A.D. MDLXII
U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ
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CORSO
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ADULTI
F O R M A ZI O N E C ON T I N U A
RAPPRESENTAZIONI FAMILIARI E COSTRUZIONE DELLA DEVIANZA UN’INDAGINE TRA DUE TIPOLOGIE DI REATO PRESSO IL CARCERE DI ALGHERO
Relatore: PROF. ARCANGELO UCCULA
Correlatore: PROF. FABIO PRUNERI
Tesi di Laurea di: ELENA P AIS
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
A mio padre, mia madre e mia sorella Alice… ai quali raramente riesco a dire “ti voglio bene”, e ad Antonio, che mi fa sentire la persona più amata del mondo.
INDICE
INTRODUZIONE……………………………………………………………………...1
CAPITOLO 1: La famiglia 1. Breve cenno storico sulla famiglia dell’Otto/Novecento…..…………………5 2. La famiglia funzionale 2.1 Il bisogno di essere amati 3. La teoria dell’attaccamento: John Bowlby 3.1 Relazione di attaccamento tra specie animali 3.2 Strange Situation e tipi di attaccamento 3.3 Attaccamento e comportamento di attaccamento 3.4 La perdita della persona amata: attaccamento e cure materne insufficienti 4. La famiglia problematica
CAPITOLO 2: Giovani e adulti autori di reato: i reati di rapina e……………….38 omicidio. 1. Il ruolo dei genitori: educarsi per educare 1.1 Le emozioni 2. Dall’adolescenza alla fase di vita e adulta: gli stadi del ciclo di vita 2.1 L’adulto e le responsabilità 3. La relazione con l’altro 4. Giovani e adulti autori di reato 4.1 Le diverse teorie che spiegano il crimine 4.2 Furto e rapina 4.3 Omicidio
CAPITOLO 3: Il carcere: verso la risocializzazione………………………….Pag. 79 1. Ordinamento Penitenziario (Legge n° 354 del 26 Luglio 1975) 2. La Casa Circondariale di Alghero: ieri ed oggi 3. Le attività e la vita interna dell’Istituto 4. Verso una risocializzazione del detenuto 4.1 Il lavoro 4.2 Le misure alternative 5. Giustizia ripartiva: la vittima
CAPITOLO 4: La ricerca: un’indagine tra le rappresentazioni…….....……Pag.110 familiari e la costruzione della devianza 1. Obiettivi e ipotesi della ricerca 2. Partecipanti 3. Strumenti di rilevazione-misurazione 4. Procedura 5. Analisi dei risultati 6. Discussioni
CONCLUSIONI…………………..……………………………………………Pag. 164
ALLEGATI (A-B-C-D)………………………………………………………...Pag. 167
BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………Pag. 177
RINGRAZIAMENTI…………………………………………………………..Pag. 188
INTRODUZIONE
“Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo” Goethe
Forse quando ho deciso di svolgere il tirocinio presso la Casa Circondariale di Alghero non mi rendevo conto di quello che effettivamente avrei vissuto. Avevo previsto il fatto che sarebbe stata un’esperienza particolare che mi avrebbe sicuramente arricchito, ma non ho pensato al mio lato emotivo, a quella parte di me irrazionale e ansiosa. Anzi, a dir la verità è stato proprio questo il mio pensiero: era da circa sei mesi che cercavo di immaginare le mie giornate all’interno di un carcere, le cose che avrei fatto e i detenuti che avrei incontrato. E sinceramente, sentivo che non sarei riuscita a scindere la mia parte emozionale da quella più insensibile. E in effetti così è stato! Io che qualche anno fa, durante il corso di laurea triennale, avevo trascorso tre mesi all’interno di una scuola dell’infanzia: in un mondo fatto di bambini innocenti, in un luogo in cui vigeva l’allegria, la spensieratezza e la purezza; un luogo dove le regole non esistevano, dove si viveva in un paradiso di colori, dove la loro voglia di sorridere alla vita si percepiva nei loro visi; lì mi sentivo a mio agio, sentivo che il mio ruolo di educatrice era pienamente adeguato e le emozioni non avevano freni. Addentrarmi in un contesto in cui le regole sono state infrante, in cui non si è minimamente badato al rispetto per l’altra persona, in cui i diritti degli altri sono stati violati: ecco, questo mi ha particolarmente turbata, nel senso che, in quel determinato contesto, le mie emozioni non avrebbero dovuto prendere il sopravvento. Invece purtroppo così non è stato. Attraverso questa tesi desidero esprimere tutta la soddisfazione che quest’esperienza mi ha regalato: vivere due mesi all’interno di una struttura penitenziaria ti rinforza
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tantissimo e ti fa apprezzare ancora di più ogni singolo minuto della vita; una vita che, per alcuni potrebbe ricominciare tra qualche mese o tra qualche anno mentre per altri rimarrà spezzata per sempre. Forse nessuno di noi si rende conto di quello che possiede: una bella famiglia, un bel compagno che ci sta vicino, una casa, un lavoro soddisfacente. Ma nonostante questo, alcune persone si sentono imprigionate in una vita che non dà soddisfazioni. Altre si lamentano perché si sentono soffocate da un lavoro che considerano troppo restrittivo. Ma ce ne sono altre che invece vogliono essere più libere. Io credo che non ci sia nessuno, o quasi, che si sia realmente interessato ad analizzare dettagliatamente questo concetto, il concetto di libertà, o perché lo ritiene inutile, o perché non si è mai posto il problema di cosa sia, o semplicemente perché non gli riguarda. E allora perché ci continuiamo a lamentare?? Il motivo è che non riusciamo ad apprezzare la libertà. Proviamo ad immaginare la vita dei detenuti, all’interno di una cella, tra quattro pareti e senza la possibilità di uscire anche solo per fare una passeggiata. Voi direte: ma hanno sbagliato ed è giusto che paghino. Sbagliare è umano si dice, e quindi anche chi sbaglia ha sempre diritto ad una seconda possibilità. Ma perché parlo così se, forse, nemmeno io credo in quello che sto scrivendo?! Certo è che se qualcuno avesse commesso un reato nei confronti dei miei familiari, penso che non sarei arrivata a dire “eh va bé, ha sbagliato, è giusto che paghi, ma la seconda possibilità è giusto dargliela!” Forse il mio lato emotivo qui sta venendo a mancare e sta nascendo dentro di me la freddezza e la rigidità di chi non accetta che si rechino danni ad altre persone. E’ tutto troppo complicato da spiegare: è questo susseguirsi di giustificazioni e contraddizioni che ha reso la mia esperienza ricca e significativa. E’ proprio attraverso la stesura di questa tesi che tenterò di farvi conoscere come si vive in un penitenziario, e lo farò prendendo come punto di riferimento coloro che, sotto regime detentivo, non riescono più a considerarsi uomini liberi fino alla fine della loro condanna.
Nel primo capitolo analizzerò l’importante ruolo che ha la famiglia nella vita di ogni individuo contrapponendo un nucleo familiare funzionale, in cui vige il rispetto e l’amore tra i membri e una struttura familiare problematica, all’interno della quale questi legami di affetto e reciprocità sono venuti a mancare, creando un vuoto, una
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carenza nella personalità del soggetto in crescita: il tutto partendo da una breve analisi della storia della famiglia tra Ottocento e Novecento, facendo riferimento all’educazione dei figli e alla figura della donna. Saranno affrontati alcuni studi sui rapporti tra genitori e figli, svolti negli ultimi cinquant’anni del XX secolo, approfondendo dettagliatamente il rapporto della diade madre-bambino attraverso la teoria e i diversi stili di attaccamento. Il secondo capitolo mirerà a percorrere quella fase di vita un po’ particolare e irta di problemi quale è l’adolescenza fino agli anni della vita adulta dove si presume che il soggetto abbia acquisito tutte le regole della vita e che abbia ormai formata la sua personalità. Includiamo in questo percorso il ruolo del genitore, ruolo abbastanza impegnativo e difficoltoso da affrontare, partendo dal presupposto che ogni genitore, prima di educare, ha bisogno egli stesso di essere educato. Dal momento che il soggetto cresce e inizia ad instaurare le prime relazioni con i pari, le figure genitoriali passano in secondo piano. Da lì un approfondimento al ruolo amicale e alla devianza come modo per crescere e affermarsi in un mondo che si discosta da quello degli adulti, in un mondo che accetta l’individuo solo se quest’ultimo lo segue. Analizzerò meglio i delitti di rapina e omicidio, in quanto utili ai fini della mia ricerca che verrà affrontata nel capitolo conclusivo, quello sperimentale. Il terzo capitolo entrerà nel merito di quello che è l’ordinamento penitenziario attraverso la Legge n° 354 del 26 Luglio 1975 che regola tutta la vita dei carcerati. Verrà raccontata brevemente la storia passata e odierna della Casa Circondariale di Alghero, la vita interna e le attività dell’istituto. E’ importante anche analizzare il concetto di risocializzazione, della rieducazione e del possibile rientro in società, attraverso la spiegazione del lavoro come opportunità di recupero dalla strada deviante intrapresa, alle diverse misure alternative che permettono al detenuto, pian piano, di avvicinarsi al mondo esterno, a quel mondo che prima credeva in loro, che lo ha messo alla prova, che lo ha indotto ad errare e dal quale non è riuscito a sottrarsi. Particolare attenzione alla vittima, a quel soggetto che in un delitto, spesso, passa in secondo piano, ma al quale deve essere data una giustizia: ecco che tramite la giustizia ripartiva si cerca, per quanto questo sia possibile, di risarcire moralmente le vittime di ogni reato. Nell’ultimo capitolo, quello sperimentale, esaminerò la possibile relazione tra la storia affettiva del soggetto e il reato commesso, per cercare di comprendere se sulla
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base di un vissuto infantile si possa trovare la causa di un comportamento deviante. Somministrerò due questionari a 75 persone così suddivise: 25 persone che hanno commesso una rapina, 25 che hanno commesso un omicidio e 25 che non hanno mai avuto precedenti penali. Tutto questo con lo scopo di dare una conferma o di smentire un’eventuale relazione tra causa-effetto, penetrando meglio all’interno di una vita capovolta, radicalmente mutata, di chi ha assaporato la libertà e da un momento all’altro, per (in)giustificato motivo, se l’è vista togliere.
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CAPITOLO 1
LA FAMIGLIA
1.
Breve cenno storico sulla famiglia dell’Otto/Novecento
Nella seconda metà dell’Ottocento, ma per molti versi anche nella prima metà del Novecento, non esiste una famiglia italiana: esistono invece diverse famiglie, o per meglio dire, diversi modelli di famiglia, il cui carattere è fortemente determinato dall’appartenenza geografica e sociale e dalle condizioni di lavoro e di vita. In quel periodo era obbligatorio distinguere tra la famiglia borghese, la famiglia operaia e la famiglia contadina, le quali si differenziavano tra loro per via del tenore di vita, dell’età media di vita dei membri, del clima, del paesaggio e delle abitudini locali, fortemente improntate sulla figura patriarcale, dove il maschio capofamiglia dominava l’intera struttura familiare. Famiglie in cui vigeva la povertà e l’estrema precarietà della vita, dove si lavorava la terra e i ¾ delle entrate dovevano essere destinati all’alimentazione: questo significa che si è disarmati di fronte a un avvenimento eccezionale, come per esempio la malattia di una persona, la morte di una mucca o l’incendio di una stalla. Fare fronte a spese impreviste era dunque impossibile, a meno di fare letteralmente la fame o di buttarsi tra le braccia degli usurai.1 Nel corso dell’Ottocento però le famiglie contadine e quelle operaie lasciano spazio alla nascita della famiglia borghese: inizia a mutare il rapporto tra i coniugi, con la graduale emancipazione dal controllo della comunità e della parentela, il recupero delle componenti di intimità ed erotico-affettiva, 1
G. VECCHIO, Profilo storico della famiglia. La famiglia italiana tra Ottocento e Novecento, Edizioni San Paolo, Milano, 1999, pp. 6/9.
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l’approdo ad una diversa e più centrale considerazione di figli e dell’infanzia in genere.2 Nella famiglia borghese vigono gli stessi principi che abbiamo visto nella famiglia contadina, ossia innanzitutto, il valore del gruppo familiare, poi la indiscussa autorità del padre al suo interno e come suo rappresentante all’esterno, quindi il sempre più accentuato monopolio educativo da parte della madre.3 Un elemento fondamentale nella nuova famiglia borghese è costituito dalla distinzione tra la casa e il lavoro: esso va richiamato anche per le sue conseguenze di tipo educativo e come ulteriore novità nei confronti dei figli: spostandosi fuori casa in un luogo inaccessibile ed estraneo (fabbrica, ufficio pubblico, banca e così via) il lavoro del borghese diventa sempre più incomprensibile ai suoi stessi figli, rompendo una tradizione plurisecolare secondo la quale il lavoro è strettamente abbinato alla casa (cascina, casa colonica, bottega artigiana) e quindi immediatamente percepibile da parte dei più piccoli. Insomma, il modello culturale della piccola borghesia emergente tra Otto e Novecento ricalca ormai un modello di famiglia nucleare, intima, asimmetrica, con un codice rigoroso di comportamento, che prevede la subordinazione della donna divenuta casalinga, la distinzione netta tra casa e lavoro, la celebrazione della parsimonia e dell’economia.4 La funzione della donna, alla fine dell’800, era esclusivamente quella di dare un contributo ai valori civili della nostra società unitaria italiana: non le si chiedeva infatti di essere cittadina, partecipe in prima persona alla vita pubblica, nonché dei nuovi diritti politici, ma di crescere dentro di sé e poi allevare nel miglior modo possibile i futuri cittadini. Nel privato essa doveva essere madre dall’inizio della gestazione alla fine dei suoi giorni, doveva essere “colei che vive all’ombra del figlio, soffre in silenzio, limita a questo la sua partecipazione alla vita pubblica”.5 La donna divenne, quasi specularmente a un uomo che trionfava nella vita pubblica, la dirigente della “impresa famiglia”, dove aveva il compito di mettere a frutto nel migliore dei modi le risorse materiali provenienti dal lavoro del marito, i cui sforzi sarebbero stati vani se la madre di famiglia avesse ignorato la scienza dell’economia domestica. Diventava così un’occupazione a tempo pieno, che richiedeva prontezza ed efficienza, rapidità e allo stesso tempo capacità di rispondere agli standard moderni di igiene, oltre che alle
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G. VECCHIO, op. cit., pp. 32-33. G. GENOVESI, L’educazione dei figli, Editrice La Nuova Italia, Firenze, 1999, p. 75. 4 G. VECCHIO, op. cit., pp. 36/38. 5 M. D’AMELIA (a cura di), Storia della maternità, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 184. 3
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diverse necessità dei suoi familiari.6 Dorothy Hobson, ricercatrice etnografica inglese, a tal proposito, attraverso lo studio sulle esperienze di giovani donne di classe operaia che allevavano in casa i loro bambini, dimostrò che la famiglia, era per le donne, essenzialmente un luogo di subordinazione. “Il lavoro domestico non finisce mai” e ciò nonostante esso è spesso invisibile a coloro che non lo fanno, e di solito non è neppure riconosciuto come lavoro. Si tratta di un lavoro non pagato, di basso status e svolto in isolamento dagli altri lavoratori.7 La famiglia borghese quindi, meno assillata dai bisogni della sopravvivenza e, a poco a poco, tranquillizzata dal decrescere della mortalità infantile e dagli affanni della pura riproduzione, diviene il nucleo fondamentale della famiglia moderna più attenta alla funzione eminentemente educativa dei figli e sullo sviluppo di quest’ultimi.8 In definitiva è però l’ossessiva presenza della famiglia e, per contro, la sua totale assenza, l’aspetto che maggiormente inficia una corretta impostazione formativa dei ragazzi dell’Ottocento. Più che un’educazione dei figli sarebbe giusto parlare di educazione familiare. La famiglia è tutto, nulla al di fuori della famiglia. Ciò che conta nell’educare i figli, è dare loro soprattutto il senso della famiglia e della necessità della sua continuazione.9 Il secolo XIX non è il secolo dell’infanzia, bensì quello della famiglia, nel senso che alla sua coesione, alla sua forza di aggregazione si confida per la salvezza e per il miglioramento della società. L’attenzione al bambino è prima di tutto un’attenzione che guarda al bambino come membro della famiglia, al cui interno, e comunque soltanto in riferimento ad essa, egli può acquistare un peso e un valore sociale, in quanto la famiglia è vista come il cardine stesso della collettività. Nell’Ottocento il bambino è più che mai il centro della famiglia, è oggetto di investimenti di tutti i tipi: affettivo ma anche economico, educativo, assistenziale.10 Le famiglie contadine si sono sempre impegnate a superare la battaglia per la sopravvivenza: guadagnare il cibo indispensabile per il più scarso nutrimento comporta lo sforzo di tutto il gruppo familiare, non esclusi i bambini di quattro o cinque anni. Nella famiglia contadina di questo periodo non c’è posto per la cura e l’educazione dei figli. La prima età è insidiata inoltre da malattie e pericoli, la mortalità 6
A. COLELLA, Figura di vespa e leggerezza di farfalla. Le donne e il cibo nell’Italia borghese di fine Ottocento, Giunti Editore, Firenze, 2003, p. 78. 7 S. HALL, D. HOBSON, A. LOWE, P. WILLS, Culture, Media, Language: Working papers in cultural studies, 1972-79, The Academie Division of Unwin Hyman, London, 1980, p. 105. 8 G. GENOVESI, op. cit., p. 78. 9 Ivi, p. 96. 10 Ivi, pp. 45-46.
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infantile arriva a cifre spaventose. Finito l’allattamento il bambino resta quasi del tutto affidato alle cure dei fratelli di poco più grandi di lui o a vecchi inabili ormai al lavoro. La scuola non c’è, o è lontana e l’istruzione necessaria al fanciullo è tutta racchiusa in quelle poche tecniche che egli acquista vedendo lavorare il padre, cominciando ad aiutarlo nelle faccende.11 Chi era impossibilitato a lavorare per la propria famiglia, prestava la sua forza lavoro per altre persone, a volte accompagnata da maltrattamenti e percosse, elementi determinanti per contribuire alla sopravvivenza della famiglia.12 Questo trattamento non era di certo escluso nell’ambito familiare tanto che, molto spesso, anche il padre assumeva, per via dell’alcool o della disperazione, atteggiamenti severi ed eccessivi nel punire le mancanze dei figli: questa sembrava essere la dimensione necessaria per il mantenimento del focolare domestico. Solo in data 11 febbraio 1886 è stata promulgata la prima legge sul lavoro minorile, che vietava tra l’altro l’avviamento al lavoro industriale dei minori di nove anni; nel 1902 l’età minima è aumentata a 12 anni per entrambi i sessi, e per le puerpere un mese di astensione dopo il parto. Anche se non mancavano espansioni affettive nei confronti dei figli, tuttavia era molto più diffuso l’atteggiamento che non prevedeva né baci né carezze.13 La prima guerra mondiale, provocò un’ondata di cambiamenti a livello familiare: già il solo fatto che milioni di uomini, celibi o sposati, si trovino direttamente chiamati al fronte e debbano abbandonare per lunghi periodi le rispettive famiglie, fa sì che radicate abitudini siano sconvolte. L’assenza di uomini della casa, dai campi e dalla fabbrica fa saltare tante distinzioni di spazi e competenze: anche in campagna, è adesso la donna ad assumersi il peso della conduzione della famiglia, il che significa concretamente imparare ad usare gli attrezzi da lavoro dell’uomo, ad accudire il bestiame di grandi dimensioni, a recarsi ai mercati, a trattare ogni controversia salariale o legale. Specie con l’avvento del fascismo, poi, le donne sono gradualmente e sistematicamente espulse dai posti di lavoro conquistati, che vengono riaffidati agli uomini.14 Nel periodo fascista, la donna idealizzata dal fascismo lo è solo in funzione della famiglia e quindi sempre collocata nei ruoli di madre, sposa, sorella. Lo sforzo intenso per inculcare il ruolo anzitutto procreativo della donna si abbina ad una
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G. GENOVESI, op. cit., pp. 64-65. Ivi, p. 66. 13 Ivi, pp. 67-68. 14 G. VECCHIO, op. cit., pp. 50-51. 12
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concezione profondamente antifemminista, volta a sostenere la libera iniziativa sessuale del maschio, il dovere di passività totale della femmina e la persistenza della vecchia doppia morale, trovando la sua formulazione più cinica e sincera nella definizione dell’affermato clinico Nicola Pende: ciò che conta nella donna è dopotutto solo “la metà inferiore del corpo”.15 Personalmente, Mussolini ha una visione laica della famiglia (che tuttavia giudica di grande importanza) e favorevole all’avvaloramento della figura femminile, anche sotto il profilo politico. In realtà Mussolini vuole effettivamente qualificare in modo innovatore il suo governo e pensa che la partecipazione femminile alla vita civile sia di fondamentale rilevanza, pur senza modificare sostanzialmente l’immagine della famiglia.16 Anche il lavoro delle donne veniva ostacolato nel periodo fascista: se l’essere sposate e la maternità costituivano un handicap per le donne sul mercato del lavoro, viceversa lo stato di coniugato e di paternità costituivano per gli uomini un vantaggio sul mercato del lavoro. Nonostante questo la donna iniziò ad introdursi pian piano nel mondo lavorativo e, in aiuto alla donna lavoratrice, la misura che si rivolse in modo più esplicito alle donne, fu l’Istituzione Nazionale Maternità e Infanzia (Onmi) nel 1925. Creata allo scopo di contrastare un tasso di mortalità infantile, l’Onmi era insieme un’agenzia di educazione e un servizio per le madri e i bambini: le donne incinte in condizioni economiche disagiate, infatti, ricevevano consigli di igiene e integrazioni alimentari, e le ragazze madri o quelle in situazioni familiari precarie venivano ricoverate fino al parto e aiutate nella ricerca della paternità. L’Onmi organizzava anche asili nido per i figli delle lavoratrici e pagava il pasto nelle scuole materne ai figli delle famiglie bisognose.17 Il passaggio dalla subordinazione alla indipendenza lo si può notare con l’emancipazione femminile, la quale comporta che le donne sposate del XIX e XX secolo acquisirono una certa influenza sul potere della famiglia, e poi un’ideologia familiare che poneva l’accento sui loro diritti al soddisfacimento sessuale e all’autonomia emozionale.18 La parità e l’emancipazione femminile sembrano vissute dalle donne come un arricchimento di potenzialità personali e dagli uomini come una perdita di qualità “femminile” rassicuranti (la 15
P. G. ZUNINO, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 294. 16 H. A. CAVALLERA, Storia dell’idea di famiglia in Italia dagli inizi dell’Ottocento alla fine della monarchia, Editrice La Scuola, Brescia, 2003, pp. 259-260. 17 M. BARBAGLI, D. L. KERTZER (a cura di), Storia della famiglia italiana. 1750-1950, Il Mulino, Bologna, 1992, pp. 124-125. 18 M. BARBAGLI, Famiglia e mutamento sociale, Il Mulino, Bologna, 1977, pp. 328-329.
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dolcezza e la sottomissione ma anche la capacità di seduzione, il mistero del silenzio e la sua conquista nell’intimità, la fiducia dell’onnipresenza nel bisogno e la garanzia della comprensione e del sostegno).19 Ciò che dovrebbe fare una donna è riscoprire una parte di sé senza negarla, attraverso una complessa scoperta delle proprie potenzialità.20
2.
La famiglia funzionale
Partendo dal presupposto che dietro ogni individuo c’è sempre una coppia di genitori che fin dai primi mesi di vita sono lì, pronti ad accudirlo e ad aiutarlo nella crescita, partiamo da lì, da quella diade genitoriale che non rappresenta altro che la famiglia. Cercheremo di capire il ruolo fondamentale che questa ha nella vita di ogni persona, non solo in riferimento agli aspetti positivi dell’esistenza ma anche in rapporto a quella dimensione oscura che, spesso celata, rischia di rovinare ed ostacolare il normale progetto di vita di ciascun individuo. La famiglia è considerata la prima agenzia di socializzazione improntata alla costruzione della personalità dell’individuo: svolge funzioni che vanno al di la della semplice riproduzione della specie, in quanto istituzione sociale investita dalla funzione di riprodurre una società e di promuovere la sviluppo dei suoi membri.21 La famiglia svolge queste funzioni trasmettendo valori e norme sociali sostenendo lo sviluppo delle nuove generazioni. Sono quindi due le funzioni principali, collegate tra loro, svolte dalla famiglia: il controllo sociale e la promozione dell’individuo.22 I membri della famiglia negoziano obblighi e limitazioni della libertà individuale al fine di garantire il sostegno e la cura reciproci. Il sostegno familiare, a sua volta, contribuisce alle realizzazioni dell’individuo e della società. Le famiglie sono sistemi interattivi all’interno dei quali, dall’infanzia fino all’età adulta tutti i membri della famiglia si influenzano reciprocamente. La maggior parte della letteratura psicologica sulla famiglia ha studiato l’influenza dei genitori sui figli.23
19
B. BARBERO AVANZINI, Dopo la famiglia nucleare. Modelli alternativi di famiglia tra simmetria e doppia carriera”, Edizioni Vita e Pensiero, Milano, 1991, p. 45. 20 Ivi, p. 54. 21 G. V. CAPRARA, D. CERVONE, Personalità. Determinanti, dinamiche, potenzialità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003, p. 254. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 256.
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Anche la
Costituzione Italiana24, all’art. 29, conferma quanto la famiglia sia
fondamentale per la vita di un soggetto: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Nell’art. 30 invece si sostiene che “E’ dovere e diritto dei genitori, mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”. Nell’art. 31 si legge: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Gli artt. 29, 30 e 31 testimoniano il grande e rilevante interesse per tutti i componenti della famiglia e per i figli naturali; tale interesse da un lato ci restituisce l’immagine della famiglia come comunità insopprimibile deputata a svolgere un ruolo primario anche in ambito sociale e, dall’altro, rappresenta il dovere dei genitori di assicurare ai figli il sostegno necessario per la crescita completa sul piano morale, psicologico e materiale.25 Benché l’art. 27 della Costituzione sancisca che la responsabilità penale è personale, la pena detentiva viene spesso espiata da persone che hanno una famiglia al di fuori: che siamo giovani o genitori all’esterno c’è un pezzetto di parentela che pensa a loro. Quindi, nonostante la responsabilità sia personale, coinvolge comunque i familiari. La tenuta dei legami con i propri cari è messa a dura prova proprio in questo periodo, carico di tensioni e dispiaceri. In questo contesto è reale il pericolo di rarefazione, sfaldamento o rottura dei detti rapporti e possono insorgere, nelle persone affettivamente legate al reo, profondi traumi psicologici e seri problemi di disadattamento o addirittura di emarginazione sociale. Se poi la carcerazione riguarda un cittadino extracomunitario, l’urgenza di garantirgli un minimo di colloqui e di contatti con i familiari residenti all’estero incontra ostacoli ed impedimenti di varia
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T. DE MAURO, Costituzione della Repubblica Italiana, Edizioni UTET, Torino, 2008, p. 11. G. MASTROPASQUA, Esecuzione della pena detentiva e tutela dei rapporti familiari e di convivenza. I legami affettivi alla prova del carcere, Cacucci Editore, Bari, 2007, p. 34. 25
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natura, che spesso sono difficilmente superabili.26 La famiglia, quindi, è e deve essere presente in ogni percorso che il proprio familiare compie, sia questo positivo o negativo.
2.1
Il bisogno di essere amati
I bambini si sa, hanno bisogno di affetto e di amore: è utile citare a riguardo alcune parti di un testo, abbastanza significative, a conferma del fatto che ogni persona, a maggior ragione un infante, ha bisogno di essere amata. Anatole France, nel suo libro “Le livre de Mon Ami”27, racconta la storia di una bimba di nome Jessy, un’orfanella che era stata affidata ad un vecchio zio, il Dott. Bogus, uno scienziato. Pochi giorni dopo il suo arrivo, la bimba aveva detto: “Zio Bogus, tu sei vecchio e brutto, ma io ti voglio bene e tu devi amarmi”. Lo zio aveva allora chiesto: “Perché mai devi essere amata, Jessy?” “Perché sono piccola”. Lo scienziato si era allora chiesto se fosse vero che si devono amare i piccoli, concludendo che era possibile (il se pouvait) in quanto i piccoli hanno il bisogno di perentorio di essere amati (car, dans le fait, ils ont grand besoin qu’on l’aime). Sorge un quesito: ma esiste un bisogno nevrotico di essere amati, chiaramente discernibile e distinto dal bisogno “normale”? Il primo analista ad asserire decisamente l’esistenza di un tale bisogno è stato Sandor Ferenczi28 che, verso il 1927, elaborò la teoria che i nevrotici sono individui che non sono mai stati accettati o amati nell’infanzia e sentono una sete anormale di amore e accettazione. Egli sosteneva che i bambini reagiscono alla personalità dei genitori assai prima di imparare il significato delle parole.29 Generalmente si associa questa sete di amore ai soggetti nevrotici in quanto considerata come uno degli indizi più sicuri della presenza di uno stato d’ansia. Il soggetto nevrotico è incapace di amare, eppure ha enorme bisogno di essere amato.30 Il bisogno di amore, nel soggetto nevrotico, si configura come una protezione contro
26
G. MASTROPASQUA, op. cit., pp. 21-22. A. FRANCE, Le livre de mon ami, Calmann Levy Éditeur, Paris, 1885, pp. 256-257. 28 Sandor Ferenczi era un medico, psichiatra e psicanalista ungherese. 29 Final Contributions to the Problems and Methods of Psychoanalysis, Edito da Michael Balint, Basic Books, New York, 1951. 30 T. REIK, Il bisogno di essere amati, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1975, p. 34. 27
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“l’ansia fondamentale”. Karen Horney sostiene che quest’ansia deriva dall’ostilità; l’ansia e l’ostilità sono intrecciate inestricabilmente.31 Nel primo anno di vita del bambino, emozioni e sentimenti sono l’alimento della vita affettiva di quest’ultimo: è dal loro intreccio che nasce la capacità di amare e di essere amato. Il linguaggio dei sentimenti precede quello della parola. Ed è attraverso lo sviluppo affettivo che il bambino impara a poco a poco a pensare e a parlare.32 Educare deriva da educere, cioè guidare senza soffocare: affetto e rimprovero, insomma, hanno uguale importanza. Ricordiamo che, qualunque sia l’atteggiamento educativo adottato, la madre non deve mai dire al bambino che non gli vuole più bene; meglio la faccia arrabbiata o una buona sculacciata, anziché la minaccia di privarlo del proprio affetto, che potrebbe essere traumatica. L’ammonizione dovrà perciò essere breve e il genitore non dovrà tenere a lungo il broncio.33 Man mano che il bambino cresce, in questa delicatissima fase, ascoltare e conversare diventano, e saranno sempre, il cardine dell’educazione: più si complica il rapporto interfamiliare, accentuandosi l’incertezza e la variabilità dei comportamenti del preadolescente, più paziente, intelligente e malleabile dovrà essere il contenitore familiare.34 Bowlby35 sostiene che gli individui, che crescendo diventano relativamente equilibrati e indipendenti, di solito hanno genitori che li sostengono se viene richiesto loro aiuto, ma che nello stesso tempo permettono e incoraggiano l’autonomia. Bowlby sostiene che la trasmissione della salute e della malattia mentale attraverso la cultura familiare assume una rilevanza fondamentale e può divenire addirittura più importante della trasmissione genetica.36 La vita familiare, quindi, è una prova per le generazioni future. Nel corso delle prove il bambino altro non è che il sostituto del genitore e si identifica con alcuni aspetti del tipo di genitorialità che vive in famiglia, mentre ne disapprova altri. Il bambino scrive gli script della propria vita e questi, a loro volta, avranno una parte nel determinare il tipo di persona che diventerà in futuro e il tipo di famiglia che contribuirà a creare. Quando 31
T. REIK, op. cit., p. 35. G. BOLLEA, Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli Editore, Milano, 1995, p. 12. 33 Ivi, p. 14. 34 Ivi,p. 30. 35 John Bowlby (1907-1990), dopo aver studiato scienze naturali, psichiatria e medicina all’università di Cambridge, si specializzò in psichiatria e in psicoanalisi. Su incarico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità svolse negli anni ’50 una ricerca, diventata famosa, sulle condizioni psichiche dei bambini che vivono lontano dalla famiglia. Ha lavorato come ricercatore e come docente presso la Tavistock Clinic e il Tavistock Institute of Human Relation di Londra. 36 L. CARLI (a cura di), Attaccamento e rapporto di coppia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 29. 32
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il bambino crescerà, probabilmente stabilirà relazioni a lungo termine, al fine di creare una famiglia con una persona che ha mostrato di essere in grado di interpretare alcuni ruoli tra quelli del suo script familiare e viceversa.37
3.
La teoria dell’attaccamento: John Bowlby
E’ da questa premessa che ci colleghiamo a quella che viene definita la “teoria dell’attaccamento” di John Bowlby, la quale sostiene che l’attaccamento non è altro che il legame affettivo che il bambino instaura con la figura materna.38 Sulla base di uno studio su due bambini problematici, Bowlby si convinse che le esperienze familiari precoci determinassero lo sviluppo della personalità. A quel punto decise di svolgere la professione di psichiatra infantile.
3.1 Relazione di attaccamento tra specie animali
La teoria di Bowlby è stata notevolmente influenzata da ricerche condotte su animali diversi dall’uomo ad opera di due figure principali: l’etologo Konrad Lorenz, con i suoi studi sulle anatre, e Harry Harlow con i suoi studi sulle scimmie rhesus.39 A quel tempo, intorno agli anni 30 del XX secolo, era ampiamente condivisa l’opinione che il motivo per cui il bambino sviluppa uno stretto legame con la madre è che lei lo nutre. Venne dimostrato che il bambino si attacca alla propria madre e all’ambiente con meccanismi analoghi o simili a quelli che si riconoscono nell’animale e che peraltro la rottura dei legami, la deprivazione delle cure materne, provocano nell’animale turbe simili o analoghe a quelle conosciute nel bambino.40 Vengono postulati due tipi di pulsioni, primarie e secondarie. Si ritiene che la fame sia una pulsione primaria e la 37
J. BYNG-HALL, Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998, p. 65. 38 M. RUDOLPH SCHAFFER (a cura di), L’interazione madre-bambino. Oltre la teoria dell’attaccamento, FrancoAngeli Editore, Milano, 1997, p. 19. 39 C. FLANAGAN, La socializzazione infantile, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 13-14. 40 D. ANZIEU, J. BOWLBY, R. CHAUVIN, F. DUYCKAERTS, H. H. F. HARLOW, C. KOUPERNIK, S. LEBOVICI, K. LORENZ, PH. MALRIEU, R. A. SPITZ, D. WIDLOCHER, R. ZAZZO, L’attaccamento, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1976, p. 11.
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relazione personale, cui ci si riferisce con il termine “dipendenza”, una pulsione secondaria. Questo può sembrare un paradosso perché, se così fosse, un bambino di un anno o due dovrebbe accettare con simpatia chiunque lo nutra, il che chiaramente non sempre accade.41 Lorenz ci suggerì che gli anatroccoli fossero geneticamente predisposti a fissarsi sul primo oggetto in movimento percepito alla nascita. Questa impronta determinava la formazione di un legame tra il piccolo e chi ne aveva cura di importanza fondamentale per la sopravvivenza e la capacità riproduttiva futura. Tale processo si verificava con maggiore facilità in un periodo sensibile successivo alla nascita. Il lavoro di Lorenz ci spiegava l’alternativa a questa ipotesi: si basava sulla risposta del “seguire” presente nei paperotti e negli anatroccoli. Egli dimostrava che in alcune specie animali poteva svilupparsi un forte legame nei confronti di una specifica figura materna senza l’intermediazione del cibo.42 Il lavoro di Harlow dimostrò invece come la deprivazione della possibilità di un contatto fisico interattivo producesse nei piccoli di scimmia conseguenze gravi e permanenti tra cui l’incapacità di formare nell’età adulta relazioni sessuali efficaci sul piano riproduttivo. La descrizione di Harlow delle piccole scimmie, isolate e intimorite, abbrancate a madri fantoccio ricoperte di stoffa riuscì a esprimere in modo potente tutta l’importanza del legame precoce. I primi studi sull’importanza primaria del sistema di attaccamento nella relazione madre/bambino furono quelli relativi ad Harlow sul famoso esperimento in cui un cucciolo di Macacus rehsus veniva staccato dalla madre naturale e costretto a scegliere tra due madri sostitute. Una gli offriva nutrimento, mediante biberon pieno di latte che spuntava da un’impalcatura di ferro, l’altra forniva calore, mediante una borsa d’acqua calda ricoperta di pelo, senza possibilità di nutrimento. Il cucciolo, senza esitazione, sceglieva la madre calda e, a costo di morire di fame, le rimaneva aggrappato. Se cercava di raggiungere il biberon lo faceva rimanendo attaccato almeno con un dito alla fonte di calore. L’attaccamento, quindi, è il bisogno primario e il cucciolo lo ricerca attivamente alla vista della madre anche se questa lo rifiuta e lo percuote. Harlow, nel suo articolo intitolato “The nature of Love” del 1958, dimostra per la prima volta che, stabilendosi dei legami affettivi tra madre e bambino, il 41
J. BOWLBY, op. cit., 2003, p. 23, in K. Z. LORENZ, Der Kumpan in der Umvelt des Vogels, J. Orrn. Berl., 1983. 42 Ibidem.
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soddisfacimento dei bisogni dell’alimentazione non ha di certo il ruolo primordiale che gli si attribuisce di solito. Già per i neonati il bisogno di contatto, la ricerca di vicinanza con la madre, prevale sulla fame. Dalla nascita, l’amore non si alimenta essenzialmente di latte. Ma essendo una scoperta fatta sulle scimmie, ci si chiede se sia valida anche per i bambini. A conferma di ciò, sempre nello stesso anno, Bowbly scrive un articolo sulla natura del legame con la madre. Secondo lo psichiatra, l’attaccamento indica un legame di affetto specifico di un individuo con un altro. In generale, il primo legame è stabilito con la madre, ma può anche essere accompagnato da attaccamenti ad altri individui. Una volta formato, l’attaccamento è di natura destinata a durare; non è relativo alle esigenze di una situazione come la dipendenza; non implica necessariamente un’immaturità. Infine e soprattutto nel contesto etologico in cui è apparso per primo, esso suppone una struttura neurofisiologica, la tendenza originale e permanente di ricercare il rapporto con altri.43 La sua teoria dell’attaccamento sosteneva che il bambino deve vivere una relazione affettuosa, intima e continua con la madre (o con un sostituto materno permanente) in cui possa trovare sia soddisfazione che piacere.44 Secondo lo psichiatra il bambino nasce con una predisposizione che è iscritta nel patrimonio genetico della specie umana a ricercare e a mantenere la vicinanza con una figura specifica che normalmente è la madre. Affinché si strutturi il legame di attaccamento è necessario che il bambino possa disporre di un rapporto stabile e continuativo con la figura materna. Interferenze quali separazioni, specialmente se prolungate, e abbandoni, esercitano, secondo questa prospettiva, conseguenze estremamente negative sul suo assetto psichico.45 Egli sostiene che esista un periodo sensibile, collocabile attorno al secondo trimestre del primo anno di vita; dopo questo periodo risulterebbe più difficile lo stabilirsi di un attaccamento “sicuro” anche se la disposizione a sviluppare tale legame può mantenersi, purché si verifichino condizioni di grave deprivazione di cure, perlomeno fino alla fine del primo anno.46 Nei primi mesi di vita, il neonato impara a distinguere una figura particolare che in genere è la madre e sviluppa un forte e riconoscibile desiderio di starle vicino. Dai sei mesi ai tre anni, la
43
L’éthologie et l’évolution des relations objectales, Rev. Fr. de Psycanalyse, 1970, pp. 623/631. L. CARLI (a cura di), op. cit., p. 10. 45 M. RUDOLPH SCHAFFER (a cura di), op. cit., p. 17. 46 Ivi, p. 18. 44
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presenza della madre lo fa felice, la sua assenza lo turba profondamente. Dopo il primo anno anche altre figure possono diventare importanti ma in genere è una persona determinata ad essere preferita, appunto di solito la madre.47 Bowlby viene accusato del fatto che, nelle sue ricerche, abbia presentato solo la diade madre-bambino. Questo non è del tutto vero visto che si parla di sistema di attaccamento alle figure protettive e non specificatamente della madre. Il ruolo del padre, anzi, è tenuto in forte considerazione sia come possibile figura sostitutiva con cui si può stabilire un attaccamento analogo alla madre indipendentemente dal sesso del bambino, sia come figura di supporto fondamentale per alleviare gli altri impegni della madre, occupata nello svezzamento del neonato, sia come figura che stimola nel bambino modalità di comportamento complementari a quelle che stimola la madre.48
3.2
Strange Situation e tipi di attaccamento
La teoria dell’attaccamento, elaborata e proposta da Bowlby, è stata successivamente arricchita e ampliata da Mary Ainsworth e colleghi e da numerosi altri studiosi che ne hanno verificato l’applicabilità anche in età adulta. Proprio la Ainsworth evidenzia una procedura ormai largamente collaudata, quella della Strange Situation.49 In tale procedura i bambini sono osservati in condizioni che possono essere per lo più o meno stressanti, per esempio in un ambiente non familiare, con un estraneo, durante brevi separazioni dalla madre. Generalmente, vengono presentate otto situazioni secondo un ordine stabilito. All’inizio l’osservatore introduce la madre in un ambiente non familiare, una stanza per esperimenti con due sedie e alcuni giocattoli sul pavimento. Si osserva quanto volentieri il bambino si allontani dalla madre per esplorare lo spazio circostante in assenza di contatto con lei. Poi, con la madre presente, un estraneo entra e lentamente si avvicina al bambino. Poco dopo, la madre lascia la stanza per ritornare a distanza di pochi minuti. Successivamente esce l’estraneo e poco dopo anche la madre esce di nuovo così il bambino rimane solo nell’ambiente non 47
C. CRISTIANI, La conquista del sé. Attaccamento e separazione nel ciclo di vita, Edizioni Unicopli, Milano, 1992, p. 107. 48 M. A. REDA, Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia, Carocci Editore, Roma, 1986, p. 36. 49 M. D. S. AINSWORTH, S. WALL, Patterns of Attachment: A Psychological Study of the Strange Situation, Laurence Eribaum Associates, New Jersey, 1978, pp. 32/40.
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familiare. Quindi l’estraneo rientra; infine la madre rientra e l’estraneo esce. Le relazioni del bambino alla separazione e alla ricongiunzione con la madre sono codificate nei termini di sei variabili comportamentali che forniscono gli elementi per la valutazione dei tre diversi stili di accompagnamento: vicinanza e ricerca del contatto, mantenimento del contatto, resistenza, evitamento, ricerca, distanza dell’interazione. I risultanti mostrano che i bambini, generalmente, sviluppano l’attaccamento alla madre all’età di un anno. Sulla base di questa procedura possiamo individuare tre pattern di attaccamento50: per capire meglio verranno descritti degli esempi per ogni stile di attaccamento.
Attaccamento sicuro
E’ caratteristico di quei bambini che nell’infanzia hanno potuto mantenere un buon contatto con la madre anche di fronte a situazioni nuove e non hanno avuto problemi di eccessivo attaccamento nei momenti precedenti l’esplorazione. Questi bambini ricercano attivamente il contatto. Il bambino di un anno che sta esplorando la stanza è inizialmente turbato quando il genitore esce e lo segue fino alla porta. Tuttavia, il suo turbamento non è eccessivo. Quando il genitore ritorna, sei minuti dopo, sia il genitore che il bambino sono contenti di vedersi e si avvicinano l’uno all’altro. Anche il bambino è turbato e arrabbiato per essere stato lasciato solo, si consola rapidamente con l’intervento del genitore e riprende le sue esplorazioni dopo poco tempo. All’età di quattro anni e mezzo, il bambino dopo essere stato separato per dodici minuti saluta il genitore mostrando interesse e guardandolo con attenzione. Le interazioni sono calme, intime, indicative di una relazione speciale.
Attaccamento ansioso e resistente o ambivalente
E’ caratterizzato da difficoltà di esplorazione e da un forte stress emotivo al momento della separazione. Al ricongiungimento coi genitori il piccolo mostra un comportamento ambivalente: cerca il contatto ma ha difficoltà a rilassarsi e calmarsi; a volte è passivo e lascia che gli altri si avvicinino, a volte è più attivo ma resiste con 50
M. D. AINSWORTH, Attachment: retrospect and prospect, in C. M. PARKERS, J. STEVENSONHINDE (a cura di), The place of attachment in human behavior, Basic Books, New York, 1982, p. 23.
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rabbia alle attenzioni della madre. Vi è un’estrema ed eccessiva paura degli estranei. Si mostrano pieni di paure, sempre in allarme e molto impulsivi. I loro genitori risultano iperprotettivi e iperapprensivi. Il bambino fa un gran chiasso quando viene lasciato, si aggrappa al genitore che si sta allontanando e resta in attesa, in lacrime, accanto alla porta. Al momento della riunione il bambino alterna la richiesta di essere preso in braccio a un rabbioso rifiuto del genitore, che dimostra spingendolo via con rabbia. Il bambino di quattro anni e mezzo si dimostra arrabbiato, piagnucolando oppone resistenza nei confronti del genitore, e/o adotta un comportamento immaturo e timido, spesso ambivalente rispetto alla vicinanza fisica o al contatto; l’enfasi è sulla dipendenza.
Attaccamento ansioso evitante
E’ caratteristico dei bambini che mostrano evitamento della madre al momento della riunione o ignorandola risolutamente o alternando ricerca di vicinanza con blocchi ed evitamenti. A scuola mostrano comportamenti di chiusura, di ostilità e di isolamento dal gruppo. Sono i classici atteggiamenti di chi ha avuto una figura di attaccamento rifiutante o scarsamente comunicativa a livello emotivo. Il bambino non sembra preoccuparsi o addirittura neanche notare quando il genitore lascia la stanza, e continua le sue esplorazioni. Al momento della riunione, il piccolo non presta attenzione al genitore e, a volte, si rivolge a un oggetto, per esempio un giocattolo. Anche il genitore è freddo e guarda i giocattoli. Il bambino di quattro anni e mezzo evita di richiamare l’attenzione sulla relazione con il genitore appena ritornato, sia con la conversazione sia con l’atteggiamento fisico. Il bambino si dimostra neutrale verso il genitore. Attaccamento disorganizzato51
E’ considerato da molti autori il più complesso in quanto è caratterizzato dall’attivazione di particolari relazioni tra il bambino e le figure di riferimento, vissute come coloro che dovrebbero fornire accudimento, ma anche come minacciose e 51
E. BRUNI, F. DEL CITTO, A. R. GIACCONE, U. MARIANI, R. SCHIRALLI, L. ZONCHEDDU, La prevenzione del disagio e delle dipendenze patologiche in età evolutiva. La didattica delle emozioni a scuola e in famiglia, FrancoAngeli Editore, Milano, 2007, pp. 43-44.
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pericolose. E’ il caso di bambini con genitori aggressivi, violenti, con gravi patologie mentali, alcolisti e abusanti. In situazioni di questo genere, la figura di attaccamento non può indurre tranquillità e sicurezza, in quanto è di per sé associata a sensazioni di paura o terrore. Il bambino è posto di fronte ad un paradosso che lo costringe continuamente ad oscillare tra il bisogno di avvicinarsi al genitore e quello di allontanarsi da lui: non avendo la possibilità di lottare o fuggire, rimane come paralizzato, ed entra in una specie di trance che può rappresentare il preludio di processi dissociativi patologici.52 Questa situazione senza scampo è considerata tra le più deleterie nello sviluppo della personalità del bambino, in quanto la sintonizzazione emotiva è completamente scardinata e disattesa.
Tuttavia, gli stili di attaccamento variano. Al momento della ricongiunzione con la madre, i bambini sicuri ne cercano la vicinanza, comunicano i loro sentimenti di disagio, ma poi ritornano all’esplorazione. I bambini insicuri-resistenti alternano la ricerca della vicinanza con la resistenza al contatto. Rispondono alla separazione con forte disagio e sono a lungo irrequieti. I bambini insicuri-evitanti evitano la vicinanza, non mostrano particolare disagio durante la separazione e rimangono distanti dalla madre o la ignorano quando vengono riuniti a lei.53 Si ritiene che questi diversi stili di attaccamento del bambino riflettano stili diversi di attaccamento da parte della madre. A questo proposito, l’aspetto più importante non è la quantità di tempo che la madre passa con il bambino ma la qualità dell’attaccamento, vale a dire se la madre fornisce una base sicura (della quale parlerò meglio più avanti), se è sensibile ai segnali di bisogno di protezione e confronto del bambino. Tale sensibilità svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro. Da parte del bambino, il segnale chiave che discrimina tra diversi gruppi di attaccamento non è il pianto in sé ma il superamento del malessere dopo la ricognizione con la madre. Le madri che forniscono una base sicura rendono i bambini capaci di esplorare, consapevoli che la madre continuerà a fornire sostegno fisico ed emotivo, rassicurazione e protezione.54
52
D. J. SIEGEL, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001, pp. 109-110. 53 G. V. CAPRARA, D. CERVONE, op. cit., pp. 222-223. 54 Ibidem.
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Un aspetto fondamentale della teoria dell’attaccamento è la convinzione che gli individui riproducano nel corso della vita i medesimi stili di attaccamento che hanno acquisito nelle prime interazioni genitore-bambino. Si ritiene dunque che stili di attaccamento diversi portano alcune persone a essere fiduciose, aperte all’esperienza e capaci di affrontare positivamente le separazioni; altre a essere ansiose e costantemente preoccupate di essere trascurate, rifiutate o abbandonate; altre ancora a non avere alcuna fiducia negli altri e a essere esageratamente autosufficienti, isolate e ostili.55 Esistono, naturalmente, molti dati clinici sul fatto che i sentimenti e i comportamenti di una madre nei confronti del figlio sono profondamente influenzati anche dalle sue precedenti esperienze personali, specialmente quelle che ha avuto e che può ancora avere con i propri genitori. Ciò che un bambino fa in diverse circostanze è una chiara replica di quello che ha visto fare e/o sperimentato da parte di sua madre.56
3.3 Attaccamento e comportamento di attaccamento
Secondo Bowlby, il bambino nasce provvisto di una serie di comportamenti, geneticamente predeterminati, che svolgono un’importante funzione adattiva. Questi comportamenti (il sorriso, il pianto, l’aggrapparsi, il vocalizzare ecc), definiti comportamenti di attaccamento, fanno parte di un sistema comportamentale finalizzato a garantire al bambino la prossimità fisica con l’adulto, condizione necessaria per la sopravvivenza.57 Vi è una differenza tra attaccamento come sistema comportamentale interno al bambino che organizza le emozioni e i sentimenti che egli prova verso se stesso e verso gli altri e il comportamento di attaccamento che consiste nelle modalità attraverso cui si esprimono esplicitamente tali sentimenti.58 Più specificatamente esso viene definito come “qualsiasi forma di comportamento che porta una persona al
55
G. V. CAPRARA, D. CERVONE, op. cit., pp. 222-223. J. BOWLBY, Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Carocci Editore, Roma, 2003, pp. 14-15. 57 R. CASSIBBA, L. D’ODORICO, La valutazione dell’attaccamento nella prima infanzia. L’adattamento italiano dell’Attachment Q-Sort (AQS), FrancoAngeli Editore, Milano, 2000, p. 15. 58 L. CAMAIONI, P. DI BLASIO, Psicologia dello sviluppo, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 222. 56
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raggiungimento o al mantenimento della vicinanza con un altro individuo differenziato e preferito considerato in genere come più forte e/o più esperto”.59
Il legame di attaccamento si sviluppa lungo il primo anno di vita attraverso 4 fasi:60 •
La prima fase viene definita di preattaccamento: copre il periodo che va dalla
nascita alle 6 settimane di vita. In questo periodo il bambino manifesta tutti i comportamenti di attaccamento di cui dispone (il pianto, il sorriso, lo sguardo della madre, l’aggrapparsi ecc) in modo assolutamente istintivo. Tali comportamenti hanno la funzione di stabilire un contatto con la madre, la quale provvederà a soddisfare i bisogni del bambino. •
La seconda fase si colloca nel periodo tra le 6 settimane e i primi 6-8 mesi di
vita. Il bambino comincia a indirizzare in modo preferenziale i comportamenti di attaccamento verso la madre, sebbene non protesti ancora alla separazione dal genitore. In questo periodo, infatti, l’angoscia è generata non tanto dall’allontanamento della madre quanto, invece, dall’essere lasciato solo. •
Dal 6°-8° mese fino all’inizio del secondo anno di vita subentra la fase
dell’attaccamento vero e proprio. Il bambino manifesta sentimenti di ansia quando la madre si allontana, la ricerca attivamente grazie alle abilità di spostamento acquisite e la utilizza come “base sicura”61 durante l’esplorazione. I cambiamenti intervenuti in questa fase riflettono l’acquisizione della permanenza oggettuale; tale acquisizione consente al bambino di discriminare la madre dalle altre figure e di cercarla attivamente anche quando non è fisicamente presente.
