A.D. MDLXII
U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ
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CORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE
L’INFLUENZA DELLE ATTIVITÀ UMANE SULLA DISTRIBUZIONE DELLA FAUNA SELVATICA NELLA STORIA DEL POPOLAMENTO ANIMALE DELLA SARDEGNA
Relatore: PROF. DONATELLA CARBONI
Correlatore: PROF. GIOVANNI LUPINU
Tesi di Laurea di: LUSSORIO LODDE
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
Indice. 1. Introduzione ………………………………………………………………………… pag. 4
2. La storia del popolamento animale in Sardegna………………………………….… pag. 9 2.a. Dal primo popolamento animale alle migrazioni di fauna del Pliocene.………. pag. 10 2.b. Il Pleistocene e le migrazioni di fauna nel corso delle glaciazioni…………….. pag. 12 2.c. Tra Paleolitico e Neolitico: la crescita della pressione antropica…………....… pag. 15 2.d. L’introduzione di specie animali in epoche storiche recenti ………………….. pag. 17
3. Specie significative della fauna selvatica sarda…………………………………… pag. 20 3.a. Alcune metodologie e problematiche inerenti i censimenti animali…………… pag. 20 3.b. Cervo sardo…………………………………………………………………….. pag. 24 3.b.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione…....……………….…. pag. 24 3.b.2. Misure di tutela e gestione ……………………………………………... pag. 29 3.c. Daino………….………………………………………………………......…… pag. 34 3.c.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione ..…...……………….... pag. 34 3.c.2. Misure di tutela e gestione ……………………………………...……… pag. 36 3.d. Muflone………..……………………………………………..…..…………… pag. 41 3.d.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione……………………….. pag. 41 3.d.2. Misure di tutela e gestione ……………………………….…………….. pag. 46 3.e. Cinghiale sardo…..…….……………………..………………………………..pag. 48 3.e.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione……………………….. pag. 48 3.e.2. Misure di tutela e gestione ……………………………….…………….. pag. 51 3.f. Grifone………..………………………………...…………………………..… pag. 53 3.f.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione…….…………………. pag. 53 3.f.2. Misure di tutela e gestione …………………………………………..…. pag. 59 2
4. Il caso specifico delle subregioni del Marghine e della Planargia…………………. pag. 62 4.a. Caratteristiche geomorfologiche e ambientali del Marghine – Planargia..…… pag. 62 4.b. Situazione delle specie campione nelle aree faunistiche prese in esame….….. pag. 66 4.b.1. Cervo sardo…………………………………………………………….. pag. 66 4.b.2. Daino …………………………………………………………………... pag. 67 4.b.3. Grifone ………………………………………...………………………. pag. 68 4.c. La toponomastica come strumento di studio della fauna selvatica …....…….. pag. 71 4.c.1. Elenco dei toponimi relativi alla fauna selvatica ……….…………..…. pag. 78 4.c.1. Elenco dei toponimi relativi alla fauna domestica ……..….………..…. pag. 80
5. Conclusioni …………………………………………...…………………………… pag. 83
6. Riferimenti bibliografici ……………………………………………………...…… pag. 85
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1. Introduzione.
Nella seconda metà del XVIII secolo Francesco Cetti, nelle riflessioni in appendice al suo Quadrupedi di Sardegna1, osservava come:
“confrontando il sistema de’ quadrupedi sardi col sistema d’Italia, non si ravvisa se non molta discrepanza dall’uno all’altro. Non vi è in Italia ciò, che v’è in Sardegna, né in Sardegna v’è quel d’Italia” (Cetti, 2000, p. 161).
L’isola ha indubbiamente una sua particolare fisionomia faunistica, sviluppatasi principalmente a partire dal popolamento animale del Terziario, per essere poi dopo il Quaternario sempre più influenzata dall’opera dell’uomo (Colomo, 2008), e caratterizzata dalla forte presenza di endemismi e di sottospecie locali2, peraltro da tempo spesso oggetto di controversie riguardanti la loro precisa collocazione tassonomica (Pratesi e Tassi, 1986). E questa singolarità del popolamento animale della Sardegna, che si accompagna alle note peculiarità di quello vegetale (anche se forse in modo meno appariscente, soprattutto per quanto riguarda le specie animali più piccole o scarsamente visibili), ha da sempre colpito l’osservatore che giungesse da oltremare, di cui lo stesso Cetti può essere assunto come caso emblematico, data anche la rilevanza delle sue osservazioni e scoperte in ambito naturalistico. Su questo popolamento, inoltre, si sono messe alla prova, tra le altre, le teorie relative all’evoluzione e alla distribuzione geografica delle specie animali sul pianeta (Monti, 1915). Questa singolarità è anche il frutto delle interazioni a vari livelli con l’uomo e dell’uomo ha a sua volta influenzato in modo diverso, nel corso della storia, cultura e attività. Scopo di questo lavoro è 1
La prima delle tre opere del Cetti dedicate allo studio della fauna isolana, pubblicate tra il 1774 e il 1778, poi confluite nella edizione tedesca di Lipsia del 1783 - 84 in un unico volume, intitolato Naturgeschichte von Sardinien. Da qui il titolo di Storia naturale di Sardegna, utilizzato in più occasioni per le successive edizioni unitarie dei tre lavori. 2 Ricorderemo in breve alcune specie comunemente ritenute tra le più caratteristiche (anche se non tutte, come si vedrà in riferimento ai casi presi in esame in questa sede, sono esclusive della Regione). Tra i Mammiferi, il muflone (Ovis ammon musimon), il cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus), il daino (Dama dama), il cinghiale (Sus scrofa meridionalis), la volpe (Vulpes vulpes ichnusae), la lepre sarda (Lepus capensis mediterraneus). Tra gli Uccelli, la cornacchia sarda (Corvus cornix sardonius), la ghiandaia sarda (Garrulus glandarius ichnusae), la civetta sarda (Athene noctua sarda), il grifone (Gyps fulvus), il fenicottero (Phoenicopterus ruber). Particolarissima la fauna erpetologica, con, per gli Anfibi, le quattro sottospecie di geotritone sardo (Hydromantes genei), il tritone sardo (Euproctus platycephalus), la raganella sarda (Hyla sarda), e per i Rettili la lucertola sarda (Lacerta tiliguerta), la lucertola di Bedriaga (Lacerta bedriagae), il colubro sardo (Coluber hippocrepis). Anche tra gli invertebrati, in particolare tra gli Insetti, si hanno poi numerosi endemismi, di cui molti legati ad ambienti ipogei (Pratesi e Tassi, 1986).
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mostrare le tappe di quello che può essere definito come un vero e proprio cammino condiviso tra uomo e animale, dagli albori del popolamento umano ai giorni attuali, nei quali, insieme alle pressanti necessità di tutela delle specie minacciate a vari livelli, si va riconoscendo nella fauna selvatica anche un importante strumento per il mantenimento del territorio (Beccu, 1993 b).
Nella prima parte di questo studio verrà fornita una panoramica di quella che è stata la storia del popolamento animale della Sardegna, a partire dai primi generi attestati di Anfibi, che caratterizzano tutt’ora parte della fauna isolana, per passare attraverso le migrazioni spontanee di fauna che si sono accompagnate ai mutamenti di livello del Mar Mediterraneo e che risultano nel loro insieme contraddistinte da una notevole complessità e varietà, anche in termini di adattamenti ambientali subiti dalle varie specie interessate. Si metterà poi man mano in luce, nel corso della trattazione, la progressiva e via via crescente influenza delle attività antropiche sia sull’andamento demografico delle specie animali preesistenti alla colonizzazione umana dell’isola, sia in varia misura sulla sua stessa composizione faunistica. Si vedrà come all’origine di queste modificazioni stiano principalmente l’introduzione, spesso volontaria, da parte dell’uomo, di specie animali alloctone e la pressione, più o meno incisiva, esercitata dalle attività umane di vario tipo (principalmente: predazione diretta mediante la caccia, modifiche esercitate sull’ambiente naturale, concorrenza con specie domestiche e/o importate), sia su queste stesse specie importate che su quelle invece autoctone. Tale panoramica verrà estesa sino ai giorni nostri (con l’esempio eclatante della nutria, Myocastor coypus, cui verrà dato particolare spazio), in quanto l’azione dell’uomo sulla fauna è tuttora ben lungi dall’esaurirsi e, anzi, proprio in tempi storici recenti e contemporanei sono collocabili alcune tra le più importanti modificazioni all’ambiente naturale, accompagnate dall’emergere di una vera e propria azione di tipo gestionale nei confronti degli animali selvatici. Questa parte per così dire introduttiva, sebbene lungi dal rendere in maniera esaustiva la complessità e la globalità di questi fenomeni, è stata pensata in modo da poter rendere più immediata la collocazione di alcune specie animali ben precise nel quadro più generale degli eventi che hanno portato all’attuale situazione faunistica della Sardegna (specie che verranno poi riprese e analizzate più approfonditamente nella seconda parte), e allo stesso tempo consentire di introdurre, sebbene talvolta solo marginalmente, alcune importanti problematiche legate ad altri animali che non avrebbero altrimenti trovato spazio nel resto di questo lavoro.
Nella seconda parte infatti, non potendo per ovvie ragioni estendere la ricerca a tutte le specie animali che hanno rivestito un ruolo di una qualche importanza sulle attività umane e sull’ambiente in Sardegna, si approfondirà lo studio di alcune di esse, limitatamente alla fauna selvatica, specie 5
tutt’ora facenti parte del panorama faunistico isolano, su cui l’azione dell’uomo è stata particolarmente evidente, e che non hanno mancato a loro volta di influenzarne cultura e economia nelle varie epoche preistoriche e storiche. Si è ritenuto opportuno limitare l’analisi ad alcuni esponenti della Macrofauna, sia perché maggiormente radicati nell’immaginario collettivo, sia perché animali di grosse dimensioni comportano proprio da un punto di vista gestionale tutta una serie di misure più facilmente rintracciabili sul territorio. La scelta è così ricaduta su alcuni Vertebrati terrestri che in virtù della loro importanza culturale, storica, economica, ambientale sono stati frequentemente considerati come specie simbolo dell’isola: per usare le parole di Domenico Ruiu, come alcuni dei nostri “compagni di viaggio” (Ruiu, 1986), o per dirla con Schenk come “specie bandiera”3, animali che si prestano cioè a diventare ambasciatori anche presso un grande pubblico della necessità di tutelare l’ambiente naturale cui appartengono (Schenk et al., 2008). Le specie animali prescelte ammontano al numero di 5, e tra esse ritroviamo 4 specie di Mammiferi, ovvero il cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus), il daino (Dama dama), il muflone (Ovis orientalis musimon), il cinghiale (Sus scrofa meridionalis), e 1 specie di Uccelli, l’avvoltoio grifone (Gyps fulvus). Si è data insomma, come sarà facile notare, una considerevole importanza agli Ungulati, e questo, oltre che per i motivi sopra esposti, anche perché essi, per dirla con le parole di Apollonio:
“rappresentano un gruppo di mammiferi di grande importanza sotto diversi aspetti: sono infatti una componente di rilievo delle zoocenosi terrestri, di cui spesso costituiscono le specie di maggiore taglia, suscitano un notevole interesse venatorio e rappresentano un difficile impegno gestionale” (Apollonio, 2004, p. 22).
Di ciascuno di questi animali verranno analizzati, dopo averne fornito una breve descrizione delle caratteristiche biologiche più significative: l’origine geografica, per quanto possibile l’andamento demografico nelle diverse epoche storiche, gli effetti subiti come conseguenza delle attività umane, eventualmente la loro stessa influenza su queste attività, le condizioni attuali e la tipologia del popolamento, nonché le varie azioni di gestione legislativa e ambientale intraprese nei loro riguardi. Va subito precisato che queste azioni non sono necessariamente limitate alla conservazione dell’ habitat o all’incremento di una data popolazione animale in aree più o meno circoscritte, ma possono anche spingersi nella direzione opposta, ovvero dare luogo a azioni di controllo demografico, che nel caso di alcune delle specie analizzate si manifestano principalmente nello
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Nel caso specifico Schenk fa riferimento al grifone (Gyps fulvus), come si avrà modo di approfondire meglio in seguito; si veda al proposito da p. 54.
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spostamento degli esemplari in esubero da un’area a un’altra, o nell’esercizio di una caccia controllata. Il tutto infine verrà supportato da corredo cartografico, qualora disponibile, in modo che per ciascun animale possano essere individuabili in maniera più immediata gli areali di distribuzione storica, eventuali aree protette, la distribuzione attuale sul territorio isolano e in alcuni casi anche nazionale o europeo, qualora ciò risulti significativo ai fini di questo studio. Dato che l’andamento demografico delle specie esaminate è spesso soltanto ricostruibile per via ipotetica, e che gli stessi censimenti di animali selvatici effettuati ai giorni nostri offrono una serie di problematiche specifiche, a questa seconda parte è stata, in un secondo tempo, premessa una breve introduzione nella quale, specie per specie (limitatamente si intende alle 5 specie campione prima individuate), vengono descritti i metodi di conteggio e di stima della popolazione comunemente usati.
Nella terza parte verrà invece preso in esame il caso specifico delle sub-regioni del Marghine e della Planargia che, seguendo la suddivisione in aree faunistiche datane dallo Schenk nel suo Libro Rosso dei Vertebrati terrestri del Marghine – Planargia (Schenk et al., 1996), verranno analizzate dapprima in generale, a scopo introduttivo, sia dal punto di vista ambientale che faunistico. Questo al fine di poter inquadrare poi in questa precisa realtà geografica le 5 specie campione prese in esame già nella parte precedente, per ciascuna delle quali, qualora vi risultino presenti storicamente, verrà fornito un prospetto con le informazioni relative alla presenza sul territorio, alle cause di rarefazione o incremento numerico o nei casi limite di totale estinzione a livello locale, alle misure di tutela, agli eventuali interventi di reintroduzione o per inverso alle misure intraprese così da averne una limitazione numerica. Partendo quindi dallo spunto offerto dal raffronto, effettuato già in parte del materiale cartografico fornito da Schenk nella medesima pubblicazione prima citata (Schenk et al., 1996), tra areale di distribuzione storico e areale di distribuzione attuale delle numerose specie animali caratteristiche del Marghine - Planargia, verrà effettuata un’analisi della toponomastica delle due sub-regioni, principalmente sulla base dei toponimi riportati da Paulis ne I nomi di luogo della Sardegna (Paulis, 1987). Inizialmente incentrata unicamente sullo studio degli zoonimi relativi alla fauna selvatica, questa analisi è stata poi estesa anche ai diversi esponenti della fauna domestica, così da poter avere un quadro più completo del rapporto uomo – animale sia da un punto di vista spaziale che culturale in un’area, quale è appunto nel suo insieme il Marghine – Planargia, che presenta tuttora fortissimi legami con un mondo agricolo e pastorale che a dispetto delle trasformazioni subite negli ultimi decenni mantiene una propria connotazione a base “tradizionale”. E’ stato così possibile effettuare una serie da raffronti, a partire dall’incidenza degli zoonimi (distinti appunto 7
nelle due macro-categorie di zoonimi relativi alla fauna selvatica e zoonimi relativi alla fauna domestica) nei riguardi della totalità della toponomastica della zona, per passare poi all’analisi degli stessi toponimi, comune per comune, dei singoli centri abitati dell’area interessata, e arrivare a una più particolareggiata panoramica delle diverse classi animali rappresentate, che non ha mancato di evidenziare divergenze anche considerevoli rispetto al panorama faunistico riscontrabile ai nostri giorni. A seguire l’analisi dei toponimi specificatamente riconducibili alle 5 specie campione, o meglio a quelle specie tra esse per le quali è stata verificata la presenza storica nelle due sub-regioni o è stato possibile fornire dati sufficienti, al fine di verificare eventuali corrispondenze con quanto emerso dallo studio di questi animali nelle parti precedenti, e di mostrare come l’analisi della toponomastica possa fornire un importante contributo anche allo studio della distribuzione spaziale e temporale della fauna sarda in determinate aree. Alla fine del quarto capitolo, per praticità di consultazione, sono riportate infine le tabelle con l’elenco degli zoonimi del Marghine – Planargia qui studiati, suddivisi in due gruppi secondo il criterio pratico, già adottato nelle parti precedenti, di separazione tra le specie domestiche e quelle selvatiche. Di ciascun toponimo verranno forniti la traduzione e il comune di appartenenza, in maniera da favorirne una più immediata consultazione.
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2. La storia del popolamento animale in Sardegna.
Attualmente la fauna vertebrata della Sardegna, a esclusione dei Pesci che non verranno presi in esame in questa sede4, è costituita da 9 specie di Anfibi (5 Urodeli e 4 Anuri), 20 specie di Rettili (1 Emide, 3 Testudinidi, 1 Chelonide, 3 Geconiidi, 1 Camaleontide, 6 Lacertidi, 2 Scincidi e 5 Colubridi), 152 specie di uccelli (2 Podicipediformi, 3 Procellariformi, 2 Pelicaniformi, 9 Ciconiformi, 1 Fenicotteriforme, 9 Anseriformi, 10 Accipitriformi, 5 Falconiformi, 4 Galliformi, 6 Gruiformi, 13 Caradriformi, 4 Columbiformi, 1 Psittaciforme, 2 Cuculiformi, 4 Strigiformi, 1 Caprimulgiforme, 3 Apodiformi, 4 Coraciformi, 3 Piciformi e 65 Passeriformi), 21 specie di Mammiferi (3 Insettivori, 19 Chirotteri, 2 Lagomorfi, 7 Roditori, 4 Carnivori e 4 Ungulati), per un totale di 202 specie animali (Schenk, 1993; Fleba, 2010). La fauna sarda, nella sua composizione sia numerica che di specie, è stata fortemente condizionata da tre fattori principali, ovvero: i fenomeni geologici e climatici avutisi a partire dal Terziario (Schenk, 1984; Pratesi e Tassi, 1986; Colomo, 2008), i naturali processi evolutivi delle varie categorie sistematiche (Schenk, 1984; Caloi e Palombo, 1990), e negli ultimi 8000 – 5000 anni, in misura più o meno pesante, soprattutto dalle attività umane. Tali attività hanno prodotto effetti sulla fauna sia in modo indiretto, tramite una serie di alterazioni operate dall’uomo sull’ambiente (Schenk, 1984), che diretto, mediante azioni come la caccia e la domesticazione di specie selvatiche (Fleba, 2010) che hanno alterato via via le dinamiche demografiche e di distribuzione della fauna preesistente. Il popolamento animale che ne è derivato presenta inoltre, a seconda delle classi, una diversa incidenza di forme endemiche, determinata principalmente dalla maggiore o minore possibilità di rimescolamento genetico di una specie, come conseguenza della sua maggiore o minore capacità di motilità: a titolo di esempio, basti considerare che il 50% delle specie di Anfibi sardi sono endemismi, contro il meno dell’1% delle specie di Uccelli (Schenk, 1984). Altri fattori determinanti nell’evoluzione dei popolamenti animali insulari nella loro genericità, e che non hanno mancato di verificarsi nel caso specifico della fauna sarda, sono poi legati all’origine geologica, alla superficie territoriale disponibile, alla distanza dalla terraferma di un’isola, alla presenza o meno di catene montuose che contribuiscono a dare luogo a una maggiore biodiversità, come conseguenza di una maggiore complessità ambientale e climatica (Fleba, 2010).
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Si è infatti preferito, come già precisato in sede introduttiva, dare maggior rilievo ai Vertebrati terrestri e in particolare agli esponenti della Macrofauna.
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Le fasi del popolamento animale della Sardegna sono riconducibili, secondo la suddivisione datane da Fleba, principalmente a tre: la prima collocabile nel Miocene superiore, la seconda nel corso delle ultime glaciazioni del periodo Quaternario, la terza in epoca preistorica e storica (Fleba, 2010). Tale suddivisione verrà qui mantenuta, ma si è preferito separare dalla terza fase le specie giunte sull’isola in tempi storici più recenti, in modo da avere un quadro più immediato della complessa situazione attuale, per la quale, in questa prima parte del lavoro, si è preferito tuttavia porre l’accento su una sola specie, la nutria (Myocastor coypus), trattata a p. 17.
2.a. Dal primo popolamento animale alle migrazioni di fauna del Pliocene.
Nel periodo compreso tra 25 e 28 milioni di anni fa, Sardegna e Corsica, unite alla placca europea lungo l’attuale costa francese mediterranea, si staccarono dal continente per compiere una migrazione di circa 400 chilometri e raggiungere così la loro posizione attuale (Colomo, 2008). Tra le specie vertebrate più antiche della fauna sarda, le cui origini risalgono al periodo continentale del Terziario inferiore, ricordiamo i geotritoni del genere Speleomantes, attualmente presenti con 4 specie, tutte endemiche: S. genei, S. supramontis, S. flavus, S. imperialis, e del genere Euproctus, presente con un unico esponente: E. platycephalus, affine all’ E. montanus, vivente invece in Corsica (Gattelli, 2001; Fleba, 2010). Sul finire del Terziario, a causa della compressione tettonica che avvicinò la Spagna e l’Africa, il collegamento tra Mediterraneo e Atlantico venne meno per il crearsi di una diga naturale, fenomeno che ebbe importanti ripercussioni sia sulla fauna marina che su quella terrestre. Il Mediterraneo infatti, isolato dalle acque oceaniche e soggetto a una evaporazione superiore all’apporto idrico pluviale e fluviale, andò incontro a un rapido disseccamento. Questo disseccamento a sua volta diede luogo al fenomeno della cossiddetta “crisi di salinità”, nel corso della quale si verificò la morte di quasi tutti gli organismi marini, e si ebbe l’affermarsi nelle terre emerse prospicienti il bacino del Mediterraneo di un clima arido e di una vegetazione di tipo desertico (Fleba, 2010). I numerosi ponti di terra venutisi a creare a causa dell’abbassamento del livello del mare favorirono tutta una serie di scambi tra la fauna sarda, quella europea e quella africana, che interessarono un periodo di tempo durato oltre mezzo milione di anni (Colomo, 2008; Fleba 2010). Tra le specie animali giunte nell’isola in questa fase, e tutt’ora facenti parte della fauna sarda, abbiamo gli Anfibi anuri di origine non antropica: il rospo smeraldino (Bufo viridis), di origine paleartica, il discoglosso sardo (Discoglossus sardus), di origine mediterraneo – tirrenica, la 10
raganella sarda (Hyla sarda),5 di probabile origine tirrenica, alcune specie di Sauri, tutte di origine mediterranea, come: il tarantolino (Phyllodactilus europeus), l’algiroide nano (Algiroides fitzngeri), il gongilo (Chalcides ocellatus tiligugu), e per gli Ofidi una sola specie: la natrice viperina (Natrix maura), anch’essa di origine mediterranea (Fleba 2010). Al periodo mio - pliocenico risalgono i primi resti fossili del prolago (Prolagus sardus, Wagner 1829), oggi estinto. Lagomorfo della famiglia degli Ocotonidi, famiglia di cui ha costituito in Italia l’unico esponente (Trocchi e Riga, 2005), il prolago era diffuso in tutta la Sardegna e in Corsica (Colomo, 2008) ed era destinato a rivestire un importante ruolo nella vita delle comunità umane dell’isola, al punto che può essere considerato come:
“l’animale endemico che più ha influito sull’economia dei gruppi umani sardi nella preistoria” (Carenti e Wilkens, 2006, p. 174).
