A.D. MDLXII
U N I VE RS I T À F ACOLTÀ
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D E G LI S TU DI D I S AS S A RI L INGUE E L ETTERATURE S TRANIERE ___________________________
C O R S O D I L A U R E A I N L I N G U E , C U L T U R E E C O M U N I C A Z I O N E I N T E R N A ZI O N A L E
LA GUERRA DELL’AFGHANISTAN NELLA STORIOGRAFIA E NELLA CULTURA DELLA RUSSIA CONTEMPORANEA
Relatore: PROF. RAFFAELE D’AGATA
Correlatore: DOTT. GIUSEPPE MUSSI
Secondo Correlatore: DOTT.SSA ALESSANDRA CATTANI
Tesi di Laurea di: FEDERICA D ILETTA PELOSO
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
In copertina: Sharbat Gula, Peshawar (Pakistan), 1984. Copyright di Steve McCurry.
Indice Introduzione ............................................................................................................................ 1 Capitolo 1 L'invasione sovietica in Afghanistan: il contesto e le motivazioni ................... 4 1.1. La “seconda guerra fredda” ....................................................................... 4 1.2 Afghanistan e URSS ................................................................................. 10 1.3 Il PDPA ..................................................................................................... 12 1.4 L’intervento e le sue conseguenze ............................................................ 15 1.5. L’internazionalizzazione del conflitto: la “trappola” afghana ................. 20 Capitolo 2 Ricostruzioni della guerra nella Russia post-sovietica ................................... 26 2.1 Analisi dei motivi dell'invasione .............................................................. 26 2.2 Analisi delle conseguenze internazionali.................................................. 33 2.3 La conduzione politica dell'intervento e i tentativi di stabilizzazione ...... 36 Capitolo 3 Raccontare la guerra: il cinema e la narrativa ............................................... 44 3.1 Cenni generali ........................................................................................... 44 3.2 Reclutamento ed esercitazioni .................................................................. 51 3.3 Attacchi e strategie ................................................................................... 59 3.4 Qualità della vita ....................................................................................... 63 3.5 Rapporti sociali e dedovščina ................................................................... 66 3.6 Affrontare la violenza del conflitto: tossicodipendenza e alcolismo ........ 71 3.7 Il nemico: i mujaheddin ............................................................................ 77 3.8 Rapporti con le famiglie e bare di zinco ................................................... 81 3.9 Gli afgancy, emarginazione e ingresso in società ..................................... 85 Riferimenti iconografici ....................................................................................................... 88 Conclusioni ............................................................................................................................ 95 Bibliografia ............................................................................................................................ 97
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Introduzione L'intervento sovietico in Afghanistan è un evento storico che è stato ampiamente analizzato e su cui si è largamente dibattuto in ambito scientifico. L'ingresso di truppe sovietiche in suolo afghano, nel dicembre del 1979, diede il via a un'operazione durata quasi dieci anni che ha influenzato il corso della guerra fredda in modo importante, nonché la storia dei singoli paesi coinvolti nel conflitto. Considerata la cospicua presenza di materiale di produzione internazionale, l'obiettivo di questa tesi di laurea è quello di fornire un'analisi approfondita su alcuni aspetti dell'evento in oggetto e la sua ricostruzione nella storiografia e nella cultura popolare della Russia del periodo post-sovietico. Negli studi sulla materia si nota - per quanto riguarda l'aspetto storiografico - una tendenza a utilizzare fonti internazionali piuttosto che russe, e - per quanto riguarda l'ambito culturale - la mancanza di un lavoro riassuntivo sull'impatto dell'evento sulla cultura post-sovietica. La scelta delle fonti utilizzate si è basata sulla volontà di sottolineare, sebbene esista una vasta letteratura storica sull'argomento, l'approccio russo al tema attraverso gli scritti di studiosi russi, per constatare se e in che modo la storiografia russa presenti novità nell'elaborazione e nella ricostruzione dell'evento e per esplorare alcuni nodi che ancora oggi sono ritenuti controversi o non sufficientemente trattati. Per quanto riguarda la ricostruzione del tema in ambito culturale e artistico, si è deciso di svolgere tale tipo di ricerca poiché sebbene esistano alcune opere di produzione russa sull'argomento, non esistono lavori che raccolgano le diverse interpretazioni e ne analizzino i tratti comuni. Il lavoro, diviso in tre capitoli, intende dunque descrivere lo stesso evento attraverso l'analisi di diversi temi ricorrenti nelle fonti analizzate. Da una parte, si cercherà di osservare la ricostruzione dell'evento nella storiografia russa, analizzando se e con quali modalità alcuni aspetti siano trattati differentemente in ambito internazionale; dall’altro, particolare attenzione sarà rivolta alla rappresentazione in ambito culturale, per analizzarne il possibile impatto sulla società russa. Nel corso della stesura, vista la vastità dell'argomento, è stato necessario procedere alla selezione di alcuni materiali in particolare; molto materiale, sia scientifico che culturale come narrativa e opere cinematografiche, è stato tradotto dall'autrice della tesi, in alcuni casi anche per la prima volta in quanto nessuna 1
traduzione in altre lingue è disponibile per quanto riguarda parte delle fonti. Nelle traduzioni, si è ritenuto opportuno utilizzare, per il russo, la traslitterazione ISO9 1968. Per quanto riguarda alcuni particolari termini ricorrenti in lingua araba, si è scelto di declinare il sostantivo ( جھادǧihād, di cui si userà la traslitterazione convenzionale jihad) al femminile (sebbene in arabo sia maschile) seguendo l'uso corrente in lingua italiana, in quanto, in questa tesi, il termine viene sempre utilizzato in corrispondenza del concetto di “guerra santa” e non quello di “sforzo” che richiederebbe la declinazione in traduzione al maschile. Ugualmente, per il termine ( مجاھدينmujāhidīn), si è scelto di seguire la forma convenzionale in uso in diversi testi in lingua italiana, cioè la parola mujaheddin. Nel primo capitolo si è proceduto alla stesura di un inquadramento necessario per collocare gli eventi analizzati in un contesto storico, attraverso la narrazione degli accadimenti salienti e di alcune circostanze particolari che hanno influenzato lo svolgimento della guerra, nonché il tema degli effetti del conflitto sia in contesto internazionale che internamente all'Unione Sovietica. Oltre alle questioni discusse, necessarie per un corretto inquadramento storico, si è inoltre affrontato il tema ancora controverso della possibilità che l'intervento sovietico sia stato uno dei motivi del crollo dell'URSS, quesito affrontato in ambito scientifico ma su cui ancora non esiste una posizione generalmente e universalmente condivisa. Nel secondo capitolo si è proceduto a un’analisi della ricostruzione storiografica di alcuni temi fondamentali quali le motivazioni che portarono all'evento, le reazioni in ambito internazionale e la conduzione politica dell'intervento con riferimenti alla sua conclusione attraverso tentativi di stabilizzazione. Tale analisi è basata sugli scritti di studiosi russi di periodo post-sovietico, naturalmente nel contesto di una storiografia internazionale che ha raggiunto notevoli risultati abbastanza presto giacché, come è noto, dopo il crollo dell'URSS è stato immediatamente possibile, per gli studiosi, avere accesso a una grande quantità di documenti sovietici. Nel terzo capitolo infine, si è proceduto all'elaborazione di alcuni particolari aspetti ricorrenti nei documenti presi in esame relativi alla conduzione del conflitto, così come descritti in canali di comunicazione di massa quali letteratura e cinema attraverso l'analisi di estratti di opere di narrativa e produzioni cinematografiche in lingua originale, per perseguire l'obiettivo di valutare l'impatto dell'evento storico sulla società post-sovietica.
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Sia per quanto riguarda la sezione storiografica che riguardo all'analisi dell'influenza sulla cultura russa, esiste un'ampia quantità di documenti e opere in lingua originale di difficile reperimento; per questo motivo, il lavoro svolto (anche per via della sua natura di tesi di laurea) non si propone di essere esaustivo. Esso vuole soltanto costituire un punto di partenza per un possibile percorso innovativo di ricostruzione delle rappresentazioni storiografiche e culturali dell’esperienza in Afghanistan nella storia recente della Russia: il primo nucleo, cioè, di un progetto più ampio che possa includere, in futuro, un'analisi più approfondita condotta su un maggiore numero di fonti.
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Capitolo 1
L'invasione sovietica in Afghanistan: il contesto e le motivazioni 1.1. La “seconda guerra fredda” Le cause dell'invasione dell'Afghanistan da parte dell'esercito sovietico sono state a lungo dibattute e analizzate. Dal 1979 in poi inizia da parte dell'URSS un dispiegamento sempre crescente di forze che si conclude nel 1988 con un graduale abbandono delle terre afghane. Durante quell'anno infatti metà dell'esercito fece ritorno in URSS, seguita nel 1989 dalla seconda metà. In realtà, l'URSS continuò a spedire aiuti in Afghanistan sino al crollo, nel 1991. La storia che unisce Afghanistan e Russia, tuttavia, risale a un periodo decisamente antecedente al 1979. Già a partire dal Great Game tra Russia e Gran Bretagna infatti, l'Afghanistan si dimostrò un territorio importante per il bilanciamento dei poteri dominanti nella zona dell'Asia centrale, considerata di vitale interesse da diverse superpotenze in diversi periodi storici. Come sappiamo, l'invasione sovietica del 1979 verrà considerata a posteriori “il Vietnam russo”: le viene in questo modo attribuito un carattere di sconfitta che secondo molti sarà una delle dirette cause del crollo dell'Unione. L'invasione fu il risultato di molte e complicate vicissitudini frutto di fattori interni all'URSS ma anche di carattere internazionale. Per capire perché il controllo della zona era fondamentale tanto da rischiare la degenerazione della distensione e il conseguente riaccendersi della guerra fredda, è necessario analizzare la situazione generale del contesto socioeconomico del periodo e le relazioni tra le due superpotenze, nonché i citati fattori interni. Innanzitutto, è necessario premettere che nell'URSS degli anni Settanta c'erano due correnti che dominavano il modus operandi decisionale del governo
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in materia di politica estera: la leadership sovietica era infatti divisa tra interventisti e cooperazionisti.1
Per quanto riguarda i fattori di natura internazionale, sappiamo che la situazione alla fine degli anni Settanta era il risultato delle lunghe e non regolate tensioni in Medio Oriente, mentre l'integralismo islamico si inseriva come nuovo inquietante fattore da prendere in considerazione. Le tensioni in Medio Oriente rappresentavano un costante motivo di preoccupazione per l'Unione Sovietica, sia per via della vicinanza geografica sia per i legami storici e culturali dell'URSS con i paesi coinvolti nei conflitti mediorientali. Gli Stati Uniti, da parte loro, continuavano a considerare la regione come punto di vitale importanza, soprattutto poiché il controllo di tali territori implicava l'esclusione dell'URSS dalla lista degli interlocutori coinvolti nella risoluzione dei conflitti: il controllo della zona insomma si presentava come importante possibilità di diminuire l'influenza sovietica in zone di grande interesse economico e strategico. Queste premesse sono fondamentali per comprendere e inquadrare storicamente i fattori che portarono l'URSS ad agire in determinati modi e a impegnarsi in una vera e propria guerra che, come vedremo, avrà enormi risvolti sulla società non solo della Russia del tempo ma anche sulla memoria collettiva degli anni post-crollo. L’importanza degli interessi economici strategici in gioco in Medio Oriente (e, di riflesso, in Asia Centrale) era stata fortemente accentuata dalla grave crisi in cui il sistema capitalistico era incorso all’inizio degli anni Settanta. Quella crisi economica, e poi soprattutto le risposte che effettivamente le vennero date, furono fattori molto importanti nel determinare la crisi della distensione e perciò (tra l’altro) le successive 1
Questo dato è stato messo in luce soprattutto dagli studi di Odd Arne Westad, basati sui verbali delle sedute dell’Ufficio Politico del PCUS e altri documenti chiave, disponibili dopo il crollo dell’Unione Sovietica (per una breve e densa sintesi delle sue conclusioni, cfr. Id., “Ideas and Power: The Soviet Inner Debate in the 1970s and its Present Meaning”, in Raffaele D’Agata, Lawrence Gray (eds.), One More “Lost Peace”? Rethinking the Cold War After 20 Years, Lanham (Md), University Press of America, 2011, pp. 13 ss. Westad ricostruisce una contrapposizione in seno al gruppo dirigente sovietico, negli anni Settanta, tra una corrente interventista e una corrente non interventista. La prima corrente, supportata dai successi delle politiche estere nel terzo mondo e dalla crisi dell'economia capitalista, si affidava a una sorta di ottimismo dovuto alla presunta direzione che alcuni paesi stavano intraprendendo verso il sistema socialista. Nell'articolo viene anche riportata una critica dell'interventismo strutturata in tre parti: prima di tutto, secondo i non interventisti le rivoluzioni che stavano portando alcuni paesi verso la direzione socialista non erano quelle previste dalla dottrina marxista. In secondo luogo, il continuo espandersi dell'URSS avrebbe comportato costi sempre più alti. Terzo, preservare la distensione con una politica non interventista significava avere la possibilità di acquisire molti vantaggi, soprattutto in termini di importazioni di tipo tecnologico. La domanda iniziale di Westad riguardante i motivi della scelta interventista nonostante i molti punti a sfavore, è direttamente collegata all'argomento oggetto di questa tesi. Westad arriva alla conclusione che la politica interventista ebbe la meglio a causa del collasso del sistema decisionale e di una leadership molto indebolita.
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azioni intraprese dal governo sovietico. La degenerazione della situazione economica mondiale era stata il frutto diretto della fine degli accordi di Bretton Woods per effetto della svalutazione del dollaro e della fine del sistema dei cambi fissi tra il 1971 e il 1973 (conseguenza, a loro volta, della fine del ruolo di creditore netto precedentemente esercitato dagli USA e soprattutto delle soluzioni puramente unilaterali del problema che l’amministrazione Nixon scelse di perseguire e di praticare). La situazione interna di irrequietezza sociale e i gravi colpi subiti in Vietnam2 (cui l'invasione sovietica in Afghanistan verrà poi accostata, in termini di perdite di risorse umane e non) avevano comunque portato gli Stati Uniti e in particolare l'amministrazione Nixon a ricercare la distensione come misura temporanea per permettere agli Stati Uniti di riprendersi dalla crisi;3 tuttavia, su tali basi e nel quadro di quelle scelte, la distensione aveva poche probabilità di costituire una chiave per una stabile e piena soluzione dei maggiori conflitti internazionali4 (a cominciare da quelli, cruciali, del Medio Oriente, che del resto l’amministrazione Nixon indicava con chiarezza come non toccati, se non marginalmente, dal quadro della distensione5). Per quanto riguarda il processo di distensione, l'Unione Sovietica manterrà una posizione che assume formalmente e ufficialmente i contorni di una “coesistenza pacifica”, almeno nelle intenzioni. L’interesse sovietico per la distensione appare fuori 2
Anche il Vietnam rappresenta un aspetto importante nel quadro della distensione: gli USA infatti speravano che nel quadro degli accordi relativi alla distensione, l'URSS potesse esercitare pressioni sul governo di Hanoi in favore degli USA. 3 Cfr. Carol Saivetz, “Superpower Competition in the Middle East and the Collapse of Deténte”, in Odd Arne Westad (ed.), The Fall of Détente. Soviet-American Relations during the Carter Years, Stokholm-Oslo-New York, Scandinavian University Press, 1996, pp. 73-74. Saivetz discute i diversi motivi che portarono URSS e USA a impegnarsi nella cooperazione. Entrambe, secondo Saivetz, erano interessate al miglioramento delle relazioni internazionali con l'avversario, ma per ragioni differenti. L'Unione Sovietica cercava di ottenere la stessa posizione e il prestigio degli Stai Uniti, tanto che lo stesso Brežnev si esprime nel 1970 a favore di una cooperazione vantaggiosa per entrambi. Gli USA invece cercavano di rallentare il processo di produzione nucleare da parte dei sovietici, e di minimizzare gli enormi costi che la guerra fredda comportava. 4 Anche secondo Odd Arne Westad, la distensione non fu mai considerata dall'amministrazione Nixon come un cambiamento effettivo rispetto alle politiche perseguite durante la guerra fredda né come strategia a lungo termine. Sarebbe infatti stata solo una misura temporanea, necessaria per permettere agli USA di riprendersi dalla situazione di crisi. Westad sottolinea questo fattore con particolare enfasi, poiché per l'amministrazione Nixon un eventuale successo dei tentativi di distensione non avrebbe decretato in alcun modo il cambiamento (in positivo) dei rapporti conflittuali tra Est e Ovest. Cfr. Westad, op. cit. (2011). 5 In base alla strategia di Kissinger, le offerte di cooperazione da parte dell'URSS e le politiche distensive riguardo al Medio Oriente erano viste come una minaccia più che come un'opportunità. Sarebbe infatti stato difficile, per gli USA, giustificare le pretese di contenimento dell'URSS. Emblematica, a questo proposito, è la frase di Kissinger pronunciata in seguito alla proposta di azione congiunta nel Medio Oriente da parte di Brežnev: “We wanted to escape something that would have trapped us into agreeing”. National Archives and Record Administration (NARA), Gerald L. Ford Presidential Library, National Security Assistant Memoranda, Box 2: Raffaele D’Agata, “Ostpolitik, Euro-Communism and Détente: Responding to the World Crisis”, in R. D’Agata, L. Gray, op. cit. (2011).
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di dubbio sulla base dei documenti resi pubblici dopo il crollo dell’URSS, e in particolare appariva ancora molto vivo durante i mesi immediatamente precedenti lo sviluppo della crisi afghana. Così, per esempio, il Ministro degli Esteri Andrey Gromyko, rispondendo al Presidente Carter durante un incontro nel settembre del1977, da un lato prendeva atto delle sue parole circa “la necessità di prendere in considerazione le differenze tra i sistemi sociali ed economici dei due paesi”, e confermava che “queste differenze esistevano e sarebbero comunque esistite”, ma contemporaneamente (da un altro lato) insisteva sull’idea che nonostante ciò URSS e USA avrebbero dovuto continuare a sviluppare i loro rapporti (“Despite the existing differences between us we should continue to develop our mutual relations”).6 Importanti documenti come quello appena citato rivelano come, ancora nella seconda metà degli anni Settanta, i dirigenti sovietici e quelli americani condividessero una sincera volontà di evitare che i loro contrasti avessero un esito violento simile a quello avuto da precedenti casi di rivalità tra grandi potenze; rivelano, insomma, una volontà di cooperazione che era continuamente sottolineata (per esempio nel corso del colloquio qui citato sia da Gromyko sia, soprattutto, da Carter) con la continua ripetizione dei termini peace e peaceful. La distensione, comunque, fu innanzitutto messa a dura prova dai conflitti mediorientali della prima metà degli anni Settanta. Questi conflitti furono al contempo causa e conseguenza della crisi petrolifera, e questa, a sua volta fu anche causa e conseguenza di più generali sconvolgimenti dell’economia mondiale. Anche l'Unione Sovietica fu toccata da tali sconvolgimenti, poiché, sebbene si dichiarasse fuori del sistema capitalistico (e in larga misura lo fosse), era fortemente influenzata dall’esistenza di tale sistema. L'URSS, infatti, era uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio. Dopo lo shock del 1973, alzò i prezzi, allineandosi autonomamente (e parzialmente) con la politica dei paesi dell’OPEC. Le sue esportazioni erano dirette essenzialmente ai paesi della sua sfera d’influenza, verso i quali applicava prezzi comunque inferiori a quelli mondiali richiedendo però, in compenso, pagamenti in “moneta forte”. Questo portò a una sorta di paradosso, poiché se sino ad allora l'Unione Sovietica aveva cercato di proteggere il blocco orientale dalle infiltrazioni occidentali con molti sforzi soprattutto negli anni del dopoguerra, lasciò in 6
Minute del colloquio tra il ministro degli Esteri Gromyko e il Presidente Carter tenuto il 23 settembre del 1977, Archive of Foreign Policy, Russian Federation (AVP RF), Moscow. Riprodotto in traduzione inglese in Cold War International History Project, Bulletin Issues 8-9, Winter 1996/1997, p. 106.
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quest'occasione il blocco in balia delle penetrazioni finanziarie (poiché il blocco orientale prese in prestito moneta forte dal mercato e lungo questa via si trovò presto ad essere indebitato in misura elevatissima e a tassi crescenti), provocando di conseguenza una maggiore necessità oggettiva di “disciplina” interna, e quindi ostacoli maggiori per ogni possibile processo di evoluzione di quei regimi in senso politicamente più liberale. Dunque, sebbene la guerra fredda rischiasse di riaccendersi a causa dei contrasti in Medio Oriente e in generale nel Terzo Mondo, nella seconda metà degli anni Settanta le superpotenze erano convinte della necessità di mantenere almeno superficialmente un certo livello di cooperazione. Tale riconoscimento, tuttavia, aveva motivazioni non sempre coerenti. Gli Stati Uniti, in particolare, sembravano agire su due livelli: uno superficiale, fatto di dichiarazioni di cooperazione finalizzate alla pace, e uno più profondo, avente lo scopo fondamentale di isolare l'URSS nelle regioni che più di tutte attiravano l'attenzione mondiale. Da parte sua, l'Unione Sovietica, oltre a ricevere le pressioni internazionali dovute a un fallimento della distensione sempre meno nascosto e sempre più conclamato, dovette fare i conti, come già accennato, anche con le divisioni interne. Il ceto politico dirigente sovietico era in effetti significativamente diviso, malgrado l’apparenza: nel corso del decennio, l'orientamento sovietico riguardo agli affari di politica estera scivolò da un atteggiamento molto cauto a un altro molto più sostenuto. Nonostante la preponderanza della corrente non interventista, tuttavia, per quanto riguarda l'Afghanistan la soluzione intrapresa fu quella dell'entrata in guerra. L'Unione Sovietica vedeva la necessità di esercitare un sufficiente controllo sugli sviluppi in Medio Oriente come talmente fondamentale da decidere in senso interventista nonostante la consapevolezza che ciò avrebbe portato, inevitabilmente, al fallimento di una distensione che risultava già compromessa dai contrasti tra superpotenze chiaramente emersi durante la Guerra del Kippur. Il fallimento della cooperazione nella guerra del Kippur in Medio Oriente, in effetti, è una premessa inevitabile a tutto ciò che verrà negli anni seguenti in Afghanistan. In quanto parte del delicato gioco di bilanciamento dei poteri nelle zone vitali, infatti, la guerra del Kippur fu il punto di partenza di un importante gioco di alleanze che portarono l'Unione Sovietica ad essere esclusa dalla scena mediorientale. All'indomani del conflitto del 1973, insomma, la distensione era ormai definitivamente compromessa, anche se ciò non appariva ancora chiaro. L’umiliante scacco diplomatico subito allora dall’URSS proprio come effettivo risultato della sua 8
politica prudente e della sua offerta di cooperazione diede argomenti ai fautori di una politica estera più dura. A partire dal 1977, l’amministrazione Carter, dopo alcune oscillazioni, finì per riaffermare a sua volta la priorità del contenimento dell’influenza sovietica in Medio Oriente come pregiudiziale assoluta. Nonostante le dichiarazioni del Segretario di Stato Cyrus Vance, secondo il quale la ricerca della pace in Medio Oriente era uno dei terreni sui quali la cooperazione tra Washington e Mosca avrebbe dovuto svilupparsi, gli equilibri interni all’amministrazione Carter portarono la politica mediorientale degli Stati Uniti a proseguire su una linea di competizione. Una possibile inversione di rotta sembrò rappresentata dalla dichiarazione congiunta del 1° ottobre 1977, concordata da Vance e Gromyko, che prevedeva linee guida per i negoziati israelo-palestinesi, e comprendeva il ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967, la risoluzione della questione palestinese, la conclusione dello stato di guerra e l'inizio di relazioni pacifiche tra tutti gli Stati della regione (cioè, implicitamente, il riconoscimento di Israele da parte degli arabi). Gli accordi suscitarono proteste così aspre negli Stati Uniti e in Israele da poter compromettere la situazione del governo statunitense, e per questo motivo vennero sconfessati pochi giorni dopo. Questi eventi portarono gli USA alla pace separata di Camp David con gli accordi del 17 settembre 1978, da cui l'Unione Sovietica venne inesorabilmente tagliata fuori. A questa ennesima umiliazione Mosca reagì con dichiarazioni di condanna il cui vero senso suscita ancora problemi d’interpretazione: gli accordi di Camp David vennero cioè condannati dall'URSS per il contenuto, oppure soltanto perché implicavano e comportavano la sua esclusione dal processo di pace? Ciò che oggi appare certo è che Camp David (a maggior ragione per il fatto che l'Egitto passò definitivamente dalla parte degli USA), fu la dimostrazione della vera volontà degli Stati Uniti, cioè annientare la presenza dell'URSS in Medio Oriente. Come lo stesso Henry Kissinger affermò già nel 1974, infatti, la cooperazione tra USA e URSS non mirava al raggiungimento di un condominio nel Medio Oriente, bensì puntava a prevenire ogni influenza troppo significativa da parte dell'Unione Sovietica.7 Già indebolita sul fronte delle alleanze ed esclusa dagli accordi di Camp David, l'Unione Sovietica cercava dunque, dopo il deterioramento delle importanti relazioni col mondo arabo, una nuova opportunità per contrastare l'evidente superiorità che gli Stati
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Parole riportate dall'ambasciatore della Germania Ovest a proposito dell'intervento di Kissinger durante un briefing con gli ambasciatori NATO, 25 Gennaio 1974 (Akten zur Auswaertigen Politik der Bundersrepublik Deutschland, 1974, Band 1, p. 94): R. D’Agata, op. cit., p. 56.
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Uniti stavano dimostrando in termini di relazioni estere. L'opportunità si presentò nella veste della rivoluzione portata avanti da quella che diventò la Repubblica Democratica Afghana. Per salvaguardare il proprio ruolo in Medio Oriente, dunque, dopo aver atteso invano una reazione dell'ONU e dopo aver preso atto della posizione di Pakistan e USA (che, si vedrà in seguito, appoggiavano esternamente la controrivoluzione dei mujaheddin), l'Unione Sovietica decise di rispondere alla chiamata di aiuto dell'Afghanistan in nome del trattato sovietico-afghano firmato nel 1921. La guerra in Afghanistan fu la dimostrazione che una delle due parti impegnate nella guerra fredda era in declino e isolata dal resto del mondo a causa di processi decisionali lenti e inefficaci rispetto alla controparte americana. Sebbene le nette contrapposizioni tra i leader sovietici fossero allora accuratamente celate e generalmente non conosciute, sta di fatto che le lotte intestine riguardanti la successione ai vertici davano luogo a distorsioni del processo decisionale troppo gravi per permettere al paese di mantenere i ritmi imposti dalla superpotenza rivale. Brežnev era ormai molto anziano e malato, e la questione della sua successione era ormai all'ordine del giorno.8 Pur di non mostrarsi deboli e per evitare attacchi della controparte avversaria, anche i più convinti oppositori dell'intervento (tra cui Gromyko, Andropov e Kirilenko), memori dei risultati che la cauta politica non interventista aveva portato solo pochi anni prima, si unirono ai sostenitori della politica di intervento diretto premendo su Brežnev sino a che quest'ultimo decise di approvare definitivamente l'invio delle truppe e l'invasione. In seguito si vedrà perché il fallimento della distensione e la sconfitta afghana furono colpi letali per la macchina sovietica. Citando Odd Arne Westad anzi, è possibile affermare che non solo quella in Afghanistan fu la prima sconfitta dell’URSS: fu anche la sua ultima guerra.
1.2 Afghanistan e URSS Il primo corpo armato dell’esercito sovietico arriva in Afghanistan alla vigilia di Natale del 1979. Sebbene l'intervento fosse stato progettato come una missione breve,
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Cfr. Id., “Soviet Misperceptions, Western Overstatements: Reassesing the stakes”, in Raffaele D’Agata, Lawrence Gray (eds.), op. cit., p. 13.
