell'intelligenza emotiva l'importante relazione tra capacità di percezione, espressione e gestione delle emozioni e la possibilità di costruire e mantenere relazioni interpersonali soddisfacenti 121


(Salovey e Mayer, 1990). 5) l'ultimo aspetto riguarda lo specifico valore informativo che possiede l'esperienza emozionale per l'individuo in relazione al suo adattamento all'ambiente. Il valore informativo delle emozioni venne sostenuto già in ambito psicanalitico da Freud (1925), è stato successivamente ripreso da Bion (1962) e dagli studi dell'infant research (Stern, 1985; Emde, 1984) che hanno evidenziato la fondamentale funzione svolta dalle emozioni nelle relazioni precoci caregiver- bambino; inoltre tali studi hanno dimostrato che anche le emozioni negative, come rabbia o paura, svolgono un'essenziale funzione adattiva per l'individuo contribuendo per esempio, alla preparazione di comportamenti adeguati per affrontare eventi minacciosi o che ostacolano il soddisfacimento dei bisogni. Gli eventuali effetti negativi prodotti sull'organismo non vanno attribuiti alle emozioni private, ma devono piuttosto essere ricercati nell'inadeguatezza delle strategie regolatorie adottate per far fronte a tali emozioni. È dunque necessario indagare l'efficacia delle differenti strategie di regolazione di emozioni negative. A tal proposito si possono citare tre studi che sono stati condotti al fine di analizzare la relazione tra malattia cardiovascolare e stili di regolazione di emozioni negative, come rabbia e ostilità (Gremigni e Ricci Bitti, 2000). un primo studio è stato condotto su 1.541 soggetti (giovani, adulti e anziani) suddivisi in quattro tipologie: sani, con disturbi non collegabili a problemi del sistema cardiovascolare e due gruppi di soggetti portatori di fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, rispettivamente di tipo comportamentale e biomedico (il modello biomedico fa riferimento alle cause biologiche di una patologia e alla misurazione oggettiva della malattia). I soggetti hanno compilato una serie di test per valutare 122


l'alessitimia (insieme di deficit della competenza emotiva ed emozionale, dimostrato dall'incapacità di mentalizzare, percepire, riconoscere e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi ), la frequenza e l'intensità di esperienze emozionali di rabbia e di ostilità e la tendenza a esprimere quest'ultima in modo aggressivo (diretto o indiretto). I risultati hanno

indicato

la

presenza

di

un'associazione

tra

malattia

cardiovascolare, tendenza a provare rabbia e ostilità e dimensione alessitimica. Un secondo studio, compiuto su 328 soggetti adulti è stato condotto allo scopo

di

verificare

l'esistenza

di

un'associazione

tra

malattia

cardiovascolare, presenza di emozioni negative (rabbia e ostilità, dimensioni (esperienziale ed espressiva) dell'ostilità e, infine pattern differenti di espressione di rabbia. Allo studio hanno partecipato soggetti sani e soggetti con diverse tipologie di malattia a carico del sistema cardiovascolare (infartuati, ipertesi e displipidemici). I risultati hanno mostrato l'esistenza di un'associazione tra malattie cardiovascolari, esperienza ostile e pattern sia repressivi che repressivi di espressione della rabbia. Il terzo studio, condotto su 365 soggetti ha permesso infine di confrontare soggetti sani con soggetti portatori di malattie cardiovascolari (infartuati e ipertesi) e con soggetti affetti da una tipologia differente di disturbo (asma) alla presenza e alla modalità di espressione della rabbia (Spielberger, 1991). Dai risultati emersi si è riscontrata un'effettiva associazione tra stili di regolazione della rabbia repressivi e aggressivi e malattia asmatica. Nell'insieme i principali dati dei tre studi sembrano confermare l'ipotesi che vi sia una correlazione tra modalità repressive o aggressive di regolazione della 123


rabbia e dell'ostilità, malattia cardiovascolare e malattia asmatica. Gremigni e Ricic Bitti (2000) hanno sottolineato da un lato l'importante funzione informativa di emozioni negative quali la rabbia, e dall'altro l'importanza di interventi mirati a promuovere la salute che siano finalizzati all'apprendimento di modalità di regolazione adeguate che implichino un'elaborazione costruttiva dell'esperienza emozionale dal momento che modalità di regolazione inadeguate (quali la negazione repressiva