59
C. CRISTIANI, op. cit., p. 108. L. E. BERK, Child Development, Allyn and Bacon, Toronto, 1991. 61 Il concetto di base sicura è stato introdotto da Mary Ainsworth in riferimento ad uno studio sui bambini ugandesi e i loro genitori. Ha rilevato che i bambini, attorno all’anno di età, si allontanano dalle madri per giocare, ma di tanto in tanto fanno ritorno alla “base”. Il bambino è contento di allontanarsi ammesso che sappia che la madre è presente. Magari uscirà dalla stanza di sua iniziativa, e la sua padronanza di sé nel fare questo è a volte in netto contrasto con la sua disperazione quando la sua base sicura si allontana. J. BYNG-HALL, op. cit., p. 138. 60
22
•
Dai 18 mesi in poi subentra l’ultima fase, caratterizzata dalla costruzione di una
relazione reciproca tra madre e bambino. In questo periodo intervengono importanti acquisizioni sul piano cognitivo, che influenzano la relazione di attaccamento. Si assiste, innanzitutto, ad un accrescimento delle capacità linguistiche e di memoria del bambino; emerge inoltre, la capacità di rappresentarsi mentalmente gli eventi. Tutte queste nuove acquisizioni permettono al bambino di comprendere i motivi dell’assenza del genitore e di prevedere il suo ritorno: questo fa sì che la separazione generi livelli di tensione minori. E’ in quest’ultima fase che c’è la più grande conquista e cioè quella di costruirsi dei MOI dell’attaccamento. Il concetto di “modello operativo interno” è stato usato da Bowlby per descrivere la rappresentazione mentale delle relazioni che consentono al bambino di fare predizioni sul comportamento probabile dei suoi genitori (o delle figure di attaccamento), così che possa sentirsi sicuro sapendo che il genitore sarà disponibile quando ne avrà bisogno.62 Si tratta di rappresentazioni che il bambino costruisce, di se stesso e dell’altro, che riflettono la storia della relazione con la figura materna. I MOI che i bambini si costruiscono svolgono la funzione di organizzare le relazioni sociali che verranno stabilite, in futuro, con partner diversi. Sebbene questi MOI tendano a mantenersi stabili nel tempo, essi possono essere modificati dall’insorgere di nuove circostanze ambientali.63 Non dobbiamo dimenticare che i legami tra madre-bambino sono di tipo “complementare”: il bambino chiede aiuto, la madre protegge; il bambino chiede conforto, la madre coccola; i ruoli sono fissi e non è ipotizzabile il contrario. E lì dove si verifichi un’inversione di ruolo (la madre chiede protezione, per esempio, e il piccolo si sente costretto a prendersi cura di lei) il rischio che il bambino evolva in un individuo con disturbi mentali o di condotta è molto elevato.64 Una base familiare sicura è definibile come una famiglia che fornisce una rete affidabile di relazioni di attaccamento che consentono a tutti i membri della famiglia e a qualsiasi età di sentirsi abbastanza sicuri da spingersi ad esplorare le relazioni che vi sono tra loro e quelle che
62
J. BYNG-HALL, op. cit., p. 92. R. CASSIBBA, L. D’ODORICO, op. cit., p. 19. 64 G. ATTILI, Attaccamento e amore, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 39. 63
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hanno instaurato all’esterno della famiglia. Il motto della base familiare sicura è “collaborare per prendersi cura degli altri”.65 Anche il genitore ha un modello operativo reciproco dei bisogni del bambino e delle sue modalità di reazione. Insieme, i due modelli interni reciproci creano un modello operativo condiviso della reazione di attaccamento. La parte condivisa è la rappresentazione mentale degli elementi di base della relazione di interazione. Naturalmente i due modelli sono opposti: il modello del bambino è limitato a fattori evolutivi, quello dei genitori è basato sull’esperienza, compresa quella di aver avuto a loro volta dei genitori.66
3.4 La perdita della persona amata: attaccamento e cure materne insufficienti
La perdita di una persona amata è una delle esperienze più intensamente dolorose che possono essere patite da un essere umano. E non è dolorosa solo da provarsi; lo è anche come esperienza cui assistere, se non altro per l’estrema impotenza in cui ci si trova. Per la persona orbata di un affetto, solo il ritorno della persona perduta potrebbe essere fonte di reale conforto. Qualsiasi nostro tentativo di consolazione viene vissuto quasi come un’offesa.67 La carenza totale o la perdita improvvisa nel primo anno di vita della figura materna, sfocia secondo Spitz nella cosiddetta depressione anaclitica68: il neonato impossibilitato a scaricare le sue pulsioni aggressive a causa della carenza materna, le proietta su si sé, l’unico oggetto che conosce, arrivando fino a comportamenti gravemente autolesionistici e talora fino alla morte. Affinché l’integrazione dell’Io sia piena e corretta, in particolare tra l’ottavo e il diciottesimo mese di vita, è indispensabile che: il piccolo cresca in un clima di sicurezza (presenza dell’oggetto libidico); le tendenze aggressive e libidiche si possano scaricare con libertà in un sinergico scambio tra il bambino e l’oggetto libidico stesso. E’ infatti, proprio nel primo anno di vita, che il bambino, crescendo in un ambiente amorevole, sicuro ed equilibrato, acquisisce quella “fiducia di base” per uno sviluppo sociale perfettamente 65
J. BYNG-HALL, op. cit., p. 139. Ivi, pp. 92-93. 67 J. BOWLBY, Attaccamento e perdita. La perdita della madre, Boringhieri Editore, Torino, 1983, p. 18. 68 R. A. SPITZ, Il primo anno di vita. Studio psicoanalitico sullo sviluppo delle relazioni oggettuali, Armando Armando Editore, Roma, 1973, pp. 265/274. 66
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integrato.69 Dove viene subìta una perdita, là ci si deve aspettare un segno manifesto di disagio, e quando non si verifica una simile reazione, è possibile che esista un disturbo a livello più profondo.70 La risposta iniziale di un bambino di età compresa tra dodici mesi e tre anni che vengono allontanati dalla figura materna a cui sono attaccati e portati con persone estranee in un luogo sconosciuto, consiste in una protesta e in uno sforzo spasmodico per recuperare la madre perduta. Dopo circa una settimana e anche più, subentra la disperazione. Non è che diminuisca il desiderio del ritorno della madre: svanisce la speranza che questo ritorno avvenga. Infine cessano le richieste incessanti e fastidiose: il bambino diventa apatico e chiuso in sé, in una disperazione rotta forse soltanto da un lamento monotono e intermittente. Il piccolo è in uno stato di indicibile infelicità.71 Traumi gravi che si verificano in età infantile o che inducono fenomeni di “attenzione divisa” (in cui l’individuo durante l’esperienza traumatica entra in una specie di trance o concentra la sua attenzione su elementi della sua immaginazione) possono essere associati a un’inibizione dei processi della memoria esplicita; l’evento traumatico viene quindi registrato unicamente a livello implicito, con ricordi intensi e terrorizzanti che possono successivamente venire riattivati dando luogo a immagini, emozioni o risposte comportamentali automatiche di cui l’individuo non è in grado di riconoscere consciamente l’origine. In seguito alla perdita di una persona cara, soprattutto se si tratta di una figura di attaccamento, la mente è costretta ad alterare profondamente la struttura dei suoi modelli operativi interni per adattarsi a una nuova dolorosa realtà, in cui al Sé viene a mancare una fonte di sicurezza e conforto. Esperienze di perdita possono avere un forte impatto sullo sviluppo della mente; la natura e l’entità degli effetti negativi può variare a seconda dell’età del bambino, e della capacità dell’ambiente familiare di sopperire ai suoi bisogni di attaccamento. Nel bambino, come nell’adulto, per riuscire a gestire la sofferenza generata da un lutto può essere necessario molto tempo; una periodica rivisitazione dell’esperienza gli può inoltre consentire di utilizzare nei processi di elaborazione della perdita nuove capacità, che emergono progressivamente nel corso dello sviluppo. Se il bambino non è in grado 69
P. DI MARTINO, Criminologia. Analisi interdisciplinare della complessità del crimine, Edizioni Giuridiche Simone, Napoli, 2009, p. 114. 70 D. W. WINNICOTT, Il bambino deprivato. Le origini della tendenza antisociale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1984, p. 6. 71 J. BOWLBY, 1983, op. cit., p. 20.
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di modificare i suoi modelli di attaccamento, tali processi di elaborazione possono essere gravemente ostacolati o compromessi dando origine a quadri patologici. Situazioni di questo tipo possono essere favorite da ambienti familiari caratterizzati da una generale incapacità di comunicare a livello emotivo, che non permettono al bambino di condividere il suo dolore con altri, o dalla presenza di sentimenti e modelli mentali conflittuali nei confronti della persona scomparsa.72
Il lutto è indice di maturità nell’individuo. Il meccanismo del lutto è complesso e comprende le seguenti fasi: un individuo che ha subìto la perdita di un oggetto, lo introietta e l’oggetto è sottoposto all’odio all’interno dell’Io. Clinicamente c’è uno stato variabile di morte dell’oggetto introiettato a seconda che, in un particolare momento, questo oggetto sia più odiato o più amato. Nel corso del lutto l’individuo può essere temporaneamente felice. E’ come se l’oggetto fosse tornato in vita perché è tornato in vita dentro all’individuo, ma l’odio sta crescendo e, prima o poi, ritorna la depressione, talvolta senza una causa apparente e talvolta per fatti casuali o per anniversari che richiamano la relazione con l’oggetto e riaccentuano il fallimento dell’oggetto determinato dalla sua scomparsa. Con l’andar del tempo, in condizioni di salute, l’oggetto interiorizzato comincia a liberarsi dall’odio che in un primo momento è molto forte e l’individuo riacquista la capacità di essere felice nonostante la perdita dell’oggetto e grazie al fatto che questo torna ad essere vivo nel suo Io.73 Non è possibile per un bambino che non ha raggiunto un certo grado di maturità conformarsi a un processo così complesso, e anche per l’individuo che ha raggiunto questo grado sono necessarie certe condizioni per superare il processo di lutto. Mentre il processo ha luogo, l’ambiente deve offrire un sostegno e inoltre l’individuo deve essere libero dal tipo di atteggiamento che rende impossibile la tristezza.74 La convinzione che il dolore in un bambino piccolo sia di breve durata è in assoluto un’illusione che ha potuto nascere e persistere a causa del desiderio insito in noi che il bambino non debba soffrire.75 Importante e significativa è una frase di John Milton76, il quale sosteneva: “Così dite addio alla speranza, e con essa direte addio alla paura”.
72
D. J. SIEGEL, op. cit., p. 287. D. W. WINNICOTT, op. cit., p. 168. 74 Ibidem. 75 J. BOWLBY, 1983, op. cit., p. 21. 73
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Il distacco è inteso come un periodo di tempo in cui un bambino non ha passato una settimana o più lontano dalle cure materne, senza fruire delle cure di una figura sostitutiva che si sia assunta uno specifico compito in tal senso. La fase in questione è caratterizzata da una pressoché totale assenza di comportamento di attaccamento nei primi tempi in cui il bambino viene ricongiunto con la madre. In un bambino in tenera età, un’esperienza di separazione dalla figura materna, o la sua perdita, crea in modo specifico una disposizione all’instaurarsi di processi la cui natura è fondamentale sotto il profilo psicopatologico.77 Come abbiamo già visto, la sicurezza nel contesto familiare è molto importante e può essere ricondotta a John Bowlby e alla struttura della teoria dell’attaccamento dove i legami affettivi che si stabiliscono tra i membri della famiglia possono durare per tutta la vita e contribuire così a produrre un senso costante di sicurezza e a fornire una fonte continua di cure e interesse.78 Il principio generale del “prima la sicurezza poi l’esplorazione” sostiene che, in situazioni di potenziale minaccia, il bambino smette di esplorare il mondo esterno e cerca la vicinanza del genitore o, in assenza di questi, di un’altra figura di attaccamento. Una figura di attaccamento deve poter affrontare con successo ogni potenziale pericolo oppure essere in grado di uscire dalla zona di pericolo.79 Ecco alcune situazioni familiari che minacciano la sicurezza:80
Possiamo trovare una madre che minaccia di non amare il bambino, usando questa minaccia come mezzo per controllarlo. E’ facile per una madre dire a un bambino che non lo amerà se si comporterà in quel modo e in quell’altro. Ciò che questo significa è che la madre sta minacciando di non fornirgli affetto o conforto nei momenti in cui il bambino è sconvolto, terrorizzato o sofferente, e di non fornirgli aiuto o incoraggiamento in altri momenti. Se tali minacce vengono usate da un genitore o da entrambi, il bambino cresce inevitabilmente ansioso di compiacere e prono ai sensi di colpa.
76
John Milton è stato uno scrittore e poeta inglese. Rivista Psicobiettivo, A. CANEVARO, Lutto e sistema familiare. Un approccio trigenerazionale, 2009. 77 J. BOWLBY, 2003, op. cit., p. 34. 78 J. BYNG-HALL, op. cit., p. 30. 79 Ivi, p. 31. 80 J. BOWLBY, 2003, op. cit., p. 142.
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Se invece la madre minaccia di abbandonare il bambino, ci troviamo ad un grado di minaccia molto più spaventosa per il bambino rispetto a quelle di non amarlo. Ciò è particolarmente vero se il genitore agisce la minaccia, per esempio scomparendo per alcune ore o facendo la valigia del bambino e accompagnandolo nella strada, asserendo di portarlo a casa dei bambini cattivi. Per questi bambini, una singola frase generica che alluda a quel gesto genera angoscia di separazione81. Talvolta un genitore sconvolto minaccia di suicidarsi se qualche situazione tormentosa dovesse continuare. Questo può accadere nel corso di un litigio tra i genitori, che il bambino ascolta di nascosto, o può essere una minaccia diretta al bambino stesso. In ogni caso tali minacce infondono terrore. Inevitabilmente gli eventi che hanno esercitato un’influenza sui primi due o tre anni di vita di un individuo, o non sono mai stati registrati nella sua memoria oppure egli non è in grado di ricordarli.82 Può anche capitare che se una madre, a causa di esperienze negative nella propria infanzia, cresce sviluppando un’angoscia di attaccamento tenderà con più probabilità a cercare di essere accudita e di ricevere cure dai suoi stessi figli, inducendo il figlio stesso a diventare angosciato, pieno di sensi di colpa e forse anche fobico.83 Non c’è da meravigliarsi neanche del fatto che, quando il figlio non riesce ad adempiere a questo compito e inizia a piangere, richiedendo cure e attenzioni, questo tipo di madre diventi impaziente e si arrabbi con lui.84 Una madre che da bambina è stata trascurata e ha subìto frequenti e gravi minacce di abbandono o di percosse è più incline di altre a maltrattare fisicamente il figlio, col risultato di indurre sullo sviluppo della personalità del figlio quegli effetti avversi.85
Bowlby sosteneva che, gli studi sulla psichiatria del bambino e della famiglia, hanno confermato che moltissime deficienze psichiatriche sono dovute a cure materne insufficienti o perturbate.86 Questo succedersi di fasi non è limitato alle situazioni di perdita permanente. Anche brevi separazioni sono sufficienti per produrre queste modalità di risposta sia nel partner che nei bambini che vengono allontanati dalla madre. 81
E’ una manifestazione spontanea che i bambini mostrano in assenza della madre. J. BOWLBY, 2003, op. cit., p. 145. 83 Ivi, p. 35. 84 Ivi, p. 82. 85 Ivi, p. 35. 86 D. ANZIEU, J. BOWLBY, R. CHAUVIN, F. DUYCKAERTS, H. H. F. HARLOW, C. KOUPERNIK, S. LEBOVICI, K. LORENZ, PH. MALRIEU, R. A. SPITZ, D. WIDLOCHER, R. ZAZZO, op. cit., p. 90. 82
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In caso di lutto, di divorzio o di abbandono da parte di un coniuge, tuttavia, questa sequenza ha una durata di otto mesi, un anno. Le separazioni e la rottura dei legami, hanno tuttavia un così devastante effetto sulla salute psichica e fisica solo se le relazioni si sono già strutturate come legami di attaccamento. Una privazione precoce della madre ha conseguenze a lungo termine sullo sviluppo di un bambino solo se avviene dopo che il legame tra bambino e la madre si è stabilito, ovvero solo dopo l’ottavo, dodicesimo mese di vita, periodo in cui avviene l’imprinting87 filiale e quella madre è stata riconosciuta come la madre. Prima degli otto mesi di vita, invece, le separazioni non determinano esiti inadeguati a lungo termine.88 Non dimentichiamo che la prima separazione dalla madre può essere ritenuta alla base della vita psichica individuale. Secondo Winnicott89, figura di primo piano nel campo della psicoanalisi, il bambino deprivato è una persona malata, una persona la cui storia passata è stata tutta un’esperienza traumatica e che ha un modo personale di far fronte alle angosce insorte; ma è anche una persona con una capacità di recupero più o meno grande, a seconda del grado di perdita della consapevolezza dell’odio giustificato e della primaria capacità di amare.90 Ritornando a Bowlby, le reazioni alla separazione si articolano in una sequenza costituita da tre fasi: la protesta, la disperazione e il distacco.91 •
La protesta è caratterizzata da agitazione, grida, pianto, iperattività, urla,
resistenza all’offerta di conforto da parte degli altri, ansia estrema e panico. •
La disperazione invece nasce quando la protesta si protrae nel tempo
rivelandosi inutile. Si ha così un periodo di letargia, inattività, depressione, alterazioni 87
E’ un termine coniato da Konrad Lorenz durante i suoi esperimenti sull’oca Martina. Da qui l’imprinting ad indicare una figura specifica che lascia la sua impronta nei piccoli e che viene riconosciuta, in maniera inconsapevole e incontrollata, come madre. Una volta verificatasi questa sorta di apprendimento, è difficile che un cucciolo riesca ad instaurare un legame affettivo con qualcun altro. G. ATTILI, op. cit., p. 22. 88 Ivi, p. 95. 89 D. W. Winnicott (1896-1971), figura di primo piano nel campo della psicoanalisi, è noto soprattutto per la sua estesa esperienza clinica con bambini e adolescenti. Specializzandosi in pediatria, lavorò per quarant’anni presso l’ospedale pediatrico di Paddington Green a Londra. Nel 1923 iniziò la sua preparazione psicoanalitica, divenendo nel 1956 presidente della British Psycho-Analytical Society. Tra le sue opere tradotte in lingua italiana ricordiamo, fra le più importanti, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Gioco e realtà, Sviluppo affettivo e ambiente. 90 D. W. WINNICOTT, op. cit., p. 225. 91 G. ATTILI, op. cit., pp. 93-94.
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fisiologiche quali disturbi del sonno, alterazioni del comportamento alimentare, diarrea, elevata conduttività cutanea, battito cardiaco accelerato. Si arriva alla consapevolezza che la perdita è irreparabile. •
Il distacco si verifica col tempo; ci si allontana emozionalmente dalla figura di
attaccamento perduta, come se la separazione fosse stata accettata e ci si fosse resi conto che non c’è niente da fare, che la situazione è al di fuori di qualsiasi controllo personale. Nel caso la persona sia morta, l’amore per essa permane, ma l’individuo comincia a riorganizzarsi emozionalmente, a riprendere le attività normali e a funzionare come faceva prima della perdita.
Questo succedersi di fasi non è limitato alle situazioni di perdita permanente. Anche brevi separazioni sono sufficienti per produrre queste modalità di risposta sia nei partner che nei bambini che vengono allontanati dalla madre. In caso di lutto o di abbandono da parte di un coniuge, tuttavia, questa sequenza ha una durata di otto mesi, un anno. Winnicott conferma in parte il pensiero di Bowlby. Winnicott sosteneva provocatoriamente, in una riunione della Società psicoanalitica, che “il neonato non esiste”, ma esiste una relazione tra il lattante e la madre, che gli fa da ambiente: “all’inizio il bambino è l’ambiente e l’ambiente è il bambino”, perché a suo parere, quando si parla di un lattante, ci si trova in realtà sempre in presenza di una coppia madre che allatta-lattante.92 E’ la madre infatti che fornisce le esperienze che permetteranno al sé nascente del bambino di emergere dalla non-integrazione, ad organizzare l’esperienza del bambino e la percezione che essa ha dei suoi bisogni. In seguito la madre può progressivamente smettere di dar forma al mondo secondo i desideri del bambino dando modo così al figlio di venire gradualmente a patti con la realtà e quindi con i limiti della sua capacità di creare. La madre può così allentare la sua preoccupazione materna e dar voce ad altre parti di sé, limitandosi ad accogliere e a rispondere ai segnali che il figlio le invia essendo ormai capace di esprimerli. Il bambino da parte sua riesce a far fronte al venir meno progressivo della madre per il manifestarsi di una spinta interna in direzione della separazione. Così i loro rapporti 92
D. W. WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando Editore, Roma, 1970, p. 68.
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sono attraversati sia dalla separazione sia da un’interazione sempre maggiore. Si delinea quindi la separazione come scambio arricchente, come perdita che paradossalmente unisce: “la separazione che non è una separazione ma una forma di unione”.93
4.
La famiglia problematica
L’infanzia costituisce l’elemento più importante della vita dell’adulto: l’elemento costruttore. Il bene o il male dell’uomo nell’età matura è strettamente legato alla vita infantile da cui ebbe origine. Sull’infanzia ricadranno tutti gli errori dei genitori e su di essa si ripercuoteranno in modo indelebile. I genitori moriranno ma i figli soffriranno le conseguenze del male che avrà deformato il loro spirito per sempre. Il ciclo è continuo, né può essere interrotto. Toccare il bambino vuol dire toccare il punto più sensibile di un tutto, toccare il punto più delicato e vitale, dove tutto si può decidere e rinnovare, dove tutto ridonda di vita, in cui si trovano chiusi i segreti dell’anima, perché lì si elabora l’educazione dell’uomo.94 Il capitolo inizia spiegando l’aspetto positivo della famiglia finalizzata allo sviluppo della personalità di ogni individuo. Che questo sia fondamentale è innegabile ma, purtroppo, esistono situazioni in cui la famiglia non è solo il luogo dell’amore, della solidarietà ed occasione creativa di maturazione emotiva e sociale. La famiglia è anche luogo di sofferenza, tragedia ed occasione di omicidi di sangue efferati, crudeli ed apparentemente immotivati. In famiglia sono diversi i tipi di omicidi che si possono verificare: dall’uccisione dei genitori, all’infanticidio, il fratricidio, il parricidio95, il 93
D. W. WINNICOTT, Gioco e realtà, Armando Armando Editore, Roma, 1974, p. 169. M. MONTESSORI, Il segreto dell’infanzia, Garzanti Editore, Milano, 1950, p. XIII. 95 Il termine parricidio denota lessicalmente l’omicidio del padre (lat. pater) e costituisce da sempre un reato molto grave poiché, fino a tempi relativamente recenti, al padre era attribuito un ruolo di predominanza sugli altri membri della famiglia. Anche se tale potere è stato attenuato nel corso del tempo, il reato rimane un fatto grave a causa dell’intensità del legame familiare esistente tra l’omicida e la vittima. Fin ad un passato relativamente recente il parricidio riguardava esclusivamente l’omicidio dei genitori o degli ascendenti; il termine denota ora l’omicidio sia dei discendenti che di qualunque ascendente. L’ordinamento ritiene particolarmente grave l’illecito contro la vita e l’incolumità personale compiuto all’interno dei rapporti familiari in quanto tali rapporti dovrebbero essere incentrati sulla collaborazione e la solidarietà reciproca e non sulla violenza. Il superamento dei freni inibitori inerenti al naturale rispetto che solitamente lega i membri della propria famiglia soprattutto in linea retta, viene ritenuto un fattore criminogeno molto rilevante. Inoltre, l’omicidio che si realizza all’interno del nucleo familiare è connotato di una forte riprovazione sociale. Ai sensi degli artt. 575 e 577 c.p. si applica la pena dell’ergastolo a chiunque cagiona volontariamente la morte di un ascendente o di un discendente. 94
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figlicidio, l’uxoricidio, il matricidio.96 La violenza è un fenomeno insito nella natura umana e quindi nella storia che accompagna le vicende dell’uomo. La violenza non è altro che la concretizzazione dell’aggressività che si determina per torti subìti, per l’impossibilità di far valere i propri diritti, per l’incapacità di sopportare le frustrazioni, per l’incapacità di tener conto del principio di realtà, per paura di sentirsi negati nella propria identità.97 La scelta del crimine è spesso una modalità per rendere, attraverso azioni eccezionali, più evidenti i messaggi, più forti e incisivi gli effetti anticipati a livello latente o consapevole.98 L’azione violenta può costruirsi come unica possibilità di sblocco, come unica, estrema soluzione a un processo vissuto in termini di ineluttabilità. La disgregazione della famiglia è senza’altro un fattore che facilita l’emergere di una situazione deviante, ma non ne è il presupposto necessario e assoluto. Molti ragazzi che provengono da famiglie fortemente conflittuali riescono comunque a costruirsi una personalità stabile. La figura genitoriale corrisponde al modello psicologico che i bambini si costruiscono nel contatto quotidiano con i loro genitori. Essa rappresenta nella loro mente nient’altro che l’introiezione degli aspetti della personalità di quelle figure che più sono decisive per l’identificazione e per la costruzione della propria personalità. In altri termini, il bambino si trova a doversi misurare in ambito familiare con persone che interagiscono con lui nei modi più diversi e nelle situazioni più differenti. Il bambino li osserva, ne valuta il comportamento, vive sulla propria pelle le loro azioni e lentamente si costruisce delle figure di riferimento che identifica nel padre e nella madre. In realtà questa ideazione è particolarmente complessa perché mediata anche da adulti che interferiscono nel processo di crescita e che eventualmente sopperiscono a carenze insistenti nella famiglia d’origine. Il bambino vive un rapporto intenso con queste figure che egli stesso ha costruito: figure che non corrispondono realmente ai genitori ma a ciò che il bambino pensa che essi siano. Il superamento della fase adolescenziale dovrebbe corrispondere alla disgregazione delle figure genitoriali e all’instaurarsi di un rapporto autentico con il padre e la madre, vissuti ormai non per ciò
96
S. COSTANZO, Famiglie di sangue. Analisi dei reati in famiglia, FrancoAngeli Editore, Milano, 2003, p. 7. 97 Ivi p. 9. 98 G. DE LEO, P. PATRIZI, La spiegazione del crimine. Un approccio psicosociale alla criminalità, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 128.
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che sono apparsi durante l’infanzia ma per ciò che essi sono realmente.99 I genitori non sono i costruttori del bambino, ma i suoi custodi. Essi devono proteggerlo e curarlo in un senso profondo, come chi assume una missione sacra, che supera gli interessi e i concetti della vita esteriore. I genitori sono custodi super-naturali: per tale missione debbono purificare l’amore che la natura pose nei loro cuori e comprendere che questo amore è la parte cosciente di un sentimento più profondo, che non deve essere contaminato dall’egoismo e dall’inerzia.100 Importante è citare il libro di Morton Schatzman “La famiglia che uccide”101, nel quale è raccontata la storia di Daniel Paul Schreber, un eminente giudice tedesco che a quarantadue anni impazzì, guarì e otto anni e mezzo dopo impazzì nuovamente. Dei suoi due maschi, l’uno si suicidò e l’altro impazzì. Freud studiò e analizzò questo caso dedicandogli anche un suo famoso saggio “Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia”, in cui si sosteneva appunto che il suo fosse un disturbo paranoide e schizofrenico dovuto all’educazione infantile ferrea che gli aveva impartito il padre, mirante a rendere i bambini obbedienti e sottomessi agli adulti: gli adulti maschi devono avere il potere, la sessualità nei bambini e negli adolescenti deve essere repressa, i genitori, per quanto ignoranti o intolleranti che siano, devono sorvegliare la moralità dei figli fino ad un periodo che va dalla media alla tarda adolescenza; i bambini devono imparare a sottomettersi, spesso in modo acritico, alla volontà dei genitori. Tale storia è in parte una revisione del caso Schreber studiato da Freud e quindi della sua interpretazione della paranoia come negazione, conversione e proiezione dell’amore omosessuale per il genitore dello stesso sesso. Questa breve descrizione può essere utile a confermare quanto la famiglia sia fonte di sofferenza nella vita di un bambino influenzando anche la sua fase adolescenziale.
La trasgressività è una caratteristica universale dell’adolescenza, età in cui il rapporto con le regole educative e sociali viene rivisto e di norma messo in discussione; per questo è difficile capire fino a che punto può essere considerata espressione di un desiderio di crescita e di maggior autonomia e quando invece è un segnale di un disagio
99
F. BRUNO, M. MARAZZI, Inquietudine omicida. I serial killer: analisi di un fenomeno, Phoenix Editrice, Roma, 2000, pp. 97-98. 100 M. MONTESSORI, op. cit., p. 293. 101 M. SCHATZMAN, La famiglia che uccide, Feltrinelli Editore, Milano, 1973, pp. 9-10.
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individuale, familiare o sociale. Cogliere questa differenza è importante in quanto aiuta gli adulti ad assumere un atteggiamento più adeguato, a decidere quando punire, perdonare o negoziare.102 Analizzando il “processo della devianza”103 possiamo dire che quest’ultima viene considerata come una sorta di percorso, un processo organizzatore, piuttosto che l’effetto o il prodotto di fattore e cause antecedenti. Lo si può articolare in tre fasi distinte.
1.
La prima fase riguarda gli antecedenti storici della devianza, quindi le condizioni
iniziali, le carenze, le deprivazioni, i nodi problematici e talvolta patologici, che hanno avuto nell’individuo, nella famiglia e nel sociale, unità di analisi privilegiate e continue.
2.
La seconda fase delimita il periodo, in genere di breve durata e intenso, in cui
emerge la storia del soggetto, con particolare evidenza in età evolutiva, una crisi che si manifesta attraverso episodi agiti e percepiti come devianti.
3.
La terza fase è inquadrabile in termini di probabilità di stabilizzazione del
percorso deviante.
Mentre la storia antecedente fornisce indicatori complessi e aspecifici, e la fase critica costituisce una sfida intensa al processo ad assumere la forma della devianza, la fase della stabilizzazione, che può risultare tormentata e molto lunga nel tempo, sembra caratterizzata dalla tendenza ad usare la devianza come funzione selettiva per attrarre e orientare azioni e attribuzioni, per produrre interazioni collusive e complici, che possono dare luogo a progressivi irrigidimenti del processo, rendendo via via meno probabili alternative alla devianza e aperture ad altri percorsi di vita. Si pensa che famiglie disadattate generano figli disadattati, famiglie violente generano figli violenti e così via.104 Tale gioventù appare composta da ragazzi insicuri e fragili, i quali non dispongono di una struttura solida di personalità e, legati alle più diverse circostanze di un momento, si adeguano come camaleonti ad esse e così si
102
A. MAGGIOLINI, E. RIVA, Adolescenti trasgressivi. Le azioni devianti e le risposte degli adulti, FrancoAngeli Editore, Milano, 1999, p. 9. 103 G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., pp. 132/135. 104 S. COSTANZO, op. cit., p. 10.
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trasformano di volta in volta in un modo ad hoc rivelando la loro identità e recitando dei ruoli perfino incompatibili tra loro, nell’intraprendere il cammino dell’eccesso o del fallimento.105 Edonismo, potere e piacere sembrano essere i valori più condivisi e condivisibili e, l’individuo, privo di autogoverno, appare sempre di più disorientato, frammentato, incapace di trovare la forza di combattere e debole, spesso con forti crisi di identità, che possono riguardare sia l’identità di percezione che l’identità di pensiero. La prima concerne l’esperienza del soddisfacimento dei propri bisogni primari, che devono essere appagati nel migliore dei modi; la seconda, invece, riguarda la capacità soggettiva di connettere i vari pensieri tra loro.106 L’identità è ciò che l’individuo è, e possiamo assimilarla a una figura tridimensionale, i cui piani sono quello fisico, quello psichico e sociale.107 Può capitare ad ogni persona, giovane o adulto, che la propria coscienza non riesca più a distinguere gli stimoli che provengono dal mondo esterno da quelli che, invece, provengono dall’interno della psiche: ecco che dunque si materializza quella tipica confusione tra la percezione del mondo e la sua rappresentazione che viene stimolata dall’intensità dei desideri, dall’intensità dei ricordi e dal loro appagamento e dalla loro rappresentazione, che sfocia nella patologia.108 La personalità di un individuo dunque si costruisce in famiglia, attraverso i legami primari, e si differenzia grazie ad una serie di successive identificazioni significative. La mancanza di una guida pedagogica capace di trascinare, di coinvolgere e di entusiasmare, anche attraverso l’esempio, getta i nostri figli nella confusione. La società in cui viviamo è diventata una società senza carisma, senza padri, schiacciata da quell’angoscia di morte che ogni singolo individuo teme. Si assiste quindi ad un cambiamento che porta verso la solitudine e la fragilità dell’individuo separato non solo dalla famiglia ma da se stesso. L’essere umano, ad un certo punto, viene a trovarsi in una condizione di disorientamento poiché sente di non possedere alcun punto preciso di riferimento e diventa preda di quel caos psichico caratteristico, generato dall’assenza di autorità in ogni situazione umana e ad ogni livello.109 La famiglia esiste, e continuerà ad esistere, ma poiché oggi si assiste ad un dissennato ed egocentrico,
105
S. COSTANZO, op. cit., p. 21. Ivi, pp. 21-22. 107 L. VALLARIO, R. GIORGI, M. MARTORELLI, E. COZZI, Il rito del rischio nell’adolescenza, Edizioni Scientifiche Ma.Gi, Roma, 2005, p. 16. 108 S. COSTANZO, op. cit., p. 11. 109 Ivi, p. 22. 106
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costante e continuativo adattarsi degli individui che la compongono allo stile sociale del momento, ad un corrivo seguire l’effimero di moda, tale cosa finisce, però, con il produrre, mantenere e perpetuare una fragilità strutturale di fondo nella famiglia stessa che, purtroppo, determinerà sempre più danni nella struttura di personalità dei figli.110 Ogni essere umano, prima di essere se stesso è un figlio che nasce in una famiglia composta da almeno due genitori, e porta con sé le proprie radici e il nome della sua famiglia.111 Il senso della famiglia rappresenta la forza della nostra società, perché in essa l’essere umano impara a sentire profondamente che la propria esistenza, la vita di relazione ed i legami che si stabiliscono con gli altri esseri umani sono importanti ed hanno anche un grande valore teleologico quanto al proprio futuro.112 La famiglia può rappresentare la stabilità o al contrario la fonte di inquietudine. Generalmente quando si commette un fatto criminoso, la causa di ciò viene attribuita alla famiglia. Il figlio, dunque, è il protagonista della continuità e del divenire dell’identità della famiglia: egli ne è lo strumento ed insieme rappresenta e costituisce l’ideale biologica, concreta realizzazione della famiglia d’origine.113 Cosa bisogna fare per fare in modo che l’individuo cresca in un clima positivo improntato al rispetto di se stesso e degli altri? E’ necessario aiutare i giovani a superare l’indolenza, il più delle volte caratterizzata dalla passività, che si manifesta con crisi d’angoscia, perché non c’è stato adattamento all’interno della famiglia; con immaturità psicoaffettiva per eccessiva mancanza delle o per dipendenza delle figure familiari di riferimento; con inibizioni; con fobie di ogni genere; con tratti di personalità che riattivano l’immagini di bambini chiusi ed immaturi, oppure aiutare adulti schizoidi, che presentano gravi problemi di relazioni interpersonali, appare oggi pressante e di importanza vitale per la sopravvivenza stessa della civiltà.114 Aiutare i giovani a superare l’insofferenza il più delle volte caratterizzata dalla ribellione, che si manifesta, con atteggiamenti polemici ed aggressivi nei confronti degli adulti e di protesta nei confronti del mondo intero, in soggetti affetti da disturbi di personalità più o meno gravi, soggetti che esibiscono la loro devianza e che trovano perfino gratificante che l’adulto critichi i loro 110
S. COSTANZO, op. cit., p. 12. Ivi, p. 15. 112 Ivi, p. 16. 113 Ivi, p. 31. 114 Ivi, p. 110. 111
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comportamenti, anche imbrancandosi in bande, sotto la guida di un deviante dominante, oramai è improcrastinabile.115 E’ necessario ascoltare i giovani, come anche gli adulti, in quanto hanno un estremo bisogno di comunicare, di frequentare luoghi associativi, di esprimersi. Essendo isolati hanno un forte bisogno di stare insieme al gruppo, di socializzare, di sentirsi parte, protagonisti di qualcosa che non abbia etichette predeterminate, ma di cui si sentono partecipi.116 L’ascolto è una delle modalità più efficaci per entrare in rapporto con gli altri, per riuscire a comprenderli, per capire i messaggi che ci inviano anche al di là delle parole dette. Invece si parla molto con parole vuote, si fa chiasso senza comunicare niente di sé stessi, si parla di tutto per non mettersi in discussione, per evitare che la voce eloquente del silenzio dica molte più cose di quante ne vogliamo dire. La mancanza di ascolto porta ad un sicuro scacco relazionale, al fallimento del rapporto personale: non si può parlare con qualcuno senza avere la certezza di essere ascoltati. L’ascolto è testimonianza di disponibilità, di predisposizione alla comprensione e all’accettazione.117 In riferimento al carcere di Alghero, tutti i detenuti, in quanto persone, sentono l’esigenza di comunicare. Mi è capitato di percepire la loro voglia repressa di parlare con noi tirocinanti, con gli educatori o con gli agenti di polizia penitenziaria, a maggior ragione del fatto che sono impossibilitati a farlo con le persone care. Ogni persona, anche gli stessi compagni di cella, sono obiettivi di conversazione. L’ambiente ideale per la crescita dei figli è ritenuto universalmente essere quello tollerante, allegro, pieno di entusiasmo, stimolante dal punto di vista delle aspirazioni e dei progetti di vita, di una famiglia dove i membri di essa hanno la possibilità di vivere, agire, sbagliare, correggersi e apprendere in modo sereno, rispettoso dei problemi tipici dell’evoluzione che compie il minore con il passare degli anni, e che la madre natura ha fisiologicamente scadenzato in modo proprio ed adeguato. 118
115
S. COSTANZO, op. cit., p. 111. G. MANCA, Disagio, emarginazione e devianza nel mondo giovanile. Note per una riflessione educativa, Bulzoni Editore, Roma, 1999, p. 47. 117 G. MANCA, op. cit., pp. 47-48. 118 S. COSTANZO, op. cit., p. 112. 116
37
CAPITOLO 2
GIOVANI E ADULTI AUTORI DI REATO: I REATI DI RAPINA E OMICIDIO
1.
Il ruolo dei genitori: educarsi per educare
Etimologicamente “genitore” (dal latino “gigno” = genero, produco, metto al mondo, partorisco) è “colui che genera o ha generato” ovvero colui che ha prodotto. Se ci si riferisce al termine inglese “parenting” (da “to parent” = essere genitore, nel senso di adempiere ai doveri parentali ed eseguire i compiti parentali), la genitorialità può essere intesa come una funzione di tipo processuale, ovvero il processo di prendersi cura di un figlio, o meglio, l’insieme delle attività (nutrire, fornire affetto e protezione, educare ecc.) che un genitore mette in atto nei confronti del figlio (biologico e non biologico). La genitorialità, sebbene sia una fase normale della vita adulta, dunque, biologicamente fondata, culturalmente riconosciuta e socialmente sancita, costituisce tuttavia, una “sfida” per le persone, in quanto richiede un impegno attivo da parte dei protagonisti, e il modo con cui un individuo si adatta al ruolo di genitore e lo esercita concretamente è influenzato da una serie di fattori sia personali che ambientali.1 Si parla di cinque tipi di genitorialità2:
1
O. GRECO, R. MANIGLIO, Genitorialità. Profili psicologici, aspetti patologici e criteri di valutazione, FrancoAngeli Editore, Milano, 2009, pp. 7-8. 2 G. ROSSI (a cura di), Lezioni di sociologia della famiglia, Carocci, Roma, 2001, pp. 71/91.
38
1.
Genitorialità “differita”. E’ quella che ci permette di ribadire come il principio
del desiderio (e del piacere), pur avendo una grande influenza nella scelta del figlio, nel maggior numero delle esperienze di coppia, si integri con il senso di responsabilità nei confronti del nascituro. Per crescere un figlio sono necessarie varie risorse a livello economico, ma anche a livello di cure e disponibilità e che per essere buoni genitori c’è bisogno di una certa maturità individuale e di un buon affidamento di coppia.
2.
Genitorialità “a tutti i costi”. Una conseguenza dell’attuale sbilanciamento della
nostra cultura sul principio del desiderio è che se i figli devono venire solo quando sono desiderati, ogni figlio desiderato deve poi nascere.
3.
Genitorialità “interrotta”. Senza la pretesa di rendere di facile interpretazione un
fenomeno così controverso e drammatico come l’aborto dobbiamo comunque mettere in evidenza come esso al pari della fecondazione assistita, seppur di segno contrario, rappresenta il tentativo di controllare la procreazione seguendo il desiderio della coppia. Dal punto di vista delle relazioni familiari è possibile osservare che il ricorso all’aborto identifica una sorta di famiglia “interrotta”, in cui il mandato generazionale perde temporaneamente o definitivamente la sua forza e la relazione di coppia appare estremamente debole e problematica.
4.
Genitorialità “negata”. E’ difficile che la coppia faccia una scelta esplicita di
non avere figli sia prima che dopo il matrimonio. Il più delle volte diventa una scelta di fatto, conseguentemente ad una serie di rinvii motivati dall’attendere condizioni, personali e coppia, più adatte a non averne. I rischi a cui la coppia è sottoposta è quella di chiudersi in se stessa, in una sorta di autosufficienza.
5.
Genitorialità “adottiva”. Oltre al legittimo desiderio del figlio, in questa
genitorialità, è espressamente manifesta l’intenzione di presa in carico di un bambino in quanto bene in sé. Non a caso la parola adottare deriva dal latino ad optare che significa “desiderare per” qualcuno. Il progetto adottivo rispetto alle altre scelte genitoriali ha una maggiore forza di coinvolgimento della comunità sociale. Infatti, richiede di essere accolto non solo dalla coppia, ma anche dalla famiglia allargata, dal vicinato, dalla
39
scuola, dal gruppo sportivo ecc. Inoltre, perché venga realizzato nell’interesse del minore, non può essere tutelato da un istituto giuridico.
In una famiglia costituita da una diade di genitori e da un figlio, l’esercizio della potestà richiede una continua messa a punto, per cui i genitori si accordano sostanzialmente sui compiti per il mantenimento e sulle scelte educative. Essi si forniscono l’un l’altro un reciproco sostegno di fondo, anche di fronte ai tentativi del figlio
di
attentare
all’autorità
di
un
genitore
appellandosi
all’altro.3
Già
psicologicamente il potere dei genitori non è esente da gelosia, dalla gioia del dominio; e certi genitori arrivano a circondare il proprio bambino di un amore talmente avvolgente che distruggerà a poco a poco la sua autonomia personale e lo manterrà, attraverso l’estrema dolcezza, in loro balia. I genitori agiscono come vogliono, occorre che la situazione sia assai grave perché intervenga la società, la protezione sociale; il potere dei genitori tende ad essere a loro vantaggio, materiale e psicologico, mentre il bambino si abitua a vivere nelle gioie minute e nelle piccole rivolte della sottomissione.4 Secondo altre impostazioni teoriche, il miglior mezzo per educare i figli consiste nel trattarli in modo che diventino amici e compagni dei genitori, i quali a tale scopo li dovranno guidare con senno nei primi anni di vita, quando ancora sono freschi nella loro inattiva incoscienza. Si tenga bene a mente che i figli ereditano tracce incancellabili di virtù e imperfezioni, che genitori e figli, cioè il vecchio e il nuovo, debbono armonizzarsi e completarsi, per cui nell’educazione si dovrà fondere la severità con la dolcezza, la tradizione con il progresso. All’egoismo che è tanto più sviluppato nel bambino, quanto esso è più piccolo, i genitori debbono contrapporre l’abnegazione e l’indulgenza nei limiti concessi da una sana educazione.5 Prendersi cura di un figlio costituisce un complesso di attività finalizzate a promuovere e sostenere lo sviluppo psicofisico del bambino. Affinché si concretizzi un accrescimento sano, armonioso ed adeguato all’età è necessario che si realizzi un buon adattamento tra stadio di crescita e ambiente, tra esigenze del bambino e di abilità fisiche e psichiche da parte dei genitori che consentono loro di svolgere un insieme di
3
A. QUADRIO ARISTARCHI, L. VENINI ( a cura di), Genitori e figli nelle famiglie in crisi, Giuffrè Editore, Milano, 1992, p. 6. 4 G. SNYDERS, Non è facile amare i propri figli, La Nuova Italia, Firenze, 1985, p. 144. 5 G. GENOVESI, L’educazione dei figli. L’ottocento, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1999, p. 186.
