A.D. MDLXII
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USTED TIENE OJOS DE MUJER FATAL: TRADUCCIÓN Y ANÁLISIS
Relatore: PROF.SSA MARTA GALIÑANES GALLÉN
Correlatore: PROF. FIORENZO TOSO
Tesi di Laurea di: MARIA ANTONIETTA SABA
ANNO ACCADEMICO 2009/2010
A mio padre, perchÊ non si lamenta mai, a mia madre, perchÊ sa sorridere alla vita, ai miei fratelli, perchÊ è bello ridere insieme.
119
Indice
1.
INTRODUZIONE ................................................................................. 2
2.
ASPETTI METODOLOGICI............................................................. 5 2.1. COSA SIGNIFICA TRADURRE .......................................................... 6 2.2. LA TRADUZIONE UMORISTICA ...................................................... 8 2.2.1.
Che cos’è l’umorismo? ....................................................................... 8
2.2.2.
Come tradurre l’umorismo? ............................................................. 12
2.3. ENRIQUE JARDIEL PONCELA ........................................................ 14 2.4. LO STILE DELL’AUTORE ................................................................ 16 2.5. USTED TIENE OJOS DE MUJER FATAL ........................................ 19 2.6. GLI ELEMENTI UMORISTICI NEI PERSONAGGI ........................ 26 2.7. NOTA ALLA TRADUZIONE ............................................................. 30 3.
LEI HA DEGLI OCCHI DA DONNA FATALE .................................... 36
4.
CONCLUSIONI ..................................................................................... 113
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................. 115
1
1.
INTRODUZIONE
2
La presente tesi è incentrata sulla traduzione e l’analisi di una commedia di Enrique Jardiel Poncela, dal titolo Usted tiene ojos de mujer fatal. La scelta di una tesi di questo tipo si deve semplicemente al fatto che, vivendo in una civiltà globale, la traduzione rappresenta un importante veicolo di comunicazione per trasmettere la cultura da un Paese all’altro, ed è bene che questa attività non ritorni ad essere un semplice passatempo per pochi appassionati, ma sia riconosciuta e valorizzata come una professione a tutti gli effetti. Per la stesura del lavoro si è proceduto così. Per prima cosa, per scegliere l’opera da tradurre son state lette diverse commedie dello stesso autore, e se la scelta è ricaduta sulla presente è stato puramente per un gusto personale. Erano tutte molto divertenti, ma questa forse aveva quel qualcosa in più che l’ha portata ad essere riletta approfonditamente, analizzata e tradotta. La tesi si divide fondamentalmente in due sezioni, che ora presentiamo brevemente. La prima sezione costituisce una parte teorica, più generale, che si focalizza sugli aspetti metodologici. Nel primo paragrafo si introduce il ruolo del traduttore, e si spiega brevemente in cosa consiste il suo lavoro. Vengono proposte teorie contrastanti in merito: una secondo cui la traduzione migliore è quella letterale, una che nega questa teoria perché non esiste una traduzione che possa essere definita perfetta, e una terza, più equilibrata secondo la quale si traduce cercando il corrispettivo equivalente tra le due lingue. Il secondo paragrafo tratta della traduzione umoristica. Si parte con un breve excursus sull’umorismo in generale, con le ragioni che
lo generano, fino
all’elaborazione del principio secondo il quale l’umorismo non può essere tradotto alla lettera perché, essendo un fattore strettamente legato con la cultura, non può mai essere uguale tra le due lingue, di partenza e d’arrivo. Dopo questi preamboli nel terzo paragrafo arriviamo a introdurre l’opera, prima con la biografia dell’autore e una breve analisi del suo stile, con riferimento al Teatro dell’Assurdo, di cui fa parte, e i tratti salienti del suo umorismo. I paragrafi successivi riguardano le caratteristiche di Usted tiene ojos de mujer fatal, in particolare se ne analizzano i temi principali, che come vedremo sono l’amore e il donjuanismo, ma che l’autore con il suo umorismo di avanguardia porta al limite del ridicolo. Un paragrafo è incentrato sugli elementi umoristici presenti nell’opera, con 3
un’analisi dei personaggi che contribuiscono un maggior misura a renderla divertente; infine l’ultimo paragrafo di questa prima sezione vuole essere una nota stilistica alla traduzione della commedia, si spiegano i criteri adottati e le soluzioni trovate per risolvere alcuni problemi legati all’umorismo. La seconda sezione è occupata unicamente dalla traduzione dell’opera, una commedia in tre atti più un prologo, che è lungo quasi quanto un atto. La traduzione non presenta un testo a fronte, ma è stato deciso così per spingere chi la leggerà ad acquistare il testo in lingua originale, perché Jardiel Poncela merita veramente di essere letto, ma purtroppo in Italia non è molto conosciuto, proprio perché nessuno prima d’ora lo ha mai tradotto, perciò questa tesi vuole essere un invito ad avvicinarsi a lui e al suo stile antirealista e, perché no, promuoverne la diffusione nel nostro Paese.
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2. ASPETTI METODOLOGICI
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2.1. COSA SIGNIFICA TRADURRE Essendo questa tesi incentrata su una traduzione, non si può prescindere dal fare una riflessione generale sul lavoro di traduzione e spiegare in cosa consiste. Tradurre significa sostanzialmente riportare in una lingua quanto detto o scritto in un’altra, cercando di alterarne il meno possibile il significato e lo stile dell’autore della lingua di partenza. Chi si occupa di tradurre la lingua parlata normalmente è chiamato interprete, mentre il traduttore propriamente detto è colui che traduce i testi scritti. La traduzione è stata oggetto di studio di molti esperti, ma ha subìto una decisiva svolta negli anni ’70, con l’avvento dei cosiddetti Translation Studies che ne hanno permesso un’analisi a tutto tondo, considerando il lavoro traduttivo non una branca della linguistica, come per molto tempo si è affermato, bensì una sorta di attività interdisciplinare, in quanto non si riduce a una semplice trasposizione di significato, ma è frutto di una serie di elementi extralinguistici, quali il contesto socio-culturale, e perché no, le stesse scelte individuali del traduttore.1 A proposito di traduzione è importante considerare il punto di vista di Roman Jakobson, nonostante sia molto anteriore ai Translation Studies, che divide questa attività in tre categorie:
a) La traduzione intralinguistica, che consiste nel tradurre un segno in altri segni della stessa lingua, è detta anche riformulazione; b) La traduzione interlinguistica, ossia la trasmissione dello stesso segno da una lingua all’altra, nient’altro che la traduzione come la intendiamo oggi; c) La traduzione cosiddetta intersemiotica, ovvero la traduzione in qualsiasi altro sistema non verbale di segni.2
1
Cfr. Edwin Gentzler, Teorie della traduzione: tendenze contemporanee, a cura di Margherita Ulrych, traduzione di Maria Teresa Musacchio, Torino, Utet Libreria, 1998. 2 Virgilio Tortosa, Re-escrituras de lo global: traducción e interculturalidad, Madrid, Biblioteca Nueva, 2008, p. 108.
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Questa visione di Jakobson è interessante perché amplia il concetto di traduzione e ci porta a riflettere sul fatto che in fin dei conti tutto l’atto comunicativo è una traduzione. Valentín García Yebra afferma che la traduzione consta di due fasi fondamentali: la fase di comprensione e la fase di espressione, che definisce “las dos alas del traductor”, senza le quali non può volare.3 Durante la fase di comprensione il traduttore si concentra sul contenuto del testo per estrapolarne il significato e cercare di comprendere l’intento perseguito dall’autore. Si differenzia da un semplice lettore perché non è sufficiente una sola lettura, ma ci si deve soffermare e meditare a lungo. Non è questa la traduzione vera e propria, ma rappresenta comunque una fase imprescindibile per il processo traduttivo. La fase espressiva è quella in cui il traduttore, dopo aver studiato a fondo il testo, e averlo compreso, lo riproduce cercando di rispettarne le caratteristiche. Affinché ciò sia possibile è necessaria una buona conoscenza delle due lingue, quella di partenza perché si comprenda il messaggio, ma ancora meglio quella d’arrivo per essere in grado di trasmettere lo stesso messaggio che voleva trasmettere l’autore del testo originario. Ma rispettare la volontà dell’autore a volte non è semplice. Il dibattito è sempre acceso perché le opinioni a riguardo sono discordanti. Ad esempio, sempre García Yebra, raccomanda di tradurre riportando tutto ciò che dice l’originale, non dicendo nulla che l’originale non dica, e dicendolo con la correttezza e la naturalezza che la lingua terminale consente.4 Se ci si attiene contemporaneamente alle tre regole la traduzione sarà perfetta; ma spesso questo non è possibile, perché le prime due regole implicano una fedeltà assoluta alla struttura del testo, invece la terza vorrebbe consentire un certo grado di libertà per adattare il testo alle esigenze della lingua d’arrivo. Tradurre non è un compito facile, infatti, a differenza di García Yebra, José Ortega y Gasset non nega che sia possibile, ma definisce un affanno utopico la ricerca della traduzione perfetta.5 Bisogna tener presente un fatto fondamentale, e cioè che le lingue sono diverse tra loro, e al momento di passare da una all’altra si rischia di farlo in modo approssimativo, perché non è sempre possibile far conciliare forma e contenuto. Se 3
Valentín García Yebra, Experiencias de un traductor, Madrid, Gredos, 2006, p. 46. Ivi, p. 22. 5 J. Ortega y Gasset, Miseria y resplandor de la traducción, cit. in V. García Yebra, op. cit., p 81. 4
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pensiamo ad esempio di dover tradurre la Divina Commedia, come dovremmo agire? Se rispettiamo la forma, ad esempio la metrica e le rime, non è detto che anche il contenuto rimarrà fedele all’originale; viceversa, al momento di privilegiare il contenuto ne risentirà necessariamente la forma. Ora, la Divina Commedia è un esempio estremo perché non è un testo in prosa, ma quello che ci interessa è capire che il traduttore si trova spesso di fronte a un bivio, perché ha come dovere quello di rispettare l’originale. Ma rispettarlo nella forma o nel contenuto? Questo dipende in primo luogo dal testo da tradurre, che a volte non presenta nessun tipo di problema, ma dipende molto anche dalla scelta personale del traduttore. Una soluzione può essere quella proposta da Eugene Nida e Charles Taber, secondo i quali per tradurre bisogna “riprodurre il messaggio della lingua di partenza nella lingua d’arrivo, mediante l’equivalente naturale più prossimo, prima tenendo conto del senso e poi dello stile.”6 Salta fuori quindi il concetto di equivalenza, che approfondiremo nel prossimo paragrafo, dove affronteremo il tema della traduzione umoristica, così da iniziare a comprendere i meccanismi che stanno alla base della traduzione di cui tratta questa tesi.
2.2. LA TRADUZIONE UMORISTICA 2.2.1. Che cos’è l’umorismo? Sulla traduzione in generale si è dibattuto tanto, ma a dire il vero la traduzione umoristica in particolare non ha mai suscitato molto interesse fra gli studiosi, forse perché tradurre l’umorismo è un po’ quell’affanno utopico di cui parlava Ortega y Gasset. Ma prima di accingerci ad analizzare questa sottocategoria della traduzione, forse è opportuno fare qualche accenno sull’umorismo come fenomeno.
6
E. Nida e C. Taber, La traduction: théorie et méthode, cit. in V. García Yebra, op. cit., p. 199.
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“L’umorismo è un dono raro e prezioso, e molti non sono in grado di trarne piacere neanche quando qualcuno glielo presenta davanti.”7 Questa è una frase di Sigmund Freud, che ci anticipa quel concetto, che vedremo più avanti, per cui saper fare umorismo è sintomo di grande intelligenza. La figura dell’umorista non è sempre stata vista con una connotazione positiva, al contrario, fino alla metà del XVI secolo, l’humour indicava per gli inglesi una stranezza caratteriale e una condotta generalmente bizzarra;8 tuttavia col tempo ha acquisito un’importanza sempre maggiore, e tutt’oggi è considerato alla stregua di una virtù. Vediamo come lo definiscono tre dizionari, rispettivamente spagnolo, inglese e italiano: a) “Actividad profesional que busca la diversión del público mediante chistes, imitaciones, parodias u otros medios”;9 b) “The quality in something that makes it funny and makes people laugh”;10 c) “Modo intelligente, sottile e ingegnoso di vedere, interpretare e presentare la realtà, ponendone in risalto gli aspetti insoliti, bizzarri e divertenti”.11 Abbiamo motivo di affermare che il padre degli studi sull’umorismo sia Aristotele. Dopo di lui vari filosofi si sono interessati all’argomento, e in generale è un tema affrontato da diversi autori, ma tutte le teorie arrivano sostanzialmente alle medesime conclusioni. Pensiamo ad esempio alla domanda più banale. Perché ridiamo? Ora vedremo brevemente come si può riassumere il pensiero di tanti autori in tre principali teorie.12
Teoria della superiorità Secondo questa teoria noi ridiamo degli altri perché, consapevolmente o meno, ci sentiamo superiori a essi. Il filosofo Hobbes nella sua opera Leviathan spiega la risata come “una gloria improvvisa per il trionfo di noi stessi o per l’umiliazione subita da
7
G. Forabosco, Il settimo senso: la psicologia del senso dell’umorismo con istruzioni per l’uso, Padova, Franco Muzzio editore, 1994, p.1. 8 Ivi, p. 41. 9 Real Academia Española, Diccionario esencial de la lengua española, Madrid, Espasa Calpe, 2006, p. 796. 10 Longman dictionary of contemporary english, Harlow, Longman, 2009, p. 796. 11 N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Milano, Zanichelli, 2001, p. 1137. 12 M. Hart, La traducción del sentido del humor: limitaciones literarias, Universidad de Las Palmas de Gran Canaria, 1998, pp 16-33.
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qualcun altro.”13 Ciò significa che chi ride lo fa perché in un certo senso dimentica per un po’ la sua mancanza di abilità perché concentrato a osservare la momentanea incapacità del prossimo. Un esempio è dato dalle barzellette sui carabinieri, sugli scozzesi, e in generale tutti quei gruppi di persone considerate come stereotipi dei difetti umani. A questo proposito si è stabilita una distinzione tra in-groups, ai quali appartengono coloro che ridono degli altri, e gli out-groups, che comprendono le “vittime” delle nostre risate. L’umorismo è concepito in questo senso come un fenomeno universale, proprio perché esistono ovunque degli in-groups e degli out-groups, e tutti apparteniamo necessariamente ad una o all’altra categoria.
Teoria dell’umorismo come sollievo per la tensione anticipata È un tipo di umorismo particolare, si utilizza principalmente per rompere con i tabù, per trattare temi che la società in qualche modo evita, o nel caso di regimi autoritari addirittura proibisce. Parliamo ad esempio delle barzellette a sfondo sessuale, (anche se oramai tali argomenti non sono più considerati come censurabili), ma soprattutto pensiamo alla satira. Nei Paesi occidentali in particolar modo, la satira trova terreno fertile, se la intendiamo come satira politica. L’esempio concreto dell’Italia è particolarmente vincente, gli italiani sono sempre scontenti di chi la governa e perciò si servono della satira per esprimere il proprio dissenso. Freud sosteneva che una critica presentata in forma ironica potesse avere successo in ambiti nei quali la stessa critica, rivolta in termini non umoristici non verrebbe accettata.14 L’umorista in questo caso è bravo a mascherare il suo pensiero sotto forma di battuta. Parliamo perciò di sollievo per la tensione anticipata perché appunto, di fronte alla disapprovazione, la paura è che si sfoci in parole pesanti, mentre quando poi ci accorgiamo che si tratta tutto in maniera scherzosa allora tiriamo un sospiro di sollievo. Se detto in maniera giocosa tutto si presenta in modo meno tragico. L’uomo fondamentalmente ha paura delle cose brutte della vita, e ricorre a tanti stratagemmi per non pensarci, oppure cerca di addolcirle un po’ prendendole con spirito. 13 14
T. Hobbes, Leviathan, cit. in M. Hart, op. cit., p 17. Cfr. S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Roma, New Compton editore, 2007.
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A questo proposito è significativo trattare di quegli aforismi conosciuti come “Leggi di Murphy”: dei detti a carattere ironico, il cui intento è, una volta constatato che la realtà ha degli aspetti negativi, semplicemente riderci sopra. Prendiamo come esempio i seguenti: Se sei di buon umore, non ti preoccupare. Ti passerà.15
Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andare male, e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto.16
Sembrano le frasi di un pessimista cosmico, in realtà fanno sorridere proprio per l’inaspettata negatività con cui si concludono. È quindi un voler affrontare la pesantezza della realtà in modo scherzoso. Il fatto che questi aforismi si concludano in modo inaspettato richiama alla terza teoria sull’umorismo, che è la:
Teoria dell’incongruenza percepita Si focalizza sull’effetto sorpresa, dunque l’umorismo nasce dal contrasto che si crea tra ciò che ci aspettiamo di sentirci dire e ciò che in realtà ci viene detto. In effetti se analizziamo la parola inglese funny possiamo osservare che ha due significati: come sostantivo indica “divertimento”; come aggettivo ha significato di “strano”, “insolito”, perciò incongruente. Va tenuto presente che l’umorismo, per quanto sia un fenomeno universale, è strettamente legato alla cultura. Riprendiamo per un attimo la definizione di umorismo che dà il dizionario Zingarelli: “modo intelligente, sottile e ingegnoso di vedere, interpretare la realtà [...]”.17 Il punto è questo: la realtà non è universale, ma si presta a diverse interpretazioni, condizionate in maggiore o minor misura dalla cultura di appartenenza. Ne consegue che difficilmente due persone di culture differenti potranno ridere per la stessa battuta.
15
Postulato di Boling, http://www.sitopreferito.it/html/leggi_di_murphy.html [11/12/2010]. IV corollario alla legge di Murphy, ivi. [11/12/2010] 17 N. Zingarelli, op. cit, p. 1137. 16
11
Qualsiasi affermazione, per apparire incongruente deve comunque sottendere implicitamente un corrispettivo congruente. L’umorismo perciò, per essere riconosciuto collettivamente come tale, deve essere frutto della condivisione di determinati valori. Il filosofo Wittgenstein sosteneva che per condividere un gioco linguistico autore e pubblico devono condividere lo stesso stile di vita;18 e per l’umorismo è la stessa cosa, i doppi sensi ad esempio non sono altro che dei giochi linguistici. Walter Nash nel suo libro The language of humour dice che: Humour is not for babies, Martians or congenital idiots. We share our humour with those who have shared our history and who understand our way of interpreting experience. There’s a fund of common knowledge and recollection,
upon
which
all
jokes
draw
with
19
instantaneous effects.