e l'esternazione aggressiva) sembrano maggiormente

correlate alle malattie cardiovascolari. Altre ricerche (Schaefer et al., 2003) hanno mostrato che la ristrutturazione cognitiva dell'informazione emozionale focalizzata su aspetti specifici e relativi al singolo

episodio

permette

una

significativa

riduzione

dell'arousal

cardiovascolare rispetto alle strategie focalizzate sugli aspetti generali dell'esperienza emozionale. Questo risultato è in accordo con l'ipotesi elaborata da alcuni studiosi (Philippot, Bayens e Douilliez, 2006) secondo cui le modalità di elaborazione dell'informazione emozionale si differenziano per il loro livello di specificità: un primo tipo di elaborazione sarebbe compiuto sulle importazioni peculiari e relative al singolo episodio emozionale, mentre il secondo verterebbe sulle informazioni generali possedute dall'individuo sulle diverse emozioni. La relazione tra queste due tipologie di processamento delle informazioni e l'efficacia della regolazione emozionale è stata riscontrata sia in soggetti sani sia in popolazioni cliniche, in particolar modo nei pazienti con disturbi ansiosi (correlati a un'esperienza traumatica) o in persone che soffrono di ansia sociale. I dati emersi indicano che focalizzare le risorse attentive su aspetti specifici dell'episodio emozionale riduce l'intensità del vissuto soggettivo. Questi studi fanno riferimento a un modello cognitivo a più livelli (multilevel) dell'emozione, proposto inizialmente da Leventhal (1979). Più recentemente altri autori hanno sviluppato questo approccio (Philippot, 2008; Philippot et al., 2004) ipotizzando che l'individuo possieda differenti rappresentazioni delle emozioni: 124


un primo tipo di rappresentazione (astratta e implicita) denominata Associative Emotions Structures (AES), integrerebbe le informazioni sensoriali, percettive e semantiche tipiche delle diverse esperienze e emozionali e la loro relazione con l'insieme delle risposte espressivocomportamentali e viscerali (body response system) che accompagnano l'esperienza emozionale; un secondo tipo di rappresentazione (conceptual propositional system), che funzionerebbe in parallelo al sistema associativo appena descritto, conterrebbe le conoscenze generali sulle emozioni organizzate a livello semantico in forma di concetti discreti e immagini, attivabili in maniera conscia e volontaria. Sebbene operino in parallelo, questi due sistemi di rappresentazione sono connessi tra loro attraverso elementi del sistema concettuale associati alle AES; tale collegamento, frutto di associazioni ripetute tra un determinato concetto o immagine del sistema proposizionale e concettuale e una AES, creerebbe una sorta di loop retroattivo tale per cui le conoscenze generali e prototipiche di un'esperienza emozionale sarebbero maggiormente accessibili rispetto ad altre. Un processamento dell'informazione relativa agli aspetti generali dell'emozione favorirebbero l'attivazione automatica delle rappresentazioni contenute nelle AES. Al contrario un processamento delle informazioni specifiche e relative al singolo episodio emozionale, eviterebbe tale attivazione automatica dal momento che le risorse attentive sarebbero focalizzate sugli elementi non direttamente collegabili alle informazioni generali presenti nelle AES. Secondo i risultati elencati quindi le strategie di ristrutturazione cognitiva basate sul processamento delle informazioni specifiche ridurrebbero una strategia efficace di regolazione di emozioni negative in grado di favorire la messa in atto di comportamenti adattivi (Matarazzi e Zammuner, 2009). 125


Analizzando questi dati si percepisce l'importanza di un'adeguata gestione delle emozioni anche per la propria salute fisica oltre che mentale. Data l'importanza delle emozioni quindi, è possibile che vengano correttamente apprese?.

126


3.4. Alfabetizzazione Emotiva Sulla base delle diverse teorie sull'intelligenza emotiva sono nati diversi progetti di alfabetizzazione emotiva. L'alfabetizzazione emotiva consiste nell'insegnare nelle scuole, al pari di qualunque altra maniera, il riconoscimento e la gestione delle proprie emozioni al fine di giungere ad una piena autoconsapevolezza di sé e a delle adeguate competenze sociali delle emozioni. Uno dei primi progetti di alfabetizzazione fu quello messo in pratica da Karen Stone McCown (tratto dall'intervista di Goleman, 1993) ideatrice del programma della Scienza del sé la quale sostiene che «l'apprendimento non avviene a prescindere

dai

sentimenti

dei

ragazzi.