Esso sarebbe infatti venuto a rappresentare in alcuni periodi del Mesolitico e del Neolitico la dieta base di questi gruppi umani. Sebbene la sua presenza sia attestata con certezza in Sardegna fino all’Età del Ferro (Carenti e Wilkens, 2006), tuttavia la questione della sua estinzione è tuttora dibattuta, poiché a partire dalla testimonianza (e dalle suggestioni da essa derivate) di Cetti, il quale, nel XVIII secolo, afferma che:
“l’Isola di Taulara nominata per le sue capre selvatiche, si appella pure per i suoi smisurati topi. Gente approdata in quell’isola ne trovò in qualche parte il terreno sì fattamente smosso, che il credette opera de’ porci.”
e ancora che:
“Di somiglianti sterminati topi se ne trovano pure nella isola di San Pietro” lo si è ritenuto presente nell’isola anche in epoche piuttosto recenti. 6 5
D. sardus costituisce una specie endemica presente unicamente in Sardegna, Isola del Giglio, Isola di Montecristo, Monte Argentario (Gattelli, 2001). H. sarda, anch’essa endemismo sardo, è presente anche in Corsica e nell’Arcipelago toscano (Gattelli, 2001). 6 Si prenda a esempio quanto riferito al proposito da Pratesi e Tassi, che dopo aver menzionato proprio la testimonianza di Cetti, riportano a loro volta: “c’è ancora qualche studioso che sogna di ritrovare, in qualche luogo remoto e impervio, il prolago vivo come un fossile miracolosamente scampato alla distruzione: ma è speranza che rasenta la fantasia” (Pratesi e Tassi, 1986, p. 121). Trocchi e Riga nel loro studio sui Lagomorfi in Italia lo danno per estinto nel XVIII secolo (Trocchi e Riga, 2005).
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2.b. Il Pleistocene e le migrazioni di fauna nel corso delle glaciazioni.
Nell’Era Quaternaria, per effetto delle glaciazioni, si ebbero nuovamente modificazioni nel livello del mare, che facilitarono da una parte movimenti di fauna in uscita verso l’Europa e altre isole mediterranee, dall’altra movimenti di fauna in entrata, che riguardarono soprattutto Mammiferi (Colomo, 2008; Fleba, 2010). Questi spostamenti di fauna avvennero nel quadro di importanti evoluzioni paesaggistiche e climatiche, che si rivelarono particolarmente significative lungo la fascia costiera, e che conobbero il proprio culmine nei momenti di massima regressione marina: nel Pleistocene medio, tra 160 e 150 mila anni fa, nel Pleistocene superiore, tra i 70 e i 50 mila e successivamente intorno ai 20 mila anni fa7 (Sanges, 2007). Sardegna e Corsica vennero così ad unirsi e a distare dall’arcipelago toscano, a sua volta divenuto una penisola, appena circa 5 miglia nel punto di maggiore vicinanza. Per dirla con Sanges:
“tali condizioni paleogeografiche hanno favorito il verificarsi di una particolarissima evoluzione delle faune insulari, che sarà determinante per la colonizzazione umana delle isole nel Pleistocene medio e superiore. In situazioni geografiche così favorevoli, con brevissimi bracci di mare con sponde a vista, si verificano migrazioni di faune dalla terraferma verso le isole” (Sanges, 2007, p. 32).
Molti Mammiferi continentali infatti, anche di grossa taglia, andarono a popolare nel corso del Pleistocene le varie isole del Mediterraneo (Caloi e Palombo, 1990), anche se la maggior parte di essi si rivelarono inadatti all’attraversamento di bracci di mare, seppure relativamente ristretti: vennero così a essere esclusi da questo tipo di migrazione i grandi Carnivori, mentre i più indicati risultarono essere gli animali da branco con buona predilezione per il nuoto, dei quali a ogni modo soltanto gli esemplari più robusti è probabile siano riusciti a portare a termine con successo la traversata (Sanges, 2007). Tra gli erbivori ebbero non a caso notevole diffusione diverse specie appartenenti alle famiglie Elephantidae e Cervidae, che si rivelarono colonizzatori particolarmente attivi, ma non mancarono esponenti di Hippopotamidae e Bovidae (Caloi e Palombo, 1990). Va ricordato che queste specie animali andarono incontro, una volta insediatesi nei nuovi territori, a una serie di adattamenti tipici della fauna degli ambienti insulari, ovvero conobbero un rapido processo evolutivo, caratterizzato dalla comparsa di una maggiore variabilità rispetto alle forme
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Precedenti abbassamenti del livello delle acque marine si sono verificati anche nel corso del Pleistocene inferiore e medio (Sanges, 2007).
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continentali e soprattutto da una considerevole tendenza alla variazione delle dimensioni corporee (Caloi e Palombo, 1990), in genere orientata verso una riduzione della taglia. Venendo all’analisi delle specie più importanti, va segnalato che numerose specie del genere Elephas, evolutesi nel tempo in forme di dimensioni anche molto ridotte, sono attestate a Cipro, Rodi, Tilo, nelle Cicladi, Sicilia, Malta, Calabria meridionale, mentre per la Sardegna abbiamo l’unica specie di mammuth insulare e italiana conosciuta, il piccolo Mammuthus lamarmorae (Caloi e Palombo, 1990; Melis et al., 2001). Anche nel caso dei Cervidi assistiamo nel complesso del quadro insulare mediterraneo allo sviluppo di numerose sottospecie, sia nell’ambito della tribù dei Cervini, le quali però non interessarono la Sardegna, che dei Megacerini, attestati invece nel caso specifico del massiccio sardo-corso con diverse sottospecie del megacerino, Megaceros cazioti (Caloi e Palombo, 1990). Va notato che in Sardegna il megacerino, a differenza di quanto invece avvenuto in altre isole mediterranee, conservò la capacità di mantenere una andatura veloce e sviluppò persino alcuni adattamenti funzionali degli arti, che farebbero supporre la presenza nell’isola di un carnivoro predatore o l’esistenza di una attività di caccia più o meno intensa, che abbiano favorito nella specie il mantenimento di queste caratteristiche. Tuttavia non esistono prove che l’unica specie di Canide allora presente nell’isola, il Cynotherium sardoum, peraltro di ridotte dimensioni, riuscisse a predare questi animali, né che la pressione venatoria dell’uomo del Paleolitico, se non forse nel suo periodo terminale, fosse tale da determinare nella specie una evoluzione che ne incrementasse velocità e agilità nei movimenti (Caloi e Palombo, 1990). Gli ippopotami insulari, presenti anche in Sardegna, furono abbastanza frequenti nelle isole mediterranee e diedero anche essi spesso luogo a forme endemiche, tutte comunque riconducibili come origine a specie del genere Hippopotamus. I Bovidi, sempre nel quadro più generale delle isole mediterranee, sono invece più rari, e nel caso della Sardegna, limitati a una sola specie, il Nesogoral melonii, caratterizzato da una riduzione delle dimensioni corporee e da una notevole estensione dei palchi frontali (Caloi e Palombo, 1990). Tutte queste specie, tuttavia, furono destinate a estinguersi, insieme ad altre specie del Pleistocene inferiore e medio, tra le quali ricordiamo alcuni Soricidi, alcuni Muridi, due specie di lontra, il coccodrillo insulare Tomistoma calaritanus, la bertuccia Macaca maiori (Fleba, 2010).
Per dare un quadro della diffusione temporale di queste specie animali nella loro successione cronologica, nel caso specifico della Sardegna, è possibile individuare due fasi ben precise. La prima fase interessa la prima metà del Pleistocene, ed è caratterizzata dalla presenza di una fauna di tipo Nesorgale, cosiddetta dal nome della specie più significativa, il già menzionato Nesogoral 13
melonii. Si tratta di una fauna contraddistinta nel suo insieme da una forte tendenza alla riduzione delle dimensioni corporee da parte di quasi tutte le specie rappresentative. Tra queste ricordiamo, oltre al N. melonii, il piccolo primate Macaca maiori, il maiale selvatico Sus sondaari, anch’esso di piccola taglia, e il Prolagus sardus (Sanges, 2007), già presente nell’isola, come si è visto, dal periodo mio - pliocenico (si veda da p. 11). La seconda fase prende avvio intorno alla metà del Pleistocene, in concomitanza col momento di massima regressione del livello del mare e il conseguente arrivo di nuove specie animali, che soppiantarono la fauna Nesorgale, la quale si estinse rapidamente. Il nuovo tipo di popolamento animale prende il nome di fauna Tyrrenicola, le cui specie nel complesso si distinsero per la mancata evoluzione alle condizioni di insularità delle caratteristiche che esse avevano nella forma continentale. Tra le specie facenti parte della fauna Tyrrenicola, ricordiamo i già citati Megaceros cazioti, Cynotherium sardus, Prolagus sardus, quest’ultimo sopravvissuto anche all’estinzione della fauna Nesorgale e che comincia ad avere un ruolo fondamentale nella dieta dell’uomo pleistocenico in Sardegna (al proposito si veda più dettagliatamente sempre a p. 11), e il piccolo roditore Tyrrenicola henseli (Sanges, 2007). Il brusco passaggio dal popolamento animale di tipo Nesorgale a quello di tipo Tyrrenicolo, e contemporaneamente la mancata evoluzione alle nuove condizioni di insularità della maggior parte delle nuove specie giunte in questa seconda fase:
“presuppongono il contemporaneo arrivo di un grande predatore, il quale, per il solo fatto di cacciare e nutrirsi delle due faune insulari8, ha determinato l’estinzione della prima e impedito alla seconda di evolversi verso forme nane già note. Tale predatore secondo le evidenze paleontologiche può essere stato soltanto un uomo pleistocenico, giunto nell’isola appunto intorno alla seconda metà del Pleistocene” (Sanges, 2007, p. 33).
Tra le altre specie animali giunte in Sardegna nel corso di questa fase, ne sono tuttora presenti 4, 1 per i Rettile e 3 per i Mammiferi: il biacco (Coluber viridiflavus), di origine mediterranea, il riccio (Erinaceus europeus), il topo quercino (Eliomys quercinus sardus), la volpe sarda (Vulpes vulpes ichnusae), tutti ritenuti di origine paleartica (Fleba, 2010).
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Ovvero quella Nesorgale e quella Tyrrenicola, che vennero necessariamente a convivere per un certo lasso temporale.
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2.c. Tra Paleolitico e Neolitico: la crescita della pressione antropica.
Quando tra 130.000 e 180.000 anni fa il ponte sardo-corso si interruppe, la Sardegna fu riportata nella sua vera e propria condizione di isola, ed ebbe così fine il fenomeno dell’immigrazione spontanea di specie terricole. Questo fatto presenta due importanti implicazioni. La prima è che mancano alla Sardegna (e alla Corsica) alcune specie di Mammiferi e Rettili presenti invece nella penisola italiana; la seconda, che specie come:
“lepre, coniglio selvatico, martora, volpe, gatto selvatico, cinghiale, muflone, daino e cervo non risultano documentati nei fossili del Quaternario sardo e vanno tutte considerate come specie importate dall’uomo in epoca preistorica o storica” (Colomo, 2008, p. 6).
Si è potuto osservare finora come ad ogni fase geologica e climatica sono corrisposte migrazioni ed estinzioni di specie animali, in risposta ai diversi stimoli ambientali; a partire però già dal Pleistocene medio, come si è visto nel paragrafo precedente, è possibile constatare un continuo e sempre crescente impatto antropico sulla fauna isolana (Fleba, 2010). Questo incontro – scontro tra uomo da una parte, e animale/ambiente dall’altra, può essere ricondotto a tre fasi principali. La prima corrisponde sostanzialmente al Pleistocene medio, quando gli incendi naturali e l’uso del fuoco per diradare la vegetazione forestale, in modo da facilitare la caccia e la raccolta, cominciarono a diventare dei fattori di disturbo per le comunità faunistiche e a causare alterazioni nella flora (Fleba, 2010), tanto che Fleba afferma:
“l’effetto dell’uomo del Paleolitico può essere paragonato a quello di una specie che riassumesse in sé le caratteristiche di ecologia alimentare sia da grosso carnivoro che da grosso erbivoro” (Fleba, 2010).
Assistiamo poi a una seconda fase, detta di "coltivazione passiva" e di "domesticazione specializzata", tra il Paleolitico e il Neolitico, della durata di alcune migliaia di anni, nella quale l’uomo agisce sostanzialmente sull’ambiente tramite una raccolta intensiva di cibo, sia animale che vegetale, selezionando le aree naturali in cui compiere questa raccolta (Fleba, 2010). Prendendo come esempio il caso specifico dei Lagomorfi diffusi in Sardegna in questo periodo9, possiamo notare come le ben quattro specie autoctone allora presenti si estinsero tutte, anche se in maniera graduale, a causa della pressione antropica e della concorrenza con specie introdotte dall’uomo, tra 9
Periodo Pre-Neolitico, circa 9000 anni fa (Trocchi e Riga, 2005).
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cui la lepre sarda (Lepus capensis mediterraneus), per la quale, sebbene manchino indicazioni precise sul momento di immissione, è stata supposta una origine nordafricana (Trocchi e Riga, 2005). L’introduzione del coniglio (Oryctolagus cuniculus) nell’isola è avvenuta invece probabilmente più tardi e riguarderà una fase successiva del popolamento animale: la sua diffusione ad opera dell’uomo, a partire dalla penisola iberica, diventa infatti inequivocabile per il Mediterraneo centrale, sulla base delle testimonianze fossili, solamente tra la seconda metà del III secolo a.C. e la prima metà del II secolo d.C. (Trocchi e Riga, 2005). La terza fase fondamentale avvenne nel Neolitico, all’inizio dell’Olocene, quando si ebbe il passaggio definitivo a una cosiddetta “coltivazione attiva”, basata su una ormai completa domesticazione di specie vegetali e animali, e si assistette all’instaurarsi di una economia basata sempre più sulla produzione di risorse alimentari piuttosto che sul loro prelievo, che portò alla nascita di quello che può essere definito come un vero e proprio paesaggio agro – pastorale (Fleba, 2010). In questa fase Fleba include anche tutte le successive introduzioni di specie avvenute in epoca storica per scopi venatori, ornamentali e di compagnia (Fleba, 2010), e che noi qui, per facilità di esposizione, collocheremo invece in una fase successiva. Tra le specie risalenti a questa penultima fase del popolamento animale della Sardegna abbiamo: tra i Rettili la testuggine greca (Testudo greca) e la testuggine marginata (Testudo marginata), entrambe di origine mediterranea, il saettone (Elaphe longissima), il colubro ferro di cavallo (Coluber hippocrepis); tra gli Uccelli la pernice sarda (Alectoris barbara), di origine mediterraneo - maccaronesica; tra i Mammiferi il gatto selvatico (Felis silvestris libica)10, la martora (Martes martes latinorum), di origine paleartica, il cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus) di origine paleartica, il daino (Dama dama), di origine mediterranea, il muflone (Ovis musimon), di origine oloartica (Fleba, 2010). Tre di queste specie, il cervo sardo, il daino e il muflone, costituiranno, come già detto, oggetto di analisi più approfondita nel corso del capitolo successivo (si veda da p. 20).
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La sua introduzione è avvenuta probabilmente ad opera dei Fenici (Colomo, 2008).
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2.d. L’introduzione di specie animali in epoche storiche recenti.
Come detto in precedenza, si è preferito in questa trattazione separare gli ultimi arrivi di fauna alloctona in Sardegna dal gruppo delle introduzioni avvenute in epoca preistorica e storica secondo la triplice suddivisione propostane da Fleba (Fleba, 2010), per la quale si veda a p. 10. Questo è stato fatto perché, sebbene nella sua globalità, e quindi anche al di fuori della realtà isolana, già dall’Olocene, con una intensità crescente soprattutto negli ultimi cinque secoli, l’azione antropica non abbia mancato di alterare anche in modo considerevole i processi naturali (mediante principalmente il trasporto involontario di animali e piante o la diffusione voluta o meno di specie allevate o trasportate per scopi diversi), pure è ai giorni nostri che:
“le invasioni biologiche, cioè l’espansione provocata dall’uomo di specie animali o vegetali al di fuori del loro areale di presenza naturale, rappresentano […] una tra le principali minacce alla biodiversità, seconda solo alla distruzione degli habitat” (Andreotti et al., 2001, p. 9).
Numerose specie sono state introdotte in Sardegna dall’uomo in epoche storiche recenti, con finalità diverse, principalmente alimentari o sportive, e soprattutto negli ultimi decenni, come animali da compagnia, sebbene questo non comporti di necessità una loro immissione nell’ambiente o peggio, una loro diffusione. Tra le specie giunte nell’isola negli ultimi secoli e adattatesi al nuovo ambiente, abbiamo per gli Anfibi il caso della rana esculenta (Rana esculenta, Linnaeus,1758), importata nel Settecento per scopi alimentari, come già riportato da Cetti (Cetti, 2000), e poi naturalizzatasi a livello locale, sebbene la sua popolazione, secondo quanto riportato da Gattelli, sia attualmente poco rilevante in Sardegna (Gattelli, 2001)11. Uno degli ultimi arrivi invece di Mammiferi, e dei più significativi ai fini di questa indagine, in quanto poi il suo diffondersi in seguito alla rapida naturalizzazione (Moniello et al., 2005) ha determinato importanti conseguenze ambientali, è costituito dalla nutria (Myocastor coypus, Molina, 1782), la cui presenza nel centro – sud Sardegna è ormai considerata piuttosto comune. Ne verranno qui approfonditi vari aspetti, anche perché M. coypus ben si presta a rappresentare i casi analoghi, ormai di interesse mondiale, e le problematiche di gestione della fauna legati all’allevamento cosiddetto claustrale, effettuato anche molto lontano dalle zone di origine degli animali interessati, di numerose specie di Mammiferi “da pelliccia”, di taglia medio – piccola, che pur non rientrando appieno nei taxa domestici, sono sottoposti a 11
Lo stesso autore propone, nella parte dell’opera relativa a questa specie, una carta della sua distribuzione in Italia, aggiornata sulla base delle informazioni derivanti dall’Atlante provvisorio degli Anfibi e dei Rettili italiani, a cura della Societas Herpetologica Italica (Genova, 1996), dove tuttavia per la Sardegna non sono riportati gli areali di distribuzione di R. esculenta.
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un’opera di selezione artificiale (Massetti, 2008). La nutria, originaria delle zone umide dell’Argentina e del Brasile, approda inizialmente in Italia nel 1928, con l’apertura ad Alessandria del primo allevamento destinato alla produzione di pellicce di castorino, seguito presto da altri operanti in varie Regioni. Questa diffusione sempre più capillare degli allevamenti, unita alle spesso inadatte condizioni di stabulamento degli animali12, ha favorito le prime immissioni, più o meno accidentali, della nutria nel territorio italiano (Cocchi e Riga, 2001). Si ebbe così una prima tipologia di distribuzione della specie di tipo puntiforme, già attestata nel corso degli anni Sessanta. Circa una trentina di anni fa inoltre, la crisi del settore conseguente al deprezzamento delle pellicce prodotte in allevamenti portò, anche in Sardegna, alla liberazione indiscriminata in natura degli animali allevati. Si ritiene interessante, al fine di evidenziare le dinamiche di diffusione di questo animale, riportare qui quanto ricostruito da Moniello (Moniello, 2005), tramite una serie di interviste a testimoni, a proposito dell’introduzione della nutria nel Sarcidano. Alla fine del 1984 un gruppo di persone di Escalaplano acquistò 5 famiglie riproduttive di nutria13 per dare così avvio a un allevamento di tipo claustrale destinato alla produzione di castorino. Anche se l’azienda madre, che non viene citata, dopo aver effettuato i primi due ritiri di giovani esemplari si rese irrintracciabile, tuttavia si continuò a far riprodurre gli esemplari allevati al punto che già nel 1986 la loro consistenza numerica aveva quasi raggiunto i 300 capi che, immessi in parte nell’ambiente, andarono a insediarsi lungo il corso del Flumendosa e del Flumineddu, da cui si allontanavano per andare a cibarsi nei campi provocando danni consistenti in particolare alle colture orticole (Moniello, 2005). Sebbene in seguito la popolazione così naturalizzatesi abbia conosciuto un periodo di flessione demografica (Moniello, 2005), pure nel 2008 la presenza della nutria era ormai attestata in maniera stabile lungo il corso del Cixerri, del Rio Mannu, del Flumini Mannu, del Flumendosa, del Rio Mulargia, nella foce del Tirso, nello stagno di Molentargius14, nel territorio di Assemini, Uta, Ortacesus, Nuraminis, Samatzai (Piras, 2008). Negli anni successivi la specie ha conosciuto un ulteriore, considerevole incremento demografico accompagnato anche da una certa espansione territoriale (AA. VV. 2010; Cocco 2010). Dal punto di vista legislativo, la nutria viene considerata come facente parte della fauna selvatica italiana naturalizzata, e pertanto, come specificato nell’articolo 19 della L. 157/92, gli enti pubblici incaricati della gestione della fauna selvatica, ovvero Regioni e Province, possono intraprendere nei
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Nel complesso, i cosiddetti animali “da pelliccia” sono stati interessati da un tipo di allevamento, per dirla con Massetti, di forte cattività, con mantenimento cioè di un grande numero di esemplari in spazi molto ridotti, dando luogo a quella che viene definita una vera e propria stabulazione (Massetti, 2008). 13 Ogni “famiglia” era composta da 5 femmine e 1 maschio e venne acquistata al prezzo di 4 milioni di lire (Moniello, 2005). 14 Dove stando ai dati del 2008 è stato tuttavia avvistato un solo esemplare (Piras, 2008).
