Autismo Infantile: sindromi correlate e strategie di intervento educativo

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CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLE PROFESSIONI EDUCATIVE DI BASE

AUTISMO INFANTILE. SINDROMI CORRELATE E STRATEGIE DI INTERVENTO EDUCATIVO.

Relatore: PROF. GIANFRANCO NUVOLI

Tesi di Laurea di: GABRIELE COMIDA

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



INDICE.

Prefazione di Comida Gabriele.

PARTE PRIMA

1. Capitolo I DEFINIZIONE:COS’E’ L’AUTISMO?

1.1) Criteri di classificazione: quando si parla di autismo? 1.2) Il Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders. 1.3) Diagnosi differenziale e prima visita. 1.4) La sindrome di Asperger. 1.5) La sindrome di Rett.

2. Capitolo II LE BASI NEUROBIOLOGICHE DELL’AUTISMO:ALTRI TIPI DI SINDROMI.

2.1) Ritardo mentale. 2.2) Epilessia. 2.3) Il rischio in gravidanza. 2.4) L’esordio del quadro clinico. 2.5) Sindromi neurocutanee. 2.5.1) Ipomelanosi di Ito. 2.5.2) Sclerosi tuberosa. 2.5.3) Neurofibromatosi. 2.6) Sindromi mal formative 2.7) Sindromi cromosomiche. 2.8) Sindrome di Gilles de la Tourette.

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3. Capitolo III TAPPE DI SVILUPPO DEL BAMBINOAUTISTICO.

3.1) Lo sviluppo delle emozioni. 3.1.2) Lo sviluppo della personalità. 3.2) Lo sviluppo della comunicazione. 3.2.1) I problemi comunicativi. 3.3) Lo sviluppo del linguaggio. 3.3.1) Problemi specifici del linguaggio. 3.4) Lo sviluppo del pensiero. 3.4.1) I problemi legati al pensiero.

4. Capitolo IV LINEE GUIDA DI EDUCAZIONE,TERAPIA E RIABILITAZIONE.

4.1) Incoraggiare il pensiero. 4.2) Il metodo TEACCH. 4.2.1) I principi base del TEACCH. 4.3) Le strategie di intervento. 4.3.1) La strutturazione. 4.4) Il rinforzo. 4.5) L’aiuto 4.6) Altre terapie utili 4.6.1) La Comunicazione Facilitata (C F) 4.6.2) Il Metodo Etodinamico A.E.R.C e l’HOLDING 4.6.3) La Comunicazione Aumentativa e Alternativa di Cafiero. 4.6.4) L’Intervento Comportamentale precoce di Lovaas. 4.6.5) Musicoterapia.

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5. Capitolo V L’ ATTIVITA’ CORPOREA.

5.1)I l concetto di schema motorio. 5.2) L’elaborazione del programma motorio. 5.3) L’esecuzione motoria. 5.4) Il controllo motorio. 5.5) Le difficoltà di apprendimento motorio del bambino.

PARTE SECONDA.

6. Capitolo VI AUTISMO IN SARDEGNA.

6.1) L’Associazione Sardegna Onlus. 6.2) Il progetto dell’ospedale Brutzu a Cagliari. 6.3) Sardinia Dive e Psicologia. 6.3.1) L’esperienza di Alessandro al Sardinia Dive. 6.4) Il progetto Filippide. 6.4.1) La testimonianza di Luca.

7. Capitolo VII STORIE DI BAMBINI AUTISTICI.

7.1) La storia di “Gianni:” tra autismo e sport. 7.2) La storia di “Salvatore.” 7.3) Il caso di “Michael.” 7.4) Un caso clinico: “Giuseppe.” 7.5) Paolo e la sfida del deserto.

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Conclusioni.

Bibliografia.

Sitografia.

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Prefazione.

Questo che mi permetto di presentare è un lavoro personale, in cui ho scelto di trattare un problema comune a molte persone, ma poco conosciuto a livello di disturbo: l’autismo. Prima di poter azzardare qualsiasi considerazione, mi sono documentato accuratamente, attraverso il lavoro di coloro che questo disturbo lo hanno toccato con mano e lo hanno studiato in tutti i suoi aspetti, per cercarne le cause, la natura e la cura. Ho scelto di impostare il mio elaborato suddividendolo in 2 parti: la prima riguarda la natura del disturbo, partendo dalla sua definizione, sino al suo trattamento, facendo una lista dei principali metodi per limitarne l’incedere e il decorso; poi ho inserito le principali tappe di sviluppo nei bambini autistici e ho sottolineato l’importanza del controllo motorio che essi devono avere per una maggiore conoscenza sensoriale del proprio corpo. Nella seconda parte ho parlato del problema autismo in Sardegna, evidenziando quanto ancora lunga sia la strada per arrivare ad avere dei Centri adatti al suo trattamento, ma riportando anche delle iniziative che ho considerato importanti e di buon auspicio per il futuro; concludendo con delle storie di bambini autistici, quasi tutte a lieto fine, nelle quali ho voluto sottolineare l’importanza della famiglia come strumento insostituibile per la cura dell’autismo. Buona lettura.

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CAP1) DEFINIZIONE: COS’ E’ L’AUTISMO? L’autismo infantile è un termine che si riferisce a un comportamento gravemente disturbato, la cui caratteristica principale è la grave incapacità a entrare in relazione con gli altri. In altre parole, il termine autismo infantile, riguarda una alterazione del comportamento, alla pari di come il termine ritardo mentale, descrive un comportamento in cui numerose capacità cognitive, sociali e linguistiche, sono rimaste a livelli inferiori rispetto all’età cronologica della persona. Alla base dell’autismo vi è un’alterazione neurobiologica, che può essere di diversa natura a seconda dei casi e che, per una parte dei soggetti, corrisponde a sindromi neurologiche conosciute, per altri a disgenesie cerebrali di varia natura, in altri ancora la sua origine rimane oscura. Recentemente è stata avanzata l’ipotesi secondo la quale l’autismo, in certi casi, sarebbe l’espressione di quadri depressivi o bipolari a esordio precoce. In certi casi l’autismo è una condizione transitoria, nel senso che può durare per mesi o anni e poi spontaneamente dissolversi, anche se spesso nel soggetto permangono disabilità di varia natura. In altri casi la persona affetta da tale disturbo ne rimane colpita per tutta la vita.

1.1)

Criteri di classificazione: Quando si parla di autismo?

La definizione attuale di autismo infantile si basa sui seguenti criteri: 1. Una grave alterazione della reciprocità sociale. 2.Una anomalia grave della comunicazione verbale (completa mancanza di parole o frasi, un linguaggio oscuro e poco comprensibile, l’uso del pronome in seconda o terza persona). 3.Un repertorio comportamentale ristretto caratterizzato da: povertà di fantasia, gioco simbolico carente o assente, attività eccessivamente ripetitive, pochi interessi e stereotipie (Zappella 1996). Il significato di questi tre gruppi di sintomi deve essere valutato in relazione al livello generale di capacità mentale. Quando si osservano nel soggetto tutti e tre i sintomi sopra descritti si può tranquillamente parlare di “autismo”o di “autismo infantile” e ancora di “sindrome 9


autistica completa.”Se questi si presentano in forma atipica o in forma tipica soltanto per due gruppi, è meglio parlare di “sindrome autistica parziale.”Infine se vi sono solo alcuni aspetti, ma non tipici, riferibili a due gruppi di sintomi, si parla di “tratti autistici.” La definizione appena presentata è presa in larga misura da Gillberg e Coleman ed è una delle più recenti (Gillberg, Coleman, 1992). Essa presenta delle differenze rispetto ai criteri precedentemente utilizzati da altri autori (Kanner, 1943; Rutter,1978). Le distinzioni riguardano prevalentemente una migliore conoscenza dello sviluppo relazionale del bambino normale, per cui il concetto di reciprocità sociale è stato particolarmente studiato e perfezionato negli ultimi vent’anni. Questo è stato possibile anche grazie a una maggiore comprensione delle difficoltà di relazione del bambino con autismo; un esempio recente viene proposto dalla Frith che ha osservato una specifica carenza, da parte dello stesso, di immaginare che gli altri possiedano una mente propria con astuzie e inganni segreti (Frith1989).

1.2)

Il Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders (DSM).

La diagnosi di disturbo autistico, secondo i criteri del DSM-IV, nelle sue varie edizioni, viene effettuata sulla base della presenza contemporanea di una serie di sintomi, in diverse aree comportamentali della persona. E’ importante capire che questi criteri si riferiscono a compromissioni nella qualità delle interazioni e non alla loro assoluta assenza. Per esempio, il linguaggio può variare dalla totale mancanza, fino all’uso di frasi dettagliate e grammaticalmente corrette che, nonostante tutto,risultano essere ripetitive e pedanti. E’ possibile farsi un’idea sull’evoluzione dei criteri diagnostici riguardanti l’autismo,confrontando tra loro quelli presi in esame dall’American Psychiatric Association dal 1980 al 1994nelle varie edizioni del DSM. Nel DSM del 1980 i criteri si basavano su sei punti: a) esordio prima dei 30 mesi; b)carenza globale di reattività nei confronti delle altre persone; c)deficit grossolani nello sviluppo del linguaggio; d)se vi è la capacità di parlare, presenza di modi particolari del discorso come ecolalia, linguaggio metaforico o inversione dei pronomi; 10


e)resistenza ai cambiamenti, interesse particolare o inusuale per oggetti; f) assenza di deliri e allucinazioni. Il DSM del 1987 si articolava in tre aree. La prima riguardava la menomazione qualitativa della interazione sociale reciproca articolata su: 1. mancanza di consapevolezza della esistenza dei sentimenti degli altri; 2. nessuna ricerca di sollievo nei momenti di disagio; 3. capacità nulle o ridotte di imitazione; 4. assente o anomalo gioco sociale; 5. menomazione nelle capacità di fare amicizia con i coetanei. La seconda area riguardava la menomazione qualitativa nella comunicazione verbale, non verbale e immaginativa, e si basa su: 6. nessuna capacità di comunicazione, come espressioni del viso, gesticolazione e mimica; 7. comunicazione non verbale marcatamente anormale; 8. assenza di attività immaginative; 9. evidenti anomalie nella produzione del discorso per il volume, la cadenza, il ritmo, l’intonazione; 10. anomalie nella forma e nel contenuto del discorso come ecolalie, uso del “tu” invece dell’ “io,” espressioni irrilevanti e bizzarre. 11. evidente menomazione nella capacità di iniziare o sostenere una conversazione; La terza area si riferiva a una forte limitazione nel repertorio di attività e di interessi con: 12. movimenti stereotipati del corpo; 13.occupazione persistente con parti di oggetti; 14. disagi in occasione di piccoli cambiamenti dell’ambiente; 15. insistenza nello svolgere determinate routine; 16. interessi particolarmente ristretti. Per la diagnosi di autismo venivano richiesti 8 dei punti elencati. I criteri diagnostici presenti nel DSM del 1994 presentano una maggiore completezza e concisione. Il primo punto indicato come alterazioni qualitative della interazione sociale è distinto a sua volta in quattro ulteriori elementi: 11


a) una grave alterazione nell’uso di comportamenti non verbali come lo sguardo reciproco, le espressioni facciali, le posture corporee, i gesti che regolano le interazioni sociali; b) l’incapacità a formare relazioni con i coetanei in maniera adeguata al livello mentale; c) incapacità a condividere interessi e momenti gioiosi con gli altri; d) mancanza di reciprocità sociale o emozionale; Il secondo punto riguarda alterazioni qualitative nella comunicazione ed è suddiviso in: a) ritardo o assenza del linguaggio verbale; b) forte alterazione nella capacità di iniziare o sostenere una conversazione; c) uso ripetitivo o stereotipato della conversazione; d) assenza di giochi spontanei; Il terzo punto si riferisce a comportamenti, interessi, attività ripetitive, ristrette e stereotipate come: a) focalizzazione esagerata su uno o più schemi di interessi ristretti; b) insistere su rituali o routine non funzionali; c) manierismi motori ripetitivi; d) preoccupazione persistente con parti di oggetti. Per la diagnosi di autismo sono richiesti almeno due elementi della prima categoria, uno della seconda e uno della terza: almeno sei in tutto. Inoltre almeno una anomalia in una di queste tre aree si deve verificare prima dei 3 anni. Queste più recenti definizioni hanno ampliato il campo dell’autismo e permettono di avere una diagnosi più frequente e accurata. Nonostante questo, nessuna definizione finora esposta spiega il modo e il contesto in cui si realizza la valutazione del bambino con sospetto di autismo.

1.3)

Diagnosi differenziale e prima visita.

Attualmente la diagnosi differenziale è un problema che si pone sin dalle prime età della vita per l’autismo. Oggi i genitori sono molto attenti allo sviluppo mentale e relazionale dei propri figli e inoltre l’autismo è sempre più conosciuto in ambito professionale. I bambini che presentano un problema diagnostico di questo genere hannosolitamente2 12


anni di età o poco più. Nel caso dell’autismo, con un bambino/a di pochi anni, ci si può trovare di fronte a due tipi di situazioni: -Nel primo caso, si è davanti a un bambino/a che, sin dai primi mesi di vita, risulta troppo tranquillo/a, mangia o dorme in modo eccessivo,o viceversa fortemente disturbato/a, non si coinvolge nei rapporti con le persone, è poco curioso/a ecc. -Nel secondo caso, si può osservare un bambino/a che sin dai primi mesi di vita ha uno sviluppo normale; a 1 anno, o poco più, cammina da solo/a, inizia a parlare nei tempi giusti e poi, dopo i 2 anni, cambia il comportamento in modo netto, diventando solitario/a ed evitando lo sguardo e il contatto degli altri, oppure si presenta indifferente o aggressivo nei confronti di persone e oggetti (Andolfi1994). Lo specialista che si trova a lavorare con questi bambini si rende subito conto che se i genitori portano i loro figli in visita all’età di 2 anni o al massimo 2 e mezzo, i bimbi tendono a essere meno permeabili agli interventi relazionali, almeno all’inizio, rispetto a quelli portati a osservazione all’età di 3 o 4 anni, i quali rispondono meglio agli stimoli e ai segnali, oltre che a interessarsi di più agli oggetti. Il terapeuta, dal canto suo, deve creare un ambiente favorevole ai genitori e al piccolo. Durante la prima visita, esso dovrà guardarsi bene dallo stringersi attorno al proprio “camice bianco” e “vestirsi come tutti,” stringere la mano alla mamma e al papà del piccolo e trovare i termini più adatti e meno ambigui possibili, per spiegare loro come intende agire, la necessità di effettuare eventuali esami di controllo per capire se il loro figlio presenta sintomi autistici. I genitori inizialmente sono comprensibilmente diffidenti e talvolta freddi nei confronti dello specialista, il quale deve conquistare la loro fiducia. Per quanto riguarda l’approccio con il piccolo, è molto importante che il medico parli con il bimbo in modo diretto, semplice e garbato, oltre che con il sorriso. Frasi come: “Vediamo chi è questo bel bambino” oppure, “saluta lo zio” aiutano a creare intimità e a favorire l’interesse del bambino. E’ probabile che il bimbo non colga ciò che gli viene detto dal suo interlocutore in quel momento, ma è d’obbligo tentare di interagire con lui, in quanto è anche da questi piccoli particolari che lo specialista riesce a fare una prima diagnosi e a capire il tipo di disturbo che può avere il bambino. La stanza della visita dovrà essere festosa, con disegni e pitture infantili alle pareti, con giocattoli e oggetti con i quali il bambino può intrattenersi, mentre il medico discute con i genitori dietro una tenda che separa la metà della stanza in cui si trova il piccolo. Uno 13


strumento di grande utilità è lo specchio unidirezionale grazie al quale si possono osservare in modo discreto le interazioni familiari. Tra i tanti esami a cui verrà sottoposto il bimbo vi è la misurazione della circonferenza cranica, che è d’obbligo in quanto i bambini con autismo presentano macrocrania. Oppure risulta di grande importanza l’osservazione dell’intera superficie cutanea, per identificare la presenza di eventuali alterazioni come le macchie di depigmentazione. Questa operazione si effettua in una camera oscura con la lampada di Wood. Se alla prima visita è presente la famiglia intera, è possibile che vengano raccolte molte informazioni sullo stato mentale della stessa, sulle relazioni che esistono tra essa e il bambino e sulla storia psichiatrica della famiglia stessa. La diagnosi differenziale è delicata, in quanto non solo i sintomi si somigliano, ma è anche possibile che alcune forme di autismo si confondano con forme di depressione a esordio precoce. Le indicazioni da dare ai genitori in questi casi spesso contengono alcuni elementi del metodo di Attivazione Emotiva con Reciprocità Corporea (AERC). Nei bambini più piccoli è opportuno evitare diagnosi allarmistiche di autismo in situazioni che analizzate con attenzione risultano essere semplici ritardi del linguaggio. Un intenso coinvolgimento emotivo e corporeo può essere la giusta condizione per mettere in evidenza le capacità di reciprocità sociali in bambini che inizialmente sembravano non averne (Zappella 1987).

1.4)

La sindrome di Asperger.

Esiste un’altra condizione autistica inizialmente descritta da uno studioso austriaco, Hans Asperger: con il nome di psicopatia autistica ci si riferisce a soggetti con capacità mentali che rientrano nella norma o si discostano di poco dalla stessa (Asperger 1944). L’interesse verso questa sindrome è stato ravvivato all’inizio degli anni Ottanta, inizialmente per merito di Lorna Wing e, successivamente grazie alla Frith e ad Happè. Nei soggetti colpiti da tale disturbo, l’anormalità del comportamento viene notata più tardi rispetto all’autismo, dopo i 3-4 anni. Vi sono anche alcune differenze nel decorso: il bambino (sono quasi tutti maschi), cammina all’età giusta, dice qualche parola entro i 2 anni e almeno brevi frasi a 3. Le ecolalie e le inversioni pronominali sono più rare 14


nell’Asperger che in quelle forme di autismo e cioè con discrete capacità intellettive (Wing, 1981; Frith, 1991; Happè, 1994). Nell’Asperger il problema principale riguarda la difficoltà marcata nella relazione sociale che si mette sempre più in evidenza con il passare degli anni. Ciò riguarda in primo luogo la spiccata povertà e unilateralità degli interessi. Ma è il modo con cui il tema è trattato a essere particolare: esso è costituito da frasi e contenuti ripetitivi, è assente la capacità di svolgere confronti adeguati, di vedere un determinato tema da più punti di vista e, spesso, con eccessi di rabbia, specie se i fatti non corrispondono allo schema mentale che la persona in questione ha in mente. Un esempio in proposito ci giunge da Zappella: -“Un adolescente aveva un interesse quasi esclusivo per un uomo politico: i genitori erano disperati perché quando la televisione ne parlava ormai in maniera critica, riferendo le accuse che le venivano rivolte, il figlio esplodeva in crisi violente d’ira in cui distruggeva qualunque cosa aveva a portata di mano. Questo ragazzo disegnava di continuo, con abilità, ma sempre nello stesso modo, il suo eroe politico, ma rifiutava di fare altri disegni. Era facile avere una sua benevola attenzione, dicendogli che si simpatizzava con questo personaggio, ma il discorso subito si esauriva, mancava qualsiasi confronto ed elaborazione su quel tema. Nel suo linguaggio monotono, formalmente corretto e a volte impreziosito da termini inusuali, imponeva ai familiari, specie all’ora di andare a tavola, dei complicati rituali e, se questi venivano contrastati, li aggrediva-” (Zappella 1996). In questa sindrome,l’avere pochissimi interessi, elaborati a loro volta in maniera molto povera, è uno dei segni fondamentali. Accanto a questo c’è una difficoltà nel cogliere i segnali sociali, la quale va di pari passo con una povertà gestuale ed espressiva e un certo grado di goffaggine motoria. Diceva Asperger: - “Come il linguaggio appare innaturale e caricaturale, perché povero di affettività, così gli occhi, non riescono ad illuminarsi nell’incontrare lo sguardo altrui; come dire che manca la vivacità dell’attenzione e del contatto. E’ su queste basi che si realizza la grave difficoltà a creare il rapporto di reciprocità e la conseguente incapacità a interagire con i compagni, o la mancanza di interesse per stare con loro. Anche sul piano intellettivo si presentano delle nette disuguaglianze nei vari settori, con disabilità nelle capacità matematiche che possono contrastare con una abilità spiccata a cogliere dei dettagli in altri compiti-“ (Asperger 1944).