Ai

fini

dell'apprendimento,

l'alfabetizzazione emozionale è importante come la matematica e la letteratura»; il programma fu attuato a San Francisco nella scuola Nueva Learning Center. Oggetto della scienza del sé sono i sentimenti: i propri e quelli che nascono dai rapporti con gli altri e prevede che gli insegnanti e gli alunni si concentrino sulle emozioni del bambino. La strategia consiste nell'utilizzare come argomento del giorno, i traumi e le tensioni presenti nella vita dei bambini. Gli insegnanti parlano di cose concrete: del dolore del sentirsi esclusi, dell'invidia, dei contrasti che potrebbero sfociare da un litigio. La scienza del sé è una disciplina pionieristica che si sta diffondendo in ogni scuola degli Stati Uniti, in cui vengono istituiti corsi che prendono il nome di «Abilità di vita» o «Apprendimento sociale ed emozionale»; il filo comune è l'obiettivo di alzare il livello della competenza sociale ed emozionale nei ragazzi come parte della loro istruzione regolare : non si tratta di un insegnamento di recupero per ragazzi poco sicuri ma di un insieme di abilità e di comprensioni essenziali per chiunque. I corsi di alfabetizzazione emozionale hanno radici 127


lontane nel movimento per l'educazione affettiva degli anni Sessanta. All'epoca si pensava che le lezioni psicologiche motivazionali venissero apprese meglio se applicate nell'esperienza immediata e non lasciate solo nella teoria; questo movimento rovesciava la concezione di educazione affettiva che così invece diventava educare l'affettività stessa. Questi corsi hanno proliferato soprattutto per prevenire problemi gravi che si stanno diffondendo sempre più nella società soprattutto in adolescenza: abuso di alcool, droghe, le devianze precoci, gli abbandoni scolastici e più recentemente, la violenza. I programmi di prevenzione sono assai più efficaci quando insegnano un nucleo di competenze emozionali e sociali fondamenti, come il controllo degli impulsi e della collera e il trovare soluzioni creative alle situazioni sociali difficili, come è stato dimostrato dallo studio condotto dal W.T. Grant Foundation (Hawkins et al., 1992 tratto da Goleman, 1995). Gli interventi volti ad affrontare carenze specifiche

di abilità emozionali e

sociali, che accentuano problemi come

l'aggressività o la depressione, possono risultare efficacissimi per attenuare le difficoltà dei ragazzi e prevenire le devianze a cui potrebbero cedere. Nonostante si cerchi di prevenire queste difficoltà il tema principale di questi corsi, resta l'intelligenza emotiva. Il programma della Scienza del sé basato

sull'intelligenza emotiva viene

applicato sin dagli anni Settanta, e talvolta le lezioni sono molto sofisticate come disse Karen Stone McCown (tratto da intervista di Goleman a Karen Stone McCown, 1992): «quando trattiamo il tema della collera aiutiamo i ragazzi a capire come essa sia quasi sempre una reazione secondaria, e a cercare cosa c'è sotto: sei offeso? Sei geloso?. I nostri ragazzi imparano che esistono sempre diverse scelte per reagire a un'emozione e più modalità di risposta conosci, più la tua vita può arricchirsi». I contenuti degli insegnamenti

comprendono 128


l'autoconsapevolezza, ossia la capacità di riconoscere i sentimenti e di costruire e di saperli verbalizzare poi.; cogliere e nessi tra pensieri, sentimenti e reazioni; sapere se si sta prendendo una decisione in base alle

a riflessioni o a

sentimenti; prevedere le conseguenze di scelte alternative ; applicare queste conoscenze a decisioni su temi come droghe o il fumo. L'autoconsapevolezza può portare anche a riconoscere le proprie debolezze e le proprie forze ed avere una considerazione positiva e realistica di sé. Un altro aspetto che viene sottolineato è come controllare le emozioni: capire che cosa c'è dietro un sentimento (per esempio l'offesa che scatena la collera) e imparare come trattare l'ansia, la collera e la tristezza. Si dà anche molto peso l'assunzione di responsabilità quando si prende una decisione o si attua un'azione