40
compiti (nutrire, proteggere, dare affetto, conforto e sostegno emotivo, educare, insegnare, promuovere l’indipendenza e l’autonomia ecc) concreti, altamente specializzati e funzionali alla soddisfazione dei bisogni e degli obiettivi evolutivi correlati all’età del figlio.6 Quando qualcosa non funziona e la sintonia non si realizza, il bambino avvertirà un senso di confusione e disagio, sperimentando minor benessere dal momento in cui noi non gli facciamo da specchio.7 Molto spesso si accusano i genitori di non essere in grado di occuparsi dei figli, soprattutto in riferimento a statistiche che vedono i figli che entrano nel giro della droga o che si suicidano o che presentano disturbi emotivi gravi o invalidanti. Nessuno però ha mai pensato che è necessario aiutare i genitori a svolgere il loro “mestiere”, nessuno si prende cura di loro e del fatto che anche loro devono essere educati.8 “Mentre l’educazione di un figlio richiede in media dai quindici ai diciotto anni, l’educazione dei genitori può durare mezzo secolo e qualche volta di più”.9 Secondo Erikson, il bambino deve essere abituato fin dall’infanzia a partecipare responsabilmente alla società ed all’idea che i compiti che gli vengono proposti sono all’altezza delle sue capacità. Il contrasto con la nostra società è ben grande. Il bambino non partecipa affatto alla nostra società industriale tranne quando “fa il grande”; il lavoro non è allora misurato sulle sue forze e capacità, ma sul modello complicato dell’industria.10 “Anche quando a casa noi lodiamo il bambino per i suoi progressi, ci sentiamo offesi se tali lodi sono intese sullo stesso piano di quelle eventualmente rivolte agli adulti. Il bambino è lodato quando i genitori sono di buon umore, senza riguardo al fatto che egli abbia agito bene o no secondo criteri di giudizio validi per un adulto; il fanciullo non ha così alcun criterio fisso sul quale misurare i suoi progressi”.11 De Beauvoir12 sosteneva che “I figli non sono surrogati dell’amore; non costituiscono lo scopo di una vita spezzata; non sono un materiale destinato a riempire il vuoto della nostra vita; sono una responsabilità e un pesante dovere. Non sono né il 6
O. GRECO, R. MANIGLIO, op. cit., p. 41. J. PIAGET, La formazione del simbolo nel bambino, La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 19. 8 T. GORDON, Genitori efficaci. Educare figli responsabili, Edizioni La Meridiana Partenze, Bari, 1994, p. 15. 9 J. VON DEN BROUKE, Manuale a uso dei bambini che hanno genitori difficili, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1993, p. 19. 10 E. H. ERIKSON, Infanzia e società, Armando Armando Editore, Roma, 1972, p. 220. 11 Ibidem. 12 Simone de Beauvoir (Parigi, 9 Gennaio 1908 – Parigi, 14 Aprile 1986) è stata un’insegnante, scrittrice, saggista, filosofa e femminista francese. 7
41
trastullo dei genitori, né il compimento del loro bisogno di vivere, né succedanei delle loro ambizioni insoddisfatte. I figli sono l’impegno di formare degli esseri felici”.13 Analizziamo ora uno studio condotto in California, intorno agli anni ’80, denominato “Parent Effectiveness Training” (P.E.T), in Italia “Genitori Efficaci”. Attraverso questo studio si è voluto dimostrare che, con un certo tipo di addestramento molti genitori possono diventare più efficaci, possono acquisire alcune abilità specifiche per mantenere aperti i canali della comunicazione tra genitori e figli, possono apprendere un nuovo metodo per risolvere i conflitti tra genitori e figli per migliorare la relazione anziché deteriorarla. Questo programma ha permesso di capire che tra genitori e figli si può sviluppare un rapporto caldo e amorevole basato sul rispetto reciproco. Le punizioni non servono, o per lo meno, si possono evitare: i genitori possono crescere figli responsabili, autodisciplinati e collaborativi senza ricorrere all’arma della paura, possono imparare come influenzarli affinché rispettino i bisogni dei genitori spontaneamente, piuttosto che per paura della punizione o della privazione di determinate concessioni.14 Un genitore efficace è quello che si concede di essere una persona, una persona autentica. Dimenticare la propria umanità è il primo grave errore di chi diventa genitore. Per essere genitori efficaci, non c’è bisogno neppure di essere coerenti: non bisogna fingere accettazione o amore verso un figlio quando in realtà non si provano questi sentimenti. Come pure non è necessario provare lo stesso grado di amore e accettazione per tutti i propri figli. Non è necessario nemmeno che entrambi i genitori assumano lo stesso comportamento nei confronti dei figli; però è essenziale che imparino a conoscere i veri sentimenti.15 I genitori devono ricorrere al linguaggio dell’accettazione, quello che permette a un seme minuscolo di trasformarsi nel bel fiore che può diventare: una persona si sente accettata per quella che è, si sente libera di prendere in considerazione un possibile cambiamento, di pensare ad una possibile crescita, a cosa vorrebbe diventare, a come realizzare maggiormente il proprio potenziale. Il linguaggio della non-accettazione invece, tende ad allontanare i figli. Essi smettono di confidarsi con i genitori e imparano che è molto meglio tenere per sé i propri sentimenti e i propri problemi. Il linguaggio dell’accettazione, al contrario, rende
13
S. DE BEAUVOIR, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 304. T. GORDON, op. cit., pp. 15-16. 15 Ivi, p. 21. 14
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i figli più aperti e sereni, li fa sentire liberi di condividere sentimenti e problemi.16 L’ascolto attivo aiuta i figli a prendere coscienza dei propri sentimenti, ad avere meno paura delle emozioni negative, promuove l’intimità tra genitori e figli, facilita nel figlio il processo autonomo di soluzione dei problemi, rende il figlio più ricettivo rispetto alle idee e alle opinioni dei genitori, lascia condurre il gioco al figlio. L’ascolto attivo esige ovviamente che il genitore metta da parte i propri pensieri e sentimenti per concentrarsi elusivamente sul messaggio del figlio, costringe a una ricezione accurata: se il genitore vuole comprendere il vero significato che il figlio attribuisce al proprio messaggio, deve mettersi nei suoi panni, nel suo schema di riferimento, nel suo mondo. Solo allora potrà percepire il significato che il figlio intende dare al proprio messaggio.17 Il genitore, nell’ascoltare il proprio figlio, dovrà avere la capacità di distanziarsi dalla propria esperienza e, quindi, dalle proprie precomprensioni e pregiudizi, mettendo tra parentesi i propri schemi di riferimento e le proprie convinzioni personali, per incontrare l’altro nella sua unicità e irripetibilità, nella sua potenziale libertà di essere totalmente altro da me e dalle mie aspettative.18 Tra i genitori la domanda circa l’aver sbagliato o meno il proprio intervento educativo dovrebbe lasciare più opportunamente il posto a un altro tipo di quesito: “Ho raggiunto o meno l’obiettivo educativo che mi ero prefissato riguardo a mio figlio?” Ciò anche in considerazione che non si nasce genitori, ma lo si diventa strada facendo, imparando dall’esperienza, in una dinamica di conferma e di superamento di quanto si riteneva giusto in partenza, spesso anche in base alla tradizione socioculturale e familiare di appartenenza.19 E’ vero, i bambini imitano i genitori. Noi esseri umani siamo i campioni del regno animale dell’arte dell’imitazione: è necessario esserlo dal momento che tanta parte del nostro comportamento sociale deve essere appresa. Desideriamo che i nostri figli si comportino da bravi bambini, e i bravi bambini non si comportano come i grandi. L’imitazione dei genitori come mezzo di socializzazione non funziona e i bambini possono mettersi nei pasticci imitando i genitori nel caso che questi non siano membri normali della società. Potrebbero essere individui eccentrici o alcolizzati o criminali. O semplicemente degli immigrati, non al corrente delle regole di
16
T. GORDON, op. cit., pp. 28-29. Ivi, pp. 41-42. 18 R. BACH, Il gabbiano Jonathan Livingston, BUR, Milano, 1977, pp. 14-15. 19 A. ADLER, Psicologia dell’educazione, Newton Compton, Roma, 1982, pp. 191-192. 17
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comportamento sociale vigenti. Quando i bambini imitano i genitori non lo fanno ciecamente: lo fanno con cautela. Lo fanno quando ritengono che il genitore si stia comportando in modo normale o tipico, cioè come si comportano gli altri individui della società.20 Molti genitori pensano che il proprio figlio abbia commesso dei reati solo ed esclusivamente a causa delle cattive compagnie, ignorando l’influenza che potrebbe avere in contesto familiare. La società e l’ambiente di appartenenza, è vero, condizionano la nostra vita e quando le amicizie vivono in funzione di atti delinquenziali, a quel punto starà al soggetto cercare di discostarsi da quell’ambiente, altrimenti correrà il rischio di cadere in facili tranelli. E’ importante che gli adulti che si occupano di adolescenti condividano l’opinione che il comportamento trasgressivo è una forma di comunicazione e una manifestazione di intenzioni, anche non consapevoli, ed intendano fornire risposte a questa comunicazione. Tanto più l’intervento degli adulti è precoce, tanto più è essenziale comprendere il significato simbolico del gesto deviante.21 Generalmente, gli adulti possono rispondere principalmente in quattro modi: attraverso la logica del controlli e sanzione, che trova nel sistema penale il suo rappresentante istituzionale per eccellenza; la logica sociale, che considera la trasgressione effetto del disagio sociale ed individua nei servizi socio-assistenziali l’istituzione di riferimento per l’intervento; la logica educativa, che trova nella famiglia e nella scuola i propri ambiti primari di espressione; infine la logica terapeutica, per la quale la trasgressione esprime una sofferenza psichica che può essere oggetto di cura. Non esiste però una risposta univoca che si possa considerare per sé adeguata ad affrontare
la questione della
devianza in
adolescenza.22
Un
atteggiamento
democraticamente autorevole, opposto sia a quello autoritario che a quello permissivo, sembra dunque l’auspicabile ingrediente di una relazione educativa efficace. Una buona integrazione tra funzioni affettive ed etico-normative ha quindi maggiori probabilità di garantire l’equilibrio tra un’immagine positiva di sé e un’immagine positiva degli altri.23 Ricordiamoci che più un ragazzo è maturo e più sarà facile chiarire verbalmente
20
J. R. HARRIS, Non è colpa dei genitori. La nuova teoria dell’educazione: perché i figli imparano più dai coetanei che dalla famiglia, Saggi Mondadori, Milano, 1998, pp. 182/184. 21 A. MAGGIOLINI, E. RIVA, Adolescenti trasgressivi. Le azioni devianti e le risposte degli adulti, FrancoAngeli Editore, Milano, 1999, p. 123. 22 Ivi, p. 125. 23 A. MAGGIOLINI, E. RIVA, op. cit., pp. 126-127.
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la questione, mentre con un ragazzo fragile e immaturo, anche se più grande, sarà necessario analizzare i bisogni e i conflitti evolutivi che motivano l’aggressione ed aiutarlo ad affrontarli. Anche il “dosaggio” di protezione e controlli necessariamente cambia con l’età.24 Il vero deterrente alla trasgressione è la comprensione empatica, cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altro. L’attitudine del genitore ad interpretare e comprendere l’esigenze del figlio, oltre ad essere la guida migliore ad individuare risposte educative, fonda la possibilità per il figlio di interiorizzare tale attitudine e diventare a sua volta capace di capire se stesso e i propri bisogni, simbolizzandoli invece di agire impulsivamente. La comprensione delle esigenze evolutive, ossia l’attenzione ai bisogni emotivi dei figli e il rispetto dei loro diritti, rappresentano così la prevenzione più efficace della trasgressività, poiché insegnano al figlio a rispettare se stesso e gli altri. Bambini e adolescenti rispettati con ogni probabilità saranno in grado di rispettare a loro volta gli altri.25 Carezze e coccole rappresentano un alimento vitale per lo sviluppo fisico e psichico di tutti; ma è in famiglia che trovano la loro espressione più naturale.26 Responsabilizzare, diversamente dal colpevolizzare, riconosce la capacità e implica la speranza: favorisce quindi, pur in presenza di un atto trasgressivo, il mantenimento di un’immagine positiva delle proprie potenzialità e delle proprie capacità riparative; in questo senso la risposta degli adulti alle azioni trasgressive dovrebbe essere una risposta che si assume responsabilità nello stesso momento in cui invita ad assumerle.27 E’ necessario ricordare che il bambino quando nasce ha diritto alla felicità.28 E’ necessario che i figli abbiano sempre la sensazione che in casa regnano amore e rispetto e che quelle scenate non sono che episodi marginali. Ma spesso la causa involontaria di quei litigi fra coniugi è il bambino, che si vuole educare secondo stili diversi e addirittura contrastanti. Poiché l’opera educativa riesca occorre una concorde collaborazione fra i coniugi.29
24
A. MAGGIOLINI, E. RIVA, op. cit., p. 129. Ivi, p.134. 26 C. COLLANGE, Una famiglia su misura. Le forme di una istituzione attualissima per genitori, figli e coppie di ogni tipo, Bompiani Editore, Milano, 1994, p. 80. 27 Ivi, p. 184. 28 M. LODI, Cominciare dal bambino. Scritti didattici, pedagogici e teorici, Einaudi Editore, Torino, 1977, p. 153. 29 A. DELLA TORRE, Gli errori dei genitori, Editori Riuniti, Roma, 1971, pp. 43-44. 25
45
1.1
Le emozioni
Sulla base di questi tipi di relazioni che il bambino fin da piccolo instaura con la madre derivano le emozioni che poi, una volta adulto, l’individuo può sperimentare nei confronti di se stesso e degli altri. Già nell’attaccamento, di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, non si fa solo riferimento ad una speciale relazione tra bambino e caregiver30 ma anche ad un costrutto intrinsecamente emozionale. Non solo implica un legame affettivo tra il genitore e il bambino, ma è anche propriamente caratterizzato in termini di regolazione dell’emozione del bambino. Di fatto rappresenta l’apice della regolazione emozionale diadica, il culmine di tutto lo sviluppo del primo anno e il messaggero dell’autoregolazione a venire.31 C’è chi, come Laborit32, si domanda se “un enfant qui vient de naître, peut-il eprouver des émotions?”33, proponendo alla domanda una risposta negativa: se dimentichiamo di dargli da mangiare all’orario previsto, il neonato piangerà e urlerà se qualcuno gli farà del male, ma si tratta di reazioni “primitive” che denunciano semplicemente la perdita della omeostasi del suo organismo. Per provare un’emozione è necessaria, secondo Laborit, una consapevolezza di sé comprensiva dell’aver già sperimentato ciò che è positivo o negativo, ciò che procura piacere o dolore. L’esperienza attuale deve poter essere confrontata con un’esperienza precedente che viene riportata alla memoria non tanto nei suoi contenuti oggettivi, ma piuttosto nella “sensation globale” che ce n’era derivata allora, al suo primo presentarsi. Dunque siamo in grado di provare emozioni se e quando disponiamo, nel nostro repertorio biologicoesistenziale, di una “memoria affettiva”. In forza d tale memoria si instaurano nell’organismo umano nuovi bisogni che, a differenza di quelli fondamentali, sono acquisiti e non istintivi ma, come questi ultimi, diventano necessari all’equilibrio biologico perché trasformano l’ambiente circostante o l’azione umana su questo 30
Il caregiver è quella figura di riferimento che si prende cura di un’altra persona. L. A. SROUFE, Lo sviluppo delle emozioni. I primi anni di vita, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 273. 32 Henri Laborit (Hanoi, 21 Novembre 1914 – Parigi, 18 Maggio 1995) è stato un biologo, un filosofo ed un etologo francese. Si deve a Laborit l’introduzione della clorpromazina che nel 1952 fu il primo farmaco neurolettico usato per il trattamento della schizofrenia. Prima ancora, nel 1951, si era dedicato alla studio sull’ibernazione. 33 H. LABORIT, L’inhibition de l’action, Masson, Paris, 1962, p. 46. 31
46
ambiente in modo che un minor sforzo energetico diventi sufficiente per mantenere l’omeostasi.34 Le emozioni sono dei segnali interni ed esterni che rilevano dei cambiamenti delle condizioni del contesto in cui il soggetto si trova inserito e favoriscono l’adozione delle risposte comportamentali per far fronte a tale variazione.35 Generalmente sono considerate delle pulsioni che difficilmente possiamo controllare, ma la psicologia ci ha insegnato che, al contrario, le emozioni possono essere regolate attraverso i cosiddetti MOI (Modelli Operativi Interni) che mediano la strutturazione delle rappresentazioni di sé e degli altri. Secondo la teoria dell’attaccamento, la costruzione di Modelli Operativi Interni è influenzata da almeno due fattori: la quantità di tensione alla quale viene sottoposto il sistema comportamentale di attaccamento, e la disponibilità delle figure di attaccamento ad alleviare questi lati di tensione.36 La sicurezza che deriva dai modelli operativi interni favorisce una dinamica interattiva funzionale anche nelle situazioni di stress mentre un attaccamento insicuro predilige livelli di ansia, depressione ed emozioni negative nelle situazioni conflittuali durante l’adolescenza, accompagnate da strategie di coping37 orientate alla continua ricerca di supporto e all’evitamento.38 Le concettualizzazioni classiche (i modelli animali o quelli psicoanalitici) vedono nel coping un insieme di strategie elicitate dall’emozione. Questa impostazione ha spinto i ricercatori a ipotizzare due meccanismi tramite i quali l’insorgere di un’emozione può avere effetti sul comportamento:
34
H. LABORIT, La colomba assassinata, Edizioni Mondadori, Milano, 1985, p. 38. A. UCCULA (a cura di), Rischi e risorse nelle scelte. Adolescenti e processi formativi nella scuola, Edes Editrice, Sassari, 2008, pp. 56-57. 36 R. CASSIBBA, L. D’ODORICO, La valutazione dell’attaccamento nella prima infanzia. L’adattamento italiano dell’Attachement Q-SORT (AQS) di Everett Waters, FrancoAngeli Editore, Milano, 2000, p. 16. 37 Il concetto di coping, dal verbo to cope che significa “far fronte”, è stato proposto negli anni ‘60 da alcuni studiosi delle emozioni, che cominciarono a guardare a quella dimensione attiva del soggetto a lungo ignorata dalla psicologia. Il coping è quell’attività che coinvolge tutta la sfera cognitiva, quanto quella emozionale-affettiva, quanto l’abito meramente pratico; è quell’insieme di processi che vengono messi in atto per far fronte alla situazione, quell’insieme di attività operative e di processi psicologici attraverso i quali un soggetto affronta un evento critico, una difficoltà, cercando di risolverlo o quanto meno cercando di limitarne gli eventuali effetti negativi. G. LAVANCO, Psicologia dei disastri. Comunità e globalizzazione della paura, FrancoAngeli Editore, Milano, 2003, pp. 133/134. 38 M. A. REDA, Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia, Carocci Editore, Roma, 1986, p. 40. 35
47
•
meccanismo motivazionale: in presenza di uno stimolo la reazione emozionale sposta le risorse attenzionali dal compito che si stava seguendo alla situazione d’emergenza (emozionale).
•
meccanismo di interferenza cognitiva: pensieri ansiogeni o legati ad uno stato emozionale, ma irrilevanti rispetto al compito, interferiscono con il funzionamento ottimale e quindi con la sua esecuzione. Secondo Lazarus39 questi due meccanismi moderatori sono tuttavia insufficienti a
spiegare la complessa relazione tra emozione e coping. I modelli classici sono infatti essenzialmente unidirezionali: l’emozione influisce sul coping o facilitandolo (meccanismo motivazionale) o inibendolo (meccanismo di interferenza cognitiva). Secondo Lazarus, al contrario, la relazione fra emozione e coping è circolare, nel senso che entrambi i processi si influenzano reciprocamente.40 Ritornando al concetto delle emozioni base, diciamo che sono connesse alle modalità di attaccamento e possono essere positive in caso di attaccamento soddisfacente (gioia, piacere, senso di sicurezza) o negative se l’attaccamento è difficile (ansia, rabbia, gelosia) e in caso di perdita (tristezza, depressione).41 Le emozioni sono una parte essenziale nella vita, non qualcosa di patologico o pericoloso. Ci sono casi in cui i figli non vogliono parlare dei propri sentimenti nemmeno a chi vuol prestare orecchio in modo empatico. Potrebbero aver bisogno di convivere con i propri sentimenti per un po’, potrebbero trovare troppo doloroso parlare in certi momenti, potrebbero non avere il tempo di intrattenersi con i genitori: i genitori dovrebbero rispettare il bisogno di privacy dei figli e non insistere affinché parlino.42 Ciascuno di noi ha in sé una “bussola” che lo aiuta a riconoscersi ed a orientarsi nelle diverse situazioni. Non sempre tale strumento funziona nel modo più adeguato. Proprio all’interno della nostra visione delle emozioni come bussola della nostra vita, ciascuna di esse sarà adeguata o meno se presa in considerazione di una determinata.43 Esistono 39
Richard S. Lazarus (New York, 3 Marzo 1922 – California, 24 Novembre 2002) dominò la psicologia soprattutto per quanto riguarda il comportamento umano e la teoria cognitivo-motivazionale dell’emozione. 40 R. S. LAZARUS, Psychological Stress and the Coping Process, McGraw-Hill, New York, 1966. 41 M. A. REDA, op. cit., p. 40. 42 T. GORDON, op. cit., pp. 56-57. 43 I. STEWART, V. JOINES, L’analisi transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Milano, 1990, pp. 274/276.
48
diversi tipi di emozioni, positive o negative, generate dal pensiero delle cose buone o cattive che ci sono accadute o che ci accadranno, come la gioia, il dolore, con le loro sottospecie e varietà. Freud parlando di tristezza sosteneva che la persona che sperimenta tale stato d’animo sta percependo la perdita di qualcuno/qualcosa di importante, una perdita sperimentata come incontrovertibile, davanti alla quale è richiesta l’elaborazione del lutto verso lo stabilirsi della rassegnazione che, collocando l’esperienza in questione decisamente nel passato, apra alla possibilità di voltar pagina e aprirsi a un futuro nuovo e carico di promesse ulteriori.44 Diciamo che non esistono poche emozioni “di base” ma vi è un numero indefinito di emozioni, ognuna qualificata come risultante specifica di quel determinato incontro fra il soggetto e il proprio ambiente in quel contesto, ognuna con le proprie sfumature di valenza edonica, di intensità e di coping.45 Le emozioni non hanno quindi solo lo scopo di esprimere uno stato d’animo, ma assumono significato nelle relazioni con l’adulto. Possono essere controllate, vale a dire espresse secondo diversi gradi di intensità e fungono da mediatori nella regolazione dell’interazione con il caregiver. In generale, attraverso la socializzazione delle emozioni, vale a dire attraverso l’attribuzione di significato ad eventi e stimoli interni ed esterni che attivano le emozioni, il bambino apprende dagli adulti del suo ambiente quali siano le condotte emotive appropriate nelle diverse situazioni e accettate dalla sua cultura di appartenenza.46 Un aspetto importante delle emozioni è la loro funzione sociale: le emozioni, primarie o fondamentali, sono i mezzi di comunicazione che ci permettono di percepire gli stati della mente degli altri. La capacità di “sentire” elementi della mente di un’altra persona viene definita in molti modi – empatia, rispecchiamento, sintonia – e rappresenta una dimensione fondamentale dell’esperienza umana. Noi siamo una specie sociale, e il fatto di essere in grado di “leggere” la mente degli altri ci permette di identificare rapidamente i loro stati emotivi.47 Nessuna emozione è fuori dal contesto, poiché la sua comparsa e il suo svolgimento fanno parte costitutiva di una rete di d’interazioni e di scambi fra il soggetto e l’ambiente (fisico e sociale). Le emozioni non sono accadimenti casuali che
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S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni, Boringhieri Editore, Torino, 1978, p. 251. 45 L. ANOLLI, Le emozioni, Edizione Unicopli, Milano, 2002, p. 83. 46 L. CAMAIONI, P. DI BLASIO, Psicologia dello sviluppo, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 220. 47 D. J. SIEGEL, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001, p. 147.
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ci “cadono addosso”, ma sono parte di una storia con diversi protagonisti e vicissitudini.48 Secondo Paul Ekman49, la rapidità di comparsa è fondamentale per il valore adattativo delle emozioni, perché ci mette nella condizione di rispondere a eventi importanti senza perdere troppo tempo nella riflessione o nella preparazione.50 Al fine di diventare competente sul piano emotivo, il soggetto deve riuscire a esercitare forme appropriate di controllo sulle proprie emozioni. Egli deve apprendere a far fronte, gestire e regolare le proprie esperienze emotive in funzione degli standard e delle aspettative della cultura di appartenenza. In tal modo egli può “salvare la faccia” e tenere alta l’immagine di sé, può irrobustire il proprio livello d’autostima e può costruire un determinato profilo d’identità che lo pone.51 Innanzitutto, più che scegliere direttamente di avere o meno certe emozioni, si possono semmai scegliere situazioni in cui esse, prevedibilmente, possano prodursi o meno.52 Inoltre si può suscitare un’emozione anche in assenza di uno stimolo esterno. Entro certi limiti è possibile evocare deliberatamente un’emozione ricordando (o immaginando) una situazione in cui essa è nata o potrebbe nascere spontaneamente.53 Penso che l’uccisione di una persona non sia solo dovuta ad un raptus scaturito proprio nell’attimo stesso dell’omicidio, ma è anche possibile l’altra ipotesi e cioè che l’emozione di odio o qualsiasi altra emozione sia stata anche rafforzata dai ricorrenti pensieri negativi nei confronti della vittima. Quindi anche se le emozioni non possono essere scelte, è però possibile influenzarle indirettamente ricercando o evitando le condizioni in cui esse si manifestano, abbandonandosi alle loro espressioni caratteristiche o opponendovisi e coltivando le disposizioni che le facilitano.54 Di particolare interesse per gli studiosi è il cosiddetto fenomeno dell’happy victimizer. Si tratta di una tipica credenza dei bambini più piccoli che consiste nell’attribuire emozioni positive - sentirsi felici, soddisfatti - ai protagonisti di azioni aggressive e prevaricanti ai danni di una vittima. Intorno ai quattro anni, la maggior parte di bambini più piccoli ritiene che la vittimazione possa indurre due tipi di reazioni 48
L. ANOLLI, op. cit., p. 149. Paul Ekman (Washington D. C, 15 Febbraio 1934) è uno psicologo statunitense. E’ divenuto, tramite le sue ricerche scientifiche, un pioniere nel riconoscere le emozioni e le espressioni facciali. 50 J. ELSTER, op. cit., p. 33. 51 L. ANOLLI, op. cit., p. 187. 52 J. ELSTER, op. cit., p. 163. 53 Ivi, p. 165. 54 Ivi, p. 175. 49
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emotive: felicità nei vittimizza tori, che registrano con soddisfazione i propri successi, infelicità nelle vittime a causa della loro sconfitta. A quest’età dunque, le due diverse esperienze emotive non sembrano integrarsi tra loro, a differenza di quanto avviene in bambini di otto anni che, dando maggiore rilievo al dolore della vittima, ritengono che la vittimazione sperimenterà, in conseguenza dei suoi atti aggressivi, emozioni di tipo negativo, come colpa e dispiacere. 55
2.
Dall’adolescenza alla fase di vita adulta: gli stadi del ciclo di vita
Le emozioni si inseriscono in ogni momento della nostra vita, indipendentemente dalla nostra età: fanno irruzione in un attimo e nello stesso attimo posso sparire. Ma forse è proprio in una fase particolare della vita che possono concentrarsi ed emergere di più: l’adolescenza, quel periodo di vita considerato uno dei più importanti e critici per complessità e intensità nelle trasformazioni e dei conflitti. L’adolescenza è considerata una “seconda nascita” perché, dal punto di vista psicologico, segue a quei momenti di vita infantile in cui si costruisce la personalità, il carattere di ciascuno. Al momento della pubertà fisiologica si subisce una sorta di “chiamata” in cui è il corpo lo stimolo che chiede alla mente di iniziare una serie di imponenti ricostruzioni e rimaneggiamenti di quelle premesse antiche, per farci diventare ciò che siamo. E nel frattempo, chi è l’adolescente, non più bambino e non ancora adulto? Da un punto di vista psicologico l’adolescenza può essere interpretata come un momento di integrazione tra diversi sé, diversi modi di articolare lo sguardo rivolto verso la propria persona: un’acquisizione che risulterà importante in vari momenti dell’esistenza.56 Si ha uno sviluppo fisico che distingue nettamente i ragazzi dalle ragazze; lo sviluppo sessuale che marca nettamente i due sessi; lo sviluppo cognitivo dove si ha il raggiungimento del pensiero astratto e formale o ipotetico-deduttivo, l’ultimo stadio dello sviluppo intellettivo che è proprio dell’adulto e infine lo sviluppo sociale quando il soggetto si ricava un ruolo all’interno della comunità d’appartenenza. 55
W. ARSENIO, A. LOVER, Children’s conception of sociomoral affect: happy victimizer, mixed emotions and other expectancies, in M. KILLEN, D. HART (a cura di), Morality in everyday life: developmental perspectives, Cambridge University Press, Cambridge, UK, 1995, pp. 87/128. 56 M. GRIMOLDI, Adolescenze estreme. I perché dei ragazzi che uccidono, Universale Economia Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 43-44.
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Dall’adolescenza, cioè da quel periodo di vita dai 12 ai 18 anni, si arriva alla prima età adulta, dai 18 ai 40 anni, le quali sfide vanno dal raggiungimento dell’intimità all’operare scelte professionali e conseguire successi sul lavoro. Il matrimonio e l’esperienza di diventare genitori esigono e determinano processi di adattamento fondamentali. In alternativa, il declino di questi ruoli prescritti e sanzionati dalla società comporta in ogni caso affrontare sfide altrettanto impegnative. L’età adulta media, invece, copre quel periodo tra i 40 e i 60 anni, dove la mole di esperienza accumulata viene in luce con maggiore abilità anche se, con l’avanzare degli anni, si presenta un parziale deterioramento nei compiti che dipendono in larga misura dalla velocità di risposta e dall’uso di abilità non esercitate. Molti segnali fisici di invecchiamento si iniziano ad intravedere, la vista, l’udito si indeboliscono leggermente, la pelle diventa meno elastica. Ma questi segni del tempo possono essere facilmente risolvibili e non influiscono nella vita quotidiana del soggetto. Spesso è il significato che da la società e l’individuo stesso associano a questi cambiamenti che accresce la loro importanza. Se il lavoro sta per finire e non si è pronti al pensionamento, l’individuo risente della sua perdita di appartenenza alla società. Si pensa alla vita che non è più spensierata come prima, che ci si deve occupare dei figli finché non vanno via di casa. Il soggetto, ma soprattutto la coppia, deve riuscire insieme a non arrendersi alla vita ma, una volta rimasti soli, godersi appieno questo periodo post giovinezza. Dell’età adulta avanzata (60-75 anni), invece, fanno parte i cambiamenti fisici dell’invecchiamento. E’ necessaria un’attenzione maggiore alla salute e all’esercizio fisico. L’impegno genitoriale, se c’era, si sposterà nei confronti dei nipoti. Si cercheranno di coltivare amicizie di vecchia data o anche partecipare ad attività che regalino al soggetto un ruolo attivo in società. Naturalmente è gradevole la compagnia di una persona che possa aiutarti nella fase avanzata della vita, che condivida con te le piccole e le grandi cose regalandosi a vicenda rispetto e amore reciproco. Si potrebbe così arrivare all’accettazione del sé, alla crescita spirituale in riferimento a ciò che è stato e per ciò che non sarà più. Infine abbiamo la tarda età adulta, quel periodo oltre i 75 anni in cui presenta un deterioramento fisico sia in ambito cognitivo, amicale, personale. E’ un periodo di riesame della propria vita: le persone reinterpretano la loro esperienza di vita e continuano ad affrontare la crisi dell’integrità in contrapposizione
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alla disperazione, non solo accettando la propria vita, ma considerandola alla luce di tutte le vite umane in tutti i tempi.57 Conclusa questa breve descrizione delle varie fasi del ciclo di vita, soffermiamoci meglio sulla figura dell’adulto, cioè di una persona che dovrebbe aver raggiunto una maturità tale da capire che bisogna rispettare la vita, sia la propria che quella degli altri, ma soprattutto che ogni errore ha delle conseguenze. Ma siamo proprio sicuri che stiamo avendo a che fare con persone adulte e mature?
2.1 L’adulto e le responsabilità
Analizziamo meglio il significato della parola “adulto”. In riferimento agli adulti non si parla più di pedagogia (páis:bambino agogòs:guida di) rivolta quindi agli infanti, ma è stato coniato un altro concetto, quello di andragogia, cioè quell’approccio teorico sull’apprendimento in età adulta che si è sviluppato a partire da una serie di studi condotti sulle modalità con cui gli adulti si dispongono ad apprendere, e sulla metodologia formativa più idonea a favorire tale obiettivo.58
Sono quattro le definizioni:
-
biologica: diventiamo adulti biologicamente quando raggiungiamo l’età della riproduzione;
-
legale: diventiamo adulti legalmente quando raggiungiamo l’età in cui la legge ci dice che possiamo votare, prendere la patente…
-
sociale: diventiamo adulti socialmente quando iniziamo ad assumere un ruolo adulto, come quello di coniuge, cittadino con diritto di voto…
-
psicologica: diventiamo adulti psicologicamente quando arriviamo ad un concetto di noi stesse come persone autonome e responsabili della nostra vita.
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L. SUGARMAN, Psicologia del ciclo di vita. Modelli teorici e strategie di intervento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003, pp. 67/72. 58 P. PATRIZI, M. S. DI TULLIO D’ELISIIS, B. DEL VECCHIO, Strategie della formazione. Proposte di metodo e applicazioni psicologico-giuridiche, Carocci Editore, Roma, 2003, p. 26.
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Nel quadro di alcune ricerche comparative vengono messi in rilievo i cosiddetti cicli di cambiamento negli anni adulti. In particolare sono state evidenziate quattro fasi apicali della vita adulta59:
1.
La ricerca della conformità. Inizia con un progetto, un sogno: grazie a questa rappresentazione del futuro, a quella che si configura come una vera “iconografia di possibilità” nasce la motivazione a un programma di vita assolutamente personale. Si costruisce nel corso di questa fase ciò che è definita la propria “missione”, esposta sempre a revisioni e riformulazioni private oppure ad adattamenti ambientali.
2.
La mancanza di sincronia. Qui insorgono momenti di carattere dissodante rispetto ai desideri iniziali: si è costretti a ristrutturare i propri piani anche in rapporto ad eventi di perdita e distacco che coinvolgono ogni aspettativa ideale di armonia ed equilibrio della fase precedente. La struttura si sfalda e frammenta; il tema dominante della vita diventa il rifugio introspettivo in se stessi che rappresenta, comunque, un nuovo spazio di ricerca e sperimentazione in precedenza rimosso o non ritenuto fondamentale per l’esigenza di affermare soprattutto la dimensione sociale, riconosciuta ed apprezzata agli occhi degli altri, del proprio sogno. Si avverte che la propria struttura vitale, così pazientemente costruita, è divenuta inefficace, non sorregge più e ha perduto il suo valore propulsivo.
3.
La presa di distanza. La destrutturazione, se non la frantumazione, della struttura corrisponde alla scoperta dell’intrinseca “drammaticità” dell’esistenza, della noia, dell’esigenza e dell’inevitabilità delle lacerazioni effettive. Insorge il bisogno di far ricorso alle proprie forze. E’ una metamorfosi che inizia con momenti di smarrimento e di vera e propria angoscia, di senso di solitudine. Il sogno diventa oggetto di retrospezione: appartiene alla memoria e non più al futuro. Questa fase può condurre ad un crollo irreversibile e quindi alla patologia psichica e alla depressione cronica, oppure ad una sorta di rinascita interiore.
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D. DEMETRIO, Manuale di educazione degli adulti, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 41-42.
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4.
La reintegrazione. Corrisponde ad un periodo completamente nuovo, quello della rottura della chiusura in se stessi come difesa e risorsa, contrassegnato dalla ripresa dei contatti con il mondo esterno e dalla stessa ristrutturazione del sogno, il quale si presenterà con una forma assai diversa di quella precedente: apparirà più gioioso e leggero, meno ossessivamente legato alla paura del fallimento. E’ una sorta di riscoperta dell’infanzia e di nuova creatività, seppur non finalizzata ad ottenere grandi successi in competizione con quelli altrui in quanto soprattutto appartenente a se stessi.
Nella vita adulta le transizioni possono durare da uno a tre anni, ma sono sempre in stretta correlazione con l’aiuto esterno e il caso, la novità imprevista, l’incontro fortuito, che hanno un potere rivitalizzante oppure depressivo. Il ciclo di vita non può però essere appieno interpretato se il ricercatore non si avvale di quelli che egli definisce le sei aree valoriali di base60 che alimentano la traiettoria di vita adulta con quelle forme reali e simboliche di attaccamento al desiderio di rigenerazione periodica:
a) il senso di sé (identità, autostima, fiducia, indipendenza, autonomia, confini, responsabilità), acquisibile progressivamente attraverso la riproposizione della domanda “chi sono io?”; b) la realizzazione, riscontabile nel raggiungimento degli obiettivi sognati; c) l’intimità, sperimentabile nelle diverse forme dell’amore, della sessualità, del prendersi cura degli altri, dell’allevamento, dell’essere amico e amica di qualcuno, della convivialità; d) la creatività e il gioco (immaginazione, originalità, espressività, gioia nello sperimentare istanti e periodi di vita senza scopo alcuno…); e) la ricerca del significato, sperimentabile nel momento in cui ci si avverta non più soltanto individui destinati a morire, mediante il raggiungimento di pace interiore, contemplazione, scoperta della trascendenza; f) la compassione e la solidarietà nel dare agli altri disinteressatamente, nell’aiutare, nell’educare, nel guidare, nel migliorare, nell’essere grati a qualcuno o nel lasciare qualcosa in eredità. 60
D. DEMETRIO, op. cit., pp. 45-46.
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Ogni valore di base può conoscere un volto negativo: infatti un senso di sé eccessivo può entrare in collisione con la compassione e dar luogo a un egocentrismo narcisistico. Troppo desiderio di realizzazione sul lavoro può spegnere le altre potenzialità latenti; troppa cura dedicata al gioco è generatrice di infantilismo, così come troppa enfasi sulla ricerca del significato può condurre alla perdita di ogni legame. La dimensione educativa fa la sua comparsa nel ciclo vitale sotto forma di riequilibrazione tra valori e le esperienze. Ciò determina un continuo autorinnovamento, al quale risponde l’individuo sano, che è nelle condizioni di reagire rendendosi educatore di se stesso.61 La responsabilità, concetto molto interessante da affrontare a proposito di adulti, non è altro che la consapevolezza delle proprie azioni e delle proprie conseguenze; è la capacità di comportarsi responsabilmente; è un compito, un impegno che deriva da tale consapevolezza. Sono tanti i significati riferiti a questa parola che possiamo trovare in qualsiasi dizionario62. La responsabilità può essere definita come lo schema che regola e organizza tutte le interazioni tra gli individui, le norme, le società. Quando parliamo di responsabilità facciamo riferimento ad una concezione interattiva di essa, piuttosto che ad un contenuto interno alla mente, nel senso di una costruzione emergente nei processi psicologico-sociali e che è sempre il risultato di rapporti, dal momento che ha a che fare con i sistemi di reciprocità. Questa concezione appare particolarmente evidente quando ragioniamo su questi temi in termini comunicazionali e interattivi: la devianza, infatti, assume il carattere di una modalità si comunicazione, esprimendo bisogni differenti legati a fattori come l’identità, lo sviluppo, le relazioni, il controllo, ecc., in particolare durante l’età evolutiva. Per l’autore del reato, l’agire deviante diviene il modo attraverso cui rendere evidente il suo “messaggio” e trasmettere dei significati; così il sistema della giustizia, dei servizi, della comunità e di tutti coloro che a vario titolo assumono in carico il problema della devianza, inviano dei messaggi di feedback, che ritornano in maniera circolare all’individuo, dotando di significato la sua azione. L’incontro con il sistema della giustizia può rappresentare in quest’ottica un’occasione per l’inizio di un percorso di promozione circolare della responsabilità. Una responsabilità che non può essere attribuita e richiesta soltanto a livello individuale al ragazzo che commette il 61 62
D. DEMETRIO, op. cit., pp. 45-46. T. DE MAURO, Grande dizionario italiano dell’uso, UTET, Torino, 2007.
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reato, ma va intesa come un costrutto che si forma e si definisce nelle modalità di richieste, aspettative e risposte del sistema normativo, degli altri e delle istituzioni. E’ a questo punto che la responsabilità personale diventa possibile, all’interno di un sistema che la sostiene e ne è partecipe.63 Ma chi commette un reato poi si prende sempre le sue responsabilità?
3.
La relazione con l’altro
Quando non si conoscono le persone, difficilmente si riesce ad instaurare subito un rapporto, anche se da un semplice sguardo, da un timido sorriso è possibile instaurare una relazione, quel minimo di avvicinamento che potrebbe sfociare o in una pura conoscenza o in una vera amicizia. Durante la mia esperienza di tirocinio presso il carcere di Alghero, ho potuto constatare che, in una struttura altamente restrittiva è impossibile rimanere isolati: in qualche modo si ha l’opportunità di comunicare con gli altri. Imparare è un fatto umano: in qualsiasi modo noi impariamo sempre. Ma in quanti modi si può farlo? Possiamo farlo in gruppo, in coppia ma anche individualmente; anche all’interno di una struttura carceraria, anche quando esistono dei soggetti che non hanno intenzione di apprendere attraverso le attività scolastiche o i corsi professionali messi a disposizione della struttura, in qualche modo apprenderanno. Grazie alla biblioteca messa a disposizione e al prestito di qualsiasi libro, i carcerati hanno la possibilità di riunirsi in gruppo ma anche da soli e dedicarsi a qualsiasi lettura che susciti in loro un interesse. Mi sono resa conto che molti di loro non fanno altro che osservare gli scaffali alla ricerca di qualche novità, di qualche titolo curioso che in quel momento possa loro interessare. La cultura se la costruiscono da soli o in compagnia. Imparare da soli ha molti vantaggi: il tempo, che può essere gestito meglio, non ci sono orari prestabiliti grazie al prestito naturalmente, perché all’interno del carcere la biblioteca non è accessibile tutto il giorno ma ad orari prestabiliti. E’ il cosiddetto “open learning”64 ovvero apprendimento aperto, senza limiti né vincoli prestabiliti. 63
P. PATRIZI (a cura di), Responsabilità partecipate. Percorsi d’inclusione sociale per giovani adulti autori di reato, Giuffrè Editore, Milano, 2007, pp. 352-253. 64 Con l’espressione “open learning” si può considerare una vasta gamma di soluzioni, tra cui l’apprendimento a distanza, l’apprendimento flessibile, i corsi per corrispondenza, lo studio a casa, l’apprendimento basato sulle risorse e lo studio individuale assistito. L’idea di base che sta dietro a tutti
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Ma l’aspetto più importante dello stile dell’apprendimento consiste probabilmente nelle indicazioni che il singolo adulto riceve su di sé. Usare l’autoconoscenza per poter arrivare all’autostima65. L’autostima è un concetto molto importante e centrale nella teoria di Carl Rogers66 ed è il giudizio che una persona dà di se stessa nel contesto della sua percezione. Una elevata autostima costruisce la spinta ottimale verso l’autorealizzazione. Secondo Rogers l’autostima si sviluppa in relazione ad una buona corrispondenza fra la percezione che una persona ha di se stessa e il giudizio sul suo ideale, su come ritiene ottimale essere. L’autostima sarebbe il prodotto di un ambiente accettante (che quindi non ha portato l’individuo a mettersi in discussione). Alfred Adler67 (1927), invece, ipotizza l’esistenza di un genuino interesse sociale, la cui positiva soddisfazione è presupposto fondamentale per una piena realizzazione umana.68 Henri Tajfel69 invece, con la sua “teoria dell’identità sociale” sosteneva che l’individuo ricava una parte consistente dell’immagine di sé dall’immagine che ha dei i gruppi ai quali appartiene e dallo stato complessivo dei rapporti fra i gruppi sociali per lui significativi. Per la teoria dell’identità sociale la dimensione di gruppo ed il contesto di azione vengono considerati costitutivi dell’individuo, divenendo parte essenziale del modo in cui egli guarda a se stesso e al mondo. L’esperienza gruppale nasce dall’intersoggettività dei singoli che vi partecipano e dallo spazio simbolico delineato dai contributi che ciascun partecipante offre, e che danno al gruppo una cornice di unicità e appartenenza contestuale. Il gruppo in formazione condivide infatti uno scopo, che è quello di apprendere. Il contesto di gruppo è quindi lo strumento principale della formazione, dove teoria e pratica di confrontano con percorsi individuali di apprendimento realizzati in costante e continua interazione reciproca.70 Quando si parla di peer education, ovvero l’educazione tra i pari, si intende quella comunicazione tra questi programmi è sempre stata quella di rendere l’apprendimento “più aperto”, eliminando alcune barriere non necessarie, che possono limitare l’accesso ai corsi di tipi tradizionale. E. KNASEL, J. MEED, A. ROSSETTI, Apprendere sempre. L’apprendimento continuo nel corso della vita, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 190. 65 C. CORNOLDI, M. TAGLIABUE, Incontro con la psicologia, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 48. 66 Carl Ramson Rogers (Chicago, 8 Gennaio 1902 – San Diego, 4 Febbraio 1987) è stato uno psicologo statunitense, fondatore della terapia non direttiva centrata sul cliente. 67 Alfred Adler (Austria, 7 Febbraio 1870 – Scozia, 28 Maggio 1937), allievo di Freud, è il teorico della psicologia individuale, medico e psicologo austriaco. 68 G. MANTOVANI, Manuale di psicologia sociale, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2003, p. 24. 69 Tajefel Henri, pseudonimo di Hersz Mordche (Wloclawek, Polonia, 22 Giugno 1919 – Bristol, 3 Maggio 1982) è stato uno psicologo britannico di origine polacca, meglio conosciuto per il suo lavoro pioneristico sugli aspetti cognitivi del pregiudizio e della teoria dell’identità sociale. 70 H. TAJFEL, Gruppi umani e categorie sociali, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 384-385.
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coetanei o persone che appartengono ad un medesimo status, dove le persone imparano diverse cose l’uno dall’altro come parte della loro vita di tutti i giorni.71 All’interno del carcere ho potuto notare che molti soggetti imparano semplicemente confrontandosi con gli altri e grazie ai loro consigli. E’ un atteggiamento di apertura verso il prossimo, segno evidente che la convivenza forzata con persone molto dissimili ma legate dallo stesso destino, è decisamente un punto di forza per affrontare al meglio la vita carceraria e per crescere sia intellettualmente che umanamente. La peer education contribuisce alla sicurezza emotiva, aiuta a superare il sentimento di solitudine (in carcere questo è un sentimento molto forte, visto che il soggetto non ha attorno a sé le figure genitoriali di riferimento né qualsiasi altro familiare ed è quindi, inizialmente, costretto a convivere con persone sconosciute), offre uno spazio socialmente riconosciuto di libertà (per quanto giusto sia parlare di libertà in un contesto restrittivo come la prigione), può facilitare l’acquisizione di un’identità (elemento molto importante quando si vive in una struttura penitenziaria dove, capita spesso, di pensare e ripensare a “chi sono io”, a “che cosa ho fatto” e ad altri interrogativi che ledono la propria persona).72 Questo tipo di educazione si costituisce spontaneamente nei gruppi, ogni volta che un membro, esperto di un argomento, comunica ciò che sa agli altri, indicando cosa fare, come agire e dove raccogliere informazioni ulteriori. Ciò favorisce il realizzarsi di uno scambio tra chi sa e il gruppo, con un processo di arricchimento reciproco. L’esperienza e le conoscenze personali diventano un’esperienza auto-formativa condivisa dal gruppo e nel gruppo, che non solo acquisisce nuove informazioni, ma rafforza anche la propria capacità creativa di rispondere ai problemi, di agire in modo positivo ed efficace.73 La psicologia sociale della relazione rinvia al binomio Sé-altro. Chi sono io? Chi è l’altro? La relazione con l’altro è il tema che esprime ciò che c’è di più profondo e permanente nella nostra vita in comune. Moscovici74 sosteneva che la nostra società è predominata dall’interesse individuale in cui la norma predominante è l’egoismo: perciò
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U. NIZZOLI, C. COLLI, Giovani che rischiano la vita. Capire e trattare i comportamenti a rischio negli adolescenti, Edizioni McGraw-Hill Companies, Milano, 2004, p. 319. 72 Ivi, p. 320. 73 Ivi, p. 321. 74 Serge Moscovici (Brǎila, 14 Giugno 1925) è uno psicologo franco-romeno ed è una delle figure più rilevanti della psicologia sociale come scienza che studia il conflitto tra l’individuo e la società. Egli parla di conflitto, poiché l’individuale e il collettivo si muovono da tempo immemorabile in una battaglia serrata. Il conflitto non escluse naturalmente fasi di armonie provvisorie, né di pacificazioni durature.
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l’altruismo75 costituisce un problema per la nostra società. Ma perché allora siamo egoisti? E’ esperienza quotidiana vedere alla tv scene di violenza, guerre, persino massacri e contemporaneamente atti di eroismo e azioni coraggiose a favore di altri. Ma qual è allora la vera essenza umana?
4.
Giovani e adulti autori di reato
E’ facile pensare che dietro un grave reato compiuto da un adolescente ci sia un cattivo genitore. Le figure dei padri, delle madri dei ragazzi che commettono reati sono immaginate come assenti, abbandoniche, oppure violente, quando non tutte queste cose insieme. Non c’è dubbio che un genitore depresso o alcolista o sofferente di gravi problemi psichici si trovi avvolto in un mondo personale, un bozzolo narcisistico in cui è difficile entrare. Anche per un figlio. Ma quando invece ci troviamo davanti ad un ragazzo che ha commesso un reato grave e che non si scorgono dipendenze o patologie da parte dei genitori, a questo punto, forse, è il caso di osservare il tutto con più attenzione.76 E’ sperimentato e acquisito in dottrina che fattori come il distacco emotivo, le carenze affettive fin dall’età neonatale, l’uso della violenza sui minori come sistema educativo o come frutto di problemi derivanti dall’abuso di sostanze, l’eccessiva rigidità nell’educazione dei figli, il basso Q.I. accompagnato da insuccesso scolastico e da scarse possibilità economiche, la separazione dei genitori o, comunque, la perdita di uno o di entrambi soprattutto se avvenuta con modalità traumatiche, siano tutti fattori potenzialmente idonei a facilitare e, quindi, a predire un futuro comportamento deviante.77 I giovani trasgressori esprimono con le azioni una quota di disagio. Parlano, e molto. Qualcuno lo fa con i fatti e qualcuno, quando trova un adulto disposto ad ascoltare i perché del disastro che è successo, parla anche con le parole. A volte questi ragazzi sembrano tremendamente vicini ad una consapevolezza che non deve essere data per scontata, anzi: il perché e le giustificazioni di un’aggressione anche grave sono
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A coniare il termine “altruismo” fu Auguste Comte nel 1852. G. MANTOVANI (a cura di), op. cit., p. 93. 76 G. GRIMOLDI, op. cit., p. 39. 77 P. DI MARTINO, Criminologia: analisi interdisciplinare della complessità del crimine, Edizioni Giuridiche Simone, Napoli, 2009, p. 159.
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loro pressoché ignoti.78 La differenza tra la crisi nevrotica, ossia quella tra chi sta male “dentro” e il raptus, ovvero chi sta male gettando nel mondo esterno un’azione estrema è, secondo la metafora di Jeammet79, la stessa differenza che sussiste tra il sogno e l’incubo. Nel primo caso rimane “tutto dentro”, e i desideri vengono soddisfatti in modo allucinatorio: nulla di ciò che si vede o si sente nel sogno è reale e si continua a dormire placidamente. Nel caso dell’incubo, invece, quando l’eccitazione non può più essere contenuta e il terrore che proviene da dentro è più profondo, allora ci si sveglia; dunque la sensazione è talmente forte che il sogno irrompe nella realtà. Con il risveglio viene poi per il soggetto la rassicurante percezione che ciò che accade “fuori di sé” può essere controllato, gestito; l’incubo è finito e la propria stanza è comunque meglio dei fantasmi che popolavano l’incubo.80 L’autore del libro “Adolescenze estreme”, Mauro Grimoldi, sostiene che sia lecito condannare l’azione, biasimare chi ha commesso un fatto grave e farlo da adulti responsabili; si deve avere il coraggio di avvicinarsi al “mostro”, come viene descritto dai mass media, guardarlo in faccia scoprendo che tale non è o, per lo meno, non lo è sempre stato e magari non lo sarà mai più. Bisogna conoscere gli eventi profondi che hanno portato all’azione, scoprire gli aspetti di assoluta debolezza e di crisi. Poi ci si può anche permettere di decidere che comunque ci si identifica con le vittime: è in fondo la posizione più naturale.81 All’adolescente autore di reato bisogna dire che domani sarà tutto diverso e possibile, differente dall’oggi. La speranza, intesa come capacità di immaginarsi qualcosa di buono di là da venire e raggiungibile in tempi e con sforzi ragionevoli, è stata uccisa o è gravemente compromessa in questi ragazzi che aggrediscono violentemente l’altro per esistere perché, anche solo per un attimo, è parsa loro una buona idea di farsi fuori o di eliminare l’esistenza o almeno la possibilità di decidere dell’altro da sé.82 E’ fondamentale aiutare l’adolescente a farsi consapevole del significato inconscio espresso dai suoi comportamenti in quanto gli si permette di essere più in grado di orientarli e controllarli. Bisogna individuare le ragioni affettive dei comportamenti perché spesso le trasgressioni sono azioni opache, oscure nelle
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G. GRIMOLDI, op. cit., pp. 9-10. Philippe Jeammet, professore di Psichiatria Infantile e dell’adolescenza e psicoanalisi presso l’istituto Mutualiste di Parigi, si interessa da sempre di problemi comportamentali giovanili. 80 G. GRIMOLDI, op. cit., p. 11. 81 Ivi, p. 12. 82 Ivi, p. 15. 79
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motivazioni e nelle intenzioni, difficili da spiegare e giustificare persino dall’adolescente o dal gruppo che le mette in atto. Comprendere questo significa evitare il passaggio dalla trasgressione alla delinquenza.83 Amore e odio costituiscono i due principali elementi sui quali si costruiscono le vicende umane. Sia l’amore che l’odio implicano aggressività. L’aggressività, d’altra parte, può essere un sintomo di paura.84 L’aggressività è quasi sempre la drammatizzazione interna troppo cattiva per essere tollerata come tale.85 L’esperienza empirica dimostra che chi ha commesso i reati più gravi spesso è l’unico che ha l’aspetto e il comportamento da “bravo ragazzo”; è il meno aggressivo, quello che sembra un normale studente. La crisi si è per così dire condensata nel reato, lasciando apparentemente libero da conflitti il campo di esistenza dell’Io.86 I reati di gruppo possono essere diversi per tipo, gravità e frequenza. Ciò che li accomuna è il fatto di nascere in modo relativamente improvviso nella mente del gruppo, senza alcuna preventiva progettazione e senza alcuna riflessione riguardo alle conseguenze, non solo penali, dell’azione. Il gruppo viene d’un tratto “folgorato” da una sorta di illuminazione, un progetto proposto da uno dei componenti che accende l’anima di tutti in una sorta di eccitazione collettiva che accomuna gli individui in un patto emotivo fortemente vincolante. Quando l’idea viene formulata svanisce ogni prudenza e scompare ogni realistica considerazione delle conseguenze del gesto: tutto viene sommerso dalla trepidazione che nasce dalla condivisione di una fantasia fortemente eccitante e dall’ipotesi di una sua realizzazione.87 L’adolescente comunica con l’agito come forma distorta di comunicazione, come se si stesse scaricando il conflitto interno per trasformarlo in gesto, comportamento, azione sociale. Il ricorso all’agito, contribuisce in maniera significativa all’esposizione al rischio, in particolar modo quando l’incomprensione e il senso di vuoto interiore invadono le modalità di relazione del quotidiano e indeboliscono la costruzione e il posizionamento della propria identità nel contesto di appartenenza,
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A. MAGGIOLINI, E. RIVA, op. cit., p. 10. D. W. WINNICOTT, Il bambino deprivato. Le origini della tendenza antisociale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1984, p. 105. 85 Ivi, p. 112. 86 G. GRIMOLDI, op. cit., pp. 11-12. 87 A. MAGGIOLINI, E. RIVA, op. cit., p. 113. 84
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creando il pericolo di un “vuoto di identità”.88 Il rischio è la difesa dell’adolescente.89 Sono ragazzi che non si sanno esprimere con i canali tradizionali quali la musica, la scrittura, la parola o i graffiti. Il loro linguaggio è quello opaco e concreto dell’azione.90 All’interno della società sono presenti delle regole. L’educazione alle regole non passa solo attraverso gli insegnamenti, ma anche tramite l’identificazione con le figure parentali.91 In genere viene considerata un “fattore di rischio” una famiglia numerosa a basso reddito, in cui i genitori stentano ad assumere le funzioni parentali, e tra i cui membri vi siano persone con precedenti penali. Nello stile relazionale familiare un peso particolare viene attribuito alla mancanza di attaccamento sicuro, di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, e alla presenza di atteggiamenti di abbandono e rifiuto da parte dei genitori.92 La società è la sua infanzia: il suo modo di pensarsi e di progettare il suo futuro sta tutto nel destino che essa riserva all’infanzia. Gioco complesso quello che lega la società alla sua infanzia; rimescola il tempo attraverso il ricordo di un’esperienza passata e l’immaginazione del futuro, di come sarà. L’infanzia è la società, ma non sempre sembriamo accorgercene, anche quando proclamiamo la sua centralità.93 Goffman94 parlava di un approccio della violazione delle norme. Il punto di partenza è costituito dall’infrazione sociale di un soggetto che sarà un paziente; io propongo che gli si esamini innanzitutto le regola generale di condotta della quale il comportamento offensivo costituisce un’infrazione e si cerchi poi di completare il gruppo di regole delle quali fa parte quella offesa, tentando al tempo stesso di individuare la cerchia, sociale o il gruppo al quale le regole si riferiscono e che quindi è offeso dall’infrazione di una di esse. Compiuto questo lavoro di preparazione, possiamo tornare all’individuo per vedere cosa significhi per lui il comportamento offensivo. Dopo aver effettuato questa analisi, dovremmo essere in grado di spiegare il fatto imbarazzante che un soggetto che sembri essere completamente pazzo un giorno, può il
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L. VALLARIO, R. GIORGI, M. MARTORELLI, E. COZZI, Il rito del rischio nell’adolescenza, Edizioni Scientifiche Ma.Gi, Roma, 2005, pp. 32-33. 89 Ivi, p. 34. 90 A. MAGGIOLINI, E. RIVA, op. cit., p. 116. 91 Ivi, p. 17. 92 Ivi, p. 30. 93 E. RESTA, L’infanzia ferita, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 7. 94 Erving Goffman (Mannville, 11 Giugno 1922 – Philadelphia, 19 Novembre 1982) è stato sociologo tra i più raffinati della cultura odierna, si è impegnato ad elebaorare una sociologia della vita quotidiana, dell’interazione diretta faccia a faccia, del comune comportamento e delle sue regole.