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La Frith ha messo in opera sul piano sperimentale delle semplici prove, valide sia per i casi di autismo che per le sindromi di Asperger, le quali sono state formulate alla maniera di storielle, seguite da domande che indicherebbero delle carenze nella capacità di immaginare quello che gli altri hanno in mente (Frith1991). Queste prove sono di diversa complessità: alcune, come l’ esperimento di “Sally e Anna,” dovrebbero essere al livello delle capacità di bambini di 4 anni e sono state usate con soggetti autistici aventi capacità mentali superiori a questa età ottenendo risultati spesso negativi. Altre, corrispondenti ad abilità mentali di bambini di 7 o 8 anni, o superiori, sono state utilizzate in soggetti con sindrome di Asperger che davano delle risposte devianti (Frith 1994). Le osservazioni della Frith sono senza dubbio importanti; sulle loro interpretazioni esistono varie opinioni, tra le quali quelle della stessa e quelle di altri che ne danno una lettura diversa, ritenendole come uno dei tanti aspetti di uno sviluppo distorto o rallentato. Ciò che invece è essenziale per la diagnosi di Asperger, è l’unità dei modi umani di relazione di questi soggetti, centrati su pochi temi. E’ anche importante la continuità di questo comportamento nel tempo. Va anche notato che i soggetti con sindrome di Asperger spesso presentano delle stereotipie e in qualche caso dei tic del tipo della sindrome di Gilles de la Tourette: in questi casi sono state messe in evidenza alterazioni della corteccia cerebrale (Berthier et al.,1993). Vari studi clinici hanno messo in evidenza la frequente ricorrenza famigliare della sindrome di Asperger e in qualche caso la presenza all’interno della stessa famiglia di casi di autismo. In qualche soggetto è stata notata l’associazione con ipotiroidismo, sclerosi tuberosa e neurofibromatosi. Su un piano generale, il bambino con autismo, in ragione della sua alterazione neurobiologica, crea spesso delle gravi difficoltà di comunicazione all’interno della sua famiglia. In qualche caso, in aggiunta a questo, vi sono delle importanti alterazioni relazionali nella famiglia, precedenti la nascita del bambino/a autistico/a e ciò può complicare il quadro e rendere più difficile la gestione rieducativa del piccolo/a (Szatmari et al. , 1989; Gillberg et al. , 1992). In alcune situazioni, più spesso riferibili a tratti autistici, può succedere che un disagio relazionale possa avere un suo peso importante, e anche in tal caso è meglio essere chiari e rimuovere l’ostacolo nel modo più semplice: è il caso ad esempio di due gemelli di 2 anni e mezzo, uno dei quali aveva un’evidente ansia da separazione, si aggrappava 16


allarmato ai genitori e picchiava il fratello se si avvicinava a loro. L’altro aveva dei leggeri tratti autistici e un certo grado di ritardo. Fu evidente che la competizione tra gemelli, associata a una particolare sensibilità dei medesimi, era il fatto centrale su cui non fu difficile agire, separandoli in una parte della loro giornata, e dando ai genitori le appropriate indicazioni educative. Riconoscere i giusti parametri rimane un compito prioritario, ciò riguarda anche i casi di sindrome di Asperger, che spesso nella pratica psichiatrica vengono erroneamente attribuiti a un disturbo delle relazioni famigliari che, invece, è soltanto secondario al danno neurobiologico del soggetto malato. A questo riguardo è importante che la diagnosi e il suo significato siano precisi.

1.5)

La sindrome di Rett.

La sindrome di Rett è una malattia neurologica che colpisce soltanto le bambine e si manifesta in genere verso la fine del primo anno di vita o poco più tardi dopo un periodo di sviluppo che i genitori descrivono come apparentemente normale. Questa malattia è stata descritta inizialmente da Andreas Rett ed è poi stata riscoperta da Hagberg e altri, i quali notarono che queste bambine nelle prime due fasi della malattia presentavano un grave cambiamento nel rapporto con gli altri, diventando assenti e poco partecipi: un comportamento di tipo autistico che poi spesso si dissolve spontaneamente negli anni successivi (Hagberg et al., 1983). La caratteristica principale di questo disturbo è la aprassia accentuata alle mani che comporta un’attività stereotipa di “lavaggio” che dura per tutto il tempo della veglia e si dissolve nel sonno. Anche la capacità di pronunciare le parole viene perduta. La maggior parte delle bambine è in grado di camminare anche se con un’andatura di tipo atassico-aprassica, e spesso ha numerose altre disabilità, come la scoliosi e l’epilessia. La circonferenza cranica che all’inizio della malattia era normale, rallenta progressivamente la sua crescita. Anche il peso e l’altezza sono inferiori alle due deviazioni standard e per questo motivo molti studiosi ritengono che si tratti di un disturbo pervasivo dello sviluppo (Rett 1966).

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Fino a 10 anni fa, le bambine con sindrome di Rett erano considerate autistiche; attualmente invece essa viene considerata un quadro clinico a sé stante. Il decorso di tale sindrome è stato suddiviso in quattro stadi (Zappella1993): -nello stadio1 c’è un arresto dello sviluppo delle capacità psicomotorie; -nello stadio2 vi è una regressione alla quale spesso corrisponde l’instaurarsi di modalità simil-autistiche; -nello stadio3 la sintomatologia rimane per lo più stabile, anche se alcune alterazioni come la scoliosi tendono ad accentuarsi; -nello stadio4 la regressione può ridurre la malata in carrozzella per la perdita della deambulazione. Una diagnosi certa può richiedere del tempo, in quanto occorre attendere l’evidenziarsi di una chiara aprassia alle mani, e solo in un secondo momento si può osservare un movimento congiunto delle mani tipo lavaggio che persiste per tutto il tempo della veglia.

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CAP 2) LE BASI NEUROBIOLOGICHE DELL’AUTISMO: ALTRI TIPI DI SINDROMI. Numerosi dati indicano la radice neurobiologica dell’autismo: fra questi sono la sua frequente associazione con il ritardo mentale, con l’epilessia e con varie sindromi neurologiche. Su questo punto gran parte degli studiosi è d’accordo, mentre riguardo alle alterazioni neurobiologiche in causa vi è una maggiore controversia. Uno studio importante in questo campo è quello realizzato dalla Steffenburg che dà una distribuzione relativa dei principali sottogruppi in proposito. Un terzo del campione presentava delle sindromi neurologiche, una metà del totale dimostrava di avere altre alterazioni come l’ epilessia o anomalie del cervello e il restante 10 per cento erano casi ereditari. Questo lavoro è chiaramente fondato sull’idea che l’autismo sia il risultato di una varietà di condizioni neurologiche a base congenita (Steffenburg 1991). A questo proposito possono essere avanzate delle critiche, in quanto per molti altri studiosi, la percentuale di casi di autismo associato a sindromi neurologiche è nettamente inferiore alla percentuale riportata dallo studio della Steffenburg. Rimane poi il fatto che la percentuale di sindromi neurologiche specifiche nell’autismo è nettamente inferiore a quelle conosciute nel campo del ritardo mentale (Bolton et al.,1994).

2.1) Ritardo mentale. La maggioranza dei soggetti con autismo ha vari gradi di ritardo mentale e soltanto una minoranza, valutata in poco più del 10 per cento, ha capacità intellettive nella norma (Bailey et al., 1993). Va sottolineato che la presenza elevata di ritardo mentale non necessariamente implica un’origine neurologica di tutti coloro che presentano tale ritardo. Sul piano teorico si può sostenere che anche disturbi di tipo depressivo o bipolare molto precoci, possono condurre a un ritardo.

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2.2) Epilessia. Circa il 30 per cento di casi di autismo presenta nel corso della vita delle convulsioni epilettiche. Fra le varie forme di epilessia gli spasmi infantili con ipsaritmia sono selettivamente associati con l’autismo (Riikonen, Amnell, 1981). Questa forma di epilessia della prima infanzia è spesso collegata ad alterazioni neuropatologiche, come la sclerosi tuberosa e i disturbi congeniti di migrazione neuronale che a loro volta sono spesso collegati con l’autismo. Anche le epilessie miocloniche della prima infanzia si manifestano con frequenza nell’autismo (Olsson et al., 1988). Nella cura delle convulsioni in soggetti autistici va tenuto presente anche l’effetto della terapia sul comportamento: l’uso di farmaci come la carbamazepima o l’acido valpronico offrono dei vantaggi in quanto in molte situazioni possono avere un effetto curativo sui disturbi dell’umore.

2.3) Il rischio in gravidanza. Vi sono alcuni fattori di rischio che sono stati riferiti in associazione con l’autismo come l’età materna superiore ai 35 anni al momento della nascita, delle perdite di sangue tra il quarto e l’ottavo mese di gravidanza e la presenza di meconio nel liquido amniotico. Questi fattori riguardano solo una minoranza dei soggetti con autismo e possono essere presenti anche in bambini del tutto normali. In altre parole, come osservato da vari studi, un feto non completamente sano dà più spesso disturbi del tipo sopra indicato che vengono considerati come possibili concause (Baron-Cohen, Bolton, 1993).

2.4) L’esordio del quadro clinico. La comparsa del quadro clinico autistico viene riferito dai genitori a varie età, comprese tra i primi mesi di vita e la metà del terzo anno. Secondo Rivière, in un caso su quattro esordisce nel primo anno di vita, mentre nei restanti l’inizio è riferito a epoche successive, spesso dopo l’anno e mezzo di vita (Rivière 1994).

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Due studiosi, sulla base di video filmati realizzati a domicilio dai genitori di bambini/e che successivamente avevano sviluppato l’autismo, hanno trovato nella maggioranza dei casi delle alterazioni sottili del comportamento sin dal primo anno di vita, come una minor frequenza nella reciprocità degli sguardi e una minore attenzione; questo dato va confermato con un numero maggiore di casi (Osterling, Dawson, 1994).

2.5) Sindromi neurocutanee. 2.5.1) Ipomelanosi di Ito. L’ipomelanosi

di

Ito

è

un

quadro

dermatologico

rappresentato

da

estese

depigmentazioni che possono assumere varia forma ed estensione. In certi casi possono essere messi in evidenza ad occhio nudo, mentre in altre occasioni occorre esaminare la cute con la lampada di Wood in una stanza buia. Si parla di sindrome di Ito quando le depigmentazioni sono molto estese, spesso distribuite sul tronco, ma anche sugli arti, inferiori e superiori, a forma di chiazze a margini netti, di strisce ampie, di righe più sottili. La sua associazione con l’autismo è stata notata inizialmente in 4 bambini su una serie di 34 soggetti con varie alterazioni neurologiche (Pascual-Castroviejo et al., 1988) e successivamente in 3 bambini (Gillberg et al. ,1991). A sua volta Zappella l’ha osservata in 16 bimbi con varie forme di autismo, completo o parziale. I bambini con autismo e ipomelanosi di Ito presentano spesso gravi disturbi del sonno che possono prolungarsi fino all’adolescenza. La natura di questa sindrome è incerta e al suo interno comprende condizioni di diversa natura. Il decorso clinico nei bambini con autismo e ipomelanosi di Ito varia a seconda dei soggetti: ci sono situazioni in cui il quadro autistico presenta periodi di peggioramento, ed è probabile che con il passare del tempo le depigmentazioni tendano a ridursi e a sparire lasciando il posto a un quadro autistico di tipo depressivo o bipolare; in questi casi si evita di classificare i soggetti all’interno della sindrome di Ito. In altri casi i bambini presentano estese chiazze di depigmentazione in cui l’autismo ha un decorso più stabile e di contro si verifica un’alterazione neurologica evidente; in questa sede l’espressione ipomelanosi di Ito è mantenuta. Vi è anche la possibilità di considerare 21


questo disturbo più come un sintomo, un segno cutaneo, piuttosto che una vera è propria sindrome (Zappella 1992).

2.5.2) Sclerosi tuberosa. La sclerosi tuberosa è una malattia congenita, caratterizzata da un’elevata frequenza di epilessia, ritardo mentale e adenomi sebacei sul volto. L’espressione clinica di questo disturbo è variabile e vi sono persone di intelligenza normale che presentano alcuni segni di questo disturbo che si trasmette in modo dominante. Nella metà dei soggetti è presente un ritardo mentale. Secondo Gomez i criteri diagnostici per la sclerosi tuberosa comprendono la presenza di 3 sintomi fondamentali: a) adenoma sebaceo o fibroma; b) tuberi corticali; c) amartomi retinici plurimi. Le convulsioni sono presenti nell’85 per cento dei casi. La presenza di autismo in bambini con sclerosi tuberosa è stata valutata a un quarto dei soggetti: quasi tutti presentavano convulsioni gravi e frequenti, oltre a un ritardo mentale grave (Gomez 1979).

2.5.3) Neurofibromatosi. Finora sono stati descritti solo pochi casi di neurofibromatosi di tipo1 ed è probabile che si tratti di una combinazione casuale. Secondo quanto descritto, essa è un disturbo displastico con la tendenza alla formazione di tumori, spesso benigni, nel sistema nervoso centrale, in quello periferico, sulla cute e nei visceri. Sulla pelle vi è la presenza di macchie color caffellatte, neuro fibromi, intracutanei e sottocutanei e di piccoli amartomi sull’iride (Gillberg, Forsell, 1984). Ci sono descrizioni, ma solo occasionali, dell’ associazione tra autismo e altre sindromi neurocutanee più rare, come la sindrome di Coffin-Siris.

22


Per concludere, si può dire che l’autismo compare con una certa frequenza in alcuni disturbi neurocutanei e in particolare è collegato da un lato con la presenza di estese depigmentazioni sulla cute, e dall’altro con la sclerosi tuberosa, che spesso si incrocia col grave ritardo mentale e con tipi di convulsioni come gli spasmi infantili.

2.6) Sindromi mal formative. Vi sono condizioni mal formative nelle quali è stata osservata una comorbidità con l’autismo. Fra queste rientra la sindrome di De Lange: questa sindrome presenta delle malformazioni multiple, come sopracciglia arcuate, labbra sottili, peluria accentuata sul dorso, talora malformazioni degli arti superiori. Spesso si tratta di bambini di peso piccolo alla nascita e che hanno una crescita rallentata. Il ritardo mentale è in genere molto grave e talvolta sono frequenti le convulsioni. Anche la sindrome di Williams presenta una comorbidità con l’autismo: essa è collegata a una delezione parziale del cromosoma 7 ed è caratterizzata dalla così detta faccia “da elfo,” cioè da fessure palpebrali ristrette, radice del naso depressa e con la punta rivolta in alto. Il loro fenotipo comportamentale comprende un atteggiamento eccessivamente amichevole e discorsivo (Gillberg, Rasmussen, 1994). Anche i soggetti affetti da gigantismo cerebrale a loro volta possono presentare forme di autismo; questa sindrome è caratterizzata da macrocrania, bozze frontali sporgenti e crescita corporea accelerata. Le loro capacità mentali variano da un ritardo mentale grave a capacità normali con deficit frequenti del linguaggio (Zappella 1992).

2.7) Sindromi cromosomiche. Le sindromi cromosomiche riguardano una piccola percentuale di casi di autismo. L’anomalia nella quale la comorbidità con l’autismo è più frequente è rappresentata dall’x fragile. In questa condizione c’è un’alta incidenza di ritardo mentale. Il quadro dell’x fragile comprende sia un fenotipo somatico che un fenotipo comportamentale (Giovannucci Uzielli 1994). Sul piano delle alterazioni fisiche, alcune, come il viso allungato e le orecchie grandi, si mettono più in evidenza nella pubertà; tuttavia sono osservabili delle alterazioni 23


somatiche già in precedenza, come la iperestensività delle articolazioni delle dita delle mani, la cute soffice ed elastica, il piede piatto e la macrocefalia. Dal punto di vista del comportamento si nota una tendenza all’evitamento oculare e tattile, un linguaggio a evoluzione ritardata con difficoltà semantiche e pragmatiche e con una tendenza alla perseverazione e ai commenti irrilevanti. Vi è spesso un elevato livello di ansia e un disturbo del sonno. Tutto ciò ha come controparte un livello di eccitabilità alterato, per cui, in situazioni di disagio, sono frequenti sfarfallamenti delle mani, saltelli e risolini immotivati. L’origine di questa comorbidità tra x fragile e autismo può essere dovuto in alcuni casi alla tendenza di questi soggetti a evitare lo sguardo altrui che li depriverebbe di tutta una serie di modalità di relazione che nell’infanzia sono la premessa della crescita della mente umana; in altri da una origine genetica (Cohen et al., 1989). Sul piano dello sviluppo i bambini con x fragile a evoluzione autistica vengono descritti come passivi, irritabili e poco vivaci.

2.8) Sindrome di Gilles de la Tourette. La sindrome di Gilles de la Tourette è rappresentata dalla presenza di tic semplici, per esempio oculari, dei muscoli delle spalle o di altre parti del corpo e di tic complessi, che riguardano gruppi muscolari più estesi e che possono manifestarsi con movimenti di vario tipo: sventolamento o torsione delle mani, grattamenti, saltelli, stiramento degli arti, il battere ripetutamente il piede per terra ecc. A questi tipi di tic se ne aggiungono degli altri di tipo vocale, emessi in forma di ululati, parolacce, frasi a contenuto sudicio (coprolalia) e altri. Il suo decorso è spesso variabile e si va da periodi in cui i tic sono più intensi ad altri in cui lo sono meno. Vi è una considerevole componente ereditaria con alta concordanza nei gemelli monozigoti e bassa nei dizigoti. La comorbidità tra autismo e sindrome di Tourette è stata notata nel 1981 ma ci sono studi più recenti che dimostrano che essa è molto più frequente di quanto si ritenesse appena pochi anni fa. Nei soggetti colpiti è nota

un’alta

frequenza

di

disturbi

depressivi

24

(Sverd,

Comings,

1991).


CAP 3) TAPPE DI SVILUPPO DEL BAMBINO AUTISTICO.

Questa fase che abbraccia un periodo di formazione e crescita di abilità fondamentali e formative nel bambino, quali la nascita delle emozioni, il formarsi della personalità, la comparsa del linguaggio e l’inizio della comunicazione, risultano particolarmente delicate nel bambino autistico: Bisogna necessariamente partire con il presupposto che il peso della dimensione sociale è chiaramente molto rilevante nell’autismo. Anche nelle descrizioni più superficiali, i bambini autistici vengono spesso definiti socialmente incapaci. Non si tratta solamente di non riuscire a essere socievoli, ma piuttosto del fatto che i deficit nello sviluppo sociale inibiscono i normali rapporti con gli altri. Più che antisociali gli autistici potrebbero essere chiamati asociali, dal momento che non sembrano molto consapevoli del mondo intorno a loro. Nei soggetti autistici c’è un ritardo nello sviluppo di comportamenti specifici di attaccamento. Ciò che caratterizza il loro sviluppo sociale è un evidente disinteresse e una mancanza di consapevolezza in questo ambito. Il bimbo autistico può trattare l’adulto come un oggetto da manipolare, non perché esso voglia maltrattarlo, ma perché è assente in lui il riconoscimento della relazione umana che lo porta inevitabilmente ad anomalie nella comunicazione verbale e non verbale e nel modo in cui si pone durante il contatto fisico e umano. Nello sviluppo normale, il bambino sente la necessità di comunicare alle altre persone ciò che sa o ha appena appreso; nell’autismo questo bisogno di confronto e di dare un senso alle cose non c’è. Il bambino “normale” lega socialmente le proprie azioni tramite l’imitazione, e tende ad abbandonare relativamente presto la dipendenza dall’iniziativa adulta. Nell’autismo è difficile andare oltre la dipendenza: in questa condizione esiste un’imitazione parassitaria per cui gli aspetti percettivi vengono copiati esattamente così come sono visti dal soggetto. Nei piccoli autistici inoltre è molto scarsa la capacità di attirare l’attenzione dell’altro: raramente essi tendono a prestare i giocattoli o a indicare gli oggetti, sembrano incapaci di condividere spontaneamente l’attenzione visiva con un adulto e non richiamano la sua attenzione; al contrario gradiscono l’uso dell’altra persona come “agente,” cioè come qualcuno che può agire sul mondo per conto loro. 25


3.1) Lo sviluppo delle emozioni. Sin dalla sua descrizione originaria, si accetta il fatto che nel bambino autistico sia presente una “affettività disturbata” che lo rende isolato, distaccato e indifferente nei confronti degli altri. L’interpretazione psicodinamica sostiene che l’autismo sia causato da un rapporto difettoso tra genitori e figlio, dove alle mamme di questi bambini veniva dato l’appellativo di “madri frigorifero” (Kanner 1943). Tuttavia non esiste una prova teorica o clinica del fatto che le madri siano “causa” dell’autismo: è più probabile che questo legame causale tra genitori e figli sia di natura genetica e non comportamentale. E’ evidente che il disturbo emozionale spesso deriva dalle difficoltà nello sviluppo: ad esempio, un deficit nella comprensione degli stati mentali induce chi ne è affetto a essere sconcertato degli altri o ad averne paura e questo lo condurrebbe all’isolamento o al rifiuto del contatto. C’è da dire inoltre che nell’autismo risultano disturbati solo gli aspetti dello sviluppo emozionale che richiedono la comprensione delle emozioni, mentre i sentimenti veri e propri non risultano intaccati. Altri autori considerano primario il deficit emotivo, in quanto il bambino autistico non è in grado di percepire le emozioni degli altri e non riesce così a condividere con le altre persone la visione del mondo per differenziare quella sua personale (Hobson1993). Lo stesso Hobson ritiene che il senso di collegamento con gli altri, che chiama “intersoggettività,” venga appreso direttamente attraverso la comprensione che il mondo che vediamo è differente dal modo in cui lo percepiamo. Per questo, il bambino “normale” sviluppa il proprio atteggiamento verso il mondo attraverso il significato che esso dà alle cose, e il senso che esso attribuisce a queste cose, deriva dai primi significati condivisi. Un disturbo al primissimo livello emozionale, come avviene nell’autismo, priva i soggetti colpiti della comprensione di questi stati mentali, indispensabili per un corretto sviluppo psico-sociale.