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suoi confronti operazioni di controllo numerico qualora si renda responsabile di danni. Nel luglio del 2010, dato:
“l’elevatissimo numero di segnalazioni di Nutrie nel territorio regionale che comportano altissimi rischi per l’incolumità pubblica e per la salvaguardia delle fitocenosi e biocenosi autoctone minacciate dalla presenza di questa specie aliena e invasiva” (AA. VV., 2010. p. 1)
ha preso avvio un piano di controllo numerico della specie, da attuarsi nelle sei province isolane interessate dalla sua presenza (AA. VV., 2010). Un esempio dei significativi problemi causati dalla nutria può essere dato da quanto avviene ai giorni nostri nel parco del Molentargius, area nella quale i primi avvistamenti della specie risalgono al 2006, e dove secondo le stime15 ne vivrebbero attualmente diverse centinaia di esemplari. Le nutrie infatti operano un’azione di disturbo nei confronti degli uccelli nidificanti a terra nelle loro aree di pascolo, e
entrano in diretta
competizione alimentare con il pollo sultano (Porphyrio porphyrio), specie avicola rara e protetta, strettamente dipendente dagli ambienti acquatici16. L’attività di scavo della nutria causa poi danni considerevoli agli argini dei canali di irrigazione e di drenaggio idrico, ponendo anche in comunicazione tra loro tipi di acque differenti. La specie infine è portatrice secondaria di leptospirosi (Chiozzi e Venturini, 2008; AA. VV., 2010), riscontrata anche su esemplari in territorio italiano su circa la metà dei soggetti esaminati (Moniello, 2005). L’azione di controllo e se possibile di eradicazione della nutria verrà esplicata, nel caso specifico del Parco del Molentargius, tramite la cattura del maggior numero di esemplari possibile mediante l’utilizzo di trappole e la successiva soppressione degli esemplari catturati con iniezioni letali (AA. VV., 2010). Tale sistema della soppressione mediante eutanasia già da anni è stato indicato come il migliore per il controllo della specie a livello nazionale, sebbene anche a fronte delle numerose polemiche che ne sono derivate, si stia procedendo allo studio degli effetti sul contenimento della popolazione dati dalla sterilizzazione, chimica o chirurgica, che nei decenni passati ha dato buoni risultati su diverse specie di Canidi, Felidi, e altri Roditori (Chiozzi e Venturini, 2008).
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Non è stato ancora effettuato alcun censimento della specie in quest’area (Cocco, 2010). La nutria è fortemente adattabile dal punto di vista alimentare, e sebbene la sua dieta contempli modificazioni stagionali, le specie vegetali preferite sono quelle tipiche delle zone umide, le varie specie delle comunità di fragmiteti e in particolare il Phragmites communis, e altre come Carex riparia, Sparganium erectum, Typha spp., Iris pseudacorus, Nuphar lutea, Salix spp., per citarne alcune (Cocchi e Riga, 2001). 16
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3. Specie significative della fauna selvatica sarda.
Sono stati scelti come specie campione significative della fauna sarda alcuni animali facenti parte della Macrofauna, per un totale di 5 specie, di cui 4 di Mammiferi: cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus), daino (Dama dama), muflone (Ovis orientalis musimon), cinghiale (Sus scrofa meridionalis), e una di Uccelli: grifone (Gyps fulvus), in quanto questi animali hanno tutti risentito in maniera particolarmente evidente dell’azione antropica sul loro ambiente. Questa azione, come abbiamo visto, è spesso molto antica, e riguarda sovente, allargando la panoramica anche a molta parte del rimanente popolamento animale della Sardegna, anche la presenza stessa di queste specie nell’isola, mediante la loro introduzione, volontaria o meno, da parte dell’uomo. Per inverso, l’uomo ne ha talvolta determinato la totale scomparsa, o una forte riduzione degli areali di presenza e del numero di esponenti. Talaltra, sono stati al contrario diversi fattori legati in varia misura alle attività antropiche ad aver determinato il forte incremento demografico di una specie e ad averne esteso l’areale originario, con effetti anche nocivi sull’ambiente. Di ciascuna di queste 5 specie verranno forniti alcuni brevi dati introduttivi che ne consentano una rapida identificazione e si traccerà poi, per quanto possibile, un quadro della loro differente diffusione sul territorio isolano nel corso delle epoche preistoriche e storiche e dell’andamento della loro consistenza numerica, analizzando le cause che li hanno prodotti. Infine verranno prese in esame le varie misure di controllo messe in atto dall’uomo sia a livello legislativo che operativo su questi animali; misure che non sono unicamente di tutela ma che prevedendo una vera e propria pianificazione demografica della fauna selvatica rientrano in un quadro più ampio di gestione e mantenimento del territorio.
3.a. Alcune metodologie e problematiche inerenti i censimenti animali.
Prima di fornire dati di qualsiasi tipo sulla consistenza numerica delle diverse specie in esame nel corso delle varie epoche, si ritengono opportune alcune precisazioni. In primo luogo, stime e censimenti precisi e verificabili sono disponibili unicamente per i periodi storici più recenti; per gli altri verranno fornite, qualora disponibili, quantificazioni numeriche non più verificabili o dati che riguardano la consistenza demografica di una specie per via indiretta (come ad esempio il numero di 20
esemplari uccisi in un dato anno o periodo), tenendo presente che anche per questi dati valgono le stesse riserve appena esposte per le valutazioni demografiche. Si darà ora un rapido quadro di alcune delle metodologie attualmente in uso nei censimenti degli animali qui studiati, in quanto funzionali a una migliore comprensione dei dati forniti, specie per specie, nei paragrafi successivi.
Nel caso specifico del cervo sardo occorrerà tenere presente che, per dirla con Schenk:
“data la quasi impossibilità di effettuare un censimento diretto a causa del particolare habitat del Cervo sardo, costituito da una folta macchia – foresta” (Schenk, 1976, p. 518)
il metodo del conteggio mediante la registrazione del bramito sembra essere il più adatto a fornire dati oggettivi sulla consistenza numerica della sua popolazione (Schenk, 1976). Tale sistema, oggi adottato regolarmente in diversi parchi naturali anche nel resto d’Italia (Murgia et al., 2005) consente infatti di ricavare una media approssimata del numero di esemplari maschi bramitanti di cervo presenti in una data area, sulla base dei richiami da questi prodotti nel periodo riproduttivo, registrati in appositi punti di ascolto, anche, come accade in altre Regioni, con la collaborazione di volontari (Concas, 1993). Da questo primo censimento dei maschi bramenti è poi possibile ricavare, mediante l’elaborazione di un cosiddetto “indice sessuale” (Schenk, 1976)17 , una attendibile stima numerica della popolazione restante. Nel caso specifico della Riserva WWF del Monte Arcosu, tale stima è stata ricavata secondo la formula (Murgia et al., 2005 b, p. 38):
(n. maschi adulti censiti / % maschi adulti nella struttura) x 100 = consistenza totale della popolazione
Questo sistema, a titolo di esempio, è stato utilizzato anche nell’ultimo censimento di cervi sardi svoltosi nella riserva di Monte Arcosu tra il 10 e il 17 settembre 2011 con l’impiego di volontari, i cui risultati devono ancora essere pubblicati (AA. VV., 2011). Un altro metodo di censimento utilizzato per determinare la consistenza numerica e la densità della popolazione degli Ungulati ruminanti non territoriali (quali appunto sono cervo e daino) in una data zona è il cosiddetto metodo del tasso di accumulo fecale: questi animali sono infatti caratterizzati da un frequente ritmo di defecazione, per cui è possibile, contando il numero di escrementi accumulatisi in un’area in un dato periodo di tempo, risalire al numero degli esemplari che frequentano tale area (Murgia et al., 2005 a). Anche in questo caso il calcolo viene effettuato 17
Lo Schenk ricorda come già D. Jenkins avesse proposto questo metodo (Schenk, 1986, p. 518).
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mediante una formula precisa; sempre facendo riferimento alla Riserva WWF di Monte Arcosu (Murgia et al., 2005 a, p. 28): n. cervi per km2 = (n. escrementi per ha al giorno / n. escrementi per cervo al giorno) x 100
Relativamente al caso specifico del muflone, va poi tenuto presente come per lungo tempo gli studi sulla struttura e la dinamica della popolazione della specie siano stati piuttosto carenti a livello internazionale, e persino del tutto assenti per l’unica regione europea, la Sardegna, dove storicamente questo animale è stato ritenuto autoctono, almeno fino alla pubblicazione alla fine del 2006 del Progetto di ricerca sull’etologia del muflone (Ovis orientalis musimon) in ambiente mediterraneo, nel quale ne viene presa in esame la dinamica demografica nell’area della Foresta Demaniale di Montes, nel territorio di Orgosolo (Ciuti et al., 2006). La metodologia ormai consolidata di censimento del muflone avviene, anche al di fuori dell’areale originario, dopo le nascite primaverili, periodo nel quale gli animali sono più stanziali, e si basa sull’individuazione di punti di osservazione fissi, detti transetti, nelle zone potenzialmente frequentate da questi animali, punti ai quali vengono poi assegnati uno o più rilevatori che nelle ore diurne effettuano un conteggio a vista degli esemplari. Al fine di evitare doppi conteggi, i rilevatori si servono di apposite schede di osservazione che permettono una rapida ripartizione degli esemplari per classi di età, e gli stessi dati ottenuti vengono poi sottoposti a valutazione critica in modo da giungere alla stima del numero minimo di esemplari presenti (Tasca, 2007). Per quanto riguarda invece il cinghiale, la procedura di censimento più attendibile risulta essere quella di foraggiamento di siti frequentati dalla specie, definiti sulla base del rinvenimento di segni di presenza ben precisi, come impronte, fregature su tronchi, rooting18, presenza di escrementi. Tali siti, una volta individuati, vengono foraggiati regolarmente per un dato periodo di tempo, in modo che gli animali vi si radunino per nutrirsi a orari stabiliti; si procede quindi al conteggio a vista dei singoli esemplari (AA. VV., 2010). Tuttavia, per quanto in aree circoscritte il censimento del cinghiale mediante foraggiamento dia buoni risultati, secondo il rapporto del 2009 dell’I.S.P.R.A., l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, la metodologia migliore, in termini di costi, in grado di fornire una stima accettabile della popolazione di questo animale è rappresentata dall’analisi degli indici di fertilità, ottenuti mediante apposite analisi sulle femmine abbattute in una determinata zona. Tale metodologia è stata tuttavia nel tempo applicata per l’Italia soltanto in maniera episodica, tanto che
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Ovvero le grufolate, l’attività di scavo dell’animale.
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ancora oggi mancano dati certi sulla consistenza numerica del cinghiale a livello nazionale (AA. VV., 2009). Venendo invece alla distribuzione sul territorio di queste specie, va premesso che la stessa determinazione degli areali di diffusione porta con se una serie di problematiche, riconducibili principalmente alla eterogeneità e talvolta incompletezza dei dati forniti. Data la difficoltà a reperire dati ufficiali sulla consistenza numerica e sulla distribuzione di queste specie a livello nazionale, si riportano qui i dati forniti da Apollonio, limitatamente a 3 delle specie che verranno prese in esame in seguito19, dai quali emerge come questa distribuzione sia piuttosto difforme: la specie più diffusa è il cinghiale, attestato al momento dello studio dell’autore nell’83,5% delle province, seguito dal daino con il 52,4%, e dal muflone con il 32% (Apollonio, 2004).
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Abbiamo escluso il cervo perché la sottospecie sarda, oltre a essere distinta dal punto di vista tassonomico dalla forma continentale, presenta caratteristiche e dinamiche proprie, mentre cinghiale, cervo e muflone, come meglio si vedrà più avanti, offrono una serie di problematiche e casistiche che interessano anche il resto del territorio nazionale.
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3.b. Cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus, Erxleben, 1777).
3.b.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione.
Il cervo sardo, il più grande Mammifero della Sardegna (Schenk, 1984), è la sottospecie sardo – corsa del cervo rosso europeo (Cervus elaphus elaphus, Linnaeus, 1758), da cui si differenzia principalmente per le minori dimensioni corporee e il minor numero dei puntali delle corna
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(Beccu 1993 a; Colomo, 2008). Questo animale popola in maniera quasi esclusiva aree boscose e di macchia evoluta, e dall’analisi dei suoi resti nei siti nuragici in cui veniva cacciato, è stato possibile risalire per via indiretta al tipo di copertura vegetale che interessava una data zona (Carenti e Wilkens, 2006). Questa predilezione per le aree boschive ha probabilmente influenzato una certa discontinuità nel suo areale, ridottosi in modo considerevole, come si avrà modo di verificare, soltanto in tempi storici abbastanza recenti.
Fig. 1 Cervo sardo (fonte: Pratesi e Tassi, 1986, p. 240).
Anche se l’origine della specie nell’isola è imputabile a una probabile immissione antropica, data, come già detto (si veda a p. 15) la mancanza di testimonianze fossili del Quaternario (Colomo, 2008), non si possiedono dati certi sulle modalità della sua provenienza: tra le varie ipotesi, è stato 20
A proposito delle differenze tra il cervo sardo e quello europeo, Cetti espone il suo ragionato uso delle fonti classiche, che lo porta a equiparare la forma sarda al cervo descritto da Aristotele nella sua Historia animalium (Cetti, 2000, pp. 112 – 113).
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proposto che il cervo sia giunto in Sardegna durante la seconda glaciazione o nel periodo interglaciale Riss – Wurm, servendosi del corridoio offerto dall’arcipelago toscano e dal ponte sardo – corso, o che appunto sia stato importato circa 8000 - 10000 anni fa dai primi colonizzatori umani (Beccu, 1993 a).21 Secondo altri questa introduzione sarebbe più recente e risalirebbe a un periodo compreso tra il 1200 e 700 a.C. (Cubeddu et al., 2006). A ogni modo, stando a Beccu, già a partire dal XV – XIV secolo a.C. la numerosa presenza di reperti ossei ne testimonia la presenza nell’isola, documentata poi in epoca romana, bizantina, giudicale, spagnola, fino ai giorni nostri (Beccu, 1993 a). All’inizio del Novecento il cervo sardo era ancora reperibile in pressoché tutti i principali massicci montuosi dell’isola, sebbene alla vastità del suo areale non corrispondesse ormai che una scarsa densità di popolamento (Schenk, 1976; Murgia et al., 1993). La sua presenza attorno agli anni Venti del secolo scorso viene confermata da Schenk nel massiccio del Limbara, nell’Altopiano di Buddusò, nelle zone boscose del Monte Albo e del Monte Senes nel territorio di Siniscola, nei Monti di Alà, nelle serre nel territorio di Orani e di Orotelli, in parte del Supramonte di Oliena e di Orgosolo, nei Monti di Talana, nelle zone boscose del territorio di Baunei, nell’alta valle del Flumendosa, nel Sarcidano e nel Monte Arci, nei monti di Tertenia, in alcune zone boschive del Gerrei e del Sarrabus, nel Monte Ferru di Cuglieri, nella valle del Temo e lungo la costa occidentale del Bosano (Schenk, 1976). Sempre nello stesso periodo tale presenza è data invece come probabile, in mancanza di dati certi, nelle zone boscose del Marghine (Schenk, 1976; Schenk et al., 1995), del Goceano e del Sassarese (Schenk, 1976). L’areale della specie era però destinato a ridursi in modo drastico nel corso del secondo conflitto mondiale e nell’immediato dopoguerra:
“coprendo soltanto nel Sulcis e nel Sarrabus zone di notevole estensione” (Schenk, 1976, p. 517).
Piccoli nuclei di popolazione resistevano ancora nell’Altopiano di Buddusò, nel Monte Senes, nei monti di Tertenia e fino al 1948/50 nella zona di Murdegu, da cui scomparvero a causa del bracconaggio. Nel 1956 si stimava una popolazione totale di 300 esemplari di cervo sardo, e quattro anni più tardi ne vennero censiti 200 capi nel massiccio dei Sette Fratelli, nei monti di Capoterra, di Assemini e della zona sulcitana (Schenk, 1976). Come riferito sempre da Schenk, i primi dati di 21
Si ritiene opportuno sottolineare al proposito come il cervo (e non solo nel caso specifico di quello sardo) abbia rivestito una notevole importanza nelle economie preistoriche basate sulla caccia, non soltanto come fornitore di carne, ma anche di ossa lunghe e corna utilizzate nella realizzazione di diversi oggetti. Le corna in particolare, data la flessibilità e la possibilità di essere lucidate, trovavano impiego anche nella realizzazione di oggetti ornamentali, e ridotte in polvere venivano utilizzate come prodotto medicinale e cosmetico. Proprio grazie all’importanza assunta dal corno, venivano in Sardegna cacciati di preferenza esemplari adulti di sesso maschile (Carenti e Wilkens, 2006).
25
notevole attendibilità sulla distribuzione di questa specie sono stati registrati in due lavori di D. Jenkins, del 1967 e del 197222. Jenkins, pur non fornendo dati precisi sulla consistenza numerica totale della specie, riferisce che nel 1967 erano ancora occupati dal cervo sardo circa 6400 ha nella parte sud orientale dell’isola, nel massiccio dei Sette Fratelli, circa 10000 ha nella parte sud occidentale presso Capoterra, e una terza zona non misurata quanto a estensione popolata dal piccolo gruppo di animali di Montevecchio23. F. Pratesi24 effettuò, sempre nel 1972, nel mese di settembre25 (Schenk, 1976), un censimento basato sul bramito degli esemplari facenti capo all’areale sud occidentale di distribuzione della specie, segnalando come certi 14 esemplari maschi bramitanti nella riserva di Monte Arcosu e circa 9 tra la località Is Antiogus e la riserva di Monte Nieddu, ricavandone per ipotesi che nella zona fossero presenti complessivamente circa 140 esemplari. Il declino numerico della specie quindi si è andato accentuando in modo ancor più considerevole che nel passato negli anni Sessanta – Settanta del Novecento, quando se ne stimava una popolazione complessiva di appena 210 – 230 esemplari, circoscritti alla sola parte meridionale dell’isola nei tre areali del Sulcis, del Sarrabus e dell’Arburese (Beccu, 1993 a), come mostrato nella fig. 2. Tra le principali concause della regressione del cervo sardo ricordiamo:
-
gli intensi disboscamenti effettuati tra la seconda metà dell’Ottocento26 e i primi decenni del Novecento, con la conseguente perdita dell’ habitat particolare cui la specie è legata;
-
gli incendi;
-
l’accrescersi della pressione pastorale;
-
il bracconaggio incontrollato;
-
il prelievo venatorio che si è rivelato negli ultimi secoli particolarmente intenso, almeno sino al 1939, anno in cui ,se non altro sulla carta, la caccia al cervo è stata vietata in Sardegna (Beccu, 1993 a).
22
Ovvero: Jenkins D., Red Deer in Sardinia, ciclostilato, Edimburgo, 1967 e Jenkins D., The status of Red Deer (Cervus elaphus corsicanus) in Sardinia in 1967, in: Una vita per la natura: scritti sulla conservazione della natura, in onore di Renzo Vedesott nel cinquantenario del Parco nazionale Gran Paradiso, Tip. Succ. Savini – Mercuri, Camerino, 1972, pp. 173 – 195. 23 A proposito della popolazione di cervi di questa zona si veda anche il paragrafo successivo. 24 Pratesi F., Il cervo in Sardegna, in Una vita per la natura: scritti sulla conservazione della natura, in onore di Renzo Vedesott nel cinquantenario del Parco nazionale Gran Paradiso, Tip. Succ. Savini – Mercuri, Camerino, pp. 241 – 248. 25 Nel cuore cioè del periodo degli accoppiamenti, che per questa specie interessa i mesi di agosto, settembre, ottobre (Colomo, 2008). 26 Già il Valery, nel suo Voyage en Corse, à l’ìle d’Elbe et en Sardaigne, pubblicato per la prima volta nel 1837, riportava a proposito della Sardegna come: “La conservazione delle foreste è qui molto trascurata, pressoché nulla” (Valery, 1999, p. 48).
26
La popolazione del cervo sardo tuttavia, grazie a una serie di misure protezionistiche portate avanti dall’Ente Foreste Sardegna e da varie associazioni private (si veda al riguardo da p. 29), come un maggiore controllo del territorio e l’allontanamento del bestiame domestico da almeno alcune delle aree di pascolo della specie, ha registrato in seguito un continuo aumento, passando dai 210 - 230 capi che si è visto sono stati stimati da Schenk alla metà degli anni Settanta (Schenk, 1976), ai circa 300 capi nel 1984, e questo a dispetto di un persistente prelievo venatorio di frodo, che nello stesso periodo determinava la morte di circa 30 - 60 capi all’anno (Schenk, 1984). Nel 1988 venivano stimati circa 700 – 800 esemplari (AA. VV., 2009), per arrivare ai 1000 - 1100 capi censiti nel 1992 (Beccu, 1993 a).
Fig. 2 Progressiva restrizione dell’areale di diffusione del cervo sardo (fonte: Beccu, 1993 b, p. 194).
Il saldo in positivo della popolazione di cervo sardo è ancora aumentato a partire dalla fine degli anni Ottanta in poi, tanto che nel 2005 la popolazione complessiva si aggirava sui 6500 capi, distribuiti negli areali del Sarrabus, del Sulcis, dell’Arburese, del Monte Lerno nel territorio di Pattada e del Monte Linas nel territorio di Villacidro (Cubeddu et al., 2006), fino ad arrivare agli oltre 7000 esemplari censiti nel 2006 (Colomo, 2008). A dispetto però di questo incremento numerico, attualmente i vari areali di popolamento sono distanti tra loro e mancano di quei corridoi di collegamento che permetterebbero il naturale rimescolamento genetico tra gli esemplari. Stando infatti all’ultimo censimento disponibile per la specie, pubblicato dall’Ente Foreste Sardegna nel 2009 (AA. VV., 2009), il cervo sardo è reperibile in modo discontinuo sul territorio isolano, in aree 27
che appunto non consentono il naturale incontro tra le popolazioni. Possiamo suddividere queste aree in tre gruppi, distinti sulla base dell’origine delle popolazioni di cervo ospitate: il primo comprende gli areali dove tuttora vivono le cosiddette popolazioni naturali27, ovvero Arburese, Sulcis e Sarrabus, tutte interessate da un notevole incremento demografico; il secondo le aree nelle quali la specie è stata reintrodotta in tempi recenti, dopo esservisi estinta, a partire da esemplari prelevati dalle zone del primo gruppo secondo un piano organizzativo preciso; il terzo, areali nei quali è attestata la presenza della specie allo stato libero con popolazioni originatesi dalla fuga di esemplari da altre aree protette. Tra le prime aree del secondo gruppo ad essere istituite, il Montimannu (Villacidro), il Monte Lerno (Pattada) e il Monte Olia (Monti), dove dalla fine degli anni Ottanta sono state ricostruite alcune popolazioni in seguito alla creazione di apposite aree faunistiche. Dal 2009 ha preso avvio la reintroduzione della specie nelle Foreste Demaniali di Montarbu (Seui) e nel territorio del comune di Ussassai. Venendo infine al terzo gruppo, a partire da esemplari fuggiti dai recinti di ambientamento degli animali destinati alla reintroduzione, segnaliamo come negli ultimi anni si siano costituite due popolazioni libere di cervo sardo, una nel Monte Arci (Usellus), l’altra nei monti dei comuni di Santulussurgiu e Seneghe (AA. VV., 2009). N.