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giorno dopo attraverso la magia della guarigione spontanea, essere di nuovo perfettamente sano per ciò che riguarda la sua condotta.95
4.1 Le diverse teorie che spiegano il crimine
Quando usiamo il termine “crimine”, lo associamo a un’ampia gamma di comportamenti illegali. Tuttavia, i singoli atti criminali possono avere poche caratteristiche in comune, eccetto il fatto che qualcuno li trova talmente riprovevoli da farli proibire mediante la legge.96 I dipartimenti della polizia strutturano le loro attività sulla base di alcune spiegazioni teoriche. Ogni giorni i giudici emettono sentenze basate sulla loro comprensione del carattere dell’imputato e dell’ambiente in cui vive. Le autorità carcerarie tentano di educare, insegnare corrette abitudini lavorative e convincere i detenuti a non commettere in futuro nuovi atti criminali. Infine, i media riflettono la tendenza dell’opinione pubblica ad attribuire i comportamenti criminali all’uso della droga, alla depressione economica, a una vita familiare disastrata, all’influenza di cattive compagnie.97 Il crimine, secondo Carrara98, non esiste come fatto naturale, né rinvia a una supposta qualità criminale del suo autore. E’ un ente giuridico, una libera scelta che rompe il patto sociale.99
Lo sviluppo delle ipotesi psicologiche hanno cercato di individuare peculiarità psichiche e personologiche capaci di spiegar il comportamento criminale. La prospettiva psicologica rinvia all’idea che si possa spiegare il comportamento umano partendo dall’analisi della personalità e delle funzioni psichiche. L’ipotesi sottesa è che indagando la psiche dell’uomo si possa comprendere la varietà dei suoi comportamenti sociali.100
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E. GOFFMAN, Modelli d’interazione, Il Mulino, Bologna, 1967, pp. 154-155. F. P. WILLIAMS, M. D. McSHANE, Devianza e criminalità, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 13. 97 Ibidem. 98 Francesco Carrara (Lucca, 18 Settembre 1805 – Lucca, 15 Gennaio 1888) è stato un giurista e politico italiano di ispirazione liberale. E’ stato uno fra i primi studiosi di Diritto Criminale a voler abolire la pena di morte in Europa. 99 F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 73. 100 G. DE LEO, P. PATRIZI, La spiegazione del crimine: un approccio psicosociale alla criminalità, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 27. 96
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Le teorie psicocriminologiche hanno focalizzato l’attenzione al rapporto tra frustrazione-aggressione, secondo il quale esisterebbe una relazione direttamente proporzionale tra frustrazione e comportamento aggressivo, rafforzato dalla ripetizione di situazioni frustranti.101 Secondo Thomas102, è la frustrazione dei bisogni fondamentali, quali il bisogno di sicurezza, di fare nuove esperienze, di avere risposte da parte di altri e di ottenere il loro riconoscimento a rendere probabile la devianza, specie nei giovani.103 Tali comportamenti, non sempre appagabili contemporaneamente e senza contrasti, potrebbe spiegare, secondo Mannheim104, anche molti comportamenti devianti adulti.105
Ma effettivamente sono state le teorie di stampo psicosociale a valorizzare la dimensione interattiva come ambito dove ricercare elementi di significato rispetto al comportamento deviante. “Identità negativa” è forse il concetto più affascinante, introdotto da Erikson e concepito quale effetto delle risposte negative di esclusione, squalifica, emarginazione che determinerebbero nell’adolescente la costruzione di un’immagine di sé in senso negativo. Sono gli atteggiamenti svalorizzanti dei genitori e soprattutto le loro previsioni di scarsa fiducia e di squalifica sul futuro del ragazzo, a determinare un percorso negativo del suo processo di costruzione dell’identità. Definito cattivo, incapace, diverso, l’adolescente si conformerebbe a tali aspettative, identificandosi con l’immagine trasmessagli attraverso le interazioni significative.106 Secondo Maiiloux107, il giovane delinquente è caratterizzato dal profondo convincimento di essere diverso dagli altri, ad essere inferiore, incapace di una normale socializzazione. Il linguaggio attraverso il quale egli esprime maggiormente se stesso è
101
G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 29. William Isaac Thomas (13 Agosto 1863 – 5 Dicembre 1947) è stato un sociologo americano. E’ noto per la sua sociologia delle migrazioni e per la formulazione di quello che è stato definito “il teorema di Thomas”, un principio fondamentale della sociologia: se gli uomini definiscono le situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze. 103 W. I. THOMAS, Social Behavior and Personality. Contribution of W. I. Thomas: A Theory and Social Research, a cura di E. H. Volkart, Social Science Research Council, 1951. 104 H. MANNHEIM, Trattato di criminologia comparata, Einaudi Editore, Torino,1965, p. 761. 105 Ivi, p. 30. 106 G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., pp. 37-38. 107 T. BANDINI, U. GATTI, Delinquenza giovanile. Analisi di un processo di stigmatizzazione e di esclusione, Giuffrè Editore, Milano, 1987, p. 392, in N. MAILLOUX, Psychologie clinique et dèlinquance juvenile, 1968. 102
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il suo comportamento, il quale è aggressivo, violento, ripetitivo.108 Il comportamento deviante può essere visto come sintomo funzionale al mantenimento di un equilibrio in particolari fasi del ciclo vitale, o come strumento comunicativo utilizzato dal sistema per esternare disagi o stabilizzazioni patologiche del proprio funzionamento.109
E’ necessario, a riguardo, conoscere il senso di identità e di identificazione. Il primo ha due dimensioni: la prima è la percezione del Sé in quanto entità distinta da tutte le altre; la seconda è la sensazione di essere qualcuno che, nonostante il mutare delle situazioni, delle condizioni fisiche e delle relazioni, o in altre parole, dimostra continuità e coerenza. L’identità dunque è orientata verso il futuro. L’identità è influenzata inoltre da come gli altri ci vedono perché siamo inglobati negli script di altre persone. Possono esserci discrepanze tra la percezione che gli altri hanno di noi e il modo in cui ci percepiamo.110 Quando un figlio sarà in grado di dire a se stesso “Non sono esattamente quello che la mamma pensa che io sia”, sarà allora in grado di autodefinirsi.111
A livello sociologico invece si pensa al crimine come ad un fatto sovra individuale, spiegabile attraverso una pluralità di dimensioni collettive e sociali, individuando l’anomia come causa primaria della condotta criminale. Avvalorata l’ipotesi che il crimine non emerge solo in condizioni patologiche ma è diffuso anche in ambiti di normalità sociale, ci si sposta verso la multifattorialità del crimine: il delitto è composto da fattori individuali, sociali e anche fisici112 in un intreccio di variabili psicologiche, intellettive, comportamentali, fisiche e familiari.113 Il reato è un evento complesso. Perché esso si verifichi non basta che vi sia una persona motivata a compierlo. Sono necessarie anche altre condizioni: dei beni, delle vittime, delle occasioni. Inoltre ogni reato è frutto di una scelta personale: nasce da decisioni grandi e
108
G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 38. Ivi, p. 40. 110 J. BYNG-HALL, Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998, pp. 65-66. 111 J. BYNG-HALL, op. cit., p. 69. 112 G. DE LEO, P. PATRIZI, op. cit., p. 56. 113 Ivi, p. 58. 109
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piccole, riguardanti sia l’opportunità o meno di compierle sia i modi in cui realizzarlo.114
4.2
Furto e rapina Innanzitutto è bene fare una distinzione tra furto e rapina. Secondo l’art. 624115
(furto) del codice penale, “chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarre profitto per sé e per gli altri, è punito con la reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 154 a euro 516” mentre l’art. 628116 (rapina) sostiene che “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2065”. Entrambi sono delitti contro il patrimonio: alcuni di essi vengono commessi mediante violenza alle cose (furto art. 624 c.p), altri mediante violenza alle persone (rapina art. 628 c.p e estorsione art. 629 c.p) e altri ancora mediante frode (truffa art. 640 c.p). La condotta della rapina richiede una “violenza alle persone” o una “minaccia” e in secondo luogo perché per il furto è sufficiente il fine del “profitto” mentre per la rapina è necessario che il fine sia quello dell’ingiusto profitto.117 In realtà la rapina non sarebbe altra che il delitto di furto caratterizzato dallo strumentale dispiegamento, da parte dell’agente, di un’attività violenta verso la persona offesa e finalizzata alla sottrazione ed al conseguimento dell’illecito possesso della res altrui.118 Importante è capire che è pertanto la violenza o la minaccia diretta contro la persona a segnare sempre il limite tra le due ipotesi di reato, per cui qualora il ladro, alla richiesta di consegnare un oggetto, faccia seguire la minaccia di usare un coltello e proferisca frasi minacciose, il tutto accompagnato dal gesto di estrarre qualcosa dai pantaloni e proceda allo strappo dell’oggetto stesso del corpo della vittima, l’azione criminosa si configura come rapina e non già come furto con violenza alle cose. Infatti l’elemento 114
M. BARBAGLI, L’occasione e l’uomo ladro. Furti e rapine in Italia, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 9. E. DOLCINI, G. MARINUCCI (a cura di), Codice penale, Wolters Kluwer Italia, Milano, 2011, p. 6098. 116 Ivi, p. 6176. 117 L. ALIBRANDI, P. CORSO (a cura di), Codice penale e di procedura penale e leggi complementari, Casa Editrice La Tribuna, Piacenza, 2008, pp. 267/269. 118 S. TOCCI, Il furto, CEDAM Edizioni, Padova, 2002, p. 239. 115
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della minaccia, in tale ipotesi, ha influito in modo determinante all’impossessamento della cosa.119 Il furto è senz’altro il reato contro il patrimonio più comune, è il delitto di tutti i giorni. L’interesse tutelato dalla norma è il possesso: è il possesso da parte della persona offesa a costituire il presupposto del reato, e l’impossessamento da parte dell’agente che segna anche il momento consumativo dello stesso, per cui si può davvero affermare che “l’essenza del delitto consiste nel passaggio del possesso da una ad un’altra persona”.120 Un furto o una rapina sono il frutto non di una sola, ma di un gran numero di decisioni. Queste possono essere divise in almeno due grandi gruppi: strategiche e tattiche. Le prime hanno a che fare con l’inizio dell’attività predatoria, la sua continuazione, la sua cessazione. Le decisioni tattiche invece sono subordinate dalle prime e riguardano la scelta del reato (ad esempio, lo scippo o la rapina, il borseggio o il furto dell’appartamento), dei complici, del modus operandi, della vittima, del luogo e del tempo dell’azione. Esse sono il risultato di processi di breve (e talvolta di brevissima) durata, dominati dal confronto fra i costi e i benefici (anche se non solo di quelli monetari) e si basano in gran parte su informazioni riguardanti questi. Le decisioni tattiche dipendono molto dalle circostanze immediate, dalla situazione in cui la persona opera, dalle opportunità che si trova davanti. Le decisioni strategiche sono invece molto più legate all’ambiente d’origine delle persone, alle vicende della loro vita, ai loro valori, alle loro convinzioni su ciò che è bene e su ciò che è male, su ciò che è moralmente giusto o sbagliato fare.121 Il furto non è un comportamento che ha inizio in adolescenza: quante volte le mamme si stupiscono di trovare nelle tasche dei loro bambini di ritorno da scuola dei giocattoli che non sono propri. Il furto nei bambini nasce da dinamiche di invidia e gelosia: l’oggetto desiderato che il bambino sottrae all’altro rappresenta ciò che egli desidererebbe ricevere dagli adulti o possedere in proprio, qualcosa che gli altri possono invidiare ed ammirare.122 In adolescenza invece è tutta un’altra cosa: si nega che il furto sia suggerito dal bisogno. Ci si appropria di oggetti connessi al desiderio di essere piuttosto che al bisogno di avere, legati al piacere e al narcisismo più che alla mancanza.
119
S. TOCCI, op. cit., p. 241. Ivi, p. 13. 121 M BARBAGLI, op. cit., pp. 19-20. 122 A. MAGGIOLINI, E. RIVA, op. cit., p. 56. 120
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Spesso le emozioni che precedono il furto non sono la rabbia e l’aggressività, ma la noia e la tristezza; si tratta di sentimenti di mancanza e di vuoto che si ritiene che l’oggetto visto e desiderato possa colmare.123 Un significato particolare lo assume il furto commesso in gruppo. Si parte dai piccoli furti durante le gite scolastiche, ai furti a scuola, in casa, ma quelli ch preoccupano di più sono quelli legati, per esempio, alla condizione di tossicodipendenza di un ragazzo, finalizzati all’urgenza del bisogno piuttosto che al gesto stesso. Questa urgenza del bisogno annulla la previsione delle conseguenze e la capacità di dilazione, oltre ad ogni considerazione etica.124 Nelle situazioni in cui al furto non segue il “consumo” ma la vendita dell’oggetto rubato, si esce invece dall’ambito dell’agito impulsivo per entrare in un circuito più elaborato e cosciente, in cui la violazione della legge è rivolta ad uno scopo “conveniente”, con una maggiore consapevolezza del rapporto mezzi e fini. Si pensi ai detenuti che hanno commesso il reato di rapina. In questi casi, generalmente, il comportamento deviante si contestualizza nell’appartenenza a gruppi-banda delinquenziali. Questo passaggio indica l’ingresso in situazioni di devianza organizzata, sia sul piano della struttura di personalità, che per quanto riguarda le caratteristiche dell’ambiente: l’azione deviante non può più essere interpretata in questi casi come agito adolescenziale, ma diviene scelta delinquenziale vera e propria, per quanto più o meno consapevole o “obbligata” dalla propria storia e dal proprio contesto di vita.125
La rapina si sviluppa per stadi differenti. Il primo stadio è quello della pianificazione, che di solito avviene a pochi giorni dalla rapina vera e propria dove il rapinatore sceglie la vittima e prepara il colpo. Qualche volta coloro che pianificano la rapina possono prevedere anche gli omicidi durante la rapina; in altri casi non tutti coloro che sono coinvolti nel reato sono informati di questo aspetto nel piano, mentre è concepibile che un’uccisione possa avvenire come diretta conseguenza del piano o solo se si presenti la necessità. La vittima o le vittime sono di solito considerate come qualcuno di impersonale, o che non merita rispetto.126 Nel secondo stadio il rapinatore si avvicina alla vittima raggiungendo una posizione da cui può agevolmente colpirla o 123
A. MAGGIOLINI, E. RIVA, op. cit., p. 57. Ivi, p. 61. 125 Ivi, p. 63. 126 C. P. MALMQUIST, Omicidio: una prospettiva psichiatrica, dinamica e relazionale, Centro Scientifico Editore, Torino, 1999, p. 29. 124
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minacciarla. Per farlo può seguire due diverse strade: può fingere di avere altri fini, di essere una della tante persone benintenzionate e inoffensive con le quali la vittima entra in contato ogni giorno, oppure può muoversi con rapidità alle spalle della vittima, presentandosi poi all’improvviso di fronte a lei. In entrambi i casi, egli deve fare in modo da non mettere in allarme la vittima, perché se questa sospetta qualcosa e reagisce, la rapina fallisce. Nel terzo stadio, dichiarando esplicitamente il suo intento, l’aggressore cambia la definizione del rapporto che ha iniziato con la vittima, che da semplice incontro tra fornitore e cliente, si trasforma in situazione di rapina. Nel quarto stadio avviene il trasferimento dei beni all’aggressore: è un processo delicato, che può essere disturbato, bloccato o frenato da qualche fattore interno o esterno. Nel quinto e ultimo stadio, l’aggressore lascia la vittima ed esce di scena. Scappa facendo il possibile per non essere identificato e preso. Blocca il derubato o intimandogli di non muoversi o legandolo o chiudendolo da qualche parte.127 Esistono due tipi di rapine: improvvisate e pianificate. Solo l’1% di tutte le rapine vengono compiute contro le banche o gli uffici postali. La metà di esse avvengono invece nelle piazze o nelle strade, un quinto nei negozi, un po’ più di un sesto nelle abitazioni private. La maggior parte di esse sono preparate poco o male, sono improvvisate e fruttano meno: chi le fa non dedica di solito nemmeno un minuto a vagliare le varie possibilità di azione che ha di fronte e a procurarsi i mezzi più efficienti per l’attacco e la fuga. Si limita a scegliere una vittima particolarmente vulnerabile, a fermarla, a minacciarla e a prenderle quello che ha addosso. Una piccolissima parte delle rapine, vengono preparate ed eseguite con cura da persone con buona esperienza e notevoli capacità. Sono quelle contro le banche, gli uffici postali, le grandi gioiellerie delle città.128 Per svolgere con successo un’attività predatoria è necessario talvolta avere altre capacità. Erving Goffman ha osservato che non vi è nulla di più errato che considerare i criminali come “sociopatici” e “asociali”129, perché invece molti di essi hanno delle considerevoli capacità sociali. Sono abilità che, se non si possiedono naturalmente, sono quasi costretti ad imparare. Chi vuole fare con successo una rapina deve essere capace di dominare e manovrare la vittima, di metterla in una posizione di estrema 127
M. BARBAGLI, op. cit., pp. 143/145. Ivi, pp. 148/155. 129 E. GOFFMANN, Relation in public, New York, Harper, 1971, p. 293. 128
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vulnerabilità, di farle fare e di farsi dare tutto quello che vuole, di controllare le tensioni che nascono dalla situazione.130 E’ inoltre decisivo non solo conoscere gli altri ladri, gli spacciatori, i ricettatori perché di qualcuno di questi possono aver bisogno per il loro lavoro ma anche, i sorveglianti, gli investigatori privati, i poliziotti i borghese, in cui rischiano di imbattersi nei momenti più delicati. Infine è decisivo saper nascondere la propria identità, conoscere l’arte di non suscitare l’allarme, di non far nascere sospetti, di non dare nell’occhio, di apparire naturali, normali, inoffensivi. E’ un’arte che chi ruba impara col tempo, osservando attentamente le reazioni degli altri.131
4.3.
Omicidio
L’omicidio è forse il crimine per antonomasia, il crimine più grave, o almeno tra i più gravi.132 E’ definito come un’uccisione volontaria, non accidentale, di un essere umano da parte di un’altra persona o di un gruppo. Esso esclude le morti per negligenza, il tentativo di omicidio, le aggressioni che provocano la morte di qualcuno, e le morti accidentali. La rapina è di solito considerata un crimine violento, ma, nonostante la minaccia di violenza e l’intimidazione presente, non ha la sovrapposizione concettuale che accomuna le lesioni aggravate e l’omicidio. Il rischio di un danno fisico è presente, anche se solo l’omicidio porta alla morte.133 L’omicidio rappresenta l’archetipo di fatto illecito, punito con le più severe sanzioni criminali in tutti gli ordinamenti e in tutte le epoche storiche. La tutela della vita di ciascun consociato dalle offese che altri possano arrecarvi costituisce un nucleo irriducibile delle funzioni statuali, ed in qualsiasi ordinamento giuridico è prevista una sanzione per il fatto di privare un altro della propria vita: cagionare la morte altrui è un’azione che nessuna collettività umana può tollerare, pena il ritorno ad un pre-sociale homo homini lupus. L’interesse giuridico tutelato da tutte le fattispecie di omicidio presenti nel nostro ordinamento è la vita
130
E. GOFFMANN, op. cit., pp. 157/216. Ivi, pp. 287/301. 132 I. MERZAGORA BETSOS, Criminologia della violenza e dell’omicidio, dei reati sessuali e dei fenomeni di dipendenza, CEDAM Edizioni, Padova, 2006, p. 3. 133 C. P. MALMQUIST, op. cit., pp. XVI-XVII. 131
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umana. Soggetto passivo e insieme oggetto materiale dei reati di omicidio è l’uomo di cui viene cagionata la morte.134 Bisogna distinguere tra omicidio primario, o di primo grado, cioè quello in cui la morte sopravviene per un più o meno spontaneo confronto o scontro tra individui o gruppi, e o omicidio di secondo grado, in cui vi è l’intenzionalità ma non la premeditazione.135 Si parla di omicidio in corso di reato grave quando la morte avviene nel contesto di un altro crimine (per es. rapine, omicidi a sfondo sessuale, esecuzioni, violenza tra bande rivali ecc).136 Generalmente si pensa all’omicidio volontario consumato ma sotto il profilo giuridico se ne distinguono molte forme.137 La classificazione138 è fra omicidi di:
-
mafia;
-
delinquenza comune, che comprende gli omicidi commessi da professionisti del crimine, non mafiosi, che colpiscono soggetti sia interni che esterni al mondo delinquenziale;
-
interessi economici, al di fuori della delinquenza professionale (vi rientra anche il rapinato che uccide il rapinatore);
-
onore-passione;
-
familiare;
-
vendetta;
-
occasionale, per esempio nel corso di un alterco o di una rissa;
-
ordine pubblico, dove l’autore è il tutore dell’ordine.
L’Uniform Crime Reports (UCR), pubblicato dal Federal Bureau of Investigation (FBI), è una ricca fonte di dati sui livelli macroscopici dell’omicidio. L’omicidio viene definito come un’uccisione volontaria, non accidentale, di un essere umano da parte di 134
F. VIGANO’ (a cura di), Reati contro la persona, G. Giappichelli Editore, Torino, 2004, p. 1/3. C. P. MALMQUIST, op. cit., p. 64. 136 Ivi, p. 28. 137 Omicidio volontario (art. 575 c.p.), omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.), omicidio colposo (art. 589 c.p.), infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale (art. 578 c.p.), omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), hanno sanzioni diversissime: pensiamo ai 6 mesi nel minimo per l’omicidio colposo, ai 21 anni, sempre nel minimo, per il volontario. I. MERZAGORA BETSOS, op. cit., p. 6. 138 ivi, pp. 179-180. 135
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un’altra persona o di un gruppo. Esso esclude le morti per negligenza, il tentativo di omicidio, le aggressioni che provocano la morte di qualcuno, e le morti accidentali. Pure l’omicidio giustificabile, quando una vittima viene uccisa mentre stava commettendo un grave crimine o quando un criminale ricercato dalla legge viene ucciso, rimane escluso dalla definizione. L’omicidio è di solito classificato come appartenente al gruppo dei gravi crimini violenti. Da un punto di vista pratico, i concetti di lesioni aggravate e di omicidio sono molto vicini, in quanto a volte può trattarsi solo di un caso fortuito se la violenza contro un’altra persona non ha provocato la sua morte; l’atto violento è stato quindi classificato penalmente come lesione e non come omicidio. Per esempio, una ferita d’arma da fuoco a pochi centimetri a destra dello sterno, che quindi manca il cuore e i principali vasi, permette alla vittima di sopravvivere, ma, per ogni altro aspetto, gli ingredienti dell’atto sono quelli di un omicidio. Infatti, alcuni sostengono che alcuni omicidi sono in effetti aggressioni a mano armata fallite, in cui la vittima finisce con l’essere uccisa. L’opinione opposta è che le aggressioni a mano armata siano omicidi falliti, in cui la vittima è sopravvissuta. La rapina di solito è considerata un crimine violento, ma, nonostante la minaccia di violenza e l’intimidazione presente, non ha la sovrapposizione concettuale che accomuna le lesioni aggravate e l’omicidio. Persino la grave aggressione sessuale, anche se può presentare sovrapposizioni con l’omicidio, ha caratteristiche sue proprie, così come l’omicidio a sfondo sessuale è una sottocategoria dell’omicidio.139
Tutti questi reati violenti condividono le seguenti caratteristiche: •
il rischio di un danno fisico è presente, anche se solo l’omicidio porta alla morte;
•
la vittima di tale atto è posta in una situazione in cui è presente una grande quota d’ansia. Questo vale per ognuna delle vittime dei crimini violenti citati, compresi coloro che sono sopravvissuti ad un tentato omicidio;
•
ci sono conseguenze a lungo termine per l’autore del reato e per la vittima.
Non solo l’autore di reato può essere condannato ad una lunga carcerazione o alla pena capitale, ma le sequele psicologiche possono avere anche effetti a lungo termine 139
C. P. MALMQUIST, op. cit., p. XVI.
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sul comportamento successivo. Anche se alcune vittime di un tentato omicidio, di una lesione aggravata, di una rapina, o di un’aggressione sessuale possono riportare conseguenze minime o nessuna, non tutte sono così fortunate. Alcune vittime possono avere conseguenze analoghe agli effetti a lungo termine osservati nei veterani anni dopo i combattimenti; di fatto, questi effetti, che provengano da contesti militari o civili, sono attualmente classificati nell’ambito della diagnosi di disturbo post-traumatico da stress140.141 Anche se il rapporto vittima autore negli omicidi è spesso definito in termini legali familiari o relazioni strette, il numero degli omicidi commessi da estranei è cresciuto in modo significativo negli ultimi anni. Come delineato dai dati UCR, la maggior parte degli omicidi avviene nell’ambito di ciò che viene definito come omicidio primario: primario si riferisce alla morte che avviene nel corso di uno scontro relativamente spontaneo tra persone che si conoscono. Secondo l’UCR, il 16% degli autori di reato e delle vittime è membro della stessa famiglia, e un altro 40% è dato da amici, vicini e conoscenti. Solo il 13% degli omicidi avviene tra estranei. Nel 30% dei casi, la polizia non è in grado di determinare l’esistenza di un precedente rapporto tra l’autore di reato e la vittima. Questo può accadere perché non si riesce a scoprire chi è l’assassino, o perché mancano elementi evidenti per stabilire qualche connessione. Per gli omicidi c’è un 70%-75% di “tasso di identificazione” (un arresto) e un’alta percentuale di denunce, in quanto solo pochi omicidi non vengono mai denunciati all’autorità. Sembra che circa il 50% degli omicidi avvenga durante un litigio, mentre un altro 25% si verifica sotto l’effetto dell’alcool o droghe.142 I casi concreti non sembrano differenziare il problema dell’omicidio giovanile in quanto tale dagli omicidi di altri gruppo di età. Molti degli stessi fattori psicologici e sociali che alimentano la propensione all’omicidio nella popolazione adulta operano anche nei giovani. In ogni caso, nella valutazione dei quadri psicopatologici giovanili, va considerato anche il fatto che questi giovani non sono organismi completamente 140
Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) è inteso come un disturbo che ha una causa esterna evidente in un evento macroscopicamente traumatico; nel PTSD, i fattori della personalità assumerebbero una rilevanza minore, anche se, in opposizione a questa idea, altri autori ritengono che la personalità incide sul PTSD i diversi modi, influenzando sia la vulnerabilità dell’individuo a sviluppare il PTSD sia il decorso o l’espressione del PTSD stesso. V. LINGIARDI, La personalità e i suoi disturbi. Lezioni di psicopatologia dinamica, Il Saggiatore, Milano, 2004, pp. 130-131. 141 C. P. MALMQUIST, op. cit., p. XVII. 142 Ivi, pp. 10-11.
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formati in senso biologico, almeno in parte, e non hanno caratteristiche psicologiche stabilizzate, nel senso di una struttura del carattere definitiva. Un altro aspetto del problema è che gli adulti non amano pensare che i bambini siano in grado di commettere atti omicidi uguali a loro. La rivelazione degli stessi rende il tema degli omicidi dei giovani molto accattivante per il pubblico ed i media, che sembrano mai paghi delle storie confessate dagli adolescenti. In tutti questi casi, un aspetto terrificante fascino permea la descrizione della violenza estrema perpetrata da un adolescente. E’ importante tenere conto del fatto che i giovani che commettono un omicidio non formano un gruppo omogeneo più di coloro che commettono atti di delinquenza specifici. Se è piuttosto difficile classificare gli omicidi dal punto di vista legale, è ancora più difficile classificarli secondo le condizioni psicopatologiche, specialmente quando perpetrati da un adolescente. Tenendo presenti queste cautele, sono diversi i tipi di omicidi commessi da adolescenti. Una possibilità è che l’omicidio sia un’azione individuale in cui si può obiettivare un quadro psicopatologico e in cui la diagnosi che ne consegue spiega in parte l’atto. Qualche volta l’atto è un omicidio agito contro un componente della famiglia, o può essere un atto di eccidio familiare realizzato contro la famiglia intera. In altre situazioni ancora, l’atto esplode nel corso di un confronto violento tra due giovani, di cui uno rimane gravemente ferito e l’altro può essere ucciso. Un’altra possibilità è l’omicidio realizzato da ragazzi in gruppi o bande. Questo accade nell’ambito delle dinamiche di gruppi operanti in base a sfida, provocazione, e bisogno di difendere il proprio territorio o la propria persona. Quale che sia la situazione, le ferite d’arma da fuoco sono diventate la seconda causa di morte tra i teenager negli anni ottanta.143 Durante la mia osservazione ai colloqui con i detenuti, ho potuto constatare che, sia nella storia del detenuto ergastolano, che dell’uxoricida che del freddo omicida, esistono svariati modi di uccidere, di percepire il delitto e di affrontarlo. Si tratta di decessi senza motivo, rivolti al nostro vicino di casa, ad un amico, ad un familiare, per mano di una persona che non possiamo in nessun modo giustificare e che all’apparenza può apparire stabile ed affettuosa. Uno degli argomenti attualmente controversi è la relazione tra disturbi di personalità che hanno origine nell’infanzia e nell’adolescenza e successivi disturbi 143
C. P. MALMQUIST, op. cit., pp. 275-276.
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dell’età adulta. Una linea di indagine iniziale riguarda la possibilità di individuare nei quadri comportamentali infantili orientamenti predittivi, che abbiano poi rilevanza per la violenza omicida nel’adolescenza e nell’età adulta. Per esempio, la timidezza persistente nell’infanzia o nell’adolescenza può corrispondere alla diagnosi di disturbo di personalità evitante nell’età adulta, il disturbo oppositivo provocatorio può corrispondere a molti disturbi di personalità. A loro volta, le varie manifestazioni di disturbo della condotta potrebbero essere considerate come indicatori di una tipologia di disturbo di personalità che potrebbe infine sfociare nei disturbi di personalità borderline144, narcisistico o antisociale.145 La dizione di follia istantanea (o monomania istintiva), usata per identificare uno scompenso psicopatologico momentaneo, transeunte, brusco e repentino, con successiva, completa remissione risale indietro nel tempo. Nel secolo XIX veniva considerata sotto la dizione di follia transitoria o passeggera “non solo ogni disordine psichico che, manifestandosi improvvisamente, sparisce in poco tempo”, ma anche “gli accessi di follia caratterizzati da intervalli lucidi, intermittenze regolari o irregolari”.146 Rilevante è considerare il termine di discontrollo episodico, introdotto nella letteratura psichiatrica nel 1956 da Menninger e Mayman. Essi rilevarono come l’Io in condizioni di stress prolungate e inaspettate, per conservare il proprio equilibrio, ponesse in atto tre diversi meccanismi di regolazione:
1. il primo includeva quei fenomeni genericamente indicati come “nervosismo” (insonnia, instabilità, angoscia); 2. il secondo comprendeva le vere e proprie condizioni nevrotiche, con evasione dalla realtà attraverso fantasie che scaricavano la frustrazione; 3. il terzo si configurava nel discontrollo episodico, caratterizzato dal fatto che l’impulso aggressivo sfuggiva ad ogni controllo dell’Io e si esprimeva in modo episodico ed esplosivo con una successiva ripresa del controllo.
144
Instabilità delle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé e nello sviluppo degli affetti, spesso segnata da marcata impulsività. V. LINGIARDI, op. cit., p. 414. 145 C. P. MALMQUIST, op. cit., pp. 283/285. 146 U. FORNARI, Monomania omicida. Origini ed evoluzione storica del reato d’impeto, Centro Scientifico Editore, Torino, 1997, p. 119.
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Una quarta modalità di regolazione, tenuta peraltro distinta dalle tre precedenti, era costituita dalle esplosioni di violenza auto o etero distruttiva degli psicotici. Nella loro teoria, il discontrollo era caratterizzato dal fatto che l’individuo (non psicotico, altrimenti sarebbe rientrato nella quarta categoria sovra citata) trovandosi di fronte a stress inattesi e prolungati, reagiva agli stessi con modalità aggressive improvvise ed esplosive che comportavano una “frattura” con la realtà. Al termine della reazione si ristabiliva l’equilibrio del soggetto che non conservava ricordo di ciò che aveva compiuto. Menninger e Mayman osservavano inoltre che il comportamento aggressivo episodico poteva essere di tipo sociopatico, quando era determinata da conflitti in famiglia o nella società; questi individui avevano un comportamento anche criminale, ma non erano disorganizzati nella struttura della loro personalità. Poteva anche trattarsi di un comportamento psicopatico. I soggetti definiti “borderline”, si comportavano normalmente e in conformità con la realtà e solo occasionalmente mostravano un comportamento anomalo.147 L’omicidio, improvviso e immotivato, era visto come conseguenza di un periodo di aumento di tensione e di una disorganizzazione dell’Io che immediatamente precedeva il fatto. La vittima, dopo essersi adattata ai conflitti inconsci dell’omicida, inconsapevolmente serviva a motivarne il passaggio all’atto.148 Talvolta è l’autorità di altre voci (commentanti, dialoganti o echi del pensiero secondo la catalogazione di Schneider 1952 e 1973), che, staccatesi dall’Io, giungono al soggetto da un remoto passato individuale, familiare, storico. Voci fantasmatiche dell’assenza, dell’irrealtà, dal tono generalmente accusatorio, sgradevole, irridente, tormentante o auto celebrativo, incapaci di instaurare un dialogo fruttuoso con la logica e i contenuti del presente. In forma di “sussurri e grida”, riprovano e lodano, ratificano e condannano frasi o comportamenti, impartiscono ordini e consigli, spesso sibillini, che costringono il delirante a logoranti sforzi interpretativi. 149 Da qui il concetto di raptus, che potrebbe prendere il sopravvento sulla realtà. Infatti il raptus è stato definito come l’impulsiva necessità di passaggio all’atto che sopravviene in risposta a una imperiosa necessità istintiva e si manifesta come impulso ego sintonico o ego distonico o risponde a esigenze deliranti o allucinatorie. In effetti, è 147
U. FORNARI, op. cit., p. 193. Ivi, p. 194. 149 R. BODEI, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 53. 148
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molto difficile, se non impossibile, dare una definizione psicopatologica di un siffatto comportamento, al quale si possono riconoscere significati non sempre sovrapponibili e che spesso richiede modelli di lettura diversificati.150
150
U. FORNARI, op. cit., p. 201.
78
CAPITOLO 3
IL CARCERE: VERSO LA RISOCIALIZZAZIONE
1.
Ordinamento penitenziario (Legge n° 354 del 26 Luglio 1975)
Con l’espressione “Ordinamento Penitenziario” si allude essenzialmente al complesso normativo della L. 26 luglio 1975 n° 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), integrata dal D.P.R 29 aprile 1976 n° 431 (Approvazione del regolamento di esecuzione1 della L. 26 luglio 1975 n° 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).2 Importanti innovazioni sono state tuttavia apportate a tale normativa dalla L. 10 ottobre 1986 n° 663 (c.d Legge Gozzini3) e dai D.L Antimafia del 13 maggio 1991 n° 152 (convertito in L. 12 luglio 1991 n° 203) e 8 giugno 1992 n° 306 (convertito in L. 7 agosto 1992 n° 356). La Legge 10 ottobre 1986 n° 663 (Legge Gozzini) ha introdotto una serie di rilevanti modifiche nell’O. P., ispirate per lo più all’intento di realizzare una maggiore “umanizzazione” della pena.4 La Legge 1
Il Regolamento di esecuzione nasce con il D.P.R del 30 giugno 2000, n° 230, formato da 136 articoli e si riferisce al trattamento penitenziario e alle disposizioni relative all’organizzazione penitenziaria. 2 G. C. ZAPPA, C. MOSETTI, Codice penitenziario e della sorveglianza, Celt Edizioni, Piacenza, 2008, p. 561. 3 La legge Gozzini è nata nel 1986 su iniziativa del senatore cattolico della sinistra indipendente, Mario Gozzini. La Gozzini ripristinò, nei fatti, la riforma del ’75 di cui è un tassello fondamentale: da un lato il carcere deve abituare i propri abitanti alla libertà e a organizzare in modo autonomo la propria giornata detentiva, eliminando, o cercando di eliminare la finzione, il gioco dei ruoli, la relazione sovrano-suddito; dall’altro lato, la libertà e l’autonomia vanno sperimentate gradualmente e consapevolmente all’esterno, aprendo pian piano le porte del carcere. La tensione alla rieducazione viene pianificata anche attraverso un percorso esterno al muro di cinta e si progettano, quindi, altri modi di scontare la pena, che non escludano più il condannato dal contesto sociale. Quest’ultima è, appunto, la funzione della Gozzini. L. CASTELLANO, D. STASIO, Diritti e castighi. Storie di umanità cancellata in carcere, Edizioni Il Saggiatore, Milano, 2009, pp. 166-167. 4 G. C. ZAPPA, C. MOSETTI, op. cit., p. 562.
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n° 354 del 26 luglio 1975 ha dato una significativa attuazione al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Costituzione). Questo è quello che sancisce: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. L’articolo 27 è infatti il più rilevante in riferimento alla detenzione. Enuncia due principi fondamentali: il divieto di praticare trattamenti contrari al senso di umanità e la finalità rieducativa dell’esecuzione della pena. Naturalmente ci troviamo davanti a due principi che non possono essere scissi tra loro perché è impossibile la rieducazione del soggetto se si adoperano modalità lesive della dignità dell’uomo, pertanto il rispetto della persona costituisce il presupposto per la rieducazione del reo. A questo proposito è utile fare un breve accenno sulle prigioni nel periodo tra il XVII e il XIII secolo, raccontate da uno dei testi più significativi su questo argomento, scritto da Michel Foucault5 “Sorvegliare e punire”. Lo inserisco proprio a questo punto del discorso per contrapporlo alla flessibilità dell’odierno ordinamento penitenziario, nel quale prevale il carattere riparativo, alternativo e rieducativo della espiazione della pena. In “Sorvegliare e punire” invece tutto ciò non esiste: tutto gira intorno al supplizio: pena corporale, dolorosa, più o meno atroce, diceva Jaucourt6. Una pena, per essere un supplizio, deve rispondere a tre criteri principali: deve, prima di tutto, produrre una certa quantità di sofferenza che si possa, se non misurare esattamente, per lo meno valutare, comparare e gerarchizzare; la morte è un supplizio nella misura in cui non è semplicemente privazione del diritto di vivere, ma occasione e termine di una calcolata graduazione di sofferenze: dalla decapitazione fino allo squartamento che le porta quasi all’infinito, passando per l’impiccagione, il rogo, la ruota sulla quale si agonizza lungamente; la morte-supplizio è l’arte di trattenere la vita nella sofferenza, suddividendola in “mille morti” e ottenendo, prima che l’esistenza cessi, “the most exquisites agonies”.7 Improvvisamente il supplizio è divenuto intollerabile. Questa
5
Paul Michel Foucault (Poitiers, 15 Ottobre 1926 – Parigi, 26 Giugno 1984) è stato uno storico e un filosofo francese. 6 Louis de Jaucourt (Parigi, 16 Settembre 1704 - 3 Febbraio 1779) è stato un medico, accademico ed enciclopedista francese. 7 M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi Editore, Torino, 1976, pp. 3637.
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necessità di castigo senza supplizio viene formulata dapprincipio come un grido del cuore o della natura indignata: nel peggiore degli assassini, una cosa almeno deve essere rispettata quando si punisce: la sua “umanità”.8 Si radica il principio che non bisogna mai applicare altro che punizioni “umane”, sia pure ad un criminale che può essere un traditore ed un mostro.9 La prigione, luogo di esecuzione della pena, è nello stesso tempo luogo d’osservazione degli individui puniti. In due sensi. Sorveglianza, certo. Ma anche conoscenza di ogni detenuto, della sua condotta, delle sue disposizioni profonde, del suo progressivo miglioramento; le prigioni devono essere concepite come un luogo di formazione di un sapere clinico sui condannati.10 Ed è così che ci si avvicina, pian piano, a quello che è il nostro sistema penitenziario benché ancora molto lontani dalla percezione del detenuto come persona con i suoi diritti e doveri. Interessante è fornire alcune informazioni riguardo le cosiddette “settembrine” ovvero delle celle piccolissime e alquanto lugubri, situate nella parte vecchia del carcere di Alghero, e utilizzate fino al ’75, anno in cui è entrato in vigore il nuovo Ordinamento Penitenziario, il quale sancisce, all’art. 6 O. P. che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati11 devono avere ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere la lettura; areati, riscaldati […] e dotati di servizi igienici riservati, […]”: quelle celle non erano di certo conformi a tali requisiti.
Ho ritenuto utile ai fini della comprensione dei trattamenti e delle regole imposte dagli istituti penitenziari, mettere a confronto due regolamenti interni d’istituto12, uno datato 1969/70 e l’altro, più odierno, del 2005, entrambi facenti riferimento alla Casa Circondariale13 di Alghero14. Notiamo solo alcune somiglianze ma notevoli divergenze che ci permettono di capire il graduale cambiamento dell’organizzazione dell’istituto in
8
M. FOUCAULT, op. cit., p. 80. Ivi, p. 100. 10 Ivi, p. 272. 11 La differenza tra condannato e internato è che il primo sconta una condanna a pena detentiva, il secondo, che non è considerato un detenuto, è sottoposto a una misura di sicurezza detentiva. F. RAMACCI, I delitti di omicidio, G. Giappichelli Editore, Torino, 2008, p. 6. 12 Regolamento interno d’Istituto Casa Circondariale di Alghero, anno 1969/70 e anno 2005. 13 E’ necessario fare un distinzione tra Casa Circondariale e Casa di Reclusione. La prima indica la permanenza di detenuti in attesa di essere condannati definitivamente mentre la seconda include, invece, tutti i detenuti definitivi. 14 Farò esclusivamente riferimento alla Casa circondariale di Alghero perché svolgendo un periodo di tirocinio specialistico all’interno della struttura, ho approfondito aspetti e regolamenti in riferimento a questo carcere. 9
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un lasso di tempo di trentacinque anni. Se il regolamento del 1969/70 contiene 115 articoli più 4 allegati riguardanti la tabella vittuaria estiva e invernale e il vitto per gli infermi, il regolamento del 2005 ne contiene solo 30 più 3 allegati. Entrambi iniziano con gli orari di apertura e chiusura dell’istituto che, nonostante i tanti anni passati, sono rimasti invariati. Trasformazioni sono evidenti in riferimento al lavoro: per esempio, nel vecchio regolamento non c’è nessuna allusione al reinserimento sociale, al contrario di quanto avviene nel nuovo regolamento dove, all’art. 29 si evince la disponibilità della direzione dell’istituto che individua le imprese, pubbliche o private, idonee a collaborare al trattamento penitenziario mettendo a disposizione adeguati posti di lavoro per i detenuti e gli internati, cercando di garantire, nel limite possibile, il lavoro a tutti i detenuti e gli internati. Gli operatori penitenziari provvedono a stimolare il senso di responsabilità affinché espletino l’attività lavorativa con impegno e professionalità, in modo che il lavoro penitenziario rispecchi quanto più possibile quello svolto nell’ambiente esterno. Anche in riferimento al servizio religioso, l’art. 36 del regolamento del 1969/70 dichiarava solo che le funzioni religiose avevano luogo nella cappella dell’istituto, mentre nel nuovo regolamento interno (art. 30) si distingueva tra il culto cattolico e altre religioni, dando la possibilità ai detenuti stranieri di ricevere l’istruzione e l’assistenza religiosa da parte dei ministri del loro culto nonché di celebrare i riti della propria confessione religiosa in locali idonei. Per quanto attiene invece le attività ricreative e scolastiche, se prima erano funzionanti solo le scuole elementari per gli analfabeti (art. 10) e altri corsi intesi al miglioramento culturale e professionali (art. 11), ora si possono frequentare anche corsi di studio diversi da quelli organizzati nell’istituto (art. 28): al carcere di Alghero è possibile conseguire il diploma di istruzione inferiore, superiore nonché proseguire con gli studi universitari. Per quanto riguarda il servizio biblioteca, in passato i detenuti ne usufruivano solo una volta a settimana e avevano la possibilità di prendere un solo libro in prestito per massimo sette giorni (artt. 37-38), mentre ora la biblioteca è aperta tutti i giorni feriali, organizzata su due turni, permettendo al detenuto di poter visionare i testi molto più spesso e prendere in prestito, per non più di quindici giorni, un massimo di tre pubblicazioni per volta (art. 22). Notiamo notevoli differenze anche per quanto riguarda i colloqui con i familiari: sulla base del regolamento interno del 1969/70 i colloqui venivano effettuati due volte alla settimana, facendo particolare attenzione all’incontro fra detenuti e i prossimi
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congiunti di età fra i 6 e i 17 anni, i cui incontri venivano effettuati in una sala diversa da quella adibita ai regolari incontri (art. 50). Nel regolamento del 2005 invece, i colloqui venivano svolti negli appositi locali o anche all’esterno, per tre volte a settimana, con la possibilità di effettuare colloqui in orari o giorni diversi, in caso di impossibilità comprovata. Il colloquio ha la durata di un’ora (art. 12), nel regolamento passato questo non è riscontrabile. L’attività ricreativa, in passato, doveva essere intesa a ritemprare il corpo e lo spirito (art. 18) mentre nel regolamento del 2005 l’art. 13 sancisce che le attività devono essere svolte compatibilmente con le infrastrutture dell’istituto. Concludendo, evidenziamo un’altra differenza, o meglio, una omissione da parte del regolamento interno del 1969/79 in riferimento alle modalità di interventi di trattamento. Nel nuovo regolamento, l’art. 27 sancisce che gli appositi incontri di trattamento avvengono a iniziativa degli operatori penitenziari, nonché su richiesta dei detenuti o internati stessi. In ogni caso la partecipazione agli incontri è volontaria. La direzione dell’istituto addiviene ad accordi con gli enti territoriali e con le associazioni pubbliche o private, nonché con le persone che svolgono attività in campo sociale ed assistenziale, al fine di agevolare e garantire quanto più possibile l’integrazione delle risorse per il reinserimento sociale dei condannati e degli internati. Emergono quindi dei dati
prevalentemente
contrastanti,
in
un’onda
di
miglioramento
qualitativo
dell’organizzazione interna e di efficienza delle attività trattamentali. (Allegato A)
Ritornando al discorso dell’ordinamento penitenziario, nella Legge n° 354 del 75 possiamo individuare diversi gruppi di norme:
a)
quelle dedicate al trattamento intramurale del detenuto
b)
quelle inerenti al regime propriamente “penitenziario”
c)
quelle che enunciano i diritti fondamentali del detenuto
d)
quelle dedicate al trattamento extramurale
e)
quelle in tema di soggetti e di procedure
Nel corso dell’intero capitolo, affronteremo solo alcuni dei 91 articoli dell’ O. P., solo quelli che ho avuto modo di riscontrare nel mio periodo di tirocinio e quelli che possono essere utili a comprendere meglio la vita intramuraria di ogni detenuto e le
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modalità di trattamento riabilitativo. Partendo dai principi direttivi dell’ordinamento penitenziario e quindi dall’art. 1, si evince che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona, improntando il tutto ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome e nei loro confronti deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli fino alla condanna definitiva.15 Dobbiamo renderci conto che si parla di condanna definitiva quando si sostiene che il reo non può essere considerato colpevole se non è condannato definitivamente. Esiste infatti la carcerazione preventiva, detta anche custodia cautelare, la quale precede lo svolgimento del processo e quindi l’accertamento della responsabilità penale. Essa può essere disposta dal giudice solo quando, in presenza di gravi indizi, si verifichi una di queste esigenze: evitare che l’imputato fugga, impedire che approfitti della libertà per creare prove false (“inquinamento delle prove”) e per impedirgli di continuare a commettere gravi reati.16 Naturalmente c’è chi pensa che il soggetto non debba essere accompagnato in prigione se non si hanno le prove della sua colpevolezza ma la carcerazione preventiva è insopprimibile: nel libro “Diritto pubblico” troviamo la seguente frase: “non si può pensare di lasciare in libertà pericolosi delinquenti per tutto il tempo che occorre allo svolgimento del processo”.17 Per quanto riguarda le condizioni di vita del detenuto in riferimento alla vita intramuraria possiamo notare che le caratteristiche degli edifici penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati e devono essere dotati, oltre che di locali per le esigenze di vita individuale, anche di locali per lo svolgimento di attività in comune (art. 5). Inoltre i locali devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale in modo da permettere il lavoro e la lettura, aerati, riscaldati e dotati di servizi igienici riservati, tenuti in buono stato di 15
F. PERONI, A. SCALFATI, Codice dell’esecuzione penitenziaria, Giuffrè Editore, Milano, 2006, pp. 163-164. 16 G. ZAGREBELSKY, G. OBERTO, G. STALLA, C. TRUCCO, Diritto pubblico. Vol. 3, Le Monnier Scuola, Milano, 2007, p. 97. 17 Ibidem.