3.1.2)Lo sviluppo della personalità. I soggetti autistici sviluppano comportamenti caratteristici che condividono con un certo numero di individui autistici. Per questo motivo e anche a causa della riduzione o della 26


mancanza di interazione sociale, le singole personalità individuali possono non essere molto evidenti, tuttavia bisogna ricordare che l’autistico è prima di tutto un individuo che esprime la sua personalità nelle proprie azioni. Nonostante questo, la personalità degli autistici è problematica in quanto lo sviluppo del loro senso del Sé è inadeguato e non tende a collegarsi ai diversi contesti interpersonali come invece accade negli individui non autistici (Jordan 1989). Per quanto riguarda l’autismo, dobbiamo essere cauti su due fronti principali: in primis si deve sfidare il luogo comune secondo il quale le esperienze dei primissimi anni di vita determinano necessariamente il carattere dell’adulto, perché esse sono importanti ma non determinanti. In secondo luogo, bisogna evitare di descrivere un comportamento come se fosse automaticamente un tratto della personalità: le etichette non sono utili ai fini di un approccio educativo positivo. Il bambino autistico non reagisce tanto alle azioni e agli atteggiamenti dell’altro, quanto piuttosto a specifiche forme di stimolazione; nell’autismo insomma il processo di attaccamento è intaccato o addirittura non riesce a formarsi. Anche il senso del Sé risulta gravemente danneggiato. Il primo aspetto del Sé è l’auto immagine che può essere solo parzialmente intaccata, dal momento che è possibile costruire un’immagine di sé sulla base di fatti autobiografici che possiamo apprendere esponendoci a determinate situazioni e ascoltando ciò che gli altri dicono di noi. E’ così che i bambini autistici possono sapere chi sono, di che sesso fanno parte, che età hanno, dove vivono e così via. Il secondo aspetto del Sé riguarda la componente valutativa, meglio conosciuta come autostima o auto accettazione: questa condizione è del tutto

assente nel soggetto

autistico che manca del senso del Sé e non è capace di riflettere sull’immagine di Sé stesso e di esprimere i relativi giudizi di valore. Nonostante questo, vi sono alcuni soggetti autistici più dotati che sembrano mostrare scarsi segni di autostima e una certa consapevolezza di essere sottovalutati. Malgrado le loro evidenti difficoltà nel comprendere gli altri, i bambini autistici risponderanno secondo le modalità con cui sono trattati, per cui è importante che gli adulti mostrino loro che valgono e che sono rispettati per quello che sono. Esistono anche situazioni particolari che riguardano la sfera della sessualità e del lutto o privazione all’interno dei problemi emotivi dei soggetti autistici. Nel caso della sessualità per quelli meno dotati è opportuno insegnare 27


loro a sublimare gli istinti sessuali; per i più dotati che sono interessati a una vita intima completa, è necessaria una corretta educazione sessuale. Quando il problema emotivo riguarda la perdita o privazione di una persona cara, anche se il piccolo autistico non si affeziona come gli altri, a suo modo può sentire il senso di privazione, aggravato dalla mancanza di comprensione della morte ma anche dal suo stato emotivo o di quello degli altri. Per alleviare il disagio, in questi casi, è opportuno cercare: soluzioni compensatorie, usare un linguaggio semplice e chiaro, parlare della persona scomparsa e lasciar sfogare il dolore. Nell’autismo l’emozione è un fattore centrale: essa non deve essere considerata solo come una difficoltà, ma anche la via per arrivare a un’educazione efficace. Si deve riconoscere e tener conto del ruolo dell’emozione nell’apprendimento: se esso mira a produrre nei soggetti un apprendimento flessibile e indipendente, allora non resta altro che cercare di far fronte alla difficoltà emotiva autistica e considerare l’emozione un potenziale aiuto educativo e non un optional o addirittura un elemento di disturbo (Jordan 1989).

3.2) Lo sviluppo della comunicazione. Le difficoltà nell’ambito del linguaggio e della comunicazione hanno sempre rivestito un ruolo importante nel definire le caratteristiche principali della sindrome autistica ma, se consideriamo il continuum autistico nel suo complesso, è evidente che il vero problema riguarda la capacità comunicativa: anche le forme di comunicazione non verbali risultano danneggiate. Nello sviluppo normale, il bambino non deve sviluppare convenzioni comunicative personali, ma si adegua naturalmente al contesto sociale esistente. La comunicazione all’inizio è caratterizzata dalla “trasparenza”, per cui le intenzioni sono manifeste e non nascoste; i bambini con autismo invece non sembrano essere in grado di individuare gli stati mentali, per cui i primi scambi comunicativi ai loro occhi sono opachi più che trasparenti (Jordan 1993). La comunicazione di solito contiene un “segnale”che indica l’intenzionalità dello scambio: persino i bimbi piccoli, preverbali, quando fanno una richiesta, non si limitano ad esprimere ciò che vogliono ma anche il fatto che vogliono qualcosa, indicando quello che desiderano, producendo suoni adatti a esprimere il loro desiderio; o ancora 28


l’intenzione può essere quella di condividere l’attenzione e allora il suono e il gesto avranno una modulazione diversa per segnalare un differente intento comunicativo. Il desiderio di influenzare il comportamento altrui, però, non rappresenta l’essenza della comunicazione: possiamo comunicare con qualcuno senza modificare affatto il suo comportamento, ma solamente le idee o le sue emozioni. Secondo Kiernan e collaboratori, le condizioni necessarie affinchè si possa instaurare la comunicazione sono: -che ci sia qualcosa su cui comunicare (consapevolezza dei bisogni e dei concetti); -un mezzo comunicativo (linguaggio parlato o un canale comunicativo); -un motivo per comunicare (un contesto che risponda alla comunicazione senza anticipare ogni bisogno); (Kiernan et. al., 1977). L’insegnamento delle competenze comunicative a soggetti con esigenze educative speciali, si concentra per tradizione su questi aspetti, ma la persona con autismo necessita di un ulteriore bisogno, cioè che qualcuno li aiuti a comprendere la comunicazione, come svilupparla e capirla. Il piccolo dovrà essere abituato gradualmente a questi gesti, e alla fine potrebbe anche ricercarli (Kiernan, Raib, 1977).

3.2.1)I problemi comunicativi. Molte persone con autismo mancano di uno o più prerequisiti della comunicazione. Una gran parte di essi ha gravi difficoltà di apprendimento associate, il che significa che molti non hanno ancora acquisito la maggior parte dei concetti necessari, così che hanno poco di cui parlare. Hanno dei bisogni ma possono non esserne coscienti, non comprendere i propri stati mentali e fisici. Nell’autismo l’effetto comunicativo delle proprie espressioni non viene riconosciuto neanche nel primo stadio, questo significa che la produzione verbale non cambia per esprimere un intento comunicativo. Dal risultato di varie prove risulta che i piccoli autistici non danno gli stessi segnali di saluto, sorpresa, richiesta o frustrazione di tutti gli altri neonati, neppure di quelli che presentano difficoltà cognitive gravi. Per questo motivo solo i genitori o le figure di riferimento più strette sono in grado di capire. Tra i problemi specifici nella comunicazione possiamo includere: 29


-la prossemica, che si riferisce al nostro modo di posizionarci in relazione agli altri: le persone con autismo sembrano avere problemi nella comprensione dell’intimità, nella percezione e nell’uso delle regole sociali; molti di loro possono dare segnali comunicativi involontari, come l’avvicinarsi troppo agli estranei per parlare con loro o anche ai visi dei compagni. Tutti questi modi di approcciarsi possono venire interpretati come un’intimità fuori luogo. E’ utile insegnare al bambino per esempio a mantenere la distanza di un metro dal suo interlocutore, anche l’insegnante dovrà mantenere una certa distanza dal bambino in quanto la vicinanza può costituire motivo di stress per l’alunno autistico. -la postura del corpo, che non veicola informazioni solo sul grado di intimità fra gli individui, ma anche “momento per momento” le reazioni allo scambio comunicativo. La postura delle persone autistiche è solitamente tesa e rigida, e non cambia in relazione al contesto o alle situazioni in cui si dovrebbero esprimere diversi stati d’animo. Essi non hanno la capacità di comunicare le proprie sensazioni, anche quando queste sono realmente presenti. -non comprendere la gestualità; i gesti sono qualcosa di così automatico che possiamo anche non renderci conto che essi hanno uno scopo comunicativo. Nell’autismo manca anche questa capacità di comprensione: i bambini autistici non si voltano automaticamente nella direzione dello sguardo dell’adulto, o verso il dito che indica un oggetto, in segno di attenzione condivisa, come fanno i bambini con uno sviluppo normale; essi sono in grado di farlo sotto istruzione esplicita, ma non spontaneamente (Jordan, Powell, 1993). Anche altri gesti comunicativi possono suscitare mistero o reazioni di ansia e aggressività come ad esempio l’abbraccio, le coccole, il solletico e altri segni di affetto senza capire il punto chiave della comunicazione. Il piccolo deve imparare a richiamare l’attenzione dell’altro e per questo è utile che l’adulto non dia importanza al linguaggio stereotipato del bimbo se esso non cercherà il contatto visivo o corporeo e poi rivolgersi al bambino in un secondo momento con delle frasi del tipo:- “Stavi parlando con me? Non ci ho fatto caso perché ho visto che non mi guardavi mentre parlavi.” Questa procedura può far si che il bambino impari a richiamare l’attenzione altrui in determinate situazioni, ma senza generalizzare questo comportamento in altre circostanze. 30


La comunicazione è il nucleo centrale delle difficoltà di apprendimento proprie dei soggetti con autismo e per questo deve essere anche il cuore dell’intervento educativo. Nonostante non ci sia ancora una soluzione del problema, si stanno aprendo importanti prospettive a riguardo (Jordan, Powell, 1997).

3.3) Lo sviluppo del linguaggio. Gravi difficoltà di apprendimento o disturbi specifici del linguaggio associati all’autismo comportano spesso uno sviluppo generale del linguaggio profondamente ritardato, o del tutto assente nella minoranza dei casi. Dal punto di vista genetico, l’autismo si trova spesso associato a problemi del linguaggio, e spesso all’interno della famiglia si trovano altri membri affetti da questo tipo di patologia; ma questa associazione non è sempre presente, anzi, alcuni individui acquisiscono con particolare rapidità gli aspetti strutturali del linguaggio, anche delle lingue straniere. Comunque è più comune che le difficoltà linguistiche siano presenti e riguardino tutte le sue forme, incluso il linguaggio dei segni. Le verbalizzazioni nell’autismo tendono ad essere non finalizzate, con ecolalia immediata e differita, prosodia monotona, accento e intonazione insoliti (Jordan 1993).

3.3.1) Problemi specifici del linguaggio. Tra i vari problemi riguardanti il linguaggio, quelli che si osservano più di frequente riguardano l’ inversione dei pronomi, le difficoltà di prosodia e le ecolalie. Secondo quanto dice la Jordan, l’inversione pronominale è un termine non troppo corretto, perché nella pratica il bambino non inverte quasi mai tali pronomi: essi tendono a riferirsi a se stessi con il “tu” o addirittura alla terza persona, lui/lei, forse perché questi sono i pronomi che sentono usare quando si parla di loro. I bimbi autistici capiscono poco la necessità di indicare i ruoli nella conversazione, perciò non utilizzano il pronome io finché non glielo si insegna a fare meccanicamente (Jordan 1989). Una difficoltà fondamentale comune a tutti gli autistici riguarda la prosodia: essi sono generalmente incapaci di usare o capire l’intonazione come comunicazione, nel senso che la qualità della voce è monotona e segue un andamento del tutto slegato dal 31


significato del messaggio che si vuole trasmettere. A livello psicologico le difficoltà prosodiche si riallacciano agli stessi problemi comunicativi. Il progresso in questo settore si raggiunge quando il soggetto capisce il senso della comunicazione e perciò il modo migliore per aiutarlo è quello di insegnargli la comunicazione in generale. Ai più dotati si possono insegnare più esplicitamente i significati espressi dall’intonazione. Nel caso di soggetti meno dotati, può essere usato un approccio più globale per aiutarli ad accorgersi dell’intonazione, dell’accentuazione ritmica nel discorso. Si può utilizzare ad esempio la musica per renderle più evidenti, ovvero gli alunni possono esprimere emozioni diverse con il corpo e la voce contemporaneamente (Jordan 1993). L’ecolalia fino a pochi anni fa era considerata una forma aberrante di comportamento “auto-stimolatorio” e “ossessivo”. Si facevano molti sforzi per eliminarla e sostituirla con forme più utili di comunicazione, attraverso varie tecniche comportamentali, ma senza ottenere risultati apprezzabili. Recentemente, invece, l’ecolalia è stata vista sotto una luce più favorevole e si è osservato che “l’ecolalia immediata” (il ripetere ciò che si è appena sentito dire nel giro di due turni di conversazione), solo raramente è del tutto non comunicativa; e che “l’ecolalia differita” (il ripetere ciò che si è udito oltre i due turni di conversazione, addirittura settimane o anni), di solito progredisce lungo un continuum di comunicatività con o senza un intervento educativo. E’ probabile che gli autistici inizino a usare frasi in apparenza non attinenti al contesto, in modo sempre più comunicativo e che comincino ad adattarle alle nuove situazioni (Jordan 1993). La capacità di parlare e più ancora di capire il linguaggio è un utile strumento educativo e migliora la prognosi circa il futuro sviluppo e la qualità di vita. Ecco perché l’abilità linguistica va potenziata dall’educazione, anche se gli insegnanti devono rendersi conto che una vasta minoranza di alunni può non raggiungere mai competenze di linguaggio verbale e che, nonostante ciò, hanno diritto comunque a una educazione completa.

3.4) Lo sviluppo del pensiero. A un certo livello, chi impara deve essere consapevole di stare pensando a un determinato problema e che questo può essere risolto grazie a specifiche strategie in suo possesso. Ciò implica lo sviluppo di una comprensione di sé come persona,diversa dagli altri e capace di risolvere i problemi. Qui si trova la radice del problema di come 32


migliorare il pensiero autistico e il punto di partenza di qualsiasi tentativo mirato alla comprensione di ciò che si può fare (Riding, Powell, 1989). I bambini autistici incontrano una particolare difficoltà a sviluppare una comprensione di sé e ciò vale per qualsiasi ruolo di solutore di problemi, mediante la riflessione. Questo comporta difficoltà specifiche nelle rappresentazioni mentali, cioè nella comprensione di ciò che gli altri pensano o sentono. Nel passato gli psicologi hanno avuto la netta tendenza a voler separare pensiero, sentimento e comprensione degli altri, ma ci sono prove convincenti a favore delle interrelazioni tra gli aspetti sociali, cognitivi ed emozionali del pensiero e dell’apprendimento in generale, il che fa pensare che sia una frattura in tali correlazioni a causare i problemi dell’autismo (Jordan, Powell, 1990).

3.4.1) I problemi legati al pensiero. Per quanto riguarda le difficoltà cognitive, i due studiosi concordano che i bambini autistici fanno fatica a riconoscere gli stati mentali delle altre persone e addirittura spesso non sono in grado di comprendere neanche i propri (Jordan, Powell, 1993). Altri aspetti del pensiero saranno a loro volta danneggiati se non si possiede la capacità di usare il proprio schema mentale come modello in base al quale interpretare il pensiero altrui. Ad esempio, nel caso della memoria, la mancanza di abilità di riflessione sul proprio pensiero, comporta il fatto che i meccanismi della memoria siano qualitativamente diversi da quelli dei non autistici. I primi spesso incontrano difficoltà nel raccontare avvenimenti personali e nel ricordare il contenuto delle storie, ma sono capaci di mostrare eccezionali doti di memoria meccanica; è come se i ricordi fossero presenti, ma non a disposizione del soggetto. Può accadere che si verifichino avvenimenti che nella persona autistica possano far scattare intere sequenze di ricordi, richiamati come episodi completi, ma di fronte alla richiesta di cercare nella memoria dei ricordi specifici, ecco che quello stesso bambino si può trovare in evidente disagio (Jordan, Powell, 1993). Per essere più chiari, la difficoltà di memoria dell’autismo risiede nello sviluppo della memoria episodica personale, che dipende dall’esistenza di un Sè esperienziale che codifichi gli avvenimenti come parti di una dimensione personale. Il deficit nello sviluppo del Sé condurrebbe di conseguenza a una difficoltà nell’elaborazione di ricordi 33


episodici personali e la persona autistica necessita di un “indizio” specifico per risalire all’avvenimento. Altri problemi caratteristici dell’autismo sono quelli legati alla sfera della percezione; uno dei tanti paradossi delle persone autistiche riguarda la gamma delle loro reazioni agli stimoli: un bambino può prestare attenzione a un dato stimolo in una situazione particolare e, la volta dopo, può sottrarsi ad esso come se lo infastidisse. A livello comportamentale il bambino può reagire in maniera esagerata alla stimolazione e farsi prendere da attacchi di panico; a livello psicologico ci sono implicazioni notevoli sul piano dell’apprendimento, perché noi dipendiamo dalla costanza di gran parte del mondo che ci circonda: ad esempio, se il bambino si trova davanti delle lettere scritte una volta in stampatello e un’altra in corsivo,il suo ritmo di apprendimento ne risulta danneggiato. Si è cercato di trattare le anormalità percettive soprattutto in campo uditivo: alcune terapie sono fondate sul principio che si possa insegnare ai bambini autistici a percepire il mondo in modo meno distorto, tramite un processo di desensibilizzazione, che non risolve il problema ma può mostrare in alcuni soggetti segni di miglioramento (Jordan 1991). Un altro disturbo del pensiero, distintivo dei bimbi autistici, è la modalità con cui essi reagiscono a determinati stimoli, con una sorta di attenzione “a tunnel:” solo alcuni stimoli sono presi in considerazione, mentre gli altri vengono ignorati. Per questo, lo stile di pensiero autistico li rende brillanti in alcune attività, ma mediocri in altre. Ciò rende gli autistici vulnerabili negli ambiti della vita in cui essi possono ignorare gli aspetti più evidenti dell’ambiente, mentre si concentrano su quelli che sembrano non avere alcuna rilevanza. A livello concettuale, sviluppano un grande interesse per un preciso aspetto di un argomento, rimanendo invece indifferenti agli elementi a esso collegati. Si tende a considerare tali interessi come ossessivi, sebbene in realtà essi siano soltanto il prodotto naturale di uno stile di pensiero, che si fonda su un’attenzione fortemente specifica. Gli scolari autistici hanno un elevato grado di concentrazione durante i compiti, ma non sempre focalizzano l’attenzione su ciò che interessa all’insegnante. Nel loro pensiero, l’attenzione non può essere pienamente divisa fra più oggetti e non è regolata dal contesto sociale (Jordan 1991).