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l'URSS resta in Afghanistan per dieci anni. Le conseguenze saranno catastrofiche sia per il paese invaso che, come vedremo in seguito, per l'invasore. Le cause che portarono il governo sovietico a decidere di intervenire nel conflitto già in corso in Afghanistan tra il governo del leader Amin e i guerriglieri islamici che avevano dichiarato la jihad, sono state a lungo dibattute: non è possibile tuttavia stabilire una sola omogenea causa, poiché come accennato, il coinvolgimento dell’URSS nel quadro dei conflitti mediorientali dipende da molte cause, sia interne che internazionali. In prima approssimazione, comunque, le interpretazioni all’epoca dei fatti mettevano in evidenza soprattutto due ragioni fondamentali. Da una parte, si trattava di salvare il governo afghano di matrice comunista (che come si vedrà in seguito rientrava ormai tra gli Stati di diretta influenza sovietica), secondo la teoria dell'intervento necessario riassunta nella cosiddetta Dottrina Brežnev. La dottrina era applicabile all’Afghanistan in quanto paese portatore di interessi ideologicamente vitali per l’Unione Sovietica (pur non appartenendo al Patto di Varsavia) e possibile obiettivo degli interessi degli Stati Uniti (dunque potenziale vittima del capitalismo). Inoltre, l'Afghanistan rappresentava un interesse forte per l'URSS per via delle fortissime potenzialità livello economico (ad esempio per via dei ricchi giacimenti di gas naturale; nel 1980 un condotto, le cui possibilità di utilizzo vennero compromesse in seguito ai conflitti, trasportava il gas in URSS attraverso l'Amu Darya). Già a partire dal periodo del secondo conflitto mondiale, l’URSS intrecciò importanti relazioni con l’Afghanistan e riuscì a influenzare il paese in diversi modi, sia in ambito economico che politico. Nel quadro della guerra fredda, tra tutti i paesi che ebbero relazioni con l’Afghanistan, solo gli Stati Uniti avevano un peso tale da poter bilanciare l'influenza dell'URSS in quel paese. In realtà, nell’immediato dopoguerra gli interessi americani non erano così forti: innanzitutto non si pensava che l'Afghanistan corresse il rischio di cadere entro la sfera d’influenza di Mosca; in più, era un territorio di poca importanza strategica effettiva. Gli USA temevano anche che una loro attiva ingerenza (in particolare, un eventuale sostegno a forze interne amiche) avrebbe potuto causare una reazione militare da parte dell'Unione Sovietica. L'Afghanistan prende atto della posizione degli Stati Uniti, (che mantengono un interesse più o meno tiepido, provocando tuttavia in Brežnev una paura quasi paranoica rispetto alle intenzioni degli americani), accetta l’URSS come fornitore ufficiale (soprattutto di armi), e in seguito anche partner economico e finanziario. L’influenza dell’URSS in Afghanistan era forte anche per quanto riguarda la sfera politica: le 11
relazioni tra i due paesi erano infatti regolate da diversi trattati internazionali. Tra i principali si ricordano il trattato Sovietico-Afghano di amicizia del 1921 e rinnovato nel 1955, il trattato di non aggressione URSS-Afghanistan del 1926 e rinnovato nel 1931 e il trattato di amicizia e cooperazione del 1978. I rapporti dunque, si intensificano grazie ai trattati nel corso del '900: l'Afghanistan diventò il primo stato non appartenente al Patto di Varsavia a ricevere aiuti sovietici. L'URSS, da parte sua, influenzava il tessuto della società afghana su vari livelli. Già sotto Daoud, l'influenza sovietica in Afghanistan era forte; dopo il colpo di stato l'influenza continuò a essere significativa, ma non andò avanti nella direzione ipotizzata dal governo sovietico. Nel 1978 moltissimi russi lavoravano in Afghanistan, e nel 1979 moltissimi studenti afghani andarono a studiare in Russia. Tuttavia, sebbene l'obiettivo fosse quello di creare una sorta di élite pro-URSS, l'indottrinamento che avrebbe dovuto avvicinare i due paesi non produsse i risultati sperati. Il controllo del territorio, infatti, era possibile solo grazie alla massiccia presenza militare.9 Del resto, risalendo ancora indietro negli anni, le relazioni tra URSS e Afghanistan si erano sviluppate, a partire dal 1919, in modo abbastanza continuativo: dal 1956 in poi, la cooperazione militare andava avanti su base regolare. I rapporti tra i due Stati entrano in una nuova dimensione in seguito alla fondazione di un nuovo piccolo partito clandestino basato su principi marxisti-leninisti, il PDPA. In seguito ai tentativi di estromissione dei suoi dirigenti da parte di Daoud, il partito intensifica i propri rapporti col Cremlino che, dopo il colpo di Stato del 1978, riconosce e supporta il nuovo governo.
1.3 Il PDPA Il PDPA, Partito Popolare Democratico dell'Afghanistan (in russo: Narodnodemokratičeskaja partija Afganistana), nasce come partito clandestino nel 1965. Già in origine, all'interno del partito convivono diverse etnie, le cui peculiarità contrapposte contarono molto nell'organizzazione gerarchica e portarono a vere e proprie rotture interne. La prima, la più importante, è quella del 1967: il risultato è la 9
Cfr. B. Amstutz, The First Five Years of Soviet Occupation, Washington, National Defense University Press, 1986.
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contrapposizione delle due fazioni dei Khalq (“Popolo”, i cui leader erano Nur Muhamad Taraki e Hafizullah Amin) e dei Parcham (“Bandiera”, il cui leader era Babrak Karmal), gruppi i cui componenti appartenevano a varie etnie contraddistinte da caratteri sociali e culturali diversi. Una importante suddivisione tra le etnie afghane, evidenziata e persino riportata in letteratura da romanzi di successo, è quella tra i gruppi pashtun e hazara. I Parchami erano in maggioranza Dari non pashtun, mentre i Khalqi erano prevalentemente pashtun provenienti dalle classi sociali più basse. Tra gli esempi letterari, il più famoso è sicuramente “Il Cacciatore di Aquiloni”, celebre romanzo pubblicato in Italia nel 2004 dell'autore di origini afgane Khaled Hosseini. La trama, che racconta la vita di due bambini appartenenti rispettivamente alle etnie pashtun e hazara che vivono la loro amicizia negli anni dell'invasione sovietica a Kabul, enfatizza in modo particolare il contrasto tra le due etnie: anche storicamente, la contrapposizione tra pashtun e hazara è tra gli esempi più significativi delle tante eterogeneità presenti nella composizione del tessuto sociale afghano e dello stesso PDPA. Nonostante queste importanti divisioni interne, nel 1978 Parcham e Khalq si riuniscono in occasione della cosiddetta “Rivoluzione di Aprile” (o Rivoluzione di Saur). Con la rivoluzione di aprile, la relazione tra URSS e Afghanistan arriva a un nuovo stadio. Il PDPA, per mezzo di azioni svolte prevalentemente a Kabul, rovescia il governo ed elimina il Presidente Daoud con trenta membri della sua famiglia. Dopo il 27 aprile, segue il riconoscimento del nuovo governo da parte dell'URSS. La Repubblica Democratica dell’Afghanistan (RDA), capeggiata dal leader Khalq Nur Mohammad Taraki, viene accettata ufficialmente. Non è in realtà ben chiaro se e in che misura l'URSS partecipi alla caduta di Daoud: ciò che è certo è che con un nuovo partito al potere, diretto da amministratori di formazione marxista, i rapporti tra i due governi si fanno sempre più intensi. Almeno inizialmente, il nuovo governo aderisce pubblicamente all'Islam, apportando però elementi di riforma religiosa, ed emana un decreto promotore dello sviluppo della letteratura e dell'educazione nella lingua della propria tribù. Gli elementi di riforma religiosa (e non solo) innovativi vengono subito percepiti come tentativo di esautorazione dell'autorità religiosa. Il PDPA infatti, con l'appoggio sovietico, inizia a perseguire una serie di modernizzazioni in linea con le direttive dell'alleato, non molto gradite alla componente islamica: riforma del sistema scolastico, innovazioni riguardanti il tessuto sociale come la ridefinizione del ruolo
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della donna (decreto n°7 del 17 ottobre 1978), riforma agraria (decreto n° 8 del 28 novembre 1978), ma soprattutto la promozione dell'ateismo di stato. Le autorità tradizionali nelle tribù e nei villaggi non prendono atto delle novità con entusiasmo; l’influenza e il consenso di cui godono sono ancora forti, e ciò permette loro di organizzare un’opposizione che si fa subito violenta, dando vita a una sempre più diffusa rivolta integralista. Nel maggio del 1978, la prima forza di opposizione (composta dai mujaheddin sunniti Tanzim) con base a Peshawar, in Pakistan (luogo che assumerà una certa importanza nell'immaginario collettivo russo grazie ad alcune produzioni cinematografiche di cui si parlerà in seguito) manifesta con violenza la propria presenza. Il governo afghano si trova a fronteggiare un numero sempre maggiore di oppositori che manifestano il proprio dissenso a partire dalle zone rurali con azioni di guerriglia, ma anche nelle città. La jihad non viene dichiarata solo al governo: viene estesa anche ai sovietici, già visti da tempo come invasori e promotori di novità non gradite da parte della componente integralista. La scintilla esplode nel marzo del 1979, quando un gruppo di consiglieri sovietici viene ucciso a Herat da parte di un gruppo di mujaheddin, che sfidano apertamente gli alleati del regime dei “senza Dio”. Nell'estate del 1979, la posizione del governo di Kabul è talmente incerta da richiedere un diretto coinvolgimento dell'URSS. Contemporaneamente, violente lotte intestine scuotono l'apparato del PDPA: il 16 settembre del 1979, Amin e i suoi successori rovesciano il governo di Taraki, che viene assassinato il 6 ottobre. L'Unione Sovietica, temendo fortemente che i drammatici sviluppi a Kabul potessero ulteriormente compromettere e mettere a rischio la posizione di Mosca negli equilibri regionali, decide di intervenire: Amin, considerato dal Cremlino come parte del problema e responsabile della difficoltà di gestire la situazione politica (e colpevole di aver chiesto aiuti agli USA), è il primo obiettivo dell'intervento militare sovietico del 27 dicembre 1979. Dopo tre tentativi viene ucciso: il suo posto è preso da Karmal, gradito all'URSS, che diventa capo del governo comunista fantoccio sostenuto dall'esercito sovietico.
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1.4 L’intervento e le sue conseguenze Ufficialmente, la decisione di mandare truppe sovietiche in Afghanistan viene intrapresa dopo le ripetute richieste di aiuto della leadership del PDPA. Nei mesi precedenti all'invasione, tuttavia, il Politburo si dimostra in realtà molto cauto, e cerca di dissuadere il regime del PDPA dal portare avanti una condotta estremistica di riforme radicali che stavano provocando la rivolta organizzata dei mujaheddin. Per questo motivo, durante tutta la primavera e l'estate del 1979, l'unico aiuto materiale che l'Afghanistan riceve dall'URSS consiste in sostegni tecnici ed economici. L'effettiva decisione a favore dell'intervento, viene adottata in segreto10 da una piccola parte dei membri del Politburo, in particolare dalla trojka formata da Gromyko, Ustinov e Andropov, che a causa delle condizioni precarie di salute di Brežnev, esercitava un fortissimo controllo sulle decisioni di politica estera. In seguito alla delibera, all'interno del Politburo si alzano voci importanti: i marescialli Nikolaj Ogarkov e Sergej Achromeyev,11 in particolare, profetizzarono che il ridotto numero di militari che il Politburo intende inviare non riusciranno a prevalere sulla guerriglia organizzata contro l'esercito governativo. Anche Valentin Varennikov, incaricato con Ogarkov e Achromeyev di preparare il piano militare, cerca di avvisare Ustinov che mandare truppe regolari in un paese già ostaggio della guerra civile avrebbe comportato diversi pericoli. Anche Jurij Andropov, in particolare, risulta essere una figura chiave all'interno del processo decisionale effettivo: è attraverso Andropov, infatti, che passa il flusso di informazioni che dal KGB arrivavano a Brežnev. I report del KGB provenienti dall'Afghanistan durante tutto il 1979 facevano presagire una certa urgenza circa un intervento militare per via della possibilità, da parte di Amin, di rivolgersi agli USA in cerca d'appoggio. Gli atteggiamenti di Amin, effettivamente volti alla ricerca di un certo distacco dall'URSS, supportano i timori di un “gioco alla Sadat”12 da parte sua. Ciò avrebbe significato un danno irreparabile all'immagine di superpotenza dell'URSS, nonché la
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Cfr. A. Dobrynin, In Confidence: Moscow's Ambassador to Six Cold War Presidents, Washington D.C., University of Washington Press, 2001. 11 Cfr. R.L. Garthoff, Détente and Confrontation: American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, Washington D.C., The Brookings Institution, 1994. 12 R. D'Agata, Disfatta Mondiale, Motivi ed effetti della guerra fredda, Roma, Odradek, 2007 e O. Westad, “Concerning the Situation in “A”: New Russian Evidence on the Soviet Intervention in Afghanistan, Cold War International History Project, Bulletin 8/9, p. 130.
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perdita del potere di influenza su uno Stato di importanza vitale per i vari motivi citati nei precedenti paragrafi. Il 24 dicembre del 1979, dunque, in seguito all'approvazione ufficiale del premier Leonid Brežnev, inizia il primo dispiegamento di truppe sovietiche in territorio afghano, annunciato da un comunicato radiofonico trasmesso in URSS secondo cui l'intervento era dovuto alle richieste del governo afghano. L'intento iniziale, cioè quello di conquistare Kabul e controllare le principali vie di comunicazione, sembra essere immediato e velocemente realizzabile: in Afghanistan perciò, nonostante i disaccordi all'interno del Politburo, vengono inviate tre unità. L'attacco ha inizio esattamente alle undici di sera, da parte dell'unità aerea del 105esimo reggimento delle truppe aviotrasportate. Le unità aeree paralizzano la città, mentre colonne di soldati si avvicinano alla capitale. All'inizio, effettivamente, l'obiettivo iniziale sembra raggiunto: dopo poche ore infatti, diverse parti di Kabul sono sotto il controllo sovietico. Il 27 dicembre, i soldati sono già cinquemila; il 28 dicembre, Kabul è interamente sotto il controllo sovietico e Karmal diventa Presidente del paese e comandante delle forze armate della RDA. L'esercito sovietico si trova, alla fine del 1979, in tutte le città principali (per la maggior parte nella capitale), e in diversi punti strategici. I comandi operativi provengono da Termez (in URSS), ma le tre basi principali sovietiche vengono stabilite a Dasht-eKalagai, Bagram e Shindand. Sebbene i successi iniziali dell’operazione possano apparire incoraggianti per i sovietici, iniziano a manifestarsi violentissime azioni di guerriglia da parte delle forze islamiche. La guerriglia antigovernativa e antisovietica si presentava molto frammentata, e questo era per i sovietici un dato a favore. Erano tantissimi i gruppi etnici di cui facevano parte i mujaheddin: Uzbeki, Turkmeni, Tagiki e molte tribù minori. Anche dopo l'invasione sovietica, le loro ostilità reciproche resteranno poi così forti che spesso le etnie combatteranno tra loro. Tuttavia, riuscendo a mettere temporaneamente da parte le divisioni interne, in seguito all'invasione sovietica i nuclei di guerriglieri iniziarono a coalizzarsi contro il nemico. A dispetto di un vantaggio iniziale e delle previsioni riguardanti la fulmineità con cui l'intervento sarebbe stato portato avanti (lo stesso Brežnev affermava che l'invasione
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sarebbe stata velocissima13), dunque, già pochi giorni dopo l'invasione di Kabul i sovietici si trovano a dover combattere contro centinaia di gruppi di guerriglieri in tutto il paese. Per contrastare le forze dei mujaheddin, i sovietici iniziano a intraprendere una serie di operazioni offensive che contrastano con i presupposti iniziali, cioè la difesa dei civili dalle forze non governative. Durante le suddette operazioni offensive, i sovietici subiscono, scontro dopo scontro, pesantissime perdite. Sul piano puramente strategico, l'esercito sovietico non è in grado di contrastare la guerriglia, di cui non ha nessuna nozione o esperienza; i combattenti religiosi erano organizzati in unità mobili che si spostavano di zona in zona, e le truppe sovietiche, tra l'altro, non avevano nessun tipo di conoscenza su come contrastare tale tipo di organizzazione strategica su un territorio roccioso. I mujaheddin, d'altra parte, erano allenati al contrattacco del nemico sovietico: molti di loro infatti avevano prestato servizio in URSS. I ribelli organizzavano imboscate che erano vere e proprie trappole per i sovietici che non conoscevano il territorio a sufficienza; in più, gli alleati stranieri (Pakistan, Arabia Saudita, Egitto, con il sostegno e sotto l’impulso degli Stati Uniti) continuavano a fornire armi ai mujaheddin, riuscendo anche a impedire ai sovietici di utilizzare diverse importanti vie di comunicazione. Le operazioni programmate per catturare i ribelli erano spesso infruttuose poiché questi tendevano a ritirarsi sulle montagne e a ritornare ai loro villaggi solo quando i sovietici li abbandonavano. L'artiglieria russa inoltre non era adatta al territorio dell'Afghanistan, e le dotazioni militari erano spesso inutili o inefficaci. Per questo motivo, a partire dal 1980 venne portata avanti un'escalation in seguito alla quale il numero di soldati sovietici arrivò a essere, nel corso degli anni, di 100.000 unità, e alla fine del 1983, la presenza sovietica riguardava vastissime aree del paese. In termini numerici, l'occupazione dell'Afghanistan fu il più grande intervento dell'URSS dai tempi di Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968): 120.000 soldati sovietici furono impiegati nell'occupazione, 15.000 russi e più di un milione di afghani rimasero uccisi, più di cinque milioni di afghani diventarono rifugiati. Alla fine del decennio, comunque, il bilancio è disastroso: dopo quasi dieci anni l'URSS inizia a ritirarsi dall'Afghanistan, con un rientro graduale delle truppe a partire dal 1988 per arrivare a un ritiro completo il 15 febbraio del 1989. Nel frattempo in URSS 13
Dobrynin ricorda in prima persona le parole di Brežnev secondo cui in tre o quattro settimane tutto si sarebbe concluso: “It'll be over in three to four weeks, Brežnev told me with assurance early in January when I expressed to him my concern about our relations with the United States just before returning to my post”. A. Dobrynin, op. cit., p. 440.
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grandi cambiamenti erano in atto: Gorbačёv diventa, nel 1985, segretario generale del Partito Comunista. Gorbačёv in prima persona in una riunione del Politburo svoltasi il 17 ottobre del 1985, propone una “soluzione per l'Afghanistan”.14 Nel dicembre dello stesso anno il parlamento sovietico condanna l'invasione, dichiarando apertamente che la stessa era stata portata avanti solo da ristretto circolo di membri della vecchia leadership. Questo atto faceva parte del nuovo approccio che il governo sovietico iniziava ad adottare sia in politica interna che estera. Gorbačёv dichiara inoltre che l'impresa in Afghanistan era ormai una spesa impossibile da sostenere, nonché evento estremamente impopolare in tutta la società russa, che lentamente inizia a venire a conoscenza degli orrori della guerra attraverso una graduale presa di coscienza che, come si vedrà in seguito, influenzerà profondamente la società russa nei decenni successivi. L'invasione dell'Afghanistan ebbe certamente un grosso impatto non solo sulle dinamiche internazionali ma anche e soprattutto effetti interni sui paesi dell'URSS. L'impatto sulla società e le reazioni dell'opinione pubblica sono state ovviamente influenzate durante il corso degli anni dalla quantità e dalla qualità di informazioni a disposizione dei cittadini sovietici; dal 1979 al 1988 si assistette a un incremento dell'attenzione dedicata alla questione e soprattutto a un maggior numero di informazioni che riuscivano a filtrare attraverso le strette maglie che il governo cercava di stringere attorno all'opinione pubblica tramite la censura, motivo per cui, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, iniziarono a formarsi e manifestarsi internamente i primi episodi ufficiali di dissenso. Durante i primi anni di invasione, i media russi non offrivano una vera e copertura riguardo a ciò che succedeva in Afghanistan: le notizie, distorte all'occorrenza, arrivavano principalmente dai militari che tornavano a casa (e decidevano di rompere il silenzio a loro imposto dalle autorità sovietiche anche dopo il ritiro dalla vita militare) e attraverso i programmi radiofonici occidentali. Durante i primi due anni di invasione, la stampa sovietica non ammise mai apertamente il coinvolgimento dell'esercito sovietico e la presenza di soldati in Afghanistan: solo sporadicamente si parlava di “esercitazioni” che avvenivano in località montuose non meglio definite, durante le quali i soldati facevano una vita normale, menzionando l'Afghanistan molto raramente.
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I fatti accaduti il 17 ottobre del 1985 sono raccontati da Anatoly Dobrynin, il quale partecipò in prima persona alla riunione del Politburo che risultò fondamentale per quanto riguarda la conclusione dell'avventura sovietica in Afghanistan. A. Dobrynin, op.cit., p. 442.
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Solo dopo due anni venne ammessa la morte del primo soldato russo, e nel biennio 1982-1983 i media cominciarono lentamente ad ammettere un ruolo diverso delle truppe sovietiche, ma i dettagli delle missioni (luoghi, tempi e altre circostanze) non venivano mai forniti (e si faceva divieto ai militari di farne menzione nelle loro lettere a casa). Lentamente, tuttavia, anche lontano dal nucleo centrale inizia a formarsi il dissenso: nel 1982, in Tagikistan alcune persone furono arrestate con l'accusa di aver prodotto volantini contro la guerra. A Erevan, in Armenia, nel maggio del 1985, 200 persone si raccolsero spontaneamente per manifestare il proprio dissenso. Dunque, nonostante la quasi inesistente (nei primi anni) copertura mediatica, si sa per certo che, nel periodo immediatamente precedente al ritiro delle truppe (cioè a partire dal 1985), la guerra era diventata molto impopolare in tutta l'URSS (soprattutto nelle repubbliche i cui cittadini, in maggioranza, non erano di nazionalità russa). Nel 1985, il samisdzat della Cronaca della Chiesa Cattolica in Ucraina15 si scagliava contro il governo sovietico: tre attivisti cattolici spedirono una lettera a Ustinov, portando la voce degli ucraini che non volevano combattere una guerra ingiusta. Anche sui giornali si manifestarono segni di rivolta: nel 1986, sul Sobesednik (supplemento settimanale della Komsomol'skaja Pravda), iniziarono a comparire lettere secondo le quali i giovani sovietici stavano sviluppando sentimenti contrastanti a proposito della guerra, iniziando a chiedersi per quale motivo moltissimi militari erano stati mandati in una missione fallimentare sin dall'inizio. Anche sull'Ukraina Moloda, popolare quotidiano ucraino, iniziavano ad arrivare lettere da cui trasparivano molta preoccupazione e rabbia, soprattutto per il fatto che moltissimi giovani erano stati mandati a combattere una guerra “russa”, sanguinosa e inutile.16 Il più celebre episodio di dissenso rimasto nella memoria collettiva è quello del fisico Andrej Sacharov, premio Nobel per la pace e attivista in favore dei diritti civili. Nel 1980, in seguito alla pubblicazione su diversi giornali stranieri della sua famosa “lettera aperta sull'Afghanistan”, in cui manifestava la contrarietà nei confronti dell'invasione e denunciava gli orrori perpetrati dall'esercito sovietico, venne esiliato a Gor'kij. Secondo Sacharov, l'invasione in Afghanistan fu la manifestazione più acutamente negativa delle politiche sovietiche, che portò sofferenze inimmaginabili al popolo afghano, producendo milioni di rifugiati. Nella lettera che gli costò l'esilio, Sacharov si rivolse direttamente al
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N. Kamrany, Effects of Afghanistan War on Soviet Society and Policy, International Journal of Social Economics, Vol. 19, 1992, p. 137-139. 16 N. Kamrany, op. cit., p. 137.
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presidente Brežnev, chiamando l'invasione “un tragico errore” causa della morte di migliaia di civili afghani e soldati sovietici, e atto responsabile del declino della distensione che avrebbe cambiato gli equilibri politici del mondo intero. Dopo la caduta dell'Unione Sovietica ci fu un grosso incremento della copertura mediatica degli eventi, che come si vedrà, portò alla moltiplicazione su tutti i principali canali culturali di produzioni aventi come soggetto la rappresentazione (per la maggior parte in termini negativi o comunque critici) di ciò che l'invasione in Afghanistan aveva rappresentato per la società russa.
1.5. L’internazionalizzazione del conflitto: la “trappola” afghana Gli interessi degli USA nei confronti dell'Afghanistan non sono mai rimasti, nel corso della guerra fredda, sempre gli stessi: Washington infatti considerava il territorio afghano una zona non vitale per la propria politica estera. Durante gli anni Settanta, nonostante le continue richieste da parte del governo afghano, gli Stati Uniti non presero mai parte attivamente alle vicende riguardanti l'Afghanistan, ma la politica americana cambiò drasticamente dopo l'intervento sovietico. Di volta in volta Washington comunicava le proprie preoccupazioni a Mosca, ma la leadership sovietica non aveva intenzione di iniziare un dialogo poiché considerava l'Afghanistan un paese appartenente unicamente alla sfera del proprio interesse. Il 28 dicembre del 1979, Carter mandò un messaggio al Cremlino, chiedendo ufficialmente di ritirare le truppe e rinunciare all'invasione, e in una conferenza stampa tenutasi il giorno stesso, dichiarò che l'intervento sovietico era una grave minaccia per la pace, e poiché era una grossa interferenza negli affari interni dell'Afghanistan violava le norme internazionali. L'azione sovietica, secondo Carter, diventava quindi motivo di preoccupazione per tutta la comunità mondiale. Il 23 gennaio del 1980 il presidente americano enunciò la cosiddetta dottrina Carter, secondo la quale gli interessi vitali nella regione del Golfo Persico potevano essere difesi con la forza militare. Gli USA iniziarono ufficialmente a inviare aiuti al fronte afghano anti-governativo. Inoltre,
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l'amministrazione Carter prese una serie di contromisure17 per contrastare l'URSS che coinvolgevano tutto il blocco occidentale: tra queste, le più eclatanti furono l'embargo del grano (durato quasi sedici mesi, il quale comprendeva non solo grano ma moltissimi altri prodotti che l'URSS importava regolarmente dagli Stati Uniti), sanzioni economiche, un importante taglio alle concessioni di pesca in acque americane, l'embargo tecnologico (tramite il divieto di concedere licenze per le tecnologie americane agli utenti sovietici), la richiesta al Senato americano di posporre indefinitamente la ratifica del SALT II, e soprattutto a livello mediatico, il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980. Nel gennaio del 1980 infatti, Carter annunciò l'intenzione di boicottare le Olimpiadi estive che si sarebbero tenute nello stesso anno, decisione cui si allinearono altre 61 nazioni. Per l'amministrazione Carter, l'aggressione sovietica era importante per due motivi: da una parte era una minaccia all'equilibrio mondiale; dall'altra, però, era un'occasione per indebolire l'influenza sovietica in Asia centrale. In realtà gli USA, ancora sconvolti dall'esperienza in Vietnam, preferirono non intervenire direttamente, agendo attraverso la CIA e lasciando condurre la guerra all'ISI (cioè il Direttorato Interservizi dell'Intelligence Pakistano), che riceveva ingenti finanziamenti allo scopo: molti miliardi arrivarono dai contribuenti americani (durante le due amministrazioni Reagan) ma molti fondi venivano dai finanziamenti privati (tra cui quelli di Osama Bin Laden) e dalla Bank of Credit and Commerce International, nonché dal commercio di droga. In più, l'indiretto ma massiccio coinvolgimento in Afghanistan non fu una diretta causa dell'intervento sovietico. In realtà infatti, come lo stesso Brzezinski ammise in un'intervista al quotidiano francese Le Nouvel Observateur,18 gli USA iniziarono a spedire aiuti ai mujaheddin sei mesi prima dell'attacco sovietico, senza dichiarare ufficialmente che l'intento principale era una reazione sovietica che avrebbe trascinato l'URSS in un Vietnam, ma con la consapevolezza, per ammissione dello stesso Brzezinski, che ciò sarebbe molto probabilmente avvenuto. All'inizio degli anni Ottanta dunque, l'URSS affondò completamente nella “trappola afghana” (così la definì il Commissario per la sicurezza nazionale Brzezinski molti anni dopo19) e, anche per questo motivo, si avviò verso il declino che portò alla dissoluzione nel 1991. Nello stesso periodo, del resto, un insieme di cause sia interne 17
M.A. Borrough (Department of Army Civilian), A Historical Case Study of U.S. Strategy Towards Afghanistan, Strategy Research Project, U.S. Army War College, 2009. 18 Le Nouvel Observateur, Parigi, 21 gennaio 1998, p.76. 19 Ibid.