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conservazione e di pulizia con adeguato corredo per ogni detenuto (art. 6). Ciascun detenuto è fornito di biancheria, di vestiario e di effetti di uso in quantità sufficiente (art. 7) e, per l’igiene personale, è assicurato l’uso adeguato e sufficiente di lavabi e di bagni o docce, nonché degli altri oggetti necessari alla cura e alla pulizia della persona (art. 8). Per quanto concerne il servizio sanitario, ogni Istituto Penitenziario è dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati: dispone, inoltre, dell’opera di almeno uno specialista in psichiatria (art. 11). Il rapporto con i propri familiari invece è sancito dall’art. 18, in materia di colloqui, corrispondenza e informazione, e sostiene che “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere i colloqui e corrispondenza con i congiunti e altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici, […] sotto il controllo a vista ma non auditivo”. La Circ. D.A.P (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) 26 ottobre 1988 n° 3254/5704, “Corrispondenza telefonica dei detenuti ed
internati, conversazioni telefoniche in lingua straniera”, sostiene che l’intera conversazione telefonica è in ogni caso interamente ascoltata e registrata a mezzo di idonee apparecchiature. Tale adempimento è evidentemente finalizzato a prevenire e ad impedire che, tramite tale contatto, possano realizzarsi attività illecite. Qualora nell’istituto non vi sia un operatore penitenziario in grado di comprendere correttamente una lingua straniera, le SS. LL dovranno avvalersi dell’ausilio di un interprete di sicuro affidamento, ricercandolo fra coloro che sono iscritti nello speciale albo del tribunale. Sarà una traduzione simultanea per permettere all’agente di intervenire qualora sorgano sospetti o indizi illeciti.18 In riferimento ai trasferimenti, l’art. 42 O. P. sostiene che “I trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze di istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari. [e per] destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie. […] trasferiti con il bagaglio personale e con almeno parte del peculio. […] sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, nonché per ridurne i disagi. E’ consentito solo l’uso di manette tranne che ragioni di sicurezza impongano l’uso di altri mezzi”.19 Il rispetto per la persona di cui abbiamo parlato, deve avvenire non solo dagli operatori penitenziari verso i detenuti ma anche dai detenuti verso il personale 18 19
G. C. ZAPPA, C. MASSETTI, op. cit., pp. 862-863. Ivi, p. 445.
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carcerario, nei confronti degli altri detenuti e della struttura penale. Nel caso un detenuto non osservasse tutte le regole dell’istituto, sono previste, a suo carico, delle sanzioni disciplinari sulla base delle infrazioni da lui commesse. Queste infrazioni e sanzioni disciplinari sono sanzionate rispettivamente dagli artt. 38 e 39. “I detenuti e gli internati non possono essere puniti per un fatto che non sia espressamente previsto come infrazione dal regolamento. […] bisogna tener conto, oltre che della natura e della gravità del fatto, del comportamento e delle condizioni personali del soggetto. Le sanzioni sono eseguite nel rispetto della personalità”. “Le infrazioni disciplinari possono dar luogo solo alle seguenti sanzioni:
1.
richiamo del Direttore;
2.
ammonizione;
3.
esclusione da attività ricreative e sportive per non più di dieci giorni;
4.
isolamento durante la permanenza all’aria aperta per non più di dieci giorni;
5.
esclusione dalle attività in comune20 per non più di quindici giorni.
Le prime due sono sanzionate dal Direttore del carcere, le ultime tre invece dal Consiglio di Disciplina, (art. 40 O. P.) composto dal Direttore o, in caso di suo legittimo impedimento, dall’impiegato più elevato in grado, con funzioni di presidente, dal sanitario e dall’educatore. Per ogni detenuto, è previsto un periodo di osservazione definita meglio come osservazione scientifica di personalità. Secondo il Regolamento di esecuzione, “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”, nell’art. 27 l’osservazione è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze psico-fisiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione. Ai fini dell’osservazione si provvede all’acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, clinici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli 20
La differenza tra l’esclusione dalle attività ricreative e sportive e le attività in comune è che nelle prime viene vietato per es. l’uso del calcetto, mentre nel secondo caso il detenuto sarà completamente isolato dalla vita degli altri detenuti, sulla base dell’art. 33 O. P. (isolamento).
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interventi di trattamento. Sulla base dei dati giudiziari acquisiti, viene espletata, con il condannato o l’internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa. Al comma 3 si sostiene che nel corso del trattamento l’osservazione è rivolta ad accertare, attraverso l’esame del comportamento del soggetto e delle modificazioni intervenute nella sua vita di relazione, le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione del programma di trattamento. L’osservazione scientifica di personalità è, quindi, il contributo di tante persone (assistenti sociali, cappellano, educatori, docenti). Ha una durata di 9 mesi21, diminuiti in caso di udienze o avvenimenti particolari ed è riferita solo ai detenuti definitivi. Se invece sono solo imputati non è possibile effettuare l’osservazione né il trattamento riabilitativo ma solo il sostegno. Quest’ultimo non è altro che un supporto a 360° di natura psicologica, familiare, da parte dei volontari, del cappellano e di altre figure, in riferimento quindi a dei bisogni immediati che possono riguardare anche i servizi del Ser.d nei casi più particolari come le dipendenze. E’ necessario che il soggetto, arrivando dalla libertà, non viva l’ingresso in un sistema contenitivo come un avvenimento che leda la sua dignità e i suoi diritti, giustificato dal fatto che non gli è stata inflitta nessuna condanna definitiva. Ritornando al concetto di osservazione, l’art. 13 sostiene che il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto e che è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche e le altre cause del disadattamento sociale. L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa. Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite nella cartella personale nella quale sono successivamente annotati gli sviluppi del trattamento pratico e i suoi risultati. “Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica…” (Art. 18). L’osservazione quindi, corrisponde ad un rapporto monodisciplinare (dove ogni area/disciplina presenta la sua relazione su quel determinato detenuto) fino a che non si arriva ad un rapporto multidisciplinare, ad una visione unica della persona attraverso il confronto con le 21
Nell’art. 27, comma 2 del Regolamento di esecuzione che nasce con il D.P.R del 30 giugno 2000 n° 230, si sancisce che il programma di trattamento personalizzato è compilato nel termine di nove mesi.
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diverse relazioni. Alla fine deve essere stilata una Relazione di sintesi, ovvero una sorta di riepilogo di quale è stata la vita detentiva del carcerato e quale potrebbe essere il programma di trattamento riabilitativo più idoneo. Per fare ciò, si parte dall’inquadramento sulla situazione giuridica del detenuto (reato contestato, giorno dell’arresto, ingresso al carcere e fine pena), la sua situazione familiare riguardante dettagli sulla vita dei singoli componenti in rapporto col detenuto (questa parte viene redatta dalle assistenti sociali che hanno in carico il soggetto), il percorso intramurario (di competenza dell’educatore di riferimento) che comprende tutte le attività e la vita generale all’interno della struttura ecc. Importanti sono le riflessioni sulla vittima per quanto concerne il reato (eventuale pentimento, svalutazione della vittima…) fino alla presentazione di un programma di trattamento dove l’educatore esprime la possibilità o meno di far usufruire al soggetto di determinati benefici. Naturalmente la sintesi viene presentata all’équipe anche se la concessione o la revoca di tali benefici spetta al Magistrato di Sorveglianza.
2.
La Casa Circondariale di Alghero: ieri ed oggi
Con la seduta straordinaria del Consiglio Comunale di Alghero, datata 2 Marzo 1861, l’allora Consiglio Comunale “votava di cedere gratuitamente e senza alcun canone il terreno comunale detto “Monte S. Giovanni” al Governo posto nelle vicinanze di questa città dove poter in quel locale erigersi un Penitenziario e al tempo stesso tutto l’altro terreno comunale detto di Cuguttu22 […] di cui già venne trasmesso il tipo all’Amm.ne della Marina all’oggetto di formare con l’opera dei condannati dello stesso Penitenziario, uno stabilimento agricolo”.23 Siccome però non poteva avere luogo la costruzione di tale penitenziario se prima non veniva sanzionata dai Poteri dello Stato un’apposita legge, la deliberazione non ebbe alcun effetto. Il Consiglio deve dunque prendere altre delibere: l’8 Marzo 1864, con la Seduta Straordinaria del
22
Il termine Cuguttu è una parola sarda. Nel vocabolario sardo-italiano di Giovanni Spano, alla voce “cuguttu”, si precisa che è un termine logudorese e si rimanda a “cuguddu”, che significa “cappuccio” e viene spesso utilizzato in diversi detti popolari. G. SPANO, Vocabolariu Sardu-Italianu A-E, Ilisso, Nuoro, 1998, p. 367. 23 Archivio Storico Comunale di Alghero, Verbale di deliberazione di Consiglio Comunale dell’8 Marzo 1864 (cc. 142-143v.).
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Consiglio Comunale di Alghero, “con la deliberazione presa nella seduta straordinaria del 2 Marzo 1861, […] per la votazione di sud.to terreno di S. Giovanni, colla riserva di cedere posteriormente e quando ne sarà richiesto quello detto di Cuguttu per formare uno stabilimento Agricolo coll’opera degli stessi condannati”.24 Successivamente, il 13 Giugno 1864 l’oggetto era la cessione del terreno comunale di Cuguttu al Ministero della Marina: “questo Municipio coerente alle sue promesse è disposto cedere alla Marina per l’erezione del nuovo Bagno25 tutto il podere di sua proprietà detto “Colle di San Giovanni” […] che però avendo intenzione del prefato Ministero di comprendere nell’atto stesso l’obbligo assunto dal Municipio di mettere più tardi a disposizione del Penitenziario il terreno detto Cuguttu, […] il Consiglio delibera di cedere gratuitamente e senza alcun canone al Ministro della Marina il terreno Comunale detto Cuguttu, all’oggetto di formarne coll’opera dei condannati del nuovo Penitenziario uno stabilimento agricolo”.26 Con l’atto notarile del 18 agosto 186427, si riunivano in una sala del municipio di Alghero i rappresentanti del comune e quelli del Ministero della Marina per sottoscrivere un atto con il quale la città di Alghero cedeva e trasmetteva nella più ampia forma legale al Regio Governo di S. M. il re d’Italia e per esso al ministero della Regia Marina Italiana, “la cessione gratuita di beni immobili […] all’oggetto di erigere in detti beni un Penitenziario o Bagno Marittimo, ed uno stabilimento agricolo”. Nel presente atto sono inserite le due delibere sopracitate e, in allegato, la pianta del Piano del terreno di Cuguttu nel territorio di Alghero. Dalla cartina si evince l’appezzamento del terreno di Cuguttu, confinante a nord con lo Stagno del Cav. Gaetano Bollero, a sud con il Golfo di Alghero, a est con i
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Archivio Storico Comunale di Alghero, Verbale di deliberazione di Consiglio Comunale del 8 Marzo 1864 (cc. 142-143v.). 25 Ergastolo per forzati. Il termine “bagno penale” deriva dalla conversione dei bagni pubblici di Costantinopoli in prigione. Intanto il Governo, guardando agli esperimenti di altri Paesi, cominciò gradualmente a utilizzare il lavoro dei detenuti dei bagni penali nei lavori di bonifica di zone incolte, malariche, aride. Gradualmente i bagni penali furono chiusi per essere definitivamente soppressi dal Regolamento carcerario del 1891 che introdusse le colonie penali agricole, stabilimenti che davano migliori risultati sotto il profilo dell’utilizzo dei condannati in lavori di dissodamento di terreni e di coltivazione. La prima colonia agricola fu istituita nel 1858 sull’isola di Pianosa, nell’arcipelago toscano, mentre altre sorgeranno in vari luoghi situati sulla terraferma. Le citate informazioni mi sono state fornite dal l’Isp. S.S. Commissario Meloni Cav. Gesuino della Casa Circondariale di Alghero. 26 Archivio Storico Comunale di Alghero, Verbale di deliberazione di Consiglio Comunale del 13 Giugno 1864 (cc. 158-163v.). 27 Atti Notarili Alghero, Anno 1864, Vol. VIII, Archivio di Stato di Sassari.
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terreni di proprietà private e ad ovest con lo Stagno del Calich.28 La cessazione avveniva a perpetuità e gratuitamente e
senza onere di
sorta a carico
dell’Amministrazione Marittima la quale, dal canto suo, si obbligava ad erigervi un penitenziario Marittimo, coi relativi accessori. Si presentò proprio in questo periodo l’esigenza di individuare una località fuori dal centro abitato dove far lavorare i detenuti, dove le terre di Cuguttu venivano indicate come “terreno cui applicare come mezzo moralizzatore i forzati”. I detenuti del carcere di Alghero iniziarono così l’opera di bonifica dei terreni paludosi della laguna costiera del Calich: questa zona paludosa era un luogo malsano, malarico e non adatto alla coltivazione. I detenuti alloggiavano nel caseggiato detto Centrale, che ospitava anche i locali per gli uffici e gli appartamenti per il personale del carcere. In un’altra grande costruzione si trovano le stalle e un deposito per gli attrezzi. La colonia penale fu chiusa intorno al 1933. Nel 1934 nacque l’Azienda Agricola di Maria Pia. Il caseggiato della Centrale dell’ex colonia penale divenne una cantina dove si produceva il vino, e le stalle furono sopraelevate al fine di costruire gli alloggi per alcuni coloni.29 Il Bagno Penale di Alghero, quindi, nasceva giuridicamente con la Legge n° 1694 del 25 febbraio 1864, costituita da 3 articoli, con la quale il Senato e la Camera dei Deputati, sotto il regno di Vittorio Emanuele II°, per Grazia di Dio e per volontà della Nazione, Re d’Italia, approvava “le opere occorrenti all’erezione di un ergastolo per forzati nella località del Colle S. Giovanni presso Alghero, autorizzando la spesa complessiva di Lit. 422.000”.30 Il colle di S. Giovanni, sul quale si estende lo stabilimento si eleva a circa 12 metri sul livello del mare e dista da questo un paio di centinaia di metri. Quando l’istituto fu costruito era in aperta campagna, lontano dalle vecchie mura della città circa 400 metri.31 Questo lo si può notare grazie alla planimetria del 1909 indicante il piano d’ingrandimento della Città di Alghero, in cui è visibile il terreno della odierna Casa Circondariale, dove si nota chiaramente il perimetro circondato esclusivamente da un vignetto, dalla Strada Nazionale Alghero28
Nella pianta relativa al terreno comunale di Cuguttu, datata 18 Agosto 1864 e allegata all’Atto Notarile di cui alla nota sopra, notiamo la presenza di alcune “linee punteggiate in rosso [che] indicano il nuovo tracciato che si propone venga dato alla strada tra Porto Conte ed Alghero allo scopo di limitare la servitù di passaggio del terreno di Cuguttu”. 29 Le citate informazioni mi sono state fornite dal l’Isp. S. S. Commissario Meloni Cav. Gesuino della Casa Circondariale di Alghero. 30 Archivio di Stato di Sassari, Decreti Legge Copia, Anno 1864, Vol. 9, pp. 296/297. 31 Le informazioni storiche sono state raccolte dall’Archivio della Segreteria della Casa di Reclusione di Alghero e sono contenute nell’introduzione al Regolamento interno dell’istituto del 1969/70.
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Sassari, dalla strada di circonvallazione e da Via La Marmora.32 “Per mandare ad effetto il piano d’ingrandimento della Città occorre al Municipio di Alghero di occupare un tratto di terreno in possesso dell’Amministrazione Carceraria in prossimità del Carcere Penitenziario, per la costruzione di una linea interna, e che il Municipio in cambio intenda cedere un tratto di strada vicinale di proprietà comunale pagandone all’Amministrazione del Tesoro il valore della maggiore superficie acquistata […] e che ha confini a Levante il tratto di terreno comunale che costituisce la vecchia strada, a Ponente il rimanente terreno di proprietà del Bagno Penale, a Tramontana l’angolo dell’orto Fogu, a Mezzogiorno la strada nazionale.33 Oggi, circondato da case e palazzi, è da considerare il centro della città. La costruzione ha la forma di un rettangolo, con all’interno un grosso cortile e al pianterreno una lunga arcata sul lato ovest dove erano stati costruiti dei grossi magazzini per le lavorazioni e fu usata come “bagno penale” per ergastolani sino agli inizi degli anni ‘60. 34 Successivamente, negli anni ‘70 ospitò dei detenuti ad alto indice di pericolosità, appartenenti ad organizzazioni terroristiche ed eversive, e sul finire degli anni ‘80 divenne una piccola casa di reclusione con pochissimi detenuti e senza nessuna prospettiva per il futuro in quanto, nel frattempo le lavorazioni erano state chiuse e i locali in completo stato di abbandono tanto che nel 1986 il Ministero di Grazia e Giustizia, non ritenendo vantaggiosa la ristrutturazione pensò di dimettere l’Istituto e il 23/11/1988 ne venne decretata la chiusura definitiva. Successivamente, negli anni ‘90 si prese in considerazione la riapertura dell’edificio, partendo dal presupposto che, una volta decretata la chiusura della Casa di reclusione dell’Asinara nel circondario di Sassari, non ci sarebbe rimasta nessuna opportunità per i detenuti in espiazione di pena in quanto gli unici Istituti della Provincia (Sassari e Tempio Pausania) erano delle Case Circondariali con annesse, piccole sezioni per la reclusione. La Casa circondariale, dal momento in cui aveva riaperto i battenti (1998), era di fatto stata di fatto utilizzata come Casa di Reclusione, ospitando detenuti di media sicurezza con pene medio - alte. 32
Archivio storico comunale di Alghero Edilità pubblica. Esecuzione del piano d’ingrandimento della città, Busta 922, Fascicolo 7 N° 922/7-1 “Planimetria di parte del piano d’ingrandimento delle vie a levante del Penitenziario” (a. 1890) e N° 922/7-16 “Planimetria di parte del piano d’ingrandimento delle vie a nord del Penitenziario” (a. 1926). 33 Archivio di Stato di Sassari, Atti Notarili Copia Alghero, Anno 1890, Aprile, Busta 38. 34 Al Bagno Penale vennero successivamente effettuate delle modifiche: “[…] per l’appalto della rinnovazione dei pavimenti e sistemazione dei giacigli in muratura nei dormitori del Bagno Penale di Alghero”. Archivio di Stato di Sassari, Atti Notarili Sassari Copia, Atto di sottomissione, Vol. 11, Atto n° 2016 del 27/10/1873, p. 513.
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Tuttavia, a partire dagli ultimi mesi del 2007, si è registrato un incremento di soggetti con pene anche brevi e spesso addirittura non ancora definitivi (giudicabili, appellanti, ricorrenti).35 “Nella sua secolare esistenza l’istituto ha subito modificazioni ed adattamenti in una continua ansia di adeguarsi alle esigenze che man mano si presentavano: fermo sempre restando, nell’avvicendare di uomini e di tempi, l’opera continua, come impegno, come tradizione da rispettare, come dovere da compiere, intesa ad un trattamento congiuntamente giusto ed umano dei condannati. Giusto, che vuole dire nel rispetto della legge, umano, che vuol dire nel rispetto della sofferenza di chi espia una pena nella privazione della libertà. Non pietismo o accondiscendenza, inutile il primo, inefficace il secondo, deleteri entrambi, ma un rapporto inteso a consentire all’uomo condannato di sentirsi uomo, come insieme di vizi ma anche di virtù, di errori ma anche di correzioni, di abiezioni ma anche di riscatto; un rapporto inteso a fornire al condannato l’ambiente sereno, soprattutto sereno, in cui poter maturare attraverso un processo, che deve essere prima interiore, una nuova visione della vita e della realtà per culminare nella redenzione, difficile spesso, impossibile mai. Fornire un ambiente sereno come necessità e come diritto del condannato. In questa esigenza di ordine e di prevenzione in un trattamento congiuntamente giusto ed umano trova la sua giustificazione il Regolamento interno della Casa di Reclusione”.36 Attualmente la Casa Circondariale di Alghero è occupata da circa 188 detenuti (alla data del 06 Giugno 2011), sia italiani che stranieri, a conferma di quanto attesta la Costituzione Italiana37 all’art. 338 quando parla di principio di eguaglianza. Il numero dei detenuti stranieri si presenta sempre in aumento e il loro disagio cresce anche a causa della lontananza dai loro familiari, dell’assenza di sostentamento e della ricerca
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Regolamento interno d’Istituto, anno 1969/70, Archivio segreteria Casa Circondariale di Alghero. Ibidem. 37 La Costituzione Italiana è entrata in vigore il 1° Gennaio 1948, è costituita da 139 articoli ed è divisa in diverse parti. Inizia con i “Principi fondamentali”: 12 articoli che contengono un complesso di norme di principio, non collegate tra loro, ma poste l’una accanto all’altra, talvolta l’una contro l’altra. Una seconda sezione della Costituzione è costituita dai “Diritti e doveri dei cittadini” (dall’articolo 13 al 54); a seguire la Parte terza con l’“Ordinamento della Repubblica” ed è composta dai restanti 85 articoli. R. BIN, G. PITRUZZELLA, Diritto pubblico, G. Giappichelli Editore, Torino, 2008, p. 295. 38 L’art. 3 Cost. enuncia il principio di eguaglianza e ne dà una formulazione complessa. Nel primo comma esso esprime il principio di eguaglianza formale la quale prescrive che si devono trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse. Nel secondo comma invece si parla di eguaglianza sostanziale che punta esattamente a questo: a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’eguale godimento dei diritti e della libertà. Il nucleo forte del principio di eguaglianza vieta distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. R. BIN, G. PITRUZZELLA, op. cit., pp. 402-403. 36
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continua di un lavoro che consenta loro di vivere dignitosamente la carcerazione. Ricordiamo che ad Alghero non sono presenti sezioni femminili o altri reparti speciali. Citando invece l’articolo 2 della Costituzione “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, possiamo notare che ciò che ne consegue è che lo Stato, quando esercita la potestà punitiva e fa espiare nella comunità carceraria la pena inflitta per il reato commesso, deve sempre porre la dignità della persona condannata al centro dei progetti e degli interventi trattamentali, curando in modo particolare di non calpestare i diritti inviolabili, di soddisfare il diritto al trattamento, d’incidere sulle vere cause del reato, di non adottare modalità brutali o strumenti disumani, di sostenere e agevolare i rapporti con i familiari, i conviventi e la comunità esterna, di favorire un’adeguata integrazione affettiva e sociale dopo le dimissioni dall’Istituto Penitenziario.39
3.
Le attività e la vita interna dell’Istituto
La vita all’interno del carcere è scandita da orari ben precisi che obbligano il detenuto ad organizzare il suo tempo in base alle esigenze dell’organizzazione della struttura carceraria. La mattina ci si sveglia abbastanza presto perché altrettanto presto è prevista la colazione, che verrà fatta in cella assieme agli altri detenuti conviventi. Subito dopo è prevista l’apertura delle celle e la socialità all’interno della sezione. L’istituto è formato da 6 sezioni suddivise su due piani ma non in base alla pena o al reato commesso; generalmente ai detenuti vengono assegnate le celle in base alla disponibilità del carcere ma si cerca, in qualche modo, di far convivere due o più persone che abbiano commesso lo stesso reato. Il fine è evitare una convivenza tra detenuti con pene troppo diverse tra loro, i quali potranno riscontrare delle incompatibilità relazionali e di convivenza. L’ora d’aria40 (anche se effettivamente si 39
G. MASTROPASQUA, Esecuzione della pena detentiva e tutela dei rapporti familiari e di convivenza. I legami affettivi alla prova del carcere, Cacucci Editore, Bari, 2007, p. 28. 40 In base all’art. 10 dell’O. P. “ai soggetti che non prestano lavoro all’esterno è consentito di permanere almeno per due ore al giorno all’aria aperta. Tale periodo di tempo può essere ridotto a non meno di un’ora al giorno […]. La permanenza all’aria aperta è effettuata in gruppi a meno che non ricorrano i casi
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tratta di due ore) è il momento più atteso dai detenuti, e si svolge all’interno di uno spiazzo recintato dove sono presenti dei tavoli e delle sedie, un biliardino e un tavolo da ping pong. Adiacente al piazzale troviamo il campo da calcetto dove ci si allena sia con la corsa che con esercizi fisici. La distribuzione del pranzo e della cena, rispettivamente dopo le due ore d’aria pomeridiane e serali, è scandita da orari ben precisi e improrogabili, che per ragioni di sicurezza, non possono essere precisamente indicate. Bisogna sottolineare che gli orari possono subire lievi modifiche in virtù della stagionalità e in base alle esigenze dell’istituto. La giornata non è però uguale per tutti i detenuti perché alcuni di loro sono impegnati con gli studi scolastici mentre altri con le attività ricreative come il teatro, il canto o i vari laboratori. Dopo la cena e la socialità in sezione, a metà serata si procedere con il riposo notturno, che avviene dopo la “conta”41 da parte dell’agente di guardia. Gli spazi disponibili per le attività trattamentali e per le attività scolastiche sono così suddivisi42: cinque aule destinate alla scuola alberghiera ed alla media, il progetto L.U.D.I.C.A43 per la formazione degli studenti universitari, un laboratorio di cucina in uso agli studenti del corso alberghiero, un laboratorio di tipografia “Metaballò”, un laboratorio di falegnameria, un laboratorio di informatica dotato di tredici client e un server, un laboratorio di macchine utensili dotato di torni e frese e un laboratorio impiantistica elettrica e impiantistica termo/idraulica. Le attività culturali, ricreative e sportive sono: una biblioteca-teatro “Fabrizio De Andrè”, un campo di calcio a cinque, un cortile per la permanenza all’aperto, un’area verde attrezzata anche con giochi per bambini destinata ai colloqui nel periodo estivo e uno sportello per la mediazione culturale con lo scopo di creare un’équipe mista per l’analisi e la gestione dei conflitti interni e sviluppare processi integrativi tra diverse culture: questo sportello è ancora in
indicati nell’art. 33 (isolamento) e nei numeri 4) e 5) dell’art. 39 (sanzioni disciplinari) ed è dedicata, se possibile, ad esercizi fisici”. F. PERONI, A. SCALFATI, op. cit., pp. 186-187. 41 La “conta” è il controllo numerico di tutti i detenuti presenti in quella sezione prima della chiusura definitiva delle celle. 42 Progetto pedagogico 2011 “Insegnerai a volare, ma non voleranno il tuo volo”, Direzione dell’Istituto Penitenziario di Alghero. 43 Il progetto L.U.D.I.C.A (l’Università dei Detenuti In Carcere ad Alghero), nato in seno al Protocollo d’Intesa tra il D.A.P e l’università degli Studi di Sassari, offre ai detenuti italiani e stranieri, anche sottoposti a misure alternative, presenti negli Istituti Penitenziari della Sardegna, l’opportunità di conseguire la Laurea richiedendo, attraverso un “patto formativo”, il trasferimento nell’Istituto Penitenziario di Alghero.
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fase di attivazione. Per quanto concerne la religione e le pratiche di culto44, è presente il cappellano del carcere che ha a disposizione un locale che può essere anche utilizzato dai detenuti musulmani per la preghiera. Per il lavoro è invece messa a disposizione un’officina attrezzata per la manutenzione ordinaria del fabbricato (M.O.F.) e per i lavori in economia, i diversi laboratori sopracitati e i vari locali e spazi dell’istituto destinati ai servizi istituzionali. La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa (art. 17). Negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo (art. 27). L’art. 12 prevede la fornitura di attrezzature per lo svolgimento di attività lavorative, di istruzione scolastica e professionale, ricreative, culturali e di ogni altra attività in comune. Gli istituti sono inoltre forniti di una biblioteca costituita da libri e periodici. “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia” (art. 15). Tra le varie attività ricreative e culturali e tra i diversi corsi professionali dal carcere di Alghero, fanno parte le attività del coro, del teatro, del calcetto e il corso professionale della tappezzeria navale. Il coro “Le ali della libertà” si tiene con cadenza settimanale, nelle ore del mattino presso la biblioteca “Fabrizio De Andrè” all’interno della struttura. Il Coro nasce nel 2008/2009 ed è composto da 14 detenuti, alcuni presenti fin dalla nascita del gruppo, altri arrivati da poco in base al loro ingresso al carcere e seguiti da un professionista, maestro di canto e violinista affermato. L’età dei detenuti varia dai 25 ai 65 anni (da notare che il detenuto più anziano ha 75 anni). Il clima che si respira è rispettoso, molto tranquillo e sereno. (Nell’allegato D troverete una canzone e una poesia regalatemi da due detenuti del carcere di Alghero).
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Secondo l’art. 26 O. P., i detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto. Negli istituti è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico. A ciascun istituto è addetto almeno un cappellano. Gli appartenenti a religione diversa hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e celebrarne i riti. F. PERONI, A. SCALFATI, op. cit., p. 230.
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Il gruppo del Teatro, invece, è formato da una ventina di persone, italiani ma anche stranieri. Come alunni ad una interrogazione, si sistemano attorno al maestro che prepara l’attrezzatura per iniziare a recitare. Ognuno ha il proprio copione con la propria parte evidenziata, sanno quando è il loro momento e le diverse posizioni da assumere in base alla musica. L’opera che stanno proponendo è Macbech di Shakespeare. E’ bene precisare che alcuni dei detenuti che recitano sono gli stessi che la mattina vengono impegnati nel canto, segno evidente che le attività rieducative sono ben apprezzate e danno un senso di appartenenza al gruppo. Anche il laboratorio di tappezzeria navale è frequentato da una quindicina di detenuti. E’ un laboratorio aperto tre volte alla settimana. E’ presente un grande tavolo al centro della stanza dove sono posati tutti i tipi di stoffe e i materiali utilizzati nel lavoro. Due macchine da cucire industriali sono a disposizione dei detenuti e vengono utilizzate a turno. Il fine che persegue questo corso è una qualifica che permette ai detenuti di proseguire il lavoro imparato, all’esterno della struttura, sulla base dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario. Naturalmente prima di prendere una decisione di questo tipo sono necessarie molte prescrizioni e accertamenti: dal tragitto che il detenuto dovrebbe fare, studiato nel minimo dettaglio dalle educatrici, all’esito positivo ottenuto dall’osservazione, dalla buona condotta, dagli anni di pena inflitti, dal reato ma soprattutto dalla disponibilità del datore di lavoro ad accogliere i detenuti per effettuare il lavoro esterno (art. 21 O. P.). Anche l’utilizzo del campo da calcetto è considerata una delle tante attività ricreative. Si gioca durante l’ora d’aria pomeridiana e il numero massimo dei detenuti che possono rimanere in campo è di venti persone, al fine di evitare discussioni animate e per dare la possibilità alle guardie di controllare l’andamento della partita. L’organizzazione è gestita interamente dai detenuti stessi, proprio per dare loro massima fiducia nelle attività ricreative. Sempre sotto la supervisione della Responsabile e con l’ultima parola del Direttore, i detenuti organizzano i giorni, i rispettivi turni sulla base delle sezioni del carcere, viene nominato un referente per squadra che ha il compito di controllare la disciplina e il comportamento dei suoi compagni ed eventuali penalità in caso di mancata osservazione alle regole. Dare fiducia e responsabilità a persone ormai adulte significa credere in loro e renderli più autonomi nelle decisioni e nell’organizzazione della loro vita.
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4.
Verso una risocializzazione del detenuto
4.1
Il lavoro
Quello che si spera possa accadere di ritorno da una misura alternativa è proprio la riabilitazione del soggetto; un soggetto in grado di farsi un piccolo esame di coscienza, guardando dentro di sé. Da qui il concetto di introspezione45, proprio in riferimento al guardarsi dentro per cogliere elementi della propria vita che, magari, la fretta e la superficialità della vita quotidiana non gli hanno permesso di individuare. La riflessione su sé stessi può essere un ottimo punto di partenza per cogliere importanti aspetti della psiche e cominciare a riflettere su se stessa. Una risocializzazione è sicuramente un traguardo nei confronti di quell’errore passato, di quello sbaglio che ha portato il soggetto a fare i conti con la galera. Un modo per iniziare ad instaurare i rapporti con la società ai fini del proprio apprendimento è proprio l’opportunità lavorativa. Il lavoro nobilita e fortifica l’uomo, diceva Giovanni Paolo II. E proprio tra i valori fondanti della Repubblica Italiana c’è al primo posto il lavoro. Sancito dalla Costituzione, tale valore è un diritto e un dovere di ogni cittadino, anche di coloro che sono sottoposti a misure restrittive della libertà personale. Proprio per favorire opportunità di lavoro per detenuti al fine di promuovere “Interventi per il miglioramento dei servizi per l’inclusione sociolavorativa”, il D.A.P e gran parte delle Regioni e delle Provincie autonome del Paese, il 27 aprile 2011 hanno firmato il protocollo interregionale per favorire opportunità lavorative per detenuti, con il quale intendono promuovere strategie integrate d’intervento per migliorare l’efficienza e l’efficacia dei servizi per fasce sociali svantaggiate in osservanza degli obiettivi stabiliti nella cornice programmatica della Comunità europea.46 Il protocollo è importante – ha detto Ionta, Capo del D.A.P - per la società tutta in quanto darà concrete possibilità, alle persone private della libertà, di reinserimento e inclusione sociale attraverso il contatto proficuo con il territorio. Attraverso questa intesa si vengono a creare le premesse perché i detenuti vengano effettivamente recuperati.47
45
C. CORNOLDI, M. TAGLIABUE, Incontro con la psicologia, Il Mulino, Milano, 2001, p. 28. Rivista dell’Amministrazione Penitenziaria “Le due città”, n° 5, Anno XII – Maggio 2011, pp. 32-33. 47 Ivi, p. 34. 46
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Il percorso lavorativo dei detenuti è composto da diverse fasi: una volta fatto ingresso in carcere e in base alla qualifica del soggetto e alla disponibilità della struttura ad accoglierlo, si inizia con dei lavoretti saltuari che possono durare dai due a più mesi, sulla base dei fondi stanziati dalla Regione Sardegna e in base alle turnazioni interne al carcere che danno la possibilità a quasi tutti i detenuti di poter svolgere le attività lavorative anche per brevi periodi. Il lavoro all’esterno è concesso dall’art. 21, come già spiegato, dove al detenuto è permesso di svolgere l’attività lavorativa presso un’azienda esterna che si preoccupa di ospitarlo nelle ore stabilite. Naturalmente l’art. 21 è concesso solo in determinati casi, e il detenuto, alla fine del suo servizio, è costretto a far rientro in carcere. L’ingresso vero e proprio nel mondo sociale lo si avrà con la scarcerazione, con la fine della pena: solo in quel momento si avrà la certezza, o meglio la dimostrazione che quel detenuto ha o meno imparato a comportarsi correttamente con l’ambiente di appartenenza. Ovvio è che la certezza della recidività non si avrà mai: è capitato che un detenuto abbia approfittato dei permessi premio proprio per concludere un episodio sospeso prima di essere arrestato. Sulla base degli artt. 20 e 20-bis O. P. (rispettivamente sul lavoro e sulle modalità di organizzazione del lavoro) “il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. […] L’organizzazione e i metodi di lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. […] si deve tener conto esclusivamente dell’anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione, dei carichi familiari (art. 23 O. P.), della professionalità”. I detenuti, sulla base di due graduatorie differenti, una generica e l’altra per qualifica o mestiere, possono concorrere in attività lavorative sin dall’inizio del loro ingresso in base alla disponibilità della struttura. Si inizia come “scopino” per poi arrivare alle mansioni più qualificate. Anche la Costituzione Italiana, nell’art. 4 “riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro…”. Il lavoro è espressione della personalità individuale e strumento di inclusione nella respublica.48
48
M. FIORAVANTI, S. GUERRIERI (a cura di), La costituzione italiana, Carocci Editore, Roma, 1996, p. 125.
98
4.2
Le misure alternative
Come è stato più volte sottolineato nel primo paragrafo in riferimento all’ordinamento penitenziario, possiamo fare un passo indietro, a quando il concetto di pena appariva largamente influenzato dai modelli culturali penitenziari che indicavano le privazioni e le sofferenze fisiche come mezzo per favorire l’educazione e il riconoscimento dell’errore, per sollecitare il ravvedimento e per conseguire il miglioramento personale e, in particolare per il reo, la redenzione. Man mano che la società evolve si progredisce sulla via della civiltà, dove la brutalità e la sommarietà dei suoi strumenti penitenziari, inizia a cambiare. Vengono abbandonate progressivamente tutte le forme più penose di sofferenza inflitte ai condannati, sempre nel rispetto della loro dignità. Ciò che non cambiava era l’afflizione che se l’uomo fosse stato indotto dalle sofferenze a ripiegarsi su se stesso, affranto e umiliato, avrebbe capito l’errore commesso e avrebbe allora voluto correggersi.49 Cresce e matura l’idea di un’esecuzione penale che sappia guardare all’uomo e alla sua vicenda esistenziale in tutta la sua complessità e che sappia distinguere il momento in cui il reo viene giudicato con la logica propria dei meccanismi di giustizia, che è essenzialmente statica, con l’obiettivo focalizzato sul delitto, dal momento in cui la pena ha il suo svolgimento seguendo una dinamica, che è invece caratterizzata da un continuo succedersi di avvenimenti e di esperienze che riguardano la persona del condannato e sono capaci di modificarne il funzionamento più profondamente e ben oltre i limiti tradizionalmente identificati con la nozione di “volontà”. In questa prospettiva il carcere smette di essere considerato come un’istituzione terminale in cui il condannato viene abbandonato a consumare passivamente la sua pena, senza che nulla, al di fuori del passaggio del tempo e della macerazione da cui dovrebbe scaturire il pentimento, possa modificare il suo stato; ma diventa, o può diventare, una struttura a cui è affidata un’azione attiva e tendenzialmente provvisoria in una fase dell’esecuzione penale.50 A conferma che la risocializzazione è fondamentale al reinserimento nell’ambiente esterno al detenuto, esistono le cosiddette “misure alternative” ovvero delle possibilità che vengono concesse al soggetto per poter iniziare a rapportarsi con la 49
G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative, Giuffrè Editore, Milano, 1997, p. 3. 50 Ivi, pp. 4-5.
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realtà esterna. In passato le uniche “finestre” aperte nel sistema penitenziario alle correnti operative esterne erano rappresentate dall’intervento dei visitatori delle carceri e cioè dall’opera di singoli volontari che prendevano su di sé il compito di sostenere moralmente i detenuti, assistendoli ove è possibile nelle loro esigenze e soprattutto testimoniando con la loro presenza i sentimenti di solidarietà umana che dovrebbero esistere in ogni persona nei confronti di chi soffre. Il rapporto con la comunità esterna diventa, invece, un tratto importante del sistema penitenziario. Partendo dall’assunto che la delinquenza non è una manifestazione “mostruosa” di un corpo sociale sano ma come espressione, sia pure inaccettabile, di un disagio che investe la società nel suo insieme, si arriva a comprendere che la soluzione del problema va cercata in un ambito molto più ampio di cui la comunità stessa fa parte. Così come il condannato non può più continuare ad essere considerato a sé stante ma va riguardato nell’insieme della sua vicenda personale e familiare e nei suoi rapporti con il gruppo sociale e la cultura di cui fa parte, anche l’esecuzione della pena va considerata in una dimensione operativa più ampia e nei necessari raccordi che essa deve stabilire con gli organismi e i servizi che nella comunità presiedono lo sviluppo culturale e sociale.51 Quando ad un detenuto vengono concesse le misure alternative, gli si concede la possibilità di poter avere dei contatti con l’esterno prevedendo però dei requisiti oggettivi e soggettivi per ognuna di esse. Naturalmente questo non avviene senza che i diversi organismi instaurino un rapporto convenzionale a favore di quel determinato soggetto, in quanto la relazione tra il carcere e l’ambiente esterno è fondamentale per la buona riuscita dell’inserimento dell’individuo.
Analizziamole.
Art. 47 “Affidamento in prova ai servizi sociali”: è la misura alternativa alla detenzione più ampia. Si svolge totalmente nel territorio e intende evitare alla persona condannata i danni derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e della condizione di privazione della libertà. Può essere definito come il tipo di sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta dal giudice della cognizione, o comunque quella residua, in regime di libertà assistita o controllata e 51
G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, op. cit., pp. 12/14.
100
dunque fuori dal carcere. Il provvedimento esplicativo dell’affidamento da un lato fa venir meno ogni rapporto del condannato con l’istituzione penitenziaria e, dall’altro comporta l’instaurazione di una “relazione di tipo collaborativo con il servizio sociale che deve, attraverso il suo personale, aiutarlo a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale e controllare la condotta, al fine di assicurare in via definitiva la rieducazione ed impedire la commissione di nuovi reati”.52
Art. 47-ter “Detenzione domiciliare”: questa misura alternativa della detenzione domiciliare è stata introdotta dalla Legge n° 663 del 10/08/1986 (Legge Gozzini) di modifica dell’O. P. Può essere definita come la misura extracarceraria grazie alla quale il condannato è ammesso ad espiare la pena detentiva nella propria abitazione, in un altro luogo di privata dimora, o in un luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza.53
Artt. 48-50 “Semilibertà”: è considerata una misura alternativa impropria, in quanto il condannato rimane in stato di detenzione e il suo inserimento nell’ambiente libero è parziale. Consiste nella possibilità, data al condannato, di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto di pena, per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale, in base ad un programma di trattamento la cui responsabilità è affidata al Direttore dell’istituto di pena. Non si tratta di una vera e propria misura alternativa ma di una modalità di espiazione della pena detentiva e ciò in quanto la sua applicazione non comporta l’integrale venir meno dello stato di detenzione.54
Art. 176 c. p “Liberazione condizionale”: consiste nella possibilità di concludere la pena all’esterno del carcere in regime di libertà vigilata. Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni. Il
52
G. CATELANI, Manuale dell’esecuzione penale, Giuffrè Editore, Milano, 2001, p. 330. L. DEGL’INNOCENTI, F. FALDI, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Giuffrè Editore, Milano, 2010, p. 107. 54 Ivi, p. 161. 53
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condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena.55
L’“Affidamento in prova in casi particolari” (art. 94 D.P.R 309/90) viene concesso se il detenuto è tossicodipendente o alcooldipendente o se ha in corso un programma di recupero (predisposto dal Ser.d), e affidato in prova al servizio sociale per proseguire o per intraprendere l’attività terapeutica.56
Esistono altri benefici che consentono al soggetto di poter usufruire di quel minimo di libertà e sono il lavoro esterno (art. 21 O. P), il permesso-premio (art. 30-ter), il permesso di necessità (art. 30), la liberazione anticipata (art. 54), la detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies).
- liberazione anticipata (art. 54 O. P.): “…al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione, è concessa […] una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata” che verrà escluso nei confronti del recidivo del delitto della stessa indole e del condannato per i delitti di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina e di estorsione.57
- permesso per gravi motivi (sia perché un familiare è in gravi condizioni di salute piuttosto che per recarsi al funerale di un parente). L’art. 30 O. P. sostiene che “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso […] il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo. […] Il detenuto che non rientra in istituto allo scadere del permesso senza giustificato motivo, se l’assenza si protrae per oltre tre ore e per non più di dodici, è punito in via disciplinare; se l’assenza si protrae per un tempo maggiore, è punibile a norma del […] l’articolo 385 del codice penale (evasione)”.58 55
G. ALPA, R. GAROFOLI, Codice penale, Nel Diritto Editore, Roma, 2008, p. 700. V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, CEDAM, Padova, 2006, p. 523. 57 F. P. C. IOVINO, La liberazione anticipata, CEDAM, Padova, 2006. p. 2. 58 V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA, op. cit., p. 345. 56
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- permesso premio (art. 30-ter O. P.) che consiste nell’usufruire della “libertà” solo per qualche giorno per coltivare affetti familiari, o per poter riavvicinarsi alla società, alla realtà. Secondo questo articolo “ai condannati che hanno tenuto regolare condotta […] e che non risultano “socialmente pericolose” [si possono] concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. La durata dei permessi premio non può superare complessivamente quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione”. Per i condannati all’ergastolo, si possono concedere solo dopo l’espiazione di almeno dieci anni.59 - detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies): stabilisce che, quando non ricorrono le condizioni di cui all’art. 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriore reati e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza, accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena, ovvero dopo l’espiazione di quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo.60
5.
Giustizia ripartiva: la vittima
Un riscatto per la vita futura lo si può avere anche attraverso la già menzionata giustizia riparativa. Il paradigma ripartivo fa propria l’esigenza di sopperire ai difetti del modello retributivo, basato unicamente sulla sanzione come risposta statale al fenomeno della criminalità, e di quello riabilitativo, che spesso confonde le reali esigenze della prevenzione con quelle della repressione, le ragioni della scienza con le ragioni del potere e dimostratosi inefficace. La funzione principale del modello ripartivo è dunque “riparare” il danno subìto, unica entità conoscibile e sicura del funzionamento
59 60
V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA, op. cit., pp. 358-359. L. DEGL’INNOCENTI, F. FALDI, op. cit., pp. 136-137.
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della giustizia.61 Proprio nell’O. P. troviamo un comma che fa riferimento alla riparazione del danno nei confronti della vittima: è il comma 7 dell’art. 47, dove oltre al reinserimento in società è necessaria una giustizia ripartiva, una sorta di restituzione nei confronti della vittima, della società e dello Stato. Importante e fondamentale è infatti la riconsiderazione del ruolo delle vittime, rimaste per molto tempo estranee ad ogni tipo di interesse da parte della dottrina criminologica e della ricerca empirica, essendosi focalizzata l’attenzione soprattutto sull’autore del reato. Vengano ricordati i diversi movimenti a favore di tutte quelle vittime che hanno subìto i reati più disparati, che hanno permesso di denunciare l’atteggiamento di indifferenza sia sociale che giudiziaria. Lo sforzo dei movimenti in favore delle vittime di riportare luce sulla figura dimenticata della vittima è stato favorito peraltro da una progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica verso particolari temi, dalla sensazione diffusa che la giustizia si occupi marginalmente dei bisogni e degli interessi di chi ha subìto il reato, nonché dalla crescente sfiducia, anche a livello sociale, nei confronti dei sistemi di controlli formale ritenuti incapaci di arginare il fenomeno della criminalità. In campo criminologico del ruolo della vittima si parla dal 1948, data a cui viene di solito fatta risalire la nascita della “vittimologia”, disciplina che ha per oggetto lo studio del ruolo svolto dalla vittima nella dinamica del reato; si parla oggi di una “nuova vittimologia” centrata sui bisogni della vittima, sugli interventi finalizzati a ridurre gli effetti della vittimizzazione: non si tratta più di stabilire cosa la vittima abbia fatto ma cosa può essere fatto per la vittima.62 Si intendono per vittime delle persone che, individualmente o in forma collettiva, hanno subìto un danno, soprattutto un’offesa alla loro integrità fisica o mentale, una sofferenza morale, una perdita materiale o una violazione grave dei loro diritti fondamentali, per effetto di azioni od omissioni che violano le leggi penali in vigore in uno Stato membro, ivi comprese quelle che vietano penalmente gli abusi al potere.63 In molti casi la vittima ha un ruolo importante nel reato commesso dal suo aguzzino, in quanto essa stessa lo ha provocato, direttamente o indirettamente. Ciò si verifica nei reati più comuni come in quelli più strani, negli atti di violenza (omicidio compreso), negli atti di violenza carnale
61
S. CIAPPI, A. COLUCCIA, Giustizia criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione: modelli e strategie di intervento penale a confronto, FrancoAngeli Editore, Milano, 1997, pp. 105-106. 62 Ivi, pp. 107-108. 63 G. PONTI ( a cura di), Tutela della vittima e mediazione penale, Giuffrè Editore, Milano, 1995, p. 223.
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e nei reati contro la proprietà come il furto o la truffa.64 Un gruppo più ampio di reati provocati dalla vittima comprende tutte quelle situazioni in cui criminale e vittima, e spesso altre persone, sono implicate in un continuo rapporto di tipo aggressivo o sadomasochistico che, a un certo punto, può andare oltre una data soglia di intensità e causare gravi ferite o la morte di uno del gruppo. In questo tipo di comportamento, ricco di intensi rapporti interpersonali, la sorte può decidere chi debba essere, in una data situazione, il criminale e chi la vittima. Sono di questo tipo molti atti di violenza compresa la violenza sessuale, l’omicidio colposo e l’omicidio volontario.65 Una volta che il soggetto si trova a dover fare i conti con la libertà, si spera riprenda in mano quel pezzo di quella vita passata in cui credeva nell’amore e nella costruzione di una famiglia.66 La nuova ottica ripartiva intende quindi riportare la persona che è stata danneggiata dal reato al centro del sistema penale facendone la vittima principale e relegando lo Stato al ruolo di vittima secondaria, che entra in causa solo nel momento in cui siano stati lesi i suoi interessi; assieme a quella della vittima cambia anche la figura dell’autore del reato, non più soggetto passivo destinatario di una sanzione statale, ma soggetto attivo a cui è richiesto di rimediare praticamente agli errori fatti e ai danni procurati con la sua condotta criminosa.67 Soffermiamoci brevemente sui principali strumenti della giustizia ripartiva. Lo strumento preferenziale e tipico di questo nuovo modello di giustizia è la restituzione.68 La restituzione può essere definita come l’azione necessaria a rimuovere, materialmente o simbolicamente, i danni provocati dal reato. B. Galaway individua quattro tipi di restituzione: •
restituzione monetaria alla vittima che prevede il risarcimento dei danni per la vittima del reato;
•
la restituzione sotto forma di un servizio da svolgere per la vittima;
64
D. CHAPMAN, Lo stereotipo del criminale. Componenti ideologiche e di classe nella definizione del crimine, Einaudi Editore, Torino, 1971, p. 167. 65 Ivi, pp. 167-168. 66 G. V. CAPRARA, D. CERVONE, Personalità. Determinanti, dinamiche, potenzialità, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003, pp. 260-261. 67 S. CIAPPI, A. COLUCCIA, op. cit., p. 109. 68 M. WRIGTH, Justice for Victims and Offender: A Restorative Response to Crime, Open University Press, Milton Keynes, Philadelphia, 1991, p. 128.
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•
la restituzione monetaria alla comunità, che può consistere per esempio nel devolvere una certa somma di denaro ad un ente di beneficienza;
•
la restituzione sotto forma di community service, ovvero un servizio utile per la comunità da prestare gratuitamente (generalmente il community service viene utilizzato quando il reato abbia direttamente leso un interesse dello Stato).