Il problema che quindi nasce è questo: se l’umorismo è così fortemente connotato culturalmente è possibile tradurlo?
2.2.2. Come tradurre l’umorismo? Abbiamo accennato al concetto di equivalenza, ma cercheremo di spiegarlo ora. È difficile spiegare cosa si intende con il termine equivalenza, perché è ambigua anche la definizione che ne danno i dizionari; ad esempio in tedesco due cose equivalenti sono identiche, mentre in inglese sono quasi uguali, perciò abbiamo versioni contrastanti. Ciò che però possiamo affermare con certezza è che abbiamo diversi tipi di equivalenza. Pensiamo alle prime traduzioni in assoluto: le traduzioni della Bibbia. San Girolamo raccomandava di tradurre parola per parola. Questo tipo di equivalenza è detto formale, perché predilige la forma del testo rispetto al contenuto. Tuttavia san Girolamo riservava solo ai Testi Sacri questo tipo di
18
Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Filosoficus e altri scritti filosofici non postumi, Torino, Einaudi, 1992. 19 Margaret Hart, op. cit., p. 33.
12
traduzione, diversamente proponeva una trasposizione non verbum e verbo sed sensum de sensu.20 Le Sacre Scritture all’epoca erano riservate a quella élite di persone colte, che costituivano una minima parte della popolazione, ma non si preoccupavano di indagare sul significato, le prendevano per buone a priori. Quando anche il popolo iniziò ad alfabetizzarsi si rese necessaria una Parola che fosse comprensibile per tutti; perciò le traduzioni cercarono di indirizzarsi a rispettare una volontà pragmatica, quella di non far solo leggere il testo sacro, ma anche farne comprendere il significato alle persone meno colte. Parliamo in questo caso di una equivalenza dinamica. Vi è poi un terzo tipo di equivalenza, leggermente diversa, che è l’equivalenza funzionale. La forma non ha più un valore vincolante, anzi passa in secondo piano rispetto allo scopo che il testo deve raggiungere. Se si deve tradurre una commedia, una traduzione parola per parola si dimostrerà del tutto inadeguata, perché difficilmente si riuscirà a rendere lo stesso effetto umoristico dell’originale. Sulla traducibilità o meno dell’umorismo abbiamo varie opinioni. C’è chi lo considera assolutamente intraducibile, come Santoyo,21 altri invece come Newmark affermano l’esatto contrario.22 In linea di massima comunque l’umorismo è intraducibile nel momento in cui si decide di procedere con una traduzione verbum e verbo. La traduzione è strettamente legata alla funzione che un testo deve compiere, perciò, un testo divulgativo che ha solo la funzione di informare potrà essere tradotto alla maniera classica, un testo poetico sarà improntato sul rispetto delle figure retoriche, e così via. Un testo comico non può essere tradotto letteralmente perché perderebbe la sua ragion d’essere, se nella lingua di partenza è stato concepito per far ridere, dovrà far ridere anche nella lingua d’arrivo, anche se questo comporterà necessariamente dei cambiamenti formali, perché per quanto due lingue possano essere vicine, come nel nostro caso l’italiano e lo spagnolo, non condivideranno mai gli stessi elementi culturali, perciò bisognerà non perdere mai di vista la funzione del testo, e tradurre rispettando quest’ultima.
20
E. Torre, Teoría de la traducción literaria, Madrid, Editorial Síntesis, 1994, p. 21. “Traducción de cultura, traducción de civilización”, en A. Hurtado Albir (ed.), Estudios sobre la traducción, Castelló, Universitad Jaume I, 1994, p. 145. 22 Peter Newmark, Manual de traducción, traducción al español de V. Moya, Madrid, Cátedra, 2004, p. 292. 21
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2.3. ENRIQUE JARDIEL PONCELA Usted tiene ojos de mujer fatal è una commedia in tre atti scritta da Enrique Jardiel Poncela nei primi anni trenta, e rappresentata per la prima volta a Valencia il 20 settembre 1932.23 Jardiel Poncela è uno scrittore e drammaturgo spagnolo, appartenente a quella che verrà denominata La otra generación del 27, movimento parallelo alla cosiddetta Generación del 27, di cui erano esponenti importanti poeti quali Federico García Lorca, Pedro Salinas, Rafael Alberti etc. Questa corrente racchiude vari autori, i quali incentrano la loro opera principalmente sull’umorismo. Jardiel Poncela per l’appunto è uno di essi, insieme ad altri discepoli di Ramón Gomez de la Serna, quali Miguel Mihura, Edgar Neville e Antonio de Lara. Nato a Madrid il 15 ottobre 1901, Jardiel Poncela trova già nella sua famiglia un terreno fertile per recepire stimoli culturali e coltivare la sua passione letteraria. Il padre è un giornalista che collabora per La correspondencia de España, e la madre vanta notevoli doti per la pittura, doti che gli trasmetterà e che il figlio metterà in pratica soprattutto al momento della rappresentazione scenica delle sue opere teatrali. La sua istruzione inizia presto, dai quattro anni infatti intraprende gli studi presso la Institución Libre de Enseñanza, studi che tuttavia, col passare del tempo lo attrarranno sempre meno, rimanendo il suo interesse incentrato unicamente sulla letteratura. Nel 1917 si trasferisce da Madrid a un piccolo podere della famiglia, in campagna, in seguito alle precarie condizioni di salute della madre. La permanenza qui sarà molto proficua per il giovane, la tranquillità del luogo fa da fonte di ispirazione, giacché inizia a comporre i primi scritti, e anche in seguito alla morte della madre vi si recherà spesso proprio per lo stesso motivo. Durante questo periodo avrà modo di far amicizia con un giovane col quale condividerà la stessa passione letteraria, Serafín Adame Martínez, e con cui collaborerà alla realizzazione di alcune operette. Tempo dopo conoscerà José López Rubio, De
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Per la stesura di questo paragrafo ci atterremo al seguente testo. Enrique Jardiel Poncela, Usted tiene ojos de mujer fatal; Angelina o el honor de un brigadier. Edición, introducción y notas de Antonio A. Gómez Yebra, Madrid, Castalia, 1995.
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Lara, Neville e Mihura, che come abbiamo già detto lo accompagneranno nel movimento degli umoristi del ‘27. In realtà la loro vicinanza è data perlopiù dal loro comune stile, un umorismo di avanguardia. Nel 1919 conosce quella che sarà sua moglie, Josefina Peñalver. Nel frattempo anche il suo amico Adame si sposa, così i due decidono di intraprendere carriere separate e Jardiel decide di lasciare all’amico tutte le opere in cui hanno collaborato insieme. Come si può immaginare la scrittura non gli dà subito una sicurezza economica, al contrario, molto spesso si troverà in serie difficoltà, dalle quali fortunatamente riuscirà a venir fuori. Dopo lo scioglimento della collaborazione con Adame, per esempio, entra in contatto con il famoso editore Ruíz Castillo, il quale pubblica due suoi romanzi, Amor se escribe sin hache ed Espérame en Siberia, vida mía, rispettivamente nel 1929 e 1930. Al successo dei due romanzi non segue lo stesso successo per la rappresentazione della commedia El cadáver del Señor García, tuttavia ha l’opportunità di farsi notare da Tirso Escudero, grande “impresario del teatro”, il quale gli commissiona una commedia per celebrare l’avvento della II Repubblica in Spagna. Così Jardiel si mette all’opera per mettere in scena Usted tiene ojos de mujer fatal. La stesura dell’opera non sarà, tuttavia, priva di problemi. Dopo avere già ingaggiato gli attori gli viene chiesto di introdurre un nuovo personaggio, per dar spazio nella commedia a un’attrice emergente dell’epoca. Questo creerà dei malumori nel cast tali da far abbandonare le scene da tutti gli attori e lasciare Jardiel con una commedia pronta ma impossibile da mettere in scena, e senza un soldo. Fortunatamente riceve una proposta come sceneggiatore a Hollywood, e nel frattempo l’attore Benito Cibrián gli offre di rappresentare la commedia a Valencia. Così avviene, Usted tiene ojos de mujer fatal viene messa in scena il 20 settembre 1932, ed ha un successo inaspettato, sul quale nessuno avrebbe scommesso nulla. Da qui in poi la sua vita sarà sempre accompagnata da alti e bassi. Dopo la separazione dalla prima moglie lo affiancheranno altre due donne, nel frattempo scriverà altre commedie, alcune più apprezzate, altre meno. Nel 1945 si ammala di cancro alla laringe, ma sceglie di non farsi curare. Sempre più debole decide comunque di portare in scena le sue commedie, fino alla morte, che lo coglierà il 18 gennaio 1952.
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2.4. LO STILE DELL’AUTORE Tra tutte le opere dell’autore non ce n’è una che non sia improntata sull’umorismo. Egli seguendo le orme del padre collabora per due periodici dell’epoca: Buen Humor, e in seguito per la rivista che sostituirà quest’ultima, Gutiérrez. La sua passione per la letteratura lo accompagnerà sempre, ma soprattutto l’amore per il teatro, basti pensare tra le sue produzioni contiamo quattro romanzi e ben ventisei commedie. A questo proposito egli stesso dice: Desde niño, -tenía tres años, tal vez cuatro- sentí una vocación por el teatro; mis padres, que sabían cuál era mi pasión, me regalaron muchos de papel y cartón, y llegué a reunirlos en mi cuarto a granel: aunque en aquella época mi mayor ilusión no era escribir comedias ni trabajar en él, sino hacer que subiese y bajase el telón.24
Egli non fa mistero di questa sua predilezione, e sostiene che la prosa non gli permetterebbe di avere un contatto col pubblico; in fin dei conti un lettore è un essere passivo, può apprezzare ciò che legge oppure no, ma sempre da solo tra le mura di casa. Il pubblico del teatro invece è un pubblico vivo, e l’autore lavora in funzione di quel pubblico, fa di tutto per cercare di coinvolgerlo e soprattutto vuole essere presente al momento della rappresentazione, per verificare di persona che il suo intento di far ridere sia riuscito. La sua attitudine all’umorismo è spiegata in queste poche righe:
Para mí el humorismo es el padre de todo, puesto que es la esencia concentrada de todo y porque el que hace humorismo piensa, sabe, observa y siente.25
È evidente che Jardiel fa dell’umorismo quasi la sua ragione di vita. Tra gli strumenti di cui si serve per fare umorismo ritroviamo sicuramente il linguaggio. Ad essere sinceri proprio questo non è una grande innovazione per il teatro, ma Jardiel sa sfruttarlo bene in tutte le sue forme e rinnovarlo; ad esempio nei dialoghi 24
Enrique Jardiel Poncela, op. cit., p. 8. Congreso de Literatura española Contemporánea 10, 11, 12 y 13 de noviembre 1992, Jardiel Poncela. Teatro, vanguardia y humor, Barcelona, Anthropos, 1993, p. 34. 25
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possiamo trovare arcaismi, cultismi, molto spesso anche volgarismi, ovviamente messi in bocca ai personaggi più insospettabili. Utilizza sovente anche le similitudini, nelle quali il secondo termine di paragone sarà sempre il contrario di quanto ci si aspetta, quindi delle similitudini in un certo senso degradanti. Fondamentale importanza nelle sue opere hanno poi le cosiddette Greguerías, un vero e proprio genere letterario creato da Ramón Gómez de la Serna (1888-1963), delle quali i dizionari propongono la seguente definizione: “aforismo que presenta una visión personal, sorprendente, aguda y frecuentemente humorística de algún aspecto de la realidad.”26 Le Greguerías riportate da Jardiel non sono altro che una riproposizione di una serie di suoi aforismi riuniti nella raccolta Máximas mínimas, delle piccole riflessioni sugli argomenti più disparati quali le donne, l’amore, l’intelligenza e via dicendo, che vogliono sostituire le classiche frasi fatte. Va sottolineato il fatto che Jardiel considera l’umorismo non un tratto stilistico, ma un vero e proprio genere letterario, per il quale non necessariamente tutti sono portati. È un lusso dello spirito, ed è proprio solo delle persone intelligenti, perché ci vuole intelligenza per ridere, ma anche, e soprattutto, per far ridere27.
El ignorante no comprende el valor verdadero y extraordinario de lo cómico, porque lo cómico o lo humorístico es un rezume decantado de cultura, de inteligencia, de experiencia, de imaginación y de comprensión.28
Le commedie che scrive Jardiel sono frutto di grande intelligenza, che l’autore manifesta con la volontà di cambiare il teatro umoristico dell’epoca. Egli vuole proporre un teatro diverso, originale, un teatro che porti in scena ciò che nessuno ha mai rappresentato prima. Il teatro come Jardiel lo conosceva prima non ha più ragion d’essere perché si sta banalizzando nei contenuti, nei temi, nei ricorsi umoristici, è ormai troppo prevedibile. Dice infatti:
26
AA.VV. Diccionario de uso del Español de América y España, Barcelona, Spes Editorial, 2002, p. 941. Enrique Jardiel Poncela, Espérame en Siberia, vida mía, Edición de Roberto Pérez, Madrid, Cátedra, 2007, p. 55. 28 Congreso de Literatura española Contemporánea, op. cit., p. 38. 27
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¿Y que valor puede tener para representarse en escenario lo que piensan todos, lo que les ha ocurrido a todos? El incorporar la fantasía y la inverosimilitud a la escena era el blanco al que dirigí mis flechas.29
L’autore vuole essere promotore di una corrente teatrale che sia antirealista, non a caso sarà ricordato tra quegli autori appartenenti al Teatro dell’Assurdo. Il nuovo teatro deve rappresentare qualcosa di nuovo, che non ci si aspetta, qualcosa di sorprendente, perché “lo inesperado es siempre gracioso.”30 Nelle sue opere c’è molto di inverosimile, ma trattato con naturalezza. La genialità di Jardiel sta nella unione non conflittuale che riesce a creare tra realtà e surrealismo. Partiamo dai personaggi; l’autore fa di essi la vera e propria rappresentazione dell’assurdo, con una esasperazione dei tratti caratteristici. Le opere di Jardiel sono popolate da pazzi, masochisti, aspiranti suicidi, personaggi in conflitto con se stessi e col mondo, personaggi contraddittori, ma in un modo talmente iperbolizzato che ne evidenzia ancora di più i tratti comici, giacché, come egli stesso afferma “Sin desproporción no hay belleza.”31 I personaggi quindi non incarnano la normalità, così neanche i dialoghi, che qui diventano la più chiara espressione della sinrazón; abbondano frasi ripetute a vanvera, errori grammaticali, espressioni sboccate attribuite a personaggi insospettabili. L’autore gioca veramente tanto per creare questa idea di insensatezza, e di conseguenza, come i personaggi e i loro dialoghi, per una reazione a catena anche le situazioni sono al limite del paradosso. Paradosso dato in primis dalla parodia. Le sue opere sono una parodia di tutto. L’amore è parodiato, i valori non esistono più, o se ci sono, sono trattati con tanto cinismo da rasentare il ridicolo, le classi sociali si ribaltano, si mescolano nobiltà e miseria, poesia e volgarità sembrano figlie della stessa madre, l’autore tende a ridicolizzare tutto. Le tematiche di tutta la sua opera girano intorno all’inverosimile, perché non rispecchia la realtà, né la vuole rispecchiare. Il teatro, come la letteratura, è finzione, e
29
Enrique Jardiel Poncela, Eloisa está debajo de un almendro, Las cinco advertencias de Satanás. Edición de María José Conde Guerri, Guía de lectura de José Miguel Ocaña Iglesias, Madrid, Espasa Calpe, 2006, p. 15. 30 Enrique Jardiel Poncela, Espérame… , cit., p. 45. 31 Enrique Jardiel Poncela, op. cit., p 53.
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come tale deve essere seguito, possibilmente cercando di tenere lontani quegli elementi di realismo da lui tanto ripudiati. Riferendosi alle sue commedie infatti dice:
En ellas lo inverosímil fluye constantemente y, en realidad, sólo lo inverosímil me atrae y subyuga; de tal suerte que, lo que hay de verosímil en mis obras lo he construido siempre como concesión y con repugnancia.32
Per questa sua celebrazione dell’assurdo è un autore apprezzato da tanti e non compreso da altrettanti. Ed è incompreso perché, allontanandosi dallo stile classico sembra trattare in modo superficiale determinati argomenti che forse meriterebbero più spazio. In particolare Francisco García Pavón, critico letterario, dice di lui:
Lo social, lo ético, lo político, lo filosófico, la misma crítica de costumbres estaban ausentes en su obra.33
Tuttavia il suo intento, lungi dal voler apparire una persona frivola, è semplicemente quello di voler delectare; la vita è già abbastanza dura per tutti, e con le sue commedie vuole offrire la possibilità di evadere da quella realtà che tanto opprime l’essere umano, per dedicare un minimo di tempo semplicemente a fingere che sia tutto meraviglioso e ridere di gusto.
2.5. USTED TIENE OJOS DE MUJER FATAL La commedia, come abbiamo già accennato, è strutturata in tre atti, più un prologo. Ora, per quanto riguarda il prologo, è giusto precisare che, nella maggior parte delle commedie, come anche in questa, è abbastanza lungo e articolato tanto da fungere sia da prologo, sia da primo atto. La storia ha una trama se vogliamo piuttosto semplice. Il protagonista, Sergio Hernán, è un dongiovanni incallito, che seduce e abbandona donne su donne, per poi annotare i loro nomi su dei libriccini come una sorta di trofeo. Le porta a casa sua, le 32
Carmen Escudero Martínez, Nueva aproximación a la dramaturgia de Jardiel Poncela, Universidad de Murcia, 1981, p. 15. 33 Ivi, p. 19.