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che dipendenti dalla situazione internazionale contribuisce a creare un quadro complesso entro il quale l'URSS si trova incapace di reggere il peso delle pressioni provenienti sia dall'interno che dall'esterno dell'Unione, iniziando il processo che porterà il colosso, in una decade, alla disintegrazione. Come è noto, con la salita al potere di Gorbačёv nel 1985 e la sua nomina a segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, l'URSS inizia un processo di apertura verso il mondo esterno che paradossalmente la porterà al declino, compromettendo totalmente sia il campo economico che gli schemi sociali e politici. Il programma di Gorbačёv, la perestrojka, viene attuato inizialmente soprattutto in politica estera (non raggiungendo però gli stessi risultati a livello interno, in una società ormai minata da decenni di permissivismo e corruzione). La nuova URSS di Gorbačёv è caratterizzata da tre parole-chiave: perestrojka (ricostruzione), glasnost’ (trasparenza), novoe mišlenie (nuovo pensiero). Sia il concetto di glasnost’ che quello di novoe mišlenie hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo delle dinamiche interne all'URSS dal 1985 in poi, soprattutto in materia di politica estera. Gorbačёv, a metà degli anni Ottanta, eredita una situazione di avviato declino sociale ed economico che non può coesistere con l'impegnativa competizione con gli Stati Uniti. Il nuovo governo sovietico si impegna dunque ad attuare una nuova politica che non viene più definita di coesistenza, ma di cooperazione: testimonianza ne è la proposta di disarmo unilaterale presentata da Gorbačёv, e l'abbandono della Dottrina Brežnev, che si concretizza nel ritiro dall'Afghanistan nel 1988. Con l’abbandono della Dottrina Brežnev l’URSS rinuncia al diritto di ingerenza negli affari interni dei paesi membri del Patto di Varsavia. Anche per quanto riguarda l'Afghanistan, la condotta di Gorbačёv porta, nel corso degli anni, cambiamenti sensibili e importanti. La politica e l'approccio del nuovo segretario di partito nei confronti dell'Afghanistan è caratterizzata da due fasi. Nella prima fase, che va dalla sua proclamazione a segretario generale al 1986, si assiste alla prosecuzione delle politiche dei suoi predecessori. Prima di Gorbačёv infatti, per I leader sovietici la coesione del paese poteva essere mantenuta grazie all'esercito e alla forza militare, che funzionava da deterrente nei confronti delle spinte secessioniste delle repubbliche sovietiche. Tuttavia, Gorbačёv è consapevole che una decisione politica per riportare le truppe in URSS è urgente. Il 1986 diventa l'anno in cui la guerra cambia ufficialmente: Gorbačёv, nel 27° congresso del PCUS definisce l'Afghanistan come “una ferita sanguinante”, iniziando a suggerire pubblicamente per la prima volta la 22
propria volontà di porre fine all'invasione.20 Più tardi durante lo stesso anno, Shevardnadze (Ministro degli Esteri subentrato a Gromyko) lo definisce un “peccato”. I leader iniziano a prendere le distanze dalle responsabilità della politica interventista del 1979, addossando la colpa al regime che li aveva preceduti. Dal 1986 in poi, la politica nei riguardi dell'Afghanistan entra in una nuova fase che corre di pari passo con i nuovi concetti della perestrojka. Durante il 1986 è ormai chiaro che i mujaheddin riuscivano a prevalere quotidianamente sull'esercito sovietico, in ogni imboscata, grazie anche agli armamenti americani. Il numero di morti e feriti sovietici continua a crescere, così come cresce il numero di afgancy, i reduci di guerra, che fanno ritorno in Unione Sovietica e si uniscono in un'aspra protesta contro le condizioni disumane sopportate durante il servizio in Afghanistan. Gorbačёv, tuttavia, riesce a gestire la fine della guerra in Afghanistan, tentando anche una soluzione politica del conflitto. Nel maggio del 1986, infatti, Karmal viene sostituito alla presidenza del paese dal comandante Mohammad Nagibullah. La nuova presidenza viene calorosamente appoggiata da Mosca: Nagibullah riesce a tenere sotto controllo alcune aree del paese dialogando con i clan locali (e con l'etnia pashtun dominante nel paese, di cui faceva parte). Il governo sovietico inizia a organizzare il ritiro dell'esercito pur continuando a fornire aiuto al regime di Nagibullah permettendogli dunque di sopravvivere sino al colpo di stato di Kabul del 1992, riuscendo a far sembrare almeno in apparenza la sconfitta sovietica generale meno drammatica di quanto effettivamente fosse.21 Nel 1989, comunque, a un anno dal ritiro delle truppe sovietiche, è ormai chiaro che l'Unione non è più in grado di esercitare un controllo restrittivo sui paesi satelliti, forti delle rinnovate tendenze indipendentiste e uniti dalla volontà di preservare e rivendicare le proprie identità etniche e religiose. È in questo contesto che l'Afghanistan si inserisce come ulteriore fattore di crisi: la sconfitta subita, infatti, rappresenta per l'URSS un colpo fortissimo a livello di prestigio internazionale ma anche e soprattutto interno, nel momento più delicato degli anni della guerra fredda. Il colpo subito agisce sull'intero sistema sovietico: il fallimento, palese, cambia completamente la percezione dei leader sovietici sull'efficacia della forza militare come strumento di coesione di tutti i paesi sotto il controllo sovietico.
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A. Brown, The Gorbachev Factor, New York, Oxford University Press, 1996, p. 221. O. Westad, “Concerning the situation in “A”: New Russian Evidence on the Soviet Intervention in Afghanistan”, Cold War International History Project, Bulletin 8/9, pag. 132. 21
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A questo si aggiunge la nuova negativa immagine dell'Armata Rossa. In URSS le forze armate erano un fattore molto importante di stabilità e di coesione interna: per via del suo eroico ruolo nel secondo conflitto mondiale, l'Armata Rossa era cioè un'istituzione che contribuiva in modo determinate, quasi quanto lo stesso PCUS, a rappresentare il concetto stesso di Unione Sovietica, cioè un'entità eterogenea formata da tante nazionalità a difesa del comunismo. Sconfitta e delegittimata, dopo la disfatta afghana l'Armata Rossa diventa simbolo di degrado morale, causato dai comportamenti dei soldati sovietici (violenza ingiustificata, corruzione, atti moralmente condannabili) e per questo non più in grado di rappresentare uno strumento di unità. L'URSS infatti, come già detto, aveva al suo interno diverse nazionalità e religioni: la guerra in Afghanistan venne percepita con risentimento poiché l'oppressione del popolo afghano presentava molte similitudini con l'oppressione da parte di Mosca delle repubbliche sovietiche di nazionalità non russa, che erano state costrette a mandare i propri cittadini a combattere una guerra vera e propria, incoraggiando in tal modo la ricerca dell'indipendenza e fortificando il fronte comune contro il regime. D’altra parte, la stessa “ricostruzione” (perestrojka) di Gorbačёv provvede a sua volta a fornire una nuova visione della società sovietica, una società demilitarizzata non più basata sull'esercito, che cessa di essere una forza invincibile, la cui debolezza acquisisce dimensione pubblica. Ma anche il concetto di glasnost’ rientra nella sfera dei cambiamenti postAfghanistan. Durante gli anni dell'invasione infatti, si assiste a una sorta di “anticipazione” di ciò che la trasparenza avrebbe comportato. I media ufficiali infatti, iniziano a mostrare una certa indipendenza passando attraverso diverse fasi di cambiamento. La prima fase, quella del biennio '79-'80, era caratterizzata da un fortissimo controllo da parte della censura. L'informazione era pilotata, e secondo la versione ufficiale l'esercito conduceva vaghe azioni di “supporto”. I soldati morti venivano portati a casa in bare anonime, e non veniva data nessuna notizia relativa ai decessi. Dal 1981 al 1985, I media entrano in una nuova fase: vengono pubblicati I primi servizi d’informazione sulla guerra, anche se non ancora critici rispetto alle direttive ufficiali. Nel 1984 I primi afgancy rompono il silenzio imposto dal governo, e dal 1985 in poi, la nuova tendenza alla trasparenza fa sì che informazioni non ufficiali, le testimonianze dirette e i movimenti di protesta trovino spazio sui giornali, iniziando una campagna che mette sotto accusa i leader politici responsabili della tragedia afghana. 24
In conclusione, sia dal punto di vista sociale che politico la guerra in Afghanistan fu responsabile di molti e importanti cambiamenti. L'abbandono della Dottrina BreŞnev e la consapevolezza di non riuscire a sopportare neanche economicamente il peso delle politiche espansioniste portate avanti in funzione della competizione con gli Stati Uniti, comportarono una rapida manovra di disimpegno in politica estera, che causò il crollo dei regimi comunisti del blocco sovietico e accelerò, indirettamente, il collasso dell'URSS.
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Capitolo 2
Ricostruzioni della guerra nella Russia post-sovietica
2.1 Analisi dei motivi dell'invasione Nella Russia post-sovietica, gli studi sulla guerra in Afghanistan si distinguono tra loro per intonazione, metodo e intendimenti. Si tratta cioè libri e articoli dai caratteri diversi: memorie, ricerche storiche, studi militari, collezioni di documenti, narrativa e lavori artistici. Gli autori svolgono generalmente diverse professioni: sono accademici, storici, critici, e militari; molti di loro però, condividono, a vario titolo, l'esperienza diretta dell'invasione in Afghanistan.22 In effetti, il termine “invasione” non è dato per ovvio. In molte ricostruzioni il ruolo autonomo del governo di Kabul nel richiedere l’intervento (ossia l’”assistenza militare”) dell’Unione Sovietica è fortemente sottolineato (analogamente a quanto accade da parte della storiografia internazionale analiticamente più attenta, come già è stato osservato nel primo capitolo). Gli storiografi russi indicano come cause dell'intervento in Afghanistan questioni generalmente note e condivise, concordando nel determinare un insieme complesso di motivi non slegati tra loro: la protezione di interessi strategici e dei confini meridionali dell'Unione Sovietica, la ricerca di prestigio internazionale, e la volontà di preservare i rapporti col regime amico di Kabul attuando una serie di misure atte a garantire la stabilità del paese in seguito alla richiesta di intervento da parte dello stesso governo afghano.23 Tra i temi controversi, che sono stati poi variamente interpretati, spicca la tendenza della pubblicistica internazionale dell’epoca, e anche del periodo successivo, a definire l’intervento in Afghanistan come un tentativo (fallito) di sovietizzazione. La
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Cfr. V.S. Christoforov, Trudny Put' K Zhenevskim Soglasheniam po Afganistanu, Novaia i Noveishaia Istoriia 5, 2008. 23 Cfr. V.S. Christoforov, op.cit., (2009), Ljachovskij A.A., Inside the Soviet Invasion of Afghanistan and the Seizure of Kabul, December 1979, CWIHP, Working Paper #51, 2007.
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storiografia russa post-sovietica non accetta generalmente questa visione, seguendo piuttosto un approccio “realista” che mette soprattutto in evidenza, tra le motivazioni dei leader sovietici, quella di scongiurare la crisi in atto nel paese e rafforzare il governo di Kabul, la cui base sociale era sempre più ristretta e ostile.24 L'attribuzione di un esperimento
di
sovietizzazione
può
essere
conseguenza
dell'interpretazione
dell'invasione come tentativo da parte dell'URSS di espansione e accrescimento del proprio prestigio, e di replica degli interventi di successo in Angola ed Etiopia; alcuni specialisti riportano la convinzione di alcuni membri del Politburo secondo cui l'invasione in Afghanistan fosse una prosecuzione logica degli interventi nel Terzo Mondo.25 Alla luce dei successi in Africa, la questione avrebbe potuto portare la leadership sovietica a pensare positivamente a un intervento simile; è tuttavia necessario ricordare che il governo sovietico non puntava tanto a un'esportazione dell'ideologia marxista-leninista quanto piuttosto al rafforzamento del governo afghano e all'intensificazione dei rapporti tra il regime rivoluzionario-democratico e l'Unione Sovietica, che avrebbe permesso innanzitutto un incremento dell'influenza di Mosca sulla zona, considerata strategicamente importante, ma che avrebbe anche comportato un rafforzamento sia del prestigio dell'URSS in occidente che della propria posizione di leader del blocco orientale. Tra gli studiosi russi dunque, la teoria della sovietizzazione come obiettivo dell'intervento sovietico non trova spazio. Un'opinione condivisa, al contrario, è che la decisione sia stata presa in seguito al riconoscimento del fatto che una crisi dell'Afghanistan su larga scala avrebbe danneggiato inevitabilmente anche l'Unione Sovietica; per questo motivo, era necessario rispondere alla richiesta di aiuto da parte del regime amico e salvare l'equilibrio del paese.26 Per riuscire in quest'intento, era inevitabile che la RDA fosse sostenuta da un regime stabile e in grado di reggere contro gli attacchi e le ingerenze provenienti dall'esterno. È per prevenire la possibilità del verificarsi di quest'ultima situazione che gli studiosi introducono un altro fondamentale motivo per il quale la leadership sovietica iniziò a considerare l'inevitabilità dell'intervento: la stabilizzazione politica del paese.
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Cfr. A. Kalinovsky, The Blind Leading the Bling: Soviet Advisors, Counter-Insurgency and Nation-Building in Afghanistan, CWIHP, Working Paper #60, 2010. 25 Cfr. A. Kalinovsky, A Long Goodbye: The Soviet Withdrawal from Afghanistan, Harvard University Press, 2011. 26 Cfr. V.S. Christoforov, op.cit., (2009).
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A questo scopo, il governo sovietico decise di utilizzare il nation building (mezzo già utilizzato dalle superpotenze durante la guerra fredda, in particolare dagli USA in Vietnam), come strumento principale di stabilizzazione affiancandolo all'invio di truppe militari e soprattutto di un grande numero di consiglieri sovietici impegnati nelle attività di ricostruzione e consiglio del governo afghano. Gli studiosi riscontrano nella situazione afghana del tempo le condizioni del paese ospite che giustificarono un'azione di nation building: carenza di infrastrutture, minaccia alla sicurezza, sistema educativo carente e problemi di burocrazia, cioè tutte le situazioni che potevano lasciare spazio a penetrazioni esterne e, nel caso dell'Afghanistan, indebolivano il governo facilitando gli attacchi da parte degli insorti.27 Proprio la presenza di consiglieri sovietici impegnati in azioni di nation building ha portato alcuni osservatori ad avanzare le ipotesi di sovietizzazione già citate. Effettivamente, la questione potrebbe assumere i contorni di un “tentativo di socialismo” per due motivi: innanzitutto, gli stessi leader del PDPA si consideravano rivoluzionari marxisti; in più, i consiglieri mandati da Mosca, per via della loro formazione e del loro approccio ideologico, influenzavano di conseguenza l'intero lavoro di nation building portato avanti in Afghanistan.28 Tuttavia, come precedentemente accennato, gli studiosi russi considerano questa interpretazione non adeguata ribadendo quale effettivamente fosse la preoccupazione maggiore del governo sovietico dell'epoca, cioè la protezione di una zona considerata di importanza vitale. Era inevitabile a questo fine rendere l'Afghanistan un paese stabile, amico, e capace di agire concordemente ai rapporti di amicizia che da molto tempo lo legavano all'Unione Sovietica. Ciò che preoccupava maggiormente l'URSS, al tempo, era la possibilità che l'Afghanistan rivolgesse le proprie attenzioni verso gli Stati Uniti. Per evitare che ciò succedesse, era inevitabile rafforzare il regime di Kabul (anche attraverso il sostegno economico), aiutando il governo afghano a ottenere una più vasta legittimazione e largo riconoscimento internazionale,29 cosa che avrebbe comportato di riflesso, secondo la leadership sovietica, un certo incremento del prestigio dell'URSS. Proprio la ricerca di prestigio e la conquista di una posizione internazionale è un altro dei motivi che vengono spesso citati; la leadership sovietica infatti condivideva il pensiero secondo cui un fallimento del governo afghano filo-comunista avrebbe danneggiato l'URSS, la sua 27
Cfr. A. Kalinovsky, op.cit., (2010). Ibid. 29 Cfr. A. Kalinovsky, Decision-Making and the Soviet War in Afghanistan. From Intervention to Withdrawal, Journal of Cold War Studies, Vol. 11., 2009. 28
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posizione internazionale e l'autorità come leader del movimento. È importante sottolineare, tuttavia, che la difesa del prestigio non era vista come necessariamente contrastante con l’esigenza di fare passi avanti nel processo di distensione: Brežnev e soprattutto Gromyko erano, come confermato dalle fonti analizzate, molto attivi in questa direzione. Ma d’altra parte proprio in quella fase la distensione aveva subito un grave moto di arresto con il rinvio indeterminato della ratifica del SALT II da parte del congresso americano. In una tale situazione, la “perdita dell'Afghanistan” sarebbe stata motivo di imbarazzo per l'immagine della superpotenza sovietica e sarebbe stata percepita come una sconfitta nel contesto dell'equilibrio mondiale già compromesso e in bilico.30 Un altro problema di vitale importanza era la questione della protezione dei confini meridionali. La questione dei confini assume senso soprattutto in seguito agli avvenimenti accaduti alla fine degli anni Settanta: anche per via dei tentativi da parte dell'URSS di espandere la propria influenza, infatti, ci fu un veloce deterioramento non soltanto dei rapporti con le potenze occidentali, ma anche con i loro alleati nel Terzo Mondo che ormai includevano un arco medio-orientale che andava dall’Egitto al Pakistan passando per l’Arabia Saudita. In tali condizioni, i leader sovietici consideravano molto importante l'idea di avere un alleato fidato ai confini meridionali legato all'URSS da vincoli di tipo ideologico, anche in vista di temuti pericoli di infiltrazioni proprio sul terreno dell’ideologia: in effetti, in quel periodo, le diverse forme di islamismo politico diventavano strumenti di esercizio ed espansione del potere, come appariva evidente nel caso del Pakistan.31 La necessità di inviare un contingente armato sembrava dunque, secondo i motivi invocati dalla troika Gromyko-Andropov-Ustinov nel dicembre del 1979, inevitabile.32 La troika agì in quest’occasione uniformemente, nonostante le decise contrapposizioni interne alle leadership, la cui posizione risultava tutt’altro che omogenea: i duri colpi subiti nel 1973 prima, e gli accordi di Camp David poi, spinsero anche i più convinti fautori di una politica prudente (tra cui Gromyko e Andropov, decisi oppositori dell’intervento) a unirsi alla corrente interventista nel convincere Brežnev, anche per evitare, nell’imminente fase di successione al leader, di fornire ai 30
A. Kalinovsky, op.cit. (2009), p. 5. Cfr. V.S. Christoforov, op.cit. (2009), A.A. Ljachovskij, op.cit. (2007). 32 V.M. Zubok, A Failed Empire: The Soviet Union in the Cold War from Stalin to Gorbachev, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2007, in A. Kalinovsky, op.cit. (2009). 31
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competitori possibili motivi di accusa circa le conseguenze di una politica passiva nei confronti del Terzo Mondo. I tre punti invocati dalla troika per spingere Brežnev alla decisione riassumono perché la situazione della zona fosse una minaccia per l'URSS: le questioni relative al SALT II, la cui ratifica venne negata dal congresso degli USA nell'estate del 1979, quindi un blocco della distensione; la decisione di localizzare alcuni missili Pershing II in Europa; l'assassinio di Taraki, punto fondamentale che convinse Brežnev della necessità di rimuovere Amin, sospettato di essere in stretti rapporti con l'Occidente33. La questione di Amin giocò un ruolo effettivamente importante negli eventi che portarono i sovietici a intervenire: dopo la salita al potere di Amin nel settembre del 1979, la situazione della RDA si deteriorava velocemente. Il regime infatti perdeva rapidamente la propria autorità, non potendo più contare su una base sociale ampia a sostegno del governo. La leadership sovietica era dell'opinione che Amin sarebbe presto stato rovesciato, e si presumeva che l'ascesa al potere dell'opposizione fosse inevitabile e si sarebbe verificata in pochi mesi. Immediatamente iniziarono a emergere dettagli e informazioni circa la vicinanza e i contatti tra Amin e gli Stati Uniti. La situazione portò alla riduzione del sostegno al regime da parte della popolazione, che contemporaneamente iniziava ad appoggiare l'opposizione, e causò l'intensificazione del flusso di rifugiati che si recavano in Iran e in Pakistan. La questione di Amin ebbe, secondo l'analisi di Ljachovskij, un ruolo importante; il governo sovietico recepì in modo estremamente negativo l'uccisione di Taraki, garante della cui sicurezza era stato Brežnev in persona.34 All'inizio del dicembre 1979, Andropov scrisse a Brežnev una lettera che definiva la situazione afghana estremamente critica e proponeva dunque alcuni passi verso la difesa degli interessi sovietici.35 Nello stesso tempo iniziarono a circolare notizie su una presunta attività segreta di Amin in relazione con la CIA, fornendo ulteriori argomenti al timore che questi potesse rivolgersi agli Stati Uniti.36 L'assassinio di Taraki viene considerato universalmente un'aggravante della situazione generale. Questo atto infatti indispettì ulteriormente i dirigenti sovietici (e Brežnev in particolare, il quale pochi mesi prima aveva espresso il proprio impegno nei confronti di Taraki) cui pure lo stesso Amin si rivolgeva chiedendo aiuto. Oltre alle voci su Amin, iniziò a concretizzarsi la minaccia da parte del Pakistan e dell'Iran attraverso la penetrazione di 33
Ibid. Ibid. 35 CWIHP Bulletin 8/9, p. 57 36 Cfr. A.A. Ljachovskij, op.cit. (2007). 34
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estremisti islamici nelle repubbliche sovietiche asiatiche. A ciò si aggiungeva la già citata intenzione da parte degli USA di piazzare dei missili in Afghanistan se forze occidentali fossero riuscite a conquistare il potere nella zona, e su questo pericolo Andropov e Ustinov fecero una decisa pressione, osservando come non si trattasse di un pericolo che le forze afghane, da sole, potevano riuscire a fermare. In seguito a questa serie di fattori dunque, Brežnev diede il proprio assenso all'intervento. Tra i motivi dell'intervento, viene citata da Ljachovskij, in accordo con Evgenij Čazov, la situazione interna del Politburo sovietico, che insieme alle condizioni di salute di Brežnev giocò un ruolo importantissimo nei meccanismi decisionali del periodo soprattutto in relazione alle lotte intestine per la successione. Čazov, inoltre, getta nuova luce sulla convinzione generale che solo la troika fosse pienamente consapevole e responsabile degli eventi afghani;37 sostiene infatti che in realtà tutti i membri della leadership e del comitato centrale fossero costantemente informati sulla situazione in Afghanistan.38 Oltre alle questioni interne al Cremlino è tuttavia opinione comune che la delicata situazione interna della RDA rendesse la zona un facile obiettivo di influssi esterni e delle forze ostili al regime del PDPA, sostenute principalmente da USA, Pakistan e diversi paesi arabi. La questione dell'interferenza esterna era strettamente legata a una serie di condizioni geopolitiche che portarono la situazione nell'area a diventare pericolosamente tesa: è necessario infatti ricordare che le circostanze strategiche del Vicino e Medio Oriente non pendevano a favore dei sovietici. Nel marzo del 1979 era stato firmato il trattato di pace tra Israele ed Egitto, ma la questione che inquietava maggiormente i sovietici era lo scoppio della rivoluzione islamica iraniana. Alla luce di questi fattori dunque, secondo l'alta leadership sovietica era indispensabile avviare delle azioni che potessero evitare il verificarsi degli eventi temuti. Anche nell'incontro dell'8 dicembre, a cui parteciparono la troika e Suslov, è possibile rintracciare le maggiori preoccupazioni del governo sovietico: in una discussione sui pro e i contro di un possibile dispiegamento di forze militari, Andropov e Ustinov citarono ancora una volta la minaccia dei confini meridionali e il pericolo di lasciare scoperti, a causa della mancanza di un sistema di difesa aereo, molti possibili obiettivi di missili eventualmente posizionati nella RDA, menzionando inoltre l'uso 37
Cfr. A. Kalinovsky, op.cit. (2009), S.V. Christoforov, op.cit. (2009), A. Kalinovsky, op.cit.
(2010). 38
E. Čazov, Zdorov’ye i Vlast: Vospominaniya Kremlevskogo Vracha, “Novosti” Publishing House, 1992, in A.A. Ljachovskij, op.cit. (2007), p. 21.
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dell'uranio afghano depositato in Pakistan e Iran per la creazione di armi nucleari e le vicende politiche che avrebbero potuto portare al governo l'opposizione. In aggiunta al precario equilibrio della RDA, anche la situazione in varie parti del mondo era estremamente tesa. Sul confine meridionale dell'URSS, la già citata rivoluzione iraniana preoccupava i sovietici per due ragioni: la diminuzione dell'influenza nell'area, che avrebbe comportato un ulteriore diminuzione dell'influenza sull'intero Afghanistan, e il fatto che la rivoluzione contro lo scià e il nuovo regime islamico avrebbe costretto gli americani a cercare nuove collocazioni per le basi militari. Inoltre, il massiccio aiuto dato ai ribelli afghani e i rinforzi americani nelle zone di confine con l'Unione Sovietica misero il governo in allerta. Anche la questione iraniana viene dunque annoverata nella serie di motivazioni che spinsero la leadership verso l'intervento: il rovesciamento di un regime amico agli USA in Iran, nonostante i pericoli riguardanti l'installazione di basi americane, diffuse idee euforiche tra i politici del Cremlino circa la possibilità di un'influenza nel Medio Oriente, per rafforzare la propria posizione in fretta e senza particolare sforzo. Sempre per quanto riguarda il fascio di motivazioni geopolitiche, l'URSS si preoccupava anche di un ulteriore avvicinamento tra USA e Cina, che si sarebbe potuto rivolgere contro il nemico comune: tra Cina e USA infatti vennero conclusi accordi riguardanti scambi di visite a livello diplomatico cui seguì la riduzione delle truppe americane a Taiwan. La posizione dell'URSS era inoltre complicata da altri eventi: il crescente supporto cinese verso gli sforzi americani di pace nel vicino oriente, lo sviluppo di un canale comunicativo segreto con Israele, il supporto americano nell'incoraggiamento delle relazioni tra Arabia Saudita e Cina e il trasferimento di tecnologie americane in Cina. In più, la minaccia principale era rappresentata dalla cooperazione più stretta con la Cina su questioni relative all'Afghanistan e agli aiuti militari per il Pakistan.39 L'Unione Sovietica dunque, decise di intervenire in una situazione di completo isolamento internazionale in cui la perdita della RDA sarebbe potuta essere fatale.
39
Cfr. A.A. Ljachovskij, op.cit. (2007).