e al

mantenimento degli impegni presi. Un'abilità sociale fondamentale è l'empatia, ossia il comprendere i sentimenti altrui e la capacità di assumere il loro punto di vista, rispettando i diversi modi con cui le persone considerano una situazione. Un'attenzione particolare viene dedicata inoltre, ai rapporti interpersonali: imparare a saper ascoltare e porre domande; distinguere tra ciò che qualcuno dice o fa e le proprie reazioni o i propri giudizi; essere sicuri di sé, invece di arrabbiarsi o restare passivi; imparare l'arte di collaborare, di risolvere i conflitti e negoziare i compromessi. Un problema però è quello di capire quando si debba cominciare ad insegnare l'alfabetizzazione emozionale. Alcuni sostengono che non è mai troppo presto e che si dovrebbe iniziare fin dai primi anni di vita. Il pediatra di Harvard T. Berry Brazelton (tratto da intelligenza emotiva, Goleman, 1995) ha suggerito che i genitori potrebbero essere addestrati come «iniziatori» emozionali dei loro bambini piccoli con alcuni programmi realizzati con visite a domicilio. Secondo Brazelton la prontezza d'apprendimento dei bambini dipende dall'acquisizione di alcune abilità emozionali essenziali. Secondo il pediatra esistono due tipi di bambini, quelli fiduciosi e ottimisti e quelli che si aspettano di fallire, questa 129


distinzione prende forma nei primissimi anni di vita, perciò egli sostiene che i genitori «devono comprendere come le loro azioni possono contribuire a generare fiducia, curiosità, piacere nell'apprendimento e nella comprensione dei limiti», tutte cose che aiutano gli individui a riuscire nella vita. La prima opportunità di dar vita all'intelligenza emotiva, si presenta nei primi anni di vita, e tali capacità continuano a formarsi anche durante gli anni della scuola; le capacità apprese nel corso della vita andranno ad aggiungersi a quelle acquisite nella prima infanzia, e queste abilità costituiscono una base essenziale per tutto l'apprendimento futuro. Interventi simili funzionano meglio se seguono il calendario emozionale dello sviluppo (Carolyn Saarni, 1990). I bambini provano sentimenti sin dalla nascita, ma il cervello di un neonato è ben lontano dalla piena maturazione e le emozioni dell'adolescente si sviluppano complessivamente solo quando il sistema nervoso raggiunge il suo sviluppo finale. Gli adulti troppo spesso si aspettano che i bambini abbiano raggiunto una maturità che va ben oltre la loro età, dimenticando che la loro emozione fa la sua comparsa in un momento già programmato in anticipo. Le sbruffonate di una bambino di quattro anni possono ad esempio suscitare rimproveri del genitore, ma occorre ricordare che L'autoconsapevolezza necessaria all'umiltà in genere non affiora prima dei cinque anni. Lo sviluppo emozionale è intrecciato allo sviluppo di molti processi tra cui quelli cognitivi da un lato e alla maturazione biologica e cerebrale dall'altra. Capacità emozionali come empatia e autoregolazione emozionale cominciano a

formarsi nell'infanzia; l'anno di scuola materna precedente

all'ingresso nella scuola dell'obbligo segna il culmine nella maturazione delle emozioni sociali, sentimenti come l'insicurezza e l'umiltà la gelosia e l'invidia, l'orgoglio e la fiducia, le quali richiedono tutte le capacità di paragonare se stessi con gli altri. Non è solo l'ambiente esterno che suscita paragoni ma anche l'emergere di un'abilità cognitiva: la capacità di confrontarsi con agli altri in base 130


a qualità particolari come la simpatia, l'attrattiva o i talenti sportivi. Lo psichiatra David Hamburg (Hamburg, 1992)