Area
Superficie in km2
Postazioni di osservazione
Cervi bramenti
Cervi totali
1
Settefratelli - Castiadas
74,8
58
299
1495
2
Sulcis
128,3
102
356
1780
3
Arbus - Montevecchio
44,2
30
121
605
4
Monte Lerno
24,0
21
39
273
5
Montimannu
18,3
13
52
260
6
Recinti
-
-
-
500
289,6
224
867
4874
Totale:
Tab. 1 Dati del censimento 2009 del cervo sardo relativamente alle aree gestite dall’Ente Foreste della Sardegna (fonte: AA. VV., 2009, p. 5).
Un’ultima popolazione di cervo sardo è infine localizzata nel territorio di Villasalto, in un’area recintata della superficie di circa 600 ha, dalla quale, sempre nel censimento del 2009, non si esclude possano essere avvenute ulteriori fughe di esemplari in natura (AA. VV., 2009). Riportiamo per praticità di consultazione i dati del censimento in questione nella tab. 1.
27
Quelle popolazioni cioè per le quali, al di là della consueta azione di tutela, non si è esercitata un’azione di ripopolamento su un’area in cui la specie non era più presente.
28
Va precisato che il censimento è stato eseguito unicamente nei territori gestiti dall’Ente Foreste della Sardegna, relativamente alle aree del Monte Lerno (Pattada), del Sulcis, del Sarrabus, dell’Arburese – Montevecchio, del Montimannu (Villacidro), del Monte Arci (Usellus), e manca quindi dei dati relativi alla Riserva W.W.F. di Monte Arcosu (per maggiori informazioni si veda al paragrafo successivo). Il censimento è stato eseguito secondo il metodo del conteggio al bramito, per l’approfondimento del quale si rimanda a p. 21.
3.b.2. Misure di tutela e gestione.
La prima azione legislativa di tutela del cervo sardo si ebbe nel 1939, anno in cui, come già osservato, se ne vietava formalmente la caccia in tutta l’isola (Beccu, 1993 a), senza però che a questo atto giuridico seguisse di fatto un’azione vera e propria di tutela dell’animale. Il declino della specie, andatosi accentuando nei decenni successivi a tale legge, fece si che il cervo sardo venisse incluso, alla fine degli anni Sessanta, nel Red Data Book dell’ I.U.C.N., International Union for Conservation of Nature (o Unione Internazionale per la Conservazione della Natura e delle Risorse Naturali), dove è considerato come specie minacciata di estinzione a livello mondiale (Schenk, 1984). Nel corso degli anni Ottanta prese avvio un programma di tutela della specie portato avanti dall’Azienda delle Foreste Demaniali della Provincia di Cagliari, che prevedeva anche un programma di riproduzione controllata a partire da esemplari catturati e mantenuti in condizioni di cattività (Schenk, 1984), come evidenziato nella fig. 3, nella quale vengono segnalati gli otto recinti operativi nei primi anni Novanta (Beccu, 1993, b). Fondamentale per la salvaguardia della specie è stato poi l’acquisto nel 1984, da parte del W.W.F., del comprensorio di Monte Arcosu - Monte Lattias, territorio fino a poco prima costituente una riserva di caccia privata, e interessato, una volta dismessa quest’ultima, da frequenti episodi di bracconaggio (AA.VV., s.a.). L'acquisizione della prima parte della riserva, circa 3000 ha nel Monte Arcosu, è avvenuta grazie alla partecipazione dei Soci W.W.F., della cittadinanza e della C.E.E., che hanno contribuito finanziariamente all'acquisto della tenuta per una somma complessiva di 602 milioni di lire, in seguito a una sottoscrizione popolare lanciata dallo stesso W.W.F (Ghirra, 2005). Si è quindi provveduto a organizzare la gestione dell'area mediante operazioni di custodia, ripristino dell’approvvigionamento di acqua ed energia elettrica, ristrutturazione di caseggiati, rifacimento di recinzioni. Il fenomeno del bracconaggio è stato drasticamente limitato mediante
29
operazioni quotidiane di controllo visivo del territorio e la rimozione di migliaia di cavi di acciaio utilizzati per la cattura illegale, oltre che dei cervi, anche dei cinghiali.
Fig. 3 Carta dell’areale di distribuzione di cervo sardo, muflone e daino con evidenziati i recinti di riproduzione controllata del cervo sardo attivi nel 1992 (fonte: Beccu, 1993 b, p. 195).
Nel 1995, grazie al contributo della Campagna Foreste del W.W.F., sono stati acquistati e integrati nella riserva altri 600 ettari, situati sulle pendici del Monte Lattias (AA.VV., s.a.), che fanno dell’area protetta di Monte Arcosu la più estesa riserva naturale del W.W.F. in Italia (Ghirra, 2005). Due anni più tardi, nel 1997, il comprensorio di Monte Arcosu ha dato avvio al primo programma di gemellaggio per la tutela ambientale mai realizzato nel Mediterraneo, insieme all’area protetta tunisina di El Feija, istituita nel 1965 (dal 1990 Parco Nazionale) ai fini della tutela del cervo berbero (Ghirra, 2005). L’oasi è attualmente la più importante anche tra le varie zone che entreranno a far parte del futuro Parco del Sulcis che:
“con i suoi 68.868 ettari, è il più esteso tra i futuri Parchi Naturali Regionali individuati dalla Legge Regionale n. 31 del 7 giugno 1989” (Bacchetta, 2008).
Sebbene l’Ente Parco non sia stato ancora istituito, tuttavia una cospicua porzione del territorio interessato, tra cui appunto l’intera riserva di Monte Arcosu, è già sottoposta a protezione in quanto 30
proprietà della Azienda Foreste Demaniali della Sardegna e del W.W.F. (Bacchetta, 2008), come evidenziato nella fig. 4, alla pagina seguente. Tra gli organismi preposti alla tutela del cervo sardo, oltre all’Azienda delle Foreste Demaniali e al W.W.F. più volte citati, figura anche l’ELAFOS, Associazione nata il 4 dicembre 1990, composta da cacciatori e amanti della natura facenti capo alla 18° Comunità Montana, che secondo l’articolo 3 del proprio statuto si propone:
“operando d’intesa con le autorità preposte, di tutelare l’ambiente, flora e fauna ed in particolare di contribuire alla salvaguardia del Cervo sardo nell’areale di Montevecchio – Costa Verde” (Concas, 1993, p. 309)
Tale areale occupa una superficie di circa 8000 ettari, compresi per il 90% nel territorio del comune di Arbus e per la restante parte, quasi interamente contigua alla precedente, nel territorio del comune di Guspini. Le attività dell’Associazione comprendono principalmente lo studio del territorio, un monitoraggio visivo il più possibile esteso degli esemplari presenti, il censimento degli stessi mediante il bramito, la diffusione di materiale informativo sulla specie e l’opera di sensibilizzazione rivolta nello specifico agli addetti al settore agro-pastorale della zona interessata dalla sua presenza (Concas, 1993). Alcuni autori, principalmente negli scorsi decenni, hanno visto nell’ incremento numerico della specie una serie di prospettive offerte dalla possibilità di utilizzare il cervo sardo come animale in grado di rivalutare anche da un punto economico, oltre che ambientale, aree considerate marginali. Allevamenti di fauna selvatica sono da tempo una realtà produttiva anche in ambito extraeuropeo. Per limitarci ad alcuni esempi, inerenti il cervo o comunque altri Ungulati ad esso affini, ricorderemo con Latte che:
“in Nuova Zelanda l’allevamento di cervi (oltre 250 mila capi) ha in parte sostituito quello ovino, con risultati economici largamente più convenienti” (Latte, 1993, p. 203).
Come riportato dallo stesso autore, nell’Europa centrale, già a metà degli anni Novanta, una oculata gestione della fauna grossa e una attenta salvaguardia ambientale consentivano il mantenimento in condizioni di libertà di un consistente numero di cervi, daini, caprioli, cinghiali a dispetto di un considerevole prelievo venatorio che sempre Latte, per i soli cervi, riferisce essere di 35000 capi abbattuti annualmente (Latte, 1993).
31
Al di là di questi aspetti, comunque dibattuti, inerenti lo sfruttamento della fauna selvatica tramite la caccia, va osservato che:
“a fronte […]dell’aumento della popolazione del cervo negli ultimi anni si stanno verificando una serie di problematiche legate sia all’incidentistica stradale provocata dal cervo stesso, sia a danni agli erbai delle aziende zootecniche che confinano con le zone più popolate” (Cubeddu et al., 2006, p. 2).
Fig. 4 La Riserva WWF di Monte Arcosu (in verde più scuro) inquadrata nel complesso del Parco del Sulcis (fonte: Dessì, 2006, da www.wikipedia.org).
Senza entrare nel merito delle questioni giuridiche riguardanti il risarcimento dei danni e degli incidenti stradali causati dal cervo sardo, ricorderemo che, tra i possibili rimedi a monte, sono stati proposti: la recinzione delle aree popolate da cervi con materiali adatti 32
“tali da mantenere il loro habitat naturale, rispettando peraltro quei concetti di tutela del benessere degli animali previsti dalle normative vigenti” (Cubeddu et al., 2006, p. 4), l’adeguamento della segnaletica stradale nelle zone più frequentate dalla specie28 e, infine, un’opera di informazione rivolta agli agricoltori che abbiano subito danni, in modo che possano più agevolmente usufruire dei risarcimenti da parte della Regione Sardegna (Cubeddu et al., 2006).
Attualmente il cervo sardo fa parte della lista delle specie particolarmente protette dalla Legge Nazionale n. 157/92 e dalla Legge Regionale n. 23/1998, della lista di specie degli allegati B e D della Direttiva Habitat – 92/43/CEE, ed è incluso negli allegati II e III della Convenzione di Berna del 1979 (Colomo, 2008).
28
La segnaletica stradale, oltre a indurre una maggiore prudenza da parte degli automobilisti, permette inoltre di applicare il criterio di valutazione delle responsabilità da parte del guidatore, che porterebbe a una riduzione delle spese per i risarcimenti da parte della Regione (Cubeddu et al., 2006).
33
3.c. Daino (Dama dama, Linnaeus, 1758).
3.c.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione.
Il daino presente in Sardegna non forma sottospecie a se. Esso è distinguibile dal cervo sulla base di alcune caratteristiche fisiche ben definite, come le minori dimensioni, la coda più lunga in relazione al corpo, la presenza nelle corna del tipico apice allargato a forma di pala29, e una certa variabilità cromatica del manto, tra cui spicca la forma di mantello estivo più diffusa e tipica, caratterizzata da macchie bianche su sfondo bruno - fulvo (Colomo, 2008).
Fig. 5 Daino (fonte: www. etc.usf.edu/clipart).
Il daino comune europeo (Dama dama dama) costituisce, insieme al raro daino persiano, o daino di Mesopotamia (Dama dama mesopotamica), presente unicamente in alcune zone dell’Iran, una delle due sottospecie di daino selvatico, ed è con tutta probabilità il Cervide la cui distribuzione spaziale sia stata maggiormente influenzata dall’uomo. Tale influenza si è esercitata a tal punto che
29
Cetti così riporta un singolare utilizzo nei Campidani delle pale delle corna di daino: “l’ampiezza della palma è si notabile, che il Campidanese ammollitala nell’acqua ne fa suole alle sue scarpe per ballare più sonoramente nel prasciere, alla armonia de’ tamburi, e delle lionedde” (Cetti, 2000, p. 115).
34
attualmente sono riscontrabili varie forme fenotipiche semiselvatiche della specie (Massetti, 2008), come si vedrà più avanti in riferimento anche alla popolazione isolana di questo animale. Il daino, così come il cervo, è stato introdotto in Sardegna ad opera dell’uomo, e sebbene vi abbia conosciuto una diffusione davvero notevole, tanto che a metà del Settecento l’isola era una delle regioni italiane con la maggiore densità di questi animali (Colomo, 2008), pure la cronologia della sua comparsa, in Sardegna come in Corsica, è ancora poco conosciuta (Massetti, 2008). Massetti riferisce che per Azzaroli, la sua introduzione sarebbe avvenuta in età post - pleistocenica, sebbene sulla base delle conoscenze odierne le più antiche datazioni certe dei reperti ossei non vadano più indietro del XIV secolo d.C. (Massetti, 2008). A ogni modo, Cetti indicava questi animali come numerosissimi30 al suo tempo, anche a dispetto di un prelievo di capi per scopi venatori piuttosto considerevole: sempre Cetti afferma che nella seconda metà nel XVIII secolo venivano abbattuti in Sardegna una media di 3000 esemplari di daino all’anno (Cetti, 2000). A metà Ottocento l’areale di distribuzione del daino in Sardegna era però ancora notevolmente esteso, come del resto quello del cervo sardo nel medesimo periodo e nei decenni immediatamente successivi. Può essere utile al proposito confrontare la carta riportata nella fig. 6 che segue con l’analoga carta della distribuzione del cervo nel medesimo periodo storico a p. 27, anche perché verrà così evidenziata in modo immediato la maggiore adattabilità del daino rispetto al cervo e la sua preferenza per ambienti di pascolo più aperti. Nel secondo decennio del secolo XX, Concas Vacca, nel riportare la testimonianza di Cetti sulla rilevante consistenza numerica di questo animale, si limita nella voce sul daino a un lapidario commento sull’impoverimento faunistico e boschivo dell’isola ai suoi tempi, senza fornire altri dati, ma altrove nella stessa opera non manca di sottolineare anch’egli il ruolo assunto dalla caccia nella rarefazione della specie (Concas Vacca, 1916). Alla metà del XX secolo la popolazione del daino in Sardegna era ormai a ogni modo pesantemente compromessa, in maniera assai più grave rispetto a quella del cervo: nel 1956 si calcolava ne rimanessero appena 100 esemplari, ridottisi appena quattro anni dopo a soli 20 – 30 capi, localizzati nella zona dei Sette Fratelli e di Capoterra (Schenk, 1976). Gli ultimi avvistamenti di gruppi sparuti di esemplari datano al biennio 1968 - 1969: tre o quattro esemplari sono stati censiti nel Cagliaritano nel 1966, quattro femmine e un maschio sono stati ripetutamente osservati nella zona di Castiadas nel 1966 - 1967, un maschio solitario nei Monti di Capoterra nel periodo dal 1965 al 1968, quattro esemplari nell’area di Montearbu fino al 1967 - 1968, e infine un esemplare
30
Per dirla con le parole dell’autore: “sì fattamente poi il possiede la Sardegna, che il possiede in quantità grandissima, e secondo alcuni in maggior numero del cinghiale medesimo” (Cetti, 2000, p. 115).
35
maschio (l’ultimo della zona) è stato abbattuto a Castiadas nel 1968. L’anno successivo la specie venne ritenuta estinta in Sardegna. (Schenk, 1976).
Fig. 6 Areale di distribuzione del daino alla metà del secolo XIX (fonte: Beccu, 1993 b, p. 200).
Il declino della specie in Sardegna è da imputarsi principalmente al bracconaggio, alla progressiva riduzione dell’ habitat (Schenk 1976, Colomo 2008), allo sviluppo della viabilità campestre e alla conseguente maggiore accessibilità da parte dei bracconieri di zone dell’areale della specie prima difficilmente raggiungibili (Schenk, 1976).
3.c.2. Misure di tutela e gestione.
Il daino è stato reintrodotto in Sardegna intorno alla metà degli anni Settanta grazie all’operato della A.F.D.R.S., l’Azienda delle Foreste Demaniali della Regione Sardegna, a partire da alcuni esemplari prelevati principalmente dalla foresta demaniale di Follonica nel comune di Grosseto, dalla tenuta di San Rossore nel comune di Pisa (Falchi, 1986) e da Mongiana nel comune di Catanzaro (Beccu, 1993). Lo Schenk riporta, con maggiore precisione, l’esistenza nel 1976 di tre 36
recinti di allevamento, ospitanti nella loro totalità 30 esemplari (di cui però non specifica la provenienza), dislocati nel Monte Marganai in territorio di Iglesias, ad Aritzo e a Capo Caccia (Schenk, 1976). A partire dal 1983 alcuni esemplari, prontamente adattatisi, sono stati rilasciati in piena libertà nelle foreste demaniali di Pixinamanna e di Is Cannoneris nel comune di Pula; la specie è andata da allora estendendo progressivamente il suo areale (Beccu, 1993). Nei primi anni Novanta erano attivi in totale in Sardegna quattro recinti per la riproduzione controllata di questo animale, gestiti dall’A.F.D.R.S. (Beccu, 1993), come evidenziato nella fig. 7. Beccu fornisce inoltre ulteriori informazioni sulla provenienza degli esemplari di ciascuno dei quattro nuclei riproduttivi (Beccu, 1993 b, p. 198), come riportato nella successiva tab. 2, in modo da evidenziare l’eterogeneità degli areali di provenienza dei capi reintrodotti.
Fig. 7 Carta dell’areale di distribuzione di cervo sardo, muflone e daino con evidenziati i recinti di riproduzione controllata del daino nel 1992 (fonte: Beccu, 1993 b, p. 200).
Quanto successo al daino in Sardegna infatti, ovvero la sua estinzione e la successiva reintroduzione da parte dell’uomo, può rappresentare emblematicamente le vicende di questa specie anche nel resto d’Italia. Infatti, le varie popolazioni italiane di daino hanno tutte subito un’elevata manipolazione
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antropica31, con numerosi esempi di estinzioni a livello locale e successive reintroduzioni, che hanno fatto sì che attualmente l’areale della specie si presenti nel complesso fortemente frammentario e sia caratterizzato, come anche nel caso del cervo sardo, dalla presenza di nuclei di popolamento isolati tra loro (AA. VV., 2009).
N.
Prov.
Complesso forestale
Comune e località
Superficie ha
Provenienza capi
1
CA CA
3
NU
Pula Loc. Monte Sali Pula Loc. Is Cannoneris Seui
*
2
4
SS
F.D. Pixinamanna F.D. Is Cannoneris F.D. Montarbu F.D. Su Filigosu
Follonica (GR). Follonica (GR). F.D. Mongiana (CZ) San Rossore (PI) Follonica (GR)
Oschiri Loc. Su Filigosu
* 150 100
Tab. 2 I complessi forestali interessati dal programma di riproduzione controllata del daino nel 1993 e l’areale di provenienza degli animali importati allo scopo (fonte: Beccu, 1993 b, p. 200).
Attualmente gli areali di popolamento più significativi della specie in Italia sono concentrati in Toscana, Umbria, nell’Appennino tosco – romagnolo, nelle province di Alessandria e Pavia. Più a sud, nel Gargano, in Basilicata (dove è stato introdotto in tempi recentissimi, a partire dal 2000), e in Calabria, dove sono presenti tre nuclei di popolazione originatisi a seguito alla fuga di esemplari precedentemente mantenuti in condizioni di semi – cattività. In Sardegna, infine, la specie occupa attualmente, in maniera puntiforme, un territorio complessivo di un’estensione di circa 18000 ettari (AA.VV., 2009).
Segnaliamo infine come, a un livello più generale, l’insieme di questi fattori
(tutti dovuti all’azione antropica) operanti sul daino, quali appunto: l’areale di distribuzione di tipo puntiforme, il limitato ricambio genetico, la semi – domesticità, e la conseguente, più o meno volontaria, opera di selezione da parte dell’uomo, che tende talvolta a incoraggiare la presenza di esemplari dalle colorazioni “insolite”, abbiano prodotto nella specie la comparsa di alcune varietà fenotipiche particolari che si sono affiancate a quella ancestrale o common, e che risultano essere ormai piuttosto comuni.
31
Come riportato dall’ISPRA, questa manipolazione è probabilmente databile al Neolitico, quando la specie venne, secondo diversi autori, introdotta dall’uomo in Italia (AA.VV., 2009).
38
Fig. 8 Distribuzione attuale del daino in Italia (fonte: AA.VV., 2009, p. 203).
Queste varietà sono, secondo la nomenclatura anglosassone e nell’ordine riportato nella figura seguente, oltre alla già citata common della prima immagine a sinistra, propria del tipo selvatico originario, la menil o isabella, più chiara della precedente, la white o chiara o bianca e la black o scura (Massetti, 2008). Tali variazioni del mantello sono presenti anche nella popolazione sarda reintrodotta, come attestato dall’immagine successiva, che ritrae alcuni esemplari di daino nella riserva WWF di Monte Arcosu, tra i quali sono chiaramente distinguibili un esemplare del fenotipo black e uno del fenotipo white.
Fig. 9 Le varietà fenotipiche più comuni riscontrabili nel daino allo stato semidomestico (fonte: Massetti, 2008, p. 209).
39
Queste colorazioni del manto sono infatti ormai talmente diffuse da indurre Massetti ad affermare, in riferimento all’areale mediterraneo della specie, che:
“popolamenti con animali unicamente caratterizzati dal fenotipo selvatico sono oggi rintracciabili nella riserva di Duzlercami (Antalya, Turchia) e nei nuclei recentemente costituiti in altre parti dell’Anatolia con effettivi provenienti da quella riserva” (Massetti, 2008, p. 209).
Fig. 10 Esempio di variabilità cromatica del mantello del daino in Sardegna in alcuni esemplari della Riserva di Monte Arcosu (fonte: Dessì, 2007, da www.wikipedia.org).
Il daino è considerato una specie a basso rischio di estinzione ed è catalogato pertanto nella categoria “Least Concern” della lista rossa I.U.C.N., International Union for Conservation of Nature o Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (AA. VV., 2009). Per via della sua considerevole consistenza numerica32, il daino è attualmente cacciabile nella Penisola, secondo la Legge Nazionale n. 157/92, mentre in Sardegna è classificato tra le specie molto rare e tutelato dalla Legge Regionale n. 23/1998 (Colomo, 2008).