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rinchiude in una stanza e le abbandona. L’indomani mattina spetta al suo valletto, Oshidori, congedarle. Avviene così anche con Elena, la quale dopo aver appreso di essere stata per Sergio solo una in più da aggiungere alla collezione, decide di andar via e dichiara di non volerlo vedere mai più. Così, tra una nuova conquista e l’altra, passano i mesi, ma una mattina Sergio confessa a Oshidori di pensare continuamente a Elena, e per la prima volta nella sua vita, di essersi innamorato. Quasi in contemporanea in casa Hernán arriva Reginaldo de Pantecosti, il quale, essendo venuto a conoscenza della fama di Sergio, gli vuole affidare una missione importante. Pantecosti e i suoi cugini erano stati nominati ereditieri da un loro zio molto ricco, il quale però, dopo aver conosciuto una donna ed essersene innamorato, decide di cambiare il testamento, con loro ovvia disapprovazione. Ora questi, conoscendo le doti seduttive di Sergio, gli chiedono aiuto. Per duecentomila pesetas Sergio dovrebbe fare la corte a questa donna, così da interrompere il fidanzamento e far cambiare nuovamente il testamento in favore di Pantecosti e soci. La sorte vuole che quella donna sia proprio Elena. Sergio allora decide di accettare, felice di poter rivedere la sua amata e soprattutto di poterla corteggiare, ma stavolta con un sentimento vero. Il problema è che Elena, essendosi sentita ferita non vuol più avere niente a che fare con Sergio, tantomeno quando poi viene a sapere della promessa ricompensa di Pantecosti. Sergio cade nella disperazione più totale, si rinchiude in casa senza voler mangiare, piangendo e leggendo poesie d’amore. Il suo fido Oshidori riesce a contattare e a raccontare tutto a Elena, che mossa dalla curiosità va a trovarlo, e rendendosi conto che l’amore l’ha cambiato, decide di dargli fiducia e di perdonarlo. Possiamo affermare che i temi principali della commedia siano due, e strettamente collegati tra loro, ovvero il tema dell’amore e del Donjuanismo. Non sono propriamente una peculiarità di Usted tiene ojos de mujer fatal, al contrario, sono presenti in varie opere di Jardiel. Lo schema è prevalentemente lo stesso: Un personaggio va alla ricerca di una donna, se ne serve come mero oggetto sessuale, e una volta raggiunto lo scopo la abbandona per andare alla ricerca della successiva. Solitamente la donna è ingenua e cede facilmente al corteggiamento, a volte per dettagli di poco conto, ad esempio una semplice frase pronunciata al momento giusto.
20
ELENA. Sin embargo, aún no he podido explicarme qué fue lo que me hizo llegar a todo aquello... OSHIDORI. A lo mejor, una sola frase. ELENA. Una sola frase, es verdad. Ahora veo claro que me sentí
subyugada cuando
mirándome
fijamente en el campo, me dijo . . . OSHIDORI. ...la dijo: Usted tiene ojos de mujer fatal. ELENA. ¡Justo! ¡Justo! ¿Es que se lo ha dicho a varias? OSHIDORI. La frase Usted tiene ojos de mujer fatal es la que utiliza siempre el señor para rendir a las señoras.34
Le principali figure femminili dell’opera si presentano per l’appunto come donne sottomesse al volere di un uomo, non si preoccupano di conservare una propria dignità, dando l’idea di essere un po’ sciocchine e di non avere un briciolo di amor proprio.
SERGIO.
(Dominando
la situación con una
mirada.) ¡Qué espectáculo! ¡Qué espectáculo tan repugnante! (A Adelaida.) Tú tenías que ser... OSHIDORI. Señor... PANTECOSTI. (Aparte.) (El protagonista...) SERGIO. (A Adelaida.) Ni una palabra más... ¿Entendido? Ni una palabra más... PANTECOSTI. (Aparte.) (Las domina...) SERGIO. (Volviéndose a Pantecosti muy amable.) Dispense usted, caballero, que me presente de este modo, pero las mujeres acaban por ponerle a uno alguna vez en ridículo.35
34 35
E. Jardiel Poncela, Usted tiene..., cit., p. 102. Ivi, p.130.
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Visto il trattamento che le donne subiscono da Sergio potremmo pensare all’autore come a un misogino, ma se così fosse probabilmente il personaggio di Elena non esisterebbe. Elena infatti, è l’unica ad essersi ribellata alla volontà di Sergio. Pur provando per lui un sentimento forte, non tollera di essere stata presa in giro, non vuole ripetere l’errore perché a differenza delle altre donne non si sente una fra tante, ed effettivamente non lo è.
ELENA. Se sufre un día y para siempre. Yo he sufrido meses enteros y no volveré a sufrir más... SERGIO. ¿Y nunca ha de haber nada entre los dos? ELENA. Nunca. Vuelve a Madrid y entonces habrá entre los dos lo único que entre los dos puede haber ya: la distancia.36
Il don Juan che ci propone Jardiel pare rispondere alle caratteristiche di tutti i don Juan della storia, che a partire da El burlador de Sevilla di Tirso de Molina, del 1630, hanno riempito l’intero panorama letterario, musicale e cinematografico. Come tutti i dongiovanni pare che anche Sergio viva di rendita, così da poter dedicare tutto il suo tempo alle conquiste. In realtà il testo non ce lo dice esplicitamente, ma si intuisce facilmente anche perché, ad esempio, viene svegliato tutte le mattine da Oshidori, ma non tanto presto, e comunque non si parla mai di lavoro. Come si può immaginare è un uomo di bell’aspetto, che ci tiene ad essere sempre perfetto, ben vestito, con il fiore all’occhiello. ( [. . .] una dalia. Los sábados por la tarde le tocan dalias ).37 È però degno di nota sottolineare le peculiarità del nostro dongiovanni. Effettivamente per quasi metà dell’opera abbiamo un’idea di Sergio come di un donnaiolo con la D maiuscola, ma, essendo Jardiel un sovvertitore delle regole, ci fa assistere a una sua completa demitizzazione. Il mito ci insegna che Don Juan seduce le donne e poi le abbandona riducendole a una voglia sessuale che appena soddisfatta ovviamente si placa. Ebbene, se Sergio rispondeva a questo ideale di uomo a un certo punto cambia, perché scopre di essere innamorato di Elena. 36 37
Ivi, p.169. Ivi, p. 101.
22
SERGIO. Oshidori, ¿tú crees que yo puedo enamorarme? OSHIDORI. Sí, señor. SERGIO. Y si yo te dijese: "Tengo la sospecha de estar enamorado", ¿lo creerías también? OSHIDORI. También, señor. SERGIO. ¿Y por qué lo creerías? OSHIDORI. Porque el señor se está untando la mantequilla en la palma de la mano.38
Questo non è che il primo segnale di un cambio di rotta da parte di un dongiovanni per così dire traviato, e come abbiamo visto è subito messo in ridicolo agli occhi del suo valletto. Un secondo passo per la distruzione del mito ci viene mostrato nel momento in cui Oshidori rivela al suo padrone che nel sonno, scambiandolo per Elena, lo bacia:
OSHIDORI. Ya hace tres mañanas que cuando entro a despertar al señor, el señor me coge por las solapas y, exclamando "¡Elena mía!", me da un beso... SERGIO. ¿Qué? ¿Que yo te doy un beso? OSHIDORI. Un ardiente beso, señor. SERGIO. ¡No es posible!39
L’autore vuole mettere in dubbio la virilità del seduttore, per renderlo ancora più ridicolo. Questo è forse lo stratagemma più efficace di cui si serve per parodiare al meglio il mito dell’uomo più attraente per tutto l’universo femminile. Perché questo mettere in ridicolo una figura tanto amata al punto di venire riproposta nei secoli? Una prima ragione l’abbiamo già spiegata, ed è sempre legata all’idea di rompere gli schemi, ma un’altra motivazione risiede nell’idea personale che lo stesso Jardiel ha del Don Juan, e precisamente: “Ante todo, Don Juan es un idiota, porque no busca a la mujer ni para tener hijos ni para tranquilizarse,” e la seconda 38 39
Ivi, pp. 120-121. Ivi, p.121.
23
ragione sta nel fatto che il dongiovanni si avvicina alla donna “por gusto de que se diga de él que es un seductor.”40 Ogni dongiovanni in fin dei conti ha una forte dose di egocentrismo, di self-consciousness; anche Sergio ne ha tanto, ma perderà tutto ciò grazie a (o a causa di) Elena.
SERGIO. Por primera vez, tiemblo, Oshidori. Por primera vez, dudo... OSHIDORI. Recuerde el señor sus propias teorías... "Dudar es fracasar", "las mujeres y los tranvías hay que tomarlos en marcha"... SERGIO. Sí. Yo he dicho eso y muchas cosas más, pero entonces no estaba enamorado, Oshidori, y era fuerte y audaz; ahora es distinto... Ahora no podría decir nada; me siento inexperto y débil…41
Debolezza è una delle parole chiave. Un dongiovanni incarna l’ideale dell’uomo che non deve chiedere mai, sa che le donne non gli resistono, e si sente così superiore a loro che, nel caso specifico di Sergio, non si prende la briga neanche di congedarle, ma affida l’ingrato compito al suo valletto, talmente è bassa la considerazione che ha delle donne. Certo, di quelle donne che non fanno niente per ribellarsi a un trattamento così avvilente della loro persona, ma al contrario non sanno fare altro che piangersi addosso e auto-umiliarsi. Sergio quasi deride queste donne piagnucolone e senza carattere, ma per un ribaltamento dei ruoli capirà cosa si prova. Per tutto il terzo atto infatti lo vediamo rappresentato come l’anti-macho per eccellenza, trasandato, non vuole più mangiare, né prendersi cura del suo aspetto fisico, piange, si dispera e legge poesie deprimenti.
INDALECIO. ¿Con que está pior el patrón, viejo? OSHIDORI. Peor, señor Cruz. Sigue sin querer comer, y sin querer beber, y sin querer dormir... FRANCISCA. Y sin querer afeitarse.
40 41
Carmen Escudero Martínez, op. cit., p. 107. E. Jardiel Poncela, Usted tiene...,cit., p. 166.
24
OSHIDORI. No tiene gana de nada, y se pasa las horas muertas en este ventanal llorando, contando los corderos que pasan y diciéndoles adiós con un pañuelo a todos los maquinistas de todos los trenes.42
Viene a mancare quel concetto di honra tanto caro agli spagnoli, ormai è un uomo finito che porta in sé una sofferenza che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui. La donna che aveva definito una “romántica tirando a cursi” ha reso lui tanto “cursi” da essere anche ridicolo.
OSHIDORI. El señor aseguraba que "hasta las mujeres más espirituales llevan dentro dos ríñones, un estómago y un hígado". SERGIO. ¡Yo no he podido decir nunca semejante cosa! OSHIDORI. Sí, señor, sí. SERGIO.—¡¡Eso es una infamia!! OSHIDORI. ¿Una infamia tener hígado y estómago? ¿Una infamia tener ríñones, señor? SERGIO. ¡Calla! ¡¡Calla!! Estómago, ríñones, hígado..., ¡qué porquerías!... Elena no puede tener nada de eso: ¡me juego la cabeza! OSHIDORI. ¿Eh? SERGIO. Y si los tiene, serán preciosos.43
È al limite del mieloso venerare tanto la persona amata da trovare volgare ciò che la accomuna a tutti gli esseri umani, Sergio vede in Elena la donna più spirituale che conosce, perché ne è veramente innamorato. E si dispererà nel sentirla lontana, e si sentirà una nullità trovandosela dinanzi. Alla fine, Elena persuasa del suo cambiamento
42 43
Ivi, p. 181. Ivi, p. 179.
25
lo perdona, e l’amore, filo conduttore dell’intera opera, trionfa su tutto, facendo perdere a Sergio l’etichetta di Donjuan, a favore di quella di Conquistador conquistado. 44
2.6. GLI ELEMENTI UMORISTICI NEI PERSONAGGI Il maggior portatore di umorismo sulla scena è il personaggio di Oshidori. Appare fin dalle prime battute, ed è più presente dello stesso protagonista, iniziando a suscitare la simpatia del lettore già dalla sua prima descrizione. Oshidori es un criado; aunque tiene cincuenta años, en su cédula pone cuarenta y nueve, él representa cuarenta y cinco y declara cuarenta y dos.45
Oshidori è uno di quei criados che gode della piena fiducia del suo padrone, sta sempre al suo fianco quasi come fosse la sua coscienza, e alla fine si rivela uno di quegli allievi che superano il maestro. Ha sempre la battuta pronta, è sagace e a momenti pungente, non lo troviamo mai senza parole, e si diverte a prendere in giro le amanti di Sergio. FRANCISCA. Sergio me lo dijo ayer tarde, y tiene razón. Yo he nacido para llorar. Para llorar y para sufrir intensamente.
¿Usted
no
ha
nacido
para
sufrir
intensamente? OSHIDORI. Empiezo a creer que sí.46
Un altro esempio di come prende in giro le donne si può leggere in questo trafiletto:
OSHIDORI. […] Al señor sólo le dio tiempo de saltar al coche, resuelto a irse a Córdoba por una temporada; pero la prueba de lo que ama a la señora está en que me encargó que la dijese que, hasta las cinco de la tarde, esperaba a la señora en la carretera de Andalucía, kilómetro 56. (Aparte.) (Me parece que la mando cerca.) 44
Ivi, p. 191. Ivi, p. 96. 46 Ivi, p. 114. 45
26
A volte ripete semplicemente le frasi di Sergio, annotate su un quadernetto, che aggiorna di continuo aggiungendo nuove perle di saggezza. Ne proponiamo qualcuna a titolo di esempio:
Los héroes, las enamoradas y los planetas no tienen apellido.47
… la condesa está en esa edad en que las mujeres, antes que renunciar a un hombre, renuncian a la ondulación Marcel.48
Soffermiamoci un momento su quest’ultima. Oshidori sta parlando di Adelaida, la contessa di san Isidoro, una delle tante amanti di Sergio, rappresentata come una persona estremamente rozza e scurrile. Ed effettivamente l’autore, qui come in tutta l’opera, è stato bravo a stupirci. Pensando ad una contessa la nostra immaginazione vorrebbe la descrizione di una donna raffinata, cortese, che lascia ogni uomo incantato al suo passaggio per la dolcezza che trasmette con ogni suo gesto. Invece l’autore fa di lei l’esatto contrario di quanto lo spettatore si attende, creando una contrapposizione fortissima tra nobiltà e volgarità, tra spirituale e prosaico. È assolutamente incongruente (per citare una delle teorie sull’umorismo di cui abbiamo parlato), con l’idea universalmente condivisa sulle caratteristiche di una nobildonna, ed è priva di ogni logica. Vediamo anche nel seguente passaggio come il suo essere nobile sia assolutamente sopraffatto dall’animo basso-popolare che la caratterizza:
OSHIDORI. Pero ¿cómo se explica que la condesa de San Isidro sea tan chula, marquesa? PEPITA. Presume de chispera. Según parece a su bisabuela le hizo un retrato Goya, y ese acontecimiento ha arruinado sus buenos modales para siempre.49
47
Ivi, p. 105. Ivi, p. 110. 49 Ivi, p. 110. 48
27
Tutti i personaggi danno il loro particolare apporto alla riuscita dell’intento comico, perché ognuno di essi presenta delle caratteristiche particolari che l’autore mette efficacemente in risalto. Singolare è la presenza di Indalecio, l’argentino arrivato a Madrid per apprendere le doti seduttive di Sergio. Con Indalecio l’autore ci offre una vera e propria parodia dell’uomo argentino. Secondo gli stereotipi, infatti, l’argentino, nato nella patria del tango, incarna l’ideale dell’uomo macho, che nella vita come nel ballo, tende a voler prevalere sulla donna, non ha bisogno di imparare da altri a conquistare, perché è una dote innata che ha nel sangue, ma Indalecio questa dote non ce l’ha e decide di diventare l’autista di Sergio per farsi istruire da lui. C’è poi da sottolineare la sua parlata, chiaramente distorta, per caratterizzarlo, che lo rende più divertente. Tra tutti Francisca, è sicuramente il personaggio più Jardielesco in assoluto, se vogliamo è più importante degli stessi protagonisti. È un’amante masochista, si dispera perché ama, non ricambiata, Sergio, ma trova nel pianto il modo per essere felice, perché è convinta che il suo destino sia soffrire. FRANCISCA. Sergio me lo dijo ayer tarde, y tiene razón. Yo he nacido para llorar. Para llorar y para sufrir intensamente. […]50
Francisca è felice di piangere, e questo è il più grande paradosso di tutta la commedia; lei incarna l’assurdo, la contraddizione assoluta, non si è mai visto nessuno piangere per essere felice, tanto più che arriverà a spingere Elena tra le braccia di Sergio così da poter gioire soffrendo pene tremende. Le sue apparizioni sono sempre spettacolari perché non fa altro che umiliare se stessa, prima con Sergio e poi anche con Indalecio. È quindi il personaggio più surreale di tutta l’opera. Un'altra figura che rappresenta l’assurdo nell’opera è Arturito, uno degli ereditieri, geloso per il potenziale ascendente di Sergio sulla sua fidanzata. Non appare tante volte sulla scena, ma la sua presenza si fa sentire. Vediamo come:
50
Ivi, p. 114.
28
ARTURITO. ¿Hernán? ¡Maldita sea, hombre! ¡Estoy ya harto, hala, maldita sea! ¡Eso es! ¡Esto no hay quien lo aguante, maldita sea, hala!51
Abbiamo riportato solo una battuta, ma come si può intuire i suoi dialoghi non vanno molto oltre le imprecazioni. Non dice niente di sensato, si limita a inveire contro Sergio, le sue frasi non hanno né capo né coda, ed è per questo che è tanto assurdo anche lui, per quel nonsense che caratterizza i suoi monologhi. Infine possiamo spendere due parole anche a favore di Roberto, l’ereditiere sordo. La sua presenza in sé colpisce poco, ma il suo personaggio è reso buffo da chi gli sta intorno, che contribuisce a renderlo esilarante:
PANTECOSTI. […] Venga usted; le voy a presentar. (Señalando a Beatriz.) ¡Mi esposa!... OSHIDORI.
(Inclinándose.)
Señora
baronesa.
Honradísimo. PANTECOSTI. Mis primas, doña Julia Garrastazu de Pantecosti y de la Torre de Laín y Urrutia. OSHIDORI. Honradísimo. PANTECOSTI. Doña Fernanda Pantecosti de Garrastazu del Alcor y Trece Almenas Laín Gamboredo... OSHIDORI. (Inclinándose.) Honradísimo. PANTECOSTI. Mi primo, don Roberto de Pantecosti la Torre y Gamboredo de Tres Viñas del Pomar. OSHIDORI. Sordísimo. PANTECOSTI. Un entusiasta del cine sonoro.52
Il povero Roberto può essere inserito in quegli out-groups di cui si è parlato all’inizio, la sua sfortuna di essere non udente, di dover sapere cosa succede intorno a lui solo se e quando gli viene scritto su un bloc-notes, ne fa paradossalmente la sua fortuna perché suscita simpatia. I personaggi hanno delle caratteristiche proprie, ognuno è divertente per qualcosa che l’altro non ha, e così via, ma un elemento che forse li accomuna è 51 52
Ivi, p. 145. Ivi, p. 150.