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2.2 Analisi delle conseguenze internazionali L'invasione sovietica in Afghanistan creò una serie di conseguenze internazionali che contribuirono a peggiorare la crisi del processo di distensione alla fine degli anni Settanta. In quella fase l’URSS, si trovò ad affrontare non soltanto una situazione di crescente tensione internazionale nei rapporti con le superpotenze rivali (in particolare USA e Cina) ma anche il crescente malcontento dei movimenti comunisti occidentali. Nella storiografia russa sul tema dell’intervento in Afghanistan, viene generalmente riconosciuto il grosso danno subito dall'Unione Sovietica per quanto riguarda il prestigio interno del suo regime, ma soprattutto il suo prestigio internazionale. La perdita di popolarità dovuta all'intervento in Afghanistan andò oltretutto a sommarsi a quella dovuta al comportamento sotto molti aspetti deludente del regime sovietico quanto all’attuazione degli accordi di Helsinki firmati da trentacinque stati, tra cui l'URSS, nel 1975 (in particolare in tema di libertà di espressione e di libera circolazione delle idee). Gli accordi di Helsinki avevano rappresentato un grosso passo avanti nel processo di distensione tra i due blocchi della guerra fredda; la violazione di questi accordi, dunque, condizionò e peggiorò inevitabilmente tutto il complesso dei rapporti tra le due superpotenze, compromettendo la situazione internazionale e portando la crisi della distensione a livelli di tensione elevati che non si verificavano da molti anni.40 La critica dell'invasione era largamente diffusa: all'assemblea delle Nazioni Unite, il 14 gennaio del 1980, essa fu condannata da 108 paesi (dunque da una larga maggioranza dei paesi membri), i quali avanzarono la richiesta di un immediato ritiro delle truppe dall'Afghanistan.41 Nel periodo immediatamente successivo, iniziò la presa di coscienza da parte della leadership sovietica circa l'andamento e il futuro della guerra: secondo Kalinovsky, già dal gennaio del 1980 il governo sovietico percepì i molti segnali che testimoniavano un andamento del conflitto contrario alle aspettative, tra cui l'innalzamento del livello di tensione nelle relazioni con gli Stati Uniti, altri paesi occidentali, e il mondo musulmano.42
40
Cfr. A. Kalinovsky, op.cit. (2010). Cfr. V.S. Christoforov, op.cit. (2009). 42 Cfr. A. Kalinovsky, op.cit. (2010). 41
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Come è noto, gli Stati Uniti adottarono immediatamente azioni di condanna e misure volte all'isolamento internazionale dell'Unione Sovietica. Tuttavia gli studiosi russi raramente mancano di sottolineare come non furono solo i rapporti con gli USA a essere pesantemente compromessi in seguito all'invasione, L'URSS, infatti, si trovò ad affrontare la totale condanna da parte della terza superpotenza, la Cina. In effetti, del resto, i rapporti sempre più stretti tra Pechino e Washington avevano costituito un forte motivo di preoccupazione per i dirigenti sovietici nei mesi precedenti al conflitto, e gli stessi studiosi generalmente tendono ad annoverare proprio una tale preoccupazione tra i motivi per i quali l'URSS considerò la difesa della propria posizione in Afghanistan importanza talmente vitale da giustificarne l'invasione.43 Non solo dunque gli sviluppi dei rapporti tra Cina e USA furono importanti in quanto causa, ma anche come conseguenza del volgersi degli eventi in Afghanistan. L'invasione infatti ebbe peso particolare sull'esito dei negoziati avviati per la normalizzazione delle relazioni tra la potenza orientale e l'URSS, iniziati il 27 settembre del 1979. In seguito all'invasione sovietica, la Cina sospese i lavori considerando l'evento una minaccia di portata mondiale, e si impegnò per sviluppare ulteriormente i rapporti con gli USA verso la costruzione di un fronte anti-sovietico. Ma, come accennato, non solo i rapporti con le maggiori potenze vennero compromessi: Anche gli effetti dell’invasione sui rapporti dell’URSS con altri e sempre più determinanti soggetti della politica internazionale sono oggetto di attenta riflessione da parte degli storici russi, e ciò riguarda in modo particolare le relazioni con l’insieme complesso del mondo islamico. All'inizio del 1980, immediatamente dopo l'invasione, l'organizzazione della conferenza islamica adottò un piano per risolvere il problema afghano, proponendo di creare una forza islamica coesa per mantenere l'ordine in Afghanistan. L'obiettivo era il ritiro delle truppe sovietiche e loro sostituzione da parte di forze islamiche composte dagli eserciti di Iran, Pakistan e Arabia Saudita.44 I risvolti inaspettati dell'invasione furono presto recepiti come materia urgente dai dirigenti sovietici, la cui percezione della situazione in termini di conseguenze internazionali fu raggiunta molto in fretta.45 Le trascrizioni delle discussioni in seno agli organi dirigenti del partito comunista e dello Stato sovietico sono state ampiamente utilizzate per illustrare ciò: in particolare, la trascrizione di un incontro del Politburo
43
A.A. Ljachovskij, op.cit. (2007), p. 26. Cfr. V.S. Christoforov, op.cit. (2009). 45 Cfr. A. Kalinovsky, op.cit. (2010). 44
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svoltosi già il 17 gennaio 1980, da cui emergono diversi elementi. Emblematica è la posizione di Gromyko, secondo cui la situazione internazionale attorno all'Afghanistan virava innegabilmente verso risvolti negativi. Ma per quanto riguarda l'ostilità dei paesi occidentali verso l'URSS, Gromyko riportò l'esistenza di una non completa unione di visioni all'interno degli USA e della NATO stessa, all'interno della quale non esisteva un'opinione condivisa circa le misure da intraprendere contro l'Unione Sovietica. Oltre a questo, Gromyko riportò anche la volontà di molti paesi occidentali (tra cui l'Italia) di non seguire le misure sanzionatorie messe in atto dagli americani. A questo proposito, tuttavia, altrove la storiografia russa enfatizza il disaccordo di alcuni movimenti comunisti occidentali nei confronti delle decisioni intraprese dal Cremlino.46 Infatti, non solo i governi occidentali ostili all'URSS presero posizione contro l'invasione ma anche una parte degli altri movimenti comunisti europei, elemento molto importante per quanto riguarda il menzionato timore di una perdita di prestigio dell'URSS nella propria sfera di influenza. In Spagna, i comunisti considerarono l'intervento come un'intrusione negli affari interni di un paese terzo; i rappresentanti del partito comunista della Gran Bretagna reagirono con obiezioni simili. Anche i comunisti italiani, noti per le loro tendenze internazionaliste, rifiutarono di considerare il regime afghano come il prodotto di una rivoluzione che meritasse di essere difesa, e in ogni caso domandarono il ritiro immediato delle truppe.47 Nella storiografia russa il problema dei rapporti tra partiti a livello internazionale è attentamente considerato. Viene dato rilievo, in particolare, agli sforzi fatti dai nuovi dirigenti del PDPA, saliti al potere dopo l’intervento sovietico, per sostenere le proprie ragioni (e quelle dell’intervento) con argomenti complessi: per esempio notando come il PDPA mandò nel tardo gennaio del 1980 un documento ai partiti comunisti dell'Europa occidentale trattando gli sviluppi in Afghanistan e gli sforzi del comitato centrale verso una nuova leadership la cui responsabilità era quella di eliminare le conseguenze della politica di Amin.48 Simili tentativi di chiarimento e simili tentativi di rettifica esprimevano un certo grado di consapevolezza, entro la classe dirigente sovietica, circa i pericoli di isolamento internazionale comportati dagli eventi che si verificavano in Afghanistan e attorno all'Afghanistan. Ciò li portò a considerare da subito la possibilità di nuovi sviluppi circa la risoluzione della crisi, cercando delle opportunità di ritirare le truppe
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Cfr. V.S. Christoforov, op.cit., (2009). Ibid. 48 Archivi del comitato centrale del PDPA (1980) in V.S. Christoforov, op.cit. (2009), p.26. 47
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che non danneggiassero ulteriormente l'immagine dell'URSS nell'arena internazionale e considerando la prospettiva di una soluzione politica di stabilizzazione del paese intrapresa di concerto con gli altri paesi coinvolti nella situazione afghana. Le nuove concezioni di politica estera introdotte dopo l’ascesa di Gorbačev alla guida del PCUS diedero naturalmente maggiore impulso e maggiore coerenza a questi sforzi, e risultati diplomatici, infine, non sarebbero mancati.
2.3 La conduzione politica dell'intervento e i tentativi di stabilizzazione Durante i primi mesi del 1980, a poche settimane dall'entrata delle truppe sovietiche in Afghanistan, iniziò a concretizzarsi l'ipotesi formulata da parte della componente militare del Politburo secondo la quale una soluzione militare del conflitto non sarebbe stata possibile. La conduzione militare dell'intervento si rivelò presto inefficace: il governo di Karmal infatti continuava a essere ostaggio dei dissidi interni alla leadership afghana; contemporaneamente i combattimenti tra le etnie che popolavano il paese si inasprivano, rendendo l’Afghanistan pericolosamente instabile. Nonostante la decisione di inviare truppe oltreconfine non avesse incontrato (almeno durante i primi mesi) aperta ostilità da parte dei membri del Politburo, già nel mese di giugno del 1980 alcuni dirigenti e figure di spicco del mondo accademico sovietico iniziarono a esprimere le proprie considerazioni negative sulla decisione di inviare truppe e sulla conduzione dell’intervento, rendendole note alla leadership sovietica e allo stesso Brežnev. Anche negli ambienti militari iniziava a crescere il dissenso, non solo all’interno della componente che da principio aveva espresso perplessità e dubbi su una vittoria militare da perseguire con un così ridotto contingente a disposizione, ma anche nel circolo di personalità che avevano combattuto in Afghanistan e portavano dunque in Unione Sovietica testimonianze basate su osservazioni personali circa la situazione del governo afghano, che si dimostrava debole costituendo un pericolo non solo per il paese ma anche, di conseguenza, per gli interessi sovietici. Secondo gli storici russi, la responsabilità di tale situazione è da attribuire alla conduzione militare sovietica (la cui fallibilità per via di tattiche e strategie inefficaci verrà trattata nel capitolo successivo)
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ma anche alla politica realizzata, come accennato, tramite azioni di nation building portate avanti dai numerosi consiglieri sovietici inviati in Afghanistan già da prima del dicembre del 1979, il cui ruolo era quello di “istruire” la leadership afghana e renderla stabile al proprio interno affinché fosse in grado di difendere il paese da minacce esterne. È tuttavia opinione condivisa che i consiglieri, svolgendo effettivamente il lavoro della leadership afghana piuttosto che costruire una nuova classe dirigente capace, provocassero alla stessa un danno maggiore, impedendo ai politici di sviluppare una capacità decisionale autonoma che potesse contribuire alla costruzione di un sistema politico stabile.49 A pochi mesi di distanza dall’ingresso dell’esercito sovietico in Afghanistan, dunque, secondo gli storici russi parte del Politburo iniziava a considerare l’ipotesi del ritiro del contingente, soluzione sempre però subordinata alla condizione che l’URSS impose, negli anni successivi, durante i lavori degli accordi di Ginevra; tale condizione viene esplicitata nel corso di una conversazione del Politburo svoltasi nel febbraio del 1980, durante la quale Gromyko menzionò la possibilità di lasciare l'Afghanistan ma solo in seguito al raggiungimento di condizioni di stabilità e sicurezza, poiché non esistevano certezze riguardo alla fine delle interferenze da parte dei paesi vicini.50 Ma come accennato, l'ipotesi di un ritiro veniva proposta già da molti all'interno del Politburo (e, in modo sempre più diffuso, negli ambienti internazionali). Nel 1981, altri membri della leadership sovietica iniziarono a dubitare della propria politica di intervento e a considerare l'impossibilità di una vittoria militare. Ustinov, nel febbraio del 1981, menzionò, in una lettera inviata ai membri del Politburo, la necessità di trovare una “via diplomatica d'uscita” (in tale occasione, tuttavia, la decisione di un possibile ritiro pareva ancora remota e la posizione di Ustinov non ricevette aperto sostegno). Il ritiro delle truppe tuttavia rappresentava una soluzione da intraprendere necessariamente per diversi motivi: non solo l'intervento aveva costituito un forte rallentamento del processo di distensione e un ulteriore motivo di scontro con le potenze antagoniste, ma costituiva un dispendio di risorse economiche che l'Unione Sovietica difficilmente avrebbe potuto reggere sino alla fine del conflitto. Di conseguenza, la possibilità di un ritiro del contingente armato in favore di una soluzione diplomatica fu
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Cfr. V.S. Christoforov, op.cit. (2006), A Kalinovsky, op.cit. (2010). Cfr. A.A. Ljachovskij, Tragedija i Doblest Afgana, Moskva, 1995, in A. Kalinovsky, op.cit.
(2009).
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un elemento che la leadership sovietica iniziò a considerare, cercando però sin dall’inizio (politica poi, come si vedrà, sostenuta e seguita anche da Gorbačёv) di ridurre al minimo i danni arrecati all'immagine dell'URSS. All’interno di questo quadro, dunque, l'Unione Sovietica apre a una possibile risoluzione internazionale del conflitto attraverso colloqui mediati dall'ONU, iniziando il laborioso cammino verso gli accordi di Ginevra, il cui primo ciclo si svolse dal 16 al 24 giugno del 1982. Poco tempo dopo la fine del primo ciclo degli accordi, in seguito alla morte di Brežnev, Andropov venne nominato segretario del PCUS iniziando a svolgere attivamente il ruolo di leader nella conduzione dell’intervento. In una conversazione col segretario generale dell’ONU, Javier Perez De Cuellar, Andropov elencò cinque motivi che rendevano la risoluzione diplomatica del problema afghano assolutamente necessaria: il deterioramento dei rapporti con l'Occidente, con i paesi socialisti, col mondo islamico, con gli altri paesi del Terzo Mondo, e infine il peso del conflitto sulla situazione economica dell'URSS.51 Le trattative furono caratterizzate secondo gli storici russi da un progressivo antagonismo tra l’URSS e il Pakistan, che già dall'inizio non considerò accettabili le condizioni imposte da Mosca e riaffermate da Andropov durante il secondo ciclo: come già secondo Gromyko nel 1980, il ritiro delle truppe era condizionato, stando alle condizioni presentate dall'Unione Sovietica, dal ricevimento di rassicurazioni da parte dei paesi confinanti e i loro sostenitori circa il blocco delle interferenze internazionali in Afghanistan; l'URSS inoltre, premeva per ricevere garanzie relativamente al mantenimento di tale situazione anche in seguito al ritiro delle truppe. Sino alla morte di Andropov, nel 1984, gli incontri si tennero regolarmente. Tuttavia, secondo Christoforov, gli sforzi di mediazione iniziarono progressivamente a ridursi; nello stesso tempo, gli USA continuavano a sostenere il Pakistan incrementando il dispendio di risorse rispetto al passato (1984, 120 milioni di dollari; 1986, 250 milioni; 1987, 600 milioni di dollari). Nel frattempo, il diplomatico peruviano Pedro Cordovez venne eletto rappresentante delle Nazioni Unite per le questioni afgane, responsabile soprattutto per i rapporti tra Afghanistan e Pakistan. Gli storici riportano che la politica sovietica nei confronti dell'Afghanistan rimase praticamente invariata durante l'interregno di Černenko, il quale era molto malato e
51
Cfr. V.S. Christoforov, op.cit. (2006).
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spesso non poteva partecipare alle riunioni del Politburo. Nel 1985 dunque, la soluzione diplomatica del conflitto si trovava in una situazione di stallo e nessun ulteriore passo avanti era stato fatto verso la conclusione degli accordi. Questa era dunque la situazione ereditata da Gorbačёv al momento della sua nomina a segretario del partito comunista sovietico, evento che viene generalmente considerato come una svolta nella conduzione della questione afghana. Nelle ricostruzioni degli storici russi è possibile individuare due fasi distinte della politica afghana di Gorbačёv. La prima fase, caratterizzata da una escalation di risorse umane ed economiche (decisa però, ricorda Christoforov, precedentemente alla salita al potere di Gorbačёv), è generalmente considerata dagli studiosi russi come un periodo durante il quale la conduzione politica dell’intervento presentava diversi punti di continuità col precedente governo; alcuni studiosi ritrovano, in questo periodo, “echi dell'era brezneviana”.52 In particolare, rimaneva ferma la volontà di trovare una risoluzione che permettesse all'Unione Sovietica di ritirarsi senza compromettere la propria immagine di difensore degli stati del Terzo Mondo, procedendo cautamente in linea col precedente governo.53 Il secondo periodo ha inizio con le aspre critiche di Gorbačёv circa la decisione del governo Brežnev di introdurre le truppe sovietiche nel paese (attraverso la già citata famosa definizione “ferita sanguinante”), prendendo le distanze da tale politica di interventismo e dichiarando la propria volontà di elaborare un piano per il ritiro delle truppe che non si risolvesse in una totale sconfitta e che non attirasse le critiche internazionali danneggiando ulteriormente i rapporti con molti paesi. A un anno dalla salita al potere di Gorbačёv, la posizione dell'URSS nel quadro degli accordi di Ginevra assunse una nuova prospettiva. A partire dal 1986, la leadership sovietica cercò infatti di accelerare ulteriormente il cammino verso una soluzione che includesse il ritiro delle truppe pur ribadendo la necessità della fine delle interferenze straniere negli affari interni dell'Afghanistan. Il piano ideato da Gorbačёv era costituito da due punti fondamentali, cioè incoraggiare il cambiamento all'interno dell'Afghanistan, e contemporaneamente riprendere la diplomazia internazionale; come tale, viene generalmente considerato un nuovo corso della politica sovietica circa la questione. In realtà, rispetto al cambiamento portato da Gorbačёv, gli storici russi riportano altre considerazioni. La nuova posizione dell'URSS rispetto a un imminente e necessario ritiro delle truppe infatti, era (come riportato all’inizio del paragrafo) 52 53
Cfr. A. Kalinovsky, op.cit. (2009). Cfr. A. Kalinovsky, op.cit. (2010).
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condivisa già da tempo da parte di diverse personalità del PCUS coinvolte nella questione afghana. La politica di Gorbačёv dunque era in realtà, secondo gli storici, la riformulazione di politiche già messe in atto nel periodo immediatamente successivo all'invasione.54 In ogni caso, è certo che le dichiarazioni di Gorbačёv diedero agli accordi una nuova spinta; tuttavia, anche dopo l’attuazione della “nuova” politica, le posizioni delle parti coinvolte negli accordi di Ginevra rimasero pressoché invariate durante tutte le fasi affrontate sino al 1986; i disaccordi principali riguardavano il lasso di tempo nel quale l’URSS avrebbe dovuto ritirare le proprie truppe. Per dare ulteriore energia agli accordi, Gorbačёv decise di ritirare sei reggimenti dell'esercito dall'Afghanistan ma anche molti consiglieri, affermando, durante una riunione del Politburo nel novembre del 1986, che una soluzione militare non era possibile e senza approcci diversi la guerra sarebbe andata ulteriormente avanti, con tutti i danni che ne sarebbero conseguiti. Nel 1986, per facilitare la svolta fortemente voluta da Gorbačёv, la commissione afghana (la cui importanza in questa fase è sottolineata dagli storici nel quadro della risoluzione del conflitto) iniziò a elaborare una strategia di riconciliazione nazionale in Afghanistan con l’intento di stabilizzarne la situazione interna e internazionale. Proprio la riuscita della strategia di riconciliazione nazionale rappresentava la maggiore preoccupazione di Gorbačёv e la condizione inevitabile per il ritiro delle truppe; Karmal, messo a capo del governo afghano nel 1979 in seguito alla deposizione di Amin, nonostante i richiami dell'URSS non sembrava prendere in considerazione i cambiamenti e gli sforzi fatti da parte del Cremlino verso i nuovi tentativi di stabilizzazione del paese, non impegnandosi per la costruzione di una base interna indipendente che fornisse un appoggio alla strategia di riconciliazione nazionale. Per questo motivo, Mosca decise di apportare alcuni cambiamenti nel PDPA per rafforzarne la leadership ma soprattutto per tentare di acquistare il sostegno sociale la cui mancanza si era rivelata, durante gli anni del conflitto, estremamente controproducente: Karmal venne dunque sollevato dagli incarichi di segretario generale del PDPA e sostituito da Nagibullah. Nonostante la necessità di creare un governo stabile e indipendente e il ritiro, a questo fine, di parte di alcuni consiglieri sovietici, l'azione degli stessi continuò, impedendo ulteriormente il lavoro di ricostruzione e i tentativi di autonomia. Gli studiosi russi, comunque, concordano nel riconoscere i graduali cambiamenti che
54
Ibid.
40
iniziarono a verificarsi in seguito alla salita al potere di Nagibullah, sia in politica interna che estera, in particolare nei riguardi del tentativo di riconciliazione nazionale fortemente voluto dall'Unione Sovietica (ostacolato però, in patria, da conflitti all'interno dello stesso PDPA, la cui struttura avrebbe richiesto una trasformazione lenta e complessa per via, sostiene Christoforov, della situazione ereditata dal precedente governo). Oltre all’attuazione, tramite Nagibullah, del primo punto del suo piano, cioè un lavoro di ricostruzione all'interno dell'Afghanistan, Gorbačёv riprese con nuovo vigore il cammino verso gli accordi di Ginevra attraverso la diplomazia internazionale, cercando contemporaneamente di fornire al nuovo governo afghano gli strumenti necessari per reggersi autonomamente anche dopo l'uscita delle truppe dal paese. Ma la nuova direzione che il governo afghano intendeva intraprendere, di concerto con l'URSS, venne ostacolata dal Pakistan nel corso delle trattative; il governo pakistano, infatti, approvava la politica di riconciliazione nazionale ma solo a condizione che venisse portata avanti da un leader politicamente neutrale e che fosse immediata, non intendendo dunque concedere altro tempo all'Unione Sovietica. Gli accordi di Ginevra dunque, si trovarono nuovamente, alla fine del 1987, in una fase di arresto. Alla 42esima sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la questione afghana venne discussa tra i delegati di Pakistan e dei paesi occidentali, da una parte, e dall’altra quelli della RDA, dell'URSS, e degli altri paesi socialisti e non allineati. Per cercare di aggirare la pericolosa situazione di impasse, Cordovez si recò, tra la fine del 1987 e l'inizio del 1988, a Mosca e poi a Kabul, dove venne ricevuto dal presidente Nagibullah per discutere la posizione del governo afghano rispetto alle trattative col Pakistan. Nagibullah, in un successivo incontro col PDPA, enunciò gli obiettivi a breve termine senza i quali l'intero processo distensivo non avrebbe potuto verificarsi né tanto meno avere efficacia, cioè la creazione di una nuova coalizione di governo e un sistema multipartitico per rafforzare quelle che sarebbero state le fondamenta di un partito indipendente e non allineato. Parallelamente, il governo afghano continuava le trattative col governo pakistano, il quale insisteva (nonostante alcune contrapposizioni interne) sulla data di ritiro delle truppe: il 15 maggio del 1988. Nel febbraio del 1988, la Pravda pubblicò le dichiarazioni congiunte di Gorbačёv e Nagibullah i quali, in seguito a un incontro che verteva sull'improcrastinabile necessità della cessazione delle ostilità, si pronunciavano, in modo concorde, circa una data 41
specifica per il ritiro delle truppe accettando la data proposta dal governo pakistano, nonostante la specificazione, da parte di Nagibullah, che il ritiro delle truppe dipendesse anche dalla cessazione delle forniture di armi ai gruppi antigovernativi. Il 14 aprile del 1988, infine, fu firmato un accordo tra Afghanistan e Pakistan i cui garanti internazionali erano USA e URSS, che prevedeva misure riguardanti il ritiro delle truppe sovietiche, affrontava la questione dei rifugiati afghani e stabiliva rapporti di non interferenza e non intervento nonché dichiarazioni su garanzie internazionali. Il 15 maggio 1988 iniziò il ritiro delle truppe dall'Afghanistan, che secondo gli accordi sarebbe dovuto essere completato entro nove mesi, mentre la prima metà sarebbe dovuta essere ritirata entro il 15 agosto. Anche per una questione di prestigio all'interno dei propri confini, dopo la conclusione del ritiro delle truppe il governo sovietico affidò un comunicato a radio e televisione, trasmesso il 18 agosto del 1989, in cui si comunicava che l'URSS aveva correttamente svolto il proprio dovere (al contrario del Pakistan che non sembrava intenzionato a tenere fede agli accordi). Christoforov sottolinea l'importanza dell'atteggiamento dell'Unione Sovietica nel quadro del rispetto degli accordi e della conduzione politica della risoluzione: nonostante infatti i numerosi dubbi (che riguardavano soprattutto l'assenza di certezza che il governo afghano non potesse essere messo sotto minaccia, nonché l’ancora irrisolto problema dell'incapacità del PDPA di creare unità all'interno del paese), il ritiro delle truppe venne ultimato il 15 febbraio del 1989. L'impegno dell'URSS di Gorbačёv per quanto riguarda la conclusione degli accordi e il loro mantenimento è fortemente sottolineato in generale in tutta la storiografia russa analizzata; secondo gli storici, tuttavia, il maggiore problema della politica sovietica fu quello di impegnarsi molto nella risoluzione della situazione politica attorno all'Afghanistan ma con meno efficacia al suo interno, commettendo l'importante errore di non fortificare le istituzioni che avrebbero potuto rendere l'Afghanistan un paese stabile.55 Infatti, anche in seguito alla firma degli accordi, le lotte armate continuarono in un conflitto sempre più violento. Christoforov pone l'accento, per quanto riguarda le responsabilità della situazione, sia sull'instabilità del governo afghano che sull'inadempimento degli accordi da parte del Pakistan; truppe addestrate infatti
55
Cfr. A. Kalinovsky, op.cit. (2009).
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continuavano a entrare in Afghanistan, e il traffico di armi non sembrò subire un arresto ma anzi un incremento. Ma nonostante il destino cui l'Afghanistan andò incontro dopo la conclusione degli accordi, gli storici sottolineano l'importanza degli accordi di Ginevra per l'intero sistema di relazioni internazionali, notando che, in caso di pieno successo, tale sistema di sforzi diplomatici congiunti avrebbe potuto diventare la chiave per risolvere altri conflitti regionali di portata mondiale.56 Il risultato degli accordi di Ginevra e di conseguenza la conclusione del conflitto furono analizzati a seconda dei casi in modo differente; nella storiografia occidentale, è comune la tendenza a considerare il ritiro delle truppe sovietiche come l'ultimo atto di una disfatta militare e politica dell'Unione Sovietica;57 ma la storiografia russa riporta una diversa interpretazione secondo cui l'intervento in Afghanistan non rappresentò una totale sconfitta. È infatti necessario ricordare che la conduzione dell'Unione Sovietica e i tentativi di stabilizzazione del paese riuscirono a garantire al governo di Nagibullah di sopravvivere ancora per alcuni anni. Effettivamente, nonostante l'instabilità del PDPA, tra il 1989 e il 1991 il governo afghano aveva mantenuto la propria posizione alla guida dell'Afghanistan, in parte grazie agli aiuti militari ed economici provenienti dall’URSS, che si era impegnata nella ricostruzione del paese anche dopo il ritiro delle truppe. Tramite la concentrazione del potere nelle mani di Nagibullah dunque, l'Unione Sovietica
aveva
contribuito
alla
coesione
della
leadership
afghana,
dando
all’Afghanistan la possibilità di diventare un paese libero da influenze esterne e di fermare i conflitti interni sino a quando, tuttavia, nel 1991 con il colpo di stato di Mosca e gli eventi che seguirono, il sostegno sovietico giunse a conclusione causando l’inevitabile collasso del governo di Nagibullah in seguito al quale l'Afghanistan venne proclamato uno stato islamico.
56 57
Cfr. V.S. Christoforov, op.cit. (2006). Cfr. A. Kalinovsky, op.cit. (2009).
43
Capitolo 3
Raccontare la guerra: il cinema e la narrativa
3.1 Cenni generali L'esperienza afghana ha avuto, sin dall'inizio ma con diversa intensità col passare degli anni, un forte impatto sia sulla società sovietica in generale che sui rapporti tra la società e l'esercito. Il periodo di diffusione delle informazioni caratterizzato dalla glasnost’ fu un passaggio fondamentale attraverso il quale la società arrivò alla consapevolezza e alla presa di coscienza graduale degli anni successivi al crollo dell'Unione Sovietica, periodo in cui le produzioni letterarie e cinematografiche, maggiormente libere, rispetto al passato, dallo stretto controllo della censura, iniziarono a moltiplicarsi. La presenza del tema afghano nei canali di comunicazione (e non solo giornalismo ma anche cinema, letteratura, musica, fotografia e, nell'ultimo decennio, internet) dunque, non fu costante nel tempo ma conobbe un significativo incremento a partire dagli anni della perestrojka. Come accennato, infatti, il grado di copertura mediatica e libertà nello scambio di informazioni (questioni che condizionarono necessariamente la quantità e i contenuti dei materiali prodotti dal 1979 in poi) influenzò con forza il metodo di diffusione delle informazioni a seconda del periodo. Prima della perestrojka, tutto ciò che aveva a che fare con l'Afghanistan e in generale con la presenza dell'esercito sovietico in Medio Oriente era poco presente sia in letteratura che nel mondo del cinema. Lo stesso discorso, amplificato, era valido per il materiale giornalistico: durante i primi anni la copertura mediatica non era veritiera né adeguata, e le informazioni che circolavano erano pochissime, incomplete e distorte. Le produzioni letterarie erano rappresentate più che altro da samisdzat illegali, la cui diffusione subì una fortissima battuta d'arresto quando, alla fine degli anni Settanta, venne incrementato il controllo della censura. Prima del 1985 la censura bloccava tutto ciò che non era gradito e funzionale alle attività governative, soprattutto se i temi trattati riguardavano organismi 44
vitali dell'Unione, come l'Armata Rossa. In generale, e non solo per quanto riguarda l'invasione in Afghanistan, la censura agiva su qualsiasi canale di comunicazione e quindi di riflesso sull'intera società in modo significativo. I censori operarono direttamente su molte produzioni riguardanti l'Afghanistan. Un caso critico ed emblematico è quello di The Hidden War, A Russian Journalist's Account of the Soviet War in Afghanistan, un libro dal tono a tratti romanzesco ma basato su vicende reali;58 l'autore, Artem Borovik, visitò infatti diverse volte l'Afghanistan durante l'invasione sovietica per conto del giornale Ogonyok per cui l'autore lavorava. Borovik raccontò al mondo la realtà della guerra dando il via a una letteratura di denuncia che iniziò lentamente a svilupparsi. L'autore racconta, nell'epilogo del libro, di aver ricevuto il manoscritto corretto dalla censura militare con più di duecento annotazioni, modifiche e tagli.59 Negli anni successivi alla pubblicazione, nonostante il crollo dell'Unione, dovette affrontare una lunga serie di atti discriminatori nei suoi confronti sa parte della stampa militare, attraverso articoli in cui veniva accusato di falsità e tradimento. Nel periodo della guerra in Afghanistan, tuttavia, la censura operava già da tempo con violenza su tutti i materiali riguardanti l'esercito: intere testimonianze sulla vita condotta nei campi di addestramento vennero completamente cancellate dai resoconti degli ex soldati, compresi gli episodi di nepotismo che trovarono invece ampio spazio nelle narrazioni post-sovietiche. Il fenomeno, chiamato in russo dedovščina (da dedyška, nonno) divenne cupamente celebre proprio grazie ai racconti ambientati in Afghanistan; la pratica si manifestò con una violenza tale da essere documentata e descritta in numerose testimonianze cinematografiche e soprattutto letterarie successive agli anni della perestrojka. Con la perestrojka, e contemporaneamente al ritorno in patria dei soldati, che iniziavano lentamente a rompere il silenzio imposto dalle autorità, iniziarono a circolare questa e altre informazioni riguardanti la vita dei sovietici nei campi di addestramento e di combattimento. All'interno dell'URSS dunque, in seguito alle politiche di trasparenza, molti argomenti (non solo strettamente collegati all'Afghanistan, ma in generale tutto ciò che contribuiva a creare lo spaventoso disagio sociale del periodo), proibiti sino a qual momento, iniziarono a essere trattati e a essere messi sotto la lente d'ingrandimento dell'opinione pubblica. Dal 1985 in poi si iniziò ad assistere a una crescita costante delle
58
A. Borovik, The Hidden War, A Russian Journalist's Account of the Soviet War in Afghanistan, New York, First Grove Press Edition, 1990. 59 A. Borovik, op. cit., p. 279.