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CAP 4) LINEE GUIDA DI EDUCAZIONE, TERAPIA E RIABILITAZIONE. All’interno della comunità scientifica si è affermata l’idea che l’autismo sia una condizione in cui lo sviluppo psicomotorio è alterato per ragioni neurobiologiche o per dirlo all’inglese da “developmental disorder.” La convinzione comune è che l’autismo sino a oggi è un disturbo che non può essere curato e forse non potrà mai esserlo (Frith 1994). Questa affermazione può essere vera nella maggioranza dei casi, ma non nella totalità. Esistono infatti numerose strategie curative e riabilitative: a tal proposito un ruolo centrale è stato preso dall’approccio educativo che è basato su programmi molto strutturati nei quali ogni obiettivo viene suddiviso in altri più chiari e semplici. Tutto ciò avviene in contesti educativi; nei paesi anglosassoni vi sono le scuole speciali o i centri per autistici. In molti paesi stranieri c’è, a livello sperimentale, un tentativo di inserimento di questi bambini in scuole “normali” che a volte prevedono momenti di incontro con alunni “normali.” Accanto all’aspetto educativo vi sono anche dei metodi terapeutici, come il condizionamento operante di Lovaas, nel quale spesso si richiede ai genitori di imitare e continuare il lavoro del terapista. Buona parte di questi metodi è presente anche in Italia dove però sono molto più frequenti gli interventi psicoterapici. Nel nostro paese, inoltre, le scuole speciali sono state cancellate da un movimento di opinione negli anni Settanta, in quanto è evidente l’idea, nel nostro territorio, che inserire un bambino autistico in una struttura speciale significa lasciarcelo e imporre allo stesso l’etichetta di “anormale” che difficilmente potrà poi esserle tolta. Inoltre, in questa situazione, in cui gli inserimenti scolastici sono spesso inefficaci e accompagnati da piani pedagogici poco adeguati, il peso della riabilitazione grava tutto sulle famiglie, le quali hanno bisogno di strumenti riabilitativi da mettere in atto col figlio. In un intervento relazionale con il bambino e con la sua famiglia vi sono due evidenti necessità che vanno tenute presenti: -guidare i genitori per ottenere un rapporto più efficace con il figlio; -agire sul clima emotivo dell’intero sistema familiare (Zappella 1969-70).

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4.1) Incoraggiare il pensiero. Tutti noi cerchiamo di risolvere problemi che sono a volte pratici, sociali, emotivi ecc. In particolare gli insegnanti devono tenere presente il senso più ampio di questo termine: per l’alunno autistico, ad esempio, il problema di fare la fila a un self–service può essere paragonato a un problema di matematica e per alcuni il primo può essere di gran lunga più difficile del secondo. Il compito dell’insegnante è anche quello di creare un contesto speciale per l’apprendimento, che metta gli alunni in condizione di incominciare a pensare a se stessi come solutori di problemi. Tra insegnante e alunni si deve stabilire un clima di fiducia che faciliti la comprensione reciproca, in quanto lo studente autistico è particolarmente esposto all’ansia da prestazione scolastica. Gli insegnanti devono entrare all’interno del modo di pensare autistico che richiede affidabilità e regolarità di risposta (Jordan 1991). Anche il feedback dato agli alunni deve essere il meno minaccioso possibile e, per essere utile, deve essere collegato al ruolo dell’alunno nel compito assegnatogli. I bambini autistici possono rispondere con molto ritardo rispetto ai tempi normali e spesso sbagliano ripetutamente: per risolvere il problema essi devono poter disporre dell’esatta soluzione, fatta su misura per loro. Man mano che gli alunni si fanno più consapevoli del repertorio di risposte a loro disposizione, essi hanno anche bisogno di essere maggiormente responsabilizzati; ad esempio, affidando loro il compito di cercare il materiale da lavoro, in modo che non considerino più solo l’adulto come unico depositario di informazioni e soluzioni. Quando si insegna a bambini autistici, l’uso di modelli può essere un ottimo approccio. Condividere un’attività con il proprio alunno consente una reciprocità di esperienze, fornendo anche un contesto nel quale il bambino può formulare giudizi sul lavoro svolto dall’insegnante o addirittura dare consigli senza esserne invece, come succede di solito, il destinatario. I piccoli autistici non possono certo perdere tempo prezioso, però è importante che gli insegnanti considerino come obiettivo e parte integrante del lavoro l’imparare a divertirsi (Jordan, Powell, 1993). Gli alunni hanno bisogno di riflettere sul divertimento e devono imparare a condividerlo con gli altri. Gli adulti possono incoraggiare tale condivisione con il contatto visivo, sorridendo in risposta alla gioia del bambino e così via. 36


Un insegnamento efficace mira a sviluppare nei soggetti l’abilità di riflettere sul loro ruolo nelle situazioni di problem solving, anche se le ulteriori difficoltà di apprendimento e la mancanza dell’abilità di linguaggio possono limitarne i risultati.

4.2) Il metodo TEACCH. Il programma TEACCH (Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children), non è un metodo di intervento, come generalmente viene considerato, ma è un programma innanzi tutto politico. Con il termine "Programma TEACCH" infatti si vuole fare riferimento all’organizzazione dei servizi per persone autistiche realizzato nella Carolina del Nord (USA), che prevede una presa in carico globale della persona, in ogni momento della giornata, in ogni periodo dell’anno e per tutto l'arco dell'esistenza, insomma un intervento pervasivo per un disturbo pervasivo. E’ stato ideato e progettato da Eric Schopler negli anni’60 e, come detto, venne sperimentato per la prima volta nella Carolina del Nord; ebbe una durata di 5 anni e fu realizzato anche grazie all’aiuto dell'Ufficio all'Educazione e dell'Istituto Nazionale della Sanità. Visti i risultati estremamente positivi raggiunti, dagli anni '70 il programma TEACCH fu ufficialmente adottato e finanziato dallo Stato. Oggi l'organizzazione dei servizi prevede 6 centri di diagnosi, 6 centri di aiuto a domicilio, numerose classi speciali presso le scuole e posti di lavoro per adulti; inoltre tutti i servizi sono collegati fra di loro per garantire la globalità e la continuità dell’intervento: esso procede sia in senso "orizzontale," cioè in tutti gli ambienti di vita, che in senso "verticale," cioè per tutto l'arco dell'esistenza delle persone affette da autismo (Shopler et al. , 1991). Un programma TEACCH non può essere "comprato o applicato" singolarmente, ma ha bisogno di programmi educativi organizzati e strutturati secondo il modello del programma TEACCH. In Europa, la maggior parte delle scuole e delle classi specializzate per bambini autistici sono attualmente organizzati sul modello del programma TEACCH. L'Olanda e i paesi scandinavi hanno realizzato strutture di presa in carico globale e continuativa sul modello dalla Carolina dei Nord. 37


Il programma ha come fine lo sviluppo del miglior grado possibile di autonomia nella vita personale, sociale e lavorativa della persona autistica, attraverso strategie educative che potenzino le loro capacità.

4.2.1) I principi base del TEACCH. I principi base dei TEACCH sono del tutto innovativi rispetto alla concezione psicogenetica del disturbo autistico, e comportano di conseguenza caratteristiche di approccio altrettanto innovativi. Innanzi tutto, come punto di partenza e primo principio, si richiede una formazione di natura generalistica degli operatori e degli insegnanti, i quali devono avere conoscenze globali sull’autismo, sui deficit sociali, comunicativi e cognitivi. Senza queste competenze non è possibile portare avanti un lavoro quotidiano che richiede estrema responsabilità. E’ inoltre richiesta una conoscenza teorico-pratica sull’educazione speciale, sulle procedure di valutazione, sulla programmazione per obiettivi e sui metodi e le tecniche di intervento comportamentale. Se non si crede più ad una responsabilità della famiglia nella genesi del disturbo, di conseguenza si richiede ad essa una collaborazione attiva nell’intervento: alla base del secondo principio, vi è la collaborazione tra genitori e insegnanti: i migliori risultati si ottengono all’interno del gruppo familiare, in quanto i genitori sono i maggiori conoscitori del bambino; al pari, anche gli insegnanti; seppur in un ambito diverso, dimostrano abilità ed esperienza in strategie educative. Sarà utile, ad esempio nei compiti a casa, che mamma e papà aiutino il figlio, seguendo gli stessi metodi adottati in classe, mentre i docenti dovranno raccogliere pareri e consigli dei genitori, per una maggiore conoscenza del bambino autistico. E’ stato calcolato che il coinvolgimento dei familiari in qualità di partners incide per il 50% sulle possibilità di successo del programma (Watson, Lord, Schaffer, Schopler, 1997).

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4.3) Strategie di intervento. Se l'autismo non viene più considerato una malattia mentale, ma un handicap della comunicazione, della socializzazione e della immaginazione, il bimbo autistico non potrà più essere visto come un individuo normodotato che rifiuta di collaborare, ma come una persona svantaggiata, disorientata in un mondo incomprensibile, frustrata dagli insuccessi e, come tale, dovrà essere aiutata a sviluppare le sue capacità sfruttando i suoi punti di forza, le sue predisposizioni e le sue potenzialità. Sarà quindi molto importante che durante l'apprendimento il bambino venga gratificato da frequenti successi: una volta valutate le sue capacità, i compiti proposti saranno scelti non fra le attività in cui fallisce, ma in quelle "emergenti," cioè fra le prestazioni che il bambino riesce a portare a termine con l'aiuto dell'adulto. Per lo stesso motivo le buone capacità visuo-spaziali delle persone autistiche sono alla base della scelta di utilizzare strategie comunicative e strutturazioni di tipo visivo. La variabilità estrema della sintomatologia e dei livelli di sviluppo nell'ambito della sindrome autistica richiede infine una elaborazione strettamente individualizzata del programma educativo, con continue e frequenti rivalutazioni e aggiustamenti: se il bambino dispone di un buon programma, apprende in un tempo ragionevole; se l'apprendimento non avviene a breve termine, è il programma che non funziona e che deve essere rivisto (Schopler, Reichler, Lansing, 1980). Per formulare un buon programma educativo è necessario disporre di una diagnosi corretta, che si appoggia sulla osservazione clinica guidata da test diagnostici specifici: possiamo qui ricordare il CHAT (Checklist for Autism in Toddiers) o il (Childhood Autism Rating Scale) CARS (Schopler, Reichler, Renner,1988). La valutazione del livello di sviluppo viene realizzata attraverso un test appropriato: PEP (Profilo Psico-Educativo) che registra le capacità nelle differenti aree, come imitazione, motricità, coordinazione oculomanuale, capacità cognitive, comunicazione e percezioni sensoriali. Il profilo di sviluppo ottenuto sarà il punto di partenza per costruire il programma educativo, cioè per determinare i tipi di attività da proporre attraverso l’individuazione delle "emergenze". Le aree in cui si riscontra il maggior numero di emergenze sono da preferire nella scelta dei compiti da proporre (Schopler, Reichler, Lansing, 1991). 39


Le modalità di valutazione sono flessibili e adattabili al bambino che viene osservato nel suo modo di operare all’interno di attività didattiche e ludiche. I risultati ottenuti vengono riportati sotto forma di grafico, su un diagramma dove è riportato anche il grafico di un altro bambino non autistico della stessa età: la differenza tra i due grafici indicherà la discrepanza tra età anagrafica ed età funzionale del piccolo. Le griglie di valutazione possono definire le “vecchie abilità” (che il bambino già possiede), le “nuove abilità” ( che ancora non conosce) e le “abilità emergenti” ( che il bimbo comincia a possedere) e che risultano essere le più importanti in quanto è su di esse che si concentra l’intervento educativo. Un programma educativo individualizzato deve tener conto non solo di questi elementi, ma anche delle aspettative della famiglia, dell'ambiente in cui il bambino si trova a operare, incrementare la motivazione, rendere l’apprendimento il più gradevole possibile: insomma progettare un intervento “su misura per lui (Schopler et al. ,1991).” Abbiamo visto come lo scopo del programma educativo TEACCH sia di favorire lo sviluppo dell'individuo, la sua integrazione sociale e l'autonomia, tenendo conto dei deficit specifici che il disturbo autistico comporta. Uno degli obiettivi più importanti da far raggiungere alla persona autistica è la possibilità che essa possa vivere con gli altri membri della società in un contesto meno segregante possibile e di permettergli di gestire al meglio la propria vita quotidiana.

4.3.1)La strutturazione. In passato si pensava che i bambini autistici soffrissero per rifiuto di sentimenti e desideri, e si dava loro di conseguenza la possibilità di libera espressione in un quadro non strutturato sperando che potessero trovare una via per liberare le proprie potenzialità represse. Ma l'esperienza di molti anni dimostra che in questo modo si produce l'effetto contrario, aumentando l'angoscia e i problemi comportamentali. Uno dei maggiori limiti del ragazzo autistico sta nell’incapacità di crearsi dei punti di riferimento stabili per orientarsi nello spazio e nel tempo; il Teacch permette, attraverso l’insegnamento strutturato, di orientare l’alunno nello svolgimento dei compiti in condizioni rassicuranti per lui. 40


La strutturazione riguarda sia gli spazi fisici che i tempi in cui si svolgono le attività didattiche e mira a: - incrementare l’indipendenza personale e funzionale dell’alunno; - ridurre l’ansia causata dal cambiamento; -diminuire gli interventi correttivi dell’insegnante. La strutturazione degli spazi permette al bambino di comprendere in quali luoghi si svolgeranno le differenti attività e anticipare quale sarà la tipologia di compito che lo attende; a scuola saranno presenti spazi per il gioco, per l’attività motoria, per il riposo e così via. Naturalmente ogni spazio deve essere delimitato in modo chiaro, evitando gli oggetti di disturbo come pareti, pannelli, specchi. La strutturazione del tempo si avvale di un programma giornaliero e di uno settimanale: nel primo sono indicate le attività quotidiane, nel secondo quelle da adempiere nei giorni settimanali. La strutturazione dei compiti si basa su dei sistemi di lavoro: alla sua sinistra il bambino ha a disposizione un contenitore con i lavori da svolgere, di fronte ha il materiale didattico necessario, sulla destra un altro contenitore dove riporrà i lavori finiti. L’alunno ha davanti a se le istruzioni, ben chiare e collocate in sequenza corretta, in modo che egli abbia tutte le informazioni sul tipo di lavoro da svolgere, la modalità da usare e il momento esatto in cui dovrà aver finito. Procedendo passo dopo passo, il bambino riuscirà a completare gli esercizi da solo, senza l’aiuto dell’adulto (Schopler, Reichler, Lansing,1991). Se i lavori nei quali deve cimentarsi il bambino sono più di uno, si ricorre a schemi visivi che indicheranno tramite immagini, parole o numeri, l’ordine da seguire per svolgere i singoli compiti. Chiaramente occorre seguire sempre la linea della flessibilità, e all’occorrenza intervenire con modifiche e variazioni per facilitare la soluzione di problemi improvvisi e imprevisti che causano disagio e difficoltà nel piccolo autistico. Anche i compiti da svolgere devono essere pensati e proposti al bambino in modo individuale, in quanto non bisogna mai dimenticarsi di rispettare tempi e bisogni della persona.

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4.4) Il rinforzo. Può essere arduo per il bambino all'inizio di un programma educativo comprendere per quale motivo debba eseguire dei compiti. Anche il bambino non autistico incontra questa difficoltà, ma può essere motivato dalla volontà di accontentare la mamma o l'insegnante, di fare "bella figura," di avere gratificazione (Schopler, Mesibov, 1995). Queste motivazioni possono essere troppo astratte per il bimbo autistico; sarà allora necessario dargli delle stimolazioni concrete, strettamente collegate nel tempo all'esecuzione del compito. Una ricompensa alimentare è il rinforzo più semplice: spesso tuttavia essa viene sostituita dal rinforzo sociale, costituito da lodi e complimenti. E' importante comunque individuare un rinforzo adatto alle preferenze del singolo bambino: sarà ovviamente controproducente abbracciare o accarezzare un bambino che presenta, come spesso succede, difficoltà ad accettare la vicinanza fisica; oppure offrire un rinforzo alimentare a bimbi che rifiutano il cibo. Anche il permesso di dedicarsi ad una attività preferita, non importa se stereotipata, può costituire un rinforzo adeguato. Spesso comunque la soddisfazione di riuscire da solo nel compito proposto è già di per se un ottimo rinforzo.

4.5) L’aiuto. Se non possiamo utilizzare in modo adeguato le istruzioni verbali per spiegare il compito, un aiuto fisico o visuale può rappresentare il modo più semplice per illustrare al bambino autistico come dovrà eseguire il suo compito Il grado maggiore di aiuto è costituito da quello fisico: l'educatore accompagna con la sua mano quella del bambino nell’esecuzione del compito. In questo caso è importante che il gesto sia regolato in modo da comunicare un incoraggiamento e che abbia una valenza esplicativa; inoltre il bambino deve essere in grado di capire e non sentirsi costretto. Un altro tipo di aiuto può essere di tipo visuale: indicare con il dito o anche, ad esempio, spostare un oggetto dal posto sbagliato al posto giusto, o ancora, dare una dimostrazione 42


pratica di come eseguire il compito, purché naturalmente da parte del bambino ci sia la necessaria attenzione. Anche l'aiuto verbale, ovviamente, può essere utilizzato; in questo caso è utile l’utilizzo di parole semplici, sostanziali e sempre uguali, per una stessa spiegazione, evitando i sinonimi o un linguaggio troppo figurato. Anche nel caso dell'aiuto è importante valutare la forma più indicata per ogni singolo caso. La rappresentazione del compito attraverso una serie di immagini che ne illustrano le varie tappe, disposte da destra a sinistra, costituisce la tipologia di aiuto più conciliabile con l'autonomia di lavoro. Bisogna infine ricordare che il piccolo autistico tende ad associare l'apprendimento con una data situazione o ad un ambiente, mentre ha difficoltà a generalizzare il suo comportamento (Schopler et al. , 1983). Sarà quindi necessario estendere dei programmi di generalizzazione attiva delle acquisizioni; l'apprendimento in ambiente scolastico è solo il primo passo nel programma educativo, in quanto è altrettanto importante espandere le competenze acquisite all'ambiente familiare o in altri frangenti. Senza dubbio, anche per questo, è importante avvalersi della collaborazione dei genitori: nel caso dell'autismo i rapporti di cooperazione fra genitori e insegnanti non sono solo una questione di buona educazione, ma diventano un requisito indispensabile del processo educativo. La difficoltà di generalizzazione comporta anche la necessità di provvedere in anticipo a fornire il bambino delle competenze che gli serviranno da adulto per un inserimento lavorativo. La continuità educativa e la coordinazione dei servizi per l'età infantile e per l'età adulta, sebbene appaiano estremamente difficili da realizzare concretamente, rappresentano dei requisiti fondamentali per un inserimento sociale e lavorativo efficace.