29
l’utilizzo di quelli che in spagnolo sono chiamati aparte, ossia quelle battute che si pronunciano in disparte, per non farsi sentire, ovviamente, dalla persona a cui sono riferite. Lungo tutta la commedia se ne contano vari, vediamone alcuni:
1. OSHIDORI. (Aparte.) (Es una histérica... ¡Mi especialidad!...) (Alto.) Llorar es realmente estupendo, señora.53
2. JULIA. (A Elena.) Y nos pasamos el día hablando de usted... PANTECOSTI. (Aparte a Mariano.) (Eso es verdad, pero ¡si oyese lo que decimos!...)54
3. PANTECOSTI. ¡Ah, sí, sí! (Aparte.) (Nada; no le entiendo una palabra.)55
Chiaramente le caratteristiche dei personaggi sono fondamentali, ma ciò che rende divertente la commedia è tutto l’insieme di elementi che l’autore riesce ad assemblare. Quello che ottiene è un lavoro geniale, che durante la lettura, (posto che sarà ormai difficile vederlo rappresentato), sa coinvolgere al punto di far dimenticare veramente, per un po’, quelli che sono gli affanni dell’esistenza umana. Questa era il suo scopo, e possiamo affermare che l’abbia raggiunto pienamente.
2.7. NOTA ALLA TRADUZIONE
Come abbiamo spiegato nel primo capitolo, tradurre è un’attività impegnativa, e tradurre l’umorismo forse lo è ancora di più, perché abbiamo avuto modo di apprendere quanto sia legato alla cultura di un popolo, e se non si ha una minima conoscenza di questa cultura ci si troverà davanti a un’impresa ardua. 53
Ivi, p. 112. Ivi, p. 147. 55 Ivi, p. 162. 54
30
Tradurre Usted tiene ojos de mujer fatal è stato un lavoro piacevole, anche e soprattutto perché il contenuto in sé è piuttosto divertente, perciò si è proceduto in modo relativamente spedito. Come anticipato, il traduttore, (anche non professionista, come nel nostro caso) ha un gran potere decisionale in merito, e sceglie autonomamente il suo metodo di traduzione. Il nostro lavoro si è svolto principalmente cosi: innanzitutto ci si è incentrati sulla funzione del testo che ci apprestavamo a tradurre. È una commedia, e come tale vuole far divertire, perciò, l’obiettivo primario è stato quello di far ridere i lettori italiani come immaginiamo che abbiano potuto ridere i lettori e gli spettatori spagnoli. Ne consegue che, in base a quanto già detto, e posto che l’umorismo non si può tradurre alla lettera, si è optato per un tipo di traduzione che ha seguito il criterio dell’equivalenza funzionale. Facciamo subito un esempio citando il testo originale e la relativa traduzione in italiano: OSHIDORI. Y no es poco, señora. La Humanidad entera no ha hecho otra cosa hasta el presente. Y el mundo se creó con la frase "hágase la luz"; se pobló con la de "creced y multiplicaos", y se civilizó con la de "vacaciones sin kodak son vacaciones perdidas".56
Abbiamo scelto di tradurre così:
OSHIDORI: E non è poco, signora. L’Umanità intera non ha fatto altro fino al presente. E il mondo è stato creato con la frase “che sia la luce”, si è popolato con quella “crescete e moltiplicatevi”, e si è civilizzato con quella “dove c’è Barilla c’è casa”.
Osserviamo l’ultima frase, che come si può notare non coincide con l’originale. La scelta è ricaduta su uno slogan famoso qui in Italia, perché probabilmente quello delle pellicole “Kodak” non avrebbe avuto lo stesso effetto comico su un lettore italiano.
56
Ivi, op. cit., p. 99.
31
In realtà può sembrare un elemento anacronistico, perché negli anni ’30, periodo in cui fu messa in scena la commedia, lo slogan in questione non esisteva ancora, ma questa traduzione è del 2011, e se avessimo rispettato il criterio temporale forse non sarebbe comunque risultato comico, perché il lettore odierno con molta probabilità non è a conoscenza di un particolare slogan così datato nel tempo. Nel corso della traduzione si è ricorso varie volte all’adattamento per mezzo di elementi equivalenti. Pensiamo ad esempio alle volgarità che provenivano dalla bocca di Adelaida, per tradurle è stato necessario trovare un equivalente in italiano, altrimenti non se ne sarebbe potuto comprendere il senso, ovviamente cercando di conservare lo stesso registro, come nel caso che segue:
OSHIDORI. […] Dice que hace ya tres meses que yo la anuncié que el señor acudiría una tarde al sitio de costumbre, y que ¡nanay! PEPITA. ¿ Nanay? OSHIDORI. Nanay y moscas tres...57
La nostra traduzione è questa:
OSHIDORI: […] Dice che son già tre mesi che io le dissi che il signore sarebbe arrivato una sera al solito posto e che accidentaccio! PEPITA: Accidentaccio? OSHIDORI: Accidentaccio a lui e a quanto gli appartiene…
Sempre tra le volgarità della contessa possiamo citare la “minaccia” di picchiare “a la remanguillé”58, che noi abbiamo scelto di tradurre con “alla me ne frego”, non senza un po’ di timore nell’utilizzare un linguaggio terra- terra, ma d’altronde si è solo rispettata la volontà dell’autore; un personaggio è sboccato, e noi lo abbiamo presentato allo stesso modo.
57 58
Ivi, pp. 109-110. Ivi, p. 129.
32
Tuttavia, soluzioni di questo tipo sono state abbastanza ovvie, si è solo cercato un equivalente italiano che rendesse lo stesso concetto. È stato invece un po’ più problematico avere a che fare con dei giochi di parole che tradotti in italiano purtroppo si sono persi. Ad esempio all’inizio del prologo, il dialogo tra Pepita e Oshidori:
OSHIDOHI. […] ¿Y el señor? PEPITA. Duerme. OSHIDORI. ¿A qué hora vino anoche, marquesa? PEPITA. A las doce. OSHIDORI. ¿Solo? PEPITA. Acompañado. Y a la una volvió a marcharse. OSHIDORI. ¿Acompañado? PEPITA. Solo. Y a las cinco regresó de nuevo oliendo a whisky. OSHIDORI. ¿Sólo? PEPITA. Con soda. OSHIDORI. No me refería al whisky, sino al señor, marquesa…59
Rendere in italiano il gioco di parole tra “solo” e “acompañado” non è stato possibile, perché in spagnolo l’autore ha potuto giocare con l’ambivalenza dell’attributo “sólo”, che si riferisce anche alle bevande senza ghiaccio. Noi le definiamo “lisce”, perciò non si crea quell’effetto di ambiguità che porta Pepita a confondersi tra l’uno e l’altro significato. La soluzione che ci è parsa più opportuna è stata quella di inserire questa medesima spiegazione nella nota a piè di pagina. È venuto a mancare un piccolo elemento umoristico ma questi inconvenienti possono capitare quando la particolarità del testo è data dalla stessa struttura delle parole.
Un altro tipo di problema, sempre dato dall’utilizzo di doppi sensi è stato tradurre questo passaggio:
ELENA.—¿Otra ... aspirante, Oshidori? OSHIDORI.—Sí. De estas caen diez diarias... ELENA.—¿Caen? 59
Ivi, p. 96.
33
OSHIDORI.—O por lo menos se mueven mucho.60
L’ambiguità è data dal verbo “caer” che in spagnolo ha tanti significati, il più comune dei quali è “cadere”, ma in realtà si può anche leggere in senso figurato con il significato di “piombare”. Ovviamente in italiano non abbiamo un corrispondente perciò abbiamo dovuto modificare un po’ la frase, in questo modo:
ELENA: Un’altra … aspirante, Oshidori? OSHIDORI: Sì. Di queste ne piovono decine al giorno. ELENA: Piovono? OSHIDORI: O perlomeno piovono molte lacrime.
Osserviamo che il dialogo è stato un po’ stravolto, ma è stata un’operazione necessaria perché non avrebbe avuto senso. Un altro problema in cui siamo incappati riguarda l’ambientazione della commedia. Nel testo originale è ovviamente ambientata in Spagna, ma al momento di tradurre ci si è posti il quesito se fosse meglio lasciare l’ambientazione originale oppure trasferirla in Italia. Il dubbio è sorto con l’entrata in scena del barone di Pantecosti, che nel biglietto da visita riportava scritto: "Barón Reginaldo de Pantecosti. París. Londres. Cercedilla." È evidente il contrasto ironico tra le due meravigliose capitali e Cercedilla; per creare lo stesso effetto forse sarebbe stato opportuno sostituire Cercedilla con una cittadina italiana, per così dire, di importanza minore, ma abbiamo preferito lasciarlo così, e spiegarlo brevemente in nota perché diversamente l’intera traduzione avrebbe dovuto subire uno stravolgimento troppo grande, essendo ricca di riferimenti geografici. Altre particolarità da segnalare sono i dialoghi di Indalecio, volutamente storpiati dall’autore in quanto Argentino, e ovviamente tradotti con molte distorsioni anche nella lingua d’arrivo. Malgrado le distorsioni il significato era facilmente intuibile, a differenza del tango da lui intitolato “Fiscalito del supremo”, che abbiamo scelto di riportare quasi uguale, dato che anche nell’originale era pieno di parole senza senso. Forse non c’è altro in particolare da sottolineare, di per sé non è stata una traduzione troppo complicata. Jardiel Poncela non è stato tradotto tanto, forse proprio perché si è consapevoli del rischio di incorrere in situazioni del genere, in cui per 60
Ivi, p. 103.
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conservare l’effetto comico si deve modificare qualcosa, ma crediamo che seppur apportando delle modifiche la traduzione sia possibile, e vorremmo che in molti la pensassero cosÏ, perchÊ sarebbe veramente un peccato lasciare che solo gli spagnoli possano apprezzare un artista come Jardiel Poncela.
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3. LEI HA DEGLI OCCHI DA DONNA FATALE
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PROLOGO
Salottino di una “garçonnière” elegante. Una porta nel lato destro e altre due sulla sinistra. Un’altra porta nel foro destro, quest’ultima con fondino da atrio. Nel foro, occupando tutto il centro e la sinistra, si apre un grande arco provvisto in tutta la sua lunghezza di una sbarra lungo la quale scorre un arazzo. Dietro di esso risulta trovarsi la camera da letto del padrone di casa. Sulla sinistra, tra le due porte di questo lato, un finestrone con tapparella di legno con chiusura a ghigliottina. Sotto il finestrone un fonografo elettrico. Sulla destra, una biblioteca nana che sorregge una manciata di riviste e soli quattro libri, uguali per dimensioni, forma e impaginazione. Un tavolino con una lampada, un telefono, un gong e un servizio di liquori e tabacco. La scena, rappresentata con un gusto personalissimo, è una di quelle stanze che attraggono allo stesso modo le donne formali e gli uomini informali; una di quelle stanze pittoresche e voluttuose, dove tutto si combina per formare angoli confidenziali, nei quali è frequente che – al calar della sera – le visite femminili si fermino per lunghi attimi a esaminare dettagli e a fare domande, pur non aspettando mai – ovviamente – le risposte. I posti a sedere sono ampi, comodi e si dimostrano propizi a qualunque decisione; le luci sono installate in modo imprevedibile, e quanto ai mobili, sono scelti così bene che nessuno serve a niente. Inizia l’azione alle due del pomeriggio di un giorno di primavera.
Al sollevarsi il sipario, non c’è nessuno sulla scena. Le lampade sono spente, le porte chiuse e la tapparella del finestrone abbassata. Nella prima porta a sinistra la chiave si trova all’esterno. Una soave penombra invade la stanza. Una pausa. Poi si apre la porta del foro ed entra OSHIDORI in camicia, con pantaloni e panciotto neri. OSHIDORI è un valletto; anche se ha cinquant’anni, nella sua carta d’identità scrive quarantanove, lui ne dimostra quarantacinque, e dichiara quarantadue. Veste impeccabilmente e parla, agisce e si muove all’interno della sala con squisita purezza. Appena appare nel foro, OSHIDORI si dirige verso il finestrone e lo apre. La scena si illumina con la luce del sole. Quindi, dal foro entra PEPITA. PEPITA è una serva che
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non ha nient’altro che l’uniforme; la sua distinzione nei movimenti e i suoi modi rivelano in lei i modi di una gran dama. Porta al braccio un frac. PEPITA: (Avanzando.) Il frac, Oshidori. OSHIDORI: Grazie, marchesa. (Lo indossa.) E il signore? PEPITA: Dorme. OSHIDORI: A che ora è rientrato stanotte, marchesa? PEPITA: Alle dodici. OSHIDORI: Solo? PEPITA: Accompagnato. E all’una è riuscito. OSHIDORI: Accompagnato? PEPITA: Solo. E alle cinque è rientrato di nuovo puzzando di whisky. OSHIDORI: Solo? PEPITA: Con soda. OSHIDORI: Non mi riferivo al whisky, ma al signore, marchesa.61 (Calcolando.) Dunque, cinque e dieci fanno quindici… (Consultando il suo orologio.) Ora son le due, che sono le quattordici… (Ricapitolando e guardandosi l’orologio.) Marchesa, prepari la colazione del signore per le quindici, che sono le tre. PEPITA: Bene. (Se ne va verso il foro. Squilla il telefono.) OSHIDORI: (Alzando l’auricolare.) Pronto? Ah! (Gentilissimo.) Signora contessa… Oshidori, per servirla, signora contessa. A dir la verità: il signore dorme ancora… Va bene. Lo sveglierò immediatamente. Cosa devo chiedere al signore, se stasera alle cinque o domani alle quattro? Perfetto: corro a domandarglielo. (Toglie l’auricolare dall’orecchio, tappa il megafono e per un attimo rimane immobile, in piedi vicino al tavolino. Trascorso l’attimo stappa il megafono e rimette l’auricolare.) Signora contessa? Il signore, che si è rallegrato tantissimo per esser stato svegliato, mi ha appena comunicato, con le lacrime agli occhi, quanto gli dispiaccia non potersi presentare né oggi alle cinque né domani alle quattro al luogo in cui lui e la contessa sanno. Dice che verrà qualche altra sera, senza fissare una data; ma, questo sì, supplica la signora contessa che non si spazientisca per le tante sere che tarderà ad arrivare quella sera… Come? (Meravigliato per la bestialità che a quanto pare gli ha risposto la contessa. Da parte.) (Mamma mia!) (A voce alta.) Bene, lo comunicherò tale e quale al signore, 61
Nell’originale il termine “Solo” ha una doppia valenza; si riferisce infatti anche alle bevande senza ghiaccio, che in italiano definiamo “Lisce”, ma traducendolo si perde l’effetto comico, perché nella lingua meta non abbiamo un corrispondente con la stessa ambivalenza.
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signora contessa. (Riaggancia.) La verità è che il signore ha ragione quando dice che la contessa si distingue da un carabiniere solo perché fuma con la mano destra...62 Anche se è ovvio che ha ragione per tutto: in un mese si è presa tredici bidoni. E ora a togliere di mezzo la conquista di stanotte. (Avvicinandosi alla prima porta a sinistra.) Deve essere qui. (Chiamando con le nocche.) Signora… Signora?… ELENA: (Dentro.) Chi è? OSHIDORI: È qui. (Fa girare la chiave e aspetta con piede fermo vicino alla porta. Inchinandosi.) Signora… (Entra Elena. Ha trenta anni, ma con la luce elettrica non deve dimostrarne più di venticinque. È di una bellezza graziosa e pensierosa. Donna moderna, fatta per le sensazioni, ugualmente la si potrebbe confondere con una di quelle dolci e romantiche dame che si possono vedere nelle vecchie incisioni delle scuole inglesi. Ora Elena indossa un pigiama frivolo, e si riveste con fare profondamente grave. Avanza e si ferma un attimo vicino al fonografo.) ELENA: Quel fonografo! Quel maledetto fonografo! (Fa alcuni passi in più e si trova faccia a faccia con Oshidori.) Chi è lei? OSHIDORI: Sono Oshidori, il valletto del signore. ELENA. Ah! Lei è il valletto di Sergio? OSHIDORI: Sì, signora… Ma non lo sembro, vero, signora? ELENA: No. Non sembra. OSHIDORI: Me lo dicono tutti. ELENA: E com’è che stanotte non l’ho vista quando sono venuta? OSHIDORI: Perché ieri mi sono congedato dopo aver vestito il signore per la sera; era sabato, e io, da buono spagnolo faccio la settimana all’inglese…63 ELENA: Allora forse non può dirmi dov’è ora Sergio? OSHIDORI: (In modo sbrigativo.) Il signore non è in casa, signora. ELENA: Non è in casa? Sono sicura che c’è… (Va verso il foro e guarda nella camera da letto da uno degli estremi dell’arazzo). Lo credo bene che c’è! (Disprezzante.) E addormentato! (Indignata.) Perché ha mentito? Perché ha detto che non era in casa? OSHIDORI: (Ricorrendo a tutta la sua abilità.) Signora, quando un uomo dorme avendo nella stanza a fianco una donna come la signora, la cosa migliore che si può dire sul suo conto è che non è in casa … 62
Notoriamente i carabinieri in passato tenevano la spada con la mano destra, perciò per tutto il resto, ad esempio per tenere la sigaretta, impiegavano la sinistra. 63 Si intende la settimana lavorativa classica, di cinque giorni.