32
Secondo il rapporto dell’I.S.P.R.A. del 2009, nel 2005 la popolazione italiana stimata di daino si aggirava attorno alle 21000 unità, con un forte trend di crescita soprattutto nelle aree dell’Appennino tosco – emiliano e delle isole (AA.VV., 2009).
40
3.d. Muflone (Ovis orientalis musimon, Pallas, 1811).
3.d.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione.
Il muflone è una specie endemica diffusa in Sardegna, in Corsica e a Cipro, caratterizzata dalla presenza di grosse corna spiralate ad anelli tipiche dei maschi, rivolte all’indietro, permanenti, e che, nel caso specifico della popolazione sarda, risultano del tutto assenti dalle femmine, fatti salvi rari esemplari con piccoli abbozzi frontali33. La colorazione del manto è variabile in parte in base all’andamento stagionale (nella stagione fredda il mantello tende a scurirsi) e a seconda del sesso, essendo caratterizzata nei maschi di almeno due anni di età dalla cosiddetta “sella”, una porzione di peli bianchi sul dorso più o meno evidente (Colomo, 2008).
Fig. 11 Muflone (fonte: Pratesi e Tassi, 1986, p. 168).
La specie è piuttosto simile per conformazione corporea alla pecora domestica, e proprio a partire dalle riflessioni sulla somiglianza tra le due specie si è sviluppato nei secoli un annoso dibattito sui loro rapporti di parentela, che ha portato alcuni studiosi a considerare il muflone come la forma selvatica dalla quale hanno avuto origine la pecora mediterranea ed europea. Il muflone sardo, 33
Nella popolazione corsa le corna sono presenti invece in una buona percentuale di mufle (Colomo, 2008).
41
anche nell’ambito di questo dibattito, è stato a lungo ritenuto una specie autoctona. Tuttavia, per dirla con Massetti:
“gli egagri e i mufloni che popolano ancora alcune isole mediterranee sono stati considerati tradizionalmente come forme autoctone. Negli ultimi decenni questa visione è stata radicalmente mutata ed oggi possiamo affermare che si tratta invece della progenie di antiche introduzioni operate dall’uomo” (Massetti, 2008, p. 227).
Concas Vacca, partendo come suo solito dalle osservazioni di Cetti anche nel caso di questo animale, ne sottolinea la considerevole riduzione numerica rispetto a un secolo e mezzo prima (Concas Vacca, 1914). Alla metà dello stesso secolo, anche Biagini riferisce di un generico calo numerico della specie rispetto al passato, calo cui sostiene avesse posto un freno la legge del 1924 che ne vietava la caccia, se non a particolari condizioni, senza però fornire ulteriori dati in merito (Biagini, 1948). Un drastico picco nel calo della popolazione di muflone si ebbe tuttavia probabilmente solo alla fine degli anni Sessanta del Novecento, in concomitanza col crollo definitivo della popolazione del daino e la sua totale estinzione dall’isola (si veda a riguardo a p. 36). Il numero complessivo di mufloni sardi per il 1960 veniva stimato tra i 300 e i 360 capi; il raggiungimento del minimo storico della specie si registrò una decina d’anni più tardi, nel 1978, quando vennero censiti nell’isola meno di 300 esemplari. Tuttavia questo numero:
“conseguentemente a una maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica, che ha portato ad una diminuzione del bracconaggio e del pascolo ovino nelle aree interessare, e in seguito alla creazione di numerose aree protette” (Ciuti et al., 2006, p. 6)
era presto destinato ad aumentare in modo considerevole nei decenni successivi, fino a raggiungere i 1500 – 1600 capi stimati nel 1985 (Ciuti et al., 2006). Anche Schenk rileva nello stesso periodo come il muflone abbia subito, soprattutto nel massiccio del Gennargentu, un sensibile incremento demografico, e segnala la presenza di diversi branchi composti ciascuno anche da 60 - 70 capi (Schenk, 1984). Pratesi e Tassi riportano, inoltre, dell’introduzione antropica dei mufloni nell’Asinara34, a partire dalla liberazione di una coppia precedentemente mantenuta in cattività, proveniente da Cagliari, e nell’isolotto di Figarolo, a partire da alcuni esemplari di cui però non specificano la provenienza (Pratesi e Tassi, 1986). Prendendo spunto da queste introduzioni per mano dell’uomo è possibile ricollegarsi a quanto detto da Massetti riguardo le “isole come recinti 34
Come vedremo più avanti, Ciuti specifica come si tratti invece di una reintroduzione (Ciuti et al., 2006).
42
naturali”, dato che, sebbene tale concetto faccia riferimento, nel caso specifico dell’autore, a specie come egagri o lepri, introdotte dall’uomo su piccole isole in modo da garantirsi in caso di necessità un più facile approviggionamento alimentare, pure si ritiene possa risultare interessante ai fini di questo lavoro. Si tratta in sostanza di un sistema volto a semplificare i problemi di gestione della fauna, che confinata in uno spazio relativamente ristretto:
“deriva il proprio sostentamento direttamente dalle capacità di carico dell’ambiente naturale” (Massetti, 2008, p. 219).
Fig. 12 Distribuzione odierna del muflone asiatico Ovis orientalis (Gmelin, 1774), con l’esclusione degli areali d introduzione storica recente (fonte: Massetti, 2008, pag. 228).
La gestione della fauna viene in questo modo demandata, fatti salvi ulteriori interventi come il prelievo di esemplari per successivi trasferimenti in altre aree, unicamente alle risorse alimentari disponibili, data la pressoché totale assenza di predatori naturali. Sempre a seguito dell’introduzione antropica, l’areale del muflone si è andato espandendo anche sulla Penisola e nell’Europa continentale, a partire da esemplari provenienti sia dalla Corsica che dalla Sardegna (Ciuti et al., 2006), e in Italia interessa attualmente, sebbene in maniera puntiforme, un areale che comprende: l’arco Alpino e l’Appennino Tosco – Emiliano, alcune zone collinari di 43
Toscana, Umbria e Lazio, oltre che la Sardegna e numerose isole minori come Capraia, l’Elba, il Giglio, l’Asinara (Arduin, 2005), come mostrato nella fig. 13. Proprio riguardo al nucleo di mufloni stanziato nell’Appennino Tosco Emiliano presso la riserva naturale di Orecchiella, a testimonianza dell’adattabilità della specie al di fuori dell’areale originario, Russo sottolinea come si tratti di uno dei numerosi esempi di adattamento di questo animale ad habitat diversi da quelli tipici, adattamento verificatosi presso numerose popolazioni stanziate nella penisola in seguito a introduzioni eseguite dalla metà del secolo scorso (Russo et al., 2006). Il muflone, stando ai dati del 2005, ammonta in Sardegna a una consistenza numerica di circa 6000 capi:
“localizzati nell’Ogliastra, nei Monti del Gennargentu e del Supramonte, sul Monte Albo e in aree in gestione all’azienda Foreste Demaniali (Capo Figari, Pabarile, Capo Cesano) e nel Parco Nazionale dell’Asinara dove è stato reintrodotto” (Ciuti et al., 2006, p. 4).
Fig. 13 Distribuzione attuale del muflone in Italia (fonte: Arduin, 2005, pag. 2).
A testimonianza del considerevole incremento demografico subito della specie, basti pensare che Lorenzini basandosi sui dati del 2002 riporta di una popolazione globale di mufloni nell’isola di sole 3000 unità (Lorenzini et al., 2011). Sempre lo stesso autore riporta come: 44
“Le ulteriori popolazioni di muflone che si ritrovano oggi nella gran parte dell’Europa continentale derivano da introduzioni intraprese intorno alla metà del 1700” (Lorenzini et al., 2011, p. 1).
Fig. 14 Carta generale della presenza del muflone in Europa (fonte: http://yeswehunt.eu/it, 2011 b).
Il totale delle varie popolazioni presenti nell’Europa continentale, Sardegna e Corsica escluse, ammonterebbe a oltre 60000 capi (Ciuti et al., 2006).
45
3.d.2. Misure di tutela e gestione.
Tra le principali fonti di minaccia nei riguardi della popolazione di muflone in Sardegna, a dispetto del considerevole incremento demografico della specie in questi ultimi anni, vanno annoverati: la possibile azione predatoria esercitata dai cani randagi, gli incroci con la pecora domestica (Ovis aries aries), il bracconaggio che rimane a tutt’oggi la causa principale dei decessi (Lorenzini et al., 2011). Lorenzini et al. esprimono, nei riguardi della lotta al bracconaggio che non manca di manifestarsi nelle stesse aree protette, la necessità di fare ricorso a tutti gli strumenti di indagine disponibili, tra i quali recentemente si registra un aumento nell’impiego delle tecniche forensi molecolari, già sperimentate proprio nei riguardi di questa specie. Per dirla con le parole degli autori:
“le tecniche molecolari, associate all’uso di database di popolazioni di riferimento e ad una appropriata valutazione statistica dei dati, sono fondamentali nei casi forensi riguardanti la fauna selvatica. Questo approccio rende possibile l’ammissibilità del test del DNA in tribunale come prova nei procedimenti contro i reati di bracconaggio e di altri crimini che coinvolgono gli animali selvatici” (Lorenzini et al., 2011, p. 1)
Negli areali la cui presenza del muflone è invece imputabile a immissioni antropiche recenti si pone al contrario, in maniera simile a quanto vedremo per il cinghiale, il problema del suo contenimento numerico, a causa principalmente dei danni alla vegetazione prodotti e alla concorrenza alimentare esercitata nei confronti di altri ungulati autoctoni (AA. VV., 2011), in particolar modo del camoscio (Benecchi, 2009). Si proporrà qui come caso emblematico la gestione della popolazione di muflone, di origine chiaramente antropica, attualmente stanziata nell’isola d’Elba, nel contesto più ampio del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. Nell’isola infatti sono presenti consistenti popolazioni naturalizzate di muflone e di cinghiale che, per la mancanza di predatori naturali e la presenza di condizioni vegetazionali favorevoli, esercitano un impatto considerevole sul sistema naturale e antropico dell’area (AA. VV., 2011). Nello specifico il muflone vi è stato introdotto a più riprese negli anni dal 1973 al 1976, previo accordo tra le associazioni venatorie e le Amministrazioni comunali del territorio, con finalità di ripopolamento di selvaggina. I capi a loro volta erano stati prelevati dagli allevamenti di Miemo (AA. VV., 2011), ottenuti a partire da esemplari di ceppo corso (Benecchi, 2009). A partire dal 2007, visto
46
l’incremento dei danni effettuati dal muflone non solo alle colture e alla vegetazione naturale35, ma anche alla viabilità pubblica (soprattutto nei mesi estivi quando la scarsità di cibo spinge gli animali a quote più basse), hanno preso avvio anche per questa specie gli stessi metodi di contenimento già applicati al cinghiale, e consistenti in:
-
trappolamenti;
-
abbattimenti effettuati con l’aiuto di selecontrollori36;
-
abbattimenti diretti da parte della Polizia Provinciale in seguito a segnalazione da parte di privati (AA. VV., 2011).
Tali pratiche di controllo demografico delle popolazioni animali all’interno delle aree protette sono regolamentate da una serie di normative, tra cui la “Legge quadro sulle aree protette” del 6 – 12 – 1991 n. 394, che prevede la possibilità di effettuare prelievi di fauna e abbattimenti selettivi qualora volti a ripristinare equilibri ecologici compromessi, e le “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate” del 20 – 07 – 2004 n. 189, che regolamentano la scelta degli strumenti per la cattura e l’uccisione per le specie oggetto di prelievo. Altre deroghe relative alla possibilità di soppressione di specie selvatiche, ai fini di salvaguardia di flora e fauna e di prevenire danni alle colture, all’allevamento, al patrimonio ittico e boschivo, sono stabilite dalla Direttiva 92/43/CEE nell’ambito della tutela degli ambienti naturali e seminaturali, e da una serie di convenzioni internazionali e direttive comunitarie che disciplinano il controllo dei selvatici nell’ambito della Convenzione di Berna, della Direttiva Uccelli 2009/47 e della direttiva 92/43. (AA. VV., 2011).
Il muflone è incluso nell’elenco delle specie vulnerabili della Lista Rossa I.U.C.N. del 2000, e tutelato in Sardegna secondo la legge regionale 23/1998 come “specie particolarmente protetta” (Ciuti et al., 2006, Colomo, 2008). La specie, protetta anche dalla Convenzione di Berna, allegato III, è classificata come “vulnerabile” secondo la Lista Rossa I.U.C.N., e rientra in base alla legge italiana 157-1992 nella categoria delle “specie a protezione speciale” (Lorenzini et al., 2011).
35
In particolar modo è stato evidenziato come l’animale abbia, nell’Elba, un certo effetto negativo nella rinnovazione del leccio (AA. VV., 2010). 36 La figura del selecontrollore, ovvero di un operatore specializzato nell’abbattimento mirato di fauna selvatica, è nata in Lombardia nel 2002 in seguito all’emendamento dell’art .41 della legge regionale sulla caccia 26/93, che si occupa dell’individuazione dei soggetti coadiutori con i vari enti provinciali e regionali nel controllo numerico della fauna invadente (AA. VV., 2006).
47
3.e. Cinghiale sardo (Sus scrofa meridionalis, Forsyth Major 1882).
3.e.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione.
Il cinghiale sardo costituisce, insieme a Sus scrofa majori che è la forma autoctona della Maremma, una delle due sottospecie di cinghiale europeo (Sus scrofa, Linneus, 1758) presenti sul territorio italiano, oltre alla specie europea vera e propria (AA.VV., 2009). Nella sua forma tipica la sottospecie sarda, o meglio sardo – corsa, è caratterizzata da ridotte dimensioni corporee37, cranio molto sviluppato, corpo tozzo e compresso lateralmente. L’animale è peraltro soggetto a frequenti ibridazioni con maiali domestici tenuti allo stato brado, che ne alterano morfologia e dimensioni. Occupa una notevole varietà di habitat ed è diffuso in tutta l’isola (Colomo, 2008).
Fig. 15 Cinghiale (fonte: Pratesi e Tassi, 1986, p. 130).
L’origine di queste diverse popolazioni di cinghiale, così come delle due sottospecie superstiti38 non è stata ancora del tutto chiarita, sebbene recenti studi paiano confermare la considerevole similitudine tra la popolazione maremmana e le restanti popolazioni della Penisola, mentre la
37
Colomo riporta un peso medio dei maschi adulti della sottospecie sardo – corsa di 70 - 80 kg contro i 120 - 130 della forma europea (Colomo, 2008). 38 Una terza sottospecie di cinghiale, diffusa nell’Italia Settentrionale, si è estinta prima ancora di poter essere classificata (AA. VV., 2009).
48
sottospecie sardo – corsa sembrerebbe differenziarsene sia dal punto di vista genetico che morfologico:
“facendo ipotizzare una sua origine da suini domestici anticamente inselvatichiti” (AA. VV., 2009, p. 214).
In particolare, le affinità della struttura cranica tra il cinghiale sardo e il cinghiale dalle bande indonesiano possono far ipotizzare o un’origine del primo da ibridazioni tra S. scrofa scrofa e S. scrofa vittatus, che nulla esclude possano essere avvenute anche in tempi storici recenti, oppure appunto una origine orientale a partire da cinghiali introdotti dall’uomo in Sardegna in uno stadio di pre-domesticazione (Massetti, 2008). Un ulteriore elemento di difficoltà nell’identificazione delle sottospecie italiane di cinghiale, oltre alla già menzionata possibilità di ibridazione col maiale domestico, è dovuto alle massicce introduzioni di cinghiali alloctoni effettuate in diverse regioni italiane a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento, in una prima fase tramite il rilascio in natura di esemplari catturati in altri stati europei, in una seconda mediante la liberazione di esemplari allevati appositamente, che hanno alterato in modo considerevole le caratteristiche delle popolazioni preesistenti (AA. VV., 2009). Le testimonianze della presenza del cinghiale in Sardegna sono a ogni modo molto antiche, a partire dai rinvenimenti nella Grotta Corbeddu (Oliena) datati alla fine del VII millennio a.C. e in seguito, nel Neolitico recente nella Grotta di Su Guanu, mentre nello stesso periodo in Corsica si affermavano curiosamente animali di grandi dimensioni (Massetti, 2008). Per quanto riguarda la consistenza della popolazione di cinghiale isolana, già Cetti riferiva del numero elevatissimo e della diffusione universale, nell’isola, di questo animale nella seconda metà del XVIII secolo, tanto da riferire che:
“ad ogni luogo di ciaschedun Capo è comune il cinghiale, ogni villaggio ne trova per entro alle sue boscaglie; supera pertanto in frequenza il cervo e ‘l muflone, contende della superiorità col daino39, secondo me il vince” (Cetti, 2000, p. 134).
Nei primi decenni del XX secolo, Concas Vacca riferisce invece di una considerevole riduzione numerica del cinghiale in Sardegna, imputandone la causa primaria, come peraltro aveva già fatto a proposito del daino (si veda da p. 35), alla caccia incontrollata (Concas Vacca, 1916).
39
A proposito della considerevole diffusione del daino in Sardegna nella seconda metà del XVIII secolo, si veda a p. 35.
49
Fig. 16 La progressiva espansione dell’areale di distribuzione del cinghiale in Italia nel corso del secolo scorso (fonte: Zanetti, 2008, p. 5).
La specie tuttavia ha conosciuto a partire dai decenni successivi, a differenza degli altri casi finora esaminati per lo stesso periodo, un progressivo incremento numerico e ha considerevolmente ampliato il proprio areale di distribuzione, non soltanto nell’isola ma in tutta Italia, come mostrato nella fig. 16.
Fig. 17 La distribuzione del cinghiale in Italia secondo i del censimenti del 2005 (fonte: AA. VV., 2009, p. 214).
Tornando al caso specifico della Sardegna, Pratesi e Tassi, a metà degli anni Ottanta, ne segnalano la presenza in numerose zone (Nurra, Asinara, Logudoro, Monte Albo, altipiano di Buddusò, Foresta Burgos, Monte Ferru, Monte Arci, Brabaxana, Supramonte, Golfo di Orosei, Quirra, Sette 50
Fratelli, Gerrei, bacino del Flumendosa, Monte Linas, Monte Arcuentu), ma non mancano di sottolineare la scomparsa della specie dalle isole di Spargi e Budelli e dalla Giara di Gesturi (Pratesi e Tassi, 1986). Nel complesso tuttavia, negli ultimi trent’anni l’areale italiano del cinghiale si è più che quintuplicato quanto a estensione, e lo stesso può dirsi, sebbene per via estimativa, dell’entità numerica della popolazione (AA.VV., 2009). Le più recenti acquisizioni territoriali della specie, che interessano in particolar modo l’Italia Settentrionale, risultano evidenti nella carta sulla distribuzione del cinghiale in Italia sulla base dei censimenti effettuati nel 200540, illustrata nella fig. 17.
3.e.2. Misure di tutela e gestione.
Da un punto di vista gestionale, il controllo del cinghiale in tutte le 93 province in cui viene cacciato, comprese quelle sarde, da luogo a una situazione paradossale: da una parte i vari enti venatori sono interessati a incrementare la presenza della specie nel territorio, anche mediante operazioni di immissione più o meno discutibili (AA. VV., 2009) che, come abbiamo visto, hanno portato a una considerevole alterazione delle popolazioni autoctone preesistenti. Dall’altra, l’impatto considerevole che questo animale può esercitare sulle colture e sulla fauna sia selvatica che domestica rende necessarie operazioni di controllo numerico nei suoi riguardi (AA. VV., 2009), effettuate, anche in Sardegna, mediante l’abbattimento controllato dei capi in soprannumero. Per dirla con l’I.S.P.R.A.:
“la specie è dunque al centro di interessi contrastanti che da un lato tendono a favorirne la presenza, dall’altro ad escluderla dalle aree agricole più sensibili al danneggiamento, per il cui risarcimento vengono erogate dalle Amministrazioni ingenti somme di denaro” (AA. VV., 2009, p. 216).
Segnaliamo infine come talvolta possano verificarsi iniziative intraprese da privati al di fuori della legalità, volte principalmente a contenere i danni effettuati dai cinghiali alle coltivazioni: Schenk riporta come nel 1998 si sia registrata nel territorio dei comuni di Ittiri e di Monteleone una 40
La stima della popolazione italiana complessiva del cinghiale nel 2005 era, stando ai dati forniti dall’ISPRA, valutabile in almeno 600.000 individui, pur mancando dati certi sull’effettiva consistenza numerica della specie (AA.VV., 2009).
51
considerevole moria di cinghiali, non riconducibile alle epizoozie tipiche della specie (ovvero la peste suina classica e africana) e per la quale sono stati avanzati forti sospetti di utilizzo di bocconi avvelenati41 (Aresu e Schenk, 2004).
Il cinghiale, non essendo specie minacciata, è cacciabile in Sardegna in base alla L.R. 23/98. Per fare un esempio concreto, che ponga la politica di gestione del cinghiale sardo in relazione a quelle relative invece agli altri Ungulati sinora esaminati, basti pensare che all’interno della stessa riserva di Monte Arcosu vengono organizzate battute di caccia al cinghiale, regolate in base al calendario venatorio della Regione Sardegna, e che abbracciano un arco di tempo complessivo di nove mesi l’anno, seppure limitatamente ai giorni consentiti (AA. VV., 2010 b). Questo tipo di controllo della popolazione, a livello nazionale, continua tuttavia a rivelarsi piuttosto problematico in quanto, come riportato da Apollonio pochi anni or sono:
“circa il 50% delle province dove il Cinghiale è cacciato non raccolgono statistiche di prelievo, e solo il 35% tentano di effettuare stime di consistenza” (Apollonio, 2004, p. 24).
41
Tale pratica è stata proibita in Sardegna, come vedremo anche più avanti nello spazio riservato al grifone, a partire dal 1977 (Schenk et al., 2008).
52
3.f. Grifone (Gyps fulvus, Linnaeus, 1758).
3.f.1. Caratteristiche della specie, origine e diffusione.
Il grifone è il più grosso tra gli avvoltoi del Vecchio Mondo. Le sue caratteristiche morfologiche più evidenti sono quelle proprie della maggior pare delle specie di Falconiformi saprofagi: assenza di piume sulla testa e su parte del collo, becco possente e ricurvo, zampe con artigli deboli in quanto funzionali agli spostamenti a terra e non alla cattura della preda, essendo la dieta del grifone basata su animali morti, consumati prima che intervengano i processi putrefattivi (AA. VV., 1989).