4.6) Altre terapie utili. 4.6.1)La Comunicazione Facilitata (C F). La Comunicazione Facilitata (CF) è stata messa a punto alla fine degli anni 80 da Biklen e si è diffusa in seguito soprattutto negli Stati Uniti ed in Australia. Per 43


Comunicazione Facilitata si intende l’utilizzo di un metodo che ha come scopo quello di facilitare la comunicazione grazie a un terapista abilitato detto “il facilitatore,” il quale offre un sostegno alla mano o al braccio della persona con deficit nella comunicazione, per aiutarlo ad indicare immagini o lettere o ad usare una tastiera per digitare del testo (Crossley 1998). Il programma segue il criterio della gradualità; all’inizio la scelta è tra poche immagini semplici, per giungere poi a scelte sempre più difficili (Bicklen 1999). La CF, più che una terapia o un metodo psicoeducativo, è una tecnica di comunicazione aumentata: il facilitatore riduce alcuni ostacoli alla comunicazione, come l’instabilità posturale, il movimento stereotipato, il tremore e così via. Inoltre favorisce gli stimoli del bambino attraverso il supporto emotivo e verbale, oltre che ai feedback di rinforzo. Lo scopo di questo metodo è di aiutare le persone autistiche o con un grave ritardo mentale a comunicare. Secondo i sostenitori di questa metodologia, infatti, l'autistico troverebbe difficoltà a comunicare non perché non vuole o non sa farlo, ma perché non riesce ad ordinare in sequenza le nozioni che ha da dire, nè a fare il movimento giusto per indicare o scrivere quello che avrebbe in mente (Stork, Golse, Lebovic, 1996). In questo, l'autismo viene accomunato all'aprassia, ovvero la difficoltà di comunicazione sarebbe causata da questa condizione di cui soffrono gli autistici. A sostegno di questa ipotesi è giusto evidenziare che basta un periodo di addestramento, offrendo un sostegno al braccio della persona sottoposta a tale preparazione, dopo di che l'aiuto viene progressivamente diminuito fino a limitarsi al solo tocco della mano della persona, la quale intanto ha imparato a comunicare usando sempre più parole, associate a un linguaggio via via più strutturato. L’aiuto viene ulteriormente ridotto, limitandosi al solo tocco della mano sulla spalla o sulle ginocchia dell’individuo. Sono numerose le critiche riguardo a questa terapia, che sottolineano il fatto che solo pochi soggetti sono riusciti a comunicare indipendentemente senza l’aiuto del facilitatore, che sembrerebbe guidare in qualche modo le azioni della persona, condizionandone i messaggi (Arduino 2000). Un’altra critica riguarda il fatto che la CF, dando uno strumento di comunicazione alternativo alla parola, potrebbe ritardare e ostacolare il linguaggio verbale stesso, in quanto il bambino non avrebbe più gli stimoli per produrlo. A favore della CF viene invece considerato il fatto che essa è stata utile a molte persone, perché ha permesso loro di comunicare ed esprimersi e che se le basi teoriche e di 44


ricerca non sono del tutto salde ed empiricamente testate, questo non è un motivo sufficiente per cancellarla completamente senza offrire comunque altre alternative alla comunicazione verbale. In futuro si propone dunque di dedicarsi maggiormente alla ricerca e al perfezionamento di questo metodo, per sfruttare al massimo questo potente mezzo che permetterebbe al bimbo autistico di scoprire, sviluppare ed esprimere le proprie capacità.

4.6.2) Il Metodo EtodinamicoA.E.R.C e l’HOLDING. Trattato in particolar modo dal prof. Zappella, il metodo Etodinamico parte dall’osservazione etologica del comportamento sia del soggetto con Disturbo Autistico sia delle persone con le quali interagisce, vale a dire la famiglia; essa avviene rispettando le sequenze con le quali si realizza lo sviluppo relazionale normale, in particolare la intersoggettività primaria e secondaria. I principi etologici presi in considerazione possono riguardare quelle attività che si svolgono in un contesto di avvicinamento all'altro: per esempio, i modi affettuosi, amichevoli, esplorativi dell'altro, che possono essere particolarmente ridotti in alcuni bambini autistici. In questi casi vi sono delle modalità di relazione, basate soprattutto sul rapporto di reciprocità faccia a faccia che, specie nei bambini più piccoli, possono essere utili, sia nel migliorare questo tipo di relazione diretta, sia quella collaborativa. Le modalità relazionali vanno di pari passo: per esempio, un bambino di tre anni, che ha avuto in precedenza una regressione di tipo autistico, spesso ha perso molti dei modi di rapporto che sono propri della intersoggettività primaria: per questa ragione, la relazione con lui deve riproporsi con modi di reciprocità corporea e verbale che, in un bambino più piccolo, favoriscono la comprensione e l'espressione del linguaggio. Una delle finalità principali é quella di costruire nel bambino una motivazione positiva, sia a interagire che a collaborare; é per questa ragione che spesso é utile far uso di varie forme di attivazione,verbale e motoria, come prendere per mano il bimbo, farlo correre o saltare, mettendolo in una condizione di disponibilità e di allegria, per cui subito dopo, diventa propenso a collaborare per i vari obiettivi cognitivi (Zappella 1992). Su questi presupposti, si fonda l'intervento denominato terapia di Attivazione Emotiva e Reciprocità Corporea (AERC), che Zappella ha messo a punto nel 1996. Questa 45


metodologia si integra sempre con altre modalità educative come il Metodo Portage: una prassi educativa di tipo comportamentale, la cui funzione é quella di fornire una guida ai genitori, riguardo le attività più adeguate da proporre al bambino. Il Metodo Portage, inoltre, consente di valutare regolarmente l’evoluzione del bambino, nel corso della terapia. Zappella propone anche una organizzazione della giornata che, raramente, assume dei connotati rigidi propri di altri metodi. Per gli individui autistici con abilità linguistiche e intellettive superiori si identifica con altre modalità educative. I risultati di questa metodologia cambiano a seconda delle sindromi e delle disabilità presenti e ottengono i risultati migliori, in particolare, nella sindrome dis-maturativa con tic complessi familiari a esordio precoce e nei disturbi dell'umore, nei quali la reversibilità del disturbo autistico é maggiore. I successi maggiori si ottengono con i bambini piccoli, sia perché a quell’età il sistema nervoso ha una maggiore plasticità, sia perché in essi l'intelligenza senso-motoria ha una maggiore espressione (Zappella 1996). In altri casi, a diverse fasce d'età, si possono avere dei miglioramenti di vario livello, a seconda della condizione e del livello di disabilità. Il luogo in cui si svolge l'intervento é costituito da una ampia sala, dotata di specchio unidirezionale e attrezzata per la videoregistrazione, nella quale sia presente uno spazio sufficiente al movimento del bambino, il quale deve potersi sentire libero; inoltre, devono essere presenti attrezzature quali tavolo, sedie, poltrone o divani, oltre a un certo numero di giochi. Al genitore viene proposto di immedesimarsi e cercare di stabilire un rapporto con il figlio, oltre che collaborare con lui in attività come il disegno, la costruzione di una torre di cubi e altre simili. Il tentativo di stabilire un rapporto con il bambino viene portato avanti da un genitore insieme a uno dei terapeuti, mentre l'altro genitore assieme a un altro specialista assistono dietro lo specchio. Il terapeuta ha il compito di rappresentare un modello per il genitore che in genere risulta frustrato dai ripetuti fallimenti sperimentati in passato nel tentativo di catturare la sensibilità del figlio. Durante le sedute, il genitore sperimenta un rapporto corporeo emotivo col figlio, nella direzione della intersoggettività secondaria. L'obiettivo di alcuni di questi interventi è di natura strategica, in quanto mira a cambiare e a migliorare in tempi brevi il tipo di relazione genitore-figlio.

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Tra una seduta e l'altra trascorrono di solito alcune settimane, durante le quali i genitori dedicano circa un'ora al giorno ad attività di gioco e di rapporto diretto con il bambino analoghe a quelle fatte in seduta. I precedenti storici di questo intervento vanno in parte ricondotti all'introduzione del metodo holding: il bambino veniva tenuto in uno stretto rapporto corporeo da uno dei genitori, faccia a faccia, ricercando una sintonia emotiva e ripetendo le sue espressioni vocali che venivano poi modificate e arricchite dall'adulto. A questo seguiva un'interazione libera, festosa e collaborativa. Negli anni ottanta l'holding ha consentito ad alcuni bambini di perdere il comportamento autistico e diventare degli adulti normali; alcuni di questi bambini erano affetti da una sindrome dismaturativa con tic complessi familiari a esordio precoce. Inoltre l’holding ha permesso ad altri bimbi con evidente danno organico di sviluppare un linguaggio verbale (Zappella 1987). Il tipo di interazione senso-motoria che caratterizzava quest'approccio, semplificava questi progressi. L'holding, tuttavia, tendeva a creare una schematizzazione poco naturale e rigida nell’interazione primaria e secondaria, come pure negli interventi che facilitavano l'articolazione del linguaggio. In altri termini, nella vita comune non succede mai che un bambino venga tenuto per lungo tempo nelle braccia del genitore in un rapporto faccia a faccia; viceversa, il confronto di reciprocità corporea si articola di continuo con momenti di gioco e di movimento. Per questo eccesso, l'holding diventava inappropriatamente costrittivo. Chiariti questi aspetti e alla luce delle nuove conoscenze sulle diverse sindromi autistiche, che negli anni ottanta erano molto minori, l'holding oggi va considerato un metodo superato.

4.6.3)La Comunicazione Aumentativa e Alternativa di J. Cafiero. Per i bambini che non parlano, o hanno povertà di linguaggio, la Comunicazione Aumentativa e Alternativa di Cafiero può essere un espediente molto importante e può spesso integrarsi con un approccio etodinamico: entrambi, infatti, fanno riferimento all'intelligenza senso-motoria che rappresenta spesso il livello cognitivo reale di molti bambini autistici di piccola età e anche quello prevalente dei soggetti autistici più grandi, viste le loro difficoltà simbolico-linguistiche, che in diversa misura e forma si ritrovano in tutti questi soggetti (Cafiero 2009). 47


La CAA risponde perfettamente ai problemi tipici dei bambini autistici, e in particolare porta a dei miglioramenti nelle seguenti aree: - Apprendimento visivo: l’autistico ha grande abilità nel cogliere gli stimoli visivi come immagini, fotografie e parole scritte; trova invece evidenti problemi nell’elaborazione uditiva. La CAA fa un forte utilizzo di questi segnali visivi. - Interesse verso oggetti inanimati: gli autistici hanno un interesse inusuale verso gli oggetti inanimati, statici e del tutto estranei al cambiamento. La CAA usa strumenti e oggetti di questo tipo che risultano tollerabili al bambino e più attraenti rispetto alle parole. - Difficoltà con gli stimoli complessi: le persone con autismo spesso trovano difficoltà a rispondere a stimoli complessi, eseguire più compiti alla volta; il linguaggio parlato e del corpo, o stimoli visivi troppo dinamici. La CAA fa uso di dispositivi basati su stimoli semplici, resi poi più articolati, man mano che il bambino acquisisce un linguaggio complesso. - Difficoltà con i cambiamenti: il bambino autistico è abituato a trovarsi in un ambiente su misura per lui, in cui tutto deve essere prevedibile e seguire un ordine preciso; la CAA durante le sue attività con il bambino presenta un contesto statico e prevedibile agli occhi del piccolo. - Ansia: l’individuo autistico è spesso soggetto ad attacchi di panico e di agitazione quando si trova davanti a un estraneo, a qualche cambiamento o richiesta che non si aspetta; gli interventi della CAA sono pensati in modo da non creare stress o pressione nel soggetto e ben strutturati secondo le sue capacità. - Difficoltà di memoria: gli autistici presentano problemi nel richiamare ricordi o avvenimenti precisi. La CAA fornisce un mezzo per la comprensione del linguaggio che si basa più sul riconoscimento che sulla memoria. Una particolarità della CAA è che essa con il termine “alternativa” si riferisce a una comunicazione sostitutiva al linguaggio verbale: le persone con autismo non ricevono uno stimolo verbale sufficientemente comprensibile. Questo è il momento in cui la CAA entra in aiuto del bambino, aumentando e migliorando le modalità di comunicazione esistenti. Questo va a beneficio degli allievi autistici che possiedono delle abilità linguistiche, di recezione ed espressione limitate rispetto ai loro bisogni (Cafiero2009). 48


4.6.3) L’Intervento Comportamentale precoce di Lovaas. Lovaas insieme ad alcuni collaboratori afferma che l’intervento comportamentale precoce e intensivo eseguito a casa, utilizzando i metodi della Applied Behavior Analysis (A.B.A.) consente a molti bambini autistici di poter arrivare ad avere una vita “normale.”Egli ritiene che il trattamento dei soggetti autistici risulta più efficace se viene realizzato nel loro ambiente di vita senza una vera e propria ospedalizzazione. Lo scopo più importante per i seguaci di questo metodo è quello di aiutare i bambini a vivere e porsi in un mondo reale e non in uno artificiale come risulta essere un’istituzione, per questo motivo il luogo del trattamento è quello naturale per il bambino cioè la casa e la scuola. In questo modo l’insegnamento viene affidato ai genitori e ai parenti (Lovaas 1990). La Applied Behavior Analysis usa metodi che si basano su principi comportamentali scientificamente stabiliti, come l’apprendimento operante, al fine di costruire repertori comportamentali socialmente utili e ridurre quelli problematici. Secondo il punto di vista analitico-comportamentale, l’autismo è una sindrome causata da deficit ed eccessi comportamentali che hanno delle basi neurologiche, ma comunque soggetti a un possibile cambiamento in seguito ad interazioni specifiche, accuratamente programmate e costruttive in rapporto con l’ambiente. Dato che i bambini con autismo non imparano facilmente dagli ambienti tipici, possono imparare da esso se ricevono appropriate istruzioni. L’enfasi quindi viene posta nell’insegnare al bambino come imparare dall’ambiente normale (Loovas 1987). Il trattamento analitico comportamentale per l'autismo si focalizza su un insegnamento sistematico che si suddivide in unità di comportamento piccole e misurabili, il che significa che ogni abilità viene suddivisa in piccoli passi, ognuno dei quali è insegnato separatamente attraverso una serie specifica di istruzioni che siano esplicite e chiare. La regola per iniziare ad insegnare un comportamento è sceglierne uno semplice, possibilmente prefissato; i pasti possono essere un perfetto inizio di insegnamento. L’allievo arriva così a padroneggiare all’inizio le prime unità che poi vengono coordinate e messe insieme fino a formare un tutto unico più avanti. A volte viene aggiunto un aiuto (ad esempio un aiuto fisico) per iniziare, che poi viene progressivamente diminuito per impedire che il bambino ne diventi dipendente. Le risposte appropriate sono seguite da conseguenze che funzionano da rinforzo: quando 49


un bambino fa qualcosa di buono lo si ricompensa immediatamente: comportamento e ricompensa dovrebbero essere quasi contemporanei. All’inizio le ricompense (che devono durare solo da 3 a 5 secondi ed essere varie) possono essere notevoli e concrete (gelati, baci, parole di elogio), ed occorre essere enfatici nel tono della voce per rendere l’apprendimento divertente, poi via via che il bambino si sviluppa, tali ricompense diventano più sottili (un’occhiata, un riconoscimento anche minimo). Bisogna spostare al più presto la ricompensa dal cibo ad altri tipi, come gli elogi sociali ("bravo," "bene"); poi si passa da una ricompensa continua ad una parziale, ricompensando solo una volta ogni tanto. Le risposte problematiche (capricci, stereotipie, comportamenti autoaggressivi, ritiro) non vengono rinforzate. Uno scopo prioritario è insegnare al bambino a discriminare tra differenti stimoli (colori, forme, lettere, numeri, comportamenti appropriati e non). Le prove di insegnamento sono ripetute molte volte, inizialmente in rapida successione, finché il bambino dà una risposta facilmente e senza l’aiuto dell’adulto. Il tempo e la velocità delle sessioni di insegnamento, le opportunità pratiche, e le conseguenze sono determinate precisamente per ogni bambino e per ogni abilità, le istruzioni sono altamente personalizzate e adattate allo stile e alla velocità di apprendimento di ogni bambino (Maurice, Green, Luce,1996). I risultati delle ricerche condotte da Lovaas sull’intervento comportamentale precoce per l’autismo mostrerebbero: -efficacia: l’intervento precoce basato sui principi della Applied Behavior Analysis produrrebbe grandi, durevoli, e significativi miglioramenti in molti importanti domini e la riduzione dei comportamenti problematici; per alcuni questi miglioramenti possono arrivare al raggiungimento di un normale e completo funzionamento intellettivo, sociale, accademico, comunicativo e adattivo. Solo una piccola porzione (circa il 10%) non hanno fatto miglioramenti. Il risultato positivo più documentato è l’accresciuto funzionamento intellettivo misurato da test standardizzati del Q.I. o con scale di sviluppo. L’integrazione con successo nel corso regolare delle scuole sarebbe un altro effetto positivo. -Età per un’efficacia ottimale: l’età ottimale per iniziare un intervento comportamentale precoce è prima dei 5 anni di età; i migliori risultati sono stati riportati per bambini che hanno cominciato il trattamento a 2 o 3 anni. Potrebbe esserci un periodo ottimale durante il quale il giovane cervello in evoluzione è molto modificabile: in alcuni 50


bambini con autismo l’interazione ripetuta e attiva con l’ambiente fisico e sociale, che è assicurata dall’intervento comportamentale precoce, può modificare il loro circuito neurale, correggendolo prima che i correlati neurobiologici del comportamento autistico diventino permanenti. -natura dell’intervento: l’intervento comportamentale è un "pacchetto" di trattamenti che vengono applicati in modo intensivo e sostenuto (con opportunità di apprendimento attentamente pianificate). Una importante caratteristica della A.B.A. è che è altamente individualizzata: -intensità; i migliori risultati si otterrebbero, secondo i sostenitori di questa metodologia, per quei bambini che hanno seguito l’intervento comportamentale per almeno 30 ore a settimana, tutti i giorni. -Durata: i migliori esiti si avrebbero con i bambini che hanno praticato questo intervento intensivo per almeno 2 anni consecutivi, se non di più. -Ambiente: in generale si privilegiano per le prime volte ambienti tranquilli e senza distrazioni, tenendo presente che poi il trattamento deve essere esteso ad altri ambienti per produrre effetti durevoli e generalizzati. Inoltre, il coinvolgimento dei genitori nel trattamento può essere una componente cruciale per l’intervento su bambini piccoli, soprattutto se esso ha luogo in casa (Lovaas 1987).

4.6.4) Metodo Delacato. C. Delacato inizialmente faceva parte, insieme a G. e R. Doman, di un gruppo di lavoro di chiara impostazione medico-fisiatrica, dedicato alla riabilitazione di bambini cerebrolesi. Una delle conclusioni a cui è giunto il gruppo di lavoro, era che lo sviluppo del bambino procede per stadi, i quali se vengono saltati, impediscono allo stesso di raggiungere il suo potenziale. Compito del programma di riabilitazione è far ripetere al bambino lo stadio che è stato saltato, e farglielo ripercorrere in modo da stimolare il suo cervello allo sviluppo. E’ stato constatato che esistono diversi gradi di lesione cerebrale che vanno dalla più grave alla più lieve e che i fattori più comuni della lesione cerebrale lieve siano i problemi di percezione (tattile, visiva o acustica).

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In seguito Delacato iniziò a lavorare con bambini normali dal punto di vista motorio, ma che presentavano gravi disturbi del comportamento. Di qui passò a studiare l'autismo. Egli osservò che molti dei sintomi dei bambini cerebrolesi sono simili a quelli dell'autismo, dunque iniziò a considerare gli atteggiamenti autistici come la conseguenza di un problema sensoriale o percettivo e non come un disturbo a se. I piccoli autistici vengono da lui considerati come cerebrolesi e con gravi problemi sensoriali: non potendo sfruttare gli stimoli che provengono dall'esterno, perché i canali di comunicazione col cervello sono difettosi, essi cercano di normalizzare la via attraverso un comportamento ripetitivo che va a stimolare il canale stesso. I bambini autistici non sono dunque psicotici, ovvero non si comportano così per cause psicologiche ma per motivi neurologici. Vengono individuati 3 tipi di deficit sensoriale: -ipersensibilità: passa troppa parte di informazione al cervello e si crea un sovraccarico. -Iposensibilità: passa una parte troppo piccola di informazione che quindi non riesce ad essere adeguatamente processata ed elaborata. -Rumore bianco: la percezione è disturbata da un'interferenza sensoriale interna, ovvero la stessa attività dell'inefficiente sistema sensoriale crea interferenza nel sistema. Per la cura di questo disturbo occorre quindi, per prima cosa, aiutare il bambino a sopravvivere agli stimoli, per poi procedere a normalizzare il suo sistema sensoriale. Gli autismi sono sintomi di lesione cerebrale, vengono chiamati atteggiamenti sensoriali che tentano di normalizzare le vie sensoriali lese. Il bambino cerca di curare se stesso e, facendo ciò, si distrae dalla realtà (Delacato1974). Dall'osservazione del comportamento si possono individuare le vie lese e si può capire se il deficit è di tipo iper, ipo o rumore bianco. Si possono normalizzare le vie offrendo al bambino l'esperienza e la stimolazione giusta, attraverso quella specifica via compromessa. Quando il canale è normalizzato, il comportamento ripetitivo cessa e quando ciò avviene, il bambino riesce a concentrarsi sul mondo reale. A questo punto lo si curerà come si curano le lesioni cerebrali lievi, offrendogli l'opportunità di ripercorrere lo stadio che è stato in qualche modo saltato.