considera i momenti di

transizione della scuola materna alla scuola elementare e poi di nuovo dalle elementari alla media, come momenti cruciali nel processo adattivo del ragazzo. Da sei agli undici anni , Hamburg sostiene che «la scuola è un crogiolo e un'esperienza definitoria che influenzerà pesantemente l'adolescenza del ragazzo e anche gli anni successivi. In un bambino il senso del proprio valore dipende sostanzialmente dal rendimento scolastico. Un ragazzo che fallisce a scuola, comincia ad assumere quegli atteggiamenti controproducenti che possono oscurare le prospettive di tutta la sua vita». Fra le doti essenziali per avere un buon profitto a scuola, lo psichiatra suggerisce «la capacità di rimandare la gratificazione, di essere socialmente responsabile nei modi opportuni, di mantenere il controllo sulle emozioni e di avere una visione ottimistica», in altre parole l'intelligenza emotiva. La pubertà è un periodo di cambiamenti straordinari nella biologia, nelle capacità riflessive e nel funzionamento cerebrale del bambino, ed è anche un'età cruciale per impartire lezioni emozionali e sociali. La transizione alla scuola media segna la fine dell'infanzia ed è di per sé una sfida emozionale molto importante e difficile. Quando entrano nel nuovo contesto scolastico, tutti gli studenti hanno un calo di fiducia in se stessi e un aumento di autoconsapevolezza: la loro immagine di se diventa instabile e si trasforma tumultuosamente. Uno dei colpi più duri è quello portato «all'autostima sociale», cioè alla fiducia di poter stringere e mantenere le amicizie . In questo momento cruciale, sottolinea Hamburg, è molto utile rafforzare la capacità dei giovanissimi dii costruire rapporti intimi, di superare le crisi nelle amicizie e di alimentare la propria fiducia in se stessi. Hamburg nota in conclusione che quando gli studenti entrano nella scuola media, quelli che hanno seguito corsi di alfabetizzazione emozionale sono diversi dagli altri:sono meno turbati dalle pressioni provenienti dai loro compagni, 131


dall'aumento delle difficoltà scolastiche e dalla tentazione di di fumare e far uso di droghe. Hanno appreso abilità emozionali che almeno a breve termine, li «vaccinano» contro la confusione e le pressioni che devono affrontare (Goleman, 1995). Così l'alfabetizzazione emozionale nelle scuole fa delle emozioni e della vita sociale, vere e proprie materie di insegnamento in modo che questi aspetti della vita quotidiana dell'alunno non vengano più considerati come interferenze quando portano a episodi spiacevoli, né come occasionali materie relegate alla sola competenza di presidi o consigli scolastici. A uno sguardo esterno, queste lezioni possono sembrare piatte e superficiali, poco inclini a favorire una soluzione ai drammatici problemi che affrontano. In realtà, al pari di una buona educazione familiare, le lezioni impartite sono molto significative: vengono tenute regolarmente e per un lungo periodo di tempo così

che

l'apprendimento

emozionale

possa

mettere

radici

e

dare

successivamente i suoi frutti; infatti quando le esperienze vengono ripetute di continuo, il cervello le riconosce come percorsi consolidati, come abitudini neurali a cui ricorrere in momenti di sofferenza e frustrazione. E anche se le lezioni di alfabetizzazione emozionale possono apparire banali, sono importanti più che mai per il nostro futuro in quanto producono esseri umani dignitosi (Goleman,1995).

132


CONCLUSIONI Può sembrare facile identificare e definire le proprie emozioni, ma non è cosi. Questo lavoro mirava proprio a far capire che non si dovrebbe sottovalutarle in quanto esse sono alla base di una vita equilibrata, mentalmente e fisicamente sana. Le emozioni infatti, rappresentano la base su cui si sviluppa il pensiero e se mal gestite potrebbero costituire un ostacolo per il pensiero stesso; vanno dunque comprese e interpretate in maniera adeguata sin dall'infanzia, in quanto la loro apparizione è precoce e le modalità con cui vengono regolate sin dai primi anni di vita, saranno la base di ogni futuro apprendimento ed esperienza. I bambini fanno il loro ingresso a scuola con già i propri modelli interpretativi e da questi dipenderanno le loro reazioni nell'esperienza scolastica. In questo contesto perciò si inserisce il fondamentale ruolo dei genitori che dovrebbero essere istruiti per primi ad una corretta regolazione delle emozioni in modo da farsi carico di quelle dei propri figli; cosicché una volta entrati a scuola siano poi gli insegnanti a poter aiutare i bambini e successivamente i ragazzi, nei passaggi così delicati da una scuola all'altra che sanciscono anche importanti cambiamenti fisici e cognitivi, in un percorso continuo di apprendimento emotivo. Una competenza importante è la condivisione sociale che rappresenta la natura sociale dell'uomo, in quanto egli sente il bisogno di condividere le proprie emozioni, specialmente quelle negative. Un altro individuo o un gruppo di individui infatti, può aiutarci a comprendere meglio quello che si sta affrontando, ma per farlo bisogna potersi fidare dell'altro e mostrargli la situazione difficile che si sta vivendo. Una persona che sa ascoltare che è quindi una persona empatica, che può veramente fare la differenza in situazioni difficili e aiutare l'altro a superare il brusco impatto emotivo subito. Ma per poterlo fare, anche chi ci ascolta deve avere una giusta competenza emotiva. Ed ecco l'importanza di apprendere la gestione delle emozioni: la società è come un cerchio che se correttamente istruito e sostenuto, ha la capacità di capire e gestire gli altri, così che ognuno possa vivere una esistenza soddisfacente. La mal regolazione emotiva porta a sentirsi frustrati, soggetti ad insuccessi ed esclusi dalla società perché non a caso, l'abilità emotiva fa parte di una tipologia di intelligenza (come ci ha saggiamente mostrato Daniel Goleman), capace di portarci al successo sociale e personale in modo più soddisfacente di qualsiasi quoziente intellettivo dagli alti punteggi. L'intelligenza emotiva significa determinazione, ottimismo, fiducia in se stessi. Avere tutto questo è possibile 133