In genere la restituzione più applicata è il risarcimento monetario alla vittima. Vi sono poi dei casi in cui la vittima preferisce un risarcimento simbolico del danno: tali casi di restituzione simbolica sono frequenti quando il danno subìto è stato lieve e quando l’autore e vittima del reato hanno un qualche rapporto di conoscenza. L’accordo di restituzione è in genere la naturale conclusione di un processo di mediazione. La mediazione può essere definita come la negoziazione fra le parti in conflitto, vittima e autore di reato, con l’assistenza di una terza parte, il mediatore, che facilita il processo di negoziazione. Lo spirito della mediazione è quello di dare l’opportunità alle parti di esprimere i propri sentimenti e le proprie impressioni circa l’evento criminoso e aiutarle a raggiungere un accordo di restituzione. Naturalmente questo è possibile solo in riferimento a quei reati in cui la vittima non viene soppressa, come per esempio nei casi di omicidio. Ciò nonostante penso che per i genitori della vittima nessuna condanna o nessun risarcimento sarà mai sufficiente a colmare il vuoto della perdita o un’ingiustizia nei confronti di un proprio familiare, qualsiasi sia il reato subìto. Il dilagare della violenza e del crimine è un aspetto della vita quotidiana, ma le vittime hanno scarso spazio. Si verifica un crimine, si produce una vittima, ci dovrebbe essere una pena, ma occupa prevalentemente la scena, il crimine e il suo autore. Alcune vittime non vengono considerate tali a causa di pregiudizi di sesso, di razza o di età. Le vittime hanno poco spazio, poca attenzione, poca assistenza e molto abbandono. Quando la vittima ha la consapevolezza d’essere tale, può trovarsi di fronte ad acquiescenza, silenzio, tolleranza; allora la vittima ha difficoltà a controllare la propria esistenza, sentendosi indifesa, vulnerabile, immobilizzata. In questa fase, la vittima deve essere “aiutata” soprattutto quando ha riconosciuto e ha preso coscienza di un’esperienza vittimizzante, che è stata ben identificata.69 E’ provato che le vittime
69
R. BISI, P. FACCIOLI (a cura di), Con gli occhi della vittima. Approccio interdisciplinare alla vittimologia, FrancoAngeli Editore, Milano, 1996, pp. 9/11.
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confidano la loro esperienza e le loro riflessioni a qualcuno di loro fiducia: un familiare, un amico, il coniuge, un vicino, un dottore, un prete. Si confidano molto più frequentemente di quanto si possa pensare, perché uno degli ostacoli per riconoscere la vittimizzazione, almeno dal punto di vista della vittima, è il silenzio, la pubblica acquiescenza, la tolleranza, spesso l’esistenza di un sistema di valori, credenze, costumi, leggi che attivamente sostengono, giustificano e legittimano intollerabili silenzi. A volte il silenzio è custodito da un codice formale di onore e di comportamento, come nel caso dell’omertà, che ha tutelato il crimine organizzato. Sfidare il silenzio e parlare apertamente è il ruolo assunto da vittime, da audaci testimoni e dai pentiti collaboratori della giustizia. Le vittime, però, hanno difficoltà a esigere e ottenere uno status, perché possono essere non capite, rimproverate e quindi sono riluttanti a farsi riconoscere per evitare una cattiva pubblicità. E’ importante il modo di reagire della società alla richiesta delle vittime e, da parte nostra, occorre l’impegno ad aumentare la probabilità che agenzie pubbliche e private, famiglie, amici e altri rispondano positivamente e mostrino consenso quando la vittima chiede assistenza.70 A proposito della riparazione nei confronti della vittima, vorrei ricordare un convegno/incontro tenutosi nella biblioteca del carcere di Alghero dal titolo “Giustizia Riparativa: Pensare in chiave ripartiva per il benessere della persona e della comunità sociale”. Introduce il discorso il Magistrato di Sorveglianza, la quale sostiene che ciò che è importante è “arrivare al rispetto della persona per arrivare al rispetto degli altri”. Questa è una frase importantissima da sottolineare soprattutto in riferimento a persone che hanno sbagliato ledendo la vita di altre persone. E’ necessario conoscersi nel profondo del proprio essere, continua la Dott.ssa Vertalli: “la stima di sé stessi diminuisce nel momento in cui fai del male a te stesso, ma anche alla vittima e di conseguenza ancora alla società”. Bisogna responsabilizzarsi prendendo coscienza di sé, trovando il modo di guardarsi in faccia, con i modi dovuti e nel rispetto di tutti. “Voi siete persone degne di essere rispettate ma dovete consentirci di accompagnarvi in un percorso riabilitativo sempre senza ledere la vostra libertà e dignità”. Se non esiste un percorso riabilitativo soddisfacente si rischia di cadere nella recidività, cioè nella possibilità che un detenuto, una volta uscito, possa delinquere un’altra volta: questo è sintomo di un trattamento riabilitativo che non ha funzionato, di qualcosa che non è 70
R. BISI, P. FACCIOLI (a cura di), op. cit., p. 11.
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andata all’interno del carcere, oppure dentro di loro, ma anche all’interno di una società che non è formata da persone capaci di aiutare quel soggetto. La Giustizia Riparativa o Rigenerativa non significa monetizzare la pena o la giustizia ma monetizzare il percorso, prendere coscienza di sé stessi, delle proprie possibilità, capire la vittima e il danno che le si è inferto. Solo con il dolore apprendiamo! Nell’art. 74 del Codice di procedura penale si fa qualche accenno alla vittima, definendola però “soggetto al quale il reato ha recato danno”: “l’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno di cui all’articolo 18571 del Codice Penale può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”. In un individuo che ha vissuto il ruolo della vittima, sottoposto ad una grave e prolungata frustrazione, possono nascere sentimenti di fallimento personale e di ansia, seguiti da comportamenti volti alla difesa dell’immagine di sé. Nel corso di tale comportamento difensivo, l’individuo-vittima potrà sviluppare risposte interpersonali quali l’aggressività, il rifiuto degli altri o la sottomissione. Secondo M. Sysmond, le risposte delle vittime seguono un modello pressoché stabile, caratterizzato da quattro fasi ben distinte: le prime due sono violente in quanto consistono in una fase di negazione, caratterizzata da shock e da incredulità, mentre la seconda sopraggiunge quando, ripristinato il contatto con la realtà circostante, la vittima avverte il bisogno di parlare. Successivamente, con variazioni legate a differenze interpersonali, si entra nella terza fase, caratterizzata da depressione traumatica e da autoaccuse. Le caratteristiche di personalità influiscono sulla quarta fase, nel momento in cui si sviluppano meccanismi di difesa72 atti a minimizzare o prevenire i rischi di una futura vittimizzazione.73 Tra i comportamenti che una vittima può mettere in atto per difendersi da una situazione
71
L’art. 185 primo comma C. P. stabilisce che “ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili. Al secondo comma, lo stesso articolo dispone che ogni reato che abbia cagionato un danno, patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui.” G. ALPA, R. GAROFOLI, op. cit., p. 715. 72 I meccanismi di difesa sono processi psichici, spesso seguiti da una risposta comportamentale, che ogni individuo mette in atto più o meno automaticamente per affrontare le situazioni stressanti e mediare i conflitti che generano dallo scontro tra bisogni, impulsi, desideri e affetti da una parte e proibizioni interne e/o condizioni della realtà esterna dall’altra. Uno degli scopi primari dei meccanismi di difesa è infatti quello di mantenere un’omeostasi psichica che permetta all’Io di continuare a funzionare in modo stabile. V. LINGIARDI, La personalità e i suoi disturbi. Lezioni di psicopatologia dinamica, Edizioni Il Saggiatore, Milano, 2004, p. 144. 73 M. SYMONDS, Victimization and Rehabilitative Treatment, 1983, pp. 69/81, in B. EICHEHMAN, D. SOSKIS, W. REID, Terrorism, American Psychiatric Association, Washington, D.C., 1983.
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pericolosa vi è anche quello riconducibile alla sindrome di Stoccolma.74 Vittima è un indicatore di passività; la vittima è il prototipo di chi subisce l’azione altrui, quindi il rifiuto di assumere quell’immagine sociale come riferimento identificatorio e nell’altro il desiderio di non riconoscersi in un’immagine di soggetto passivo. D’altra parte l’essere vittima si accompagna anche a sentimenti e a vissuti di inadeguatezza: essere stato vittima di un reato molte volte è anche indice di un fallimento. Ci si sente incapaci in quanto soggetti che non hanno saputo gestire quella determinata situazione. Accanto a questi sentimenti di inadeguatezza ci sono spesso dei sensi di colpa e quindi non c’è, ovviamente, propensione ad esporsi socialmente con questo ruolo.75 Il rapporto fra vittima e persecutore, così chiaro sul piano giuridico, dove persecutore è colui che infligge, per propri scopi o per pura malvagità, sofferenza alla vittima, la quale tale azione subisce senza essere in grado di sottrarvisi, si presenta sul piano psicologico assai più complesso e incerto. Questo quando l’azione persecutoria si protrae per giorni e mesi, e quando la relazione tra persecutore e vittima è individualizzata. Ciò è dovuto al fatto che fra due persone che entrano in relazione, qualunque ne sia il tipo, si stabilisce una comunicazione, che può essere fatta di gesti soltanto, ma che è comunque una legame contenente rapporti affettivi di varia specie: un legame libidico secondo gli psicoanalisti. Esso può conservare tutte le componenti ostili ed aggressive determinate dal fatto che l’uno tiene l’altro in proprio potere, mentre l’altro aspira ovviamente a riacquistare la propria libertà; ma è comunque un rapporto umano. L’aguzzino e la vittima finiscono, volere o no, col solidarizzare: fino al punto che l’aguzzino ha bisogno di dire o far capire che nell’esercitare le sue funzioni è esecutore di una superiore autorità personale oppure astratta, di cui egli stesso è succube. E la vittima tende a mostrarsi comprensiva verso l’altro, accettandone in certo modo il ruolo, coll’obbedire a ciò che quegli gli impone.76
74
1974. In Una banca di Stoccolma sessanta persone furono sequestrate e tenute in ostaggio sotto la minaccia delle armi, per 121 ore, da un gruppo di rapinatori. Nel corso del sequestro uno degli ostaggi telefonò all’allora primo ministro svedese e fece una strana affermazione dicendogli che i rapinatori li stavano comunque proteggendo dalla polizia. In seguito una delle sequestrate dette vita ad un rapporto affettivo con uno dei banditi, soprannominato “Swedish Robin Hood”. Fu proprio in quell’occasione che fu coniata l’espressione “sindrome di Stoccolma” per indicare il particolare legame affettivo che si può talora instaurare tra sequestratore e sequestrato e che spesso ha per quest’ultimo il significato di un meccanismo di difesa. R. BISI, P. FACCIOLI (a cura di), op. cit., p. 79. 75 G. PONTI (a cura di), op. cit., p. 130. 76 G. GULOTTA, M. VAGAVVINI (a cura di), Dalla parte della vittima, Giuffrè Editore, Milano, 1981, pp. 261-262.
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CAPITOLO 4
LA RICERCA: UN’INDAGINE TRA LE RAPPRESENTAZIONI FAMILIARI E LA COSTRUZIONE DELLA DEVIANZA
1.
Obiettivi e ipotesi della ricerca
Ero partita con l’idea di voler analizzare il lato emotivo della vita carceraria, quello che effettivamente vivono i detenuti e le loro impressioni riguardo la detenzione. Una volta inseritami in quel contesto così restrittivo, dopo essermi rapportata con loro, aver ascoltato le loro storie, le loro preoccupazioni riguardanti soprattutto la famiglia, ho valutato invece l’ipotesi che sarebbe stato più interessante comprendere le motivazioni del compimento di un reato partendo dallo stile di attaccamento che un individuo ha instaurato con i propri genitori. Dopo una valutazione degli obiettivi e delle variabili da studiare, si è passati all’individuazione del campione e dei questionari da somministrare. Dalle domande dei test si evince che lo scopo della mia ricerca era focalizzato a valutare la situazione familiare di ciascun soggetto finalizzata a scovare una possibile relazione tra attaccamento infantile e rappresentazioni familiari in rapporto alla devianza nella fase di vita adulta. Di solito gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza sono quelli in cui vengono impartite le prime “regole” della vita: come comportarsi adeguatamente in diverse situazioni, come avere rispetto per se stessi e per le altre persone, e così via. E se questi accorgimenti venissero messi in pratica nelle prime fasi di vita ma che, a lungo andare, si perdessero? Di chi è la colpa? Del genitore che non è riuscito a seguire il figlio anche
110
negli anni successivi, oppure è del ragazzo che non ha appreso abbastanza l’etica morale della vita? La famiglia è così importante a tal punto da influenzare negativamente un soggetto? Attraverso la mia ricerca cercherò, anche se sulla base di un campione abbastanza ristretto, di comprendere meglio quel rapporto così particolare che si instaura tra genitori-figli.
2.
Partecipanti
Per svolgere la mia ricerca ho utilizzato un campione di 75 soggetti, divisi in tre categorie: •
25 detenuti che hanno commesso una rapina (R)
•
25 detenuti che hanno commesso un omicidio (O)
•
25 soggetti senza precedenti penali (S.P.P)
La scelta di far partecipi della ricerca solo i soggetti di sesso maschile e detenuti con una condanna definitiva, è dovuta rispettivamente all’assenza di sezioni femminili nella struttura carceraria di Alghero e al fatto che il soggetto non è considerato colpevole di alcun reato fino a che non viene dichiarato definitivo. Il campione non è stato selezionato in base ad una precisa età (anche se il limite minimo è di 18 anni visto che non si tratta di un carcere minorile), titolo di studio, razza o religione ma solo in riferimento al reato commesso. In generale è stata una selezione casuale sulla base della disponibilità dei detenuti e dei soggetti senza precedenti penali.
3.
Gli strumenti di rilevazione-misurazione
La scelta del questionario come strumento di rilevazione dei dati è motivata dal fatto che l’intervista faccia a faccia sarebbe stata troppo intrusiva e lesiva del rispetto della privacy di ciascuna persona che, già di per sé, è violata in un contesto coatto come quello penitenziario, in cui il controllo e l’osservazione del comportamento dei detenuti sono la norma principale da rispettare. Si è pensato pertanto di costruire un questionario
111
non molto invasivo anche se alcune domande, purtroppo, lo sono state: causa di forza maggiore la comprensione della ricerca. Utilizzare un questionario è abbastanza utile nel momento in cui si abbisognano di informazioni immediate, ma i suoi limiti stanno soprattutto nel fatto che, essendo uguale per tutti e somministrato in modo analogo, potrebbe non rilevare le differenze di ogni singola persona, la sua sensibilità, i suoi pensieri, i suoi silenzi proprio come invece è possibile riscontrare in un’intervista. Ma questo non è accaduto: specialmente nelle domande aperte, si evince che i soggetti hanno dato sfogo alle loro emozioni e ai loro pensieri, andando oltre la semplice risposta richiesta. Per verificare e confutare le ipotesi descritte nel precedente paragrafo si è pensato di utilizzare in particolare due questionari, dove le domande sono disposte secondo un ordine “ad imbuto”, in modo studiato e consapevole che faciliti il compito dell’intervistato. Il primo test è finalizzato a comprendere la relazione tra genitori-figli prendendo quindi in considerazione esclusivamente il periodo infantile e il reato commesso (riferito ovviamente solo al campione R e O). E’ composto da 38 domande, alcune chiuse, altre aperte, e altre ancora strutturate. Le prime cinque sono abbastanza generali e fanno riferimento all’età, allo stato civile, titolo di studio ecc; le successive riguardano la relazione genitori/figli e sono molto più esplicite; successivamente troviamo le domande sul reato e sulle motivazioni1 che hanno spinto l’individuo a delinquere, fino agli ultimi quesiti che lasciano libero sfogo al soggetto e lo inducono a pensare al proprio futuro. Il secondo questionario, definito PBI (Parental Bonding Instrument) invece, è uno strumento messo a punto da Parker per valutare retrospettivamente le caratteristiche del legame genitoriale, è improntato sull’attaccamento infantile e sui diversi comportamenti e atteggiamenti dei genitori, in riferimento al rapporto con il soggetto fino alla fase adolescenziale (16 anni di età): tale test è uguale per tutte le tre categorie ed è composto da 25 items, 12 che si riferiscono alla “cura” che va da un estremo di freddezza e 1
Ogni persona che apprende lo fa perché scopre in se stessa delle motivazioni che la spingono ad imparare. Ma cosa è la motivazione? E’ un spinta, un qualcosa che ci permette di capire che apprendere quel determinato concetto o lavoro soddisfa il nostro modo di essere e la nostra vita. La motivazione è una forza che suscita il comportamento, lo sostiene e lo dirige. Ma quante motivazioni esistono? Sono sei generalmente, primarie e secondarie, reattive, proattive, intrinseche ed estrinseche alle quali se ne aggiunge una settima, la motivazione di competenza. Herzberg afferma che sono i fattori intrinseci a spingere le persone a dare il meglio di sé. Le motivazioni sono la forza trainante del nostro apprendimento, ma non bastano a garantirne l’efficacia. Esistono tante di quelle barriere che potrebbero ostacolare il raggiungimento dei nostri obiettivi. F. HERZBERG, One more time: how do you motivate employees?, in Harvard Business Review, gennaio-febbraio, 1968.
112
indifferenza e 13 al “controllo/iperprotezione”, che va da atteggiamenti di controllo, di repressione, d’intrusività, di prevenzione del comportamento indipendente da una parte, fino alla promozione dell’autonomia dall’altra. La prima versione riguarda la relazione di attaccamento con la madre mentre la seconda si incentra sulla relazione con il padre e ad ogni soggetto viene chiesto di rispondere ad entrambe le versioni dello strumento, ai quali è necessario dare risposta sulla base della scala di Likert che va da un punteggio 0 (molto falso) fino a 3 (molto vero). Utilizzandoli insieme permettono di individuare 5 tipi di legame con i genitori: alta cura – basso controllo, alta cura – alto controllo, bassa cura – alto controllo, bassa cura – basso controllo, media fra i due.
Alto controllo Controllo affettuoso
Restrizione affettiva
Bassa cura
Alta cura Legame assente o debole
Legame ottimale
Basso controllo
Tabella
indicante
le
due
scale
del
Parental
Bonding
Instrument
che
concettualizzano le diverse possibilità del legame genitori – figli.
La cura è stata identificata teoricamente e supportata empiricamente dai fattori analitici studiati, come la maggior dimensione genitoriale. Il significato della dimensione dell’iperprotezione ha ricevuto, invece, una scarsa considerazione nonostante gli studi analitici fattoriali. Partendo dagli studi base si è cercato di definire empiricamente entrambe le dimensioni per la produzione di misure valide e affidabili. Il primo fattore derivante dal presente studio coinvolge un polo composto da empatia, calore, affetto, vicinanza emotiva, indifferenza degli altri, freddezza emotiva e abbandono. Questi items misurano la presenza o l’assenza di cura. Il PBI è quindi uno strumento che potrebbe essere utile a considerare il legame ottimale con i genitori per
113
esaminare l’influenza della distorsione dei genitori sul funzionamento psicologico e sociale dei destinatari.2 A proposito dei questi due concetti, analizziamo quelle che sono le conseguenze di una cura genitoriale troppo debole o addirittura inesistente e le conseguenze di un controllo troppo ossessivo verso il proprio figlio. Prima di tutto, il concetto di “sviluppo affettivo” significa sviluppo del sistema dei rapporti affettivi che esistono fra un bambino e certe persone, o più generalmente tra un bambino e certi elementi dell’ambiente in cui vive. Lo sviluppo può essere inteso sia nel senso di un arricchimento o di una complicazione di questo sistema di rapporti sia nel senso di una modificazione dell’intensità o della qualità di alcuni rapporti che costituiscono il sistema. Studiare lo sviluppo affettivo significa dunque studiare in quale modo, generalmente, si vengono costituendo rapporti di questo tipo; e significa soprattutto cercare di vedere quali sono le condizioni che rendono possibile e che favoriscono lo sviluppo di rapporti di questo tipo, e quali invece sono quelle che ostacolano tale sviluppo, o provocano anzi lo sviluppo di rapporti di qualità opposta (caratterizzati da una valenza negativa e dal sentimento che una persona, lungi dal costituire un prolungamento di noi stessi, costituisce invece un limite, una negazione, una minaccia per la nostra personalità). Per quanto riguarda la relazione che passa tra sviluppo affettivo e sviluppo dello spazio di libero movimento si può enunciare il principio che un individuo stabilisce più facilmente dei rapporti affettivi a carattere positivo nei confronti di coloro che egli vive come persone le quali hanno largamente contribuito o contribuiscono tuttora ad ampliare il suo spazio di libero movimento e dei rapporti affettivi a carattere negativo nei confronti di coloro che egli vive come persone che hanno contribuito solo a restringere tale spazio psicologico. La persona che più di ogni altra può favorire questi processi di sviluppo è la madre, o più generalmente la “figura materna”, che deve provvedere innanzitutto a fornire al bambino il nutrimento fisico di cui egli ha bisogno. Ma tale figura può contribuire a sviluppare in lui quel sentimento di sicurezza, intervenendo tutte le volte che il bambino viene a trovarsi in una situazione disagevole o difficile (fame, freddo, dolore fisico, incapacità di entrare in possesso di un determinato oggetto o di compiere su un oggetto una determinata operazione, stato di ansia o di paura determinato dall’apparizione di qualche persona sconosciuta, o da un 2
G. PARKER, H. TUPLING, L. B. BROWN, A parental bonding instrument, The British Journal of Medical Psychology, 1979, 52, 1-10.
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forte rumore, o dall’instabilità di un certo sostegno ecc.) e integrando così le capacità del bambino con le proprie capacità. Se questo è il comportamento che può rendere più facile il costituirsi di rapporti positivi affettivi, vi sono altri comportamenti che dovrebbero invece essere evitati perché ostacolano questo tipo di sviluppo. E’, per es., un comportamento da evitare quello che consiste nel lasciare che per lungo tempo il bambino abbia a disposizione solo uno o due oggetti, nella convinzione che lo si debba abituare a soddisfarsi con poco, e a “non stancarsi troppo presto di un giocattolo”. Un altro comportamento è quello che consiste nello sgridarlo o picchiarlo perché cerca di imparare a “lasciar cadere” o “buttar via” gli oggetti che gli capitano nelle mani o cerca con cura di “romperli” o di “smembrarli”, per studiare la loro consistenza o per vedere come sono fatti dentro. E’ un comportamento da evitare anche quello che consiste nel lasciare solo per molto tempo un bambino, nel trascurare di parlargli o nel trascurare di proporgli dei modelli sonori o visivi, o di giocare a lungo con lui. Così è un errore rimproverarlo aspramente per cose che non è ancora in grado di fare (il controllo degli sfinteri, o una certa proprietà nel prendere il cibo), nella convinzione che il rimprovero possa facilitare il conseguimento di queste abilità. Un bambino avverte solo la limitazione e la minaccia che sono implicite nel rimprovero, perché non è ancora in grado di vedere i riflessi positivi che potrebbe avere per lui in futuro il fatto di avere acquisito buone abitudini. E’ un errore lasciarlo piangere a lungo senza intervenire per consolarlo o aiutarlo in qualche difficoltà, nella convinzione che “è importante che si abitui a non piangere”.3 Le cure che le madri dedicano al loro bimbo non sono solo di tipo fisico: mentre si occupano di lui esse gli rivolgono anche una serie di messaggi di vario tipo che costituiscono la qualità della cura offerta.4 Il concetto di “carenza materna”, come è stato definito da Bowlby, sembra implicare che uno dei fattori patogeni più pericolosi per lo sviluppo del bambino sia il danno che questi può subire quando viene separato dalla madre biologica, e privato così del suo affetto. Tuttavia la separazione non implica necessariamente la carenza; la separazione può dare origine a carenza se il bambino si trova in un ambiente dove l’interazione con la persona che sostituisce la madre è stato
3
G. PETTER, Dall’infanzia alla preadolescenza. Aspetti e problemi fondamentali dello sviluppo psicologico, C/E Giunti, G. Barbera, Firenze, 1972, pp. 227/244. 4 M. PANZERI (a cura di), L’interazione madre-bambino nel primo anno di vita. Indicazioni teoriche e pratiche per gli operatori sociosanitari, Carocci Editore, 2001, p. 130.
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insufficiente, oppure se gli episodi separativi si ripetono con frequenza.5 L’“amore” è tanto difficile da definire che molti autori si sono rifiutati di analizzare questo aspetto delle cure materne sostituendolo con elementi mistici e non misurabili. Tuttavia, le caratteristiche dell’interazione interpersonale definite da termini come “calore”, “ostilità” e simili si sono mostrate suscettibili di misurazioni esatte che autorizzano a prevedere il comportamento reciproco dei membri di una famiglia, date diverse situazioni.6 Infatti, studi trasversali e longitudinali hanno dimostrato che la quantità delle relazioni familiari è strettamente legata alla natura dello sviluppo psicologico del bambino. Nelle famiglie in cui le relazioni sono prive di calore, il bambino ha più probabilità di sviluppare un comportamento deviante, particolarmente di tipo antisociale.7 John Bowlby nella sua monografia del 19518 ha sostenuto che i bambini crescono meglio in un ambiente familiare anche disturbato piuttosto che in un buon istituto e che un asilo residenziale non può fornire a neonati e bambini piccoli un ambiente emozionale soddisfacente. Attualmente però non ci sono prove soddisfacenti a sostegno dell’affermazione: “meglio un buon istituto che una cattiva famiglia”. Se nelle descrizioni appena esposte si evince il carattere premuroso di un genitore in contrasto con uno che invece non ha assolutamente l’istinto materno, affrontiamo ora l’aspetto relativo al controllo. Possiamo parlare quindi di genitori perfezionisti che cercano di rendere il figlio troppo perfetto. A volte sono meticolosi, petulanti, esigenti, continuamente impegnati a spiare, criticare, correggere, ammonire. Il bambino di genitori perfezionisti o perde il coraggio per affrontare la vita o si mette sulla negativa di fronte a qualsiasi cosa gli venga chiesta. Nel primo caso diventa timido, passivo, perde la propria individualità. E’ trasformato in un automa e ci si preoccuperà del suo essere a venire, quando nessuno potrà riuscire a ritirarlo su. Nel caso contrario, quando cioè il bambino si mette sulla negativa, si rende insopportabile, sia facendo il muro di gomma di fronte alle osservazioni che sembra nemmeno sentire, sia ribellandosi in 5
M. D. AINSWORTH, J. BOWLBY, Research strategy in the study of mother-child separation, “Courrier”, 4, n° 3, 2. 6 G. W. BROWN, M. RUTTER, The measurement of family actives and relationships: a methodological study, in Human Relations, XIX, pp. 241-63. 7 M. RUTTER, Cure materne e sviluppo psicologico del bambino, Il Mulino Editore, Bologna, 1972, pp. 22-23. 8 J. BOWLBY, (1951), Maternal Care and Mental Health, Organizzazione Mondiale della Sanità: Serie di Monografie, n. 2, Ginevra sec. ed. 1954.
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modo più aperto. Alcuni in un primo tempo si atteggiano a “bambino modello” ma la ribellione esploderà qualche anno dopo, quando saranno diventati abbastanza forti per opporsi alla ribellione. Ed è così che abbiamo visto alcuni di essi abbandonarsi all’ubriachezza!9 Così come il perfezionismo non rende perfetti, l’iperprotezionismo non protegge. Il bambino iperprotetto è circondato da cupi pronostici. Per i suoi genitori il mondo è pieno di persone e di cose che rappresentano altrettante minacce per lui. La maggior parte dei suoi gesti sarà regolata e impedita. L’iperprotezionismo è un difetto dei genitori che nasce dall’angoscia e da un eccessivo senso di possesso. Il bimbo così educato non può acquistare molta sicurezza nella vita: sembra sempre destinato ad essere timido, pauroso, pronto a sentirsi colpevole ogni qualvolta manifesti velleità di indipendenza. L’iperprotezionista vuole tenere sempre i suoi figli sotto gli occhi, tra le mani: consiste nel considerare il bambino come un essere del tutto impotente e irragionevole. La protezione imposta ha sia un carattere fisico, sia morale: si temerà in egual misura il veder maneggiare un temperino con cui si corre il rischio di ferirsi, o l’esercizio fisico e lo sport che facendo sudare possono essere fonte di un malanno, o il traversare le strade dove si può essere investiti, o il contatto con i compagni, supposti portatori di malattie contagiose e di linguaggio volgare ecc. Così nel momento in cui viene esercitato, l’iperprotezionismo, il più delle volte è solo un modo illusorio di proteggere!10 I bambini piccoli che sperimentano forme estreme di trascuratezza o di abuso abbinate alla presenza di molteplici figure di cura possono sviluppare un disturbo di attaccamento nell’infanzia o nella fanciullezza.11 Quindi, a fronte di quanto appena esposto, una dose giusta tra alta cura e basso controllo sarebbe l’ingrediente perfetto per l’instaurazione di un attaccamento sicuro tra madre e figlio.
4.
Procedura
I cinquanta detenuti sono stati scelti in modo casuale sulla base di un elenco fornito dall’Ufficio Matricola del carcere di Alghero, in riferimento al reato commesso,
9
A. BERGE, Genitori sbagliati, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1963, pp. 28/33. Ivi, pp. 23/27. 11 C. H. ZEANAH, Beyond in security: A reconceptualization of attachment disorder of infancy, in “Journal of Consulting and Clinical Psychology”,1996, 64, pp. 42/52. 10
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sistemati nelle aule scolastiche del carcere con la presenza di un educatore, di diversi agenti e della mia presenza, importante ai fini delle delucidazioni sulle domande del questionario; per potersi sottoporre alla compilazione dei test, i detenuti hanno volontariamente occupato una parte delle loro “ore d’aria”, anche se ci sono stati dei casi di soggetti rinunciatari; non è stato possibile svolgere la ricerca in un breve periodo di tempo ma l’iter della somministrazione ha impegnato circa un mese di lavoro. Ai restanti venticinque soggetti del campione di controllo, quello senza precedenti penali, i questionari sono stati consegnati tramite conoscenze personali assicurando così l’assenza di reati e, di conseguenza, quell’attendibilità della quale la mia ricerca necessitava. Prima della consegna ho stilato un elenco di soggetti ai quali potevo consegnare i questionari; dopodiché li ho incontrati personalmente per spiegare la finalità del test e la procedure per rispondere. Ho consegnato i test inserendoli nelle cassette postali di ogni soggetto selezionato e dando loro circa una decina di giorni per riconsegnarlo, sempre tramite la mia cassetta postale: un metodo alquanto elementare ma che garantiva l’anonimato. Prima di stilare le domande del primo questionario ho pensato a quali fossero le variabili che potessero essermi utili ai fini della ricerca. Ho considerato che, per studiare il rapporto genitori – figli fossero necessarie delle domande che mirassero alla relazione infantile del soggetto, indistintamente tra madre e padre, includendo anche il rapporto con i fratelli. Durante la stesura delle domande mi sono resa conto che alcuni dati erano interessanti da analizzare ma che però non molto importanti al fine del mio studio. Alcuni quesiti sono stati eliminati e altri approfonditi fino alla stesura definitiva del questionario. Il secondo test, il PBI mi è stato consegnato dal mio relatore.
5.
Risultati
Le variabili studiate sono numerose: alcune abbastanza semplici da argomentare, altre molto più complicate in quanto riferite all’aspetto interiore di ogni individuo. Descrivendo il campione sulla base delle variabili di disegno considerate, si può sottolineare che esso è composto da soggetti la cui età media è di 34,88 anni, 44,16
118
anni e 39,36 anni per quanto riguarda rispettivamente i soggetti R, O e S.P.P. Il detenuto più anziano conta 73 anni. Anche se non prevista, dalla scrittura dei test emerge la nazionalità dei soggetti. I ristretti sono per la maggior parte di nazionalità italiana e solo una piccola porzione è costituita da stranieri: tra questi tunisini, rumeni, marocchini…Il campione S.P.P è interamente italiano. Prendendo in considerazione il livello di istruzione vi è una forte prevalenza di soggetti R e O che hanno conseguito il diploma di terza media (34/50) per cui il livello di istruzione risulta medio-basso. Solo 5/50 hanno la quinta elementare, 4/50 hanno conseguito il diploma di scuola media superiore, 3/50 la qualifica alberghiera (visto che all’interno della struttura è possibile frequentare il corso quinquennale dell’istituto alberghiero) e solo 2/50 hanno conseguito la laurea. In riferimento ai soggetti S.P.P notiamo che il livello di istruzione è decisamente più alto: 7/25 hanno conseguito il diploma di scuola media inferiore e 12/25 hanno conseguito il diploma superiore. 2/25 hanno intrapreso la carriera universitaria conseguendo la laurea. In riferimento al grafico seguente (n° 2) riguardante lo stato civile del campione, notiamo che la maggior parte dei soggetti R, O e S.P.P sono celibi con un picco dell’83,3% nel campione R. Nei casi S.P.P troviamo un pareggio tra celibi e sposati (44%). Solo il 4,2% dei casi R è coniugato. Un dato significativo è quello riguardante la separazione/divorzio nel caso O (21,1% ): le percentuali degli altri casi non sono indicative. Nessun vedovo per R e S.P.P e nessun convivente per S.P.P. Nel grafico n° 6/7, quello che descrive lo stato civile dei genitori, possiamo notare che, per tutti i tre campioni, ci troviamo davanti ad una famiglia unita costituita da genitori che hanno sempre vissuto insieme. Solo 1/25 del caso R risponde “non li ho mai conosciuti”, mentre 1/25 del caso S.P.P “si sono separati, poi sono tornati insieme”. Le medie riguardanti gli anni che i soggetti avevano nel momento della separazione dei genitori sono 7 anni per i casi di rapina, 15,50 anni per i casi di omicidio e 16,25 anni per quelli senza precedenti penali. Gli studi più completi sull’argomento “separazione” dimostrano come i bambini che vivono una separazione familiare, sono significativamente più vulnerabili rispetto a coloro che si trovano a vivere in condizioni di apparente “normalità”, alle patologie
119
psichiatriche durante tutta l’età evolutiva sia acute, acute come la nevrosi12 traumatica, che croniche, come nei disadattamenti scolastici e nelle disarmonie comportamentali.
Stato civile soggetti
100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% Celibe
Sposato
Separ/Divor
Convivente
Vedovo
4,2%
0,0%
RAPINA
83,3%
4,2%
STATO CIVILE 8,3%
OMICIDIO
47,4%
21,1%
21,1%
5,3%
5,3%
S.P.P
44,0%
44,0%
12,0%
0,0%
0,0%
Grafico n° 2 relativo allo stato civile dei soggetti.
Stato civile genitori 100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% RAPINA
Sposati 72,0%
Separati 24,0%
Altro 4,0%
OMICIDIO
82,6%
17,4%
0,0%
S.P.P
84,0%
12,0%
4,0%
Grafico n° 6/7 riguardante lo stato civile dei genitori. 12
La nevrosi è una sindrome caratterizzata da una condizione di disagio e sofferenza psichica, legata generalmente a situazioni conflittuali personali personali o in relazione all’ambiente. Sono stati considerati diversi fattori causali, psicologici, socio-ambientali socio ambientali e biologici, che potrebbero interagire sulla base di una personalità predisposta. La nevrosi, che può considerarsi come una risposta particolare e abnorme a eventi psichici interni o esterni, si manifesta con sintomi psichici, comportamentali e somatici: ansia, astenia, fobie, ossessioni, insicurezza, reazioni inadeguate, riduzione delle prestazioni prestazioni individuali, sudorazione, tachicardia ecc. L’enciclopedia lopedia della medicina, medicina DeAgostini, Novara, 1990, p. 509.
120
Ogni bambino si trova ad affrontare, durante la separazione di suoi genitori, una situazione di “crisi”, che è specifica per quel soggetto e che è dovuta a numerosi variabili, tra loro interagenti, sia soggettive che oggettive. Spesso, tra l’altro, vi è una grande contraddizione tra la realtà di una situazione ed il modo nel quale il bambino la percepisce e la vive come, d’altra parte vi è, frequentemente, una significativa differenza tra quello che il “mondo esterno” conosce della famiglia e quello che realmente al suo interno avviene. Per meglio comprendere la crisi della separazione occorre rinunciare a considerarla come legata ad un solo evento formale a breve termine, ma è necessario analizzarla, invece, nell’ambito di una pressoché infinita serie di stadi, aventi ognuno delle specificità e dei rischi psicopatologici sia per i genitori sia, in particolar modo, per i figli. Nei casi di separazione, lo squilibrio intrapsichico ed intrafamiliare persiste per diversi anni (due o più) prima che la famiglia si stabilizzi nella condizione di post-separazione. Per molti bambini il processo di separazione è caratterizzato da una perdita iniziale e da una condizione di grave disagio seguita da numerosi anni di attenzione incostante dei genitori e di relativa instabilità affettiva e relazionale. Il bambino partecipa a quattro fasi del processo di separazione dei genitori: •
la vita familiare che precede la separazione dei genitori;
•
il processo di separazione stesso, gli eventi e le circostanze terminali ed i
periodo immediatamente successivo; •
il mutamento sociale, economico e psicologico determinato dalla collocazione in
un nuovo nucleo familiare ad un solo genitore; •
le distorsioni, successive alla separazione, delle relazioni parentali con il
genitore affidatario e non affidatario: per molti bambini è rappresentata dal legame stabile, non necessariamente formalizzato, di uno o di entrambi i genitori con un partner, non infrequentemente con dei bambini.
Ognuna di queste fasi può avere conseguenze a breve o lungo termine per i bambini coinvolti. Ognuna può interferire con le potenzialità evolutive del bambino e la durata del periodo di difficoltà, così come il grado e il ritmo di cambiamento della situazione potranno cambiare per ogni bambino e all’interno di ogni contesto
121
familiare.13 Alcuni autori hanno rilevato che un bambino diventa “disturbato” quando la relazione che unisce i genitori diventa “disturbata”. Questa relazione genitoriale, che potenzialmente può divenire gravemente patogena per il bambino, viene definita come “divorzio affettivo”. Secondo Despert la separazione non è sempre distruttiva per i bambini: talvolta il matrimonio, che la separazione dissolve, può essere molto più patogeno; molto spesso i minori che vivono in contesti familiari sostanzialmente scissi ma formalmente integri, sono maggiormente “disturbati” dei minori figli di genitori separati. Anche se un processo di separazione rappresenta un grande cambiamento per la vita affettivo-relazionale del bambino, non rappresenta però il sinonimo di “disastro” ed alcune volte porta al miglioramento della sua condizione clinica.14 La separazione diviene reale
per molti bambini solo quando un genitore si allontana dal nucleo
familiare. Ogni bambino, per preparato che possa essere a questo momento di separazione, non lo è mai abbastanza. La piena accettazione di questa realtà nel mondo interno del bambino spesso richiede un significativo periodo di tempo. L’atto finale della frattura genitoriale pone il bambino nella condizione di dover far fronte ad una significativa modificazione della realtà che spesso presenta gravi elementi di frustrazione e di ansia. La loro sofferenza è originata da paure che sono sia reali che irreali.15 Sono associate ad un accresciuto senso di vulnerabilità verso il genitore non affidatario e della struttura protettiva della famiglia, aggressività verso il genitore o i genitori che hanno “distrutto” il loro mondo affettivo-relazionale, un profondo senso di solitudine e preoccupazione di essere diversi dai compagni.16 Il segnale d’allarme è lo stesso in tutte le condizioni di crisi: è un silenzio persistente, una condizione di panico, un senso di colpa e di ostilità a casa, un’accentuazione dei sintomi somatici, delle difficoltà di apprendimento o il rifiuto di andare a scuola, la comparsa di diverse forme di comportamento deviante e il ritiro attivo da tutte le relazioni esterne al contesto familiare.17 13
E. CAFFO (a cura di), Bambini divisi. I figli di genitori separati, Edizioni Unicopli, Milano, 1984, pp. 317/319. 14 Ivi, p. 319. 15 J. E. ANTONY, Les enfants et le risque du divorce. Revuen général de la question, in J. E. ANTONY, C. CHILAND (a cura di), L’enfant à haut risque psychiatrique, PUF, Paris, 1980. 16 J. WALLERSTEIN, J. KELLY, The effects of parental divorce: experience of the preschool child, in J. Child Psychiat., 1975, 14, p. 606. 17 R. WEISS, Marital separation, Basic Book, New York, 1976.
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La condizione dei figli nel periodo successivo alla separazione genitoriale è in stretta relazione con ciò che è avvenuto prima e durante il processo stesso. La sindrome comune che si trova nei bambini e negli adolescenti nella fase successiva alla separazione dai genitori viene definita “nevrosi d’abbandono”, caratterizzata da un’alternanza tra una depressione interna ed una aggressività esterna, da un senso di dolore per il dissolvimento familiare e la percezione di fragilità e vulnerabilità rivolta verso se stessi. In tale situazione il bambino si sente principale causa della separazione.18 Se i genitori dopo la separazione non riescono a staccarsi emotivamente e anzi cercano insistentemente di squalificare il ruolo dell’altro, non aiutano il bambino a superare la crisi familiare. In queste condizioni si perpetua il loro tentativo di avere i figli come alleati o come testimoni della loro efficienza (e dell’inefficienza del coniuge che gradatamente è diventato nemico).19 Con l’aumento delle famiglie divise e di quelle ricostituite in seconde nozze si fanno sempre più complesse le problematiche educative connesse con l’educazione dei figli. Le situazioni di separazione/ricostituzione familiare generano cambiamenti ancora tutti da studiare nelle molteplici implicazioni giuridiche, religiose, sociologiche, psicologiche e, soprattutto pedagogiche.20 A differenza di altri Paesi, dove la separazione coniugale è un evento di cui si conoscono le conseguenze da molti anni, per l’Italia si tratta di un fenomeno abbastanza recente. Le relazioni educative genitori – figli, nelle famiglie separate o ricostituite, sono affrontate da alcuni decenni nell’Europa settentrionale, dove le seconde nozze sono circa un terzo dei matrimoni. Attualmente in Italia si risposa poco meno della metà dei divorziati e i secondi matrimoni sono il 5% di tutti i matrimoni. I divorzi ed i secondi matrimoni riguardano oggi in larga misura le giovani generazioni di coniugi (l’età media alla separazione è, secondo l’Istat, di 40 anni per gli uomini e 37 per le donne).21 L’aumento delle separazioni assume un’importanza pedagogica particolare nel caso delle coppie con figli, poiché ogni famiglia, alla sua dissoluzione, ne genera altre “due”: una monoparentale composta dal genitore affidatario con i figli (prevalentemente 18
J. E. ANTONY, op. cit., 1980. E. FAZZI, G. PICERNO, Genitori separati. Bambini divisi. I bambini e i vissuti della separazione, Edizioni Del Cerro, Pisa, 1996, p. 64. 20 Rivista n° 209, La famiglia. Bimestrale di problemi familiari, Editrice La Scuola, settembre-ottobre 2001, Anno XXXV, p. 49. 21 L. L. SABBADINI, Modelli di formazione e organizzazione della famiglia, in Atti del Convegno “Le famiglie interrogano le politiche sociali”, Bologna, 29-31 Marzo, 1999, p. 12. 19
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la madre) e una monopersonale (il genitore solo senza figli affidati). Se poi uno o entrambi gli ex coniugi si risposano o convivono in coppia di fatto con un nuovo coniuge/compagno, hanno origine ulteriori trasformazioni più instabili sul piano della struttura e più complesse nelle relazioni dei figli con il “terzo genitore”, i “quasi fratelli” e l’intrecciarsi di parentele “biologiche” e “acquisite”. Con l’aumento delle famiglie divise e di quelle ricostituite in seconde nozze si fanno sempre più complesse le problematiche educative connesse con l’educazione dei figli. Più ancora della coppia, la necessità di continuare a guardare al futuro con speranza e rinnovata serenità riguarda i figli, soprattutto i minori. Sono questi la principale fonte di preoccupazione educativa, ad essi si deve una speciale attenzione per preservarli dal coinvolgimento nei conflitti genitoriali, e per sostenerli nei delicati percorsi di crescita emotiva. Anche se si tratta di un evento diffuso, la dissoluzione familiare è infatti sempre un fatto traumatico per i figli che comporta alterazioni a livello cognitivo, affettivo e sociale.22 E’ oggi possibile, in virtù degli studi longitudinali effettuati nel corso dell’esistenza dei “figli divorziati” oggi adulti, conoscere le ripercussioni del conflitto genitoriale prima, durante e dopo la separazione anche a distanza di molti anni. L’età, il sesso, la fase del ciclo di vita familiare, la personalità e le modalità di gestione del conflitto sono elementi importanti e costituiscono un insieme di variabili così complesso da rendere difficile formulare schemi universali. Dalla comparazione di numerose ricerche condotte negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, è possibile evidenziare che il disturbo psicologico nei figli precede il divorzio, a motivo della tensione e discordia tra i genitori, e che permane anche dopo, se persiste il conflitto nel post-separazione.23 Il perseguimento di uno stato di serenità e fiducia nel futuro da parte di genitori si ripercuoterà positivamente sull’educazione dei figli. I principi pedagogici a cui ispirarsi di fronte al fallimento del matrimonio sono indicati con chiara sintesi da N. Galli: “il dovere degli adulti di reagire all’insuccesso coniugale e di contenere gli effetti nocivi; l’obbligo dei genitori di tutelare i figli, qualora esploda il dissidio; l’ufficio della comunità di sorreggere i giovani in disagio”.24 Al fine di perseguire il benessere dei figli, ritenuto preminente sulle discordie genitoriali, V. Packard individua otto punti che 22
Rivista n° 209, La famiglia. Bimestrale di problemi familiari, Editrice La Scuola, settembre-ottobre 2001, Anno XXXV, p. 52. 23 M. RUTTER, L’arco della vita. Continuità, discontinuità e crisi nello sviluppo, Giunti Editore, Firenze, 1995, pp. 130-131. 24 N. GALLI, Educazione familiare e società complessa, Vita e Pensiero Editore, Milano, 1991, p. 205.
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costituiscono per i figli nelle separazioni una sorta di “Dichiarazione dei diritti”. Tra questi, oltre al diritto di incontrarsi con i genitori e intrattenersi con essi, vi è il diritto di non essere strumentalizzati da uno dei due genitori, di non essere costretti ad assistere alle discordie o, peggio, ad essere chiamati in causa a parteggiare per uno di essi. Ma soprattutto vi è il diritto a che i genitori si consultino sulle decisioni più importanti relative ai figli.25
Ritornando ai grafici, dalla loro comparazione notiamo che, i soggetti R non hanno seguito i modelli dei genitori in quanto la maggior parte del campione, nonostante provengano da una famiglia formata da genitori sposati, ha preferito non coniugarsi. La stessa cosa vale per i soggetti O ma non per quelli S.P.P che, ad una bassa percentuale di separazione da parte dei genitori (12%) corrisponde un pareggio dei dati tra celibe e sposato (44%). In riferimento a quella parte di campione totale che ha vissuto la separazione dei genitori (R 24%, O 17,4% e S.P.P 12%) notiamo che esistono molte differenze. I detenuti per rapina sostengono che il loro punto di riferimento dopo la separazione sia stata la madre (42,9%), sotto la voce “altro” alcuni rispondono “nessuno”, e “lo sport”, segno evidente che dopo la separazione non sono stati i parenti né gli amici a stare vicino al soggetto (entrambi 0%). Per i detenuti condannati per omicidio e anche per i soggetti senza precedenti penali, nessuno ha considerato la madre come punto di riferimento, ma in questi casi, è stata indispensabile la figura del padre (25% e 50%). Solo il 25% dei casi O hanno considerato gli amici come punto di riferimento. Analizzando il campione in riferimento alla genitorialità, notiamo che un’alta percentuale (68%) dei detenuti per rapina non ha figli mentre i detenuti per omicidio e i soggetti senza precedenti penali sono diventati genitori (rispettivamente il 54,2% e il 56%). Un’altissima percentuale di tutto il campione proviene da una famiglia composta da almeno 4 persone, in quanto l’intero campione non è figlio unico, con un picco del 95,8% per i soggetti R, 91,3% per O e 91,7% per soggetti S.P.P.
25
V. PACKARD, I bambini in pericolo, Editori Riuniti, Roma, 1985, pp. 266-267.
125
Figli 100,0% 80,0% 60,0% 40,0% 20,0% 0,0% SI
RAPINA 32,0%
OMICIDIO 54,2%
S.P.P 56,0%
NO
68,0%
45,8%
44,0%
Grafico n° 3 indicante i figli del campione R e O.
Il grafico sottostante descrive la presenza di fratelli o sorelle in famiglia. Dai dati osserviamo che l’intero campione è composto da soggetti che non vivono da soli con i genitori: dalle percentuali non si evince però la quantità dei fratelli presenti in famiglia.
Fratelli/Sorelle 100,0% 80,0% 60,0% 40,0% 20,0% 0,0% SI
RAPINA 95,8%
OMICIDIO 91,3%
S.P.P 91,7%
NO
4,2%
8,7%
8,3%
Grafico n° 8/9 riferito alla presenza in famiglia famiglia di fratelli e sorelle.
Analizzando dettagliatamente tutti i questionari e le relative risposte emerge che i casi R e O provengono da una famiglia abbastanza numerosa, composta da un minimo 126
di 2 a un massimo di 11-13 fratelli, con una frequenza maggiore tra i 5-8 figli e i 6-11 figli rispettivamente per R e O. Le famiglie dei casi S.P.P, invece, sono composte da un minimo di 2 figli a un massimo di 8, con una maggiore frequenza di 2-4 figli. I figli unici sono 2 per i casi R, 4 per i casi O e 2 per i casi S.P.P.