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4.6.5) Musicoterapia. Gli interventi di musicoterapiasi propongono come obiettivo il tentativo di stabilire, attraverso la musica, una relazione capace di produrre cambiamenti positivi nell’altro. Viene scelto come canale privilegiato quello della comunicazione non-verbale, il movimento corporeo, il canale sonoro e musicale, per stabilire e sviluppare una relazione tra il musicoterapeuta e il paziente. La musicoterapia rappresenta uno strumento per ascoltare, osservare e agire all’interno di una relazione terapeutica, che semplifica il processo di comunicazione interpersonale. Gli interventi possono attingere a due particolari tecniche: Ricettive, basate sull’ascolto di musiche registrate, o riprodotte dal terapeuta. Attive, in cui il paziente stesso suona lo strumento, da solo, con il terapeuta o in gruppo. Spesso e volentieri durante gli interventi vengono usate entrambe le tecniche, e può capitare che lo strumento utilizzato venga costruito insieme al paziente. Come per tutti i trattamenti usati con bimbi autistici, anche qui la proposta terapeutica deve essere pensata e concepita secondo le esigenze e le potenzialità del bambino: per esempio, nell’improvvisazione musicale, ben chiara al terapista, lo scopo sarà quello di stimolare le emozioni del piccolo. E’ un modo di fare musica in cui si privilegia il dialogo; il musicoterapeuta lavora con la persona e non con la sindrome, per cui il bambino diventa il soggetto attivo della relazione terapica (Cremaschi Trovesi1999). La musica è importante in quanto è una forma di rinforzo naturale, motivante e immediato. La musicoterapia risulta essere molto importante nei piccoli autistici con disturbi del linguaggio espressivo, che variano dal mutismo, ai versi, agli urli e ai ronzii. Un lavoro utile è rappresentato dall’imitazione: il terapeuta ascolta i segnali che il bambino invia e propone un’imitazione musicale con il gioco dell’improvvisazione, cambiando modi, stili, ritmi e tempi a seconda di quanto fa e dice il bambino. Infine la musicoterapia permette di: -lavorare sull’immagine di Sé e su una maggiore consapevolezza corporea del bambino; -intervenire sui comportamenti problematici, offrendo un’alternativa comportamentale; - migliorare l’interazione con i coetanei attraverso il gioco musicale; -stimolare la creatività e l’immaginazione; 53


-lavorare sulle competenze motorie, di attenzione e di ascolto (Cremaschi Trovesi 1999).

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CAP 5) L’ATTIVITA’ CORPOREA.

Si possono distinguere tre fasi dell’apprendimento motorio: a) la fase cognitiva, durante la quale l’allievo mette a fuoco l’obiettivo e prende le decisioni che permettono le prime esecuzioni del movimento. In altre parole, le prime dimostrazioni dell’azione che deve essere appresa, effettuate solitamente dall’educatore, permettono all’allievo, attraverso una focalizzazione adeguata dell’attenzione, di percepire e memorizzare il movimento che deve essere acquisito; b) la fase associativa nella quale, attraverso varie ripetizioni, l’allievo perviene alla costruzione del programma motorio, che organizza i sottoprogrammi della fase precedente anche alla luce delle abilità motorie già apprese; c) la fase di automazione che caratterizza la situazione in cui il movimento, ormai ampiamente sperimentato, prima può essere seguito senza prevedere un controllo attentivo, passando dal processo controllato al processo automatico. L’automatizzazione del movimento non può mai ritenersi assoluta (Schmidt 1988). Per esaminare in maniera dettagliata l’articolazione di queste fasi, si prendono in considerazione iseguenti aspetti centrali: - il concetto di schema motorio; - i processi implicati nell’elaborazione, nell’esecuzione e nel controllo del programma motorio; - le difficoltà di apprendimento motorio determinate da situazioni di handicap mentale.

5.1) Il concetto di schema motorio. Lo schema può essere descritto come una regola generale che rappresenta tutte le relazioni fra le diverse variabili oggetto del movimento. In altre parole, lo schema non si identifica nella rappresentazione mentale di un singolo movimento, ma contiene una serie di condizioni comuni da tutta una categoria di movimenti (la forma, la velocità, la forza, l’ampiezza dei movimenti etc). Lo schema come struttura gerarchica per tutta una serie di movimenti, permette una interpretazione dell’apprendimento motorio ed è in grado di salvaguardare le 55


caratteristiche di efficacia ed economicità nel lavoro del sistema nervoso centrale. Si tratta, infatti, di un processo generativo che, a partire da movimenti appartenenti alla stessa categoria, è in grado di formare una regola che possa essere applicata a tutti i movimenti. Secondo R. Schmidt e i suoi collaboratori la teoria dello schema si baserebbe su quattro tipi di informazioni motorie che il soggetto immagazzina durante l’esecuzione di movimenti (Schmidt et al. , 2000): - i parametri specifici che sono intervenuti nell’esecuzione del movimento (la durata, la forza, la direzione ecc.); - il risultato che si è ottenuto a seguito del movimento. La memorizzazione dei risultati aumenta l’informazione riguardo la correttezza o meno dei valori delle variabili impiegate nell’esecuzione del movimento; - le conseguenze sensoriali determinate dal movimento (afferenze propriocettive ed esterocettive); - le condizioni di partenza, come, ad esempio, la posizione del corpo rispetto all’oggetto che si deve impiegare e all’ambiente nel quale ci si muove. Quando il movimento è completato, quindi, vengono registrate le informazioni relative ai quattro punti descritti e alle relazioni tra i punti. La forza delle relazioni fra i vari elementi che compongono il movimento aumenta a ogni ripetizione del movimento stesso o di un movimento simile. In questo modo si sviluppa via via lo schema che sarà tanto più completo e articolato quanto maggiore sarà stata la variabilità nella fase di formazione. Una volta che si è formato lo schema di una data classe di movimenti, le abilità motorie rappresentate nello schema possono essere trasferite ad altri movimenti nuovi, favorendo il processo di apprendimento motorio. Il trasferimento di abilità, naturalmente, sarà tanto maggiore quanto più elevata sarà la somiglianza fra il movimento nuovo e i movimenti già appresi; questo perché le medesime classi di movimento vengono rappresentate all’interno dello stesso schema astratto (Schmidt 1975).

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5.2) L’elaborazione del programma motorio. Sulla base di alcuni stimoli ambientali (ad esempio, la richiesta dell’educatore di eseguire i movimenti che egli dimostra) l’allievo può decidere di intraprendere determinate attività motorie, la cui effettuazione è dipendente dall’elaborazione di uno specifico programma motorio. Tale programmazione è subordinata a due ordini di processi: -all’analisi degli stimoli ambientali attraverso l’attenzione e la memoria di lavoro; -alla selezione di uno schema idoneo: dalla memoria a lungo termine all’adattamento di tale schema alle esigenze della situazione (Schmidt 1975).

5.3) L’esecuzione motoria. Per poter parlare compiutamente della traduzione motoria degli schemi è necessario mettere in risalto che il fulcro dell’attività motoria è rappresentato dal sistema nervoso centrale, dove sono contenuti i cosiddetti modelli neuromotori, i quali possono venire considerati come formule motorie cui è affidato il compito di realizzare ogni attività motoria umana, dalla più semplice alla più complessa. Rappresentano, in altre parole, il corrispettivo neurologico degli schemi mentali. Per meglio chiarire il concetto di modello neuromotorio è utile ricordare che, in neurofisiologia, per modelli si intendono schemi indicativi, morfologicamente costituiti da catene di neuroni, correlati in modo tale da costituire circuiti sui quali funzionalmente si propagano gli impulsi destinati a realizzare attività nervose compiute. Per far sì che i modelli neuromotori si traducano in movimenti del corpo nello spazio e nel tempo sono necessari una serie di processi. Deve avvenire una interazione neuromuscolare a livello del sistema nervoso periferico, di modo che gli stimoli centrali arrivino all’apparato muscolare modulandone opportunamente le contrazioni toniche e fisiche e attivando gli adeguati adattamenti, i quali strutturano i modelli posturali e cinetici dell’attività motoria. In stretta correlazione a quanto descritto è necessaria un’altra serie di processi deputati a fornire l’energia indispensabile a creare e mantenere le adeguate contrazioni. Si tratta delle funzioni metaboliche in genere ed, in particolare, a quei processi biochimici che 57


avvengono a livello muscolare, i quali devono essere perfettamente adatti alle richieste qualitative e quantitative della prestazione. Si formano così i modelli biochimicoenergetici, esattamente in sintonia con i modelli posturo-cinetici sui quali si articola la prestazione motoria (Schmidt, Wrisberg, 2000) Tutto questo allo scopo di garantire l’effettuazione della prestazione nelle migliori condizioni e di mettere al riparo l’organismo da danni che potrebbero derivargli dall’attività motoria.

5.4) Il controllo motorio. Il controllo dei movimenti e la correzione da apportare quando gli stessi non si sviluppano secondo le linee programmate può avvenire secondo due modalità: - il modello a circuito chiuso utilizzato per movimenti lenti; - il modello a circuito aperto adatto per movimenti rapidi. Il controllo motorio a circuito chiuso ha come principio fondamentale quella del feedback che può essere “intrinseco” ed “estrinseco” (Gentile, 1972; Schmidt, 1975): -Intrinseco, relativo alle informazioni provenienti dal proprio sistema sensoriale (a cui ci si riferisce in genere col termine feedback). -Estrinseco, proveniente da fonti esterne che offrono informazioni aggiuntive, in genere verbali o visive. In quest’ultimo feedback si possono distinguere altri due tipi di informazione: la KR (knowledge of results: conoscenza del risultato), che riguarda il risultato della risposta in termini di raggiungimento di obiettivi finali, e la KP (knowledge of performance: conoscenza della prestazione che fornisce indicazioni sulle caratteristiche dell’esecuzione che ha prodotto quel risultato). Alcune ricerche hanno dimostrato come le informazioni sul risultato (KR) abbiano un maggior effetto ai fini dell’apprendimento quando sono precise, espresse cioè in termini quantitativi come scarto numerico che definisce l’errore, piuttosto che quando sono invece di tipo qualitativo (ad esempio, osservazioni come «giusto», «sbagliato», «troppo veloce», ecc.). La precisione non deve però superare un limite ottimale, determinato dalla capacità individuale di trattare informazioni: la KR deve cioè offrire informazioni che il soggetto, per età e grado di abilità, è effettivamente in grado di utilizzare, per non

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superare le capacità di elaborazione e produrre invece uno scadimento della prestazione (Magill,Wood 1986). Altri autori hanno inoltre evidenziato la maggiore efficacia di una KR sommativa rispetto ad una KR data dopo ogni tentativo, che crea probabilmente eccessiva dipendenza dal feedback estrinseco. Invece, la KR sommativa, presentata cioè dopo un certo numero di prove, induce una più efficace elaborazione degli stimoli relativi al compito per superare il problema delle infrequenti informazioni sull’errore, facilitando così l’apprendimento. Gli input veicolati al sistema nervoso centrale attraverso un sistema di fibre afferenti possono essere di natura esterocettiva e propriocettiva. Nel primo caso si tratta di informazioni sensoriali ottenute tramite gli organi di senso di cui l’individuo dispone (vista, udito, tatto ecc.). Nel secondo caso, invece, si tratta di quell’informazione relativa al movimento che sorge da feedback recettori differenti da quelli sensoriali: dai recettori di tensione, di pressione, dall’orecchio interno (apparato vestibolare), dalle articolazioni e dai fusi neuromuscolari (Salmoni, Schmidt, Walter, 1984). La funzione del feedback è quella di correggere il movimento durante l’esecuzione. Ne deriva che questo tipo di controllo può essere utile soltanto per quelle attività motorie che richiedono un tempo di esecuzione relativamente lungo. Il modello di controllo del movimento a circuito aperto prevede che l’attività motoria venga effettuata senza l’intervento di alcun feedback. I movimenti rapidi sono totalmente programmati a livello centrale e, una volta iniziati, sono in grado di arrivare a compimento senza correzioni. Il feedback sull’esecuzione del movimento e sugli effetti dello stesso è invece fondamentale per regolare i movimenti successivi. Il modello di controllo a circuito aperto si pone in alternativa all’ipotesi del feedback, soltanto per quanto riguarda i processi che avvengono durante l’esecuzione del movimento, ma l’importanza del feedback non viene messa in discussione relativamente alla modifica e alla correzione del movimento dopo la sua esecuzione.

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5.5)Le difficoltà di apprendimento motorio del bambino. Gli allievi con ritardo mentale possono andare incontro a tutta una serie di problematiche nell’apprendimento motorio dovute a deficit nei vari processi messi in evidenza in questa parte. L’opportuna analisi degli stimoli ambientali è resa spesso difficoltosa nell’allievo in situazione di handicap mentale da deficit a livello attentivo. Tali problematiche possono riguardare sia la focalizzazione (in molti casi l’allievo dà attenzione a stimoli irrilevanti ai fini del compito di apprendimento), che la stabilità dell’attenzione (alcuni allievi si caratterizzano per uno spostamento continuo dell’attenzione da un aspetto all’altro della situazione con gravi ripercussioni sulla qualità dell’apprendimento). Sono molto numerose le sperimentazioni che mettono in risalto consistenti deficit anche a livello della memoria di lavoro negli allievi con ritardo mentale. Questi deficit interessano sia gli aspetti di memoria visiva e uditiva sequenziale che, soprattutto, l’utilizzo spontaneo delle strategie di memoria (Frester, 1984; Gentile, 1972; Starosta, 1987). Nella teoria di Schmidt l’immagine mentale consente, come schema di riconoscimento, l’anticipazione delle conseguenze sensoriali attese e rappresenta il riferimento di correttezza con cui confrontare il feedback prodotto dalla risposta. Ad esempio, uno studio sull’azione di partenza nel nuoto ha confermato che quanto più chiaramente e accuratamente può essere immaginata una serie di gesti, tanto più agevolmente può svolgersi il piano di azione (White, Ashton, Lewis,1979). Gli allievi con ritardo mentale incontrano grande difficoltà nella fase di adattamento degli schemi motori alle esigenze della situazione. Questo è dovuto a fattori che riguardano sia la carenza di schemi memorizzati a cui fare riferimento, che le problematiche di richiamo e caricamento di tali schemi dalla memoria a lungo termine. Inoltre è sempre presente un consistente deficit nella strutturazione delle componenti psicomotorie del movimento (denominate anche prerequisiti funzionali o capacità coordinative), per cui vengono a mancare riferimenti relativi al proprio corpo e alle caratteristiche spazio-temporali dell’azione che si deve andare ad effettuare. Per quello che riguarda l’esecuzione del movimento, possono manifestarsi difficoltà a causa di alcune limitazioni strutturali, a volte associate alle varie sindromi: è il caso, ad esempio, della ipotonia muscolare e della lassità legamentosa associate alla sindrome di 60


Down, o degli esiti di lesioni cerebrali che hanno interessato anche la componente motoria oltre a quella cognitiva. Relativamente al controllo motorio, infine, si registrano carenze connesse sia alla trasmissione dell’impulso nervoso afferente (a volte reso difficoltoso da specifiche patologie associate al sistema nervoso centrale), che alla sua decodifica. L’allievo in situazione di handicap mentale risulta molto più dipendente dell’allievo normodotato da input esterocettivi, proprio per la difficoltà di interpretare feedback. La sollecitazione contemporanea di più canali sensoriali, come anche una particolare stimolazione di un canale, favoriscono la formazione di un’immagine mentale polisensoriale e progressivamente più ricca ed articolata. Guidando l’attenzione su aspetti non facilmente percettibili, come ad esempio il ritmo del movimento, si aiuta il soggetto a perfezionare la conoscenza ed il controllo del gesto (Schmidt, Lee, 1999)

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CAP 6) AUTISMO IN SARDEGNA. Anche se questo mio lavoro non prevede di trattare il disturbo autistico all’interno del nostro territorio ho comunque pensato di accennare a delle iniziative che ho trovato interessanti e di grande utilità per rendere l’idea di quanta attenzione venga data alle persone e alle famiglie colpite da questa piaga sociale e di come ci si stia attrezzando nella nostra regione per far fronte ai bisogni e alle necessità di chi vive ogni giorno questa realtà problematica e ancora in parte sconosciuta.

6.1) L’associazione Sardegna Onlus. Autismo Sardegna è una associazione Onlus (senza scopo di lucro) che ha come obiettivo la maggiore inclusione sociale delle persone con autismo in Sardegna, promuovendone i diritti di cittadinanza e migliorando le capacità di adattamento nella società. Come da statuto, Autismo Sardegna è una associazione composta da persone con autismo e da loro rappresentanti, tra cui i familiari; possono associarsi anche altre persone senza questi requisiti (operatori, insegnanti, volontari, ecc.), ma essi non hanno diritto di voto e non possono essere eletti alle cariche di governo e sociali. Questa è stata una precisa scelta etica dell’associazione sin dalla sua nascita, per poter rappresentare con chiarezza e garanzia unicamente i diritti delle persone con autismo, escludendo da subito possibili conflitti di interessi e per essere portavoce di differenti rappresentanze. Visitando il sito internet (www.sardegnaonlus.org) è possibile conoscere meglio l'associazione, come lavora, cosa è l'autismo e tante altre informazioni. Tra i vari convegni organizzati da questa Associazione, ce n’è stato uno anche nella città di Sassari, il 15 Ottobre 2010, organizzato dalla Fish-Sardegna Onlus, sulla Convenzione ONU: “I diritti umani e le persone con disabilità:” per avviare un confronto e un sostegno politico-culturale sui principi e sui contenuti della Convenzione, che introducano profonde modifiche nella cultura e nella qualità delle politiche sociali.

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I lavori del convegno, che sono durati per l’intera giornata, si sono incentrati su vari temi:quelli della partecipazione, dell’antidiscriminazione, dell’inclusione e della progettazione universale, della formazione, della tutela e della qualità dei servizi.

6.2)Il progetto dell’ospedale Brotzu a Cagliari. L'Ospedale Brotzu di Cagliari nel 2003 ha dato vita al Centro per l'Autismo. Il 20 dicembre 2006, risultati e prospettive del centro sono stati presentati nel corso di una Conferenza stampa:"Il Centro per l'Autismo - ha spiegato il Direttore Generale dell'Azienda Ospedaliera Mario Selis - fornisce diagnosi, cura e riabilitazione sia in modo intensivo, all'interno della struttura ospedaliera, sia in forma integrata, cioè a domicilio, grazie alla collaborazione che si è instaurata con i soggetti che collaborano con il Brotzu. Nel 2003, gli ingressi furono di 50 soggetti, oggi sono di 300”. "I disturbi pervasivi dello sviluppo, o autismo - ha spiegato il direttore del Centro, Giuseppe Doneddu - alterano in maniera drammatica lo sviluppo dei bambini e compromettono le autonomie personali e sociali, determinando costi molto elevati, dal punto di vista affettivo ed economico, non solo per gli individui ma anche per le famiglie e per la società." Il Centro ha raccolto il numero di casi di pazienti affetti da Disturbi pervasivi dello sviluppo, riordinato per anno di nascita. "Sono dati sottostimati - ha sottolineato Giuseppe Doneddu - perché non tutti sono stati visti nel nostro centro. I nati nel 2004 stanno arrivando adesso poiché le diagnosi vengono fatte tra i 18 e i 24 mesi. Siamo intorno ai 20 nati per anno. E se teniamo conto che i nati per anno in Sardegna sono circa 10 mila, noi stimiamo un'incidenza di nuovi dati pari a 20 nati ogni 10mila.” L'intervento si fonda sull’Applied Behavior Analisys: due ore di terapia cognitivo comportamentale al giorno per 5 giorni alla settimana; un'ora di terapia del linguaggio e della comunicazione (ABA) per 5 giorni alla settimana; mezz'ora di terapia occupazionale alla settimana; un'ora di intervento alla settimana con il sistema PECS (Picture

Exchange

Communication

System)

per

i

pazienti

non

verbali.