grazie all'insegnamento nelle scuola dell'alfabetizzazione emotiva: gli alunni fanno un percorso sin da piccoli che li rende capaci non soltanto di riconoscere che alcune emozioni sono ad esempio la conseguenza di altre (come nascita della rabbia per una precedente offesa), ma anche di saper attuare delle corrette risposte pratiche, evitando così la violenza che spesso è data dalla frustrazione di non capire il perché si ha un certo stato d'animo, o la devianza causata dal sentirsi inadeguati, forse solo perché non si riesce ad accettare i sentimenti negativi che si provano in fasi difficili dello sviluppo, come pure successivamente da adulti. Negare le emozioni poi, non solo è inutile ma è anche dannoso per la salute fisica, in quanto le emozioni nascono proprio da cambiamenti fisiologici e reprimerle non sarebbe la soluzione. Come sostenne Frijda (1986) infatti regolare la risposta emozionale significa agire tenendo sotto controllo sia l'azione che gli esiti dell'azione, tenendo presente che sulla regolazione incidono sia fattori individuali che sociali. Uno stile di regolazione emozionale inadeguato costituisce un fattore di rischio per la salute e per l'equilibrio psicofisico dell'individuo e può indicare la mancanza di una buona integrazione tra le diverse componenti dell'esperienza emozionale. Genitori, insegnanti ed educatori hanno sempre attribuito importanza e dedicato attenzione soprattutto alla sfera razionale, nella convinzione che quella emotiva si sviluppasse da sola in una sorta di processo naturale. Oggi grazie agli studi delle neuroscienze sappiamo che l'intelligenza emozionale e quella razionale lavorano insieme e si influenzano reciprocamente. Alla luce di quanto ho esposto , in questo percorso ho cercato di evidenziare l'importanza dell'educazione emotiva specialmente in famiglia e nelle scuole: dando peso all'intelligenza emotiva possiamo educare adeguatamente la capacità di riconoscere e gestire le emozioni in modo che siano di supporto e di guida al pensiero e al comportamento. Lo sviluppo di un' autoconsapevolezza delle proprie esperienza, il riconoscimento di essi attraverso segnali fisiologicisomatici, l'acquisizione di un buon vocabolario per raccontarli e la giusta attribuzione di significato, rappresentano elementi che facilitano l'apprendimento in quanto riducono gli effetti di sentimenti ed emozioni spiacevoli, come ansia e rabbia e favoriscono una positiva capacità di creare e mantenere relazioni sociali. Solo se diamo la possibilità al bambino di diventare sempre più consapevole delle proprie emozioni potrà riuscire in modo adeguato a nominarle, esprimerle e controllarle. 134


Le emozioni intralciano o potenziano le nostre capacità di pensare, di fare progetti, risolvere problemi e perciò definiscono i limiti della capacità di ciascun individuo di usare le proprie abilità mentali , e dunque determinano il nostro successo nella vita, occorre perciò saperle comprendere e regolare in modo da essere in grado di mettere in atto le giuste strategie per affrontare gli ostacoli che la vita ci pone.

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