La maggior parte dei genitori dell’intero campione sono ancora in vita: solo un soggetto R, non avendo mai conosciuto i genitori, non ha idea dell’attuale situazione genitoriale. Per quei soggetti, invece, che hanno vissuto un lutto familiare (R 60%, O 70,9%, S.P.P, 68%), il punto di riferimento dopo la morte è stato prevalentemente “altri parenti” per i casi R (36,4%), “nessuno” per i casi O (33,3%) e “altro” per i casi S.P.P (50%): in quest’ultimo caso le risposte sono: “me stesso”, “coniuge”, “nonni materni” (qua notiamo che i genitori sono morti quando il soggetto era molto piccolo). Sulla base delle medie calcolate in riferimento all’età in cui si sono persi i genitori, notiamo che nei casi R l’età media è rispettivamente di 26,40 anni per la madre (5/25 con un limite inferiore e superiore di 11,46 e 41,34 anni) e di 22,60 anni per il padre (5/25 con un limite inferiore e superiore di 14,48 e 30,72 anni) , mentre nei casi O è di 36,75 per la madre (4/25 con un limite inferiore e superiore di 12,67 e 60,83 anni) e di 24,20 per il padre (5/25 con un limite inferiore e superiore di 9,37 e 39,03 anni). In riferimento ai casi S.P.P l’età media è di 41 anni per la madre (7/25 con un limite inferiore e superiore di 21,89 e 60,11 anni) e 33,63 anni per il padre (8/25 con un limite inferiore e superiore di 20,46 e 46,79 anni). Quando muore un genitore di un bambino, tocca quasi sempre al genitore superstite di informarlo; questo è un compito estremamente penoso. La maggioranza lo fa subito, ma più il bambino è piccolo, più facilmente il genitore rinvierà il compito; in una minoranza significativa tale rinvio è di settimane ma anche mesi. Come espediente si può ricorrere a quello di dire al bambino che il padre è in viaggio, oppure che è stato trasferito in un altro ospedale. Il genitore superstite incontra una grossa difficoltà nel dare questa informazione, perché desidera intensamente proteggere suo figlio o sua figlia dalla conoscenza della morte e del dolore del lutto. Bisogna capire che i bambini leggono con molta prontezza i segnali. Se un genitore ha paura dei sentimenti, i figli nasconderanno i propri, se un genitore preferisce il silenzio, i figli presto o tardi
127
smetteranno di far domande.26 I dati riportati in una ricerca della Furman nel 1974 in riferimento alle reazioni dei bambini, dimostrano che solitamente un bambino o un adolescente rimpiange il genitore a lungo, in qualche momento il bambino indugia nella speranza di un ritorno del genitore perduto, talora lo si può cogliere nell’atto del “ricercare”, a volte si sentirà colpevole, non di rado temerà di perdere anche il genitore rimasto, o la figura sostitutiva, o avrà paura che la morte reclami anche lui. Cercherà con smania tenerezze e sarà molto ansioso e talora assumerà con ostinazione un comportamento che sarebbe difficile comprendere, se non se ne conoscessero le ragioni.27
Continuando la nostra analisi dei dati, un’alta percentuale del campione R è andato a vivere fuori casa quando aveva meno di 20 anni (56%): i motivi sono stati prevalentemente per lavoro (33,3%) o per “altri” motivi (“abbandono” ,“creavo problemi”, “arresto” (2 campioni), “volevo stare solo”). Il campione O è andato a vivere fuori casa a meno di 20 anni e tra i 20/30 (34,8% entrambi): motivo lavoro e matrimonio (35,3% e 29,4%). Il campione S.P.P, invece, è ben bilanciato con il 36% (20/30 anni) mentre il 40% “non è mai andato a vivere da solo”: sulla base del 36% che è andato a vivere fuori casa, notiamo che lo hanno fatto per lavoro e matrimonio.
La domanda n° 18 (“Chi si occupava di Lei durante l’infanzia?”), invece, prevede la possibilità di diverse opzioni analizzate singolarmente per ogni campione: durante i pasti, per vestirsi, per accompagnarla a scuola, nei compiti scolastici, nel gioco e nel momento di andare a dormire. Il dato che emerge per tutte queste sei scelte è che il compito evolutivo e dell’accudimento dei figli sembra pesare quasi interamente sulle spalle della madre, con un picco sia nell’assistenza durante i pasti che nell’aiuto a vestirsi. La figura paterna è quasi esclusa da tutte le attività tranne in riferimento al gioco, nei casi O e S.P.P, anche se l’attività ludica è svolta assieme ad altre figure, come fratelli e sorelle, zii, amici, e qualche volta in solitario.
26
J. BOWLBY, Attaccamento e perdita. La perdita della madre. Vol. 3, Boringhieri Editore, Torino, 1983, pp. 327/329. 27 E. FURMAN, A child’s parent dies: studies in childhood bereavement, Yale Universuty Press, New Heaven & London, 1974.
128
Nella concezione psicoanalitica il gioco diviene una sorta di drammatizzazione superficiale di problemi profondi. Secondo Freud i desideri e i conflitti di ogni stadio evolutivo si rifletteranno nel gioco del bambino o in attività simboliche sostitutive a meno che l’ansia non sia tale da inibire del tutto il gioco. gioco Il gioco rappresenta un linguaggio espressivo simbolico, che riflette la dinamica interiore del bambino, che manifesta i suoi desideri, le sue paure, che gli consente di superare illusoriamente le l sue difficoltà. Esso è un mezzo attraverso cui egli conquista le sue rivincite sulle frustrazioni, perché giocando può isolare frammenti di realtà e viverli in maniera simbolica, porsi attivamente di fronte ad essi, affermare la personalità.28
Quando si doveva affrontare un problema,, la maggior parte del campione totale si rivolgeva alla madre (R 20,8%, O 21,7% e S.P.P 44%) o, comunque a più persone contemporaneamente (R 50%, O 39,1% e S.P.P 44%).
Regole
100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% RAPINA
SI 44,0%
NO, POCHE 36,0%
NESSUNA 16,0%
PIU' RSP 4,0%
OMICIDIO
36,8%
31,6%
31,6%
0,0%
S.P.P
40,0%
56,0%
0,0%
4,0%
Grafico n° 20 riferito alle regole presenti in famiglia
Per quanto concerne le regole vigenti in famiglia, la maggior parte del campione R e O afferma la presenza di esse, mentre il campione S.P.P ha un prevalenza del 56% in riferimento a “poche poche regole”. regole
28
N. GALLI (a cura di), Vogliamo educare i nostri figli, figli Vita e Pensiero, Milano, 1985, pp. 250-251. 250
129
Atteneva regole 100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% RAPINA
SI 56,0%
NO 36,0%
ALTRO 8,0%
OMICIDIO
63,6%
13,6%
22,7%
S.P.P
96,0%
4,0%
0,0%
Grafico n° 21 indicante il rispetto delle regole da parte dei soggetti
Il campione totale si atteneva alle regole,, soprattutto il campione S.P.P (96%), nonostante la presenza di poche regole in famiglia. In educazione, l’ubbidienza resta un tema centrale, di là da tutti i numerosi problemi formativi. L’uomo educato non può prescindere dall’assumere l’ubbidienza come compito normale e quotidiano. Per raggiungere tale obiettivo, lo sforzo costante dell’adulto tenta di unire due forze indispensabili: la ragione e l’amore. La pedagogia ammonisce che solo questa sintesi vitale consente di progettare una persona valida. La ragione e l’amore degli adulti costituiscono il fattore decisivo per insegnare a chi cresce ad ubbidire alla vita. Se l’autorità, più che una funzione, è un servizio reso al vero, l’ubbidienza non è mai una debolezza, ma una forza, proprio perché è una virtù vitale.29 Le
reazioni
dei
genitori
alle disubbidienze dei
figli
sono
diverse:
paradossalmente il campione S.P.P è quello che ha subìto subìto più violenze fisiche (13% “bastonate”), ”), rispetto al 9,1% e al 9,5% dei casi R e O. C’è una forte prevalenza di “punizioni giuste” e “dialogo dialogo”. ”. Una piccola percentuale (9,10%) si inserisce nella categoria “altro” con queste motivazioni “urla “ e parolaccee da parte di mio padre” padre e “non ho mai avuto occasione di saperlo”. saperlo
29
N. GALLI (a cura di), op. cit., p. 363.
130
Reazione genitori
100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% PUNIZ FISICHE 9,1%
DIALOGO
ALTRO
PIU' REAZ
RAPINA
PUNIZ GIUSTE 40,9%
22,7%
9,1%
18,2%
OMICIDIO
33,3%
9,5%
33,3%
4,8%
19,0%
S.P.P
34,8%
13,0%
26,1%
0,0%
26,1%
Grafico n° 22 indicante le reazioni dei genitori in caso di disubbidienza disu da parte dei figli alle regole familiari.
Una variabile molto studiata è stata il particolare particol tipo di punizione utilizzata nelle famiglie. Una conclusione sicura sembra che molti di coloro che sono esposti a violenza non diventino poi così violenti: in caso contrario ci sarebbero ancora più omicidi.30 Le punizioni, secondo Bettelheim, Bettelheim sono considerate sconvenienti perché spesso dolorose e mortificanti. “Punire i figli non è mai consigliabile, pur ammettendo che possa consentire la scarica della nostra collera e del loro senso di colpa”. colpa 31 In qualche modo tali punizioni vanno ad incidere sulla fiducia del figlio nell’affetto dei genitori. Pertanto ogni genitore che punisce, anche se in maniera lieve, può provocare risentimento nel figlio e, di conseguenza, a causa dell’indignazione nei confronti confronti del genitore, genitore può non essere disposto ad imitarlo. Troppo spesso spesso è forte la convinzione nei genitori che il castigo o le minacce siamo mezzi educativi efficaci. Lo sono certamente altrimenti non sarebbero durati così a lungo. Ma come tutti gli altri mezzi educativi, hanno un prezzo: il prezzo è l’assunzione nel bambino bambino della violenza come modo comportamentale.32 In teoria una punizione dovrebbe “impartire una lezione” o “correggere”. Ogni punizione,
30
C. P. MALMQUIST, Omicidio: una prospettiva psichiatrica, dinamica e relazionale, relazionale Centro Scientifico Editore, Torino, 1999, pp. 388-389. 388 31 B. BETTELHEIM, Un genitore quasi perfetto, perf Feltrinelli, Milano, 1988, p. 160. 32 B. BETTELHEIM, Dialoghi con le madri, madri, Edizioni di Comunità, Milano, 1972, p. 174.
131
per essere efficace, per insegnare, deve anche cercare di stabilire connessioni logiche. Nello stesso tempo una punizione, punizione, comunque “logica”, può mancare al suo scopo.33
Litigi genitori
100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% Sì, SEMPRE
Sì, Q.VOLTA
NO, MAI
PIU' RSP
32,0%
NN S FAC VED 0,0%
RAPINA
16,0%
44,0%
8,0%
OMICIDIO
9,1%
50,0%
4,5%
36,4%
0,0%
S.P.P
20,0%
52,0%
12,0%
16,0%
0,0%
Grafico n° 24 riguardante i litigi familiari dei genitori.
In riferimento al grafico sopra illustrato, il campione R sostiene di non aver mai assistito ai litigi tra i genitori (44%) mentre il dato più alto nei casi O e S.P.P è rispettivamente 50% e 52% in riferimento a “qualche volta”. Il campione S.P.P sostiene di aver sempre assistito (20%). Nei confronti di quei soggetti che subivano i litigi (grafico seguente), seguente) le percentuali li più alte riguardano “nessuna reazione”” e “altro” (casi R “mi “ sfogavo in palestra di boxe”, “rabbia”, ”, “si “ discuteva”, “solitamente era per colpa mia”; mia casi O “mi mettevo in mezzo”, “ero ero abituato”, abituato “troppo troppo piccolo per capire, ho capito in seguito”, seguito “stavo in mezzo”, “rimanevo rimanevo tranquillo” tranquillo e casi S.P.P “paura”, “stavo stavo in disparte e ascoltavo”, “mi agitavo”, ”, “dispiacere”). “ Qualcuno piangeva, si nascondeva in camera o scappava di casa o chiedeva aiuto.
33
S. H. FRAIBERG, Gli anni magici. Come affrontare il problema dell’infanzia da zero a sei anni, anni Armando Armando Editore, Roma, 2010, p. 211.
132
Reazione litigi
100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% PIANGE VA 17,6%
NASC CAMERA 0,0%
AIUTO
OMICIDIO
0,0%
S.P.P
10,5%
RAPINA
NESS REAZ 29,4%
ALTRO
0,0%
SCAPPA VA 17,6%
23,5%
PIU' REAZ 11,8%
6,7%
0,0%
6,7%
53,3%
26,7%
6,7%
10,5%
0,0%
0,0%
47,4%
31,6%
0,0%
Grafico n° 25 indicante la reazione dei soggetti ai litigi dei genitori
Violenze genitori
100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% Sì, SEMPRE 0,0%
Sì, Q. VOLTA 28,0%
NO,MAI 68,0%
ALTRO 4,0%
OMICIDIO
4,8%
14,3%
81,0%
0,0%
S.P.P
4,2%
0,0%
95,8%
0,0%
RAPINA
Grafico n° 23 riferito alle violenze subìte dai genitori
Nel grafico qui sopra, una una percentuale altissima del campione non ha mai subìto violenze dai genitori (R 68%, O 81% e S.P.P 95,8%); il 28% dei casi R e il 14,3% dei casi O sostiene di averle subite “qualche volta”. 1/25 dei casi R dichiara: “la “ maggiore delle
violenze,
l’abbandono l’abbandono”.
La
sensazione
di
abbandono
provocherebbe
contemporaneamente la ricerca di affetto e di sicurezza sicurezza e la percezione distorta di molte esperienze relazionali realmente affettive. Questa sostanziale sfiducia nelle proprie 133
capacità di essere oggetto d’amore e nelle possibilità altrui di considerarlo tale, fa sì che il giovane da un lato cerchi nelle cose la compensazione alle frustrazioni subìte (furti o droga) e dall’altro lato consideri l’aggressività una logica reazione all’esperienza vissuta. Sui drogati, esistono dei dati che comprovano il fenomeno.34 Il comportamento deviante, ed in particolare l’assunzione della droga fino alla tossicomania35, dipende quindi dalla storia personale dell’individuo, così come si è andata strutturando nel rapporto del singolo con la sua personale esperienza di vita, sia dal tipo di socializzazione avuta soprattutto in famiglia sia dal tipo di relazioni che l’individuo ha nel sociale.36 E’ impossibile discutere qualsiasi diagnosi relativa all’estrema violenza giovanile senza considerare l’ipotesi dell’impatto sul bambino di un abuso sessuale o fisico da parte dei genitori. All’inizio degli anni settanta, Curtis scriveva che i bambini abusati e trascurati sono gli assassini e gli autori di violenza del domani.37 Il problema è se tale maltrattamento
porti
a
violenza
grave,
come
il
comportamento
omicida,
nell’adolescenza e oltre. Widom, in un ampio campione su casi di abuso sessuale e fisico, ha rivelato che, globalmente, i bambini abusati o trascurati avessero tassi più alti di arresto per crimini violenti da adolescenti rispetto ai soggetti di controllo. In ogni caso esistono delle ricerche a sostegno del legame tra le conseguenze a lungo termine dell’abuso fisico e l’aggressività, se non la violenza omicida, dell’adolescente.38 Va ricordato infatti che la maggior parte dei bambini abusati o trascurati non diventa delinquente o criminale, per non parlare dei comportamenti violenti. Alcune relazioni coniugali sono caratterizzate da ostilità che può essere espressa in maniera diretta, con i due partner che litigano e si scontrano apertamente, talvolta in maniera violenta. In letteratura vengono indicati come fattori di rischio per il conflitto violento di coppia alcune caratteristiche individuali (disturbi psichici, abuso di alcool e droghe, basso 34
N. GALLI, op. cit., p. 171. Tossicomania significa vivere in una relazione così stretta con una certa sostanza che tutta l’esistenza individuale viene ristrutturata, mettendo al centro degli interessi, delle finalità, del rapporto con gli altri il fatto di aver “bisogno” di quel certo elemento, che è diventato essenziale per il soggetto alla fine di una lunga, tormentata ed eterogenea storia di vita. N. GALLI, op. cit., p. 173. L’OMS classifica come tossicomane ogni vittima di una dipendenza da farmaco o di una psicodipendenza (o di entrambe le forme di dipendenza contemporaneamente). J. BERGERET, Chi è il tossicomane. Tossicomania e personalità, Edizioni Dedalo, Bari, 1985, p. 7. 36 N. GALLI, op. cit., p. 172. 37 C. G. CURTIS, Violence breeds violence-perhaps?, Am J Psychiatry 120:386-387, 1963. 38 C. S. WIDOM, Childhood victimization and adolescent problem behaviors, in Adolescent Problem Behavior, Edited by Ketterlinus R, Lamb ME, New York, Lawrence Erlbaum, 1994, pp.127/164. 35
134
controllo degli impulsi, bassa autostima, scarse abilità relazionali, storia di abusi subìti e di aggressioni perpetrate, essere cresciuti in famiglie caratterizzate da genitori poco efficienti e da basso funzionamento familiare) e dal contesto (povertà, residenza in quartieri svantaggiati e bassi livelli di supporto sociale, di intimità e di soddisfazione matrimoniale). Il conflitto è inevitabile all’interno di una coppia e non sempre è negativo per le relazioni familiari e per il bambino. Quando il conflitto è moderato nei toni, espresso in maniera costruttiva, in un ambiente familiare caloroso e supportivo, e mostra segni evidenti di risoluzione, i bambini imparano come negoziare i conflitti e risolvere i disaccordi relazionali. Viceversa, quando il conflitto coniugale è elevato di intensità e ripetuto nel tempo viene a crearsi una condizione di stress cronico per i figli, capace di incidere negativamente sul loro benessere psicologico.39 Winnicott, sosteneva che la base di tutte le teorie dello sviluppo della personalità umana è la continuità, la linea della vita, che presumibilmente ha inizio prima dell’effettiva nascita del bambino: continuità che porta con sé l’idea che ciò che ha fatto parte di un’esperienza individuale va perduto e può mai andare perduto per quell’individuo, anche se in vari e complessi modi dovrebbe diventare, e in realtà diventa, inaccessibile alla coscienza.40 C’è un abbandono anagrafico: quello dei figli di donna che non consente di essere nominata. C’è un abbandono materiale, caratterizzato dalla mancata assistenza materiale, di cui le cagioni consistono nell’indigenza, nella separazione, in un sopravvenuto bisogno di clandestinità, nell’inettitudine ad allevare il nato nonché ad educarlo, genericamente in uno stato di mal aggiustamento, ostile all’adempimento dei doveri di genitura. E c’è, infine un abbandono morale, caratterizzato da un assai meno perdonabile disinteresse affettivo verso il nato: ai doveri ed alle responsabilità vengono meno, in questo caso, finanche persone bastantemente abbienti, affidando il nato, per la sua educazione, a persone non capaci o anche trascurandolo se tenuto in casa.41 Privati del necessario rapporto affettivo con la madre, i bambini sono in realtà privati, già nell’età dell’allattamento, delle condizioni atte ad equilibrare la naturale aggressività biopsicologica. Infatti la mancanza del rapporto naturale con la madre non
39
O. GRECO, R. MANIGLIO, Genitorialità. Profili psicologici, aspetti patologici e criteri di valutazione, FrancoAngeli Editore, Milano, 2009, pp. 158-159. 40 D. W. WINNICOTT, I bambini e le loro madri, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1987, pp. 89-90. 41 F. M. BONGIOANNI, Fanciullezza abbandonata. 15° ricerca sulla scuola e la società italiana in trasformazione, Editori Laterza, Bari, 1964, pp. 7-8.
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dispone a prendere consapevolezza del valore della persona umana, e scatena in direzioni abnormi quella che Lévy ha chiamato “fame affettiva primaria”. Naturalmente il rapporto di dipendenza madre-figlio, tipico della prima infanzia, nella seconda infanzia si modifica per il sopravvenire di nuove possibilità della vita di relazione nella personalità del fanciullo; ma anche tale modificazione subisce pur sempre l’impronta delle esperienze mutilanti, precedentemente vissute. Nei bimbi istituzionalizzati (possiamo riferirci al soggetto che è vissuto in collegio) gli aspetti negativi della carenza affettiva della prima infanzia si manifestano infatti nel progredire dell’età, perché nell’ambiente d’istituto assistenziale perdura la mancanza di quella condizione, stimolatrice ed equilibratrice della vitalità. Visto che il servizio del personale assistente è compiuto a rotazione, i bambini restano privi di quella permanente motivazione affettiva, che è propria, invece, del contatto tra piccini ed adulti in famiglia. In definitiva, ai bambini istituzionalizzati manca la possibilità di uno scambio di autentiche dedizioni affettive, perché mancano gli affetti. La vita in comune toglie ai bambini l’occasione stessa di sperimentare il diritto di proprietà non solo sotto l’aspetto della responsabilità verso la proprietà altrui, ossia verso le altrui persone, ma anche sotto l’aspetto della cura di sé. Difatti dove tutto è impersonale, dove tutto è di tutti e di nessuno, riesce difficile persino acquisire il senso della proprietà della propria persona. Anche questa è una considerazione da valutarsi in questioni medico-legali relative alla precoce incubazione della delinquenza minorile.42 Anche se negli ultimi decenni si è verificata una sensibile riduzione della mortalità e della morbilità infantile, si mantengono le situazioni di sofferenza che colpiscono i minori, in particolare nel settore psicopatologico. Questo dato impone un approccio articolato e complesso, sia per quanto riguarda l’iter diagnostico sia per le possibilità d’interventi terapeutici. Accanto alla pediatria, la neuropsichiatria infantile e la psicologia tradizionali, centrate sulla correttezza della diagnosi e l’adeguatezza della terapia, sta imponendosi la necessità di doversi riferire ad un approccio “ecologico” che tenga conto, oltre che dell’individuo bambino, anche della sua famiglia, della comunità, dell’ambiente. Di conseguenza la tutela dell’infanzia deve essere intesa come un insieme di spazi e di servizi, adeguati alle necessità psico-affettive del bimbo, messi in atto da operatori formati e predisposti a gestire un processo che comprenda soma, psiche 42
F. M. BONGIOANNI, op. cit., pp. 9/11.
136
e relazioni.43 Un numero sempre maggiore di studi testimonia che diversi fattori influenzano lo sviluppo emotivo, il comportamento e il cervello in evoluzione del bambino nei primi diciotto mesi e fino al terzo anno di vita. Questi fattori comprendono il tipo di attaccamento fra la madre o chi ne fa le veci e il lattante/bambino piccolo, il tipo di relazione oggettuale esistente fra loro e la presenza di traumi o altri fattori ambientali. Si tratta di esperienze che rimangono impresse nel cervello e lasciano tracce permanenti, sebbene non sempre irreversibili, come i neuro scienziati hanno scoperto recentemente.44 Riferendoci nuovamente ai dati analizzati, diciamo che da adulto, i rapporti con i genitori sono molto positivi come dimostrano le medie dei dati dell’intero campione (R 81,85%, O 92,6% e S.P.P 89,55%) e attualmente il rapporto non si è deteriorato tranne che per i casi R che, pur avendo una percentuale alta in riferimento ai rapporti positivi, il 20% del campione non ha nessun tipo di rapporto. Le motivazioni sono le più disparate ma quelle che emergono di più riguardano la detenzione, ovvero il carcere come causa di frattura tra i soggetti e la loro famiglia. Per quanto concerne il reato dobbiamo ovviamente fare riferimento solo ai casi di rapina e omicidio, quindi il confronto sarà esclusivamente tra questi due campioni. La vittima del reato dei condannati per rapina sono le banche, gli uffici postali e grandi magazzini (75%), e il 25% un “amico”; per il reato di omicidio la vittima è per il 23,5% sia un “familiare” (es. moglie, nipote, amante) che “amico” (es. collega di lavoro, ex compagna di classe) per il 52,9% è “altro” (es. vicino di casa, vicino di terreno). Un soggetto sostiene “non c’è vittima nel reato contestato”. Per quanto riguarda il tempo di permanenza in carcere trascorso dai detenuti R e O, si riscontrano delle differenze: a fronte di una varietà di dati in rapporto al tempo già trascorso in carcere (fino a 3 anni R 12% O 8%, da 3 a 5 anni R 48% O 16%, da 5 a 10 anni R 24% O 36%, da 10 a 20 anni R 12% O 20%, nessuna risposta R 0% O 16%) dove non emergono grossi picchi, notiamo che, in rapporto alla pena complessiva da scontare, i detenuti per rapina hanno pene che variano dai 5 ai 20 anni e più (36%, 28% e 24%) mentre nei casi di omicidio le pene sono molto più alte: nessun detenuto sconta
43
C. BOGLIOLO, C. LORIEDO (a cura di), Famiglie e psicopatologia infantile. Quando la sofferenza è così precoce, FrancoAngeli Editore, Milano, 2005, p. 9. 44 M. E. POZZI, I disagi dei bambini da 0 a 5 anni. Relazioni difficili e terapia psicoanalitica della famiglia, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2004, p. 219.
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pene inferiori ai dieci anni, ma il 48% e il 32% deve scontare pene dai dieci anni in su, alcuni anche fino all’ergastolo (3/25 hanno il cosiddetto “fine “fine pena mai” mai che, nella sentenza, deve essere indicato obbligatoriamente con un numero, “9999”). “9999”)
Totale pena
100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% Fino a 3
da 3 a 5
da 5 a 10
20 e più
Altro
36,0%
da 10 a 20 28,0%
RAPINA
0,0%
0,0%
24,0%
12,0%
OMICIDIO
0,0%
0,0%
0,0%
48,0%
32,0%
20,0%
Grafico n° 30 indicante il totale della pena da espiare
A proposito di ergastolo, sempre facendo riferimento alla mia esperienza, vorrei citare un altro colloquio al quale ho assistito per dare un’idea della imprevedibilità della vita. Si tratta di un uomo di circa 60 anni, condannato all’ergastolo per omicidio. Non ha mai voluto raccontare di sé soprattutto in riferimento al reato ma da un po’ di tempo è riuscito a sbloccarsi ed aprirsi di più in merito alla sua lunga vita detentiva: ha scontato già 16 anni. Durante il colloquio abbiamo abbiamo cercato di capire le motivazioni del suo ingresso in carcere e la relazione che ha avuto da bambino con le figure genitoriali. I suoi genitori gli hanno impartito un’educazione improntata sulla rigidità di d regole severe e punizioni altrettanto tali. Anche se in qualche modo cercava di attenersi a quelle regole, nonostante il suo carattere ribelle, non riusciva a non trasgredirle. Il suo sogno fin da ragazzo è stato quello di costruirsi una famiglia e, nonostante nonostante il “fine pena mai” (come si dice nel gergo carcerario), nel suo futuro vede ancora una speranza, la speranza che quella famiglia che tanto desiderava prima della carcerazione si possa ancora costruire. truire. Il suo comportamento intramurario è stato s considerato positivo dall’équipe quipe in quanto non ha mai infranto le restrizioni e le norme imposte dall’istituto.
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L’unica regola della vita, e cioè quella di avere rispetto per la vita degli altri, però, non è stata considerata. Sulla base del tempo già trascorso in carcere e sulla pena totale che si deve scontare, ogni detenuto, attraverso dei flash-back sulla propria esistenza, rievoca quelli che erano i suoi obiettivi di vita prima di essere arrestato cercando di osare, di guardare oltre quelle sbarre per provare a capire che ne sarà del loro futuro, se sarà possibile riprendere in mano quel pezzo di vita interrotta da un errore. Analizziamo le risposte. Dai dati del campione R e O emerge che nei casi di rapina c’era un forte interesse a costruire una famiglia e a trovare un lavoro (40% e 36%) mentre in riferimento ai casi di omicidio c’è una prevalenza di “nessuna risposta” anche se le risposte effettivamente date corrispondono anch’essere al binomio famiglialavoro. Riporto per esteso queste quattro risposte: “lavorare e tenere unita la famiglia, crescere i figli in modo dignitoso”, “lavoro, avevo una famiglia, non mi mancava niente”, “prima stavo bene, avevo figli, lavoro, una moglie e non avevo problemi”, “di vivere tranquilli come fino a quel momento”: fin qui niente di strano se non che queste sono le risposte di quattro soggetti che sono stati condannati per uxoricidio, pertanto si potrebbe evincere che gli obiettivi di vita così positivi precedenti al reato sono alquanto contrapposti al reato commesso. In relazione a questo particolare delitto, ovvero l’omicidio del coniuge, vorrei riportare poche righe su quello al quale ho assistito. Uomo. Straniero. 28 anni. Reato: uxoricidio. Fine pena 2028. Viveva a Genova dopo che dalla Tunisia si è dovuto trasferire qui in Italia per cercare un po’ di fortuna. Ha conosciuto una ragazza della quale si è innamorato e che ha portato all’altare. Nonostante questo quadro di vita “perfetto”, uccide la moglie in un raptus dovuto al fatto che lei avesse ripreso a fare uso di droghe, nonostante tutti i tentativi del marito di distoglierla da quel mondo. Il colloquio purtroppo prende un’altra piega e il detenuto, ignorando le domande dell’educatrice, devia il discorso al delitto; spiega di non riuscire più a vivere senza la moglie, che non merita una pena così “bassa” perché si rende conto della gravità del fatto e continua a proclamare la sua colpevolezza chiedendo l’ergastolo. L’educatrice e la capo area, inseritasi nel colloquio per calmare il detenuto, cerca di spiegargli che il carcere di Alghero è un istituto per la riabilitazione del soggetto, una struttura improntata all’aiuto e al sostegno della persona, dove la collaborazione di tutto il
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personale educativo, medico e penitenziario saranno a disposizione del soggetto proprio per seguirlo in un cammino di speranza e di luce, perché quella luce è un traguardo che ogni persona che sbaglia, deve comunque vedere. Il detenuto sembra ignorare tutte queste parole e continua imperterrito a raccontare la sua vita passata e quella in rapporto a sua moglie, a come si sono conosciuti, a che legame aveva con i suoceri e i lavori che ha svolto una volta arrivato in Italia. Ogni volta che ripensa a sua moglie non si capacita del male che le ha inferto e, proprio per questo, pensa che l’unica soluzione sia quella di finire la sua vita terrena e ricongiungersi a lei, in quella divina. La capo area, dai suoi quaranta anni di esperienza e con tutta la professionalità che in questi momenti emerge, cerca di non cedere ad ogni domanda o provocazione del detenuto, proprio per non far perdere quel minimo di fiducia che il soggetto ci stava dando. Il mio ruolo è stato solo quello di ascoltare, di vedere ogni singolo movimento e di cercare di carpire il dolore di questa persona. E’ proprio questo quello che emerge da questa storia: una disperazione interiore e una sofferenza che va oltre il semplice racconto. Riprendendo ad analizzare i dati in relazione agli obiettivi di vita dei casi R, solo il 4% dichiara “altro”, ovvero “fare la bella vita”. A questa risposta ne ho associate altre due “fare il pugile professionista” e ad un’altra “diventare un calciatore” in quanto mi sembravano molto similari, poco improntate ad un obiettivo di vita “serio” o comunque simile all’intero campione. Ho provato ad analizzare i quattro soggetti sulla base dei loro rispettivi questionari ed emerso quanto segue: sono soggetti abbastanza giovani, rispettivamente 21, 30, 31 e 28 anni. Ma questo non può essere l’unico fattore da prendere in considerazione, visto che sono accumunati anche dal fatto di essere celibi ma con figli, di avere dei genitori con un basso status sociale (addirittura un soggetto non ha avuto modo di conoscerli), di avere un titolo di studio molto basso (quinta elementare e terza media), di avere una famiglia numerosa, di aver subìto la separazione dei genitori (3 su 4), di essere andati a vivere fuori casa a meno di 20 anni per “disagio familiare”, “arresto”, “volevo stare solo”, “matrimonio” (dati che fanno emergere la difficile situazione familiare), Il soggetto che ha subìto l’abbandono, invece, risponde: “nessuno, a diciotto anni sono stato sbattuto fuori dal collegio in mezzo alla strada”.
Analizziamo il futuro dei condannati per rapina: il 64% dichiara di avere prospettive future positive: “una vita dignitosa con un eventuale famiglia”, “penso al
140
carcere e ho imparato che non posso e devo più sbagliare, penso sempre alla mia famiglia”, “io credo che in tutti questi anni di carcerazione che mi sono fatto (quasi 17 anni) voglio ricominciare tutto da capo, trovarmi un lavoro, una ragazza e farmi una vita normale come Dio comanda”, “dopo essere stato in prigione penso che sarà sicuramente meglio del presente”, “reinserito nella società senza essere giudicato per quello che ho fatto e con una possibilità per poter dimostrare che dagli sbagli si impara”, “spero che la mia entrata in comunità mi aiuti a cambiare il mio stile di vita”; il 12% R lo percepisce negativamente: “al momento ancora non ci penso (il totale della pena da scontare è di 18 anni)”, “non lo vedo proprio, perché qua in carcere mi hanno rigettato di riprovare”, “per il momento un fallimento”, “macabro”, “rovinato”, “grigio e senza futuro”, “per il momento non ho nessuna prospettiva, uscendo sarò nuovamente in mezzo alla strada”. I soggetti che hanno risposto in modo negativo sono accumunati da lunghe pene che vanno dagli 8 ai 30 anni. Importante è la percentuale del 20% R che non vede assolutamente nessun futuro. Anche il futuro dei condannati per omicidio è percepito positivamente (80%): “costruirmi una famiglia, lavorare e vivere tranquillo”, “con questa condanna (30 anni) non si possono fare previsioni ma spero un giorno di riprendermi la mia vita e ricominciare a vivere con i miei figli”, “cerco di riprender la strada nel migliore dei modi, rispettare gli altri come rispetto me stesso, rincontrare e abbracciare i miei figli e i miei parenti”, “non lo so, non si sa finché non si esce”, “non c’ho pensato”, “uscirò più o meno a 48/49 anni, spero di crearmi una famiglia, [anche se ] non sono in grado di provare affetto perché i miei genitori non me ne hanno dato”, “non so bene cosa mi prospetti il destino, sogni tanti, certezze poche, vivo un momento di serenità e allo stesso tempo di rabbia, sto gettando le basi affinché possa riappropriarmi della propria vita”. Lo percepisce negativamente solo il 4% O: “buio”. Invece le risposte seguenti appartengono ai tre detenuti condannati all’ergastolo. “penso benissimo, esco in permesso, spero che si risolva la situazione della pena, di trovare una bella ragazza e di fare una famiglia”, “penso bene tra virgolette”, “difficile dare un giudizio”. Questo dato è, molto probabilmente, direttamente proporzionale alla pena già scontata e quella ancora da espiare in quanto, dalle stesse risposte si evince che i lunghi anni ancora da pagare infrangono le aspettative e gli obiettivi in prospettiva di un imminente futuro.
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Futuro
100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% Positivo 52,0%
Negativo 28,0%
Incerto 12,0%
Ness rsp 8,0%
OMICIDIO
48,0%
12,0%
28,0%
12,0%
S.P.P
60,0%
4,0%
24,0%
12,0%
RAPINA
Grafico n° 37 relativo alle prospettive future dell’intero campione.
Contrapponiamo a questo il futuro dei soggetti senza precedenti penali, i quali dichiarano per il 60% di avere delle previsioni future abbastanza positive. Una parte del campione ha comunque una visione incerta del futuro (24% a fronte del 12 % R e 28% O). Solo un caso su 25 pensa negativamente “sono “sono molto pessimista ma come si dice andiamo avanti lo stesso”. Ma quali sono i primi pensieri che affiorano nella mente di un u individuo nel momento in cui viene tratto in arresto e condotto in carcere? Per l’intero campione il primo pensiero è stato negativo (68% per entrambi), positivo solo per il 16% R e per il 4% O. Una percentuale di detenuti condannati per omicidio si astiene astiene dal rispondere (28%). Un soggetto R dichiara di non aver avuto nessun pensiero, dato a mio avviso un po’ impossibile vista la totale differenza tra la libertà e la restrizione: forse i pensieri saranno riaffiorati più tardi, nel momento in cui ci si è resi conto della mancata libertà. Solo olo due soggetti non rispondono, gli stessi che non hanno risposto a nessuna nessu domanda riguardante il reato: reato “ho fatto un grosso sbaglio”, “ai,, sono rovinato”, “restrizione e oppressione”, ”, “mi “ sono rovinato la vita”, “non mi rendevo conto dov’ero, e tanta paura”, “chissà chissà quanto ci rimango”, rimango “ho ho perso tutto un’altra volta”, volta “sono finiti i miei progetti”, “disorientamento disorientamento ma mi sono adeguato presto alla nuova situazione, d’altronde ero abituato a stare rinchiuso” rinchiuso (ricordiamo che questo soggetto è vissuto in collegio fino al momento dell’arresto, considerando tale posto come restrittivo alla pari
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di un carcere), “ero a disagio e soprattutto mi vergognavo di quello che avevo fatto, sia per me e per la mia famiglia”, “che era stato un errore e sarei tornato subito a casa dalla mia fidanzata (da notare che in questo soggetto non c’è pentimento “perché il più delle cose che mi accusano sono menzogne”); c’è qualcuno che dichiarandosi innocente sostiene “spero che si rendano conto di avere sbagliato al più presto possibile, e mi ridiano la libertà”, altri pensano al carcere come ad un luogo in cui bisogna prevalere per evitare di soccombere, arrivando ad avere pensieri come questo: “che dovevo farmi rispettare perché è così che si vive qui dentro”, “non mi fa niente”, altri chiedono un conforto alla religione: “Dio mio aiutami tu”. Di seguito le risposte che descrivono gli stati d’animo provati dai soggetti O: “ho fatto uno sbaglio che non doveva succedere”, “dove sono capitato, poi mi ha tranquillizzato la guardia”, “non lo so, ero confuso e sbalordito, non capivo niente”, “ero perso, disorientato, sono rimasto in silenzio fino a quando non mi hanno processo, “non so neanche descriverlo tanta era la disperazione”, “qui è l’anticamera dell’inferno”, “un mondo sconosciuto, vita finita”, “non so perché sono qui, non so quando uscirò, avevo mille pensieri per la testa”. Solo un soggetto ha avuto pensieri positivi: “molto positivo” e 7 su 25 non hanno risposto. Significative mi sono sembrate le parole di Paolo Pisu, nel suo libro “Figli della società”, quando cercava di esprime a parole le emozioni e i pensieri dei detenuti. Scriveva così: le carceri non sono tutte uguali e vivono secondo ritmi propri. Comunque sia, sono mondi completamente differenti dal nostro mondo normale. La prima volta il detenuto ha l’impressione di dover vivere in un mondo chiuso, soffocante e diverso da quello naturale. All’inizio viene preso da un’acuta nostalgia della casa, della famiglia, degli amici. Della libertà. Nessuno, per quanto indurito nel cuore e nella mente si sottrae a una sottile angoscia. La dolente sensazione dei suoi giorni che se ne vanno strascicando, a piccoli passi, sempre uguali, sempre inutili. Un tormento senza fine. Spesso, quando uno meno se l’aspetta, una sensazione di squallore, di soffocamento, di abbandono affettivo, di impotenza, lo coglie. E deve affrontare l’inevitabile desiderio di farsi del male. I più deboli ed angosciati, se privi di conforto e ascolto, possono tentare il suicidio.45
45
P. PISU, Figli della società. Carcere, devianza e conflitto sociale. CUEC, Cagliari, 2008, p. 97.
143
Nel caso dei detenuti che sono arrivati a commettere una rapina o addirittura un omicidio, sicuramente c’è stato in loro una combinazione di emozioni che non sono riusciti a controllare. Compito della psicologia sociale è quello di studiare appropriatamente ogni singolo problema, portandone alla luce i fattori di rilievo, determinando il relativo peso di questi fattori accertando come sono tra loro correlati. A tale scopo possiamo citare tre principali teorie sviluppate dagli studiosi di psicologia sociale: -
la teoria dei bisogni, in particolare elaborata da Maslow dove il comportamento dell’individuo è diretto (motivato) dall’appagamento di bisogni: si distinguono bisogni gerarchicamente ordinati (fisiologici, di sicurezza, di affetto, di stima e di realizzazione);
-
la teoria della competenza in particolare elaborata da Hunt e Harter dove il comportamento dell’individuo è diretto all’acquisizione di padronanza e controllo sull’ambiente pertanto tale teoria si basa molto sulle condizioni esterne funzionali al miglioramento delle prestazioni dell’individuo;
-
la teoria dell’attribuzione, sviluppata inizialmente da Heider e in particolare elaborata da Weiner. Essa può essere definita come processo di ricerca di attribuzioni causali del comportamento: ad un evento sociale viene attribuita una certa causa.
Ciò che risulta importante in tale teoria è che i comportamenti vengono spiegati facendo
riferimento
a
caratteristiche
interne
dell’attore,
che
definiamo
personali/disposizionali, o a caratteristiche esterne che rimandano al contesto in cui il comportamento si realizza, che definiamo ambientali/situazionali. In alcuni suoi studi, Weiner valutò le spiegazioni che le persone forniscono in casi di insuccesso e fallimento in base all’uso di tre dimensioni: locus dell’attribuzione (personale o ambientale), stabilità dei fattori coinvolti, nel tempo o loro contingenza, controllabilità o meno di tali fattori da parte dell’attore. Un’applicazione importante del modello di Weiner ha a che fare con le strategie del “mantenimento dell’autostima”. Tali strategie valutano la possibilità di modificare gli stili attribuzionali disfunzionale. Ad esempio, incoraggiando le persone con bassa
144
autostima a prendere in considerazione le cause esterne che possono aver condotto ai propri insuccessi.46 Thomas Mathiesen, nel suo libro “Perché il carcere?”, cerca di descrivere le emozioni di molti detenuti: il detenuto sperimenta parte del tempo trascorso nell’istituzione come tempo vissuto nell’impotenza. La richiesta di libertà condizionale, per esempio, è valutata da persone che si trovano abbastanza distanti da lui, ed è poi trasmessa ad altre persone ancora più lontane per un ulteriore esame seguito dalla decisione finale. Il detenuto possiede scarsa autonomia e non ha una posizione da cui trattare che gli permetta di influire in qualche modo sull’esito della richiesta. In secondo luogo il detenuto sperimenta parte del proprio tempo come tempo di degradazione. E’ stato anticipatamente condannato dai rappresentanti di quella società che rispetta le leggi, e l’esperienza della stigmatizzazione diventa ancora più intensa quando il detenuto si trova isolato all’interno del carcere. In terzo luogo, il detenuto sperimenta parte del proprio tempo come tempo dell’insicurezza. Il carcere può dare sostegno al detenuto; egli è sottratto alla situazione esterna, complessa e conflittuale, e durante la prigionia può sentirsi come in una camera di compensazione: sfuggire cioè ad un ambiente di cui percepisce le minacce. Ma in questa forma il sentimento di sicurezza è essenzialmente un sentimento di dipendenza, a volte qualche detenuto se ne rende conto.47 L’americano Gresham Sykes è uno degli sociologi che hanno descritto il contenuto della pena carceraria facendo particolare riferimento alla sofferenza. Secondo l’autore, il primo genere di sofferenza riguarda la privazione stessa della libertà, quella sofferenza immediatamente più ovvia. Innanzitutto viene il fatto che i movimenti di una persona sono confinati all’interno del carcere. Più importante e più doloroso è che la libertà di intrecciare rapporti e legami affettivi con familiari, parenti, amici, sia perduta. Corrispondenza, visite e permessi non possono compensare la perdita. Il secondo genere di sofferenza riguarda la privazione di una serie di beni e servizi quotidiani; in genere il detenuto vede perlopiù soddisfatti i propri bisogni materiali fondamentali: non soffre la fame, né il freddo o un’eccessiva umidità anche se le condizioni di vita variano in base alla struttura carceraria. Nella moderna cultura occidentale i beni materiali sono una 46
D. PAJARDI (a cura di), Oltre a sorvegliare e punire. Esperienze e riflessioni di operatori su trattamento e cura in carcere, Giuffrè Editore, Milano, 2008, pp. 58-59. 47 T. MATHIESEN, Perché il carcere?, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996, pp. 31-32.
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parte così importante dell’immagine di sé che esserne strappati significa essere attaccati profondamente nella personalità. Facendo riferimento al carcere di Alghero, è possibile avere qualche strumento tecnologico, come per esempio il computer, naturalmente con l’eliminazione di determinate porte e periferiche. Il terzo genere è costituito dalla privazione delle relazioni eterosessuali, che costituisce ovviamente molto di più di un problema fisiologico: i problemi psicologici creati dalla perdita di relazioni eterosessuali possono essere presi molto sul serio. I colloqui con il/la rispettiva partner non sostituiscono l’assenza prolungata visto che si svolgono in una situazione costrittiva e in comune ad altre famiglie. 48 Nel carcere di Alghero ho potuto constatare che alcune persone non riescono a reggere il peso di una vita costrittiva a tal punto da arrivare a praticare atti di autolesionismo che, però, per fortuna, non determinano gravi conseguenze. La vita in carcere, per alcuni, è veramente stressante. Il fatto di vivere tutti i giorni allo stesso modo, vedere sempre la stessa gente, non crea in loro vie di fuga dalla solita routine. A conferma di ciò, la presenza, a maggioranza femminile, delle educatrici tirocinanti, rende quei pochi minuti di un colore diverso, come una boccata d’aria disuguale da quella che si respira quotidianamente. Il carcere però deve essere sempre un carcere, anche nelle circostanze di maggiore sensibilità degli operatori al recupero sociale dei detenuti. Se non esistono le regole e l’iter da seguire, non si può pretendere di rieducare il detenuto. Diciamo però che quando le regole e la prassi da effettuare per chiedere ogni minima cosa diventano troppo lunghe, il detenuto, “nonostante non abbia fretta”, (classica frase usata da molte persone esterne alla vita carceraria), hanno comunque dei bisogni che devono essere soddisfatti. E per ogni minima richiesta, il detenuto è costretto alla sottoscrizione di una domandina. Deve chiedere un permesso: domandina. Ha urgenza di fare un colloquio: domandina. Purtroppo si trovano ad aspettare mesi prima di ricevere una risposta. Alcune volte mi è capitato di sentire dei detenuti che si lamentavano dei tempi lunghi d’attesa ma purtroppo, la loro impotenza li obbliga indirettamente ad attendere l’iter della burocrazia: la loro autonomia viene schiacciata. Ma il carcere deve essere il carcere…e questo è quello al quale bisogna attenersi.
48
G. M. SYKES, The society of captives. A study of a Maximum Security Prison, Princeton University Press, Princeton, 1958, p. 65.
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In riferimento ai detenuti, forse il fatto di aver commesso un reato e di non essere stati in grado di fermare la tentazione delinquenziale, può essere associato ad un grado di sviluppo cognitivo e sociale poco evoluto o non ancora raggiunto. Queste sono naturalmente mie ipotesi sulla base di quel passaggio che va dalla fase infantile a quella adulta, dove il soggetto si spera abbia raggiunto il grado di consapevolezza che porta a capire che ad ogni azione corrisponde una conseguenza e per ogni conseguenza esistono delle responsabilità. Quando si compie un reato è inevitabile non provare dei sentimenti, delle emozioni e sensazioni che si sono susseguite negli istanti successivi al compimento del reato. In riferimento ai sentimenti provati nel momento in cui si è commesso il reato possiamo notare che sono stati decisamente negativi per entrambi i campioni (28% R e 36% O). Il dato allarmante è la percentuale 56% O che ha preferito non rispondere. Ecco di seguito le loro risposte relative ai campioni R: “nessuno, era per forze di causa maggiore”, “non lo so spiegare”, “brutti”, “nessuno”, “frustrazione per il dolore che si causa ai propri familiari”, “un momento di rabbia perché lo stavo facendo per necessità”, “non mi rendevo conto che ero sotto l’effetto di droga”, “indimenticabili”, “glaciale”. Solo tre soggetti hanno provato sentimenti positivi nel momento del compimento del reato: “momenti belli”, a confermare il fatto che non ha provato nessun pentimento proprio perché “sapevo quello che stavo facendo”, “piacevole perché quando commettevo dei reati sotto l’effetto della droga ero un’altra persona, e non riesco a dare una spiegazione”: nemmeno qua esiste il pentimento “per omertà” e i motivi che hanno spinto a commettere il reato sono stati “per procurarmi la droga”. Un altro invece sostiene di essere “tranquillo perché ho difeso un ragazzo”. In riferimento alle motivazioni che hanno spinto l’individuo a commettere una rapina notiamo che alcuni sono pressati dalla necessità di soldi (28%) e dalla disoccupazione (24%): “soldi facili”, “mancanza di lavoro”, “disoccupazione” e quindi per l’impossibilità di far fronte alla vita: per “sopravvivere”, “per necessità, “per guadagnarmi da vivere”. Continuando con l’analisi dei dati, altri soggetti hanno commesso il reato per motivi legati a “la droga, perché usando la droga i soldi non bastano mai e purtroppo dovevo andare a delinquere per procurarmi la droga quotidiana” (16%). Il 24% non risponde. A proposito di una delle tante motivazioni che hanno spinto un soggetto a delinquere, i soldi, vorrei citare uno dei tanti colloqui al quale ho assistito durante il mio
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tirocinio al carcere di Alghero. Si tratta di un ragazzo italiano che deve scontare una pena di undici anni per rapina aggravata. Mentre racconta come è avvenuto il reato io cerco di comprendere le sue motivazioni, le ragioni che lo hanno spinto a compiere un gesto simile. Sostiene di avere avuto una famiglia molto numerosa che non gli ha mai fatto mancare niente, economicamente benestante e di grandi valori. La causa di questo reato crede che sia dovuta all’ambiente amicale in cui è vissuto, ai luoghi frequentati e alla mancanza di un lavoro stabile. E spinto da queste sofferenze e preoccupazioni economiche, ha cercato di “guadagnarsi i soldi facilmente”. Ha parlato in modo incerto delle future conseguenze di quel gesto: a volte si rendeva conto di quello che stava organizzando però la spinta e la foga è stata sicuramente più forte. Mi ha colpito particolarmente la sua preoccupazione nei confronti della sua famiglia, nei confronti dei genitori, dei fratelli e sorelle che per il suo colpa del suo errore stanno vivendo una situazione tristissima. Capisce di aver commesso un reato molto grave ed è ancora più consapevole che sta sprecando la sua vita dentro un contesto che dice di non appartenergli. Continua ad affermare che se la famiglia non gli fosse stata vicino, sia con i colloqui che con le telefonate, le sue giornate non avrebbero avuto più senso. Si sarebbe sentito perduto e costretto a passare il resto della pena nella solitudine più totale. Invece si rende conto che, grazie al calore dei familiari che gli danno forza e conforto, è una persona fortunata nella sfortuna, perché se ci si mette nei panni di qualche detenuto che non può ricevere affetto dalla propria famiglia o che non ha altri punti di riferimento, avrebbe vissuto sicuramente dei momenti di difficoltà immerso in mille pensieri negativi. Il rapporto tra condizioni economiche e criminalità è stato fin dalle origini della criminologia, uno degli argomenti di maggior interesse ma anche il più controverso. Se gli studi ottocenteschi sostenevano il legame tra la povertà e la commissione dei reati, dalle ricerche di questi ultimi anni è emerso che, data la molteplicità di variabili e il numero esponenziale di combinazioni tra di esse, le relazioni tra l’economia e tassi di criminalità sfuggono ad una precisa classificazione e non permettono di trarre delle conclusioni attendibili. Si può invece affermare che vi sia un legame tra “deprivazione relativa” (ovvero quelle condizioni di povertà relativa “rispetto a”, cioè di diseguaglianza sociale accompagnata dalla consapevolezza di non poter raggiungere standard di benessere) e criminalità: la rapida crescita della comunità e la
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consapevolezza che livelli di benessere ragionevole siano alla portata di tutti, possono condurre ad una percezione più acuta dei contrasti tra i diversi settori della comunità, e quindi ad una maggiore soddisfazione. Due differenti e comunque interessanti prospettive interpretative sono state fornite sia sotto il profilo psicologico che sociologico. Secondo uno studio effettuato a metà degli anni novanta, i reati violenti costituirebbero una risposta psicologica estrema alla frustrazione e allo stress generato dalla chiara percezione delle disuguaglianze nella distribuzione delle risorse economiche. Sotto il profilo più sociologico un’altra ricerca ha individuato una maggiore frequenza dei reati di tipo violento nelle cosiddette “società di mercato” ovvero quelle società in cui il perseguimento dei guadagni privati diventa il principale scopo organizzativo della vita sociale ed economica.49 Anche gli studi sul rapporto tra tassi generali di disoccupazione e criminalità hanno dato esiti contrastanti. Una vera e propria relazione diretta tra disoccupazione e criminalità non è mai stata dimostrata: piuttosto, quando la disoccupazione è uno degli elementi causali o concausali della marginalità, è più facile la commissione dei delitti specie contro il patrimonio.50 I sentimenti relativi ai detenuti condannati per omicidio, invece, sono i seguenti: “dopo che ho saputo ciò che era successo mi sono sentito crollare il mondo addosso, in primis per la morte del mio amico, poi per la libertà persa (e non solo)”, “ero morto anch’io, i sentimenti vengono dopo, non mi ricordo niente, mi sono sparato anch’io”, “mi sono sentito male”, “non ho parlato con nessuno quando ho commesso il reato”, “sono dispiaciuto, non mi do pace per questa cosa successa, per miei figli e per mia moglie”, “tanto dispiacere e vergogna”. Due risposte risultano, a mio avviso, alquanto particolari: “nessuno, perché non l’ho commesso”, perché il soggetto si considera innocente e “rabbia, apnea, non mi metto a piangere quando ci penso”, come se il reato compiuto fosse qualcosa da sottovalutare. Ed è proprio di questo colloquio che voglio parlare in quanto presente quando il soggetto parlava del suo reato. Si tratta di un detenuto condannato per omicidio a 30 anni di carcere, dieci dei quali già passati presso il carcere di Alghero. E’ un ragazzo italiano che parla del delitto con una freddezza assurda, impassibile per ogni gesto compiuto e senza un minimo pentimento nei confronti della vittima. Sostiene di non aver ricevuto nessun tipo di affetto dai suoi 49
P. DI MARTINO, Criminologia: analisi interdisciplinare della complessità del crimine, Edizioni Giuridiche Simone, Napoli, 2009, pp. 181/183. 50 Ivi, p. 183.