Fig. 18 Grifone (fonte: Pratesi e Tassi, 1986, p. 20).
In Sardegna attualmente vive e si riproduce l'unica popolazione autoctona italiana di questa specie, suddivisa in due sub-popolazioni che interessano il solo settore nord occidentale dell’isola, essendo stanziate una nella zona di Bosa e una nella zona di Alghero (Busia, 1999). Danilo Mainardi, nella sua prefazione al Piano d’Azione per il Grifone in Sardegna42, definisce il grifone come:
42
Tale piano, pubblicato nel 2008, costituisce la revisione e l’ampliamento del “Progetto Entulzu Bosa”, di quattro anni precedente (Schenk et al., 2008).
53
“autentica testimonianza del mondo rurale della regione mediterranea” (Schenk et al., 2008, p. 4)
e ne sottolinea la marcata dipendenza:
“dalla pastorizia estensiva che, tramite le carcasse di ovini e caprini, gli fornisce la base alimentare”. (Schenk et al., 2008, p. 4).
Schenk, nella stessa pubblicazione, annovera non a caso il grifone nel gruppo delle cosiddette “specie bandiera”, ovvero di quelle specie animali che si prestano particolarmente a diventare ambasciatrici presso un grande pubblico della necessità di tutelare l’ambiente cui appartengono, in questo caso gli ambienti agro – pastorali, cui questo avvoltoio è stato, ed è tuttora, strettamente legato (Schenk et al., 2008). Va precisato infatti che le risorse alimentari del grifone nei paesi europei sono costituite, nella quasi totalità, da carcasse di bestiame domestico (pecore, capre, Bovini, Equini, Suini) che arrivano a coprire anche l’80 – 90% della dieta dell’animale, e che soltanto localmente e in misura meno rilevante la specie si nutre di carcasse di Ungulati selvatici o di animali morti di dimensioni inferiori a quelli elencati (Aresu e Schenk, 2004). Presentato da molte fonti come il più comune degli avvoltoi europei, pure il grifone è stato oggetto di considerevoli fluttuazioni demografiche, ancor più nella realtà circoscritta della Sardegna dove, come si vedrà, è stato prossimo all’estinzione. Cetti, nella seconda metà del XVIII secolo, non riporta alcuna stima numerica su questo animale, limitandosi a presentare un esemplare da lui esaminato, che egli arriva ad ascrivere, per analogia con le descrizioni anatomiche sui grifoni viventi in Francia effettuate dal naturalista Buffon43 nello stesso periodo, a:
“quella spezie, a cui recentemente da’ Franzesi si è appropriato il nome di grifone” (Cetti, 2000, pp. 201 – 202).
Il grifone viene dato da diversi autori del XIX secolo come specie nidificante e comune in Sardegna (Cara, 1842; Giglioli 1886). Ancora nel secolo successivo Concas Vacca lo considera frequente nell’isola (Concas Vacca, 1916). Tuttavia è proprio nello stesso periodo che la popolazione sarda non solo del grifone, ma ancor più delle altre due specie di avvoltoi poi estintisi dall’isola, il gipeto e l’avvoltoio monaco, conosce una significativa flessione numerica, dovuta anche alla caccia indiscriminata rivolta contro questi animali (Aresu e Schenk, 2004). 43
Nella sua Histoire naturelle des oiseaux, pubblicata tra il 1770 e il 1783.
54
Pochi decenni più tardi, in seguito alle osservazioni effettuate nel corso del biennio 1955 - 1956, Bezzel44 riferisce della consistente presenza del grifone nella Campeda, dove aveva avvistato un gruppo di oltre 50 esemplari, e nel territorio del comune di Villanova Monteleone (Schenk, 1976; Aresu e Schenk, 2004), con un altro gruppo da lui osservato di almeno 15 esemplari; informa poi dell’avvistamento di esemplari solitari a Fertilia, Porto Conte, Cuglieri, Nuoro, Oliena, Orgosolo, Orosei (Schenk, 1976). Anno
Sardegna
Sardegna
Sardegna
Sardegna
settentrionale
centrale
meridionale
Totale
1945
200 – 300 es.
600 – 800 es.
200 – 300 es.
1000 – 1400 es.
1955
80 – 100 es.
400 – 500 es.
100 – 200 es.
580 – 800 es.
1965
30 – 50 es.
200 – 300 es.
40 – 70 es.
240 – 270 es.
1975
20 es.
70 – 100 es.
10 – 20 es.
100 – 140 es.
Tab. 3 Andamento della popolazione sarda di grifone tra il 1945 e il 1975 (Schenk, 1976, p. 489).
Il declino della specie era però ormai evidente; Schenk (Schenk, 1976) individua la riduzione del tasso di mortalità del bestiame domestico come causa principale della riduzione numerica del grifone per il periodo compreso tra il 1945 e il 1960, rivelatosi particolarmente critico per questo animale, a cui poi si affiancano dal ’60 in poi altri fattori, come il bracconaggio, il collezionismo, la distruzione dell’ habitat e in maniera preponderante l’uso di bocconi avvelenati nella lotta ai nocivi. Gli animali uccisi dalle esche infatti attirano immancabilmente gli avvoltoi che se ne cibano, e che trovano anch’essi la morte per avvelenamento (Busia, 1999). Non a caso Schenk classifica questa pratica come il fattore che, negli ultimi decenni, ha avuto una incidenza critica nel declino della specie nell’isola (Schenk et al., 2008).
L’utilizzo indiscriminato delle esche avvelenate ha
condizionato già dalla fine dell'Ottocento la sorte di tutti gli avvoltoi nel mondo, ed è stato, oltre che una delle cause principali della rarefazione del grifone, anche alla base dell'estinzione in Sardegna delle altre due specie di avvoltoi, il gipeto e l'avvoltoio monaco (Busia, 1999), che come si è visto erano già stati interessati da un forte declino numerico a partire dagli anni Venti del Novecento (Aresu e Schenk, 2004). Sempre Schenk, in uno studio del 1984, riferisce come nella Campeda nei primi anni Ottanta fosse ancora usuale l’avvistamento degli ultimi grifoni, provenienti dai monti del Bosano alla ricerca di carcasse di animali, ma osserva come appena 30 - 40 anni prima nella stessa zona ne fossero presenti diverse centinaia (Schenk, 1984). Lo stesso autore, nel suo lavoro introduttivo al I 44
In Beiträge zur Kenntnis der Vogelwelt Sardiniens, del 1957, che qui è stato possibile citare solamente per via indiretta da Schenk (Schenk, 1976).
55
Convegno Regionale sulla fauna selvatica in Sardegna45, riporta per il periodo compreso tra il 1987 e il 1993 la presenza di 25 – 40 coppie di grifoni, per una popolazione totale di 80 - 120 esemplari, e colloca la specie tra i vertebrati riproducentisi nell’isola in pericolo di estinzione (Schenk, 1993). In questo lasso di tempo, e negli anni immediatamente successivi, come precisato da Busia (Busia, 1999), l’andamento della popolazione non è stato lineare: il numero dei grifoni si è pressoché raddoppiato, grazie agli interventi di conservazione della specie, nel periodo compreso tra il 1986 e il 1996, passando dalle 21 coppie territoriali alle 42 del 1996, di cui 31 censite nel territorio di Bosa e 11 in quello di Alghero. Nel periodo tra l’agosto e il novembre del 1997 si è registrato però nuovamente un notevole calo della popolazione, tanto che nel 1998 le coppie nidificanti erano appena 28, destinate a ridursi a 23 nel 1999 (Busia, 1999).
Fig. 19 Distribuzione e zone di nidificazione del grifone tra il 1970 e il 1975 (fonte: Schenk, 1976, p. 488).
Sebbene l’utilizzo dei bocconi avvelenati46 sia stato abolito nell’isola già nel 1977 (Schenk et al., 2008), il consistente calo numerico registratosi nella popolazione di grifone a partire dalla seconda metà del 1997 è stato determinato soprattutto da un ritorno al loro utilizzo in tutta la Sardegna nord-
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Convegno tenutosi a Oristano tra il 29 e il 30 gennaio del 1993, i cui Atti sono in bibliografi riferiti ai vari autori. Tra le varie sostanze tossiche responsabili del calo numerico del grifone, si annoverano principalmente stricnina, cianuro, arsenito di sodio, DDT, utilizzate nella lotta alle volpi, ai cani inselvatichiti, alle cavallette e alla malaria nel periodo post – bellico (Aresu e Schenk, 2004). 46
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occidentale, fatto questo da porre in relazione non soltanto con la “tradizionale” lotta alla volpe, ma anche con l'aumento del fenomeno del randagismo (Busia, 1999). La perdita di altri 30 – 35 grifoni, verificatasi a cavallo tra il 2007 e il 2008, ne ha portato la popolazione isolana agli appena 60 – 65 esemplari censiti da Schenk nel 2008, tra cui si annoverano 20 – 21 coppie territoriali stanziate per il 90% nel territorio del Bosano (Schenk et al., 2008).
Fig. 20 Progressiva riduzione dell’areale di popolamento del grifone in Sardegna dagli anni ’30 in poi (fonte: Aresu e Schenk, 2004, p. 14).
Tra gli altri agenti limitanti, va annoverato il disturbo antropico, soprattutto nei pressi dei siti di nidificazione, provocato da un insieme di fattori (Busia, 1999) che Schenk definisce come aventi una incidenza alta nei riguardi della specie (Aresu e Schenk, 2004). Il più immediato di questi fattori è determinato da escursionisti, curiosi e fotografi che, più o meno inconsapevolmente, si 57
avvicinano troppo ai siti di nidificazione andando a interferire sul ciclo riproduttivo del grifone, che si presenta particolarmente lungo, da dicembre/gennaio a luglio/agosto, e delicato, poiché questo uccello se disturbato si allontana dal nido, esponendo l'unico uovo che è in grado di deporre o il pulcino alla predazione principalmente di corvi imperiali e Laridi (Busia, 1999).
Fig. 21 Areale di distribuzione del grifone nel 2004 con segnalate in maniera puntiforme le aree interessate da reintroduzioni recenti (fonte: Aresu e Schenk, 2004, p. 13).
Abbiamo infine i danni causati dalla presenza di elettrodotti, spesso collocati senza tener conto delle emergenze e delle esigenze faunistiche del territorio. Più volte sono stati registrati incidenti, spesso mortali, dati dall'elettrocuzione o dalla semplice collisione degli uccelli con le linee elettriche aeree. I cavi, infatti, possono essere difficili da evitare per un uccello di grosse dimensioni e spesso la poca distanza tra il sostegno e i conduttori, anche di pochi centimetri, diventa inevitabile causa di folgorazione data la consistente apertura alare del grifone. Proprio nel caso specifico della Sardegna, va ricordato che la distruzione di alcune colonie di grifoni nel Sarrabus nel corso degli anni Quaranta, tra le quali quelle di Cardera e di Monte Biancu, nella bassa valle del Flumendosa, è da attribuire principalmente alla costruzione della linea elettrica (Busia, 1999). All’azione di disturbo esercitata dagli elettrodotti Aresu e Schenk aggiungono anche quella della pale eoliche, classificando entrambi i fattori come aventi una incidenza media, potenzialmente alta, sul futuro della specie (Schenk et al., 2008). Gli stessi autori individuano come altri elementi di rischio potenzialmente alto l’uso di sostanze tossiche non collegabili ai bocconi avvelenati e l’eventuale presenza nell’ambiente di metalli pesanti, e da ultimo, con effetti globalmente minori sulla popolazione, la scarsità alimentare ed eventuali azioni di persecuzione e vandalismo (Schenk et al., 2008). 58
Stando ai dati del 2008, la globalità dei siti attuali di riproduzione del grifone in Sardegna è collocata nella fascia costiera tra Bosa e Punta Cristallo, e si spinge nell’entroterra fino a un massimo di 7 km dalla costa. L’areale di alimentazione della specie ricade invece su una superficie di circa 18000 km2 nella Sardegna nord occidentale che, oltre a comprendere la fascia costiera già menzionata, si estende all’Altopiano di Campeda e ai territori dei comuni di Montresta, Pozzomaggiore, Ittiri e Thiesi (Schenk et al., 2008). Tale habitat è non a caso
“caratterizzato dalla presenza di vasti pascoli estensivi, da una frammentazione ancora bassa e da una densità demografica al di sotto della media regionale” (Schenk et al., 2008, p. 18).
Nell’insieme del suo areale, infine, la specie, un tempo diffusa e nidificante in quasi tutta l’Europa mediterranea e balcanica, nel Medio Oriente e in Nord Africa, ha conosciuto un marcato declino, caratterizzato dalla sua totale estinzione in Tunisia, Romania, Egitto, e dalla fortissima riduzione numerica soprattutto in Grecia, Israele, Portogallo. L’unica eccezione è rappresentata dalla Spagna, dove è stato registrato negli ultimi decenni un forte incremento numerico di questo animale, grazie alla presenza combinata di un insieme di fattori positivi, come la diminuzione della persecuzione diretta, la forte riduzione nell’uso dei bocconi avvelenati, la considerevole disponibilità alimentare (Aresu e Schenk, 2004).
3.f.2. Misure di tutela e gestione.
Il primo progetto a carattere conservativo dei rapaci della Sardegna, con particolare attenzione al grifone, è stato messo in atto dal W.W.F. e dall’I.U.C.N. nel corso degli anni 1974 – 1977, mediante un’azione
di
monitoraggio
visivo
degli
esemplari,
la
predisposizione
di
punti
di
approviggionamento alimentare nelle campagne dei comuni di Bosa, Alghero e Oliena, una mirata campagna informativa e la costituzione di oasi faunistiche (Schenk et al., 2008). La LIPU (Lega Italiana Protezione Uccelli) e la Regione Sardegna hanno condotto in più fasi e per diversi anni, principalmente tra il 1986 - 89 e il 1994 - 95, un articolato progetto di conservazione a favore dei grifoni della Sardegna nord occidentale. Nell'ambito di questo progetto, oltre alle tradizionali attività di conservazione come sorveglianza dei siti, recupero di esemplari, alimentazione integrativa, campagne di informazione, ricerca scientifica, è stato realizzato un programma di ripopolamento (Busia, 1999) culminato nella liberazione nel territorio dei comuni di 59
Cuglieri e Santulussurgiu di 60 esemplari importati dalla Spagna e dalla Francia (Schenk et al, 2008). Tra le varie misure di tutela intraprese citate, l’alimentazione integrativa ha offerto già dagli scorsi decenni un parziale rimedio al problema della morte di esemplari per avvelenamento. Il metodo è stato sperimentato con successo in Sardegna e in altre parti d’Europa, e consiste nella pratica nella realizzazione di appositi carnai, costituiti da aree recintate in cui vengono collocate, sotto controllo veterinario, carcasse di animali domestici. Queste riserve alimentari consentono da un lato di eliminare la concorrenza trofica con altre specie animali, come volpi, cinghiali, cani randagi, dall’altro assicurano una fonte alimentare "pulita" per gli avvoltoi, e potrebbero agevolare allo stesso tempo anche lo smaltimento di carcasse dagli allevamenti di bestiame (Busia, 1999). Particolarmente significativo è stato inoltre il contributo dato dal Comune di Bosa nell’ambito del “Progetto Entulzu”, portato avanti in collaborazione con Legambiente Sardegna e il contributo finanziario dell’Assessorato della Difesa dell’Ambiente della Regione Sardegna. Tale progetto ha preso avvio con l’acquisizione da parte del demanio di un’area di circa 165 ha, particolarmente rilevante per la specie, quella di Capo Marrargiu. Per citare le parole di Brigas, sindaco di Bosa al momento della presentazione di uno dei volumi pubblicati a supporto del progetto47:
“la permanenza del Grifone nel Bosano è legata indissolubilmente alla presenza di una economia agro – pastorale in tutto il sistema costiero del Marrargiu che nella sostanza ha favorito la tutela e quindi il mantenimento di ambienti caratteristici e di grande valenza naturalistica” (Aresu e Schenk, 2004, p. 3).
Nel concreto sono stati poi effettuati un’azione di monitoraggio e sorveglianza degli esemplari che frequentano l’area, il ripristino della riserva alimentare in località Maria Pilu, una campagna di informazione che ha portato a una serie di pubblicazioni anche di rilievo che sono state già menzionate in precedenza, un insieme di ricerche sul randagismo e la mortalità del bestiame in diverse aree campione48, l’istituzione di un’oasi faunistica di 890 ha (Schenk et al., 2008). A partire dall’ampliamento e dall’aggiornamento del materiale prodotto nell’ambito del “Progetto Entulzu” è stata data alle stampe nel 2008 la “Proposta di un Piano d’Azione per il Grifone (Gyps fulvus) in Sardegna” (Schenk et al., 2008), qui ampliamente citato, che individua tutta una serie di azioni anche legislative volte a favorire la tutela della specie nell’isola e destinate a trovare applicazione negli anni successivi la pubblicazione. Tra le varie proposte avanzate si ricordano qui in breve: 47
Ovvero Il Grifone – l’unico avvoltoio rimasto in Sardegna, di Aresu e Schenk, già in bibliografia. I dati sulla mortalità del bestiame nel Marghine – Planargia sono stati riportati per praticità nel capitolo successivo, nello spazio appositamente dedicato alla presenza del grifone nelle due sub-regioni, a p. 68.
48
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-
la promozione di misure di coordinamento e cooperazione tra soggetti pubblici e privati nazionali e regionali, al fine di ottenere una maggiore efficacia negli interventi e a ottimizzare l’impiego delle risorse finanziare disponibili;
-
la promozione di misure legislative e amministrative per le politiche agricole, energetiche, turistiche e non da ultimo ambientali ai fini di favorire una maggiore conservazione della fauna selvatica;
-
la continuità delle azioni già intraprese a tutela del grifone, come la protezione dei siti di nidificazione, la garanzia di ottimali risorse alimentari, per almeno altri 5 anni (a partire dal 2008), affiancate a un’azione di reintroduzione di Ungulati selvatici (cervo sardo, daino, muflone) negli areali storici di questi specie, in maniera che essi possano costituire nel tempo una riserva alimentare supplementare per gli avvoltoi, e a un’azione di prevenzione nell’uso improprio di sostanze tossiche;
-
la creazione di nuove aree protette e la realizzazione di ripopolamenti e reintroduzioni in areali, come il Supramonte, il Gennargentu, il Monte Albo, nei quali l’estinzione della specie è stata causata dall’utilizzo in passato di bocconi avvelenati più che da modificazioni nell’ambiente;
-
l’istituzione nel Bosano di un Centro Recupero per il ripristino di esemplari in difficoltà (Schenk et al., 2008).
Il grifone è incluso nell’Appendice I della Direttiva CEE 409/79, relativa agli “Uccelli selvatici”, che individua una serie di specie avicole in rarefazione49 come destinatari prioritari di interventi di tutela, e nell’Appendice II della Convenzione di Berna. E’ classificato come specie “in pericolo critico” per la Sardegna, come “in pericolo” a livello nazionale e come “secure”, ovvero specie non più in declino, a livello comunitario (Schenk et al., 2008). Per dirla con Schenk:
“nella normativa nazionale e regionale il Grifone fa parte della fauna particolarmente protetta e appartiene al gruppo di specie per le quali la regione Sardegna adotta provvedimenti prioritari atti ad istituire un regime di rigorosa tutela del loro habitat.” (Schenk et al., 2008, p. 27).
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Oltre al grifone, rientrano in questa lista altre tre specie particolarmente interessanti anche per la fauna sarda, di cui abbiamo già avuto modo di parlare: l’avvoltoio monaco (Aegypius monachus), il gipeto o avvoltoio degli agnelli (Gypaetus barbatus), il pollo sultano (Porphyrio porphyrio).
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4. Il caso specifico delle subregioni del Marghine e della Planargia.
Nel 1995 è stato pubblicato, su iniziativa del Circolo di Iniziativa Ambientale Legambiente di Macomer, il Libro Rosso dei Vertebrati terrestri del Marghine – Planargia. Il volume è stato realizzato:
“seguendo l’esempio dell’Unione per la Conservazione della Natura e delle Risorse Naturali (IUCN), che dal 1966 compila i volumi del “Red Data Book” delle piante e degli animali minacciati di estinzione a livello mondiale” (Schenk et al., 1995, p. 3).
Sulla scorta di questo lavoro, si darà qui una descrizione delle diverse aree faunistiche presenti nelle due sub-regioni, prendendo in esame unicamente le specie animali già individuate nel precedente capitolo come significative della fauna selvatica sarda (si veda da p. 20). Marghine e Planargia, infatti, pur costituendo due regioni ben distinte, hanno non solo mantenuto in varie epoche storiche significativi rapporti economici e culturali, ma hanno costituito, o costituiscono tuttora, parte dell’areale degli animali campione qui studiati. Si procederà infine, in ambito toponomastico, a una rassegna e all’analisi dei toponimi riferibili alla fauna selvatica e domestica del territorio interessato, in modo da verificare in che misura essi possano fornire un contributo alla conoscenza e alla ricostruzione del popolamento animale del Marghine e della Planargia in epoche più o meno recenti.
4.a. Caratteristiche geomorfologiche e ambientali del Marghine – Planargia.
Le subregioni del Marghine e della Planargia si estendono su una superficie totale di 806,43 kmq, comprendente il territorio di 19 Comuni: Birori, Bolotana, Borore, Bortigali, Bosa, Dualchi, Flussio, Lei, Macomer, Magomadas, Modolo, Montresta, Noragugume, Sagama, Silanus, Sindia, Suni, Tinnura, Tresnuraghes. Le due subregioni si presentano come fortemente differenziate sia dal punto di vista geomorfologico che fitoclimatico: la Planargia, compresa tra il Meilogu e il territorio di Monteleone a nord e il Montiferru a sud, offre un aspetto fortemente movimentato, anche in virtù dello sviluppo in uno spazio ristretto del suo gradiente altitudinale, che varia dal livello del mare agli 802 metri del Monte Mannu; il Marghine invece è caratterizzato dall’altipiano basaltico di 62
Campeda e dalla catena montuosa del Marghine le cui vette più elevate superano i 1100 metri di altitudine. Da un punto di vista fitoclimatico, le due subregioni forniscono esempi di tutti i principali paesaggi vegetali della Sardegna: l’orizzonte delle boscaglie e macchie litoranee, quello delle foreste miste sempreverdi termoxerofile, quello mesofilo e quello freddo umido della foresta montana, contraddistinti entrambi dalla presenza del leccio, e quello degli arbusti montani prostrati e delle steppe montane mediterranee nelle cime più elevate del Marghine (Schenk et al., 1995). Tutti questi fattori hanno prodotto una notevole diversità di ecosistemi e, conseguentemente, favorito la presenza di una elevata varietà di specie faunistiche.