45
pubblicazioni di racconti e resoconti di guerra, e dei documentari di produzione sovietica. Il rilassamento dell'era della glasnost’ però, portò alla perdita di controllo totale dei media in vigore sino a quel momento. Vennero resi pubblici tutti gli aspetti della vita in URSS sino ad allora nascosti: violenza, alcolismo e corruzione iniziarono a far parte della coscienza collettiva insieme alle sanguinose politiche estere portate avanti dall'Unione, che iniziarono a essere pesantemente criticate. L'Unione Sovietica prima, e la Russia e le ex Repubbliche poi, dovettero affrontare per molto tempo le conseguenze dell'invasione in Afghanistan: l'impatto sulle famiglie fu devastante. Moltissime famiglie infatti persero i propri figli, e i militari che, relativamente più fortunati, riuscivano a tornare in patria, conducevano la propria vita da veterani in condizioni fisiche e psicologiche estremamente difficili. Molti di loro rimasero invalidi a vita, e moltissimi tornarono in Unione Sovietica con gravissimi e irrecuperabili problemi di alcolismo e droga. A questo si aggiunse l'atteggiamento del governo, che inizialmente non contribuì alla loro reintegrazione nel tessuto sociale. Gli afgancy, così vennero chiamati i veterani, provarono a riorganizzarsi in comunità (in tempi recenti, anche su internet) per cercare di ricreare l'esperienza associativa sperimentata durante gli anni dell'Afghanistan, formando un nuovo gruppo sociale che rimase tuttavia, per molti anni, completamente emarginato dal resto della società russa. L'esperienza afghana non lasciò importanti tracce solo nella cultura sovietica prima, e russa poi, ma fu una materia largamente esplorata anche nel panorama culturale internazionale e in particolar modo nel settore cinematografico. A seconda del periodo e del paese di produzione, la rappresentazione dell'esperienza afghana assume caratteristiche molto diverse; le differenze maggiori si possono riscontrare analizzando in particolare i contrasti tra produzioni russe e produzioni americane. Già dai primi anni di guerra, i media internazionali iniziarono a costruire una cornice ideologica dentro la quale vennero collocati alcuni film particolarmente importanti, al di là del valore cinematografico, per la rappresentazione dell'URSS che veniva esportata in tutto il mondo. In particolare negli Stati Uniti alcuni film contribuirono alla creazione dell'immagine dell'Unione Sovietica nella coscienza collettiva americana e, di riflesso, internazionale; tuttavia, il numero di produzioni statunitensi, sebbene cospicuo, non si avvicinò mai a quello avente come soggetto la guerra in Vietnam, non essendo gli USA coinvolti direttamente nel conflitto afghano. A livello internazionale, tra i film ambientati in Afghanistan all'epoca dell'invasione, 46
oltre a commedie come Spies Like Us (1985, di John Landis) e The Living Daylights (1987, di John Glen), che già dipingevano l'eroica lotta contro l'occupante sovietico, uno dei film più conosciuti di produzione americana è Rambo III. Il film uscì nel 1988, lo stesso anno in cui le vere truppe sovietiche si ritirarono dall'Afghanistan. La pellicola, interpretata da Sylvester Stallone, diventò un'icona dell'era reaganiana; a prescindere dalla validità cinematografica, fu tra i film più famosi del periodo ed entrò a tutti gli effetti a far parte del “pensiero americano” (anche per via degli enormi numeri raggiunti in termini di vendite). La rappresentazione dell'eroe americano (e il culto del corpo e della forza) venne caratterizzata dalla contrapposizione con il nemico sovietico che diventò ovviamente il simbolo della distruzione; il protagonista cessò di essere un singolo che combatte altri singoli ma diventò, simbolicamente, l'intera nazione americana impegnata nella lotta contro il male. Diverse sono le scene entrate a far parte dell'immaginario occidentale collettivo: i bombardamenti su donne e bambini indifesi, le bombe nascoste nei giocattoli, le scene di civili afghani torturati nelle prigioni; queste rappresentazioni vanno al di là della semplice trasposizione cinematografica romanzata degli eventi, ma anche del cinema di denuncia: sono infatti immagini cui, a posteriori, venne attribuita la volontà di costruire un certo way of thinking americano nei confronti dell'URSS. Secondo il film infatti, queste pratiche non erano perpetrate solo in Afghanistan ma in tutti i paesi in cui erano presenti i sovietici, ed erano pratiche da combattere. Ciò che costituisce l'essenza del film non è solo la rappresentazione del nemico sovietico e della lotta del bene contro il male, ma anche la descrizione dei mujaheddin, dipinti come forze se non espressamente buone, almeno neutrali. Quindi, ciò che risulta, è (non sorprendentemente), una pesante critica a senso unico. Nonostante molti dei fatti rappresentati si siano rivelati poi veritieri, il film venne percepito, in seguito, come una manovra pubblicitaria e politica contro l'URSS piuttosto che un semplice film di guerra. Per quanto riguarda la produzione internazionale recente, invece, due tra i film più celebri che affrontano il tema dell'Afghanistan sono The Kite Runner (in Italia Il Cacciatore di Aquiloni) e Charlie Wilson's War (La Guerra di Charlie Wilson). The Kite Runner, tratto dall'omonimo romanzo di Khaled Hosseini del 2003, non racconta l'Afghanistan dal punto di vista delle parti in conflitto, bensì dall'angolazione dei civili coinvolti. Fondamentale perno su cui si svolge la vicenda, sia nel libro che nel film, è l'appartenenza dei due piccoli amici protagonisti a gruppi opposti e rivali (pashtu e hazara), distinzione che nella realtà influenzò profondamente la composizione etnica del 47
paese. I due bambini, di diversa etnia e classe sociale (i pashtun erano i ricchi delle classi sociali più agiate, e nel romanzo il piccolo Hassan, di etnia hazara, è infatti il servo della ricca famiglia del pashtu Amir), riescono, almeno idealmente, a riunirsi. Il libro affronta molto da vicino anche l'argomento dei rifugiati (la guerra in Afghanistan ne creò diversi milioni), attraverso le vicende del ricco Amir che, nel 1981, si trova a dover lasciare il paese. Di tono completamente diverso è Charlie Wilson's War, tratto da un romanzo di George Crile. Il film ha particolare importanza per via della rappresentazione di alcune vicende relative ai rapporti tra il protagonista e la CIA, e dell'impegno del deputato texano Charlie Wilson, nel supportare i mujaheddin nella lotta tra il bene (gli USA, grazie ai quali i mujaheddin disponevano di armi per combattere) e il male (l'URSS). Anche in questo film, l'Unione Sovietica (in cui il film non venne distribuito) è dipinta con brutalità e rappresentata come l'oppressore dei deboli. Il film non si occupa, tuttavia, del ruolo di Charlie Wilson negli ulteriori sviluppi dei rapporti tra USA e nuclei armati che portarono poi alla nascita del terrorismo internazionale (il vero Charlie Wilson si recò in Afghanistan più volte, incontrando anche alcuni gruppi di guerriglieri). Tra le opere sovietiche è importante ricordare, per il genere documentario, Afgantsi di Peter Kominsky (1988), e i due documentari Afgan, del 1989, e Jihad del 1986 (entrambi parte della “trilogia afghana”, insieme a Warlord of Kayan), di Jeff Harmon. Le tre pellicole sono diventate celebri per aver diffuso, alla fine degli anni Ottanta, una certa consapevolezza riguardo a ciò che era successo (e nel caso di Jihad, ciò che ancora stava succedendo) in Afghanistan, con immagini reali e riprese dirette, senza nessun tipo di forzatura ideologica tipica, come da precedente analisi, del cinema americano. Per quanto riguarda la produzione sovietica cinematografica di genere non documentario, si ritiene importante citare un film prodotto nel periodo appena precedente al crollo che ebbe grosso successo all'interno dell'URSS e portò sugli schermi le vicende storiche dell'Afghanistan. Il film, Afganskij Izlom, è una produzione italo-russa del 1990 collocata storicamente durante la ritirata sovietica. Racconta l'esperienza afghana di un'unità di soldati e del suo maggiore Miša Bandura, interpretato dall'attore italiano Michele Placido. Altamente realistica, la pellicola è critica nei confronti delle azioni violente dei sovietici (il protagonista principale si lascia uccidere in preda alla disperazione per gli atti commessi) ma risulta priva della critica politica già citata per quanto riguarda le produzioni internazionali. Ma come si vedrà in seguito, è nel cinema russo e nella letteratura contemporanea, che è 48
possibile prendere coscienza di una ricostruzione particolare e in alcuni casi non libera da giudizi critici, di alcuni temi specifici e ricorrenti che verranno analizzati in dettaglio nei prossimi paragrafi. Infatti è soprattutto nella cultura contemporanea e immediatamente successiva al crollo dell'Unione che la materia dell'Afghanistan è ampiamente e liberamente trattata. Tra i film di produzione russa utilizzati per la ricostruzione dei temi analizzati si ricordano e verranno citati, tra gli altri, in ordine cronologico, 9 Rоtа (La Nona Compagnia), Ochotniki Za Karavanami (I cacciatori di convogli), e Gruz 200 (Cargo 200). Il primo e più celebre film, 9 Rоtа, è una produzione russa/ucraina/finlandese del 1995; il film ebbe un fortissimo successo in termini di pubblico in Russia, e venne accomunato ad altri grandi film di guerra come Platoon (è anzi considerato l'equivalente russo di questo film ambientato durante la guerra in Vietnam) e Full Metal Jacket. Praticamente privo di riferimenti politici e critica verso l'ex governo sovietico, 9 Rоtа si focalizza spesso sui rapporti umani tra i militari nei campi di addestramento e in guerra, con un'attenzione particolare ai meccanismi di amicizia e solidarietà nati durante l'esperienza, nonché a quelli di antagonismo e violenza, che si creavano all'interno delle unità. Il secondo film citato, Gruz 200, è una produzione russa del 2007 del regista Alex Balabanov. A differenza di quelli precedentemente citati, non è un film di guerra e non si occupa in modo specifico degli eventi storici presi in esame nelle altre produzioni. Già dal titolo, però, si evince l'importante ruolo giocato dal conflitto in Afghanistan, emblema della decadenza e della rovina che caratterizza il periodo in cui è ambientato il film. Cargo 200 infatti è il nome con cui venivano chiamate le casse che trasportavano i cadaveri in URSS, chiusi nelle tristemente famose bare di zinco. Il film è ambientato nel 1985, dunque in pieno conflitto; gli eventi storici reali sono menzionati solo sporadicamente, ma a differenza degli altri film citati è presente una fortissima denuncia della società sovietica del periodo. Il film infatti ruota attorno agli abusi delle forze governative, e in particolare di un ufficiale che compie azioni orribili che rimangono impunite e passano quasi inosservate in una società in totale rovina. La critica politica è pesantissima: il conflitto in Afghanistan rimane sullo sfondo degli eventi (realmente accaduti) raccontati, che si verificano quotidianamente in una società ormai logora e disarticolata, in cui le nuove generazioni sono condannate alla miseria e all'orrore (come succederà poi alla generazione post-sovietica, completamente distrutta da alcolismo e droga) mentre, silenziosamente, a bordo dei cargo, migliaia di bare di zinco continuano 49
a far ritorno in Russia. Nel terzo film, il più recente, Ochotniki Za Karavanami (produzione russa del 2010), ricorre spesso (come in 9 Rota) il tema dei rapporti tra soldati. In questa pellicola però, viene trattato con attenzione particolare il tema dei rifornimenti occidentali in possesso dei mujaheddin e l'immaginario entro il quale si muovono le figure dei guerriglieri nemici. Ambientato in Afghanistan nel 1987, il film ruota attorno alle vicende di un'unità sovietica che cerca di entrare in possesso di un'arma particolarmente efficace, lo Stinger, assaltando un convoglio. L'assalto però, progettato in base a informazioni sbagliate, si rivela essere un tentativo di imboscata da parte dei nemici per catturare e giustiziare il Maggiore incaricato di portare a termine la missione. Questo film è molto importante
poiché
esamina
molti
argomenti
comuni
alle
altre
produzioni
cinematografiche post-sovietiche: i rapporti tra sovietici e civili afghani, la figura del mujaheddin nell'immaginario dei soldati, e la rappresentazione delle tattiche di combattimento. Anche nella narrativa post-sovietica l'argomento dell'invasione in Afghanistan è trattato generalmente in modo critico. È opportuno sottolineare nelle narrazioni una certa tendenza al realismo che funge da supporto per la volontà critica degli autori. Tra le opere di narrativa utilizzate per ricostruire i temi trattati in seguito, meritano particolare rilievo il romanzo V Dvuch Šagach ot Raja60, (A due passi dal paradiso) di Michail Evstafiev, Cinkovije Mal'čiki61 (Ragazzi di Zinco), di Svetlana Aleksievič, Vozvraščenie v Kandahar62 di Oleg Ermakov, e il già citato Hidden War, di Artem Borovik. V Dvuch Šagach ot Raja è una novella del reduce di guerra, scrittore e fotografo Michail Efstafiev. Ambientato durante gli ultimi anni dell'invasione, è una cronaca della guerra raccontata attraverso le vicende principali che si snodano all'interno di un resoconto molto accurato della vita militare e dei rapporti tra i soldati. Particolare importanza è data ai sentimenti dei militari nei confronti della guerra e alla descrizione dell'avversario, gli spettri afghani. I sentimenti dei sovietici nei confronti dei mujaheddin ma anche e soprattutto i loro comportamenti all'interno delle unità e coi civili, nei villaggi, pur trattandosi di un racconto di fiction, sono altamente realistici e veritieri, così come le descrizioni delle condizioni di vita e dei traumi che 60
M.A. Evstafiev, V Dvuch Šagach ot Raja, http://artofwar.ru/e/ewstafxew_mihail_aleksandrowich/unasopjatxzadulafganec.shtml 61 S. Aleksievič, Cinkovije Mal'čiki, Moskva, Molodaya Gvardija, 1991. 62 O. Ermakov, Vozvraščenie v Kandahar, in Novyj mir, 2004, № 2, http://magazines.russ.ru/novyi_mi/2004/2/erm2.html
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sconvolgevano la vita dei militari. Vozvraščenie v Kandahar è uno dei racconti di guerra scritti dal reduce Oleg Ermakov. Ermakov, in servizio in Afghanistan dal 1983 al 1985, scrive le sue memorie alternando testimonianze personali a elementi di fiction in cui la città di Kandahar diventa simbolo della tragedia sovietica in Afghanistan, definita da uno dei protagonisti la “Gerusalemme del comunismo”. Vozvraščenie v Kandahar è un racconto fortemente critico nei confronti delle autorità sovietiche, colpevoli di aver sacrificato di ragazzi sovietici per la difesa del comunismo. Hidden War e Cinkovije Mal'čiki sono invece resoconti giornalistici romanzati pubblicati nel periodo immediatamente successivo al crollo dell'URSS. Cinkovije Mal'čiki, in particolare, è considerato uno dei testi più importanti per quanto riguarda le testimonianze dirette di chi venne coinvolto, a qualunque livello, nel conflitto. L'opera, in cui spicca una forte presenza femminile grazie alle molte interviste delle madri dei soldati morti in guerra, combina le testimonianze reali raccolte dall'autrice con considerazioni personali (nonostante l'autrice si riproponga, all'inizio del libro, di essere un semplice tramite tra il lettore e i protagonisti delle interviste) tratte dai suoi diari. Ricostruisce fedelmente, spesso attraverso un tono spiccatamente romanzesco, spesso imparziale e fortemente critico nei confronti della guerra, l'impatto degli eventi narrati sulle famiglie russe attraverso le voci delle madri e sulla società nel suo complesso attraverso le parole e i ricordi dei veterani. Ognuna di queste opere dichiarò apertamente e criticamente l'esistenza di aspetti fondamentali della guerra in Afghanistan, alcuni dei quali caratterizzarono e influenzarono in modo importante la collettività negli anni successivi al conflitto. Alcuni di questi aspetti verranno analizzati, attraverso la loro rappresentazione cinematografica e letteraria nei media russi, nei paragrafi successivi.
3.2 Reclutamento ed esercitazioni Molti dei problemi che già da tempo affliggevano nel silenzio generale imposto dal governo la società e le forze militari sovietiche, si riversarono già dai primi mesi di occupazione e con forza ancora maggiore sulle unità dell'esercito inviate in 51
Afghanistan. Questi fattori critici sono stati largamente citati in letteratura e nel cinema del periodo post-sovietico poiché ritenuti a posteriori fortemente caratterizzanti sia il periodo del conflitto che il periodo successivo alla fine delle ostilità, capaci di influenzare in modo importante gli individui (non solo i soldati ma anche le famiglie e la comunità in generale) per un tempo non limitato solamente alla propria prestazione militare. La pesante influenza sulla società si concretizzò nelle opere di diversi autori e registi russi, costruendo un immaginario letterario e cinematografico collettivo caratterizzato diversamente a seconda del periodo preso in esame e del tema specifico. Molti autori furono in prima persona presenti in Afghanistan durante l'occupazione, esperienza in seguito alla quale iniziarono a produrre materiale altamente realistico relativo alla propria personale esperienza, come nel caso di Michail Evstafiev. Reduce di guerra, in V Dvuch Šagach ot Raja riassume sin dall'inizio del romanzo l'essenza dell'esperienza afghana:
L'esercito consiste in disciplina, tirannie, umiliazioni, cibo, sopportazione, sonno e attese – attese di ordini, l'attesa di andarsene, l'attesa di tornare a casa, l'attesa di essere liberi dal potere di folli e canaglie degli alti ranghi, l'attesa del Fato. Se un esercito è in guerra, il servizio comprende anche l'attesa della morte: che sia per aver obbedito agli ordini, servendo gli interessi della Patria, o semplicemente perché quel giorno, in quel momento, un certo numero viene fuori, il TUO numero. Qualcuno deve sacrificarsi, dopotutto.63
Evstafiev evidenzia così nei suoi testi le difficoltà da lui stesso sperimentate durante il servizio in Afghanistan, analizzando e raccontando tramite i personaggi tutti i disagi che caratterizzavano la vita nell'Armata Rossa. Ricorrono spesso nei racconti di Evstafiev i riferimenti al passaggio iniziale attraverso il quale la recluta smetteva di essere un individuo e diventava, come accennato nel paragrafo precedentemente riportato, un numero. Il soldato dunque, già a partire dai primi istanti della sua esperienza, perdeva la propria
63
“Служба армейская состоит из дисциплины, из самодурства, из унижений, из нарядов, из приёма пищи, из переваривания пищи, из сна и ожидания - ожидания приказа, ожидания отпуска, ожидания возвращения домой, ожидания конца власти дураков и подлецов, ожидания решений судьбы. А если армия воюющая, служба подразумевает и ожидание смерти: во имя исполнения приказа, во имя интересов Родины, либо просто потому, что на этот день, на этот час выпал такой-то номер, конкретный номер, ТВОЙ номер. Kто-то должен был гибнуть...”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap.3.
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individualità per diventare parte di un'unità che, avendo come destinazione l'Afghanistan, era sottoposta a procedure particolari e riceveva trattamenti speciali. Il tema della specialità dei soldati diretti in Afghanistan è trattato, in modo prioritario, dal regista Fëdor Bondarčuk all'inizio del film 9 Rota, basato su fatti realmente accaduti nel 1988 nella provincia afghana di Khost. Nelle prime sequenze, uno dei soldati assegnati alla compagnia diretta in Afghanistan intraprende una violenta discussione con uno degli inservienti del reggimento; la recluta, responsabile di aver dato inizio a una colluttazione, viene denunciata a un ufficiale. L'ufficiale tuttavia non accoglie la denuncia e non impartisce al soldato nessuna punizione per cattiva condotta, evitando di applicare la consueta sanzione prevista, sottolineando che la procedura straordinaria è riservata all'unità diretta verso una speciale destinazione. Un altro tema ricorrente e collegato alla fase di reclutamento nella cinematografia russa sull'Afghanistan, è la descrizione del momento della partenza, solitamente riportato come l'ultimo momento di appartenenza alla vita reale. Nel film Ochotniki Za Karavanami, una lunga sequenza è dedicata alle nuove reclute ritratte nell'atto di fare conoscenza reciproca in attesa dell'imbarco (vedi Riferimenti iconografici, fig.1); ugualmente, in 9 Rota, la parte iniziale della pellicola cattura, descrivendoli con particolare enfasi, i momenti di congedo dalle famiglie e la creazione di nuovi rapporti di amicizia e antipatia che si creano tra i soldati del reggimento in attesa di partire per il campo di addestramento assegnato. Il reclutamento e l'addestramento seguirono, almeno nei primi anni di conflitto, iter consolidati. Al raggiungimento dell'età di coscrizione i giovani sovietici erano chiamati a entrare nell'esercito. Far parte dell'esercito era considerato un dovere ma anche un onore: come recita l'articolo 132 della Costituzione dell'URSS, infatti, “il servizio militare universale è legge. Il servizio militare nell'Armata Rossa dei lavoratori e dei contadini è il dovere onorevole dei cittadini dell'URSS”.64 Era possibile optare per l'arruolamento volontario in determinate zone di conflitto; tuttavia nella maggior parte dei casi le reclute venivano arbitrariamente assegnate alle unità in partenza per l'Afghanistan, missione per la quale ricevevano addestramenti particolari in campi situati normalmente in Asia centrale.
64
A.L. Hunger, Constitutional Development in the USSR: a Guide to the Soviet Constitutions, London, Methuen & Co. Ltd., 1981, p.157.
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A nessuno chiesero: vuoi o non vuoi andare in Afghanistan? La Patria aveva deciso per tutti. Un po' prima della partenza, nel dicembre del '79, passarono più di una settimana a esercitarsi nelle foreste della Bielorussia.65
I campi si trovavano spesso ai confini con l'Afghanistan, specialmente in Pakistan o in Iran, poiché allenarsi in tali zone significava avere la possibilità di abituarsi, per quanto possibile, agli agenti atmosferici e al tipo di territorio; ciò era particolarmente importante poiché moltissime reclute non avevano la minima esperienza di combattimento in condizioni estreme. Una volta partiti dal campo di addestramento, l'unità veniva trasferita alla divisione assegnata tramite aereo o treno. In 9 Rota buona parte dell'azione si svolge in un campo di addestramento in Uzbekistan: la fase di allenamento è descritta nel film come un periodo altamente impegnativo, della durata di tre mesi, durante i quali i soldati si allenavano continuamente, anche di notte (il comandante della compagnia spiega ai suoi soldati che tale durezza è necessaria affinché “non muoiano tutti il primo giorno in cui si troveranno dietro la montagna, in Afghanistan”). Le regole dei campi di addestramento erano molto dure, e i soldati (particolare per il quale 9 Rota si caratterizza per la fedele trasposizione cinematografica della realtà) ricevevano spesso punizioni corporali. Già nei campi di addestramento, prima ancora di essere mandati in Afghanistan, i soldati erano sottoposti non solo a dure esercitazioni fisiche ma erano anche soggetti a pressanti fattori psicologici frequenti nell'esercito che si presentavano tuttavia in modo ancora più violento nelle basi afghane. La condizione psichica dei reduci è puntualmente riportata dal regista di 9 Rota, che introduce lentamente il tema attraverso il personaggio di Dygalo, il comandante responsabile dell'addestramento. Egli è infatti un reduce mandato in Afghanistan durante i primi anni di conflitto che, dopo aver perso tutti i suoi uomini in un'imboscata, impazzisce e viene allontanato dai campi di combattimento, riassegnato poi all'addestramento. La sua storia è raccontata nel film da una delle reclute, per spiegare l'incredibile durezza e crudeltà con cui il tenente Dygalo tratta la compagnia.
65
“Ни у кого не спрашивали: хочешь - не хочешь в Афганистан? Родина за всех решила. Перед самой отправкой, в декабре семьдесят девятого, сидели больше недели на учениях в белорусских лесах”. M.A. Evstafiev, op. cit., cap.7.
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Nei campi di allenamento i soldati ricevevano la loro prima (e unica, durante tutto il servizio) preparazione; dopo i primi anni di combattimento e il numero sempre crescente di insuccessi sul piano strategico, risultò evidente che la preparazione non specifica non era adeguata a fronteggiare le situazioni di guerriglia quotidiane in cui l'esercito si trovava puntualmente sconfitto. Come già accennato, molte reclute decidevano di servire volontariamente in Afghanistan, per diversi motivi. Molti soldati decidevano di servire per senso di dovere e disciplina, altri per ricevere benefici: gli ufficiali che svolgevano servizio in Afghanistan infatti potevano aspirare a una veloce carriera militare. In 9 Rota, nella scena finale, vediamo che uno dei soldati, unico sopravvissuto alla missione assegnata alla sua compagnia, fa ritorno in patria con molte decorazioni e onorificenze. Molti soldati dunque decidevano di recarsi in Afghanistan per guadagnare prestigio e onori; le stesse famiglie, nei primi anni di conflitto, consideravano il servizio in Afghanistan motivo di estremo orgoglio e importanza. Nel film Cargo 200, la protagonista femminile, Angelika, cerca di convincere il suo aguzzino, il capitano di polizia che la tiene prigioniera torturandola quotidianamente, a liberarla, ricordandogli che il suo fidanzato presta servizio in Afghanistan, e che al suo ritorno avrà il potere di punirlo e vendicare le atrocità commesse sulla sua compagna. Dopo i primi anni di conflitto e dopo che i primi reduci iniziarono a far ritorno nell'Unione Sovietica, tuttavia, le aspirazioni di gloria vennero puntualmente disattese e rimpiazzate da disillusione e rabbia per la mancanza di strumenti che avrebbero dovuto aiutare i soldati, sia durante il servizio che dopo il ritorno, a superare il trauma dell'esperienza afghana.
Le fasi di addestramento sono riportate anche nei racconti di Ermakov:
Un mese fa, si stava ancora esercitando nell'Unione per questa strana guerra, si preparava, come tutti gli altri: scavava, marciava alla parata, lavorava in una fabbrica locale, scaricava cassette, guidava sino alle montagne, una volta colpì un bersaglio, una volta lanciò una granata.66
Oltre alla palese insufficienza dell'allenamento ricevuto prima di prendere servizio nelle unità afghane, i militari non ricevevano nessun tipo di preparazione 66
“Месяц назад он еще готовился в учебном лагере в Союзе к этой непонятной войне, готовился, как все: что-то копал, маршировал на плавящемся плацу, работал на местном заводе, выгружал ящики, ездил в горы чистить чьи-то пруды, один раз стрелял по мишени, один раз бросил гранату”. O. Ermakov, op.cit.(2004).