Il trattamento prosegue poi in ambito domiciliare, per favorire l'integrazione dei pazienti nel contesto sociale e scolastico, o anche extrascolastico, come il progetto Vela Solidale, che si svolge da oltre un anno (in collaborazione con i Comuni di Cagliari e 64


Quartu S. Elena, Unicef, Rotary, Yacht Club, Lega Navale, Centro velico di Quartu S. Elena, Ospedale S. Maria Bambina di Oristano): una cinquantina di pazienti di età compresa tra 4 e 20 anni, affetti da problemi motori o disturbi pervasivi dello sviluppo, hanno vissuto esperienze di vela-terapia. I risultati della ricerca sono stati presentati a Oslo, nel corso dell'VIII congresso internazionale sull'autismo il 31 agosto2007. Il Centro del Brotzu, negli ultimi mesi del 2006, ha dato vita a numerose attività: in particolare i corsi di formazione, l'ultimo dei quali ha avuto una docente d'eccezione: Erin Brooker Lozott sul tema "Funzioni Esecutive e Teoria della Mente: modelli d’intervento per i disturbi del linguaggio e della comunicazione nei PDD". O i seminari tenuti da Lennart Gustafsson (professore associato all’Università Lulea, in Svezia, esperto di Ingegneria Informatica all’Embedded Internet System Laboratory) sulle reti neurali Self-Organizing Maps (SOMs), che permettono lo studio dello sviluppo delle mappe corticali, quelle compromesse negli individui con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo.

6.3) Sardinia dive e psicologia. Sardinia Dive in collaborazione con NOVALIS, Studio di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, con sede a Cagliari, hanno avviato una ricerca sugli "Aspetti Psicologici dell’Immersione Subacquea". Un approccio psicologico in cui l’elemento acqua si identifica come luogo terapeutico per la psiche, dove questa trova o ritrova equilibri interiori e stati di assoluto benessere. I benefici che il mare produce sulla mente umana ha portato gli psicologi a riconoscere i luoghi d'acqua come positivi per l'identità dei sentimenti e delle emozioni. Sardinia Dive, inoltre, da la possibilità agli ospiti del più grande parco acquatico della Sardegna di provare la splendida esperienza dell’immersione. Al termine del corso, di durata complessiva di un’ora, viene rilasciato un certificato valido in tutto il mondo che può essere riconosciuto per un successivo brevetto di livello superiore. E’un divertente programma che consente, già dal primo giorno, di vivere l’emozione unica di respirare sott’acqua e di essere senza peso. 65


6.3.1) L’esperienza di Alessandro al Sardinia Dive. Alessandro è un bellissimo bambino di 10 anni affetto da una forma particolare di autismo, la Sindrome di Asperger. Questa patologia (come già ricordato in precedenza) si manifesta come un disordine pervasivo dello sviluppo ed è strettamente correlata all’autismo. Alessandro è il primo bambino protagonista di un percorso sperimentale, tenutosi in questo Centro, ed è estremamente innovativo in quanto nella letteratura esistente sull'autismo non sono state registrate esperienze nel campo della subacquea, sia per la complessità della patologia, sia per la difficoltà dei bambini di aprire le porte del loro mondo emotivo, che si rivela frequentemente lontano dal nostro quotidiano. Alessandro, nel suo percorso affrontato in modo apparentemente ermetico, ha mostrato invece un grande entusiasmo e un'incredibile voglia di condividere il suo mondo con il suo istruttore, in un elemento così antico come l'acqua, nuotando felice senza peso e con gli occhi pieni di meraviglia, confermando le ipotesi di un approccio terapeutico di grande efficacia. Ora, nella sua cameretta, ha appesa in bella mostra una cornice col suo brevetto subacqueo, che non manca mai di vantare orgogliosamente con i suoi amichetti.

6.4) Il progetto Filippide. Il Progetto Filippide è nato con l’obiettivo di integrare i ragazzi con disabilità (principalmente con autismo e sindrome da X-fragile) nello sport e prevede la corsa prolungata come terapia naturale, mirando al recupero e alla riabilitazione sociale. Tra le attività effettuate ultimamente dagli atleti con disabilità che partecipano a questo programma, spiccano imprese quali la Maratona alle isole Svalbard (Norvegia), l’escursione al campo del Centro Nazionale delle Ricerche sul monte Everest a 5,600m di altitudine, oltre che a diverse ed importanti manifestazioni sportive nazionali ed internazionali. Nel novembre scorso, si è svolto il primo allenamento del nuovo gruppo sportivo sardo, con sede a Porto Torres, composto da sette atleti con disabilità: una ragazza e sei ragazzi, tra cui Luca, dieci educatori-accompagnatori e il loro preparatore atletico, che

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ha seguito la nuova attività strutturata in pista. Il primo importante obiettivo della stagione è stata la partecipazione alla maratona di Roma, seguita poi da quella di Praga.

6.4.1) La testimonianza di Luca. Roma, Marzo 2007. I ragazzi di Porto Torres raggiungono il loro primo traguardo: la “maratona di Roma”. “Io non so che sorprese questa valorosa avventura ci farà vivere, ma sono tenacemente convinto che di traguardi importanti come il primo non ce ne saranno. Violento è sempre percorrere nuove strade, c’è la paura di formare un gruppo di temerari atleti, c’è la paura di deludere le gioiose aspettative e ci sono le infinite difficoltà oggettive di ognuno di noi. Il lavoro vero non è stato certamente quello della maratona finale, ma il lavoro costante fatto nei mesi precedenti. Forti menti sono le nostre e di quelli che hanno reso possibile questa avventura. Dopo un anno di lavoro io e la mia squadra siamo riusciti a dimostrare che il lavoro svolto è stato vincente. Un lodevole grazie lo devo a chi ha reso possibile questa esperienza, forti sono le idee dei miei genitori e tenaci sono le loro volontà.”

Praga 12-13 Maggio 2007. “Praga è stata una curiosa e avvincente esperienza di vita. Resto meravigliato da quello che ho vissuto e dubbioso che sia la pura realtà (…). Forse seriamente si è trattato di un bel sogno, un sogno in cui i protagonisti erano veri atleti e amanti del comune sport. Un sogno di pura libertà, se fosse così vorrei non svegliarmi, ma poi penso a come sono stati i preparativi, a quanto rumorose erano le attese, che non è possibile pensare ad un sogno perché forti sensazioni come queste possono essere solo reali (…). Vinceva chi riusciva a correre non per tutta la gara ma anche solo un metro fiero di portarsi dietro i propri vocioni urlanti e i propri movimenti bizzarri… e per questo noi eravamo tutti vincitori.“

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CAP 7) STORIE DI BAMBINI AUTISTICI.

Mi permetto di presentare qui di si seguito, alcuni casi di bambini autistici: ho avuto la fortuna e la possibilità di seguire in prima persona solo uno di questi; gli altri che ho scelto di riportare non sono stati seguiti personalmente da me, ma sono il risultato di esperienze vissute da altre persone e inserite semplicemente in questo mio lavoro. Ciò che spero è di riuscire a rendere ancor più verosimile il mio operato, attraverso la testimonianza di coloro che hanno la possibilità di vivere a stretto contatto con questi fanciulli, grazie ai quali, oltre a raggiungere ogni giorno una gratificazione personale, riescono ad entrare in quel “mondo” tipico degli autistici, in cui si ha la perdita del contatto con la realtà e l’isolamento da essa.

7.1) La storia di “Gianni:”tra autismo e sport. La prima storia che ho deciso di presentare riguarda l’esperienza di vita di un ragazzo di Ilbono di nome “Gianni,” affetto da autismo sin dalla nascita e che, grazie alla forza della sua famiglia e al suo entusiasmo nei confronti della vita, è arrivato a primeggiare ai giochi nazionali Special Olimpycs a Roma,conseguendo niente meno che la medaglia d’oro. Del caso di Gianni sono venuto a conoscenza un anno fa e subito ho avuto grande simpatia per la sua vicenda. Vederlo oggi mi ha dato l’impressione di un ragazzo qualsiasi, un po’ sulle sue, ma mite e cordiale. L’ho incontrato nella sua abitazione al mare, assieme alla famiglia e ho potuto osservarlo nella sua quotidianità. I genitori “Anna” e Giovanni” sono molto simpatici, disponibili e aperti. Ciò che più mi ha colpito di loro è il modo con cui affrontano questa realtà, non chiudendosi nel proprio disagio, come fanno molti, ma vedendo nella malattia di Gianni più un arricchimento che un problema. Un altro aspetto da considerare è che sono diventati genitori molto presto (la mamma non aveva ancora 17 anni) e soprattutto Gianni è stato il primo di quattro figli, il che significa che questa malattia non è stata vissuta come un impedimento nella crescita della famiglia ma, come dicono loro stessi : “è stato un arricchimento.”

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Gianni è nato 28 anni fa, da parto eutocico, alla nascita ha pianto subito, pesava kg 3.100 e nulla faceva presagire a una patologia del tipo autistico, anche perché era un bambino che cresceva con valori ottimali e già al nido dell’ospedale si nutriva al di sopra della norma (rispetto agli altri neonati). E’ stato allattato al seno per sei mesi, ha assunto la posizione seduta già a sei mesi, formulato le prime parole a 24 mesi, cominciato a camminare a 11 mesi. Fino ai 3 anni le visite pediatriche sono state normali,infatti dalla sua scheda della prima infanzia risulta che il bambino ha i riflessi neonatali presenti, sorride ai familiari, fissa il volto della mamma durante l’allattamento e alla stessa vengono date le raccomandazioni di rito. Solamente durante un controllo fatto all’età di 3 anni, in seguito a un problema di dermatite, si tenta di fare un esame audiometrico ma il bambino non collabora e dunque si sospetta un problema di sordità. Nel Febbraio 87, il bambino viene sottoposto nuovamente a visita audiometrica che ha evidenziato: “Curve tonali nella norma,” e dunque viene scartata l’ipotesi di sordità . Nello stesso anno in seguito ad altri esami, si è ritenuto opportuno far fare al bambino una visita a Cagliari da una pedagogista che dopo averlo visitato stila una anamnesi personale dalla quale risulta che…: “il bambino non ha controllo sfinterico, manca di autonomia nel lavarsi e vestirsi e ha un deficit nella socializzazione. ”In seguito ha stilato una analisi comportamentale da cui risulta che…: “non si può rilevare in maniera precisa il livello cognitivo raggiunto. Il paziente si presenta piagnucolante, non vuole sedersi, afferra e molla le cose senza interesse. L’attenzione è ridotta a pochi secondi. La prensione è grossolana, senza interesse per l’ambiente; lo sguardo corre senza soffermarsi sulle cose. La deambulazione è agile ma i movimenti non sono finalizzati.”Il padre riferisce che per entrare in comunicazione con Gianni bisogna imporsi, altrimenti l’interazione non si realizza. “Il linguaggio è ridotto a poche parole che presentano contaminazioni e sostituzioni. Il disegno è a livello di scarabocchio con forte pressione sul foglio”. Dai dati raccolti dalla Dott.ssa, dal punto di vista evolutivo, Gianni si trova, a 3 anni e 6 mesi, nello stadio senso-motorio 12-18 mesi; il suo disturbo del linguaggio non si presenta come un disturbo specifico, ma è il risultato di una mancata maturazione sensopercettiva e logica. Ella sconsiglia qualsiasi intervento logopedico, mentre sollecita una attività psico-motoria e senso-percettiva, specifica per la sua età mentale, nel quale si

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prevede un ruolo attivo dei genitori. Inoltre, agli stessi viene fornito un programma rieducativo con la richiesta di una ulteriore visita dopo un anno. All’età di 5 anni, Gianni viene ricoverato al reparto di Neuropsichiatria Infantile presso il Prof. Michele Zappella. Nella sua anamnesi, si evidenzia che:“il bambino ha detto la sua prima parola (acqua) a 24 mesi, a 3 anni i genitori si preoccupano per un ritardo del linguaggio e fanno fare una visita al bambino, in seguito ad accertamenti, svolti anche nella direzione della sindrome di Sotos”, che però dà esito negativo e viene dimesso con la seguente diagnosi:“Ritardo mentale specifico grave.” Le indicazioni terapeutiche sono: “inserimento all’asilo e psicomotricità.” Per questo vengono organizzate delle sedute di psicomotricità con il bambino una volta a settimana e degli incontri con i genitori una volta al mese ma senza particolari indicazioni. Durante gli incontri il bambino sta prevalentemente per conto proprio; agita gli oggetti che si trova in mano (bacchette di legno o posate); il suo linguaggio è limitato a singole parole e solo se gli viene chiesto di nominare un oggetto; ha crisi di opposizione non forti e non presenta comportamenti di autolesionismo; enuresi notturne stagionale (in inverno), mentre durante il giorno viene accompagnato in bagno. I genitori mi riferiscono che da quando sono in terapia ci sono stati dei miglioramenti legati soprattutto alla maggiore attenzione e disponibilità al rapporto da parte del bambino, che si dimostra più affettuoso e inoltre riesce a ripetere per intero delle canzonette. Inoltre, Anna e Giovanni ricevono delle indicazioni dal Prof. Zappella: rapporto frontale con il bambino mezz’ora al giorno e mezz’ora di attività di gioco guidata (gioco con la palla, con la macchinina etc). Nel rapporto frontale si raccomandano stimolazioni tattili e richieste di collaborazione (toccare il naso, gli occhi, i capelli, baby talk). Stimolarlo inoltre con parole e suoni: quando il bambino non collabora e fa resistenza, guidarlo in un’attività motoria piacevole e poi riprendere l’attività sospesa. La prima visita ha evidenziato che il bambino ha corporatura e viso regolari, non presenta stereotipie, borbotta qualche parola in situazione adeguata (ad es. in braccio al padre); se ne sta tranquillo per conto suo, guarda intorno e alle persone in modo fuggevole; va incontro alla madre di sua spontanea volontà, si siede sulle sue ginocchia, l’abbraccia e si lascia abbracciare. Nella “stanza n°7”, seduto al tavolo con i genitori, edifica con attenzione una torre di 11 cubi (il max che può raggiungere in altezza), poi cautamente la butta giù, toglie e rimette a posto le figure geometriche. 71


In seguito, il prof. Zappella indirizza i genitori di Gianni presso l’ambulatorio di Neuropsichiatria Infantile di Iglesias e affida il piccolo Gianni alle cure del dott. Giuseppe Mandas. Dalla sua certificazione il bambino è riconosciuto affetto da Autismo Infantile e sottoposto a psicoterapia secondo il metodo Holding e programma riabilitativo Portage. Durante questo periodo di trattamento sono stati evidenziati notevoli progressi: riduzione dell’evitamento, maggiore interesse all’ambiente, miglioramento del linguaggio verbale e gestuale, sensibile progresso sul piano cognitivo. Inoltre si consiglia alla famiglia di far frequentare a Gianni la scuola materna sia per favorire l’integrazione con i coetanei, sia per le specifiche modalità pedagogiche della scuola materna. Si ritiene indispensabile il supporto dell’insegnante di sostegno in rapporto 1:1. All’età di 7 anni, Gianni viene portato a visita a Verona presso l’AGOR (associazione per la riabilitazione dei cerebrolesi), in quanto nel bambino erano stati evidenziati esiti di lesione cerebrale, avvenuta in probabile fase neonatale. Viene messo a punto un trattamento riabilitativo di riorganizzazione neuro-funzionale e, una settimana dopo, viene avanzata la valutazione riguardanti tutte le aree di abilità del bambino: -Vista: riflesso pupillare difficilmente evocabile. Carenza di coordinazione nei movimenti oculari. Assenza di binocularità e di convergenza. Presenta comportamenti visivi. Riconosce immagini astratte. -Udito: deficitaria la percezione dei rumori forti con atteggiamenti di dispercezione uditiva. La comprensione è limitata a ordini base semplici e alcune astrazioni. -Tatto: presenta dispercezioni tattili con risposta di insofferenza e fastidio per stimolazioni non dolorose. Ha comportamenti di autostimolazione tattile. La localizzazione è buona. -Motricità fine: presenta la pinza nella mano destra, a sinistra è in grado di utilizzare tale funzione ma in maniera imperfetta. Ha alcune funzioni bimanuali che gli permettono autonomie personali. Disegna spontaneamente e su richiesta a livello di un bambino di 3 anni. -Linguaggio: si esprime attraverso parole; i genitori riferiscono anche l’utilizzo di alcune piccole frasi non strutturate. L’articolazione è carente.

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-Mobilità: le andature primitive dello strisciamento e del carponi sono imperfette sia strutturalmente che come coordinazione. Il cammino e la corsa sono presenti nello schema più avanzato con carenze strutturali. Per quanto riguarda il comportamento è tendenzialmente ipercinetico. Ha momenti di isolamento che si sovrappongono a stereotipie di autostimolazione visiva, uditiva e tattile; è ripetitivo nelle azioni sia quotidiane che ludiche. La durata dell’attenzione è molto limitata. L’AGOR propone un approccio riabilitativo che si rivolge alla famiglia, la quale svolge quotidianamente il programma assegnato. Tale programma comprende stimolazioni sensoriali, opportunità di movimento, stimolazioni intellettive ed un accurato controllo nutrizionale con supplementi vitaminici e minerali. La dieta predilige una valenza più qualitativa che quantitativa, utilizzando cereali integrali, frutta, verdura, proteine animali, eliminazione di eccipienti chimici. Viene eliminato anche lo zucchero (inteso come saccarosio) in quanto si tratta di una caloria vuota che spesso porta a squilibri funzionali soprattutto a livello di comportamento e di durata dell’attenzione. Si ricercano anche eventuali intolleranze alimentari. Esse possono dare manifestazioni sia cliniche (vomito, diarrea..), sia comportamentali (iperattività, sensorismi autistici). Solitamente a tutti i bambini, quando iniziano il programma riabilitativo, viene consigliata l’assunzione di supplementi vitaminici e minerali. A Gianni nello specifico viene richiesta l’assunzione quotidiana delle vitamine A e D. Ma è in America, precisamente a Philadelphia, che Giovanni e Anna raggiungono la tappa più importante del loro viaggio verso l’autismo e la sua cura: è il Marzo 1990 quando,insieme ad altri genitori di bambini cerebrolesi, partecipano ad un corso della durata di una settimana denominato: “Cosa fare per il vostro bambino cerebroleso,” con lo scopo di insegnare ai genitori i principi dello sviluppo del cervello del bambino e per offrire la possibilità a coloro che lo desiderino di creare a casa il programma di sviluppo del proprio bambino. Il corso è stato possibile grazie agli studi e al lavoro di Glenn Doman (medico-fisiatra, specializzato nella cura e riabilitazione di bambini cerebrolesi). L’obiettivo del corso era di creare bambini migliori e di conseguenza adulti migliori, tramite i genitori stessi.

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Per prima cosa i genitori dovevano fare la valutazione cognitiva del figlio, per ottenere la diagnosi funzionale: quella di Gianni è risultata del tipo: “severa”, con lesione “diffusa”, “bilaterale” e con sei funzioni del cervello coinvolte. Nei giorni successivi, tramite le informazioni acquisite sulla natura del disturbo del proprio figlio, ogni famiglia ha preparato il proprio programma di intervento. Il corso è stato seguito con scrupolosità dai genitori di Gianni i quali sin da subito hanno realizzato un profilo di sviluppo del bambino, potendo così rendersi conto della situazione del figlio, del grado di lesione cerebrale e da dove si doveva partire per creare un programma che alla fine portasse verso l’eccellenza fisica, intellettiva e fisiologica, che erano i tre principi del corso di Doman. I bambini cerebrolesi hanno saltato una o più tappe di crescita nel loro sviluppo per cui anche nel caso di Gianni è stato necessario creare un programma di recupero a livello globale, partendo dall’organizzazione del cervello e abbracciando tutte le aree della funzione neurologica umana. I risultati di questo programma hanno portato a un miglioramento anche a livello sensoriale (vista, udito, sensibilità tattile) e di mobilità, linguaggio e competenza manuale. La prima cosa da fare era permettere a Gianni di ottenere l’eccellenza respiratoria sia dal punto di vista neurologico che da quello fisico: Per favorire il movimento è stato importante fargli esplorare superfici dure, piatte, sicure e calde come ad es. il pavimento, che Doman considera come un programma da seguire e anche sinonimo di civiltà. Gianni ha passato grandi quantità di tempo nel pavimento, è stato preso in braccio solamente per essere coccolato, nutrito e portato al bagno; ha indossato mutandine e maglietta (per sentirsi più libero possibile) e per terra ha assunto solo posizione di prona, striscia e carponi; mentre non gli è stato permesso di stare supino o seduto, né di rotolarsi. Lo striscio e l’andatura a carponi sono funzioni del Ponte e del Mesencefalo, le aree del cervello più lese in Gianni, per cui è stato necessario l’esercizio quotidiano e costante, compresa la corsa e lo sprint per una buona organizzazione della corteccia. Gianni all’epoca aveva 7 anni, era in grado di camminare, ma faceva le cose senza guardare; non riusciva a correre per problemi di convergenza e a volte” metteva i piedi nella pozzanghera.”