Fig. 20 Aree faunistiche del Marghine – Planargia (fonte: Schenk, 1995, p. 6).
Legenda:
A: Area del Monte di Sant’Antonio (kmq 56,74) B: Area del Bosano (kmq 146,68) C: Area dell’Altopiano di Campeda (kmq 216,70) E: Area della Planargia meridionale (kmq 78,47) M: Area della Catena del Marghine (kmq 92,96) P: Area della Piana del Marghine (kmq 214,88)
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Schenk (Schenk et al., 1995) individua in questo contesto sei aree faunistiche principali che interessano la superficie complessiva di 806,43 kmq delle due subregioni, e che, per dirla con l’autore:
“consentono una più differenziata rappresentazione della distribuzione spaziale delle specie trattate e la individuazione dei biotopi di maggiore rilevanza faunistica” (Schenk et al., 1995, p. 9)
Queste sei micro aree faunistiche comprendono: l’area del Monte di sant’Antonio, l’area del Bosano, l’area dell’Altipiano di Campeda, l’area della Planargia meridionale, l’area della Catena del Marghine, l’area della Piana del Marghine. Daremo ora una descrizione di queste micro aree seguendo la falsariga della didascalia della fig. 20, in modo da poterne individuare in breve i biotopi di maggiore rilevanza faunistica. Insieme alle caratteristiche morfologiche di ciascuna verranno forniti anche dati generali sul tipo di vegetazione in quanto, come già visto, alcune delle specie animali prese in esame come significative della fauna selvatica sarda sono state condizionate anche da questo fattore.
A - Area del Monte di Sant’Antonio: l’area in esame si estende per una superficie complessiva di 56,74 kmq, ed è caratterizzata da un ambiente montano boschivo costituito per la maggior parte da boschi maturi di roverella e in misura minore da formazioni miste di sughera e leccio. Sono rinvenibili inoltre alcune stazioni relitto di alloro, mentre alle quote più elevate è sporadicamente presente l’agrifoglio. Una vasta area di circa 300 ettari, adiacente al Monte di Sant’Antonio è stata rimboschita a cura dell’Ispettorato Dipartimentale delle Foreste di Nuoro in un primo tempo con diverse specie di conifere, poi integrate con latifoglie tra cui leccio, roverella, castagno, noce, nocciolo, anche a seguito dei ripetuti incendi che hanno colpito la zona (Schenk e al., 1995).
B - Area del Bosano: l’area del Bosano si estende su una superficie complessiva di 146,68 kmq ed è caratterizzata dalla presenza di una grande varietà di biotopi. Nella fascia litoranea prevalgono le coste rocciose, con falesie e scogliere, mentre le coste sabbiose, interamente comprese nel territorio del comune di Bosa, assumono andamento lineare. Nell’entroterra ritroviamo vasti ambienti boschivi con associazione di leccio e sughera, formazioni di macchia mediterranea, e ambienti rocciosi con presenza di dirupi nelle vallate del fiume Temo e dei suoi affluenti. Si riscontrano inoltre, limitatamente alla zona del Monte Mannu, praterie submontane di modesta entità. In questo quadro assumono particolare rilevanza faunistica la fascia costiera e l’entroterra immediatamente a
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nord dell’abitato di Bosa, che ospitano l’80% circa della residua popolazione italiana dell’avvoltoio grifone (Schenk et al., 1995).
C - Area dell’Altopiano di Campeda: l’area dell’altopiano di Campeda si estende per 216,70 kmq e costituisce la più vasta delle sei zone prese in esame. L’area, caratterizzata da un paesaggio tipicamente steppico, è utilizzata prevalentemente come pascolo estensivo per ovini e bovini. Le formazioni vegetali sono caratterizzate principalmente dalla presenza di arbusti bassi, graminacee, asfodelo, ferula. Sono presenti poi secondarie formazioni boschive di sughera e roverella. Un altro biotopo caratteristico è costituito dalle paulis, zone umide temporanee e poco profonde che caratterizzano le numerose depressioni dell’altopiano nei mesi invernali, e che sono state per la maggior parte bonificate. Le poche paulis rimaste:
“rappresentano uno degli ecosistemi più interessanti del territorio per la loro rarità in Sardegna, in Italia e in tutta l’area mediterranea” (Schenk, 1995, p.11).
Sono presenti poi biotopi fluviali, che interessano il fiume Temo, il Rio Mannu e i vari affluenti, e nella parte più interna dell’area alcune formazioni rocciose (Schenk et al., 1995).
E - Area della Planargia Meridionale: l’area della Planargia Meridionale occupa una superficie di 78,47 kmq, caratterizzata dalla concentrazione di numerosi centri abitati, in un territorio in gran parte interessato da colture agricole, tra le quali abbastanza estese risultano essere, soprattutto nella parte nord occidentale della zona, quelle legnose con frutteti e vigneti. Nella parte meridionale si sviluppa un ambiente costiero roccioso di particolare interesse. Importante anche l’ambiente fluviale del Rio Mannu (Schenk et al., 1995).
M - Area della Catena del Marghine: l’area della catena del Marghine si estende per 92,96 kmq ed è caratterizzata da rilievi montuosi attorno ai 1000 metri di altitudine. Il paesaggio vegetale si distingue per la presenza di residui ambienti boschivi che vengono annoverati tra i più suggestivi della Sardegna e testimoniano come doveva presentarsi l’originaria copertura forestale della zona. Tra questi abbiamo le foreste miste di tasso e agrifoglio, le foreste di leccio e le foreste miste di leccio e roverella. Sempre da un punto di vista faunistico assumono particolare rilevanza le praterie montane, localizzate nelle parti più elevate della Catena, e diversi ambienti rocciosi (Schenk et al., 1995).
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P - Area della Piana del Marghine: l’area faunistica della Piana del Marghine si estende su una superficie, pressoché pianeggiante, di 214,88 kmq. Similmente all’Altopiano di Campeda, dal quale tuttavia si discosta per un’altitudine media più ridotta, tra i 200 e i 400 metri, e un clima più mite, anche la Piana del Marghine è caratterizzata dagli ambienti steppici adibiti a pascolo estensivo e da formazioni arbustive e arboree residue che vanno a costituire il cosiddetto pascolo alberato, nonché dalla presenza di ristagni d’acqua temporanei (Schenk et al., 1995).
4.b. Situazione delle specie campione nelle aree faunistiche in esame.
Verremo ora ad analizzare la situazione faunistica delle due sub – regioni, limitatamente alle specie campione già viste nel secondo capitolo. Delle cinque specie studiate, due, il cervo sardo e il daino, risultano estinte nel Marghine – Planargia nel corso del secolo scorso50, due, il cinghiale sardo e il grifone, sono ancora rinvenibili, sebbene l’ultimo abbia conosciuto una notevole riduzione del proprio areale, oltre che numerica, e una, il muflone, non risulta aver popolato storicamente le due sub-regioni (Schenk et al., 1995). In questa sede terremo presenti unicamente le specie estinte e quelle considerate a rischio di estinzione nel Marghine - Planargia; verranno quindi esclusi il cinghiale sardo, data la sua considerevole diffusione e non da ultimo la mancanza di dati in merito, e il muflone. Va infine ricordato come dall’eventuale reintroduzione degli Ungulati un tempo popolanti tale area, ovvero il cervo sardo e il daino, potrebbero trarre beneficio le residue popolazioni di grifone, che verrebbero così ad usufruire di una riserva alimentare supplementare (Schenk et al., 2008)51.
4.b.1. Cervo sardo.
La specie si è estinta nel Marghine – Planargia nel periodo compreso tra la fine dell’ Ottocento e gli inizi del Novecento. La presenza storica del cervo sardo è attestata nelle due aree faunistiche della Catena del Marghine e del Bosano, ma lo Schenk ne ipotizza la presenza anche in quella della Planargia Meridionale (Schenk et al, 1995).
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Oltre ad esse, risultano estinte tra la fine dell’800 e il 1984 tra gli Uccelli il gipeto, l’avvoltoio monaco, il falco pescatore, e tra i Mammiferi la foca monaca (Schenk et al., 1995). 51 Rimandiamo al proposito, per maggiori dettagli, a quanto detto a p. 61 e a p. 68.
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Le cause principali della sua estinzione sono imputabili alla caccia e al bracconaggio, aggravati dal disboscamento indiscriminato52 che ha confinato la popolazione residua in aree via via sempre più ristrette (Schenk et al., 1995).
Fig. 21 Areale storico di distribuzione del cervo sardo nel Marghine – Planargia (fonte: Schenk, 1995, p. 30).
4.b.2. Daino.
Il daino era presente in quasi tutte le aree faunistiche del Marghine – Planargia (si veda nella fig. 22), e vi si è riprodotto sino alla fine degli anni Venti. Le cause della sua scomparsa, sia a livello locale che regionale, come già si è modo di verificare, sono imputabili principalmente alla caccia, almeno sino all’anno 1939, e al bracconaggio, fenomeni che conobbero un notevole incremento in concomitanza con lo sviluppo di una sempre più fitta viabilità campestre (Schenk et al., 1995). Risale al 2002 il rilancio da parte del comune di Macomer di un progetto della Comunità Montana degli anni Ottanta (Tola, 2007) per il reinserimento del daino nel Monte di S. Antonio, in un’area recintata di circa 45 ettari, nel quadro di un piano più vasto di rilancio economico della zona (Arca, 2003). L’introduzione dei primi esemplari sarebbe dovuta avvenire nel febbraio del 2006, ma è stata poi rimandata a causa di problemi burocratici per alcuni anni (Tola, 2007), per venire poi del tutto accantonata, finché nel 2009 non è stato proposto un nuovo progetto che prevede il ripopolamento
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Si è già osservato come questa specie sia strettamente legata agli ambienti boschivi; si veda a proposito a p. 24.
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dell’area attrezzata, nel frattempo danneggiata dall’incuria e da una serie di atti vandalici, con il muflone o il cervo sardo, dato il loro minor impatto sulla vegetazione (Tola, 2009).
Fig. 22 Areale storico di distribuzione del daino nel Marghine – Planargia (fonte: Schenk, 1995, p. 31).
Va segnalato tuttavia che stando a quanto riferito dal Schenk (Schenk et al., 1995), il muflone non ha storicamente popolato tale area, dato questo emerso anche dall’analisi della toponomastica della zona che non presenta alcun riferimento a questo animale (si veda a p. 76 e da p. 78). Ricordiamo che per questo motivo il muflone, pur rientrando nel novero delle specie qui considerate come significative, non è stato incluso in questa parte della trattazione.
4.b.3. Grifone.
La popolazione di grifone presente nel Marghine – Planargia è concentrata quasi totalmente nell’area faunistica del Bosano, mentre la specie risulta estinta come nidificante nella Catena del Marghine dagli anni Cinquanta, e nella Planargia Meridionale dagli anni Settanta. Le cause della fortissima riduzione numerica del grifone sono da ricercarsi soprattutto nell’uso indiscriminato di bocconi avvelenati, e secondariamente nella riduzione della mortalità del bestiame domestico, nel
68
bracconaggio, nel collezionismo. A ciò si aggiunga che nel Montiferru53, nel Marghine e più recentemente nel Bosano la realizzazione di nuovi elettrodotti nel corridoio obbligato di volo dei grifoni ha causato nel corso degli anni Novanta diversi incidenti mortali, attestati tramite il rinvenimento di alcuni esemplari rimasti uccisi (Busia, 1999). Un certo impatto, sempre nel corso degli anni Novanta è stato costituito dalle varie attività turistiche, che hanno portato all’abbandono di alcune covate e pulli in seguito al disturbo di coppie in periodo riproduttivo (Schenk et al., 1995). Ricordiamo che parte dell’areale della specie rientra nell’ambito del Progetto Entulzu, del quale data l’importanza ai fini della salvaguardia della specie si è preferito parlare nello spazio generale dedicato al grifone, a p. 60. E’ proprio nell’ambito di una delle pubblicazioni prodotte nell’ambito di questo progetto, ovvero Il grifone – l’unico avvoltoio rimasto in Sardegna (Aresu e Schenk, 2004), che Aresu e Schenk hanno effettuato una serie di studi volti a verificare se il Marghine – Planargia fosse ancora in grado di sostenere una popolazione di grifoni allo stato selvatico. Già si è visto come la dieta del grifone dipenda in maniera considerevole dalle carcasse del bestiame domestico, e come solo localmente esso si nutra di cadaveri di Ungulati selvatici o altri animali di medie dimensioni (si veda al proposito a p. 54).
Fig. 23 Areale storico (in rosso) e areale attuale di riproduzione (in blu) del grifone nel Marghine – Planargia (fonte: Schenk, 1995, p. 34).
53
La zona è immediatamente adiacente all’areale esaminato ed è stata pertanto qui riportata.
69
Stando ai dati pubblicati da Aresu e Schenk, le necessità alimentari dei 70 – 80 esemplari censiti nel 2004 sul territorio in esame, verrebbero soddisfatte da circa un migliaio di carcasse l’anno, quantità che secondo le cifre relative alla consistenza del bestiame ovicaprino nel Marghine – Planargia rappresenterebbe appena lo 0,5% dei 205000 capi presenti, per i quali è però stimata una mortalità ben superiore, che varia tra il 6 e l’8% del totale (Aresu e Schenk, 2004). Le due sub-regioni sarebbero quindi in grado di sostenere con le carcasse dei soli animali domestici una popolazione di grifoni superiore a quella attuale, sebbene la complessità delle concause del declino della specie non permetta di basarsi unicamente su questo parametro. Tuttavia, in uno studio di 4 anni più tardi, ancora Schenk, a fronte dell’affermarsi di un trend negativo nella dinamica demografica di alcuni Ungulati domestici soggetti a allevamento estensivo in tutta la Sardegna, in particolare per quanto riguarda il Bosano dei caprini e secondariamente degli ovini, non manca di osservare come:
“una parte degli stock domestici potrà essere sostituita da ungulati selvatici (Cervo sardo, Daino, localmente Muflone), le cui carogne potranno costituire importanti risorse alimentari per gli avvoltoi” (Schenk et al., 2008, p. 42).
La reintroduzione quindi del cervo sardo e del daino nel Marghine – Planargia non mancherebbe di avere ripercussioni positive anche sulla residua popolazione del grifone.
70
4.c.1. La toponomastica come strumento di studio della fauna selvatica.
Sulla base di quanto riportato da Paulis ne “I nomi di luogo della Sardegna” (Paulis, 1987), abbiamo qui effettuato l’analisi dei toponimi facenti capo alle sei micro aree faunistiche in cui, come si è visto, sono state suddivise da Schenk (Schenk et al.,1995) le due sub-regioni del Marghine e della Planargia (si veda da p. 62). Si è provveduto nello specifico a effettuare rassegna degli zoonimi del territorio dei 19 comuni interessati, individuando inizialmente per ciascun comune i nomi di luogo riferibili alla fauna selvatica sia in maniera diretta (quei toponimi che presentano cioè una citazione immediata al loro interno del nome della specie animale interessata), che in maniera indiretta (quei toponimi che fanno invece riferimento ad attività o ambienti e strutture riconducibili a un certo animale). Lo stesso è stato fatto, in un secondo tempo, per i toponimi riconducibili invece alla fauna domestica, così da avere un quadro più completo del complesso rapporto uomo – animale nel suo insieme, e da poter effettuare un raffronto tra l’incidenza della fauna selvatica e quella della fauna domestica sulla cultura popolare e sui nomi dei luoghi in una società tradizionalmente dedita alle attività agricole e alla pastorizia. Infine è stato dedicato uno spazio apposito alle cinque specie animali individuate come significative della fauna selvatica della Sardegna, al fine di poter verificare eventuali corrispondenze o discrepanze con quanto è emerso, nei capitoli precedenti, riguardo l’andamento demografico di queste specie in epoca storica e la loro stessa presenza nel territorio del Marghine Planargia. Gli elenchi completi degli zoonimi censiti sono stati riportati, per praticità di lettura, alla fine del capitolo (si veda da p. 78 per la fauna selvatica e da p. 80 per quella domestica).
95% 3%
Toponimi di altre categorie
2%
Toponimi fauna selvativa
Toponimi fauna domestica
Fig. 24 Incidenza percentuale dei toponimi riferibili alla fauna selvatica e domestica sul totale della toponomastica delle sei micro aree.
71
Il risultato più immediato di questa analisi è l’aver evidenziato l’incidenza, relativamente modesta, degli zoonimi sui toponimi totali presenti nelle sei micro aree faunistiche. Sui 3339 toponimi riportati dal Paulis (Paulis, 1987), soltanto 180 riguardano, direttamente o indirettamente che sia, la fauna: 82 di essi interessano quella selvatica, 98 quella domestica, con una percentuale rispettivamente del 2% e del 3% sul totale. A una prima osservazione, l’importanza e la stessa consistenza numerica degli zoonimi risultano essere tendenzialmente minime nei piccoli comuni il cui territorio viene a ricadere quasi per intero nell’area faunistica della Planargia Meridionale54 (ovvero Suni, Modolo, Tinnura, Sagama, Flussio, Magomadas, Tresnuraghes), a causa probabilmente sia della ridotta estensione della loro superficie territoriale, che ha come conseguenza diretta la presenza di un minor numero di toponimi rispetto ad altri comuni, sia della vocazione largamente agricola della zona (si veda al proposito anche a pag. 65). L’importanza dell’agricoltura nella Planargia meridionale, assai più rilevante che nelle rimanenti aree faunistiche del Marghine - Planargia, potrebbe innanzitutto aver materialmente ridotto la presenza di alcune specie di animali selvatici legati a particolari ambienti. In secondo luogo, è possibile che nella toponomastica di questa micro area si sia dato maggior risalto, rispetto agli zoonimi, ai nomi di luogo riguardanti invece attività, strutture, persone connesse con un mondo agricolo non interessato, come nelle altre aree esaminate, da colture principalmente cerealicole, quanto da colture di tipo arboreo, con abbondante presenza di vigneti e frutteti (Schenk et al., 1995). Significativi possono essere considerati anche i casi dei comuni di Silanus e di Noragugume, che offrono una toponomastica legata al mondo animale particolarmente ricca. Queste differenze sono evidenziate nel grafico della fig. 25, che mostra il rapporto degli zoonimi riferibili alla fauna, sia selvatica che domestica, con la toponomastica complessiva di ciascuno dei comuni ricadenti nell’area esaminata. Gli zoonimi assumono importanza considerevole nel territorio di comuni come Borore, Bortigali, Macomer, non solo perché questi sono caratterizzati dalla presenza diffusa del pascolo estensivo che favorisce talune specie animali, ma anche in quanto, ricadendo su più di una delle sei micro aree faunistiche, abbracciano una notevole varietà di ambienti naturali in grado di mantenere una maggiore biodiversità. Data tuttavia la scarsa incidenza totale di questi toponimi, che rende difficoltosa una rappresentazione grafica in grado di mostrarne l’esatta consistenza numerica, sono stati evidenziati con una tabella (Tab. 4) i dati del censimento dei toponimi facenti capo alle categorie interessate comune per comune.
54
Per avere un rapido quadro della suddivisione del Marghine – Planargia nelle diverse aree faunistiche cui si farà riferimento anche in questo capitolo, si veda da pag. 63.
72
Birori
Toponimi riportati (Paulis, 1987) 83
Toponimi relativi alla fauna selvatica 0
Toponimi relativi alla fauna domestica 1
2
Bolotana
262
5
7
3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19
Borore Bortigali Bosa Dualchi Flussio Lei Macomer Magomadas Modolo Montresta Noragugume Sagama Silanus Sindia Suni Tinnura Tresnuraghes
179 483 432 136 60 61 339 86 34 202 161 84 190 192 196 35 124
11 6 8 4 1 2 7 2 0 5 8 2 10 6 3 0 2
10 16 10 4 2 0 15 0 0 6 4 2 4 6 8 0 4
Totale:
3339
82
98
N.
Comune
1
Tab. 4 Suddivisione dei toponimi delle sei micro aree, comune per comune, nelle tre categorie principali individuate.
Appare comunque chiaro come nella maggior parte dei comuni del Marghine - Planargia i toponimi relativi alla fauna selvatica e quelli relativi alla fauna domestica sostanzialmente si equivalgano; in quattro casi su quelli studiati, ovvero nei comuni di Borore, Silanus, Lei, Noragugume, si ha poi una prevalenza dei primi, sebbene anche in questo caso occorra tener presente la ridotta consistenza numerica di entrambi. A fronte di quella che è risultata essere tutto sommato una incidenza abbastanza simile sulla toponomastica, va precisato che delle due macro – categorie in cui sono suddivisibili gli zoonimi individuati (la categoria cioè relativa alla fauna selvatica e quella riguardante la fauna domestica) è la prima a presentare una più ricca composizione di specie. La macro categoria della fauna selvatica è stata suddivisa, per praticità, in cinque sotto categorie principali, di cui quattro corrispondenti a Classi del sistema tassonomico, ovvero Mammiferi, Uccelli, Rettili, Anfibi, e la restante definita con la dicitura generica di Invertebrati. La stessa suddivisione è stata seguita per la macro categoria della fauna domestica, sebbene, data l’assenza di esponenti per alcuni gruppi, tale categoria comprenda solamente Mammiferi e Uccelli.
73
500
450
400
350
300
250
200
150
100
50
Toponimi fauna selvatica
nu ra nu ra gh es Tr es
Ti n
Su ni
om M er ag om ad as M od ol o M on tre No st a ra gu gu m e Sa ga m a Si la nu s Si nd ia
Le i
Toponimi di altre categorie
M ac
ss io
Fl u
ch i
Du al
Bo sa
na Bo ro re Bo rti ga li
ta
Bo lo
Bi
ro ri
0
Toponimi fauna domestica
Fig. 25 I toponimi del Marghine – Planargia riportati da Paulis (Paulis, 1987) facenti riferimento alla fauna selvatica e domestica e alle attività ad esse correlate messi a confronto con i toponimi complessivi di ciascun comune della zona.
74
In totale si sono potute individuare, nell’insieme della toponomastica delle sei micro aree faunistiche del Marghine – Planargia, soltanto 29 specie di animali selvatici55. Preponderanti sono risultati essere gli Uccelli, che vanno a interessare il 47% del totale, e i Mammiferi, con il 37%, sebbene vada sottolineata la relativa importanza degli Invertebrati con il 9% (si veda il grafico seguente).