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psicologica. Una sorta di propaganda interna di indottrinamento istruiva i militari diffondendo durante la fase di reclutamento e addestramento i motivi della necessità del loro servizio per la patria e per la libertà: sin dall'inizio infatti, la guerra veniva giustificata in quanto missione di aiuto per i fratelli afghani nonché azione contro i banditi americani e cinesi che governavano le zone sottomettendo le popolazioni. Tale atteggiamento propagandistico si rivelava puntualmente distruttivo e controproducente non appena la situazione virtuale diffusa dalla propaganda andava a scontrarsi con la realtà dei fatti. Durante l'indottrinamento, i soldati ricevevano anche nozioni teoriche. In 9 Rota, durante una lezione, ai soldati vengono impartite istruzioni riguardo al comportamento da adottare con i locali. Viene sottolineata in particolare l'appartenenza dei locali a una religione diversa, e “il diverso concetto di vita e soprattutto morte”, in riferimento alla credenza, secondo la religione musulmana, che i guerriglieri santi sarebbero andati in Paradiso dopo aver ucciso gli infedeli. Per questo motivo viene spiegato ai soldati, nella sequenza del film riguardante le lezioni teoriche, che i ribelli non avrebbero avuto paura di morire e non avrebbero esitato un attimo pur di meritarsi il Paradiso (il concetto del Paradiso per i mujaheddin è ripreso anche da Evstafiev nel romanzo analizzato nel presente lavoro, già nel titolo “A due passi dal Paradiso”). Emblematica è in questo senso una scena di 9 Rota in cui, mentre i sovietici aprono il fuoco, i mujaheddin vengono ritratti in piedi e incuranti del fuoco (Riferimenti iconografici, fig.2). Per spiegare ai soldati come comportarsi con i civili, in 9 Rota viene consegnato durante l'addestramento teorico un libretto contenente tutte le istruzioni necessarie da seguire durante la permanenza in Afghanistan in caso di contatti con la popolazione locale. La distribuzione di tale tipo di materiale era molto comune durante la guerra; viene qui riportata una serie di fogli informativi di contro-propaganda realmente distribuiti nel 1987, in cui sono rappresentati esattamente gli argomenti trattati nella spiegazione teorica ai soldati nel film 9 Rota. Durante la spiegazione, nel film viene sottolineata la grandezza dell'URSS e l'onore riservato ai militari meritevoli di portare la democrazia in Afghanistan.
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Illustrazione 1: Collezione di materiale di anti-propaganda, 1987
Illustrazione 2: Al guerriero internazionalista: Tieni alto l'onore e l'integritĂ della cittadinanza sovietica. Segui la legge sovietica, difendi il giuramento militare e il codice militare, porta avanti gli ordini dei comandanti e coscienziosamente assolvi il tuo dovere patriottico e internazionale.
Come spiegato nell'illustrazione 2, ai soldati dell'Armata Rossa viene raccomandato di tenere alto l'onore dell'Unione Sovietica attraverso la disciplina e l'onore patriottico.
Illustrazione 3: Vietato! Non sostenere comunicazioni o relazioni non autorizzate. Illustrazione 4: Vietato! Non sostenere i magazzini afghani, i negozi o i mercati sia governativi che privati. Non accettare da lĂŹ o da privati nessun tipo di oggetto, cibo, liquore o droga.
Fondamentale, nella trasposizione cinematografica della spiegazione impartita ai soldati prima della loro partenza, è l'aspetto relativo alle peculiarità della popolazione afghana e ai modi in cui essa poteva costituire un pericolo per il soldato, informazioni realmente fornite ai militari dell'esercito come testimoniato dalle immagini qui riportate. In particolar modo era vietata ogni forma di comunicazione con la popolazione locale 57
(simboleggiata, nell'illustrazione 3, da un uomo con un coltello dietro la schiena) e soprattutto ogni forma di commercio o scambio nei bazar del luogo (illustrazione 4). La pratica era in realtà (come viene anche rappresentato nel film in questione) diffusissima, poiché i soldati scambiavano cibo ma soprattutto armi e munizioni con beni di fattura occidentale e droga. In una scena di 9 Rota, una recluta, al suo arrivo in Afghanistan, riceve un fucile vecchio e mal funzionante, appartenuto a un caduto. Gli viene spiegato che probabilmente il fucile nuovo a lui assegnato era stato scambiato in un bazar del villaggio. Anche nel film Ochotniki Za Karavanami viene ripreso il tema dei rapporti di scambio e commercio tra soldati e locali; in una scena (Riferimenti iconografici, fig.4) del film, un gruppo di soldati si reca nel bazar del vicino villaggio per acquistare della vodka. Consapevoli del rischio intrapreso nel mantenimento di rapporti di qualunque natura con la popolazione locale, i soldati intimano al venditore di assaggiare la vodka prima di acquistarla, per assicurarsi che non sia avvelenata. Sia in Ochotniki Za Karavanami che in 9 Rota viene trattato l'argomento dei rapporti con le donne del luogo, in modi diversi. Nel primo film, nella già citata spiegazione teorica ai soldati, viene reso chiaro il ruolo della donna nella religione musulmana. Tale tipo di istruzione veniva impartito anche nella realtà: così come descritto nel manuale, e come riportato nell'illustrazione 6, viene spiegato alle reclute che era assolutamente vietato parlare con le donne o cercare di osservarne il volto.
Illustrazione 5: Vietato! Non accettare dalle autorità locali e dai civili nessun dono che abbia valore di bene o di servizio.
Illustrazione 6: Vietato! Non entrare nei cortili o nelle case della popolazione locale, non guardare attraverso porte e finestre, non guardare in faccia le donne e non iniziare nessuna conversazione con loro.
Tale tipo di violazione era, secondo la spiegazione fornita ai soldati in 9 Rota, punibile 58
con la morte non solo da parte dei mujaheddin ma da parte di qualsiasi civile afghano. In Ochotniki Za Karavanami, un soldato si introduce nel cortile di una abitazione privata sorprendendo una donna senza il burqa e osservandola direttamente in volto. Viene immediatamente scoperto da uno degli uomini del villaggio e trucidato. Nell'illustrazione 6 sono riportate le situazioni descritte, ed è possibile notare come venga specificato il divieto di entrare in abitazioni private. Anche in questo caso gli ordini impartiti (sia nella realtà che nella trasposizione cinematografica) venivano puntualmente disattesi; è anzi noto che i militari facessero spesso incursioni all'interno delle case, per compiere razzie di vario genere.67
3.3 Attacchi e strategie La sconfitta dell'esercito sovietico in Afghanistan fu, sul piano tattico, conseguenza di errori strategici che portarono le unità a combattere su un terreno sconosciuto con mezzi inadeguati: la natura del conflitto infatti non venne compresa in modo opportuno. La controparte nemica, al contrario, disponeva di una conoscenza capillare del territorio e di mezzi che sul lungo termine risultarono più efficaci ed efficienti di quelli sovietici. In primo luogo, un grosso errore venne compiuto per quanto riguarda le previsioni circa la durata del conflitto. Inizialmente infatti si sarebbe dovuto trattare di un conflitto lampo, strategia che comporta evidentemente un differente approccio per quanto riguarda l'utilizzo di uomini e mezzi; in Afghanistan, poiché l'intento iniziale era quello di stabilizzare la situazione del paese, venne mandato un contingente limitato il cui ruolo non era quello di intraprendere un conflitto armato contro il nemico né quello di occupare l'intero paese. Le unità si trovarono dunque facile obiettivo di offensive armate da parte dei ribelli; i mujaheddin, per costringere l'esercito alla ritirata, portarono avanti l'insorgenza seguendo schemi precisi tra cui la tattica della guerriglia. Rispetto all'inizio del conflitto, la situazione rimase invariata sino al 1985, anno in cui le truppe sovietiche diedero il via ad azioni di attacco il cui obiettivo principale era la chiusura delle vie di comunicazione per impedire l'arrivo di armi provenienti dal Pakistan. 67
A. Aleksiev, Inside the Soviet Army, Santa Monica, Rand Corporation, 1988, pag. 56.
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Spesso, a questo fine, i convogli venivano attaccati con offensive aeree. La flotta aerea subiva però ugualmente pesanti perdite per via del fuoco proveniente da terra (a questo proposito è interessante notare che le strategie aeree utilizzate in Afghanistan vennero successivamente analizzate e sviluppate nella progettazione di un nuovo velivolo particolarmente attrezzato per affrontare gli attacchi terrestri, il famoso Squalo Nero noto col nome russo čërnaja akula).68 Le forze aeree erano usate in particolare per colpire i convogli che si trovavano sulle strade in contemporanea con attacchi per via terrestre. Sia in Ochotniki Za Karavanami che in 9 Rota l'azione è basata sulla pianificazione dell'attacco aereo (Riferimenti iconografici, fig.5) e via terra (Riferimenti iconografici, fig.6) a convogli sospettati di introdurre armi attraverso i confini dell'Afghanistan. In Ochotniki Za Karavanami, in particolare, viene dato ampio risalto ai rapporti tra mujaheddin e americani circa la trattativa riguardante i missili Stinger e il loro trasporto sulle carovane attraverso i confini afghani. Distinguere i guerriglieri dai civili tuttavia si rivelava a volte difficile, e spesso le azioni venivano intraprese contro obiettivi sbagliati:
Aspettavamo questa carovana. Aspettammo per due o tre giorni, sdraiati nella sabbia bollente, dovevamo espletare i nostri bisogni ovunque fosse possibile. Dopo tre giorni impazzisci. Quando apri il fuoco per la prima volta, lo fai con un tale odio nei loro confronti... dopo il cessate-ilfuoco, scoprimmo che la carovana trasportava banane e marmellata. Ci sentimmo veramente stupidi...69
A distanza di alcuni anni dall'inizio dell'invasione, le forze speciali spetsnaz, che in origine agivano solo in missioni particolari (come l'assalto al palazzo di Amin, il 27 dicembre del 1979), iniziarono a ricevere addestramenti mirati e a essere impiegate come forze di contro-insorgenza.70 Oltre agli spetsnaz, durante gli anni dell'invasione l'Armata Rossa operava seguendo in particolare quattro distinte tattiche: intimidazione e genocidio, rappresaglia, sovversione, e incursioni militari. 68
Čërnaja Akula è anche il titolo di un film russo del 1993 avente come tema principale il nuovo aeromobile adottato dalle forze di aviazione russe, contenente diversi riferimenti all'Afghanistan. I riferimenti temporali sono tuttavia inadeguati: la produzione del velivolo infatti venne avviata solo successivamente al ritiro delle truppe sovietiche. Per approfondimenti sul film: www.afghanistan.ru/doc/8709.html 69 S. Aleksievič, op. cit., p. 5. 70 Cfr. C. McNab, Endurance Techniques, London, Amber Books Ltd., 2001 (tr.it. Tecniche di addestramento militare. Tutti i segreti dei corpi speciali, Roma, Edizioni Mediterranee, 2003.
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Dopo i primi anni di guerra, quando divenne ormai chiara la difficoltà di mantenere la presenza nell'intero paese con le sole forze a disposizione degli eserciti di URSS e RDA, mentre la morale e la disciplina dell'esercito iniziavano a subire il peso della durata del conflitto, i sovietici cercarono di mettere tutta la popolazione sotto il proprio controllo con attacchi frequentissimi il cui scopo era spesso la distruzione di obiettivi senza importanza strategica. Venivano rasi al suolo i villaggi sospettati di dare asilo ai ribelli, e lo strumento per portare avanti la tattica dell'intimidazione era il bombardamento, ampiamente rappresentato nel cinema di guerra attraverso descrizioni che non tralasciano la natura violenta di questo tipo di attacco, soprattutto in 9 Rota (Riferimenti iconografici, fig.7); sono molti gli episodi di questo tipo accaduti nei nove anni di invasione: uno degli esempi più cruenti è il bombardamento di Herat nell'aprile del 1983, durante il quale vennero uccise tremila persone.71 Tutta la zona circostante i villaggi veniva presa d'assalto: i campi venivano rasi al suolo e i depositi di grano distrutti per costringere i civili alla fuga. Spesso nei campi venivano abbandonati particolari tipi di mina che si confondevano col terreno rendendo l'ordigno difficile da individuare; l'ordigno era caratterizzato dalla capacità di mutilare (spesso il piede che la calpestava, o un'intera gamba), ma si rivelò in realtà pericoloso per gli stessi soldati che lo utilizzavano, come rappresentato in una scena nel film 9 Rota in cui un soldato sovietico cammina vicino a una mina inesplosa, scatenando il panico tra i compagni (Riferimenti iconografici, fig.8). I soldati dunque non colpivano solamente obiettivi militari ma anche, in gran parte, obiettivi civili; alcune azioni svolte contro la popolazione afghana, in particolare, furono violentissime. Il 13 settembre del 1982, le truppe sovietiche entrarono in un villaggio a trenta chilometri da Kabul massacrando centocinque dei suoi abitanti, tra cui anche donne e bambini;72 la Aleksievič riporta, in Zinky Boys, testimonianze di veterani che confermano crude azioni di rappresaglia contro qualsiasi fascia della popolazione (“trasformammo il bambino in un colabrodo” 73), mentre in Ochotniki Za Karavanami un bambino viene ripreso nell'atto di sparare e uccidere un soldato, azione cui segue il bombardamento dell'intero villaggio. Nel luglio del 1983 i sovietici uccisero alcuni civili nella città di Ghazni, e nell'ottobre dello stesso anno, in seguito a una terribile
71
B. Amstutz, op.cit., p. 133. B. Amstutz, op. cit., p. 146. 73 S. Aleksievič, op.cit., p. 17. 72
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azione di rappresaglia, più di trecento civili vennero uccisi nei tre villaggi vicini a Kandahar per vendicare i sovietici uccisi nella zona.74
I villaggi erano metodicamente distrutti dalle forze sovietiche aeree e di artiglieria. Il fuoco pesante si abbatteva sradicandole sulle lapidi musulmane, le bandiere sventolanti nel vento. Case pagane e cimiteri venivano sventrati, eliminavano la contaminazione delle montagne afghane, delle pianure e dei deserti dagli spettri, dagli impuri, facendo strada ai costruttori di un nuovo, luminoso futuro.75
La sovversione prevedeva l'introduzione di agenti in incognito nei gruppi di guerriglieri. Questa tattica, oltre a dare scarsi risultati, rendeva difficile ai soldati della RDA una pratica che nonostante le difficoltà divenne nel corso degli anni sempre più frequente: l'ammutinamento. Moltissimi soldati infatti lasciavano l'esercito per rifugiarsi tra i gruppi di guerriglieri, ma spesso non venivano accettati per timore di infiltrazioni. Tra gli altri problemi, nonostante la varietà di tattiche già utilizzate con successo in altri conflitti, i sovietici risentirono sul piano strategico della conformazione del territorio. Il terreno montuoso infatti non era adatto ai mezzi pesanti di cui disponeva l'Armata Rossa, rendendo molto lente le azioni d'attacco motorizzato.
Gli uomini armati si disponevano lungo le strade tortuose, non abbastanza larghe per i veicoli blindati: gli BMP sarebbero certamente rimasti incastrati, diventando un facile obiettivo.76
Un'ulteriore difficoltà per i soldati era rappresentata, come accennato nel paragrafo 3.2, dal clima: le condizioni climatiche diventavano infatti un enorme ostacolo per le divisioni che vivevano nei campi sulle montagne, poiché durante le missioni spesso i rifugi notturni consistevano in semplici tende completamente esposte a qualsiasi tipo di intemperie, creando ulteriore disagio. Ciò incrementava l'insieme di fattori che rendevano le tattiche sovietiche inefficaci:
74
B. Amstutz, op.cit., p. 146. “[...] кишлаки методично обрабатывались советской авиацией и артиллерией. Орудийные залпы валили, выкорчевывали мусульманские надгробья, трепещущие на ветру флаги. Потрошили снарядами кладбища и жилища нехристей, очищали афганские горы, и равнины, и пустыни от душманов, от скверны, расчищая место для строительства новой, светлой жизни”. M.A. Evstafiev, op. cit., cap. 3 76 “Цепочки вооруженных людей втягивались в кривые улочки, где не хватило б простора для бронетехники - непременно застряли бы БМП, и сделались легкой добычей”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 3. 75
62
L'atmosfera di tedio e malinconia era aumentata dagli effetti del secco, caldo, fastidioso e forte vento, l'”Afghano”, che soffiava senza sosta tutto il giorno. L'”Afghano” era forte, come se fosse disturbato dal plotone e da tutte le truppe che erano arrivate nella valle. Faceva turbinare nell'aria miriadi di granelli di sabbia, graffiando le tende, frustando le facce, ricoprendo di polvere e sabbia chi si accovacciava dietro le rocce, nelle trincee, in attesa di un cambio di guardia imminente. [...] Era più facile tollerare l'”Afghano” in compagnia, ma la depressione era sempre profonda, il desiderio di tornare a casa era sempre lì. E siccome la casa era lontana, la miglior cosa da fare era ubriacarsi. La sabbia sollevata dall'“Afghano” penetrava ovunque, in ogni crepa, in ogni buco. I soldati sputavano, si strofinavano gli occhi e i nasi; ma i granelli riempivano le loro teste e si infilavano nelle loro schiene. Il vento portava la premonizione del disastro.77
Erano dunque molteplici gli elementi che impedivano l'efficacia delle tattiche sovietiche. Ai problemi legati alla natura del conflitto, territorio e clima, si aggiungevano condizioni di vita estremamente difficili che venivano sopportate in alcuni casi anche per diversi anni, fortemente influenzate, anche ma non solo, da cause di natura sociale legate alla convivenza nelle unità e alla situazione globale cui i soldati erano sottoposti quotidianamente.
3.4 Qualità della vita Come gli altri fattori che influenzarono negativamente la vita dei soldati dell'Armata Rossa, così anche la precaria situazione già esistente negli ambienti militari si acuì durante l'invasione in Afghanistan; i problemi principali erano rappresentati principalmente dalle scarse condizioni igieniche e alimentari dei soldati, e dal sistema di cura di malattie e ferite, che risultava inadeguato e inefficiente. Queste condizioni ricadevano normalmente su gran parte dei soldati delle unità:
77 “Тоску и накатившееся лирическое настроение дополнил налетевший ветер-"афганец", сухой, горячий, назойливый и густой, задувший на целый день. Освирепел "афганец", будто осерчал за что-то на весь взвод разом, и на все войска, что пришли в долину. Гнал и гнал он по воздуху мириады песчинок, скрёбся по брезенту, стегал по лицу, забрасывал пылью и песком сжавшихся за камнями, в окопах часовых, которые мечтали о скорой смене. [...] В полку терпеть "афганец" было легче, но тоска наваливалась не меньшая, и всегда тянуло домой, а поскольку дом был далеко, тянуло напиться. Поднятый "афганцем" песок просачивался всюду, во все щели, во все дырки, люди сплевывали, вычищали песок из глаз и носов; песок застревал в волосах, сыпался за шиворот. Предчувствие беды таилось в ветре”. M.A. Evstafiev, op. cit., cap. 3.
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Vicino a me siedono degli ufficiali. Parlano del fatto che abbiamo protesi malandate. Del tifo, del colera, della malaria e dell'epatite. Parlano di come durante i primi anni non ci fossero né pozzi, né cucine, né bagni, niente con cui lavarsi.78 Persone prima piene di salute, sarebbero presto diventante svogliate, magre, le loro facce di una sfumatura verdastra quando cadevano vittime della dissenteria amebica o qualche altro insetto locale. Perdevano peso visibilmente, disidratati dalla dissenteria.79
Tra le malattie diffuse che i soldati si contagiavano a vicenda c'erano tifo, epatite e malattie polmonari, mentre la dissenteria era considerata quasi una normalità:
Con l'arrivo del caldo, la compagnia venne colpita dalla dissenteria, ognuno correva alle latrine notte e giorno. […] Ogni mezz'ora, o anche meno, qualcuno correva dalle baracche alla latrina come un pipistrello impazzito. Le reclute, i soldati anziani e i nonni si riducevano allo stesso livello, sedendo fianco a fianco nella latrina.80
Causa della dissenteria e altre malattie erano le precarie condizioni igieniche e la condivisione di effetti personali come asciugamani o cucchiai, che facilitava la trasmissione di malattie contagiose:
Ženka aveva mangiato un barattolo di marmellata fatta in casa, dividendo lo stesso cucchiaio con un ufficiale del KGB che veniva dalle sue parti. L'uomo del KGB per primo diventò giallo, mentre l'epatite si aggravava, e una settimana più tardi Ženka lo seguì nell'ospedale delle malattie infettive.81
In generale, alle basilari regole di igiene veniva dedicata scarsissima attenzione:
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“Рядом со мной сидят офицеры. Говорят о том, какие у нас плохие протезы. О брюшном тифе, холере, малярии и гепатите. Как в первые годы не было ни колодцев, ни кухонь, ни бань, нечем было даже мыть посуду”. S. Aleksievič, op.cit., p. 3. 79 “Здоровые, загорелые парни, поражённые амёбиазом или ещё какой местной гадостью, быстро скисали и худели на глазах, обезвоженные болезнью”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 2. 80 “С наступлением жары рота села на струю. Дристали и денно и нощно. Дорожку, ведущую от казармы в отхожее место, казалось, утрамбовали до твердости асфальта. Каждые полчаса, а то и чаще из модуля несся боец. Чижи, черпаки и деды уравнялись в беде, и соседствовали друг с другом на очке”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 2. 81 “[...] одной ложкой с земляком-особистом варенье домашнее Чистяков поел. Сперва особист полковой пожелтел, у него гепатит уже набирал силу, а спустя неделю последовал в "заразку", в инфекционный госпиталь, и Женька”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 2.
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Magari qualcuno prendeva l'insetto in refettorio, o beveva acqua non sterilizzata, o mangiava un frutto non lavato preso in città. O forse la malattia arrivava dal villaggio vicino, portata dalle mosche, o da una nuvola di polvere, che rimaneva sospesa nell'aria per molto tempo dopo il passaggio di ogni veicolo. Solo dopo essere passati attraverso l'inferno dell'epatite, del tifo e della dissenteria, le reclute capiscono che è necessario lavare le mani col sapone e non solo una volta al giorno, che solo acqua precedentemente messa a bollire deve essere bevuta – e se non ce n'è, è meglio rimanere assettati. Che non è consigliabile mangiare col cucchiaio di qualcun altro, che le lattine usate devono essere strofinate sino a che brillano, che se una mosca afghana si posa sulla tua miserabile porzione di burro giallo e sciolto, dovresti pensarci una dozzina di volte prima di buttarti quella roba giù in gola [...].82
Un altro grave problema era il sistema sanitario: infatti, nei campi in cui vivevano le unità normalmente il personale medico era assente o non specializzato. La sanità preventiva era praticamente inesistente, e a causa della carenza di antibiotici molte ferite non venivano curate in modo appropriato; in caso di infezione anzi, gli arti venivano spesso amputati. Epatiti e ferite gravi portavano in molti casi alla morte dei soldati, poiché tale tipo di cura poteva essere fornita solo all'ospedale di Kabul, che spesso si trovava troppo lontano dal luogo di combattimento:
Panasyuk morì quindici minuti dopo l'arrivo degli elicotteri. Il luogotenente Šaragin sedeva vicino al sergente morto, esausto, dissanguato, maledicendo la guerra per la prima volta durante il suo servizio in Afghanistan, maledicendo se stesso, soffrendo come se avesse potuto fermare quelle pallottole che penetravano i corpi umani, o schiarire la nebbia dall'altra parte del valico, così che gli elicotteri sarebbero potuti arrivare presto e portare il luogotenente in ospedale in tempo.83
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“Только переболев тифом, гепатитом или амёбиазом, мог уяснить для себя неотесанный солдат, что руки моются с мылом, и не единожды, что вода пьётся кипяченая, и что если нет таковой, надо терпеть, что ложкой соседа пользоваться нельзя, что котелок после приёма пищи мыть надо до блеска, что если муха афганская влетела в столовую и села на твою мизерную, жёлтую, растаявшую порцию масла, надо семьдесят четыре раза подумать, чем это может обернуться, прежде чем запихивать её в пасть, что нельзя жрать все подряд, даже если очень-очень голоден”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 2. 83 “За пятнадцать минут до прихода вертушек Панасюк умер. Лейтенант Шарагин сидел рядом с мёртвым бойцом. Измождённый и опустошённый, он молча проклинал впервые за время службы в Афгане войну, ругал себя, мучился, будто мог он остановить те пули, что впивались в человеческие тела, или разогнать туман на другом конце перевала, чтобы быстрей пришли вертолёты, и успели донести сержанта до госпиталя”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 3.
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3.5 Rapporti sociali e dedovščina All'interno delle unità, durante il periodo di servizio, si creavano complessi rapporti sociali che influenzavano profondamente l'esperienza dei soldati in Afghanistan sotto diversi punti di vista. Sia dalla letteratura che dai racconti dei reduci è noto che la tendenza generale era quella di formare nuclei che seguivano gerarchie stabilite all'interno delle quali si creavano relazioni diverse a seconda del grado, del paese di provenienza, e dell'anzianità. Non di rado nelle unità, come poi riportato sia in 9 Rota che in Ochotniki Za Karavanami, si formavano piccoli gruppi in cui i militari cercavano di ricreare in qualche modo situazioni familiari caratterizzate da rapporti amichevoli tra soldati dello stesso grado. Nella cultura letteraria e cinematografica questo aspetto viene rappresentato attraverso la descrizione della pratica dell'attribuzione di soprannomi. In V Dvuch Šagach ot Raja, Evstafiev introduce il gruppo di protagonisti presentandoli con il loro soprannome, che diventava in alcuni casi un vero e proprio marchio con cui i militari venivano conosciuti all'interno dell'unità e contrassegnava i soldati per un tratto saliente o per un particolare relativo alla storia personale.
Nella prima divisione era stato soprannominato “Il Vergine”, perchè i suoi parenti lo avevano concepito in qualche landa del Kazakistan, mentre coltivavano il suo vergine suolo. [...] La madre morì subito dopo il parto, e il padre iniziò a bere. Quindi Miškovskij diventò “l'orfano”, ma il soprannome che gli rimase fu “Mišara”. L'altro, Syčev, la faccia lentigginosa e le orecchie prominenti, andava fiero del suo soprannome, “Odessa”, in onore alla bella città del Mar Nero in cui era nato.84
L'uso di soprannomi fu una pratica diffusa ripresa anche in 9 Rota. Già dall'inizio del film infatti, il leader dell'unità inventa per ognuno dei suoi compagni alcuni soprannomi che vengono assegnati ai protagonisti principali: così il soldato con spiccate abilità artistiche viene chiamato Gioconda, e il soldato Vorobiev, per questioni di affinità sonore ma anche per la sua timidezza e riservatezza, viene rinominato Vorobej (passerotto).
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“В роте первого прозвали "целина", где-то в казахских степях зачали его родители, пока поднимали эту самую целину. На целине же и закопали мать, а отец попивать стал, так что и "сиротой" бывало звали Мышковского, но после кличка "Мышара" прижилась. Второго же, веснушчатого и лопоухого, прозвали "Одессой", под славным черноморским городом родился Сычёв”. M.A. Evstafiev, op. cit., cap. 2.