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ELENA: Lei ha ragione. (Guardandolo con curiosità.) E lo ha detto molto bene; con una frase molto azzeccata… OSHIDORI: (Rettificando modestamente.) La frase non è mia. ELENA: Allora di chi è? OSHIDORI: Del signore. ELENA: Questo fa Sergio: frasi! OSHIDORI: E non è poco, signora. L’Umanità intera non ha fatto altro fino al presente. E il mondo è stato creato con la frase “che sia la luce”, si è popolato con quella “crescete e moltiplicatevi”, e si è civilizzato con quella “dove c’è Barilla c’è casa”. ELENA: (Sorridendo.) Questo mi ha divertito… OSHIDORI: Beh anche questa è del signore. ELENA: (Diventando seria.) Mi dispiace. Ma in compenso mi fa piacere osservare che lei ha un’aria rispettabile, Oshidori. E le svelerò un segreto… OSHIDORI: La signora mi onora molto. ELENA: Il segreto è questo: Oshidori, il suo padrone è una canaglia. (Dopo una pausa.) Che ne dice lei? OSHIDORI: Che in otto anni millequattrocento signore mi hanno svelato lo stesso segreto della signora. ELENA: Millequattrocento signore? E in otto anni? OSHIDORI: A centosettantacinque signore l’anno. L’ho calcolato varie volte. ELENA: Allora, che razza di uomo è? OSHIDORI: Un Dongiovanni, signora. Un Dongiovanni che si chiama Sergio. Un Barbablù al quale io rado la barba due volte al giorno. ELENA: Quindi, la sua fama? OSHIDORI: Certa. ELENA: E il fatto che non ci sia stata una donna che gli resistesse? OSHIDORI: Assolutamente vero, signora. ELENA: E quello per cui non si è mai innamorato di nessuna? OSHIDORI: Totalmente esatto. ELENA: Che stupida! Io che pensavo che quello che si raccontava fosse esagerato. (Transizione. Confidenziale.) Però, si immagini, Oshidori, che dopo tanti mesi che pensavo a lui me lo son trovato ieri sera al Sakuska. OSHIDORI: Ci va spesso. 40
ELENA: Erano le sette. Calava la sera. Ancora brillavano al sole alcune terrazze e il cielo si era tinto di scuro. Se lo immagina? OSHIDORI: Sì, signora. ELENA: Mi pare che non se lo immagini, Oshidori. OSHIDORI: Sì, signora, sì. Me lo immagino come se lo stessi vedendo. Nonostante ciò, chiuderò gli occhi per immaginarmelo meglio. (Chiude gli occhi.) Mi immagino la signora al Sakuska seduta in un tavolino sulla destra. ELENA: No! Sulla sinistra. OSHIDORI: Giusto; sulla sinistra. A volte l’immaginazione sbaglia. ELENA: Calava la sera… Il tramonto mi fa diventare molto triste. OSHIDORI: Anche a me, signora. E si capisce. In fin dei conti, il tramonto è il fallimento quotidiano della Natura. ELENA: (Ammirata.) Che bello, Oshidori! OSHIDORI: (Sempre modesto.) È una frase del signore. ELENA: Per Dio! Beh io ero triste, triste… e avevo voglia di… non sapevo di che… OSHIDORI: Forse di piangere. ELENA: Esatto! Di piangere. Quando all’improvviso si fermò alla porta un’auto… OSHIDORI: Packard. ELENA: E scese un uomo… OSHIDORI: Il signore. ELENA: No, prima scese l’autista… OSHIDORI: Indalecio. ELENA: Poi scese Sergio ed entrò dentro al Sakuska. Entrò diritto, affascinante, dominando tutto con lo sguardo, sollevando al suo passaggio una nube di bisbigli femminili, elegantissimo, indossando un abito… OSHIDORI: … azzurro con righine bianche. ELENA: Sì. Come lo sa? OSHIDORI: Lo avevo aiutato io a vestirsi. ELENA: È vero! Non me lo ricordavo più. E nel risvolto dell’occhiello luccicava… OSHIDORI: … una dalia. Per i sabato notte gli toccano le dalie. ELENA: Una dalia, giusto. Entrò, mi fissò, mi invitò e facemmo merenda assieme… OSHIDORI: … Senza che la signora potesse precisare cosa presero. ELENA: Esatto! Ma lei come fa a indovinare tutto? 41
OSHIDORI: Otto anni al servizio del signore… Millequattrocento “casi” osservati… E poi? ELENA: Poi passeggiammo per la campagna. Parlammo dell’anima. Mi disse che era molto solo. OSHIDORI: Suole dire così quando si trova insieme a una donna. ELENA: Mi recitò versi di Byron. OSHIDORI: E quelli di Lamartine? ELENA: Anche! Faccia silenzio… Cosa mi recitò di Lamartine? OSHIDORI: “Il lago”. ELENA: “Il lago”, sì! OSHIDORI: Recita sempre “Il lago”. L’unica cosa che sa di Lamartine è il lago e che gli piacevano molto i carciofi. ELENA: Credo che ciò che piaceva a Lamartine fossero gli asparagi. OSHIDORI: Precisamente, ma al signore son rimasti in testa i carciofi. E poi, signora? ELENA: E poi mangiammo in un privée di un certo ristorante campestre. Mi raccontò cose della sua vita… Perché deve aver viaggiato molto, vero? OSHIDORI: Quanto una valigia rotta. ELENA: E poi… a mezzanotte, mi portò qui. Io persi completamente il senno, Oshidori… E accadde… Ma anche lei immaginerà ciò che suole accadere quando una donna perde il… OSHIDORI: (Interrompendola.) Quello se lo immagina chiunque. ELENA: Tuttavia, ancora non son riuscita a spiegarmi cosa mi ha fatta arrivare a tutto ciò… OSHIDORI: Magari una sola frase. ELENA: Una sola frase, è vero. Ora vedo chiaramente che mi son sentita soggiogata quando guardandomi intensamente in campagna, mi disse… OSHIDORI: … le64 disse: Lei ha degli occhi da donna fatale. ELENA: Giusto! Giusto! L’ha detto ad altre? OSHIDORI: La frase Lei ha degli occhi da donna fatale è quella che usa sempre il signore per sottomettere le donne.
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Nell’originale troviamo la particella pronominale “La”, dovuta all’utilizzo da parte dell’autore del “Laismo”, ossia l’uso dei pronomi personali “La” e “Las” al posto di “Le” e “Les” davanti ai nomi femminili.
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ELENA: Ma è indignante che con me abbia utilizzato gli stessi termini che ha utilizzato con le altre! OSHIDORI: Lo stesso che mi hanno detto le altre. ELENA: Oshidori!… (Squilla il telefono.) OSHIDORI: Col permesso della signora… (Al telefono.) Pronto? Sì, signora. Come? Ah! Va bene. (A Elena, tappando l’auricolare.) Ecco, signora, qui c’è una signora che la prima cosa che sottolinea è che non è signora, ma signorina. ELENA: Un’altra… aspirante, Oshidori? OSHIDORI: Sì. Di queste ne piovono decine al giorno. ELENA: Piovono? OSHIDORI: O perlomeno piovono molte lacrime. (All’apparecchio.) Come? Signorina? (Riaggancia.) Ha riagganciato. Sarà perché è entrato il marito nella stanza. ELENA: Il marito? Ma non è signorina? OSHIDORI: Conosco il genere, signora. E tutte quelle che chiedono di essere chiamate signorine, sono sposate, vanno in villeggiatura al monastero dell’Escorial65 e hanno dieci figli, il più piccolo dei quali architetto. (Dal foro entra Pepita.) PEPITA: Il telefono, Oshidori? OSHIDORI: Ci ho già pensato io, marchesa. Può andare. PEPITA: (Rivolgendosi ad Elena.) Signora … (Se ne va per il foro.) ELENA: Perché chiama marchesa la serva? OSHIDORI: Perché lo è. ELENA: Ma che dice? OSHIDORI: Sì, signora. La marchesa di Robledal. Forse è giusto che la signora sappia che tutta la servitù della casa è formata da vecchie fiamme del signore ... ELENA: Non è possibile! OSHIDORI: Sì, signora, sì. Sono cuori romantici che avendo chiuso col signore, hanno supplicato un posto tra la servitù per poterlo vedere ogni giorno, dato che non gli era possibile nient’altro. ELENA: Ma è assurdo!
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Questo monastero si trova nella Comunità Autonoma di Madrid. Fu fatto costruire da Filippo II come residenza dei re di Spagna. Tutt’oggi dà l’idea di un luogo freddo e austero, perciò non ci si aspetta che sia frequentato da donne come la contessa di san Isidoro, che con il suo atteggiamento non dimostra di essere una nobildonna tanto virtuosa, ma al contrario vi si reca in villeggiatura soltanto per salvaguardare le apparenze.
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OSHIDORI: Ciò che è certo è sempre assurdo, signora, e amare vuol dire essere in schiavitù. In realtà è una servitù per inorgoglire qualcuno. Ce n’è per tutti i gusti. In cucina, per esempio, c’è nientemeno che Nita Numi, la famosa ballerina ungherese, l’unica al mondo ad aver ballato l’ Ave Maria di Gounod … ELENA: Ma è straordinario! OSHIDORI: E l’autista … ELENA: (Allarmata.) Anche l’autista, Oshidori? OSHIDORI: Mi faccia finire, signora. L’autista è venuto appositamente da Buenos Aires per la curiosità di conoscere il signore, per scoprire il segreto del suo successo con le donne. Dato che il signore non aveva tempo per occuparsene, è rimasto come autista per osservarlo. È Indalecio Cruz, l’autore di tanghi di fama mondiale. ELENA: Ed è riuscito a scoprire il segreto del successo di Sergio? OSHIDORI: Ancora no. Secondo me il successo del signore con le donne si deve al fatto che non fa nessun caso a loro. ELENA: Questo spiega ciò che è accaduto con me, perché ancora non le ho detto, Oshidori, che stanotte, quando ripresi i sensi, mi chiese di aspettarlo in questa stanza. (La prima a sinistra.) E appena entrai lui stesso mi rinchiuse dentro con la chiave. Così iniziai a protestare e chiamare. OSHIDORI: E il signore mise in moto il fonografo e inserì il disco di “Oh Marie”. ELENA: Esattamente. Anche questo lo ha fatto con altre? OSHIDORI: Sì, signora. E a quelle che gridano troppo mette “Torna a Sorrento” cantata da un coro basco. ELENA: Ma il fonografo ha suonato fino all’alba … OSHIDORI: È elettrico e ha un dispositivo grazie al quale quando finisce il disco ricomincia di nuovo. ELENA: Una meraviglia! Cosicché il suo primo dovere la mattina è verificare se ci sono vittime prigioniere? OSHIDORI: Sì. E nel caso ci siano, congedarle. ELENA: Come? OSHIDORI: I procedimenti possono variare. ELENA: E qual è il più efficace? OSHIDORI: Quello che sto usando con la signora. ELENA: (Scandalizzata dal suo cinismo.) Ma Oshidori! 44
OSHIDORI: Io consiglio alle signore che se ne vadano. Loro si mettono a piangere e svengono. Io ricorro all’etere e le riporto in sé, e loro se ne vanno tristissime, ritoccandosi gli occhi con la matita. ELENA: E perché a me non consiglia di andarmene, Oshidori? OSHIDORI: Mi scusi, è che mi sono distratto parlando. Le consiglio di andarsene, signora. ELENA: (Alzandosi con fatica.) Sì. E me ne sarei andata prima se avessi saputo che per Sergio sono stata solo una in più … OSHIDORI: Questo è facile, signora, perché il signore annota tutte le sue conquiste. Anche Don Giovanni le annotava. ELENA: Le annota? Dove? OSHIDORI: In questi quattro libri. (Indica la biblioteca.) E in ordine alfabetico. ELENA: Per cognome o per nome? OSHIDORI: Per nome. Gli eroi, le amanti e i pianeti non hanno cognome (Inchinandosi, come sempre.) È una frase del signore … ELENA: Lo sospettavo. OSHIDORI: Se la signora è stata una in più per il signore, la signora sarà annotata qui con tutte le altre. ELENA: E se ancora non avesse avuto il tempo di annotarmi, Oshidori? OSHIDORI: Per Dio! Con il rumore dell’ultima cannonata si scrivono già le battaglie nella Storia …(Inchinandosi.) È una frase … ELENA: … Del signore. OSHIDORI: No, signora; questa è di Napoleone Bonaparte. (Andando verso la biblioteca.) Il nome della signora? ELENA: Elena. OSHIDORI: Primo tomo. (Prende uno dei tomi, ma appena lo apre, Elena glielo strappa di mano.) ELENA: Per favore! Lo vedrò io stessa … (Torna verso la poltrona con il libro; lo sfoglia con ansia. Oshidori a sua volta ha preso un altro tomo e lo sfoglia vicino alla biblioteca. C’è un profondo silenzio. All’improvviso Elena alza la testa raggiante.) Non ci sono! Questo vuol dire … (Alzandosi.) Lo chiami, Oshidori! Lo svegli! (Con brusca decisione, dirigendosi verso il foro.) Lo sveglierò io! Voglio che …
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OSHIDORI: (Fermandola con un gesto.) Chiedo scusa … Mi rincresce dare questo dispiacere alla signora, ma ho appena visto che la signora si trova nel secondo tomo … ELENA: (Paralizzata.) Eh? Mi chiamo Elena … Dovrei essere nel primo tomo, alla lettera E, e non ci sono! OSHIDORI: Sì, signora. Ma il signore scrive Helena con la acca … È la maniera classica. ELENA: (Sentendosi crollare il mondo addosso.) Oshidori!! OSHIDORI: La signora appare qui molto chiaramente. (Leggendo nel suo tomo.) “Numero 1401. Helena. Conosciuta al Sakuska il 10 giugno.” Una merenda, una passeggiata, un boccone in campagna. – Ha scelto un pigiama a righe. Lei sapeva chi ero io e mi è stato facile. ELENA: Gli è stato facile, ma io non sapevo chi era lui … OSHIDORI: “Ha pianto con ‘Il Lago’ di Lamartine”. ELENA: Questa è una bugia ma potrebbe essere verità. OSHIDORI: “Ha perso la testa quando le ho detto degli occhi.” ELENA: Questa è la verità ma ora mi sembra una bugia. OSHIDORI: “Carina. Bionda. Giovane.” ELENA: Tutto esatto. OSHIDORI: “Romantica, tendente allo sdolcinato…” (Dopo averlo letto si pente di averlo fatto.) ELENA: Eh? Cosa dice? OSHIDORI: Niente; non dice niente … ELENA: Devo convincermene io stessa. (Leggendo nel tomo.) “Romantica, tendente allo sdolcinato… Mielosa. Irresistibile…” (Si allontana da Oshidori e va lentamente verso la poltrona.) Romantica, tendente allo sdolcinato… mielosa. (Lasciandosi cadere nella poltrona.) Irresistibile… Mi ha trovata irresistibile… (Appoggia il suo gomito nella poltrona e nasconde il volto con la mano. C’è una pausa. Oshidori dà un colpetto al “gong”. Poi guarda Elena, e infine tira fuori dalla tasca un fazzoletto e una boccetta, e versa nel fazzoletto il contenuto della boccetta. In quel momento Elena si riprende e solleva la testa.) Che fa, Oshidori? Cos’è quello? OSHIDORI: La boccetta dell’etere, signora. Prendo le mie precauzioni per quando la signora sverrà…
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ELENA: (Muovendo la testa con tristezza.) Stavolta non ci sarà svenimento, Oshidori. Svenire significa nervi, volontà contrariata, cuore, sentimenti…, e tutto questo, Oshidori, è appena morto dentro di me. Non crede? Anche per lei io sono sdolcinata … OSHIDORI: Oh no, signora! Neanche un po’… ELENA: E allora, per lei, io cosa sono, Oshidori? OSHIDORI: Fino a un momento fa una vera innamorata, e da quando la signora ha letto… quello che ha letto, una donna disposta alla disperazione. ELENA: Quanta veggenza! Che conoscenza dell’anima! OSHIDORI: Sì, signora. ELENA: E ora me ne vado. (Alzandosi.) Vado a vestirmi. OSHIDORI: Ho già avvisato una serva. (Pepita, che è appena apparsa nel foro.) Si metta al servizio della signora. ELENA: Ha già fatto tutto lei. (Girandosi e vedendo Pepita. In tono rispettoso.) Ah! La Marchesa… PEPITA: (Indicando a Elena la prima porta a sinistra.) Passi, signora. ELENA: Prima io? No no, vada lei avanti, marchesa, vada lei… (Obbliga Pepita a uscire di scena e lei le va dietro.) OSHIDORI: (Vedendola andare.) Poverina! Essendo l’unica che non è svenuta, è l’unica per cui mi dispiace…
ATTO PRIMO
La stessa decorazione. Tutto appare uguale a come appariva all’inizio del prologo. Son passati tre mesi, ma non è cambiato nulla in casa di Sergio. La tapparella del finestrone è sollevata, e la scena illuminata dalla luce del sole. Nella prime due porte a sinistra le chiavi si trovano alla parte esterna. Le porte sono chiuse.
Inizia l’azione alle tre del pomeriggio. Autunno. Al sollevarsi il sipario, la scena vuota. Il fonografo è in funzione con un disco di “O Marie”. Una pausa durante la 47
quale si sente “O Marie” a tutto volume. Dopo entra Oshidori nel foro, si dirige verso il fonografo e lo spegne. In quel momento inizia a squillare il telefono, e nello stesso istante, entra Pepita da destra.
OSHIDORI: (Al telefono.) Pronto! Signora contessa… Buonasera, signora contessa. Come dice la signora contessa? (A Pepita.) Marchesa, la contessa dice che è nera. PEPITA: È nera? OSHIDORI: Nerissima. (Al telefono.) Tre mesi, signora? È incredibile come passa il tempo! (A Pepita.) Dice che son già tre mesi che io le dissi che il signore sarebbe arrivato una sera al solito posto e che accidentaccio! PEPITA: Accidentaccio? OSHIDORI: Accidentaccio a lui e a quanto gli appartiene… PEPITA: È sempre la stessa! OSHIDORI: Ma come si spiega che la contessa di san Isidoro sia così scurrile, marchesa? PEPITA: Sa tanto di camionista. A quanto pare, a sua bisnonna fece un ritratto Goya,66 e questo avvenimento ha intaccato le sue buone maniere per sempre. OSHIDORI: Che caso! (Riaggancia l’auricolare.) PEPITA: Non mi spiego come Sergio sia potuto arrivare a questo punto con la contessa. OSHIDORI: È successo l’anno scorso. Il signore voleva completare la sua lista particolare di aristocratiche. Solo che la contessa è in quell’età in cui le donne, prima di rinunciare a un uomo, rinunciano alla pettinatura alla Marcel…67 (Oshidori ha preso dal tavolino un vaporizzatore della grandezza di uno di quelli da “DDT” e si è messo a vaporizzare l’atmosfera.) PEPITA: Ma che fai, Oshidori?