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Per migliorare l’efficienza del sistema respiratorio, Gianni doveva correre con aumentata frequenza, intensità e durata: per prima cosa ha percorso lunghe distanze a passi brevi e poi più lunghi, successivamente ha corso brevi distanze con maggiore vigore. Ogni giorno attraverso delle tabelle i genitori segnavano i giri percorsi, il tempo impiegato e le distanze; si ponevano obiettivi settimanali e mensili da raggiungere, facendo in modo che Gianni avesse chiaro in mente ciò che doveva fare e il premio che avrebbe ricevuto in caso di esito positivo. Sempre in funzione di una migliore respirazione, il bambino veniva sottoposto a una serie di bracheazioni e all’uso delle maschere (per permettere al cervello di ricevere il giusto ossigeno)in diversi momenti della giornata. Infine c’è da dire che anche Giovanni e Anna partecipavano alle attività insieme al figlio, in un clima di entusiasmo generale. Gianni presentava un forte deficit anche a livello cognitivo, era carente nella scrittura, nella lettura e presentava forti disturbi dell’attenzione, per cui bisognava trovare un metodo che gli permettesse di assimilare le informazioni che un bambino della sua età doveva avere. Ancora una volta seguono il metodo Doman, attraverso l’utilizzo dei bits di intelligenza: 5 o 10 categorie di parole o frasi (ciascuna contenente 10 bits) mostrate al bambino tre volte al giorno per 5 giorni consecutivi, riportate su dei cartelloni a caratteri grandi e sostituite con delle categorie nuove a partire dal sesto giorno, in modo che il piccolo impari più parole possibili nell’arco di un mese. Essendo dei bits (attimi), Gianni doveva memorizzarle in 1 o 2 secondi, naturalmente una parola o frase alla volta. Era molto utile scambiare l’ordine delle categorie tra una sessione e l’altra in quanto questo permetteva al bambino di dare più attenzione a ciò che vedeva e ascoltava; inoltre la mamma che gli presentava il bit, doveva essere entusiasta e fare in modo che nessun rumore esterno potesse interferire nel rapporto tra lei e il figlio. Naturalmente il metodo dei bits era accompagnato anche da altre attività: la lettura di libri (che ha permesso al bambino di far crescere la sua immaginazione e di arricchire il proprio vocabolario con parole nuove), la scrittura di frasi dettate (su carta o tramite battitura sulla testiera), le operazioni di calcolo (tabelline, piccoli problemi). E’ anche grazie ai progressi che inizia a ottenere che, all’età di 8 anni, Gianni inizia a frequentare regolarmente la classe prima, presso la scuola elementare di Quartu 75


Sant’Elena (CA), con l’ausilio di un’insegnante di sostegno, la quale, visti i progressi di Gianni, decide di stilare una relazione firmata dai docenti di classe e dal direttore didattico nella quale si evidenzia: “…visti i risultati positivi sotto il profilo didatticoaffettivo tra l’alunno, i relativi operatori scolastici e gli scolari, il recupero del soggetto appare avviato verso una soluzione positiva...” e ritengono del tutto indispensabile la permanenza di Gianni nell’ambito della classe per assicurare un adeguato sviluppo della potenzialità del medesimo sotto il profilo rieducativo e della integrazione scolastica e sociale complessiva. La carriera scolastica di Gianni si interrompe alla terza media, non perché quel livello di istruzione fosse il massimo a cui poteva aspirare, ma perché come dice il padre: (..la scuola non gli piace..). La sua vera passione oggi è lo sport e in particolar modo l’atletica, a cui ha sempre dedicato il suo tempo. Gli esercizi fisici che all’inizio hanno contribuito, assieme alle altre attività, al raggiungimento dell’obiettivo fissato, cioè di una quasi completa autonomia del bambino, col passare del tempo, sono diventati lo scopo di Gianni. Nella palestra dei suoi genitori, si allenava ogni giorno, con grande entusiasmo, coltivando il sogno di poter, un giorno, dimostrare a tutti che era diventato un atleta. L’occasione si presenta nel 2006, alle Olimpiadi Nazionali di atletica leggera a Roma, quando tra l’entusiasmo generale e davanti alla sua famiglia visibilmente emozionata, mise in mostra il meglio del suo repertorio, con ponti e molle all’indietro, verticali con piroetta e saltelli sul ponte con la sinistra sollevata. Alla fine dell’esibizione, ricevette la medaglia d’oro, tra gli applausi di tutti, compresi i suoi. A distanza di anni, ogni volta che vede il video del suo successo, molla ciò che sta facendo, si siede davanti allo schermo, guarda le sue performance e invita i presenti ad applaudire. Gianni è l’esempio che l’autismo, come tutte le altre disabilità, è un male che può rimanere per tutta la vita, ma che ogni giorno si può combattere, con l’entusiasmo di chi lo vive.

7.2) La storia di “Salvatore.” Come la maggior parte dei bambini autistici, “Salvatore” si presentò al nostro mondo al termine di una gravidanza normale, pesando oltre quattro chili, con un parto 76


spontaneo e senza complicazione alcuna. I controlli neonatali furono tutti regolari, come pure quelli effettuati sulla mamma. E' il secondo figlio, nato circa due anni dopo il primo, di nome “Silvano.” I primi mesi di vita evidenziarono una scarsa vivacità, che non ha preoccupato eccessivamente, visto il regolare sviluppo psico-fisico del fratello maggiore, di indole abbastanza tranquilla. Anche il linguaggio che tardava a presentarsi e in forma primitiva, veniva considerato normale, in quanto anche la mamma ed in parte Silvano avevano iniziato a parlare in ritardo. Arrivati all’età di 12-24 mesi, si notava sempre più una assenza di socialità e di comunicazione in generale: ad esempio, Salvatore non allungava le braccia per farsi prendere dal lettino quando era sveglio, non gradiva le coccole, né guardava negli occhi la persona che cercava di tenerlo in braccio; non si accorgeva dei suoni e dei rumori forti che avvenivano vicino a lui. Forse l'aspetto che più dava all’occhio, anche ad altri familiari ed amici, era che il piccolo, chiamato per nome, non si girava mai. Si è pensato inizialmente a dei problemi di sordità, ma stranamente mostrava di gradire le audiocassette con le canzoni per bambini anche a basso volume. Con questi dubbi, i genitori pensarono subito di portare il bambino a visita da un otorinolaringoiatra e, successivamente, lo portarono a fare un esame audiometrico, presso un ospedale regionale. Fu in questa occasione che la dottoressa, dopo un primo tentativo di misurazione (non molto gradito dal bimbo), indicò la possibilità di un problema nello sviluppo cerebrale, e consigliò delle visite approfondite al reparto neurologico. Salvatore aveva allora due anni e mezzo. Esclusa quindi l'ipotesi della sordità, i familiari si rivolsero ad un pediatra che, avendo probabilmente capito subito di cosa si trattava, fece fare una serie completa di esami clinici, durati diversi mesi. Nel frattempo, in attesa di sapere il responso delle analisi, i genitori iniziarono a documentarsi sul problema e cercarono delle informazioni su internet, per avere delle conferme riguardo l'ipotesi che si trattasse di autismo, come presto ipotizzato. Questo dubbio si trasformava sempre più in certezza, man mano che i genitori leggevano dati e notizie che spiegavano il comportamento del bambino.

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In quel periodo Salvatore era particolarmente attratto dagli oggetti roteanti di per se' o fatti girare da lui per lungo tempo; questo e altri atteggiamenti stereotipati rientravano completamente nella definizione del DSM-IV. L'esito degli esami, avuti quando Nicola aveva ormai tre anni, non riservò sorprese, la diagnosi fu: "Ritardo generalizzato dello sviluppo e disturbi di tipo autistico.” Altre visite presso psichiatri e neuropsichiatri portarono ad altre diagnosi tra le più varie, che nulla aggiungevano a quanto già stabilito: ad esempio, lo psicologo di un noto ospedale consigliò ai genitori di eliminare nel rapporto di coppia elementi di disturbo nella relazione con il figlio, causati da disaccordi prematrimoniali e causa del suo comportamento, mentre un altro neuropsichiatra indicò ai genitori come unica strada "dategli tanto amore, altro non si può fare..." Adesso che ogni dubbio sul piccolo è stato sciolto e stabilito definitivamente che Salvatore era un bambino con autismo, ci si trovò al problema principale: che fare? In assenza di specifiche indicazioni da parte dei medici, mamma e papà provarono per prima cosa a seguire le indicazioni riportate dal dottor Rimland dell'Autism Research Institute, nel 1997, che riscontrava una ventina di studi sugli effetti della vitamina B6unita al magnesio nei casi di autismo, iniziando una prima sessione di somministrazioni a Salvatore a partire dal gennaio 1998. Le somministrazioni proseguirono per quasi un anno e mezzo, in due cicli: vennero riscontrati dei leggeri miglioramenti, soprattutto nei primi tempi, riguardanti l’attenzione e il contatto visivo; inoltre non si notò alcun effetto collaterale, anzi Salvatore sembrava meno esposto al rischio di malattie stagionali (probabilmente l'effetto immuno-stimolante della D.M.G.). Da qui in poi, i genitori, cercarono informazioni sulle possibili vie di riabilitazione e recupero, iniziando anche una stagione di musicoterapia e di terapia in piscina, che Salvatore mostrava di gradire molto. Grazie anche alle informazioni reperite in rete, la famiglia del piccolo riuscì a farsi un'idea teorica delle possibili strade da percorrere, e cercò quindi quella che poteva essere la più adatta per un bambino come lui. Da quel momento iniziarono a mantenersi in contatto con quelle famiglie che vivevano situazioni simili alla loro, sia per imparare a condividere i problemi e le gioie, sia per cercare di dare a Nicola e a persone come lui, un futuro "dignitoso". 78


Tutta la famiglia partecipò a congressi, corsi, incontri, che permisero ad essa di conoscere tante persone, che in varia misura contribuirono a far crescere Salvatore insieme ai suoi genitori: parliamo di altri genitori, professionisti, insegnanti e terapisti. Si è coscienti che probabilmente Salvatore non sarà mai "uguale" agli altri suoi coetanei, però il sogno di chi gli vuole bene è che abbia una vita rispettosa delle sue necessità e dei suoi desideri. Tutti noi abbiamo bisogno di una società più attenta nei confronti di chi vive questa particolare condizione, che soddisfi il più possibile i loro bisogni e che permetta loro varie opportunità di realizzazione.

7.3) Il caso di “Michael.” “Michael” ha degli occhi da sognatore e l'aspetto di un bimbo di cinque anni; vive con i suoi genitori e due fratellini gemelli a San Jose, California, nel cuore della Silicon Valley ( Nash, 2002). È uno studente che si fa onore, adora la matematica, le scienze e soprattutto i video games. È un amante dei “Transformers:” i giocattoli che come dice lui, “Sono macchinine o treni, oppure animali che si possono trasformare in robot o umani...” Tuttavia questa sua passione qualche volta è un problema. Per lungo tempo infatti, la mania di Michael per i suoi giocattoli è stata così forte che, quando non poteva averli a portata di mano, sembrava esigere da se stesso di trasformarsi in uno di loro e dunque in un robot prima e in un mostro poi. Egli tendeva a farlo ovunque, nel cortile della scuola e persino in classe. Il suo insegnante trovava che questa pantomima ripetitiva, per quanto simpatica, risultava essere di disturbo nel contesto scolastico. Ma a quei tempi vi erano altri segnali allarmanti. La madre, “Patty,” ricorda che sino all'età di tre anni Michael parlava in modo fluente, ma pareva incapace di farsi coinvolgere nei ruoli reciproci di una conversazione e curiosamente evitava il confronto visivo con la gente. Inoltre, sebbene Michael avesse imparato a leggere già all'età di quattro anni, nelle attività didattiche tendeva a isolarsi e a non partecipare alla lettura di gruppo a scuola. Dopo gli otto anni, i genitori compresero finalmente che c'era qualcosa che non andava nel loro piccolo: quel bimbo che era parso tanto precoce, aveva in realtà una forma mite 79


di autismo detta sindrome di Asperger, come diagnosticato da una psichiatra. Per i due coniugi la notizia fu di quelle scioccanti. Questo perché proprio due anni prima Patty e il marito “Bill,” ricercatore e programmatore di software, avevano appreso che i fratelli di Michael, “Brandon” e “David,” erano profondamente autistici. I gemellini, che sembravano normali alla nascita, riuscirono anche ad imparare alcune parole, prima di immergersi nel loro mondo segreto, perdendo velocemente le abilità che avevano cominciato a manifestare. Invece di usare i giocattoli per giocare, li rompevano, invece di parlare essi emettevano gemiti, o urletti. Prima Brandon, poi David, ora Michael. Patty e Bill cominciarono con il chiedersi se i loro figli fossero stati sottoposti a sostanze tossiche. Essi cominciarono a fare delle ricerche e ad indagare sulle problematiche delle loro parentele, chiedendosi da quanto tempo l'autismo adombrasse le loro famiglie. L'angoscia vissuta da questa famiglia americana è ciò che provano decine di migliaia di famiglie degli Stati Uniti d’America e di altre parti del mondo. Così, improvvisamente, casi di autismo e di sindromi correlate, come l'Asperger, stanno numericamente esplodendo e nessuno ha una buona spiegazione. Mentre per alcuni esperti, questo incremento vertiginoso dipende unicamente dalla diffusione recente di validi criteri diagnostici, secondo altri, questi dati sono in parte reali e preoccupanti. Nello stato della California, per esempio, il numero dei bambini autistici che si appoggiano ai servizi sociali è più che quadruplicato rispetto ai trascorsi quindici anni, dai quasi 4.000 casi nel 1987 ai circa 18.000 di oggi.

7.4)Un caso clinico: “Giuseppe.” Si tratta di un ragazzo di 14 anni, seguito dall'età di 5 anni. Nato a termine di una gravidanza fisiologica seguita da parto eutocico, all'età di 3 anni è stato ricoverato in ospedale per glomerulonefrite acuta, da cui guarì senza postumi né complicanze. Sin dall'età di 2 anni viene riferito notevole ritardo del linguaggio, atteggiamento di tipo autistico e turbe comportamentali, connotate da notevole irrequietezza psicomotoria, instabilità attentiva, mancanza di contatto interpersonale, incomunicabilità. 80


L'osservazione del ragazzo all'inizio del trattamento ha consentito di rilevare una mancanza di reattività nei confronti delle persone e una capacità di comunicazione inadeguata. Il linguaggio, quasi del tutto assente, è connotato particolarmente da struttura grammaticale immatura, ecolalia immediata o tardiva, incapacità di usare termini astratti. Le reazioni bizzarre all'ambiente sono rappresentate da attaccamento morboso ad oggetti inusuali ed inanimati, comportamento motorio di tipo rituale (laccio di scarpe che fa girare continuamente), giochi stereotipati con l'acqua. Il ragazzo sfugge il confronto oculare ed al contatto corporeo si irrigidisce. Sono assenti allucinazioni e deliri. Il trattamento terapeutico non ha mai contemplato l'impiego di psicofarmaci, ma si è fondato sul trattamento di terapia occupazionale, integrato dall'approccio psicoterapico. La terapista riesce ad entrare in sintonia con Giuseppe, canticchiando la sigla di un cartone animato che lui ripete continuamente in maniera stereotipata. Solo dopo questo primo approccio egli si fa toccare dalla terapista, permette che questa lo accarezzi e comincia a balbettare qualche parola. Giuseppe comincia ad avere la consapevolezza del proprio corpo come qualcosa che si può toccare, carezzare. Le braccia e le mani, che prima servivano solo da bilanciere per far roteare il laccio delle scarpe, con l'andar del tempo diventano strumento indispensabile per il contatto con il mondo esterno. Adesso Giuseppe non solo gradisce essere accarezzato, ma prova piacere nell'accarezzare le persone e le cose che lo circondano. I giochi della stanza, dapprima ignorati, cominciano ad animarsi. In un primo tempo la terapista dirige e finalizza i giochi, mentre, con il passar del tempo, egli stesso decide di operare la scelta dei giochi che preferisce. Si stabiliscono precise conseguenze che puntualizzano lo scopo al fine di impedire che il movimento si trasformi da atto volontario e motivato a stereotipia ed immotivata esecuzione. Vengono affrontate nel contempo tematiche centrate sull'utilizzo consapevole e produttivo di diversificate modalità espressive. Così facendo, si è potuto aiutare Giuseppe a rinforzare la sicurezza relazionale e ad instaurare un rapporto di maggiore disponibilità e fiducia nella relazione con l'altro, fiducia che il soggetto acquisisce via

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via che impara ad utilizzare il corpo come veicolo di comunicazione e conoscenza e come mezzo di relazione. Dopo anni di assiduo lavoro, Giuseppe è notevolmente cresciuto; manifesta interesse e tende a socializzare con le persone che costantemente gli sono vicine. E' in grado di eseguire lavori manuali (disegno, collage, mosaico), sia su invito che spontaneamente, dimostrando non solo interesse ma enorme piacere nella socializzazione.

7.5) Paolo e la sfida del deserto. La storia di Paolo ragazzo autistico è molto interessante, ne riporto qui di seguito una parte che considero la più suggestiva: “Quando ha cominciato a correre faceva cinquanta metri e si fermava disperato, quasi senza respiro. Guardava in faccia il suo allenatore e scuoteva la testa. Sembrava l’atteggiamento di chi voleva arrendersi, invece era solo il modo per dire che accettava la sfida: correre per gettare un ponte tra disabilità e normalità.” Correre perché l’autismo è una maratona, e come tale deve essere affrontata. Senza mollare mai. Paolo ha 26 anni, oggi è un maratoneta, un atleta che corre e che sente il peso di quella malattia diventare più leggero. A Sharm El Sheikh, nello splendido scenario del Parco nazionale di Ras Mohammed, ha partecipato, come primo atleta disabile in gara in classifica normale, alla settima edizione dell’Half Marathon. Era l’unico atleta con handicap in mezzo a centinaia di partecipanti in rappresentanza di 14 paesi (un record), e ce l’ha fatta. E’ arrivato sino alla fine, con la mano stretta del suo allenatore-educatore, Massimo, 42 anni, anche lui con una invalidità importante (ha perso la funzionalità di un braccio in un incidente) che a pochi chilometri dal traguardo, vedendolo in difficoltà gli aveva detto: “Paolo che dici, ci fermiamo? Dai, non fa niente, abbiamo fatto comunque una grande gara.” E il ragazzo, che solo da tre anni ha cominciato a correre, grazie a quell’opportunità straordinaria rappresentata dal Progetto Filippide- “Avanti, avanti…” Così per altri due chilometri, in mezzo al deserto, 35 gradi di temperatura, fin sopra quella duna dalla quale si domina il Parco e si vede la porta di Allah. La bandiera della Sardegna è diventata il simbolo di una sfida che ha il sapore dolce di una vittoria, anche se Paolo e Massimo si sono piazzati al 177º posto (su 380 82


partecipanti, con 62 ritiri), percorrere i 21,097 chilometri in meno di tre ore vuol dire realizzare un sogno

(‌).

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Conclusioni.

Per concludere mi auguro che questo mio modesto lavoro, realizzato attraverso una ricerca di tipo bibliografico e sperimentale, possa servire a rendere più chiaro il problema dell’autismo, la sua natura nascosta, la sua cura, la sua quotidianità. Spero in modo particolare che chi avrà l’opportunità di leggere queste pagine possa trarre indicazioni importanti, soprattutto se si rispecchierà in una realtà di questo tipo, dove l’autismo può sembrare una montagna difficilmente scalabile, ma che se affrontato per tempo può portare a delle vittorie quotidiane che pian piano permetteranno a chi lo vive ogni istante, di sentire l’autismo ogni giorno più lontano.

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