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I rapporti che si creavano tra i soldati, tuttavia, erano caratterizzati spesso da fattori tutt'altro che positivi. Un elemento ricorrente e tradizionalmente presente nell'esercito sovietico, la dedovščina, raggiunse il suo apice durante l'invasione in Afghanistan, periodo durante il quale prevedeva pratiche così crudeli da condurre i soldati alla diserzione e in alcuni casi al suicidio.85 La dedovščina, cioè la sottomissione delle reclute da parte dei soldati anziani, è stata rappresentata nel cinema russo (Riferimenti iconografici, fig.9) e in letteratura, ma è soprattutto in quest'ultima, in particolare negli scritti dei veterani o nelle testimonianze dirette, che la pratica viene descritta in tutta la sua violenza:
Quella notte mi picchiarono in otto, prendendomi a calci con i loro stivali dell'esercito. I miei reni erano distrutti, pisciai sangue per due giorni. […] Mi picchiarono con attenzione, per non lasciare segni, con i pugni coperti da un asciugamano, nello stomaco, ogni notte per una settimana.86
Piuttosto che cercare di arginare il fenomeno, i comandanti delle unità (anche per via del fatto che le comunicazioni e i contatti tra soldati e ufficiali erano difficili se non praticamente inesistenti), tendevano a rimanere neutrali per compromettere i rapporti di solidarietà tra compagni dello stesso grado, che in questo modo non si sarebbero potuti coalizzare presentando ricorsi di massa contro i propri aguzzini, danneggiando così l'immagine dell'esercito.87 La dedovščina diventava parte integrante della vita dei soldati a partire dal primo giorno di servizio sino al momento del ritorno in Unione Sovietica. Era infatti in base alla durata della permanenza nell'esercito che tra i coscritti si formavano vere e proprie gerarchie informali: seguendo una legge non scritta, i soldati al loro secondo anno di servizio potevano controllare totalmente i loro sottoposti del primo anno. Nell'esercito sovietico si era creata una sorta di casta formata da ruoli ben definiti, cui appartenevano diritti e doveri precisi: alla base si trovavano i soldati che servivano per meno di sei mesi, chiamati duchi (fantasmi), salagi (pesciolini), zelenye (verdi), o slony (elefanti, nome utilizzato frequentemente da Ermakov nei suoi racconti per riferirsi alle reclute; Ermakov faceva dunque regolare uso del linguaggio in vigore durante il periodo del proprio servizio in Afghanistan). I nuovi arrivati non avevano nessun tipo di diritto,
85
M. Galeotti, Afghanistan: The Soviet Union’s Last War, London, Frank Cass & Co. Ltd., 1995,
86
S. Aleksievič, op.cit., p. 50. N. Kamrany, op.cit., p. 132.
p.35. 87
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poiché i diritti si guadagnavano col tempo, ed erano a completa disposizione dei compagni appartenenti alle classi più alte, che potevano decidere in modo incondizionato la sorte dei propri sottoposti:
C'era uno slogan: “L'Afghanistan ci rende tutti fratelli”. Stronzate! Ci sono tre classi di soldati nell'esercito sovietico: le nuove reclute, i nonni o veterani, e i dembel.88
I soldati che facevano parte dell'esercito da un periodo di tempo compreso tra sei e dodici mesi erano chiamati molodye (giovani), mentre sul gradino successivo c'erano gli stariki (anziani). Gli stariki con più di un anno ma meno di diciotto mesi di servizio erano chiamati cherpaks, mentre i soldati cui rimanevano solo tre mesi di servizio erano i deduški (nonni). Nella gerarchia, il gradino più alto era infine occupato dai dembel (da demobilizatsia, smobilitazione), soldati che avevano già ricevuto l'ordine di fine mandato e attendevano di tornare in URSS.89 Evstafiev riporta in letteratura il fenomeno della gerarchia attraverso l'uso dei termini sopra descritti, descrivendo le situazioni attraverso le quali la dedovščina si materializzava concretamente; se alcuni tipi di rapporto erano relativamente innocui (i giovani dovevano pulire, lavare i piatti, lavare gli abiti degli anziani e così via), le meno innocue pratiche di violenza verbale erano diffusissime:
“... mi avete detto di riferire quando qualsiasi aereo atterra... quindi sto riferendo...” “Cosa significa quel tono di voce? Non sento, merda! Cavallo zoppo!”. L'ufficiale si girò, guardando Titov in faccia. “Con chi pensi di parlare? Riposo, Titov! Chiudi la porta!” “Cosa?” “Chiudi la porta quando esci! E non disturbarmi di nuovo! Stai dritto, idiota! Svegliami solo per due motivi: quando mi danno il cambio, o se le forze sovietiche si ritirano dall'Afghanistan! Hai capito?” “Sissignore” 90
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Ibid. D. Lohman, The Wrongs of Passage: Inhuman and Degrading Treatment of New Recruits in the Russian Armed Forces, Human Rights Watch, 2004, p. 12. 90 “- Вы же сами просили докладывать, если борта будут садиться... Я и докладываю... Что за борзость в голосе? Не понял, бля! Конь педальный! - Офицер повернул голову. - Ты с кем разговариваешь?! Свободен, Титов! Дверь закрой! - Что? - Дверь закрой! Чтоб больше меня не тревожили! Стоять, тело! Меня будить только в двух случаях: при появлении заменщика, и в случае вывода Советских войск из ДРА! Понял? - Так точно!”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap.1. 89
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Gli episodi più gravi riguardavano pratiche che raggiungevano il confine del sadismo; spesso i giovani venivano picchiati e dovevano sopportare ogni tipo di umiliazione:
Le pratiche “educative” come, per esempio, “la registrazione” durante la quale le nuove reclute venivano picchiate sulla schiena nuda così forte che il giorno dopo non potevano stare sedute, erano condotte nella segretezza più assoluta. Era parte del rito non scritto dei soldati, e anche con tutta la buona volontà del mondo gli ufficiali non sarebbero riusciti a fermarli.91
Inoltre, essendo sottoposti a un sistema gerarchico, tutti gli appartenenti a un determinato livello della scala sfogavano sui gradini inferiori le vessazioni subite dalle alte gerarchie, come riportato sempre da Evstafiev:
... la rabbia nasce dal desiderio di vendetta... più un uomo si mostra debole, più sarà oppresso, e quando uno che è stato vessato ha l'opportunità di rialzarsi, si vendica sui nuovi ragazzi; è un circolo vizioso...92 Sfogandosi per l'umiliazione appena subita per via delle parole che erano volate attraverso la caserma, che di certo erano arrivate ai soldati giovani, Titov tirò un calcio al lento e inefficiente Myšovsky, che lavava il pavimento con un panno: “Fottuto preservativo bucato! Quando dovevi finire di pulire?!” […] Rovesciò il secchio, l'acqua fangosa scorreva sul pavimento. “Ti farò pulire con la lingua Myšara!” gridò Titov con più voce possibile, così che tutti lo sentissero. […] “Hai capito, verme?” continuò Titov noncurante. “Sul pavimento, dieci flessioni! Veloce! Veloce! Ti avverto, Myšara!” Schiacciò la testa del soldato col suo stivale, aggiungendo a voce un po' più bassa: “Sei finito!”. […] Myškovsky continuava a giacere a terra impaurito. Gli stivali dell'onnipotente “nonno” si staccarono dal suo corpo in direzione della sala comune. 93
91
“Воспитательные приёмы, как, например, "прописка", когда лупили новичков в роте по голым жопам дерматиновыми шлёпанцами, так что на следующий день они и присесть в столовой не могли, проводились в строжайшей секретности. Входило это в негласный солдатский ритуал, и командиры, при всем желании, не уследили бы, не остановили бы его исполнение.” M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 1. 92 “...злость в человеке берёт начало от желания отомстить... чем слабее оказывается человек, тем сильнее задавливают его, а когда наступает черёд обиженного верховодить, он вымещает всё на новеньких - это замкнутый круг...”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 2. 93 “Вымещая злость за только что пережитое унижение, за обидные слова, которые пронеслись по всей казарме и долетели до молодых бойцов из наряда, Титов пнул ногой нерасторопного рядового Мышковского, орудовавшего шваброй: - Гондон штопанный! Ты когда, блядь, должен был закончить уборку?! Загремело опрокинутое ведро. Мутная вода растеклась по фанерному полу казармы. - Я тебя, Мышара, сортир языком заставлю вылизывать! - громко, так чтоб все слышали, закричал он. - Ты что, салабон, не понял? - продолжал, несмотря на окрик, Титов: - Упал, отжался! Десять раз! В темпе! В темпе! Предупреждаю, Мышара, - придавил он голову солдата ботинком,
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Ai sottoposti poteva venire assegnato qualsiasi tipo di compito:94 in 9 Rota, ad esempio, durante una missione in montagna, viene ordinato a una recluta di trovare una scatola di fiammiferi (oggetto praticamente introvabile), pena una “punizione molto severa”. Le vessazioni quotidiane andavano dunque ad aggiungersi alle condizioni della vita nell'esercito, già rese difficili dai fattori citati nei precedenti paragrafi:
Quando i soldati arrivavano in guerra, il Male era lo spettro. Poi diventarono “gli insorti.” Un po' più tardi “i ribelli”. Infine, era conosciuto come “la resistenza armata”. Ma il Male poteva anche presentarsi sotto le spoglie del loro stesso comandante o guardia, o un “nonno” [un soldato anziano] cui mancavano solo due mesi per la smobilitazione.95
Per via del peggioramento delle condizioni dell'esercito dopo il secondo conflitto mondiale, sia per quanto riguarda l'aspetto morale che la disciplina, la pratica della dedovščina peggiorò a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta, raggiungendo il suo apice alla fine degli anni Novanta. La durata del servizio non era tuttavia l'unico parametro in base al quale alcuni gruppi venivano sottomessi: spesso infatti all'interno delle unità si creavano tensioni razziali a causa della grande eterogeneità nella composizione etnica dell'esercito. All'inizio del conflitto i tre gruppi più numerosi erano appartenenti all'Asia centrale, c'era in particolare una prevalenza di tagiki, uzbeki e turkmeni. I motivi della loro massiccia presenza erano la vicinanza fisica delle truppe ai luoghi di conflitto e il fatto che inizialmente la convivenza di diverse etnie non sembrava rappresentare un problema. A metà degli anni Ottanta tuttavia, quando era ormai chiaro che il problema etnico provocava tensioni improduttive, i centro-asiatici vennero gradualmente sostituiti da soldati di nazionalità prevalentemente slava. La dedovščina dunque si verificava anche tra gruppi appartenenti a diverse etnie, comportando veri e propri episodi di emarginazione che sconfinavano spesso nel razzismo. In generale, le regole e le gerarchie qui riportate diventavano la legge non scritta cui tutti i soldati, fosse il motivo l'anzianità o l'appartenenza etnica, erano чуть тише добавил: - Сгною! […] От испуга Мышковский продолжал лежать на полу. Ботинки всемогущего деда удалялись к бытовке”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 1. 94 D. Lohman, op.cit., p. 19. 95 “When the soldiers first went to war, Evil was a dushman. Then it became “the insurgents.” A little later on “the rebels.” Finally, it was known as “the armed resistence”. But Evil also appeared in the guise of their own company commander or an ensign or a “grandfather” [an army old-timer] who had only two months to go before demobilization”. A. Borovik, op. cit., p. 2.
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sottoposti; Konstantin Bannikov, in uno studio sociologico sulla dedovščina, sottolinea che nell'Armata Rossa non era lo status ufficiale del soldato a contare veramente, ma la sua posizione nella gerarchia non ufficiale, che determinava la sua condizione all'interno dell'esercito.96 Il fenomeno conobbe un forte incremento nel corso degli anni anche per quanto riguarda la diffusione fuori dagli ambienti militari raggiungendo, come precedentemente sottolineato, un elevato grado di diffusione proprio durante gli anni dell'Afghanistan. Gradualmente, anche in seguito alle politiche di trasparenza e alle numerose testimonianze che il governo sovietico non riusciva più ad arginare, la coscienza del problema divenne sempre maggiore; nel 1990 la totalità dei coscritti e quasi tutte le loro famiglie erano a conoscenza del fenomeno e di ciò che esso comportava:97
Dalla lettera di un soldato: “mamma, comprami un cagnolino e chiamalo Sergente, così lo posso uccidere quando torno a casa”98
La diffusione della consapevolezza circa l'esistenza del problema contribuì enormemente alla degradazione dell'immagine dell'Armata Rossa, compromettendone inevitabilmente il prestigio e accelerando (anche per via dell'esasperazione delle tensioni etniche) il processo di dissoluzione, aggiungendosi all'insieme dei fattori relativi all'invasione in Afghanistan che contribuirono al crollo dell'URSS.
3.6 Affrontare la violenza del conflitto: tossicodipendenza e alcolismo Durante il conflitto in Afghanistan, l'esercito sovietico si trovò ad affrontare situazioni estremamente violente che ebbero inevitabilmente un enorme impatto psicologico sui soldati. Lo sconforto, la paura e la depressione erano le dirette conseguenze delle circostanze cui i combattenti erano quotidianamente sottoposti; il morale dell'esercito, oltre a essere pesantemente influenzato dalle condizioni fisiche, era minato quotidiane 96
D. Lohman, op.cit., p. 12. Soviet Journal of Military Studies, vol. 5, F. Cass, 1992, p. 57. 98 S. Aleksievič, op.cit., p. 46. 97
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rappresentazioni dell'orrore:
La guerra faceva diventare cinici o mistici. Mese dopo mese (e in combattimento giorno dopo giorno) ti tormentava con le vecchie domande: “Perché lui, Signore, e non io?” e “Quando sarà il mio turno? Tra cinque minuti o tra cinquant'anni?”99
In letteratura si hanno esempi spesso fortemente critici e realistici della descrizione delle azioni dei sovietici, che provocarono tra l'altro, in seguito alla fine del conflitto, reazioni decisamente negative in patria. Dalla letteratura emergono in particolare due punti di vista; il primo è assimilabile all'indottrinamento, secondo il quale ogni pietà doveva essere abbandonata di fronte al nemico (“Compagno colonnello, cosa facciamo coi civili pacifici?”, chiesi. “Uccideteli tutti” rispose” 100). Tra le unità veniva alimentato l'odio verso il nemico e non solo, visto che presto l'intera popolazione afghana iniziò a costituire idealmente una pericolosa minaccia:
Morgultsev ha ragione quando dice che “l'unico afghano buono è quello morto” … tutti questi villaggi afghani sono pericolosi... devi tenere gli occhi addosso ogni secondo a questi bastardi con la barba... volta loro la schiena e ti ci ritroverai un coltello...101
Molti soldati tuttavia erano perseguitati dal sentimento di pena e orrore provocato dalle continue violenze cui assistevano ogni giorno: Il primo ucciso… Un bambino afghano, di sette anni circa… Era disteso con braccia allargate, come nel sonno… Ed accanto, la pancia sventrata di un cavallo. Di che cosa sono colpevoli i bambini? Di che cosa sono colpevoli gli animali?102 Sofferenze incredibili e dolore per gli amici perduti, le difficoltà di un'esistenza semi-nomade, una vita essenzialmente incomprensibili in una terra sconosciuta, centinaia e centinaia di chilometri lontano da casa, deprivazione fisica, l'aver a che fare con crudeltà e barbarie medievali, sopportare l'orrore – tutto ciò stancava i sensi, prosciugava la pietà, indeboliva la natura buona così come nei russi, risvegliava la crudeltà e 99
A. Borovik, op. cit., p. 76. A. Borovik, op. cit., p. 96. 101 “правильно Моргульцев говорит:"...хороший афганец - мёртвый афганец"... в Афгане все кишлачки стрёмные...с этими бородатыми шутки плохи... отвернёшься-нож в спину воткнут за милое дело... ”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 6. 102 S. Aleksievič, op. cit., p. 183. 100
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l'inumanità a lungo dimenticata e persa nelle nebbie del tempo ereditate dagli avi dai tempi del regno durato duecento anni dei Mongoli sulla Russia.103
Il tema della violenza è ampiamente affrontato nella cinematografia russa sul tema, sebbene in modi molto diversi. In 9 Rota e Ochotniki Za Karavanami la descrizione segue gli standard dei film di guerra, essenzialmente attraverso scene di bombardamenti e conflitti a fuoco in cui però viene frequentemente sottolineata la componente violenta dei gruppi di ribelli, affermando implicitamente come la crudeltà dei sovietici fosse solamente una reazione o una conseguenza. In Gruz 200 invece, il tema della violenza è rappresentato in modo completamente opposto. Come accennato nel paragrafo iniziale del presente capitolo, in questo film, ambientato nel 1985, le vicende storiche relative all'Afghanistan sono menzionate direttamente relativamente di rado, e fanno da sfondo ai devastanti avvenimenti (realmente accaduti, secondo l'indicazione che compare all'inizio del film) narrati dal regista. Ma l'Afghanistan e la violenza come conseguenza diretta, attraverso l'uso di vari simbolismi, è uno dei temi principali del film. La violenza è rappresentata essenzialmente nei suoi effetti su due nuclei centrali: la situazione interna all'URSS e le vicende di politica estera. Contemporaneamente, dunque, vengono tracciati due piani di critica nei confronti del periodo in analisi: il primo è il livello domestico, cioè la rappresentazione di una società devastata da chi detiene il potere (narrata attraverso le violenze del Capitano di polizia Žurov sulla diciassettenne Angelika); il secondo è il livello rappresentato dagli interventi di politica estera del periodo, descritti attraverso la violenza inflitta a migliaia di giovani sovietici spediti in Afghanistan. Il ruolo del governo nella vicenda afghana viene criticato ulteriormente nella figura di Artem, professore al dipartimento di Ateismo Scientifico all'Università Statale di Leningrado, il quale davanti alle osservazioni di suo fratello, che esprime la sua angoscia per l'elevato numero di bare di zinco che continuano ad arrivare dall'Afghanistan, risponde: “Attento a ciò che dici!”. La violenza perpetrata ai danni dei giovani (sia quelli spediti in Afghanistan che quelli rimasti in Unione Sovietica, vittime del degrado) è ulteriormente rappresentata 103
“Непомерные страдания и переживания за потерянных друзей, трудности полукочевого, непонятного по сути существования на чужбине, за сотни и сотни километров от родных краев, физические лишения, столкновение со средневековым варварством и дикарством, пережитые ужасы - всё это притупляло чувства, притупляло жалость, притупляло врожденную, свойственную русскому человеку от природы доброту, и возрождало давно забытые, затерянные в глубине веков грубость, бесчеловечность, унаследованную древними предками от двухсотлетнего ига татарщины”. M.A. Evstafiev, op. cit., cap. 4.
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nella fase finale del film: il cadavere del fidanzato di Angelika, morto in Afghanistan, viene tirato fuori dalla sua bara di zinco e adagiato vicino alla ragazza, ammanettata a un letto. In questo film dunque, non è la violenza reale della guerra a essere rappresentata ma quella inflitta alla società intera, che al pari dei soldati in Afghanistan provò a cercare un rimedio o una via di fuga in due strumenti che devastarono sia l'esercito nel corso dell'esperienza afghana che la società sovietica nel suo complesso, durante
gli
anni
Ottanta
e
Novanta:
alcolismo
e
tossicodipendenza.
Infatti, durante l'esperienza in Afghanistan e anche in seguito al ritorno in patria dei veterani l'orrore venne affrontato principalmente con tentativi di straniamento, condotti attraverso l'uso di alcol e droghe:
E poi impazzii. Mi diedero una bottiglia di vodka – l'avevo bevuta tutta senza ubriacarmi – e realizzai con orrore che se non avessi sparato come si deve, mia madre avrebbe ricevuto un “200”.104
L'alcol, pratica già diffusa nell'esercito già da molto tempo, veniva usato dunque principalmente come metodo di alienazione, per raggiungere a tutti i costi una condizione di stordimento che permettesse di compiere il proprio dovere militare:
Era difficile buttare giù quell'alcol. Anche bevendolo con del succo, o con l'acqua, sapeva di cherosene o gomma, sembrava fermarsi nella gola, e dopo aver bevuto una bottiglia di quella spazzatura alcune persone si riempivano di macchie rosse.105
Spesso però, l'alcol diventava una vera e propria cura. In 9 Rota, ne viene data rappresentazione attraverso il seguente dialogo, tratto da una scena di discussione tra soldati circa le proprie intenzioni riguardanti il futuro:
Cosa farai quando tornerai a casa? Berrò. E poi? E poi berrò ancora e ancora, sino a dimenticare tutto.
Il tema dell'alcol è trattato anche, in modi diversi, nella cinematografia recente di Ochotniki Za Karavanami e Gruz 200. Il primo film, trattandosi di un resoconto di fatti 104
S. Aleksievič, op.cit., p. 40. “Не легко было пить технический спирт. Даже наполовину разбавленный соком или водой, отдавал он то ли керосином, то ли резиной, вставал поперёк горла, а после бутылки такой гадости люди покрывались красными пятнами”. M.A.Evstafiev, op.cit., cap. 4. 105
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storici, contiene un riferimento descrittivo estremamente diretto: alcuni soldati infatti vengono rappresentati nell'atto di acquistare diversi litri di vodka in un bazar del luogo. L'alcol è un elemento ricorrente nel film, presente in moltissime scene. In Gruz 200 invece l'alcol assume, in rapporto alla trama del film, un valore ancora una volta simbolico: elemento presente durante la narrazione al pari di un personaggio principale, l'alcol diventa simbolo, causa, e allo stesso tempo conseguenza del degrado della società russa di cui la nuova generazione è doppiamente bersaglio (come già analizzato, nelle figure di Angelika e del suo fidanzato, entrambi vittime del degrado morale che non impediva al governo di continuare a mandare inutilmente incontro alla morte migliaia di ragazzi, in Afghanistan). Un'ulteriore forte rappresentazione del decadimento è presente nella parte iniziale del film, in cui la protagonista viene stuprata con una bottiglia di spirito (Riferimenti iconografici, fig.10): la scena, in cui la ragazza riceve una violenza fisica e morale, può rappresentare in chiave simbolica l'alcol come causa (non certamente l'unica, ma avente comunque un certo grado di colpa) dell'imbarbarimento della società intera. Per quanto riguarda inoltre l'utilizzo dell'alcol come metodo di straniamento, oltre al fatto che Angelika viene sempre rappresentata nell'atto di bere alcol legata al letto, sino allo sfinimento, è interessante sottolineare che nel film i personaggi chiave sono sempre impegnati nel consumo di fortissime quantità di spirito: nella parte riguardante la carcerazione e lo stupro della protagonista, le figure ipoteticamente “salvatrici” sono riprese nell'intento di ubriacarsi a pochi metri di distanza dal luogo in cui Angelika viene detenuta e seviziata, in un tentativo di alienazione reso possibile solo dalle enormi quantità di spirito ingerite. Un ruolo simile a quello dell'alcol venne assunto dalle sostanze stupefacenti. La droga tuttavia, rispetto all'alcol, ebbe durante il conflitto in Afghanistan un ruolo maggiore anche per via delle questioni internazionali relative al commercio e all'alimentazione del conflitto. Anzi, da questo punto di vista il ruolo della droga è stato, durante il periodo in oggetto, fondamentale. Innanzitutto, il commercio internazionale di droga era uno dei maggiori finanziatori dell'esercito dei ribelli, ma non solo; la droga infatti veniva usata come una vera e propria arma: enormi quantità di droghe leggere e pesanti circolavano liberamente in Afghanistan durante il periodo dell'invasione, a prezzi bassissimi o addirittura gratuitamente. Per via di queste circostanze è possibile sollevare il dubbio che questa diffusione fosse dovuta a piani congegnati di proposito e sostenuti dalle potenze che più di tutte potevano trarre vantaggi dalla sconfitta dell'esercito sovietico (in questo caso, dunque, gli USA in particolar modo), per 75
demolire l'esercito e creare seri problemi di tossicodipendenza nella società russa degli anni Novanta, che effettivamente si diffuse poi come una piaga. La strategia fu realmente concretizzata nel celebre Piano Zanzara, discusso in segreto tra Reagan e un agente dei servizi segreti francesi al fine di allearsi per contrastare la minaccia sovietica in Afghanistan. Il piano, che prevedeva anche la diffusione di falso materiale informativo sovietico, venne ufficialmente abbandonato per questioni legate alla segretezza; ciò che è sicuro però è che in Afghanistan iniziarono a circolare davvero falsi materiali sovietici e soprattutto ingenti quantità di droga, comprese alcune varietà non prodotte direttamente in Afghanistan (provenienti dall'America del Sud).106 Che fosse o meno un tentativo di distruzione organizzata, la droga ebbe effetti devastanti sull'esercito e sulla società che accoglieva i veterani al loro ritorno. Utilizzata come metodo per scappare alla realtà che li circondava, la sua diffusione aumentò di anno in anno. Erano diffusi marijuana, cocaina, eroina e altri derivati del papavero, attraverso i quali i soldati cercavano di fuggire dalla disperazione. Due tipi di sostanza erano particolarmente presenti durante gli anni del conflitto: l'hashish, detto anasha, e il plan, un derivato dell'oppio. La droga veniva scambiata con munizioni e armi; iniziarono dunque i saccheggi delle riserve militari sovietiche, ma anche le rapine nei villaggi durante i raid; inoltre, la necessità di comprare droga portava i soldati al contrabbando e a contrattare con i loro stessi nemici. Rispetto all'alcol, la droga in Afghanistan è meno frequentemente menzionata nel cinema russo: l'unica descrizione che ne viene data è nel film 9 Rota, in cui i soldati vengono ripresi nell'atto di consumare segretamente droghe leggere (Riferimenti iconografici, fig. 11); sono tuttavia assenti i riferimenti alle motivazioni e all'uso di droghe pesanti. Il dramma della tossicodipendenza tra i soldati non si limitò agli anni dell'invasione; fu anzi uno dei fattori che più di tutti influenzarono la società russa. Sebbene fosse un problema già presente in URSS, si acuì contemporaneamente al ritorno in patria dei primi reduci. Nel 1987, il governo comunicò pubblicamente con stime ufficiali che il numero di consumatori di droghe pesanti (175.000) rispetto al 1984 era raddoppiato. Nel 1990, secondo il capo dell'ufficio investigativo Nikolaj Kromov,
106
Cfr. J.K. Cooley, Unholy Wars: Afghanistan, America and International Terrorism, LondonSterling (Va), Pluto Press, 2000 (tr.it. Una guerra empia: la CIA e l'estremismo islamico, Milano, Eleuthera, 2002).
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500.000 cittadini sovietici facevano regolare uso di narcotici; addirittura, si stima che le cifre riportate siano molto più basse dei dati reali.107 A prescindere dagli effetti sulla società nel periodo successivo alla fine del conflitto comunque, l'utilizzo di stupefacenti durante l'esperienza afghana si presentava ai soldati come una temporanea fuga e come strumento di sopravvivenza:
C'era molto oppio e marijuana, e qualsiasi cosa riuscissero ad avere. Ti faceva sentire forte e libero da tutto, specialmente dal tuo corpo, come se stessi camminando in punta di piedi […] per un momento si poteva addirittura credere che la nazione amasse i suoi eroi! In quelle condizioni era facile uccidere – era come essere anestetizzati e senza pietà.108
Purtroppo però, gli effetti non cessarono di esistere nel 1989, con la ritirata delle truppe: anzi, la tossicodipendenza entrò a far parte a tutti gli effetti della vita di molti reduci, che trovarono il loro ritorno a casa ancora più difficile ed estraniante, in una società non pronta ad accogliere i veterani e tutti i problemi di reinserimento in società correlati al loro ritorno in Unione Sovietica.
3.7 Il nemico: i mujaheddin I mujaheddin, cioè i “combattenti di Dio” promotori della ribellione contro gli invasori sovietici, si coordinarono in gruppi armati subito dopo il colpo di stato del 1978. In seguito alla Rivoluzione di Saur dunque, insiemi di volontari iniziarono a riunirsi e a organizzarsi secondo diverse modalità in Afghanistan e a Peshawar (in Pakistan). Composti all'inizio da pochi elementi, i piccoli gruppi di dieci, venti o trenta persone iniziarono a sviluppare abilità di pianificazione e organizzazione grazie alle quali acquisivano tecniche e armi che si rivelarono fondamentali nel conflitto (in cui i guerriglieri risultarono avvantaggiati anche grazie al consenso ottenuto tra la popolazione civile). Sebbene i conflitti si svolgessero in Afghanistan, il Pakistan divenne la base ideale per la conduzione della guerra: oltre ai gruppi afghani sparsi per il paese, nello stato vicino 107 108
J.K. Cooley, op.cit., p. 276. S. Aleksievič, op.cit., p. 25.