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Possiamo interpretare questo fatto in due modi. La prima interpretazione è legata allo stile generale di Goya, che nella prima fase della sua pittura si soffermava a rappresentare il popolo e le sue caratteristiche; perciò ritraendo la bisnonna della contessa può averle magicamente trasmesso quegli atteggiamenti per così dire volgari, tipici delle classi più popolari. Una seconda interpretazione può essere la seguente. Tra le opere di Goya ce n’è una, appartenente a una serie di 80 incisioni ad acquaforte, intitolata dall’autore “El sueño de la razón produce monstruos”, ossia “Il sogno della ragione origina mostri”. Tale opera è spiegata dallo stesso autore con la tesi per cui la ragione, quando si lascia sopraffare dagli istinti, trasforma gli uomini quasi in bestie. Ed è quello che in questo caso accade alla contessa. 67 Ondulazione coi ferri.
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OSHIDORI: Vaporizzo etere. Ho scoperto che è più comodo vaporizzarlo nell’aria che farlo gocciolare in un fazzoletto, col vantaggio che così non si verificano svenimenti. PEPITA: Che ingegno! OSHIDORI: E ogni volta che ne devo mandar via una, lo vaporizzo. PEPITA: Ma, oggi ce n’è più di una, Oshidori? OSHIDORI: Oggi ce ne sono due. PEPITA: Due? OSHIDORI: Due, marchesa. Una che è venuta di notte e un’altra che è venuta verso sera, ma poi è tornata di notte, perché ce ne sono che si ripetono. Si sta esaurendo! PEPITA: E finirà per far esaurire tutte noi che lo amiamo senza egoismo. Nita Numi ha perso sei kili, io mi sto riducendo come un’ombra, e Leonor ha presentato le sue dimissioni da segretaria perché non può più sopportare la gelosia. (Si sentono alcuni colpetti nella seconda porta a sinistra.) OSHIDORI: Una impaziente… Bisogna agire. (Lascia il vaporizzatore e va verso la seconda porta a sinistra.) PEPITA: Io preferisco non assistere. Vado a dare la cera nella hall. OSHIDORI: A dopo, marchesa. (Pepita se ne va tristissima per il foro. Oshidori fa girare la chiave nella seconda porta a sinistra. Subito la porta si apre e appare Francisca. Oshidori si inchina.) Signora… (Francisca è una donna snella, di età incerta, elegante, con un’eleganza esplosiva e dotata di una certa aria drammatica che può significare che è un personaggio di Shakespeare allo stesso modo che avere mal di testa. Entra con gli occhi coperti da un fazzoletto che tiene con la mano destra e porta nell’altra mano il cappello e un renard trascinato a fatica.68 Percorre la scena lentamente, fermandosi in tutti gli angoli a piangere un po’ finché Oshidori la affronta.) Se la signora si sedesse… , piangerebbe più tranquilla la signora. (Lei non gli fa caso.) Perché non si siede, signora? FRANCISCA: (Molto motivata, attraverso le sue lacrime.) So piangere in piedi! OSHIDORI: Ma seduta la signora piangerebbe con molto più piacere… FRANCISCA: Lei crede? OSHIDORI: La signora provi e vedrà .. (Le avvicina una poltrona.)
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Piccola pelliccia di volpe che si porta intorno al collo.
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FRANCISCA: (Sedendosi.) Beh è vero! (Piange da seduta.) Quanto si piange bene così! Si piange divinamente! (Piange più forte e subito alza la testa.) A lei non piace piangere? OSHIDORI: Tantissimo. Io piango tutte le sere, dalle cinque alle sei. FRANCISCA: Che fortuna! Io non posso! Non posso perché alle cinque e trenta ho la manicure… (Piange ancor più forte.) OSHIDORI: (Da parte.) ( È un’isterica… La mia specialità!...) (A voce alta.) Piangere è veramente stupendo, signora. FRANCISCA: È divino! (Piange con più furia.) Divino! OSHIDORI: Però, signora, pensi che il pianto fa cadere le ciglia… FRANCISCA: (Smettendo momentaneamente di piangere.) È certo? OSHIDORI: Lo dice il Vangelo dell’Istituto Iside. FRANCISCA: Grazie… Avvisi Sergio. OSHIDORI: Il signore non è reperibile, signora. FRANCISCA: (Cadendo in un improvviso stato di disperazione.) Non è reperibile! Questo no!… Questo no; Dio mio! Questo no, Dio di Abramo! … (Si alza e smaltisce la sua disperazione.) Burla su burla! Beffa su beffa! OSHIDORI: (Seguendola.) Signora… FRANCISCA: Burla su beffa! OSHIDORI: Signora; la prego… FRANCISCA: A momenti io beffo! OSHIDORI: Buffo? FRANCISCA: Cioè… Berlo! OSHIDORI: (Ingarbugliato.) Barlo o baffo? FRANCISCA: (Ingarbugliandosi anche lei.) Fobo! OSHIDORI: (Ancora più ingarbugliato.) Fubo! FRANCISCA: (Trionfante.) Sbuffo!! OSHIDORI: Sbuffo, giusto… Quanto ci è costato! FRANCISCA: (Cadendo nuovamente nella poltrona, singhiozzando.) Giurarmi che mi amava per tenermi tutta la notte rinchiusa, come dei documenti! Tredici ore rinchiusa! Lei crede che si può stare tredici ore rinchiusa? E tredici ore sentendo “O Marie”? lei crede che si possa stare tredici ore rinchiusa ascoltando “O Marie”? OSHIDORI: Gli italiani la stanno sentendo da centoquarantadue anni… 50
FRANCISCA: Ma io non sono italiana! OSHIDORI: Si nota subito. FRANCISCA: Sono di Albacete. OSHIDORI: Questo non si nota così in fretta. (Da parte.) (Isterica della Mancia.) FRANCISCA: E per questo mi disse che era tanto solo? E per questo mi recitò “Il lago” di Victor Hugo? OSHIDORI: Di Lamartine, signora. FRANCISCA: Beh si è preso gioco di me! Il suo amore, una burla; i suoi giuramenti, uno scherno; e la mia reclusione, un obbrobrio! Tutto burla! Tutto beffa! Tutto! (Con una pausa.) Che ore sono? OSHIDORI: Le tre del pomeriggio. FRANCISCA: No. OSHIDORI: Sì, signora. Le tre e cinque precise. FRANCISCA: No! Non mi lamento! Lo preferisco… OSHIDORI: Ah! Va bene… FRANCISCA: Preferisco che sia andata così. È il mio destino. È la mia sorte. Sono una donna fatale. OSHIDORI: Sì, signora. FRANCISCA: Sergio me lo disse ieri notte, e ha ragione. Io sono nata per piangere e per soffrire intensamente. Lei è nato per soffrire intensamente? OSHIDORI: Inizio a credere di sì. AGATA: (Da dentro.) Oshidori! OSHIDORI: (Da parte.) (L’altra… ora esplode.) (Avvicinandosi alla prima porta a sinistra seguito dallo sguardo stupefatto di Francisca.) Signora? AGATA: (Da dentro.) Oshidori, mi chiami un taxi e mi dia un cappotto. Non sta bene uscire per strada in abito da sera. OSHIDORI: Sì, signora. (Dà un colpo al “gong”.) FRANCISCA: (Nel pieno dello stupore.) Ma… ma… cos’è questa storia? Ma … Un’altra donna, Oshidori? OSHIDORI: Sì, signora. Un’altra donna. FRANCISCA: (Disperata.) Un’altra donna! Un’altra donna rinchiusa! Un’altra donna alla quale hanno fatto sentire “O Marie”! Cristo del Golgota! E chi è? L’amore di
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Sergio, vero? Beh io lo sospettavo! Un’alta donna l’amore di Sergio! San Matteo! San Francesco d’Assisi! (Cade nella poltrona e rimane con il volto tra le mani.) OSHIDORI: Ma che esclamazioni strane le insegnano ad Albacete! (Entra Pepita dal foro.) PEPITA: Hai chiamato, Oshidori? OSHIDORI: Sì, marchesa. Che chiamino un taxi e venga portato un cappotto. PEPITA: Quello che si usa perché escano per strada quelle che vengono vestite da sera? OSHIDORI: Il solito. (Pepita se ne va verso il foro.) FRANCISCA: (Sollevando la testa.) Come soffro, Oshidori! Tutto si è distrutto intorno a me… Soffro così tanto, che non potrei essere più felice… OSHIDORI: Le mie felicitazioni, signora. FRANCISCA: Perché è chiaro che per Sergio son stata solo un diversivo. OSHIDORI: Giustamente. FRANCISCA: Ancora meno: un giocattolino, una cosa insignificante, una specie di … OSHIDORI: Una specie di lecca-lecca. FRANCISCA: Esatto! Un lecca-lecca. Una cosa che si prende, si assaggia … OSHIDORI: E si butta quando si arriva al bastoncino. FRANCISCA: Giusto, giusto! OSHIDORI: Mi creda, signora: l’unica cosa che può fare è andarsene disprezzando il signore. FRANCISCA: Questo no, Oshidori! OSHIDORI: No? FRANCISCA: Disprezzare? Mai! Disprezzarlo sapendo che non gli importa di me? Disprezzarlo sapendo che per lui sono solo un lecca-lecca? Giammai! Ma se la mia vita è questa! Soffrire, stringermi il cuore, mordere fazzoletti… E andarmene, smettere di vederlo per sempre, no! OSHIDORI: No? FRANCISCA: No, Oshidori. Sergio mi ha spiegato l’origine della sua servitù. E dato che la segretaria ha rassegnato le dimissioni, io le parlerò per prendere il suo posto. OSHIDORI: Ah! Molto bene. FRANCISCA: Sarò una in più tra quelle che soffrono… OSHIDORI: Certo, certo.
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FRANCISCA: E sarò quello che non sono le altre: felice. In fin dei conti, io traduco sofferenza con gioia. La turba? OSHIDORI: No. Ho conosciuto persone che traducevano anche peggio. (Dal foro entra Pepita con un cappotto di pelle.) PEPITA: Il cappotto, Oshidori. OSHIDORI: Grazie, marchesa. (lo prende.) Questa signora vuol parlare con la segretaria; abbia la gentilezza di accompagnarla. PEPITA: Quando la signora lo desideri… FRANCISCA: Andiamo. Però, signora, no, marchesa. Signora, no. Colleghe, marchesa! Colleghe! (Vanno verso il foro.) OSHIDORI: (Vedendo aprirsi la prima porta a sinistra.) Ah! Qui c’è l’altra… (In effetti, dalla prima porta a sinistra entra Agata. È giovane, elegante, carina. Indossa, come ha detto prima, un abito da sera ed entra infilandosi i guanti.) Signora… Qui c’è il cappotto per lei… (Avanza verso di lei.) AGATA: (Fermandolo con un gesto.) Non si disturbi. Ci ho pensato meglio e non me ne vado… Ho sentito tutto, Oshidori… Tutto! Anche che Sergio non è reperibile e che questa isterica rimarrà come segretaria… Ma se Sergio non è reperibile, aspetterò finché lo sarà. Ho deciso di non sopportare in silenzio né i suoi stupidi affari né i decentosei giri di “O Marie”. (Si siede.) OSHIDORI: (Da parte.) (Li ha contati!) AGATA: Io non sono una donna con cui un uomo possa divertirsi per un po’ … OSHIDORI: La signora mi sembra troppo pessimista. AGATA: Tante grazie. OSHIDORI: Ma la verità è che il signore non è in casa. È fuggito stamattina, signora. AGATA: È fuggito? Da chi? OSHIDORI: Da un marito. Da un marito che voleva ucciderlo. AGATA: Ma ancora ci sono dei mariti che uccidono? OSHIDORI: Nelle grandi città, no, signora; ma questo era della provincia, dove ancora picchiano forte. Al signore ha dato solo il tempo di saltare in macchina, deciso ad andarsene a Cordoba per una stagione; ma la prova che ama la signora sta nel fatto che mi ha incaricato di dirle che, fino alle cinque del pomeriggio, aspetterà la signora nella strada per l’Andalucía, kilometro 56. (Da parte.) (Mi sa che la sto mandando troppo vicino.) 53
AGATA: Ma che dice? (Si alza.) OSHIDORI: La verità, signora. (Dà un colpo al “gong”.) AGATA: Mio Dio! Ma sono già le tre passate… OSHIDORI: Sì, signora… AGATA: Presto! Il cappotto… (Lo indossa aiutata da Oshidori.) Avevo paura. Non ho fatto altro che immischiarmi nella sua vita, e infatti si vede Sergio perseguitato che fugge… Il fatto è che non c’è dubbio; ha ragione: c’è qualcosa di fatale in me… (Nel foro compare Pepita.) OSHIDORI: Sì, signora. (A Pepita.) È stato chiamato il taxi? PEPITA: Sta di sotto. AGATA: E devo ancora andare a casa, cambiarmi d’abito, prendere la macchina! … Sempre che arrivi in tempo! (Inizia ad uscire di scena.) Ha detto kilometro 56, vero? OSHIDORI: No. Cento, cento cinquantasei, signora. AGATA: Sì, sì… (Se ne va dal foro.) OSHIDORI: (Dalla porta.) Ma se il signore non fosse più lì consiglio alla signora che prosegua fino a Cordoba… (Sfregandosi le mani.) Benissimo! PEPITA: Che ingegno, Oshidori! OSHIDORI: Pratica, marchesa, nient’altro che pratica… La accompagni e prepari la colazione per il signore… Io vado a chiamarlo. PEPITA: Va bene. (Va verso il foro. Oshidori si dirige verso l’arazzo e prima di arrivarci questo si apre ed entra Sergio. Ha sui trentacinque anni, ma una certa aria di noia e di prematura stanchezza fanno sembrare che abbia più anni. Indossa un pigiama e una vestaglia e calza delle pantofole.) SERGIO: Salute, Oshidori. OSHIDORI: Buon pomeriggio, signore. Il signore oggi si è alzato senza che lo chiamassi! SERGIO: Sì. Ti sorprende? OSHIDORI: In nessun modo… Io mi aspetto sempre qualcosa di originale dal signore. (Va verso la camera da letto.) SERGIO: (Avvicinandosi al finestrone.) È una bella giornata, vero? OSHIDORI: (Da dentro.) Sì. Il barometro indica pioggia, ma il sole brilla in modo splendido. SERGIO: Io non faccio mai caso ai barometri. 54
OSHIDORI: (Entrando in scena.) E nemmeno il sole. SERGIO: Molte grazie, Oshidori! (Oshidori ha preso dalla camera da letto uno di quei mobiletti di nichel e cristallo chiamati “paggi” che si usano per la rasatura. Sergio si guarda allo specchio.) Che faccia brutta ho! Ogni volta mi alzo dal letto con una faccia sempre peggiore… Non ti pare? OSHIDORI: No, signore. (Preparando gli arnesi per radere Sergio.) il signore vuole che lo metta di lungo? SERGIO: Sì, Oshidori; mettimi di lungo. (Oshidori gli appoggia le gambe in uno sgabello, lasciandolo sdraiato.) OSHIDORI: Qualcos’altro? SERGIO: Niente, Oshidori. Sei un gioiello. OSHIDORI: (Iniziando a insaponargli la faccia per raderlo.) Ogni valletto è obbligato ad essere un gioiello quando è al servizio di un padrone che è una gemma. SERGIO: Quando ho detto questo? OSHIDORI: L’anno scorso a Ostente. (Squilla il telefono.) SERGIO: È vero, è vero. Non mi ricordavo più. OSHIDORI: (All’apparecchio.) Pronto? (A Sergio.) Signore, la signorina Lilí. SERGIO: Quale? Perché le Lilí sono tre. OSHIDORI: (All’apparecchio.) Quale Lilí, signorina? (A Sergio.) Lilí Emiliana, signore. SERGIO: Beh dille che se ne vada a passeggiare. OSHIDORI: Signorina, il signore dice per stasera, alle sei, alla Moncloa. (Riaggancia. Riprende a insaponare Sergio.) SERGIO: Non voglio sapere niente di lei. Si tratta di una di quelle ragazze, che ora vanno tanto di moda, che fanno bagni di sole, nuotano, spendono un patrimonio, leggono Freud e passano il resto della giornata rintanate in un’auto. OSHIDORI: E al signore non piacciono quelle sportive? SERGIO: No. La loro bocca sa di pneumatico e trasformano l’amore in una gara olimpica. OSHIDORI: (Iniziando a raderlo.) Bellissimo! Bellissimo! Col permesso del signore vado ad annotare questa frase. (Tira fuori un quadernino e ci scrive.) Che giorno! Che giorno! Che giorno questo per il signore! (Scrive velocemente.) SERGIO: E quelle di stanotte? Ti è costato molta fatica mandarle via? 55
OSHIDORI: No, signore. Una di loro l’ho mandata a Cordoba. (Si riavvicina a Sergio e prosegue la rasatura.) SERGIO: Ben fatto. Bisogna fomentare il turismo. OSHIDORI: L’altra vuole rimanere come segretaria del signore. Sostiene di essere venuta al mondo per soffrire intensamente. SERGIO: Sì. Le manca qualche rotella. OSHIDORI: Il signore è molto benevolo; io credo che le manchi tutto l’ingranaggio. (Dal foro entra Pepita spingendo un tavolino con le ruote, sul quale c’è la colazione.) PEPITA: La colazione, Sergio. SERGIO: Ciao, Pepita. PEPITA: (Molto sollecita e innamorata.) Hai riposato bene? SERGIO: (Con aria annoiata.) Sì, Pepita. Molto bene. PEPITA: Hai fatto la doccia fredda? SERGIO: Sì… PEPITA: Hai preso il ricostituente? Hai fatto la ginnastica respiratoria e il… ? SERGIO: Sì, Pepita, sì. PEPITA: Riguardati, Sergio, per Dio! Guarda che fai una vita impossibile… Questa vita non c’è chi la resista… SERGIO: Astieniti dal darmi consigli, Pepita. Sono maggiorenne dal 1922. PEPITA: (Sospirando.) Va bene! (Pepita se ne va sospirando, tristissima, per il foro.) OSHIDORI: Il signore fa impazzire tutte. Io la ammiro sempre più. SERGIO: Beh non ammirarmi e non invidiarmi, Oshidori, perché non sono felice. Inizio a rendermi conto del fatto che collezionare donne è assurdo come collezionare francobolli, con lo svantaggio che alla fine nessuno ti compra la collezione. OSHIDORI: Stupendo! (Smette di raderlo e e ricorre al quaderno.) Che giorno! Ma che giorno questo per il signore! Se il signore continua ad essere così ispirato, non so quando finirò di raderlo. SERGIO: Questo mestiere è molto pesante, Oshidori… OSHIDORI: Sì, signore, deve essere pesantissimo. (Finendo di raderlo.) Il signore è servito. Il signore può passare qui. (Gli mette davanti la colazione, lo serve, e rimane in piedi al suo fianco.) Secondo la mia opinione personale, il signore vive troppo bene per essere felice. SERGIO: Tu credi? 56
OSHIDORI: Certamente. Il signore ha bisogno di un incidente. SERGIO: Automobilistico? OSHIDORI: Cardiaco. Il signore ha bisogno di innamorarsi. SERGIO: (Impallidendo.) Oshidori!! OSHIDORI: Cosa c’è? Che le succede? SERGIO: Oshidori, tu credi che io possa innamorarmi? OSHIDORI: Sì, signore. SERGIO: E se io ti dicessi : “Ho il sospetto di essere innamorato”, crederesti anche questo? OSHIDORI: Anche questo, signore. SERGIO: E perché lo crederesti? OSHIDORI: Perché il signore si sta spalmando il burro sul palmo della mano. SERGIO: (Pulendosi.) Hai appena avuto un lampo di genio, Oshidori. OSHIDORI: (Inchinandosi con modestia.) Signore, è una mia abitudine. SERGIO: E la verità è questa. La triste verità è che tra tutte le donne che son passate nella mia vita, Oshidori, c’è stata una che non ho potuto dimenticare e della quale non ho più saputo nulla. Era bionda e aveva quel “nonsoché” che ci entra nel cuore non so quando, che ci prende non si sa come, che ci incita a non si sa cosa e che ci tira non si sa dove. Capisci? OSHIDORI: È difficile, però sì, signore. SERGIO: L’amai, la archiviai e la dimenticai, come tante altre; ma un giorno il fantasma di quella donna ha iniziato a ronzarmi intorno, e da allora vivo solo per il suo ricordo, la cerco inutilmente nelle altre e non ho altra speranza che incontrarla di nuovo. E sempre da allora, il nome di lei non si cancella più dalla mia mente. Sai che nome è questo? OSHIDORI: Elena. SERGIO: (Stupefatto.) Elena! Elena, sì! Ma, come sei riuscito ad indovinarlo? OSHIDORI: È già da tre mattine che quando entro a svegliare il signore, il signore mi prende per i risvolti della giacca, ed esclamando “Elena mia!”, mi dà un bacio… SERGIO: Cosa? Io ti do un bacio? OSHIDORI: Un bacio appassionato, signore. SERGIO: Non è possibile! OSHIDORI: Sì, signore. 57
SERGIO: Ma, perché non me l’hai detto fino ad oggi? OSHIDORI: Signore, ognuno ha un suo pudore… SERGIO: (Alzandosi furente.) È il colmo! È il colmo! Aver dato un bacio ad un uomo!.. OSHIDORI: Tre, signore, tre. SERGIO: Aver dato tre baci ad un uomo! Io! Io!! Oshidori, ti giuro sul mio onore che tu sei il primo uomo che io abbia mai baciato. OSHIDORI: (Emozionato.) Quanto mi rende felice il signore con le sue parole! SERGIO: (Ancor più indignato.) Ma non te lo dico per renderti felice! Non essere frivolo…! (Dal foro entra Leonor seguita da Francisca.) LEONOR: Si può, Sergio? SERGIO: Avanti. (Entra Leonor. È bella e porta una cartella con documenti.) LEONOR: (A Sergio, sollecita e premurosa come Pepita.) Hai riposato bene? Hai…? SERGIO: (Interrompendola, con un un’aria molto sgarbata.) Sì, Leonor, sì. Sto d’incanto e non ho bisogno di niente. Ora le domande sono di troppo. (Leonor si morde le labbra e si ritira a testa bassa verso il tavolino.) OSHIDORI: (Da parte.) (Questo è castigare, non lasciare senza il dolce…) SERGIO: C’è qualcosa che non va? LEONOR: Niente. Ero venuta per licenziarmi e sapere se approvavi l’assunzione della signorina Montánchez, che voleva sostituirmi. FRANCISCA: Dì di sì! Dì di sì, Sergio! E perdonami, padrone mio! SERGIO: Eh? FRANCISCA: Perdonami per non essermene andata! Perdonami se cerco di rimanere … Non dirmi niente. So già che non mi vuoi. So già che per te sono solo un lecca-lecca. SERGIO: Un lecca-lecca? FRANCISCA: Un lecca-lecca. Il tuo valletto l’ha detto. SERGIO: (A Oshidori.) Tu hai detto che lei è un lecca-lecca? OSHIDORI: Mi sono permesso questa piccola definizione, signore. FRANCISCA: Lo vedi? E non mi importa! Ciò che invece mi importa, Sergio, è restare, vederti ogni giorno, invidiare quelle che amerai, gemere, mangiare la polvere... SERGIO: Mangiare la polvere?