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familiari, i quali non si sono mai occupati di lui nelle giuste maniere se non in modo iper-protettivo. Alla domanda dell’educatrice sulle motivazioni del suo reato, egli sostiene di aver sentito la rabbia crescere dentro e di essersi sentito in “apnea”, non riuscendo ad esprimere altre considerazioni in merito. Il suo aspetto grande e grosso trasmette un non so che di tensione ma ciò che traspare da quello sguardo e da quella postura è proprio un sentimento di distacco dalla realtà, come se tutti questi anni di carcere non gli fossero serviti a rendersi conto di quanto accaduto, visto soprattutto la ferocia con la quale ha commesso il delitto e le motivazioni in merito: “abbiamo litigato e non sono riuscito a stare calmo, non sono bravo a socializzare”. In riferimento ai motivi la maggior parte del campione non risponde alla domanda (44%) mentre le altre giustificazioni vanno dalla difesa, provocazione, droga, gelosia, incidente, rabbia: “è stato un incidente”, “è stata una banale rissa”, “sono stato provocato per parecchio tempo”, “alzate di testa”. Due individui rispondono “nulla”, “non c’è stato nessun motivo” (8%). Dopo un periodo trascorso in carcere, sia esso breve o lungo, i soggetti dovrebbero ripercorrere la loro vita precedente il giorno della carcerazione, arrivare a penetrare all’interno del reato commesso e all’eventuale recupero sociale che si avrà conseguentemente all’uscita dal carcere. All’interno di tutto questo pensare e riordinare i fatti della vita, si dovrebbe dare spazio a quello che viene definito pentimento: esiste veramente la possibilità per un detenuto che ha commesso un crimine, di pentirsi dell’accaduto? In che cosa consiste il pentimento? Secondo alcuni è il rendersi conto dello sbaglio commesso, ma non solo ed esclusivamente in rapporto al reato ma a quella figura che di solito viene dimenticata: la vittima. Secondo alcuni, il pentimento vero e proprio si ha con la certezza della non recidività, con la risocializzazione sotto forma di riscatto nei confronti della parte più debole, qual è la vittima. Analizziamo le spiegazioni ottenute dalla revisione dei questionari. Innanzitutto notiamo che il 52,4% dei soggetti R non è affatto pentito del reato commesso: queste alcune delle motivazioni: “perché non ho offeso nessuno”, “per omertà”, “perché quando si fa una scelta di vita non ti puoi pentire mai”, “c’è troppa crisi”, “perché altrimenti morivo di fame, non potevo vestirmi o avere una casa”, “perché il più delle
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cose che mi accusano sono menzogne”, menzogne “sapevo cosa facevo”, “èè stata una causante della tossicodipendenza”, ”, “no, “ perché non ho commesso il reato”.
Pentimento 100,0% 90,0% 80,0% 70,0% 60,0% 50,0% 40,0% 30,0% 20,0% 10,0% 0,0% RAPINA
SI 38,1%
NO 52,4%
ALTRO 9,5%
OMICIDIO
64,7%
35,3%
0,0%
Grafico n° 32 riguardante il pentimento.
I dati positivi, invece sono il 38,1%: 38,1% “il crimine non paga”, “io io sono qua e perdi tutti i contatti”, “ho ho fatto male a me stesso e alle persone che mi volevano bene, soprattutto la mia famiglia”, famiglia “perché sto pagando per niente”, “per potermi acquistare la droga compivo dei reati, e il più delle volte facevo cose per soldi a chi non lo meritava”. Solo due individui forniscono delle risposte imparziali: “a volte si, perché penso che al commettere un reato non solo faccio male a me stesso ma faccio del male anche a chi mi vuole bene e a volte no, perché so di averlo voluto fare per degli obiettivi”; “per stupefacenti, efacenti, per la rissa no”. no In riferimento all’omicidio, invece, la maggior parte del campione risponde positivamente al pentimento (64,7%) mentre il 35,3 % dichiara di non essersi pentito. Ecco alcune risposte: “ogni giorno della mia vita, non è facile da spiegare”, “non volevo fare del male a nessuno, è stata una fatalità”, fatalità “è stato un incidente, sono scivolato ed è partito un colpo di fucile”, fucile “non non volevo che accadesse”, accadesse “si poteva risolvere anche parlando”, parlando “è stato accidentale e involontario”, “non era mia intenzione fare del male a nessuno”, nessuno “nessuno nessuno ha il diritto a togliere la vita ad altri e poi con il dialogo si sarebbe potuta evitare la disgrazia”; disgrazia ; la restante parte (35,3%) dichiara di non essersi pentito perché “non “ ho commesso il reato” (5 soggetti, soggetti quindi, si 151
considerano innocenti), “non lo so perché è la prima volta che ne commetto uno e non mi ritrovo nella veste dell’omicida, sono in una situazione di stallo”.
La domanda n° 38 del primo questionario chiedeva all’intero campione di esprimere dei suggerimenti o delle considerazioni personali. La maggior parte non ha risposto (R 80%, O 56% e S.P.P 72%). Vorrei riportare di seguito quella parte del campione che ha ritenuto utile esprimere le loro opinioni. I soggetti condannati per rapina dichiarano: “l’unica mia considerazione è quella di cercare di sopravvivere”, “vorrei che tutto questo finisca, che tutto il mondo cambi, senza rubare al prossimo e vorrei una democrazia migliore”, “credo che la maggioranza di chi commette reati sino correlati per acquistare stupefacenti; suggerirei, come farò io quando uscirò, di non fare più uso di sostanze e forse i miei progetti potranno realizzarsi”, “posso solo dire che la vita è bella così com’è; tutti questi anni trascorsi in carcere mi hanno fatto riflettere molto, che nella vita bisogna essere onesti con se stessi e con gli altri”, un soggetto azzarda un “non chiedere mai troppe cose personali”. Il campione condannato per omicidio confida “ho solo tanta amarezza per ciò che la giustizia cieca mi ha levato, molta meno burocrazia sicuramente”, “guardare il detenuto come una persona che ha bisogno di cura e sostegno morale e dare la possibilità di essere una persona migliore sia in carcere che quando esci in libertà”, “penso che tutti possano sbagliare ma che si sia sempre in tempo per cambiare dandogliene la possibilità”, “vivere in pace; la famiglia è la cosa più bella al mondo quindi amare la propria moglie e figli”, “che è troppo facile sviare le vere risposte e le vere sensazioni, proprio per una questione di sfiducia”, “in riferimento al reato non mi sento di esprimersi, non sono un pezzo di ghiaccio, impassibile”, “che la libertà non ci sono soldi che la pagano”. I soggetti senza precedenti penali scrivono: “scavare nel proprio passato non è così semplice e ancor più difficile dare un giudizio obiettivo quando ci sono sentimenti di mezzo”, “penso che il dialogo serva a tanto ma a volte anche delle punizioni”, “nonostante essere uscito di casa da ragazzino e senza avere avuto mai aiuto dai miei genitori perché economicamente disagiati, diciamo che me la sono cavata abbastanza bene”, “sono una persona fortunata”, alcuni mi danno consigli sul mio lavoro e in riferimento al questionario, sostenendo che sia corretto l’uso dell’anonimato perché “una persona non deve vergognarsi della propria vita, seppure questa non sia stata o
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non sia brillante”. Dai dati si evince che i casi R e O pensano molto alla loro vita carceraria, alla libertà che verrà e alla famiglia che, si spera, sia presente anche dopo l’espiazione della pena; premono molto sul fatto che esistono i pregiudizi da parte di quella società che addossa loro l’etichetta del “detenuto”. Preoccuparsi di questo aspetto non aiuta sicuramente la risocializzazione del soggetto che, con questo peso sulle spalle, deve cercare di farsi strada in un mondo che lo ha già emarginato, o meglio, dal quale si è emarginato. Il campione N, ovviamente, allude alla vita futura senza grandi preoccupazioni sulla propria vita passata, improntando con spensieratezza il proprio domani. I dati fin qui esposti sono riferiti al primo questionario, mentre quelli che seguiranno sono attribuiti al PBI. Essendo una ricerca finalizzata a comprendere la possibile relazione tra un determinato stile di attaccamento ed una eventuale conseguenza delinquenziale nella fase di vita adulta, è stato necessario stabilire della connessioni tra i dati del questionario sull’attaccamento ed alcune variabili scelte tra le diverse domande relative al primo questionario, quello riguardante la vita familiare del soggetto e il reato commesso (escluso il campione S.P.P). Ho ritenuto che fosse utile analizzare alcune relazioni tra l’attaccamento e i seguenti fattori: “fuori di casa”, ovvero a che età il soggetto studiato è andato a vivere fuori dalla casa dei genitori oppure se è sempre rimasto in casa con loro; “motivi”, cioè quali sono state le motivazioni che hanno spinto il soggetto a lasciare la casa dei genitori; “quantità fratelli/sorelle”, per capire se la presenza in famiglia di altri fratelli o sorelle possa in qualche modo influenzare il tipo di cura che i genitori hanno dedicato al soggetto studiato; “regole in casa, atteneva regole e reazione genitori”, per cercare di comprendere la presenza o meno di regole familiari e l’ubbidienza o meno da parte del campione in prospettiva di una reazione dei genitori; “litigi genitori e reazione figli”, ovvero la presenza di discussioni familiari e la reazione del campione; i “motivi reato”, per indagare quali sono state le motivazioni che hanno spinto i soggetti a compiere il reato, con esclusione del campione S.P.P e, infine, il “futuro”, per capire le prospettive future dell’intero campione. Come descritto nel paragrafo dedicato agli strumenti, sappiamo che il questionario sull’attaccamento si analizza studiando due aspetti in particolare, ovvero la cura e il
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controllo, in riferimento a bassi e alti livelli. Per riprendere sinteticamente i due concetti, per alta cura intendiamo tutte quelle attenzioni amorevoli che un genitore rivolge al proprio figlio, accudendolo in modo caloroso e affettuoso; al contrario, per bassa cura si intende uno scadente interesse da parte del genitore verso la crescita del bambino. Per alto controllo intendiamo quella pratica quasi ossessiva del genitore di controllare e verificare ogni movimento del figlio, non rispettando la sua privacy e monitorando in modo assillante ogni aspetto della sua crescita. Il basso controllo, in opposizione a questo, tende a dare libertà di movimento e di scelta al proprio figlio, aiutandolo nei compiti della vita senza intromettersi troppo nella crescita dello stesso. Dai dati statistici51 relativi alle comparazioni sopra citate, emergono notevoli differenze e somiglianze nonché elementi significativi riscontrabili grazie al chiquadrato di Pearson. Ipotizzando un’analisi assolutamente scollegata da ogni dato elaborato, potremmo supporre che il campione R e O dovrebbero aver avuto un’infanzia con una bassa cura e un alto controllo, che avrebbe compromesso la vita futura, rendendo i soggetti poco complici con le regole e gli aspetti del mondo circostante, influenzandoli talmente tanto da indurli indirettamente al compimento un reato. Di conseguenza, chi non ha avuto esperienze delinquenziali (campione S.P.P) si presume abbia vissuto in una famiglia in cui vigevano un’alta cura e un basso livello di controllo. Paradossalmente questo non è quello che emerge dalla comparazione dei dati della mia ricerca. Vediamo perché l’insieme dei dati non fornisce il quadro appena descritto. I soggetti che hanno commesso il reato di rapina ed omicidio, inverosimilmente, provengono da una famiglia che ha avuto alti livelli di cura in quasi tutte le variabili studiate: per esempio, il 61,5% dei soggetti R è andato a vivere fuori casa a meno di 20 anni nonostante un’alta cura da parte dei genitori, idem per chi è andato a vivere fuori casa a 20/30 anni, mentre stranamente, le persone che sono rimaste in casa lo hanno fatto nonostante una bassa cura da parte dei genitori 66,7%. In generale il 56,5% dell’intero campione hanno ricevuto un’alta cura genitoriale. In riferimento al controllo emerge che il campione R ha avuto dei genitori che hanno controllato la loro vita in modo invadente (59,1%) specialmente nel caso in cui i soggetti sono andati a vivere fuori casa a meno di 20 anni (84,6%). Il coefficiente 0,012 del chi-quadrato ci dice che 51
I dati che analizzo non si riferiscono all’intero campione (75/75) a causa di mancate risposte da parte dei soggetti.
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esiste una significatività nella relazione “fuori casa - controllo”. In riferimento invece ai dati relativi al campione O, notiamo una somiglianza con i dati del campione R: il 65% ha ricevuto alti livelli di cura mentre, per quanto concerne il campione S.P.P, ci troviamo di fronte a un pareggio di dati: 50% hanno ricevuto una bassa cura, mentre il restante 50% un’alta cura. Il dato illogico è che la maggior parte dei soggetti che ha avuto cure insoddisfacenti è rimasto a vivere a casa dei genitori mentre chi è andato via di casa a meno di 20 anni ha ricevuto cure amorevoli (Tab. 1b).
Basso Controllo Alto Controllo < 20 anni 15,4% 84,6% 20/30 66,7% 33,3% RAPINA 31/40 0,0% 0,0% sempre casa 83,3% 16,7% < 20 anni 28,6% 71,4% 20/30 57,1% 42,9% OMICIDIO 31/40 0,0% 0,0% sempre casa 33,3% 66,7% < 20 anni 50,0% 50,0% 20/30 66,7% 33,3% S.P.P 31/40 100,0% 0,0% sempre casa 60,0% 40,0% Tab. 1b riguardante l’allontanamento dell’intero campione dall’abitazione genitoriale.
Chi è andato a vivere fuori casa lo ha fatto prevalentemente per lavorare (66,7% R), gli altri motivi sono matrimonio, disagio familiare o altro, tutti con alti tassi di cura, tranne che nel caso del disagio familiare (66,7%). Sia nel campione O che in quello S.P.P ci troviamo davanti a dei dati che indicano per la maggior parte le alte cure genitoriali (rispettivamente 60% e 52,9%) ma, nel caso del controllo, possediamo un dato significativo in riferimento al campione S.P.P, in quanto ha ricevuto un minor controllo genitoriale (64,7%). Nel caso della variabile indicante la presenza di fratelli o sorelle notiamo che il campione R proviene da una famiglia con più di 5 fratelli, quindi con un minimo di 8 persone se si considerano il soggetto e i genitori; anche il campione O è composto da una famiglia numerosa con minimo 8 persone, mentre, il campione S.P.P è formato da
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una famiglia di pochi membri, minimo 4 persone (compresi i genitori e il soggetto). Notiamo che in tutti e tre i campioni c’è un’elevata percentuale di alta cura (56,5% R e 65% O), anche se nel campione S.P.P esiste un pareggio tra alta e bassa cura (rispettivamente 50%). Sui campioni R e O risulta un alto controllo dei genitori (59,1% e 60%), mentre per quello S.P.P riscontriamo un picco di risposte che indicano un basso controllo (62,5%). Questi dati sono significativi in quanto, nonostante la presenza di tanti fratelli e il controllo ferreo (R e O), le cure genitoriali sono state elevate. Meno controllo invece favorisce l’esplorazione dell’ambiente circostante.
Basso Controllo 27,3% 85,7% 0% 0% 28,6% 33,3% 60% 0% 77,8% 50% 0% 100%
sì no, poche RAPINA nessuna altro sì no, poche OMICIDIO nessuna altro sì no, poche S.P.P nessuna altro Tab. 4b indicante le regole familiari.
Alto Controllo 72,7% 14,3% 100% 0% 71,4% 66,7% 40% 0% 22,2% 50% 0% 0%
La presenza di regole in famiglia è marcata nei casi R e O (54,5% e 71,4%), mentre il campione S.P.P dichiara di aver ricevuto poche regole (50%). Per i primi due campioni abbiamo alti livelli di cura da parte dei genitori mentre per l’ultimo ci troviamo davanti ad un pareggio tra bassa e alta cura (rispettivamente 50%). Il controllo è alto per i primi due campioni (rispettivamente 72,7% e 71,4%) mentre è basso per i casi S.P.P (62,5%). Sulla base del chi-quadrato di Pearson emerge una significatività nei dati relativi al campione della rapina, con lo 0,009 (Tab. 4b). L’intero
campione
si
atteneva
alle
regole
imposte
dalla
famiglia:
paradossalmente se nei campioni R e O era presente un’alta cura genitoriale, nei soggetti S.P.P, invece, la percentuale della cura si pareggia (47,8% alta cura e 52,2% bassa cura). Il controllo è molto basso per il 65,2% del campione S.P.P, mentre è alto
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per i casi R e O (rispettivamente 88,9% e 58,3%). Il coefficiente del chi-quadrato evidenzia una relazione di significatività (0,044) tra l’attenersi alle regole e l’alto controllo genitoriale (Tab. 5b). La reazione dei genitori è in maggioranza quella del dialogo e delle punizioni giuste per i campioni O e S.P.P in quanto i dati che emergono dalle tavole di contingenza ci dicono che i genitori reagivano in modo corretto rispettivamente per il 71,4% e il 57,1%. In riferimento alla rapina, invece, il dialogo come forma di reazione genitoriale è in contrasto con la bassa cura ricevuta dai soggetti. Al contrario dei dati sulla cura, quelli sul controllo dimostrano che nei casi S.P.P il controllo è molto basso (68,2%) mentre è molto alto nei casi R e O (55% e 57,9%).
Basso Controllo sì 58,3% no 11,1% RAPINA altro 100% sì 41,7% no 33,3% OMICIDIO altro 40% sì 65,2% S.P.P no 0% altro 0% Tab. 5b riferita al rispetto delle regole genitoriali.
Alto Controllo 41,7% 88,9% 0% 58,3% 66,7% 60% 34,8% 100% 0%
In riferimento ai litigi dei genitori e alle reazioni dei figli, ci troviamo di fronte ai seguenti dati: il campione di omicidio sostiene di aver assistito qualche volta ai litigi dei genitori (90%) nonostante l’alta cura ricevuta; in riferimento al campione di rapina invece, c’è un picco di risposte “mai” (60%) nonostante la bassa cura. Il dato appena riportato evidenzia un controsenso: chi ha ricevuto delle cure parentali soddisfacenti ha assistito a dei litigi fra genitori, chi invece asserisce di non aver mai assistito a delle liti in famiglia, risulta non aver ricevuto un’alta cura. Il chi-quadrato di Pearson ci dà un dato importante: lo 0,037 dice paradossalmente che c’è significatività tra la presenza di litigi in famiglia e l’alta percentuale di cura. Confermiamo il dato del controllo: basso per R e O (40,9% e 40%) e alto per S.P.P (62,5%). (Tab. 8a)
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Bassa Cura sì, sempre 25% sì, qualche volta 42,9% RAPINA sì, senza farsi vedere 0% no, mai 60% altro 0% sì, sempre 100% sì, qualche volta 10% sì, senza farsi vedere 0% OMICIDIO no, mai 57,1% altro 0% sì, sempre 40% sì, qualche volta 53,8% sì, senza farsi vedere 50% S.P.P no, mai 50% altro 0% Tab. 8a riferita ai litigi dei genitori del campione.
Alta Cura 75% 57,1% 0% 40% 100% 0% 90% 100% 42,9% 0% 60% 46,2% 50% 50% 0%
La reazione dei soggetti in riferimento alle liti genitoriali è prevalentemente di “nessuna reazione” per l’intero campione. Nonostante questo la cura è alta per R e O (62,5% e 76,9%) ma pareggia per S.P.P (.50%). Stessa cosa vale per il controllo: alto per R e O (73,3% e 76,9%) e basso per S.P.P (61,1%). Per quanto concerne i motivi del reato notiamo delle differenze tra i due campioni (si noti che il campione S.P.P non viene ovviamente analizzato). Il campione R evidenzia la “droga” e la “disoccupazione” come motivazioni dell’illiceità, mentre il campione O ha dichiarato diversi motivi tra i quali litigio, difesa, provocazione, gelosia, incidente, rabbia ecc. La cura e il controllo per entrambi i campioni sono alti (cura R 56,5% e cura O 65% - controllo R 59,1% e controllo O 60%). Infine, in rapporto al futuro, la maggior parte dei soggetti dell’intero campione sostiene di vedere positivamente il proprio futuro anche se il campione R ha ricevuto una bassa cura genitoriale (66,7%); i dati dei campioni O e S.P.P, invece, evidenziano livelli alti di cura (61,5% e 72,7%). In riferimento al controllo, i casi R e O palesano alti livelli di controllo genitoriale in età infantile e adolescenziale (66,7% e 61,5%), mentre per i casi S.P.P il controllo è stato alquanto basso (72,7%).
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6.
Discussioni
Sembra accertato che pressoché in tutte le forme di disadattamento giovanile esiste una piattaforma comune di elementi familiari che appaiono correlati al suo sviluppo. Questi elementi sono: la presenza di criminali o di alcolizzati tra i membri della famiglia, l’assenza di uno o ambedue i genitori (per morte, divorzio o abbandono), la mancanza di sorveglianza da parte dei genitori per ignoranza, deficienza fisica o infermità, la cattiva atmosfera familiare, per eccessivo autoritarismo, negligenze, elevato numero di figli, interventi abnormi da parte di altri membri della famiglia, le differenze di razza, religione, cultura, anche nel caso di famiglie adottive o istituti, le difficoltà finanziarie dovute a disoccupazione, insufficienza delle risorse.52 Dalle analisi dei dati relativi al primo questionario si evince che il campione O è molto restio a parlare del reato. Molti soggetti non hanno risposto alle mie domande, alcuni solo con risposte dirette senza dilungarsi in approfondimenti personali. Le motivazioni di questo comportamento possono essere attribuite alla difficoltà a ricordare l’evento dell’omicidio che, nonostante sia stato causato da loro stessi, avrà sicuramente provocato un trauma alla loro persona; altre cause possono riguardare la vergogna provata nel compimento del reato e di conseguenza l’indisponibilità a mettere per iscritto sentimenti ed emozioni provate in quei determinati momenti. Oppure ci troviamo di fronte a soggetti che si dichiarano innocenti e pertanto non sentono proprie le domande sul reato: ricordo che un detenuto durante la consegna del questionario ha precisato che aveva modificato addirittura le mie domande “perché non ho commesso il reato”. I detenuti condannati per rapina, invece, sono stati molto più disponibili alla compilazione del questionario, segno evidente che, nonostante anch’essi avessero compiuto un reato grave con condanne definitive molto lunghe, non avevano chissà quante difficoltà ad esprimersi in merito all’accaduto. Da un’analisi schematica dei dati non potrebbero apparire chiare le differenze generali dei tre campioni messi a confronto perciò ora riprenderemo le variabili più interessanti, ovvero quelle relative alla famiglia e al rapporto genitori – figli per
52
N. GALLI, op. cit., p.170.
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comprendere il tipo di relazione esistente tra soggetti R, soggetti O e soggetti S.P.P con i rispettivi familiari. Innanzitutto è bene capire che l’intero campione proviene da una famiglia abbastanza solida, ovvero da genitori coniugati. Dai dati della ricerca, ovviamente, non emerge la qualità del matrimonio di ogni singola famiglia, quindi ci dobbiamo fidare del dato “coniugati” per alludere ad un nucleo familiare coeso e stabile. Quella piccola percentuale di soggetti che hanno vissuto il trauma della separazione, perché di trauma si può effettivamente parlare, saranno sicuramente più vulnerabili rispetto agli altri, e avendo sviluppato il fallimento familiare dovranno sicuramente affrontare una situazione di crisi che toccherà diversi aspetti della vita, non solo oggettivi ma soprattutto soggettivi, legati alla persona. Se i detenuti per rapina chiedevano conforto alla madre e la consideravano il loro punto di riferimento dopo la separazione, i detenuti per omicidio e i soggetti senza precedenti penali si rivolgevano alla figura paterna e agli amici (quest’ultimo riferimento solo nel caso O). L’intero campione considerava sempre la madre come persona a cui confidare i loro problemi ed era prevalentemente la figura materna che si occupava di tutte quelle attività delle quali un bambino piccolo ha bisogno: era lei che preparava la colazione, il pranzo e la cena, era lei che aiutava il piccolo a vestirsi, era lei che lo accompagnava a scuola, che lo aiutava nei compiti scolastici e che si prendeva cura fino al momento di andare a dormire. E il padre che ruolo aveva nella vita di questi soggetti? Era presente solo in un’attività in particolare: in quella ludica. E’ vero che il gioco è fondamentale per la crescita di un bambino ma la figura paterna non dovrebbe dedicarsi esclusivamente a questo e delegare tutto alla donna/mamma. Questo dato lo possiamo giustificare con il fatto che la maggior parte delle mamme dell’intero campione è casalinga mentre il padre ha un’occupazione che svolge all’esterno della casa. Purtroppo nella vita i fatti sono imprevedibili, nessuno conosce il proprio destino e, quando questo si presenta all’improvviso, qualsiasi esso sia, bisogna affrontarlo. E’ più destino crudele che la morte di un genitore non so cosa ci possa essere. Penso che, qualsiasi sia l’età di un individuo (specifichiamo però che il campione R e O ha vissuto la morte in un’età in cui era abbastanza giovane, all’opposto del campione S.P.P che aveva raggiunto una maggiore età), la morte di una figura parentale così importante, è comunque una situazione che non si dimenticherà mai e che avrà molte ripercussioni
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nella vita di un figlio. Nel nostro campione ci si rende conto che la maggior parte di genitori è fortunatamente ancora in vita, ma per quella parte che ne ha perso uno o entrambi, il lutto ha modificato sicuramente la loro esistenza. Molti carcerati, purtroppo, hanno perso un genitore durante la loro carcerazione, situazione che ha sicuramente fatto sorgere in loro sentimenti di colpa e frustrazione, qualsiasi sia stata la motivazione del decesso. E una volta che non si ha più al proprio fianco la persona che fino a quel momento ti regalava amore e sorrisi (anche se purtroppo non è per tutti così), sembra che non valga più la pena di vivere, sembra che il mondo si sia fermato e che sia difficoltoso riprendere a camminare: è a quel punto emergono i tanti “se” e i tanti “ma”. E si pensa a come ci si sarebbe potuto comportare per non provocare dolore in quella persona, dove i problemi sarebbero potuti passare in secondo piano, dove i litigi si sarebbero potuti evitare e le regole rispettare. Discuteremo ora delle regole che esistono in una famiglia. L’intero campione è abbastanza disomogeneo in riferimento a ciò: i detenuti per rapina dichiarano la presenza ma una percentuale abbastanza alta asserisce l’assenza più totale di regole. Nei detenuti per omicidio ne erano presenti parecchie a differenza dei soggetti senza precedenti penali in cui vi erano le regole ma non in maniera esagerata. Il fatto che l’intero campione (in particolare i soggetti condannati per rapina e omicidio) si attenesse a queste regole potrebbe farci riflettere sul fatto che si tratta di soggetti che, in età adulta, compiendo un reato non hanno tenuto conto del rispetto per le cose e le persone. Eppure, da quanto si evince dai dati, le reazioni dei genitori alle disubbidienze dei figli sono alquanto positive, nel senso che si optava prevalentemente per il dialogo e le punizioni giuste piuttosto che per quelle fisiche, dato confermato anche dall’assenza quasi totale di qualsiasi forma di violenza subìte dai figli (i picchi di risposte indicano “mai” anche se i casi di rapina abbiamo una percentuale di risposte “qualche volta” e di un caso più drammatico di abbandono di minore). Anche i litigi tra i genitori erano presenti: ma qual è la famiglia che non litiga?! I soggetti generalmente rimanevano impassibili davanti alle liti, come confermano la maggior parte dei dati “nessuna reazione”. Attualmente, quindi nella fase di vita adulta, i rapporti con i genitori sono abbastanza positivi, nel senso che, in riferimento ai detenuti, si cerca di non spezzare quel minimo di rapporto che la lontananza della carcerazione impone, anche se
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effettivamente le risposte negative che sono state espresse confermano la relazione tra il carcere e la difficoltà a tenere solidi i rapporti con i propri familiari. Nei soggetti senza precedenti penali, emerge che le relazioni familiari sono sufficientemente positive. In conclusione possiamo affermare che, se si fa attinenza alle risposte relative al primo questionario, affiora la presenza di una famiglia assolutamente partecipe nella vita di ciascun individuo, indipendentemente dagli errori commessi in età adulta; di una famiglia pronta ad educare con regole e risposte valide, con un’attenta partecipazione a tutte le attività educative infantili e sempre presente anche davanti alle difficoltà. Quindi, nonostante una famiglia efficace ci troviamo davanti a soggetti che hanno trasgredito le regole della vita: l’attaccamento infantile è indirettamente proporzionale al reato commesso. Dai dati relativi al PBI, invece, emerge solo in parte questa situazione, ovvero che nei soggetti che hanno compiuto un reato esiste una differenza evidente tra bassa e alta cura, mentre nei casi S.P.P ci troviamo davanti quasi sempre ad un pareggio. L’elemento significativo sia ha con il controllo, quasi sempre alto nei casi R e O mentre basso nei casi di S.P.P. Se però è anche vero che la situazione ottimale dovrebbe essere la relazione equilibrata tra cura e controllo, nella mia ricerca si evidenziamo che ciò è presente solo nei soggetti che non hanno avuto precedenti penali. Nei soggetti che hanno compiuto una rapina o un omicidio, il binomio bilanciato cura – controllo non c’è stato, producendo così situazioni di devianza. Quindi l’attaccamento infantile è direttamente proporzionale al reato commesso in età adulta. Infatti notiamo che nei casi R e O il livello di cura è abbastanza alto tanto quanto il livello di controllo: ciò sta a significare che se da una parte le cure amorevoli e le attenzioni genitoriali sono state assolutamente positive, dall’altra il grado di controllo così elevato avrebbe annullato gli effetti delle cure genitoriali, perché un elevato livello di controllo comporta un’attenzione morbosa ed ossessiva nei confronti del figlio, intralciando il normale svolgimento della vita e la successiva esplorazione dell’ambiente circostante. Si potrebbe ipotizzare che questi soggetti, una volta inseriti in società non abbiano saputo far fronte alle regole imposte a causa del controllo totale. Da ciò possiamo trarre la conclusione che, se in famiglia si riesce a bilanciare uno stile di attaccamento sicuro, improntato pertanto alle cure amorevoli e un basso controllo genitoriale, si potrebbe eliminare, o quantomeno evitare una situazione
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deviante nella vita adulta. Se questo attaccamento diventa ambivalente, ovvero mi prendo cura di te ma poi non ti lascio vivere autonomamente, il soggetto crescerebbe in una situazione di paura e di impulsività alla ricerca di conferme dal mondo esterno; un mondo che non sempre è pronto ad accoglierci.
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CONCLUSIONI
Vorrei concludere la mia tesi con un piccolo e commovente aneddoto nato tra un carcerato e il sul nipotino di qualche anno, al quale è stato raccontato che lo zio era lontano da lui perché stava svolgendo un’attività lavorativa con tanti amici lontano da casa. Mentre il detenuto svolgeva il colloquio con la sorella e il figlioletto, quest’ultimo ha chiesto a suo zio come mai, ogni volta che si incontravano, non fosse mai sporco. Un racconto che turba, che porta ad immaginare due persone così in antitesi: un bambino, innocente e puro e un uomo che di quella innocenza aveva ben poco. Questo mi porta a riflettere su come una persona si possa trovare davanti ad una restrizione della libertà, indipendentemente da un’infanzia felice o travagliata. Ovviamente il carcere non ha nulla a che vedere con il mondo esterno; e io naturalmente che provengo da questo mondo non riesco a capire la restrizione, l’oppressione, la reclusione contro libertà. Nell’introduzione ho parlato proprio di questo, di quella libertà che noi tutti diamo per scontata ma che per una persona in regime restrittivo spesso rimane un sogno. Quello che priva maggiormente il detenuto non è solo la mancata possibilità di uscire all’esterno per passare qualche ora al bar con gli amici o semplicemente per fare una passeggiata con la propria fidanzata, ma la privazione emerge ancor più proprio nel momento in cui il detenuto è costretto alle dipendenze degli altri. Per ogni desiderio, anche il più banale, si è costretti alla sottoscrizione della cosiddetta “domandina”, come per esempio per ricevere dei vestiti dai familiari (i quali devono essere sottoposti ad ispezione), sia per poter richiedere la riparazione di un oggetto personale. Tutto gira intorno ad una situazione di dipendenza totale da parte di quelle persone che si occupano di lui, dagli educatori, al direttore fino agli agenti penitenziari. Spesso ho avuto modo di parlare della concezione che la società ha del detenuto in generale: loro credono che sia sufficiente l’espiazione della condanna inflitta per scontare il debito con la società; ma sostengono anche che la società abbia dei pregiudizi nei loro confronti e che non potranno mai essere considerati alla pari di chi
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non ha mai commesso un reato. Naturalmente i pregiudizi esistono, nessuno ne è indenne, e anche io confesso di averli avuti. Prima di compiere questo percorso in carcere pensavo che i detenuti fossero assolutamente delle persone “negative”, i quali avendo gravemente sbagliato, non avessero diritto a una seconda possibilità. Grazie alla mia esperienza invece, dopo aver conosciuto i diversi casi e le diverse dinamiche familiari e sociali degli stessi, posso dire che in me sono nate delle sensazioni contrastanti: forse le mie impressioni riguardo la vita carceraria potranno non essere condivise dalla maggior parte delle persone; alcune invece, riusciranno ad essere comprese e accettate. Mi spiego: credo che la vita sia fatta di attimi e impulsi naturali, credo che nella vita si possa sbagliare e credo anche che sia giusto pagare per gli errori che si commettono ma è altrettanto giusto cercare di far capire il perché si è commesso un certo crimine, da cosa è nato tale impulso e come riscattare le proprie colpe. Credo che sia altrettanto giusto non ledere i diritti dell’uomo e che, anche se in un ambiente coercitivo, ci sia la possibilità di recuperare. Il recupero non deve essere mai negato, si deve pensare alla prigione come ad un percorso di risocializzazione attraverso le misure alternative, il lavoro e la giustizia ripartiva nei confronti della vittima. Ma nonostante queste parole forse non credo nemmeno in questo. Come ho già sottolineato, il non coinvolgimento emotivo e personale mi porta a vedere il lato positivo della carcerazione e il conseguente reinserimento in società ma se tutto questa situazione avesse coinvolto la mia famiglia, penso che non sarei riuscita ad essere razionale e ad avere così un distacco netto. Credo che anche i detenuti stessi, nonostante l’errore commesso, nei loro lunghi anni di carcere siano combattuti nel trovare risposta a questa domanda: ma se fosse capitato alla mia famiglia? Se avessero ucciso un mio parente, come avrei considerato quel soggetto? E’ tutto un rebus che non riesco a risolvere. Non so quante persone possano essere più svelte davanti ad un ragionamento simile e continuare a sostenere la loro tesi, perché, a mio avviso, a seconda del punto di vista in cui ci si trova, la risposta cambia decisamente. Ho capito solo che la forza d’animo di una persona, qualsiasi sia la condanna, non smette mai di esistere; la speranza che un giorno quella libertà negata verrà riconquistata; la certezza che ci sia qualcuno pronto ad accoglierci nonostante il male che abbiamo fatto; la voglia di continuare a vivere che non smette di esistere; il bisogno di sentirsi ancora qualcuno; l’aspettativa di una prospettiva futura; il sogno di credere
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ancora in se stessi; il coraggio di non arrendersi; la forza di guardare oltre la sentenza; il desiderio di uscire sarà pur sempre tutto un miraggio o una fantasia, ma come si dice, la speranza è l’ultima a morire, quella speranza va oltre…anche oltre l’ergastolo. Queste conclusioni si riferiscono principalmente alla mia esperienza personale, ma se ora analizziamo i risultati della mia ricerca, sosteniamo che sono abbastanza esaustivi in riferimento alla relazione tra “ l’attaccamento e il reato”. Dai dati emerge che sia i soggetti che non hanno mai avuto precedenti penali che i soggetti considerati devianti, provengono da una famiglia ben equilibrata in cui le figure genitoriali sono ben delineate tra loro sotto il profilo educativo. La madre, figura familiare sempre presente nella vita del bambino e punto di riferimento nella fase adolescenziale, si distingue dalla figura paterna, meno presente alla vita domestica per problemi lavorativi ma vicino all’individuo sotto l’aspetto normativo. Per quanto riguarda le regole genitoriali, nei casi dei soggetti senza precedenti penali, queste sono di maggiore importanza per l’educazione del bambino qualora siano però coerenti tra loro e non improntate alla rigidità e ai castighi. L’educazione risulta quindi abbastanza flessibile, a tal punto da impartire sicurezza al bambino, il quale riscopre nella diligenza un modello da seguire. Se entrambi i campioni (devianti e non) hanno un vissuto infantile alquanto “normale” (nessuna violenza di grave entità, nessun eccesso punitivo ecc.), possiamo concludere affermando che non è la famiglia la causa di una devianza nella vita adulta. Questo è ciò che emerge dalla mia ricerca basandoci esclusivamente sul binomio cura reato. Se invece analizziamo il binomio controllo – reato noteremo una radicale differenza: l’infanzia dei devianti è stata repressa e limitata da un controllo eccessivo, fattore che può aver causato nel periodo adolescenziale conflitti interiori che hanno intaccato la personalità del soggetto. Il controllo genitoriale dei soggetti non devianti, invece, è stato orientato ad un’educazione meno rigida, dove gli individui sono cresciuti in un ambiente tranquillo e rilassato, che non avrebbe favorito aspetti e caratteri devianti. Possiamo concludere che la famiglia è innegabilmente importante per la crescita e lo sviluppo della personalità dell’individuo ma che, qualora venisse a mancare o a eccedere, si creerebbero delle condizioni tali da creare disturbi nell’attaccamento e nella fase di vita adulta.
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ALLEGATO A
La seguente tabella descrive, schematicamente, le differenze e le somiglianze dei due Regolamenti interni della Casa Circondariale di Alghero, datati 1969/70 e 2005.
Numero articoli
Anno 1969/70
Anno 2005
105 articoli 4 allegati
30 articoli 3 allegati
Stessi orari
Stessi orari
Orario chiusura/apertura istituto Nessun riferimento lavoro finalizzato reinserimento sociale
Lavoro
Servizio religioso
Attività ricreative e scolastiche
al La direzione dell’istituto al individua le imprese, pubbliche o private, idonee a collaborare al trattamento penitenziario mettendo a disposizione adeguati posti di lavoro cercando di garantire il lavoro a tutti i detenuti e gli internati Le funzioni religiose Si distingueva tra il culto avevano luogo nella cattolico e altre religioni, cappella dell’istituto dando la possibilità ai detenuti stranieri di ricevere l’istruzione e l’assistenza religiosa da parte dei ministri del loro culto nonché di celebrare i riti della propria confessione religiosa in locali idonei Erano funzionanti solo le Si possono frequentare scuole elementari per gli anche corsi di studio analfabeti e altri corsi intesi diversi da quelli organizzati al miglioramento culturale nell’istituto e professionali 167
Servizio biblioteca
Colloqui familiari
Modalità interventi trattamento
Veniva usufruito solo una volta a settimana con la possibilità di prendere un solo libro in prestito per massimo sette giorni
La biblioteca è aperta tutti i giorni feriali, organizzata su due turni, permettendo al detenuto di poter visionare i testi molto più spesso e prendere in prestito, per non più di quindici giorni, un massimo di tre pubblicazioni per volta I colloqui venivano svolti negli appositi locali o anche all’esterno, per tre volte a settimana, con la possibilità di effettuare colloqui in orari o giorni diversi, in caso di impossibilità comprovata
Venivano effettuati due volte alla settimana, facendo particolare attenzione all’incontro fra detenuti e i prossimi congiunti di età fra i 6 e i 17 anni, i cui incontri venivano effettuati in una sala diversa da quella adibita ai regolari incontri Nessun riferimento alle Gli appositi incontri di modalità trattamento avvengono a iniziativa degli operatori penitenziari, nonché su richiesta dei detenuti o internati stessi. In ogni caso la partecipazione agli incontri è volontaria. La direzione dell’istituto addiviene ad accordi con gli enti territoriali e con le associazioni pubbliche o private, nonché con le persone che svolgono attività in campo sociale ed assistenziale, al fine di agevolare e garantire quanto più possibile l’integrazione delle risorse per il reinserimento sociale dei condannati e degli internati di trattamento
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ALLEGATO B
Il presente questionario è stato somministrato ai detenuti per rapina e omicidio. In riferimento ai soggetti senza precedenti penali, sono state escluse, ovviamente, le domande sul reato che vanno dalla n° 28 alla n° 36.
QUESTIONARIO N° 1
Informazioni generali 1. 2. 3. 4. 5.
Età: Stato civile: Ha figli? Titolo di studio (specificare se conseguito all’interno della struttura): Professione antecedente la carcerazione: Informazioni sulla relazione genitori/figli
6. Che lavoro fa o faceva Sua madre? 7. E Suo padre? 8. E’ figlio unico? 9. Se no, quanti fratelli/sorelle ha? 10. I suoi genitori sono sempre stati insieme o si sono separati? • sempre stati insieme • separati • altro (specificare) 11. Se separati, quanti anni aveva quando si sono separati? 12. Qual era il suo punto di riferimento dopo la separazione? • madre • padre • altri parenti • amici • altro (specificare) 13. I suoi genitori sono ancora vivi? • madre sì no • padre sì no 14. Se no, quanti anni aveva quando sono venuti a mancare?
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15. Chi era il Suo punto di riferimento dopo la morte di uno o di entrambi i genitori? • altri parenti • amici • nessuno • altro (specificare) 16. A quanti anni è andato fuori dalla casa dei Suoi genitori? • meno di 20 anni • 20/30 anni • 31//40 anni • 41/50 anni • oltre 50 anni • ho sempre vissuto a casa con i miei 17. Quali sono stati i motivi? • studio • lavoro • matrimonio • disagio familiare • altro (specificare) 18. Chi si occupava di Lei durante l’infanzia? • durante i pasti (colazione, pranzo, cena) madre padre • per vestirsi madre padre • per accompagnarla a scuola madre padre • nei compiti scolastici madre padre • nel gioco madre padre • nel momento di andare a dormire madre padre 19. Quando aveva un problema, a chi si rivolgeva? • madre • padre • altri parenti • amici • non ne parlavo con nessuno 20. C’erano molte regole in famiglia? • sì • no, poche • nessuna regola 21. Si atteneva alle regole? • sì • no 22. Se non ubbidiva, come reagivano i Suoi genitori? • punizioni giuste • punizioni fisiche • attraverso il dialogo • altro (specificare) 23. Ha mai subito violenze dai Suoi genitori (madre o padre)? • sì, sempre • sì, qualche volta
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• no, mai 24. Ha mai assistito a dei litigi tra i Suoi genitori? • sì, sempre • sì, qualche volta • litigavano ma non si facevano vedere dai figli • no, mai 25. Qual era la Sua reazione a riguardo? • piangeva • si nascondeva in camera • chiedeva aiuto • scappava di casa • nessuna reazione • altro (specificare) 26. Da adulto, che rapporto ha avuto con Sua/o: • madre positivo negativo • padre positivo negativo 27. E attualmente, qual è la relazione che ha con la Sua famiglia? Informazioni sul reato 28. Reato commesso: 29. Tempo trascorso finora in carcere: 30. Totale pena da scontare: 31. La vittima era: • un familiare (specificare) • un amico (specificare) • altro (specificare) 32. Si è mai pentito del reato compiuto? • Si, perché? • No, perché? 33. Provi a descrivere i sentimenti che ha provato nel momento in cui ha commesso il reato. 34. Quali sono stati i motivi che l’hanno spinta a commettere il reato? 35. Quali erano i Suoi obiettivi di vita prima di compiere il reato? 36. Qual è stato il primo pensiero nel momento dell’ingresso al carcere? Informazioni conclusive 37. Come vede il Suo futuro? 38. Sulla base degli argomenti trattati nel questionario, si sente di dare suggerimenti o di esprimere Sue considerazioni personali?
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ALLEGATO C
Il presente questionario è stato somministrato a tutte e tre le categorie del campione, ovvero ai detenuti per rapina, per omicidio e ai soggetti senza precedenti penali. Elenca i diversi comportamenti e atteggiamenti dei genitori e il rapporto con i figli fino ai 16 anni di età.
QUESTIONARIO N° 2
Molto falso 0
Abbastanza falso 1
Abbastanza vero 2
Molto vero 3
1. Mi parlavano con tono caldo e amichevole 2. Non mi sostenevano come ne avevo bisogno 3. Erano freddi nei miei confronti 4. Li sentivo vicini e comprendevano i miei problemi e le mie preoccupazioni 5. Mi erano affezionati 6. Parlando di cose che mi riguardavano, si rallegravano 7. Mi sorridevano frequentemente 8. Ho avuto l'impressione che non capissero ciò di cui avevo bisogno 9. Non mi sentivo desiderato da loro 10. Quando mi sentivo abbattuto, mi tiravano su di morale 11. Di solito non è che parlassero molto con me 12. Non mi lodavano né mi incoraggiavano 13. Mi lasciavano fare le cose che desideravo fare
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14. A loro piaceva che prendessi le decisioni autonomamente 15. Ho avuto l'impressione che desiderassero che non crescessi 16. Provavano a controllare ogni cosa che facevo 17. Non rispettavano la mia privacy 18. Tendevano a trattarmi da bambino 19. Mi spingevano ad affrontare in modo indipendente i miei problemi 20. Hanno provato a rendermi dipendente da loro 21. Non potevo agire senza che loro mi stessero attorno 22. Mi hanno concesso la libertĂ che desideravo 23. Mi hanno lasciato uscire e viaggiare come volevo 24. Sono stati iper-protettivi nei miei confronti 25. Mi hanno lasciato vestire come mi piaceva
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ALLEGATO D
Come promesso a due detenuti ristretti nel carcere di Alghero, non posso non inserire nella mia tesi una fra le tante canzoni cantate dal coro “Le ali della libertà” e una poesia: entrambe sono state scritte dai detenuti e, concessami la loro autorizzazione, ho potuto portarle all’esterno. La canzone è stata scritta in sardo in onore della nostra Terra e nella speranza di un mondo più libero. Dalle parole della poesia si evince si esprime tutta la sua tristezza e la malinconia dei tanti giorni trascorsi al chiuso di una cella. Proviamo ad immaginare un detenuto dentro la sua “stanza”, costretto in pochi metri quadrati per quasi tutta la giornata, tra compagni e sorveglianti, in una desolante routine. Si trova gomito a gomito con i compagni: impossibile essere solo. Eppure la solitudine si annida sempre nel suo cuore e nella sua mente. La poesia che leggerete riassume tutta la tristezza di quel pezzetto di cielo e di quelle poche stelle che si riescono e guardare.
PRO SA NOSTRA TERRA
Sentidu este su sentimentu, pro sa nostra terra, sentidu este s’amore mannu, pro sa nostra vida. Amada este custa cantones, pro unu chelu limpidu, Amada este custa cantones,
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pro unu sole luchente. Cantamus custa cantones, pro sa libertade, pro sa libertade de bidere, unu mundu pulidu. Cantu ada essere bellu, bidere sos campos fioridoso, chando cun sa famiglia nostra, currimoso china allegria. Cantu ada essere bellu, sas bidhasa pulidas, dae sâ&#x20AC;&#x2122;alga e da su ludu, chin sos pitzinnos gioghende.
IL CIELO IN UNA STANZA
Il cielo in una stanza tra quattro mura e due finestre la giornata è sempre la stessa e non passa mai; nellâ&#x20AC;&#x2122;aria non si sente niente ma solo schiamazzi 175
mi affaccio alla finestra ma l’aria del cielo è oscura. Piove ma non si vede niente. Ahimè, che ho fatto di male per rivedere il cielo oscuro è buio ma sempre piovoso!
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BIBLIOGRAFIA
Testi
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio i professori Uccula e Pruneri per aver accettato di condividere con me questo mio percorso finale, aiutandomi nell’elaborazione di un tema impegnativo ma allo stesso tempo interessante. Spero siano soddisfatti del mio lavoro.
Ringrazio l’Isp. S.S. Commissario Meloni Cav. Gesuino per avermi fornito il materiale storico sul Carcere di Alghero; ringrazio tutti i funzionari dell’area educativa, in particolare la responsabile Sig.ra Caccamo, la quale è stata gentilissima e disponibile sia durante il tirocinio che successivamente, durante la somministrazione dei questionari. Ringrazio tutti i detenuti perché è grazie alla loro disponibilità, cortesia e alla loro storia se sono riuscita ad avere tutte le informazioni al fine di trasformare empiricamente la mia idea; ringrazio anche i soggetti del gruppo di controllo, anch’essi per aver contribuito al mio lavoro.
Ringrazio i funzionari dell’Archivio di Stato di Sassari e il Sig. Tavera del’Archivio Storico di Alghero per avermi aiutato nella ricerca dei diversi atti notarili e delibere comunali.
Ora è il turno di amici e parenti.
Non dimentico di certo le mie amiche, quelli vere, quelle che mi tiran su di morale quando vedono poca luce nel mio viso; le mie colleghe, quelle che subiscono i miei tormenti riguardanti esami, date, scadenze, timori, se e ma…
Ringrazio di cuore il mio ragazzo perché con il suo ottimismo, con il suo conforto e con la sua voglia di non arrendersi davanti alle sconfitte, mi ha aiutata a rendere più semplice il mio percorso. Lui che in questi due anni di studi mi ha sempre supportato,
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ha seguito ogni mio esame e ogni singolo frangente universitario, e che, negli ultimi mesi mi ha regalato consigli preziosi utili allâ&#x20AC;&#x2122;elaborazione di questa tesi.
Gli ultimi ringraziamenti, non di certo per ordine di importanza ma perchĂŠ, al contrario rimangano piĂš impressi, vanno alla mia famiglia. Non servono parole, o ne servono poche per descrivere tutto il bene che mi unisce a loro. So di non essere molto brava ad esprimere le mie emozioni e anche se nemmeno loro riescono in questo, nel nostro silenzio ci doniamo a vicenda la certezza di esserci sempre!
Grazie!
Elena
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