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iniziò a formarsi una gerarchia coordinata che portò alla creazione di un fronte composto da sette gruppi di guerriglieri. I principali gruppi della resistenza sunnita di Peshawar si formarono dalla scissione del vecchio movimento della Gioventù Musulmana, che si divise in tre gruppi islamisti: il primo, l'Hezb-i-Islam, era guidato dal fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar. Il secondo, chiamato anch'esso Hezb-i-Islam, era guidato da Mawlawi Younis Khalis. A capo del terzo, il Jamiati-i-Islami, c'era Burhanuddin Rabbani, uomo di grande cultura non avverso all'Occidente quanto Hekmatyar. Il quarto partito sunnita, quasi interamente finanziato dall'Arabia Saudita, era l'Ittihad (Unione), guidato da Sayyaf. Gli altri tre gruppi (il Fronte Nazionale Islamico per l'Afghanistan di Gailani, il Fronte per la Liberazione Nazionale dell'Afghanistan di Mojaeddedi, e il Movimento Islamico Rivoluzionario di Mohammadi), erano nuclei tradizionalisti che si consideravano moderati, sostenevano la sharia ed erano ostili all'idea di una rivoluzione islamica. Tutti i gruppi erano di maggioranza pasthu a eccezione del Jamiat-i-Islami, che era a maggioranza tagika. La presenza di diversi gruppi, nonostante il raggiungimento di alti gradi di organizzazione, continuò a dar vita (in particolare dopo la ritirata sovietica) a lotte intestine, specchio della forte frammentazione che ben rappresentava l'eterogeneità della società afghana. Nella fase più violenta del conflitto, a metà degli anni Ottanta, il processo di addestramento dei gruppi armati si svolgeva in Pakistan, e veniva controllato principalmente dall'ISI, che come già accennato ebbe un ruolo fondamentale come finanziatore della jihad. La procedura seguiva un ordine quasi gerarchico: i vertici erano occupati da ufficiali pakistani e afghani (ma anche di altre nazionalità) spesso addestrati negli Stati Uniti. I capi avevano il compito di trasmettere il loro insegnamento a migliaia di combattenti reclutati in gran parte attraverso l'ISI in tutto il mondo musulmano.109 Oltre all'addestramento, un fattore critico era rappresentato dalla fornitura di armi e strumenti di comunicazione. L'equipaggiamento a disposizione dei mujaheddin cambiò radicalmente in qualità e quantità quando, attraverso l'ISI, gli Stati Uniti iniziarono ad alimentare il conflitto in modo importante: se all'inizio della guerra le armi a disposizione dei mujaheddin erano fabbricate da artigiani afghani, in seguito i guerriglieri iniziarono a disporre dei carichi di armi provenienti dal vicino Pakistan, entrando in possesso di armi di calibro superiore tra cui missili, equipaggiamenti di
109
Cfr. J.K. Cooley, op.cit., (2000).
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comunicazione avanzati, e a metà degli anni Ottanta il missile americano Stinger, argomento ampiamente trattato nel cinema russo; la cessione del missile da parte degli americani è uno dei temi centrali del film Ochotniki Za Karavanami. I mujaheddin agivano secondo tattiche precise, alcune delle quali miravano a tagliare strategicamente fuori dal combattimento l'esercito sovietico. Le tattiche si rivelavano spesso vincenti; un esempio celebre è costituito dai combattimenti nella valle del Panshir condotti dal capo Ahmad Shah Massoud, detto il leone del Panshir, diventato famoso per aver costretto i sovietici a ritirarsi dalla sua zona:
La sera, quando terminavano i bombardamenti e atterravano gli aerei che bombardavano la non lontana valle del Panshir, con il suo forte leone Ahmad Shah-Massoud, il quale aveva costruito lì una sorta di piccolo stato con prigioni, ospedali, le proprie leggi... 110
Utilizzando come metodo principale l'imboscata, i ribelli agivano metodicamente in agguati giornalieri di grossi convogli e attacchi notturni alle postazioni di guardia. Nei campi di addestramento impararono inoltre le tattiche di sabotaggio strategico, come la distruzione dei raccolti di villaggi amichevoli ai sovietici e il danneggiamento della produzione controllata dal regime nemico. In diverse occasioni, i mujaheddin catturarono prigionieri di guerra; una delle pratiche per la quale divennero famosi, il taglio della gola, terrorizzava talmente tanto i sovietici che si verificarono casi di istantanea conversione all'Islam:
Ci sono tante storie sulle crudeltà con cui i mujaheddin trattano i nostri prigionieri. È veramente un'altra epoca qui – il quattordicesimo secolo, secondo i loro calendari.111
Un tale grado di organizzazione comportava un'adeguata quantità di finanziamenti, che arrivavano, tra gli altri, da USA, Arabia Saudita, BCCI e, in seguito a quella che può essere considerata una vera privatizzazione della jihad, da patrimoni arabi privati come quello della famiglia Bin Laden. Lo stesso Osama Bin Laden creò una base a Peshawar diventandone il leader, collaborando con l'ISI ma rifiutandone il controllo diretto. In un intreccio di relazioni internazionali che portarono poi alla nascita del terrorismo mondiale, Osama Bin Laden creò dunque, inizialmente come forza di sostegno alla
110 111
O. Ermakov, op.cit., (2003). S. Aleksievič, op.cit., p. 45.
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jihad afghana anti-sovietica, la cellula di al-Qaeda.
I mujaheddin erano musulmani, e i loro concetti di morte e di uccisione del nemico, essendo supportati da ideali religiosi, erano diversi da quelli degli altri combattenti. La rappresentazione dei mujaheddin nel cinema internazionale e in quello russo è varia e diversificata. Generalmente, nel cinema internazionale il mujahed è stato dipinto come elemento buono o positivo, descrizione completamente ribaltata nelle produzioni russe, in cui viene sempre sottolineato l'integralismo religioso; nel film Ochotniki Za Karavanami, ad esempio, l'apertura è affidata all'inquadratura di un gruppo di mujaheddin che si preparano per un'imboscata, al grido di Allah Akbar (Dio è più grande). Come accennato, per i mujaheddin, la battaglia assumeva un particolare significato in quanto guerra santa. Nessuna pietà era dunque prevista per i nemici, che venivano chiamati con l'appellativo di shuravi, nome ampiamente utilizzato nella narrativa post-sovietica:
Eccoli, i soldati russi, così vicini! Non stanno sparando più. Hanno finito le munizioni. Si ritirano dal villaggio. I mujaheddin sparano con attenzione da tutti i lati. Giù uno, ora un altro. Il terzo sarebbe morto da un momento all'altro, e tutto si sarebbe concluso, il divertimento sarebbe finito. Doveva sbrigarsi! Sayeed Mohammed si preparò, mirando al terzo shuravi, premette il grilletto e lo ferì alla gamba sinistra. […] “Hai sparato bene,” disse con orgoglio il fratello prendendo al morto la mitragliatrice. Sayeed Mohammed vide gli sguardi di approvazione degli altri mujaheddin. “Taglia un dito” disse il fratello, passandogli un grosso coltello. “ È il tuo primo shuravi”.112
Secondo la religione islamica, morire uccidendo uno shuravi era il più grande onore che si potesse ricevere, poiché apriva le porte del Paradiso:
Perché non era caduto nell'ultima battaglia, perché non era andato dritto in Paradiso? Sayeed Mohammed è un musulmano diligente, obbedisce al Corano, prega cinque volte al giorno, combatte gli infedeli, sa che un mujahed non ha niente da temere, che la guerra santa – jihad – è una strada diretta per il Paradiso.113 112
“Вон же они, русские солдаты, так близко! Больше не отстреливаются. Патроны кончились. Удирают из кишлака. Моджахеды стреляют чётко, с разных сторон. Одного уложили, второго. Третьего сейчас убьют, и тогда закончится веселье. Надо спешить! Саид Мохаммад нашёл упор, взял третьего шурави на мушку, выстрелил, и подранил в левую ногу. […] "Хорошо стрелял", - похвалил брат, поднимая автомат убитого. Саид Мохаммад поймал поощрительные взгляды других моджахедов. "Отрежь ему палец, - брат протянул большой нож. - Твой первый шурави"”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap.1. 113 “Почему не погиб он в последнем бою, почему сразу не попал в рай? Саид Мохаммад -
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Rispetto alla rappresentazione del cinema internazionale (in particolare di quello americano), i mujaheddin del cinema sovietico e russo vengono descritti come nemici onnipresenti e inquietanti. Nella narrativa russa, l'essenza spaventosa del nemico veniva sintetizzata con l'appellativo russo utilizzato per indicare i mujaheddin: duchi. Con questo nome, il cui significato è “fantasmi”, i sovietici erano soliti indicare i loro nemici:
temendo di essere colpiti da un invisibile ma sempre presente nemico...114 Grande angoscia era causata nei soldati dalla sensazione di combattere contro “fantasmi”, poiché i nemici spesso rimanevano nascosti o agivano durante la notte. I duchi erano i fantasmi. Era lo slang usato per indicare i ribelli.115
Nell'immaginario collettivo dell'esercito, i mujaheddin divennero fantasmi per via degli attacchi notturni in seguito ai quali scomparivano nell'oscurità del territorio a loro ben noto. L'ossessione dei sovietici per questo inusuale nemico è ben rappresentata ancora una volta nel film Ochotniki Za Karavanami, in cui i soldati sono perseguitati da inquietanti incubi notturni, i cui protagonisti sono sempre, notte dopo notte, i tanto temuti duchi (Riferimenti iconografici, fig.12).
3.8 Rapporti con le famiglie e bare di zinco La condizione dei militari, già difficile per i motivi precedentemente affrontati, era accentuata dall'estremo senso di isolamento dalla patria. Oltre che essere lontanissimi dalle famiglie infatti, nelle loro lettere i soldati non potevano comunicare liberamente esprimendo normali sentimenti di angoscia e paura, che erano dunque costretti a interiorizzare silenziosamente sia per via delle restrizioni imposte dal настоящий мусульманин, он чтит Коран, он пять раз в день совершает намаз, который год уже он воюет против неверных, и потому знает, что моджахеду нечего боятся, что священная война джихад - прямая дорога в рай”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap.1. 114 “[...] боясь быть подбитыми невидимым, но вездесущим врагом...”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap.1. 115 A. Borovik, op.cit, p.19.
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governo, che per la volontà (soprattutto durante gli ultimi anni di conflitto, quando in URSS iniziavano a trapelare informazioni sulla reale situazione in Afghanistan), di non fornire alle proprie famiglie ulteriori motivi di preoccupazione:
Avrebbe davvero dovuto decidere di sedersi e scrivere, ma non era nell'animo giusto. Le parole scritte sulla carta diventavano generiche, anche se calde abbastanza e sufficienti per qualcuno che stava lontano e provava ansia. Come di regola, il tono delle lettere era trattenuto, leggero, per il desiderio di conservare le parole davvero importanti per quando sarebbe tornato a casa.116
Sin dall'inizio del conflitto i militari venivano invitati a evitare riferimenti circa la propria destinazione (in moltissimi casi le famiglie non erano neanche a conoscenza della reale posizione del proprio familiare), e di parlare, anche solo in generale, di tutto ciò che riguardava l'esercito e le attività svolte in Afghanistan; inoltre, era espressamente vietato qualsiasi tipo di critica nei confronti del governo e della conduzione della guerra. Pertanto la posta, prima di essere spedita, veniva spesso controllata e censurata. Molte volte, gli addetti alla corrispondenza aprivano le buste per controllare l'eventuale presenza di soldi o altri beni facilmente sequestrabili:
La sfiducia nel servizio postale dell'esercito portava a non mettere nelle lettere niente di segretamente sentimentale. Le lettere da casa arrivavano in ritardo di una settimana, a volte, e sul retro della busta aveva visto due volte il timbro “Lettera ricevuta in condizioni danneggiate.” Ciò significava che la lettera era stata aperta, controllata, probabilmente letta. A volte le lettere non arrivavano per niente. In questi casi si pensava che qualche soldato di servizio all'ufficio postale avesse aperto la lettera in cerca di soldi – spesso infatti c'era del denaro -, per poi buttare via la lettera invece di richiuderla.117
I rapporti con le famiglie dunque si limitavano alla corrispondenza controllata e a brevi periodi di congedo soprattutto in caso di ferite gravi. Ma è in un altro caso che le
116
“Самому надо было бы сесть за письмо, но Олег никак не мог настроиться на правильный тон разговора с женой. На бумаге обычно складывались фразы общие, но и своей общей теплотой, достаточные для человека близкого, переживающего разлуку и беспокойство. Писал он обычно сдержанно, коротко, из желания сберечь слова главные до возвращения”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap.3. 117 “Вместить же в письме что-то скрытно-сентиментальное не решался из-за недоверия к армейским почтовым службам. Письма из дома часто опаздывали на неделю, а на оборотной стороне дважды встречался штамп "письмо получено в поврежденном виде". Это означало, что его вскрывали, проверяли, возможно читали. Иногда письма вообще не доходили. В таком случае предполагали, что какой-нибудь стервец-солдат на почте в поиске денег - а в конвертах часто их пересылали - распечатал письмо и, ленясь заклеить, выкинул”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 3.
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famiglie si scontravano con le condizioni e la burocrazia imposte dal governo: in caso di morte del soldato. Come è noto, i cadaveri venivano portati in URSS rinchiusi nelle famose bare di zinco caricate a bordo dei Black Tulips, i grandi aerei cargo AN-12 diventati celebri per la funzione cui erano stati adibiti durante il conflitto in Afghanistan. Alle madri era vietato vedere il cadavere dei propri figli per evitare di diffondere tra la popolazione informazioni riguardanti gli effetti della guerra sui corpi dei propri cari; inoltre era spesso difficile identificare i corpi e assegnare il cadavere al nome riportato sulla bara, poiché dopo i primi anni di guerra il numero dei cadaveri era così elevato che spesso non era possibile portare a termine correttamente tutte le necessarie operazioni di identificazione:
Andreij fu spedito a casa in una bara di zinco senza finestrella. Come se fosse inscatolato. Non c'era modo di aprire la bara per l'ultimo sguardo. La bara stava su un tavolo del loro appartamento, aliena e fredda; la loro madre graffiava la bara con le unghie, in preda al dolore, pregando di poterlo vedere; non riuscì mai a credere, non avendolo visto coi suoi occhi, che suo figlio era morto.118
Durante il viaggio di ritorno, ogni scatola contenente una bara riceveva il nome neutrale di Cargo 200. I Cargo 200 venivano di solito trasportati di notte o in aeroporti militari lontani dalle città, per evitare di attirare l'attenzione sul crescente numero di aerei di questo tipo che atterrava ogni mese in Unione Sovietica. Dopo l'arrivo delle bare, era prevista una procedura speciale che impediva la sepoltura dei cadaveri in zone istituite specialmente per i caduti dell'Afghanistan (per evitare di rendere evidente il numero delle morti) nonostante i solleciti delle famiglie affinché ciò fosse possibile. Il tema della morte e delle bare di zinco è forse il più affrontato nella narrativa russa, mentre ha meno risalto nella cinematografia. Viene affrontato in modo particolare nel film Gruz 200, in cui viene mostrata addirittura la profanazione di una delle bare da parte di un ufficiale di Polizia (Riferimenti iconografici, fig.13). Sempre in Gruz 200, una scena emblematica rappresenta metaforicamente la tragedia della distruzione di un'intera generazione: il regista mostra infatti l'operazione di scarico delle bare da un Black Tulip proveniente dall'Afghanistan, mentre contemporaneamente, sullo stesso 118
“Привезли Андрея домой в цинковом гробу без окошечка. Как в консервной банке. Ни открыть, ни заглянуть во внутрь. Стоял гроб в квартире на столе, чужой, холодный; мать царапала в надрыве ногтями крышку, умоляла открыть; так и не поверила, что он мёртв”. M.A. Evstafiev, op.cit., cap. 4.
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cargo, vengono imbarcati decine di militari che si apprestano a volare verso la stessa destinazione (Riferimenti iconografici, fig.14). Al contrario, ampio spazio è dedicato al tema in narrativa: in Vozvraščenie v Kandahar, la bara di zinco e il ritorno a casa dei cadaveri è uno dei temi principali. Il primo capitolo si apre con la descrizione del recupero di un cadavere, caricato in un aereo che viene trasformato in «potente e capiente carro funebre»,119 descritto dall'autore come un'ombra che passa inosservata in mezzo all’indifferenza dei radar. Anche in questo racconto, la critica nei confronti della conduzione del conflitto è presente e forte: Nessuno trasalì quando Fiksa affondò nell’argilla germana. Così devono seppellire i soldati. Con rapidità, precisione, senza rumore inutile. Gli allievi dell’orfanotrofio costituiscono il miglior contingente per tutte le missioni di stato pericolose.120
Ermakov racconta il viaggio di ritorno anche attraverso l'uso dei sensi, in particolare l'olfatto; l'odore dei cadaveri è infatti un elemento cui viene data particolare enfasi: L’odore penetrava nello scompartimento passeggeri. Ma sembrava che nessuno ci facesse più caso. L’odore di carne in putrefazione: dopotutto, non c’è niente di strano. La terra è piena zeppa di resti putrefatti.121 Nella fase di atterraggio, i piloti aprivano sempre i portelli di coda, facendo aerare lo scompartimento bagagli per poterci poi entrare senza maschere antigas.122
Anche in Zinky Boys le madri richiamano spesso diversi particolari riguardanti i cadaveri dei propri figli e le condizioni in cui essi ritornavano in URSS:
“Puzzava? Il nostro si...” “Anche il nostro. Abbiamo anche visto qualche piccolo verme bianco uscire dalla bara...”
119
O. Ermakov, op.cit., p. 57. O. Ermakov, op.cit., p. 59. 121 O. Ermakov, op.cit., p. 11. 122 Ibid. 120
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Alle madri, oltre alla perdita dei propri figli e alle sofferenze subite durante il procedimento di rimpatrio della bara, che spesso durava anche diversi mesi, era richiesto un doppio sforzo. Venivano infatti incoraggiate a fare da testimoni dell'esperienza afghana, assecondando e alimentando la carneficina portata avanti dal governo sovietico: Dalle madri, annientate dal dolore sulle fredde bare di metallo, ci si aspetta che si riuniscano per parlare nei collettivi, anche nelle scuole, esortando gli altri ragazzi a “fare il proprio dovere patriottico”.123
In generale dunque, è possibile affermare, considerando la quantità di riferimenti rintracciabili in narrativa e nelle testimonianze degli individui la cui vita fu a vario titolo condizionata dall'esperienza afghana, che la bara di zinco è un'immagine rimasta fortemente impressa in epoca post-sovietica in quanto simbolo degli eventi e della tragedia che colpì moltissime famiglie, incidendo non solo su di esse ma influenzando profondamente la società russa nel suo complesso.
3.9 Gli afgancy, emarginazione e ingresso in società L'Afghanistan, al pari del Vietnam per i reduci americani, divenne un'esperienza che influenzò profondamente la vita dei soldati anche e soprattutto dopo il ritorno in patria, quando si rendeva necessario il reinserimento in società che spesso, per diversi motivi, risultava difficile e traumatizzante. È noto, soprattutto grazie alle testimonianze dirette di alcuni autori, che l'esperienza cambiava la vita dei reduci per sempre:
L'Afghanistan è diventato parte di tutte le persone che lì hanno combattuto. E tutti i soldati che hanno attraversato questa guerra sono diventati parte dell'Afghanistan – parte della terra che non potrà mai riuscire ad assorbire il sangue su essa versato124
123 124
S. Aleksievič, op.cit., p. 10. A. Borovik, op.cit., p. 1.
85
Al ritorno in patria, i reduci si trovavano ad affrontare i problemi, ulteriormente aggravati, di cui avevano sofferto durante l'esperienza militare. Molti afgancy ebbero problemi di alcolismo e tossicodipendenza, e moltissimi ebbero veri e problemi psichici di sindromi post-traumatiche:
Per un anno intero ho avuto paura di uscire – niente giubbotto antiproiettile né elmetto, niente pistola, mi sentivo nudo. Ho incubi. C'è una pistola premuta contro la mia fronte, abbastanza grande da farmi saltare il cervello. Mi mettevo a urlare la notte, mi buttavo contro i muri. Quando squilla il telefono inizio a sudare, sembra una sparatoria...125
La
condizione
degli
afgancy
venne
resa
ulteriormente
difficile
dal
comportamento del governo sovietico nei confronti del nuovo gruppo sociale che lentamente, anno dopo anno, ingrossava le proprie file mentre il conflitto proseguiva:
Alle autorità non importa niente. “Ora, gente”, cercavano di convincerci, “non parlate troppo di quello che avete visto e fatto quando eravate là”. Un segreto di stato, con 100.000 soldati in un altro paese!126
Inizialmente infatti la leadership sovietica, per sminuire l'importanza del coinvolgimento sovietico in Afghanistan in termini numerici, non riconobbe l'esistenza degli afgancy come nuova entità, concedendo benefici irrisori o praticamente inesistenti. Inoltre i reduci venivano sistematicamente ignorati dai media, che riflettevano l'iniziale sentimento di condanna che la società sovietica riversava proprio sugli ex-soldati in seguito alla diffusione dei primi resoconti riguardanti le azioni dell'esercito contro la popolazione civile. Era molto difficile per i reduci trovare una casa o un lavoro, e per quanto riguarda l'assistenza sanitaria ricevevano dal governo aiuti inadeguati. Sia per tentare una riabilitazione della propria immagine che per cercare di ottenere dal governo sovietico condizioni migliori, a pochi anni dall'inizio del conflitto, alcuni afgancy iniziarono a coordinarsi politicamente e a organizzare proteste pubbliche. Durante gli anni Ottanta, il bisogno di un'articolazione a livello nazionale portò i veterani politicamente attivi a fondare associazioni grazie alle quali i veterani cercarono di partecipare attivamente alla costruzione della società attraverso l'attivismo politico non strettamente correlato al partito comunista, con uno strappo netto rispetto alla tradizione
125 126
S. Aleksievič, op.cit., p. 21. S. Aleksievič, op.cit., p. 56.
86
politica dell'Unione Sovietica, cercando di rompere con i numeri il silenzio imposto dall'autorità:127
A nessuno importa niente di noi. Se non ci fossimo battuti noi stessi per i nostri diritti, nessuno avrebbe saputo niente di questa dannata guerra. Se non fossimo stati così tanti, 100.000 in effetti, ci avrebbero zittiti, come hanno fatto dopo il Vietnam e dopo l'Egitto.128
Nella cultura russa, il ruolo degli afgancy è rimasto per molto tempo marginale e ghettizzato, a ulteriore dimostrazione della lontananza dei reduci dall'ambiente della società che tentò inizialmente di riversare sull'intero gruppo la colpa in realtà attribuibile a un numero limitato di individui, che con le loro azioni avevano gettato discredito sull'intero esercito:
È difficile determinare esattamente cosa siamo riusciti a insegnare all'Afghanistan. È però relativamente facile riconoscere gli effetti dell'Afghanistan sulle persone che lì hanno lavorato e combattuto. Con un lieve gesto della vecchia mano di Brežnev, sono state buttate dentro a un paese in cui tangenti, corruzione, sciacallaggio e droghe erano non meno comuni delle lunghe file nei negozi sovietici. Queste malattie possono essere molto più contagiose dell'epatite, soprattutto quando diventano epidemie.129
Negli anni recenti, i veterani hanno utilizzato internet come strumento associativo parallelamente allo sviluppo del fenomeno nel resto della società russa. Grazie a siti web e forum, i veterani hanno iniziato a mettersi in contatto tra di loro; alcuni di loro hanno dato vita a una comunità virtuale, The Art of War, che è diventato il punto di riferimento delle persone desiderose di condividere le proprie esperienze; è grazie a questo sito che hanno iniziato a circolare in tutto il mondo le voci dei reduci (compreso lo stesso Michail Evstafiev), sia in forma di testimonianza diretta che di poesie, canzoni e testi di narrativa.130
127
Cfr. M. Galeotti, op.cit., (2005). S. Aleksievič, op.cit., p. 129. 129 A. Borovik, op. cit., p. 13. 130 http://artofwar.ru/ 128
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Riferimenti iconografici
Figura 1, Ochotniki Za Karavanami: soldati in attesa della partenza per il campo di addestramento
Figura 2, 9 Rota: attacco dei mujaheddin
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Figura 3, 9 Rota: congedo dalle famiglie
Figura 4, Ochotniki Za Karavanami: acquisto di beni in un bazar afghano
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Figura 5, 9 Rota: attacco aereo
Figura 6, 9 Rota: attacco via terra
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Figura 7, 9 Rota: bombardamento su villaggio
Figura 8, 9 Rota: mina sovietica
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Figura 9, 9 Rota: percosse su una recluta
Figura 10 , Cargo 200: prigionia di Angelika
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Figura 11, 9 Rota: uso di droghe
Figura 12, Ochotniki Za Karavanami: l'incubo di un soldato sovietico
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Figura 13, Cargo 200: profanazione di una bara di zinco
Figura 14, Cargo 200: un Black Tulip accoglie nuove reclute in partenza per l'Afghanistan mentre contemporaneamente vengono scaricate le bare dei militari morti in missione 94
Conclusioni L'obiettivo principale di questa tesi di laurea, cioè l'analisi della ricostruzione dell'intervento sovietico in Afghanistan nella storiografia e nella cultura della Russia post-sovietica, è stato raggiunto tramite lo studio di due diversi tipi di materiale: saggi e articoli accademici, in base ai quali è stato possibile delineare una ricostruzione storiografica di particolari temi relativi al fatto storico in oggetto e verificare la presenza di punti di discontinuità rispetto all'analisi storiografica internazionale, e creazioni artistiche quali opere di narrativa e cinematografiche di produzione russa, grazie alle quali è stato possibile studiare e valutare l'impatto di quella vicenda sulla cultura russa post-sovietica. È necessario sottolineare, in primo luogo, che le analisi condotte hanno dimostrato la presenza ricorrente, in tutti i tipi di documento considerati, di argomenti specifici e maggiormente trattati rispetto ad altri. Dall'analisi dei materiali scientifici usati per la ricostruzione storiografica emerge infatti la tendenza degli storici russi a mettere in rilievo alcuni aspetti particolari del conflitto come le motivazioni, le reazioni internazionali e in modo particolare il ruolo dell'Unione Sovietica all'interno del quadro di risoluzione del conflitto; come risultato dell'analisi di questi temi, l'autrice della tesi identifica due aspetti rilevanti: il primo è la tendenza della storiografia russa analizzata a evidenziare, seguendo un approccio alternativo a quello di parte della storiografia tradizionale, i fattori positivi discostandosi dalla visione secondo la quale l'intervento sovietico in Afghanistan avrebbe rappresentato una completa disfatta per l'Unione Sovietica. La storiografia russa analizzata sottolinea infatti l'importanza dei tentativi di stabilizzazione portati avanti dall'URSS che avevano permesso al regime afghano di sopravvivere per alcuni anni dopo il ritiro delle truppe sovietiche, nonostante la situazione precaria del governo e dei conflitti interni al paese. Il secondo aspetto riguarda la ricostruzione del ruolo del segretario del PCUS Michail Gorbačëv nel quadro della risoluzione del conflitto. Se, infatti, la storiografia tende generalmente a identificare Gorbačëv come il portatore di una visione innovativa e di rottura rispetto al passato, la storiografia russa analizzata non tralascia di sottolineare elementi di continuità con i precedenti governi, apportando dunque nuovi elementi rispetto alla ricostruzione della politica sovietica nel quadro dell'intervento in Afghanistan. Per quanto riguarda la rappresentazione dell'evento nelle opere creative (letterarie e cinematografiche), a seconda del mezzo di comunicazione si nota la 95
tendenza a sviluppare maggiormente alcuni temi quali la conduzione militare dell'intervento (soprattutto per quanto riguarda il cinema) e le condizioni umane e sociali dell'esercito (soprattutto in narrativa). Il moltiplicarsi di produzioni artistiche a partire dagli anni successivi alla fine del conflitto ha permesso una maggiore diffusione di informazioni; in seguito all'analisi dei materiali è possibile giungere ad affermare l'esistenza di un effettivo impatto sulla società russa, dimostrato dall'analisi dei contenuti delle produzioni stesse, basate in molti casi su testimonianze di reduci che in quanto tali forniscono una rappresentazione a volte estremamente fedele dei fatti storici realmente accaduti. I diversi sotto-temi sono stati ricostruiti attraverso la valutazione di alcuni passi di narrativa o cinema, avendo l'obiettivo di disegnare un quadro riassuntivo che raccolga almeno le principali produzione artistiche sul tema. In conclusione, è possibile affermare che l’esperienza dell’Afghanistan ha influito effettivamente sulla società russa post-sovietica sia per quanto riguarda la letteratura accademica, attraverso l'esposizione di punti di vista che variano dalla comune visione internazionale, sia per quanto riguarda il complesso della cultura e in particolare la letteratura e il cinema. La rappresentazione della guerra nell'arte infatti sembra aver creato un nuovo flusso comunicativo che oltre a fungere da mero mezzo artistico ha contribuito alla diffusione di informazioni altrimenti sconosciute o poco trattate, influenzando in questo modo non solo il mondo della cultura ma anche e soprattutto la società, creando una coscienza collettiva che ha permesso la nascita di una letteratura di denuncia nonché una riflessione approfondita e critica sul tema.
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