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FRANCISCA: Mangiare la polvere, Sergio! Trattami come una schiava, però, permettimelo! Umiliami, ma lasciami rimanere al posto di questa signorina con la gonna a quadri! Sergio! Sergio!! (Si lancia verso di lui, che continua a star seduto davanti alla colazione e si inchina fino quasi a toccare il tappeto con i capelli.) SERGIO: (A Oshidori.) Ma che fa? OSHIDORI: Starà mangiando la polvere. SERGIO: Sù, sù, Francisca... Rimani, ma senza isterismi... FRANCISCA: (Alzandosi contentissima.) Posso rimanere! Madonna Santa! (Dentro, nel foro, si sentono voci femminili che discutono.) SERGIO: Cosa c'è? Che succede? OSHIDORI: Staranno litigando alcune di quelle signore che aspettano di essere ricevute dal signore... SERGIO: Certo! Ne avrete messo due insieme nella stessa stanza... Come ve lo devo dire che le visite dovete metterle sempre in isolamento? Vai a vedere... OSHIDORI: Sì, signore. (Dirigendosi verso le donne che stanno dentro.) In fila, in fila, signore! (Va verso il foro.) SERGIO: (Che continua a fare colazione, rivolgendosi a Leonor, che ha aperto la cartella e si è seduta davanti al tavolino, con Francisca in piedi, al suo fianco.) La posta, Leonor... LEONOR: (Consultando le sue carte.) Ventitré dichiarazioni da Madrid e quattordici lettere di spasimanti dalle provincie... SERGIO: Rispondi di no a tutte. Quelle lettere son state scritte ieri, che era domenica. E le donne che scrivono a un uomo di domenica non lo fanno perché sono innamorate, ma perché non erano uscite a passeggiare nel pomeriggio e si annoiavano in casa da sole. FRANCISCA: (Da parte. Ammirata.) (Che psicologo!) SERGIO: Continua, Leonor... LEONOR: Nove lettere anonime piene di insulti. SERGIO: Scritte da uomini o da donne? LEONOR: Da uomini. SERGIO: Allora sono da parte di donne. FRANCISCA: (Da parte.) (Che psicologo tremendo, Santa Maria Goretti!) (Dal foro entra Oshidori portando indumenti di Sergio diretto alla camera da letto.) SERGIO: Che visite ci sono ad aspettare, Oshidori? 59
OSHIDORI: Sette donne. (Va verso la camera da letto.) LEONOR: E un signore. SERGIO: Ah! Anche un signore? Con sembianze da padre, da fratello, da marito, da amante?... LEONOR: No, no. Viene con buone intenzioni. (Dalla camera da letto entra in scena Oshidori dopo aver lasciato lì gli indumenti che portava con sé.) SERGIO: Con buone intenzioni? LEONOR: Sì, perché viene a portarti dei soldi… OSHIDORI: Allora viene con intenzioni ottime. SERGIO: (Alzandosi, dando per conclusa la sua colazione.) Viene a portarmi soldi? LEONOR: Duecentomila pesetas. (Stupore.) SERGIO: Duecentomila pesetas, Leonor? Ma duecentomila pesetas di che? OSHIDORI: E se fossero d’argento? LEONOR: Si è astenuto dal fornirmi dettagli. Questo è il suo biglietto da visita. (Glielo dà.) Dice che parlerà solo con te. SERGIO: (Leggendo il bigliettino.) “Barone Reginaldo di Pantecosti. Parigi, Londra, Cercedilla.”69 OSHIDORI: Si vede che è un uomo cosmopolita. SERGIO: Non lo conosco. Che tipo è? LEONOR: È distinto, disinvolto… Sembra che abbia vissuto molto. SERGIO: Ma, che abbia vissuto dove? OSHIDORI: Sì, perché se è stato a Cercedilla… LEONOR: L'unica cosa che so è che per farmi decidere a passarti il messaggio mi ha mostrato l’assegno, intestato a tuo nome. SERGIO: Hai visto l’assegno? Tu che ne pensi di questo, Oshidori? OSHIDORI: Che il signore deve riceverlo subito. (Dal foro entra Pepita, agitata.) PEPITA: Sergio! SERGIO: Che c'è? PEPITA: È appena arrivata la contessa di san Isidoro… SERGIO: La contessa?
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Si è voluto creare l’effetto comico affiancando a due capitali europee importanti una città che non è propriamente allo stesso livello.
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PEPITA: L'ho vista dal finestrone della “hall”. Dev'essere furiosa, perché, scendendo dalla macchina, ha chiuso lo sportello con un colpo così forte che si è fermato il motore… OSHIDORI: Proprio niente allora! SERGIO: Beh vai, Oshidori, esci e inventati qualcosa perché vada via e non torni più. OSHIDORI: Sì, signore. (Da parte.) (Si sentiranno le urla fino a Londra.) (Va verso il foro.) SERGIO: Tu, Pepita, fai passare il signore che sta aspettando. (Pepita va verso destra.) E tu Francisca, fatti carico delle scartoffie. (Riferito a quelli della cartella.) E congeda quelle sette signore. Dì loro che non ricevo. E se si verificano crisi di nervi, avvisa Oshidori perché vaporizzi l'etere nel vestibolo. (Inizia l’uscita di scena verso la camera da letto.) FRANCISCA: Molto bene. (Riordina i documenti davanti al tavolino.) LEONOR: (Camminando al passo di Sergio.) E a me… non hai niente da dire, Sergio? (Con voce strozzata.) SERGIO: Che sono molto compiaciuto dal tuo servizio e che sarò contento di vederti felice… (Va verso la camera da letto.) LEONOR: (Scoppiando a piangere.) Nel vederti felice! Come che io possa mai essere felice!... (Piange. Dalla destra entra Reginaldo di Pantecosti seguito da Pepita. È un signore già attempato, elegante, e con una certa aria di infelicità e spregiudicatezza in parti uguali. Entrando vede Leonor piangere e si ferma un momento, ma poi reagisce e saluta con un inchino.) PEPITA: Passi, signore, e abbia la gentilezza di aspettare un attimo. Leonor! Che succede? (Va verso di lei.) LEONOR: È un infame! Non ha cuore! PEPITA: Perché, pensavi che ce l’avesse?! FRANCISCA: E se ce l'ha, lo usa per altre cose… LEONOR: Sa che ho lasciato tutto per lui e l'unica cosa che gli viene in mente nel congedarmi è che io sia felice! PEPITA: (Piange anche lei.) E meno male che a lei dice questo, perché a me, che anche ho lasciato tutto per lui, dice ogni tanto di dare bene la cera!
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FRANCISCA: (Piange anche lei. Iniziando l’uscita di scena dietro di loro.) Piangete! Piangete oh amiche mie! È stupendo! Cadono le ciglia… Ma è stupendo! (Vanno tutte e tre verso il foro dopo aver fatto l’inchino a Pantecosti.) PANTECOSTI: (Che ha seguito attentamente la scena, e che ha salutato anche lui alla loro uscita di scena.) Beh; questa sembra una casa particolare, ma non è una casa particolare; è la casa “Uffa”. Molti me lo avevano raccontato fino a farmi decidere di venire, ma la realtà supera la fantasia, come disse il poeta. Che caso! Nella mia vita non ho mai conosciuto un uomo che avesse tanto successo con le donne… Se riesco a convincerlo il trionfo è assicurato… Ed è abbastanza benestante. Deve avere soldi, e questo è un male, perché se non accetta le duecento mila pesetas70 siamo persi… Quante donne avrà fatto passare per di qua quest’uomo? Si vede che è tutto allestito per ricevere visite femminili. (Curiosando nel tavolino.) Sigarette turche… Matite per le labbra… Immancabili… Aghi per rammendare le calze… Non dimentica un dettaglio. (Guardando il fascio di riviste che ci sono sulla biblioteca.) E tra i giornali ha solo riviste tecniche. “La donna e la Casa”, “La donna e la Moda”, “La donna e l’adulterio”. Tutte riviste tecniche. (Vedendo i quattro libri nella biblioteca.) Saranno questi i famosi libri dove dicono che annota le sue conquiste?… (Aprendone uno.) Ma certo che son questi! Che occasione per scoprire alcuni suoi segreti! Anzi no! (Lascia il tomo al suo posto.) È meglio lasciarlo. Magari trovo annotata qui mia moglie, e il medico mi ha raccomandato di non avere dispiaceri… (Si siede. Si sentono delle voci da dentro e subito entrano Oshidori e Adelaida, dama di quaranta anni abbondanti, molto elegante, dall’aria autoritaria e straziata. Mentre entrano Oshidori cerca di tagliarle la strada.) OSHIDORI: Signora contessa… Le assicuro, signora contessa… ADELAIDA: (Allontanandolo con la mano.) Oshidori, non abbindolarmi più e lasciami in pace. OSHIDORI: Mi creda la signora contessa che… ADELAIDA: Beh niente, bello, non ti credo; per farti vedere… (Entra.) Ho detto che vengo a vederlo e lo vedrò; vedrai… E tu levati di mezzo, perché prevedo che non ti vedrò più… Andiamo, vorrei ben vedere! (A Pantecosti.) Signore, mi scusi, non l’avevo vista… (Si siede.) PANTECOSTI: (Che si è alzato in piedi.) Signora… 70
Nell’originale l’autore parla di quarantamila duros. Il duro era una moneta che equivaleva a cinque pesetas. Tuttavia al momento di tradurre si è preferito tradurlo come pesetas essendo il duro pressoché sconosciuto a noi italiani.
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ADELAIDA: Anche lei è venuto per vedere Sergio, vero? Ma a lei non avranno detto che non è in casa… A lei non avranno detto, come mi ha detto quello, che è andato a Logroño a una partita di calcio. (Gesticolando le scappa la borsa.) PANTECOSTI: No, signora; non me l’hanno detto. ADELAIDA: Per questo lei rimane tranquillo. Io ho perso la tranquillità e la borsa. Dov’è la borsa? OSHIDORI: Eccola qui, signora contessa. (Gliela dà.) ADELAIDA: Grazie. OSHIDORI: Ciò che mi è impossibile è restituirle la tranquillità. Al contrario: devo dire alla signora contessa qualcosa di molto grave, che… PANTECOSTI: (Alzandosi.) Se disturbo… ADELAIDA: Lei non disturba, signore. Si segga. PANTECOSTI: Sì, signora. (Si siede.) OSHIDORI: Prima di tutto, prenda un fazzoletto, signora contessa. La signora contessa piangerà lacrime amare quando le dirò… ADELAIDA: Guarda, non continuare, Oshidori. Ci conosciamo da tempo e ti risulta che a me i trucchetti sentimentali, e giro girotondo. OSHIDORI: (Stupito.) Giro girotondo? ADELAIDA: Giro girotondo e anghingò, come cantava la mia bisnonna. OSHIDORI: Quella del ritratto di Goya… ADELAIDA: In persona. E se lo sai, risparmiami le spiegazioni. E non iniziare con storielle sul tuo padrone, perché io non piango. In un primo momento mi addolcisco, ma passato il primo momento mi ricordo della mia bisnonna, che era di quelle che scendevano al Pardo a cercare ghiande,71 e son capace di picchiare alla me ne frego…72 PANTECOSTI: Alla me ne frego, signora? ADELAIDA: Alla me ne frego, signore. È italiano. PANTECOSTI: (Da parte.) (Sarà italiano antico...) ADELAIDA: Con il tuo padrone, dopo quattro mesi di pazzie, di bidoni e di maratone, la prima reazione istintiva mi è già passata. 71
Il Pardo è un Palazzo Reale di Madrid. L’effetto comico nasce dall’accostamento tra quest’ultimo e la ricerca delle ghiande, assolutamente popolare, per accentuare il basso rango della bisnonna della contessa. 72 Nell’originale troviamo l’espressione “a la remanguillé”, che può esser tradotta come “in modo disordinato.” Qui probabilmente si intende nel senso di percosse date a raffica, senza preoccuparsi se possono far male o no.