37%
47%
1%
Uccelli
Mammiferi
Invertebrati
6%
9%
Rettili
Anfibi
Fig. 26 Il rapporto tra le varie specie selvatiche di Vertebrati, relativamente alle classi di Mammiferi, Uccelli, Rettili, Anfibi, e gli Invertebrati nella toponomastica del Marghine – Planargia.
A esclusione dei Rettili e degli Anfibi, che sono poi le Classi meno rappresentate, rispettivamente con il 6% i primi e appena l’1% i secondi, e degli Invertebrati, designati pressoché tutti con denominazioni troppo generiche perché se ne possa definire con esattezza le specie, è stato possibile identificare tra gli Uccelli: la cornacchia grigia di Sardegna (Corvus corone sardonius), la calandrella (Calandrella brachydactyla), il grifone (Gyps fulvus), il colombaccio (Columba palumbus), l’aquila reale (Aquila chrysaetos), il gheppio (Falco tinnunculus), l’assiolo (Otus scops), la pernice sarda (Alectoris barbara), la gru (Grus grus), la tortora sarda (Streptopelia turtur moltonii), il corvo imperiale (Corvus corax), la ghiandaia (Garrulus glandarius), e tra i Mammiferi:
55
Questa indeterminatezza è dovuta al fatto che alcuni toponimi, come i 5 totali riferiti genericamente al “topo”, o i 4 alla “serpe”, possano in realtà essere riferibili a più specie diverse che non è stato però possibile identificare con precisione.
75
la volpe sarda (Vulpes vulpes ichnusae)56, il cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus), la donnola (Mustela nivalis), il daino (Dama dama), il cinghiale (Sus scrofa meridionalis), la lepre sarda (Lepus capensis mediterraneus). La seconda macro categoria, quella riguardante la fauna domestica, si caratterizza, invece, per una nettissima prevalenza dei toponimi riguardanti i Mammiferi su quelli riguardanti gli Uccelli, con una percentuale del 97% dei primi sui secondi e, come si è visto, per la totale assenza delle altre Classi e della categoria degli Invertebrati.
97%
3%
Mammiferi
Uccelli
Fig. 27 Il rapporto tra le diverse classi di animali domestici riscontrate nella toponomastica del Marghine – Planargia.
Quanto alle specie domestiche rappresentate, sono state individuate per i Mammiferi il cane (Canis lupus familiaris), il bue domestico (Bos taurus), la capra (Capra hircus), il maiale domestico (Sus scrofa), il cavallo (Equus caballus), il gatto domestico (Felis silvestris catus), la pecora (Ovis aries), l’asino (Equus asinus), mentre per gli Uccelli una sola specie, il gallo domestico (Gallus gallus domesticus). Nettissima tra le specie elencate la predominanza del bue domestico, con 19 attestazioni, seguito dal cavalo con 18 e dal maiale con 14.
Venendo infine alle cinque specie campione della fauna selvatica isolana, la toponomastica studiata ha confermato quanto già riportato da Schenk (Schenk et al., 1995), ovvero la presenza storica di quattro di queste specie nel Marghine e nella Planargia, il cervo sardo (Cervus elaphus corsicanus), il daino (Dama dama), il cinghiale sardo (Sus scrofa meridionalis) per i Mammiferi, e
56
La volpe è in assoluto l’animale selvatico più citato nella toponomastica delle due sub - regioni, con ben 11 attestazioni.
76
il grifone (Gyps fulvus) per gli Uccelli. Più nello specifico, il cervo sardo è presente con 3 attestazioni, il daino con 4, il cinghiale con appena 1, il grifone con 6. Sebbene questi dati numerici siano molto esigui, anche essi sembrano riflettere la situazione faunistica della zona tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, caratterizzata dall’assenza del muflone, da una presenza ancora abbastanza considerevole del cervo sardo e del daino, poi entrambe estinti nel Marghine - Planargia ,a fronte di una frequenza del cinghiale sardo con tutta probabilità assai minore di quella attuale, e di una notevole rilevanza numerica del grifone.
7% 29%
43% 21%
Cervo sardo
Daino
Cinghiale
Grifone
Fig. 28 La diversa incidenza nella toponomastica del Marghine – Planargia delle specie campione individuate57.
Tale rapporto tra le specie, come si è verificato, non trova più riscontro ai giorni attuali, data la totale scomparsa dal Marghine – Planargia del cervo sardo e del daino, la fortissima riduzione e dell’areale e della consistenza numerica attuale del grifone, la considerevole espansione demografica e territoriale conosciuta invece dal cinghiale.
57
Per quanto riguarda l’assenza del muflone dai dati sulla zona in esame, si veda a p.66.
77
4.c.1. Elenco dei toponimi relativi alla fauna selvatica.
N.
Toponimo
Significato
Comune
1
Corrincas
Cornacchie
Bolotana
2
Cucculia Cuculia Pedras d’unturzu Sas tanas Serra Mariane Cherbos Nuraghe Cherbos Columbos Crastu abile Elighe onna Mura e sorighe Mura e zonca
Calandrella
Bolotana
Pietre del grifone Le tane Crinale della volpe Cervi Nuraghe dei cervi Colombi, colombacci Masso dell’aquila Leccio della donnola Mucchio di pietre del topo Mucchio di pietre dell’assiolo
Bolotana Bolotana Bolotana Borore
Mucchio di pietre della volpe Mucchio di pietre delle penne Nuraghe del colombaccio Nuraghe delle volpi Palude della volpe o di Mariane, cognome Valle della donnola N. della Valle della donnola Colombiera Cornacchia Le formiche Nuraghe delle formiche Pipistrelli Nuraghe dei pipistrelli Piccole pernici o Astori Topo Valle dei topi Campo della volpe Casa Le lepri La piccionaia
Borore Borore
3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27
Mura marzane Mura e pinna Mura e pinnas Nuraghe Columbus Nuraghe Urpes Paule Mariano Badde Donna Nuraghe Badde Donna Columbagiu Corroncu Sas luzzanas Nuraghe sas luzzanas Tintirriolas Nuraghe Tintirriolos Perdighinas Perdighinos Sorighe Badde sorighes Campo mazzone Casa sos leperes Columbera Sa colombera Crastu enturzu
Borore Borore Borore Borore Borore
Borore Borore Borore Bortigali Bortigali Bortigali Bortigali Bortigali Bortigali Bosa Bosa Bosa Bosa
Masso del grifone
Bosa
Cugurra Sos puzzonadores Sa funtana de sos puzzonadores Sa pala de sa formigia
Piccolo insetto, forficula Gli uccellatori La fonte degli uccellatori La costa della formica
Bosa Bosa Bosa
Sanguisughe
Dualchi
32 33
Ambe suas Ambisuas Coloras Conca mazzone
Serpi Grotta della volpe
Dualchi Dualchi
34 35 36
Paule rues Coloras Rio Mariani
Palude delle gru Serpi Ruscello della volpe
Dualchi Flussio Lei
37 38 39
Riu Pibirinu Cherbos Crastu puzzone
Ruscello della falena Cervi Masso dell’uccello
Lei Macomer Macomer
28 29 30 31
78
40 41 42 43 44
Grifones Mandra ‘e tùrtures Mandra de turturas Nuraghe columbos
Grifoni Recinto (per il bestiame) delle tortore Nuraghe dei colombi (o colombacci) Nuraghe della cavalletta Ruscello dei colombacci
Macomer Macomer Macomer
Nuraghe su tilibirche Rio columbos Riu columbos Coloras Funtana coloras Sorighes Crastu enturzu
Serpi Fonte delle serpi Topi Masso dell’avvoltoio (grifone)
Magomadas
48
Funtana s’attolibrio Su tilibriu
Fonte del gheppio Il gheppio
Montresta
49
Punta su crabolo
Punta del daino
Montresta
50 51
Rio columbos Rio sas corrogas Riu sas corrogas Casa corrincas Corrincas Funtana sa rundine
Ruscello dei colombacci Ruscello delle cornacchie
Montresta Montresta
Casa di Corrincas Cornacchie Fonte della rondine
Noragugume Noragugume
Mucchio di pietre dell’aquila
Noragugume
Nido del corvo
Noragugume
56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66
Montrigu abile Montrigu abite Niu crobu Niugorbu Sa rundine Serra mariani Serra sos crabolos Su zilibricu Funtana coloras Sas ranas Adu marapiga Funtana enturzu Funtana e donna Marapiga Mura columbu
Noragugume Noragugume Noragugume Noragugume Sagama Sagama Silanus Silanus Silanus Silanus Silanus
67 68 69 70
Mura puzzone Nuraghe corbos Punta mara piga Punta Mura e sorighe
71
R. Serra Mariani
La rondine Costa della volpe Costa dei daini La cavalletta Fonte delle serpi Le rane Guado della gazza Fonte del grifone Fonte della donnola Gazza Mucchio di pietre del colombo (o colombaccio) Mucchio di pietre dell’uccello Nuraghe dei corvi Punta della gazza Punta del mucchio di pietre dei topi R. Costa della volpe
72
Matta e donnas
Albero delle donnole
Sindia
73
Nuraghe della volpe
Sindia
Cinghiali
Sindia
75
Nuraghe Nela58 Nuraghe Nelu Pelcrabis Polcrabis Perdigias
Pernici
Sindia
76 77
Riu Carrabusu Sos sorighes
Ruscello delle stercorario I topi
Sindia Sindia
45 46 47
52 53 54 55
74
Macomer Macomer
Magomadas Montresta
Silanus Silanus Silanus Silanus Silanus
58
Pittau partendo dal fatto che “probabilmente a Sindia su nele indicava la volpe maschio, sa nela la volpe femmina” (Pittau, 2006) ha pubblicato uno studio sui toponimi sardi in cui compare come secondo componente il termine unele di diretta derivazione dal protosardo o dal sardiano (Pittau, 2006).
79
78 79 80 81 82
Badu crabolu Ponte Badu e crabolu S’ena de su mazzone S’ena e su mazzone Pala enturzu Torre columbargia
Guado del daino Ponte del guado del daino Terreno umido della volpe Costa del grifone Torre colombaia
Suni Suni Suni Tresnuraghes Tresnuraghes
4.c.2. Elenco dei toponimi relativi alla fauna domestica.
N.
Toponimo
Significato
Comune
1
Pala ‘e cane Pale cane Bacchile ezzu Coa ‘e mandras
Costa del cane
Birori
Vecchio ricovero per vacche La coda (nel senso prob. di parte terminale di una zona) dei recinti Ricoveri per capre
Bolotana Bolotana
2 3
4 5 6 7 8 9 10
Crapiles Crapriles Montrigu porcarzu Pedru oe Pedru oes Puddedigos Pudderigos Su oe Crabiles bezzos Mandras de Pala Piccamolas Nuraghe craba
11 12 13
Nuraghe Porcarzos Porcarzos Putzu oes Runcu porcheddu
14
Sa coa de su attu
15 16
Sos porchiles Su achileddu Su bachileddu Su nodu de su porcheddu Arulas Berre Nuraghe Berre Coa e caddu Coa e coddu
17 18 19 20
21 22
Ingrassacanes Mandra ‘e cannas Mandra cannas
Bolotana
Mucchio di pietre del porcaro Pietro dei buoi o prato dei buoi Puledri
Bolotana Bolotana
Il bue Vecchi ricoveri per capre Recinti di Pala Scolpisci-macine59 Nuraghe della capra
Bolotana Borore Borore
Nuraghe dei porcari Porcari Pozzo dei buoi Sporgenza (di un rilievo) del maialetto La coda (nel senso prob. di parte terminale di una zona) del gatto Le porcilaie Piccolo ricovero per vacche
Borore
Mucchio di pietre del maialetto Porcilaie Verro Nuraghe del verro Coda (nel senso prob. di parte terminale di una zona) di cavallo Ingrassa-cani Recinto di canne
Bolotana
Borore
Borore Borore Borore
Borore Borore Borore Bortigali Bortigali Bortigali
Bortigali Bortigali
59
Cognome e soprannome del proprietario, come riportato anche da Pittau che ne dà la traduzione in “Pala Aguzzatore di macine” (Pittau, s.a.)
80
24
Mandras e cannas Nuraghe boes Nuraghe oes Nuraghe s’immandradorzu
25
Nuraghe sa mandra e sa giua
26 27 28
Occhidorzu Pedra ‘e puddu S’achile de pedrischeddu Su achile de pedrischedda S’immandradorgiu S’immandradorzu S’immandradoxiu
23
29
30
Sa coa de su cane
31 32 33
Sa mandra sa giua Scalas ebas Sos bacchileddos Sos bachileddos Badu de pischina ebbas
34 35 36 37 38 39 40
Bortigali
Nuraghe del recinto o punto per radunare il bestiame Nuraghe del recinto della mandria di buoi Scannatoio Pietra del gallo Il ricovero per vacche di piccole pietre Recinto o punto per radunare il bestiame
Bortigali Bortigali Bortigali Bortigali Bortigali Bortigali
La coda (nel senso prob. di parte terminale di una zona) del cane Recinto della mandria di buoi Crinale delle cavalle Piccoli ricoveri per vacche
Bortigali
Guado della pozza d’acqua delle cavalle Campo del cavallo Casa Recinto di Cubeddu Casa del crinale dei gatti Cavalla cattiva Recinto dei puledri Piede di pollo
Bosa
Bortigali Bortigali Bortigali
Pozza d’acqua delle cavalle Rio delle porcilaie Fonte delle pecore Cavallanti Probabilmente: Zona di maiali60 Nuraghe delle capre Il ricovero per vacche alto
Dualchi Dualchi
48 49 50 51 52 53
Campu su caddu Casa Mandra Cubeddu Casa scala e attos Ebba mala Mandra poderigos Pe puddu Pebuddu Pischina ebbas Rio sos suiles Sorgente alveghes Caddaris Manalene Mannalena Nuraghe Crabas Sacchilartu Sachilartu Perd ’ e cani Nuraghe Caddaris Cuccuru sa pala de su crabaxiu Ingrassa canes Magheddu Mandra ‘e turtures
Pietra del cane Nuraghe dei cavallanti Punta della costa del capraio Ingrassa-cani Macello Recinto delle tortore
Flussio Flussio Macomer Macomer Macomer Macomer
54
Mandra de turturas Mandras
Recinti
Macomer
55 56 57 58
Nuraghe Crabarida Nuraghe Erbeghiles Nuraghe Mandras Nuraghe Sa mandra tunda
Macomer Macomer Macomer Macomer
59 60 61
Pasciale de Aeddo Puttu oes Sa ghea de su porcu
Nuraghe del pascolo per capre Nuraghe dei ricoveri per pecore Nuraghe dei recinti Nuraghe del recinto rotondo Recinto di Aeddo Pozzo dei buoi La valle del maiale
41 42 43 44 45 46 47
60
Nuraghe dei buoi
Bosa Bosa Bosa Bosa Bosa Bosa Bosa Bosa Bosa Dualchi Dualchi
Macomer Macomer Macomer
Per Pittau potrebbe derivare da mannale, maiale (Pittau, s.a.)
81
62
Sa mura de su caddu
63 64 65
Sa pala de sa crabarza Su crabileddu Casa Mandra pudderigos Mandra Pudderigos Casa Su suiles Su suiles Percione de caddos
66 67 68
Piscina ebbas Rio Pischinas ebbas
69
Su acchile sa terra rugia
70 71
Su gianitu su cani malu Baccarzos Rio Baccarzos Berbeghe niedda Berbeghinieddu61 Coa de caddu
72 73
74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89
91 92 93 94 95 96 97
Baccalzos Chelcu e canes Chercu e cane Crabalza Rio Crabolza Riu Crabalza Mandra filigosa Mandra serrana Pe e puddu Pè e caddu Mandra ludosa Nuraghe porcos Rio Crabile Sarcheddu
98
Sos Porchinales
90
61
S’abba e sa mandra S’abba sa mandra Bacalzos Rio Baccazzos Nuraghe Pascialzos Pascialzos Benaoes Mandrarosa Caddos Riu Caddos Sos orrios Abbadorgiu Mandra puddedros Mandra sa perda Piena Porcalzos Samandra Su craste s’albeghe Achile Pergiadus
Le more o il mucchio di pietre del cavallo La costa della capraia Il piccolo ricovero per capre Casa di Mandra Pudderigos Recinto dei puledri Casa delle porcilaie Le porcilaie Crepaccio di cavalli (prob. crepaccio azzoppa cavalli) Pozza d’acqua delle cavalle Rio della pozza d’acqua delle cavalle Il ricovero per vacche della terra rossa Il guaire del cane cattivo Vaccari Rio dei vaccari Pecora nera
Macomer Macomer Macomer Montresta Montresta Montresta Montresta
Montresta Montresta Noragugume Noragugume
Coda (nel senso prob. di parte terminale di una zona) del cavallo L’acqua del recinto
Noragugume
Vaccari Rio dei vaccari N. dei ricoveri per animali Ricoveri per animali Terreno umido dei buoi Recinto (della) rosa Cavalli Ruscello dei cavalli I ragli Abbeveratoio Recinto dei puledri Recinto della pietra Piena, rigagnolo dei porcari Il recinto Il masso della pecora Ricovero per vacche di Pergiadus Vaccari Rovere del cane
Sàgama
Noragugume
Sàgama Silanus Silanus Silanus Silanus Sindia Sindia Sindia Sindia Sindia Sindia Suni Suni Suni
Capraia Ruscello della capraia
Suni
Recinto pieno di felci Recinto di Serrana Piede di pollo Piede di cavallo Recinto fangoso Nuraghe dei maiali Ruscello del ricovero per capre di Sarcheddu I ricoveri per maiali
Suni Suni Suni Suni Tresnuraghes Tresnuraghes Tresnuraghes Tresnuraghes
Per Pittau da ricondursi al soprannome del padrone del terreno (Pittau, s.a.).
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5. Conclusioni.
Da quanto studiato è emerso chiaramente come la fauna sarda, e in particolar modo la Macrofauna rappresentata dai Mammiferi Ungulati, abbia nel tempo subito una pesante influenza da parte di diverse attività umane, esercitata e nei riguardi degli animali stessi e nei riguardi del loro ambiente. Si è visto infatti come la pressione antropica abbia portato, a partire soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento per raggiungere il suo culmine verso la metà del secolo successivo, a considerevoli modificazioni degli areali storici di distribuzione della Macrofauna isolana. Modificazioni che per la maggior parte delle specie interessate sono state rappresentate da una riduzione considerevole degli areali di distribuzione, nonché in maniera diretta dalla diminuzione anche drastica del numero di esponenti, sebbene non mancano alterazioni nel senso opposto. Questo lavoro ha infatti mostrato per un verso il caso limite rappresentato dal daino, estintosi totalmente nell’isola e successivamente reintrodotto dall’uomo, per un altro il caso esemplare costituito dal cinghiale, animale che ha viceversa conosciuto, e non solo in Sardegna, un’espansione notevole, come conseguenza della considerevole adattabilità della specie e degli squilibri prodotti nell’ambiente. Si è così potuto evidenziare come per tutta una serie di motivi (dall’interesse venatorio suscitato già in epoche remote e mai arrestatosi, sino ad arrivare agli episodi di bracconaggio, alla progressiva modificazione dell’ habitat di alcune specie culminata per certe zone nella sua totale distruzione, alla frammentazione degli areali di popolamento causata dalle modificazioni avutesi in seno alla tradizionale società agro – pastorale e allo sviluppo della viabilità campestre in primis) gli Ungulati si prestino a essere presentati come esempi emblematici del complesso rapporto uomo – ambiente in Sardegna. Casi emblematici le cui fluttuazioni demografiche, in concomitanza con un altro fattore ancor più preponderante, ovvero la modernizzazione dell’allevamento del bestiame nell’isola, non hanno mancato di modificare, come osservato, la catena trofica con il conseguente e considerevole declino, aggravato da tutto un insieme di concause sempre di origine antropica, dell’ultima specie animale presentata come significativa della fauna sarda, l’avvoltoio grifone. E’ emerso altresì come proprio il grifone sia la specie isolana le cui vicende si prestano maggiormente a testimoniare le trasformazioni verificatesi in seno alle forme tradizionali di pastorizia estensiva e alla stessa organizzazione territoriale delle campagne, soprattutto dalla metà del secolo scorso in poi.
Una delle principali difficoltà riscontrate nella stesura di questo lavoro è stata bene espressa da Apollonio quando, proprio in riferimento agli Ungulati, sottolinea che:
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“Lo sviluppo della ricerca scientifica su questo gruppo negli ultimi dieci anni ha seguito la stessa tendenza delle specie oggetto di studio, risultando alquanto ineguale sia per lo sforzo dedicato alle diverse specie, sia per l’attenzione dedicata alle diverse discipline. E’ palese un approccio fortemente opportunistico ai diversi temi di ricerca, che spesso non hanno legami con le reali necessità della gestione faunistica.” (Apollonio, 2004, p. 22).
Si è cercato per quanto possibile di sopperire a queste lacune, limitatamente agli animali studiati, mediante la comparazione di diverse fonti che, laddove possibile, prendessero in esame problematiche comuni legate alla gestione delle stesse specie in realtà anche distanti dalla Sardegna. Si è così potuto evidenziare come queste problematiche siano, per tutta una serie di animali selvatici, di interesse europeo se non globale, e come specie che pure nell’areale originario risultano in rarefazione possano invece costituire, qualora introdotte in nuovi contesti, una minaccia talvolta considerevole anche nei confronti della stessa biodiversità animale e vegetale, oltre che risultare nocive nei confronti di alcune attività umane.
Seguendo poi per così dire un percorso inverso a quello appena esposto, nel ricondurre le specie campione individuate alla specifica realtà isolana dello scrivente, quella del Marghine – Planargia, si sono potute individuare le dinamiche che, a un livello più ristretto, hanno portato alla situazione faunistica attuale di tali zone che, come emerso, si presenta ben diversa rispetto solo a pochi decenni fa, nel segno di un impoverimento anche forte delle specie animali rappresentative e di considerevoli trasformazioni ambientali che, rendendone difficoltoso il ripristino, pongono come necessaria una attenta pianificazione territoriale e gestionale. Mediante infine l’analisi della toponomastica relativa alla fauna delle due sub–regioni, si è potuto verificare come la memoria storica locale possa contribuire non soltanto a una maggiore conoscenza delle dinamiche distributive della fauna stessa in una determinata area, ma permetta in definitiva di inquadrare l’animale selvatico anche come componente e frutto, più o meno consapevole, di un dato sistema tradizionale, il che ne fa in definitiva, per usare la significativa definizione propostane da Massetti (Massetti, 2008), un vero e proprio “bene culturale”.
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