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OSHIDORI: Passata! ADELAIDA: C’è l’eco? OSHIDORI: È assenso, signora. ADELAIDA: E oggi mi son ricordata della mia bisnonna e vengo pronta a… PANTECOSTI: Sì, sì! A picchiare alla me ne frego! ADELAIDA: Esattamente, signore. Lei mi capisce… (A Oshidori.) Perciò digli di uscire. OSHIDORI: A lui? ADELAIDA: A lui, sì. A Sergio. OSHIDORI: Mi dispiace, signora contessa; ma Sergio si arrabbierebbe molto se lo avvisassi… ADELAIDA: Si arrabbierebbe? Perché? OSHIDORI: Perché… (Da parte a Pantecosti.) (Signore, si sposti in quell’angolo…) (A sinistra.) PANTECOSTI: (In quell’angolo?) OSHIDORI: (Sì, signore. Questa è una zona pericolosa…) PANTECOSTI: (Caspita!) (Si alza, e facendo finta di niente, si sposta a sinistra.) OSHIDORI: (Ad Adelaida, con un gran coraggio.) Il signore mi ha detto che non vuol vedere mai più la signora contessa… ADELAIDA (Con riluttanza.) Come? OSHIDORI: Che ha chiuso per sempre con la signora contessa. ADELAIDA: (Si alza con un vero e proprio ruggito, sbatte un pugno al tavolino e si porta via la lampada.) Eh?!! OSHIDORI: Oh mamma! (Oshidori non si altera.) ADELAIDA: (Verde dalla rabbia.) Ma… ma cosa sto sentendo? Ma … cosa hai detto? Ripetilo! Dillo un’altra volta!! PANTECOSTI: (Da parte a Oshidori.) (Non lo ripeta, ché lì c’è la mia bombetta…) ADELAIDA: Che con me ha chiuso per sempre?! Che non vuole vedermi più?!… PANTECOSTI: Signora, stia serena. ADELAIDA: Che non vuole vedermi più?! Che con me ha chiuso per sempre?! PANTECOSTI: Si calmi, signora… (In questo momento dalla camera da letto appare Sergio. Indossa l’abito che gli ha portato in camera Oshidori. Appena appare lui cala un silenzio profondo.) 64
SERGIO: (Dominando tutta la situazione con uno sguardo.) Che spettacolo! Che spettacolo ripugnante! (Ad Adelaida.) Tu saresti dovuta essere… OSHIDORI: Signore … PANTECOSTI: (Da parte.) (Il protagonista ...) SERGIO: (Ad Adelaida.) Non una parola di più… Intesi? Non una parola di più… PANTECOSTI: (Da parte.) (Le domina.) SERGIO: (Rivolgendosi a Pantecosti, con estrema gentilezza.) Perdoni, signore, che io mi presenti in questo modo, ma a volte le donne finiscono per metterti in ridicolo. PANTECOSTI: Lo so, signor Hernán. Sono sposato. (Si stringono la mano.) SERGIO: Mi scusi un momento. Si segga. Sarò da lei tra un istante. PANTECOSTI: Sì, signore. Molte grazie. (Si siede. Oshidori va verso destra.) ADELAIDA: (Avvicinandosi a Sergio, senza i nervi di prima, con voce dolce.) Suppongo, Sergio, che quanto ha appena detto Oshidori, sia una storiella da bambini per farli addormentare… SERGIO: Nessuna storiella per bambini, Adelaida. “Quel che è stato” è finito e non riprenderà mai. Sai che non mi piace la “minestra riscaldata”. PANTECOSTI: (Da parte.) (La chiama minestra riscaldata!) SERGIO: E quanto ti ha detto Oshidori è vero. ADELAIDA: Ma la cruda verità? SERGIO: La verità crudissima. PANTECOSTI: (Da parte.) (Le domina… le domina, non c’è dubbio.) (Oshidori entra da destra con un garofano bianco in mano e lo mette a Sergio.) ADELAIDA: E non hai nient’altro da dirmi? SERGIO: Sì. Devo dirti di non insistere; perché l’amore, Adelaida, è come la maionese: quando impazzisce bisogna buttarlo e iniziarne uno nuovo. PANTECOSTI: (Da parte a Oshidori.) (Che frase!) OSHIDORI: (Da parte.) (Ho otto quaderni pieni di cose così…) ADELAIDA: Va bene. Me ne vado. (Inizia a uscire di scena.) PANTECOSTI: (Da parte.) (Se ne va… Si è dimenticata della sua bisnonna…) ADELAIDA: (Fermandosi ne foro.) Però ascolta, Sergio… Tu sarai abituato a giocare a tuo piacimento con le donne, ma levati dalla testa l’idea che puoi giocare anche con me, perché io non sono un “lego”… PANTECOSTI: (Da parte.) (Si ricorda di nuovo della bisnonna.) 65
ADELAIDA: E dato che qui c’era una tavola apparecchiata per due, nella quale adesso vuol mangiare uno solo, beh tirerò la tovaglia così non ci mangerà nessuno. SERGIO: Bene… ADELAIDA: Di sotto, in macchina, c’è mio marito, a cui ho detto di aspettare perché andavo dal dentista… PANTECOSTI: (Da parte.) (Quante cose dicono a noi mariti!) ADELAIDA: Ma ora gli spiegherò che razza di dentista sei tu, e che razza di appuntamenti tra me e te, dopo di che immagino che l’unico che spaccherà dentiere sarà lui! PANTECOSTI: Eccitante! ADELAIDA: Sarà eccitantissimo, signore. E tanto piacere. (Se ne va verso destra.) PANTECOSTI: (Molto allarmato, a Sergio.) Ed è anche capace di farlo così come lo dice, signor Hernán! È capace di tutto! Se l’avesse sentita respirare quando… SERGIO: (Tranquillissimo.) Lei non si preoccupi, signore. OSHIDORI: Non si preoccupi, signor barone. PANTECOSTI: Ma!… SERGIO: Non succede niente. OSHIDORI: Non succede mai niente. PANTECOSTI: Va bene… (Sconcertato.) Le giuro che sono pieno di ammirazione… SERGIO: Bah! OSHIDORI: Se il signor barone avesse la nostra esperienza… SERGIO: Se avesse la nostra esperienza, signore… (Scrollando le spalle.) Mariti, Oshidori! OSHIDORI: Mariti! Che ridere! PANTECOSTI: Mariti! A me! (Fa spallucce.) SERGIO: E ora parli tranquillamente. Mi hanno detto, con mia ovvia sorpresa, che viene a portarmi duecento mila pesetas… È vero, signor barone? PANTECOSTI: È vero, signor Hernán. (Oshidori offre una sigaretta al barone e gliela accende. Poi prende due cuscini e glieli mette dietro la schiena.) SERGIO: E queste duecentomila pesetas, barone, me le regala o dovrò guadagnarmele? PANTECOSTI: Se le deve guadagnare. SERGIO: (Disilluso.) Ah, beh! (Oshidori toglie i cuscini al barone. Poi gli prende anche la sigaretta. Pantecosti rimane come se avesse una visione.) 66
PANTECOSTI: Beh!… Però il suo lavoro è molto piacevole e fatto apposta per lei… In poche parole: quando si ha bisogno di un abito, si va dal sarto, e quando si ha bisogno di un cappello si va dal cappellaio… Io ho bisogno di un seduttore e vengo a casa sua, signor Hernán. SERGIO: E quindi? PANTECOSTI: Sì, signore le offro duecentomila pesetas per far innamorare una donna. SERGIO: Capisco. Qualche vecchia pazza che… PANTECOSTI: Niente vecchie pazze. Guardi la sua immagine. (Toglie l’immagine dalla tasca e gliela dà.) SERGIO: (Vedendo l’immagine, alzandosi e lanciando un urlo terribile.) Ah!! PANTECOSTI: (Spaventato.) Accidenti! (Si alza e si ripara.) SERGIO: Ah! OSHIDORI: Cosa c’è? Che le succede, signore? SERGIO: Ah! Guarda! (Gli mostra l’immagine.) OSHIDORI: (Da parte.) (Accidenti! È lei!) (Sergio impallidisce, chiude gli occhi e barcolla, Oshidori lo fa avvicinare alla sedia.) PANTECOSTI: (Meravigliato.) Che impressione le ha fatto! OSHIDORI: Ed è svenuto! PANTECOSTI: È svenuto? Dio mi protegga! Grido aiuto? Chiamo qualcuno? Porto dell’acqua? OSHIDORI: Schhh! Fermo!! Niente, non faccia niente, signor barone. In casa non c’è nient’altro che donne innamorate di lui… Quindi, che confusione si creerebbe se le chiamassimo! Lasci fare a me… Gli sorregga la testa… provvedo a vaporizzare etere… PANTECOSTI: Sì, sì … (Sorregge la testa a Sergio mentre Oshidori vaporizza l’etere.) Si riprenderà? OSHIDORI: Certo che si riprenderà! PANTECOSTI: E quando ci accorgeremo che si sta riprendendo? OSHIDORI: Beh quando si riprenderà. PANTECOSTI: Signore, si riprenda! (Sergio sospira.) OSHIDORI: Ci siamo! PANTECOSTI: Ci siamo? OSHIDORI: Ci siamo! (Sergio apre gli occhi.) Su, signore, su... È passato. Vuole che le porti qualcosa? 67
SERGIO: (Con voce debole.) Portami il barone… OSHIDORI: È qui… PANTECOSTI: Sono qui, signor Hernán… SERGIO: Ah! È qui? Beh, presto… Senza dilazioni, barone!… Mi spieghi! Mi dica tutto quello che sa su quella donna… Parli… E non tralasci i dettagli. (Oshidori rimette a Pantecosti i cuscini nella schiena, abusando di gentilezza. Poi gli mette un’ altra sigaretta in bocca e gliela accende.) PANTECOSTI: Non me la prenderà dopo? OSHIDORI: Questa no, signor barone. PANTECOSTI: Ah beh, meno male… (A Sergio.) Dunque… Prima di tutto…Lei conosce il marchese della Torre dei Tredici Merli? SERGIO: Di vista. Sessant’anni, gottoso, diciotto milioni di pesetas di capitale, no? PANTECOSTI: Esattamente. Or dunque: io sono uno degli ereditieri del marchese della Torre, signor Hernán… SERGIO: Le mie felicitazioni, ma non vedo la relazione che… PANTECOSTI: La vedrà dopo… L’estate scorsa, io e mio zio il marchese ci trovammo a Cercedilla, dove la sua villa e la mia residenza estiva sono confinanti. Gli feci visita, e siccome lo trovai un po’ sciupato, lo feci presente agli altri ereditieri, i quali si affrettarono a venire sistemandosi a casa mia con gran gioia del marchese, che festeggiò il vederci riuniti intorno a lui, perché, come disse, sentiva arrivare la morte e voleva andarsene in compagnia dei suoi. SERGIO: Giustissimo. PANTECOSTI: Noi ci dedicammo a curarlo e coccolarlo finché un pomeriggio il marchese ci lesse il testamento fatto a nostro favore. Piangemmo, lo abbracciammo e gli dicemmo: “Ora, zio, puoi morire quanto prima”. E pochi giorni dopo, invece della morte arrivò il mese di agosto. OSHIDORI: Perciò eravate a fine luglio. PANTECOSTI: Precisamente. Quanto è perspicace quest’uomo! Con il mese di agosto arrivò la catastrofe, e ora arriviamo a quello che interessa a lei… Il marchese si è innamorato follemente di una certa dama conosciuta in un tè del Club Alpino… SERGIO: Lei!! PANTECOSTI: Lei, sì, signore. Elena Fortún… SERGIO: Elena! (Guarda l’immagine e la bacia.) 68
OSHIDORI: La sua Elena! PANTECOSTI: Il marchese l’ha domandata in sposa, e fra due settimane si scambieranno le promesse… SERGIO: Si sposa con lei? PANTECOSTI: Si scambieranno le promesse. SERGIO: Si sposerà con lei? PANTECOSTI: Si scambiano le promesse. SERGIO: E lei viene a dirmi che si sposerà con lei? PANTECOSTI: Vengo a dirle che si scambieranno le promesse… SERGIO: Fuori!! Vada via, barone! PANTECOSTI: Ma, signor Hernán… SERGIO: Via! OSHIDORI: E non si sieda più in questa poltrona. (Ritira la poltrona.) Via, signore! PANTECOSTI: Stia calmo! Io non voglio che si sposino, signor Hernán! SERGIO: Eh? PANTECOSTI: Ma non capisce che se il marchese si sposa, l’eredità ci scappa di mano e passerà tutta alla sua sposa? SERGIO: Beh è vero! PANTECOSTI E precisamente la questione è che lei impedisca quel matrimonio… SERGIO: Che io impedisca quel matrimonio? (Dentro si sente un vociare incredibile.) Che c’è? OSHIDORI: Che succede? PANTECOSTI: (Spaventatissimo.) Il marito! Questo è il marito! (Dal foro entra Francisca correndo.) FRANCISCA: Oshidori!! OSHIDORI: Che succede? FRANCISCA: L’etere, presto! Che alle signore che sto congedando stanno venendo attacchi! OSHIDORI: Tanti? FRANCISCA: Rispettivi.73 OSHIDORI: Come rispettivi?
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L’autore utilizza il distributivo come fosse un cultismo.
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FRANCISCA: Uno a ciascuna! OSHIDORI: Ah, bene! SERGIO: Vai, Oshidori… OSHIDORI: Sì, signore. (Va verso il foro con il vaporizzatore sulla spalla, seguito da Francisca. Da parte.) (Bisognerà comprare l’etere in bidoni… ) (Va verso il foro.) PANTECOSTI: Cavoli! Che impressione…! Uno spavento dopo l’altro... Come uno non è abituato a certe cose… SERGIO: Barone… Barone, credo di iniziare a vederci chiaro… PANTECOSTI: Chiaro! SERGIO: Lei dice che la questione è che io impedisca quel matrimonio?... PANTECOSTI: Esatto! Perché quando ci siamo resi conto che il marchese voleva sposarsi, io e i miei amici siamo caduti in una profonda disperazione. Abbiamo deciso di impedirlo, e dopo aver pensato al veleno e alla pistola “Star”, abbiamo pensato a lei… SERGIO: Che onore per me! PANTECOSTI: Abbiamo finto amicizia con la promessa sposa del marchese, l’abbiamo invitata a vivere a casa mia… SERGIO: Ah! Lei è a casa sua! Magnifico! Magnifico! Vediamo il vostro piano, barone… PANTECOSTI: Il nostro piano è portarla a Cercedilla, far alloggiare anche lei a casa mia, come un invitato in più, e lei, coi suoi procedimenti infallibili farà innamorare quella donna e la farà rinunciare al matrimonio. E lei incassa le duecentomila pesetas e noi prendiamo l’eredità del marchese e… SERGIO: (Felicissimo.) Si faccia abbracciare, barone! Si faccia abbracciare!! PANTECOSTI: (Non meno felice.) Quindi, accetta? SERGIO: Se accetto? Accettare! Con questa parola non si rende l’idea… Bisogna inventarne un’altra. La invento! Non accetto, barone: “esgorcio!”74 PANTECOSTI: (Stupefatto.) “Esgorcia?” SERGIO: “Esgorcio!” PANTECOSTI: Bene, mi ascolti seriamente... “Esgorcia” davvero davvero? Grazie, signor Hernán!! (Si abbracciano un’altra volta. Dal foro entra Oshidori.) SERGIO: Oshidori, prepara tutto. Domani mattina andremo a Cercedilla. 74
E’ un neologismo introdotto dall’autore.
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OSHIDORI: Sì, signore. (Dal foro entra Pepita.) PEPITA: Sergio, c’è il conte di san Isidoro, che vuole vederti immediatamente. SERGIO: Il mio cappello e i miei guanti, Oshidori. (Li prende.) E lei si metta la bombetta! (Infila la bombetta a Pantecosti. A Pepita.) Fai passare il conte … (Pepita va verso il foro. A Oshidori.) Ricevilo tu... Digli quello che vuoi… Noi usciamo dalle scale di servizio. Io e il barone dobbiamo pranzare assieme, brindare assieme, ubriacarci assieme… PANTECOSTI: Fantastico! SERGIO: Siamo molto contenti… Siamo contentissimi, vero? PANTECOSTI: Io non ballo perché soffro di reumatismi… SERGIO: Pranzeremo assieme… O meglio! Pranzeremo assieme se lei accetta l’invito, barone. PANTECOSTI: Beh no, signore; non lo accetto! Lo “esgorcio”!! SERGIO: Olé! Lo “esgorcia”! Viva la Spagna! (Se ne vanno camminando a braccetto, sprizzando ottimismo, verso destra.)
SIPARIO
ATTO SECONDO
Vestibolo misto a salone nella villa che il marchese di Pantecosti possiede a Cercedilla (Guadarrama), andando verso la stazione a destra. È una bella proprietà circondata da un giardino molto esteso, ma ben tenuto, al quale arriva l’aria pura della Sierra insieme al fumo dei treni; un dieci per cento di aria pura della Sierra e un ottanta per cento di fumo dei treni.75 Nel foro sulla sinistra si apre una grande porta che consente l’accesso in casa, provvista di un tendone che avanza verso il giardino. Nel secondo lato a destra, altre due porte, una grande; secondo lato che conduce alle altre stanze del piano terra, e nel primo lato un’altra piccola attraverso la quale si va ai piani superiori, con una rampa di scale che si perde nel lato. Nel primo lato a sinistra, finestrone molto basso che si apre verso la campagna. Nel fondo sulla destra si innalza un gran camino con focolare paesano con alari76 lavorati, e su 75 76
È un calcolo volutamente errato da parte dell’autore. Arnesi di ferro che servivano per sostenere la legna.
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entrambi i lati del camino due armature italiane del XVI secolo, che son state fabbricate in Spagna in questo secolo, ma che sembrano più del XVI secolo e più italiane che se fossero veramente italiane e del XVI secolo. Nella facciata del camino c’è scolpito uno scudo nobiliario. Una panoplia con armi piene di muffa e dall’impugnatura
inspiegabile
conferiscono
una
certa
ascendenza
signorile
all’abitazione. Il resto è profondamente campestre. Nelle pareti si vedono quei trofei di caccia – teste di cervi, di capre spagnole, etcetera, - propri delle case dove non si caccia né si è mai cacciato nulla. La mobilia, severa e intonata, non manca, tuttavia, di allegria. Tra la seconda porta a sinistra e il finestrone poggia il suo schienale un divano ampissimo, al quale fanno guardia due poltrone non meno ampie e tra le quali c’è un tavolino. Cassapanche, tavoli, sedie, etcetera, completano l’ “attrezzeria”, e abbondano quegli sgabelli di paglia con braccioli, chiamati “serijos”, caratteristici delle case di campagna di Ávida e Segovia. Nelle pareti, lampade di cristallo trasparente, e una lanterna dello stesso stile al centro. Collocati strategicamente su alcuni mobili, vasi con fiori e cesti piani con frutta. Comincia l’azione alle cinque del pomeriggio di uno splendido giorno di ottobre, quarantott’ore dopo quanto accaduto nel primo atto. Al sollevarsi il sipario, in scena Julia, Beatriz, Pantecosti e Roberto. Julia è una dama sui venticinque anni portati benissimo: una di quelle donne capaci di far felice qualunque uomo che non sia marito. Beatriz ha sui cinquant’anni, e la sua classe da gran signora non può nascondere i feroci segni che ha lasciato il tempo su di lei, e Roberto è un vero disastro: prossimo ai settant’anni e sordo: dentro, fuori, completamente sordo. Quanto a Pantecosti abbiamo già avuto il piacere di conoscerlo. Julia, Beatriz e Roberto, seduti nel divano e nelle poltrone di sinistra, sembrano aspettare qualcosa. Pantecosti passeggia da una parte all’altra, nervoso e impaziente. Rimangono così, senza parlare, alcuni istanti dopo che si è alzato il sipario. Dopo un po’ si sente il clacson di un’auto, che agita tutti i personaggi tranne Roberto, che, ovviamente, non lo sente.
PANTECOSTI: Un’auto! Un’auto! (Inizia a correre verso il foro ed esce di scena.) BEATRIZ: Un’auto! Un’auto! (Si alza e va verso il foro.) JULIA: (Alzandosi.) Un’auto, Roberto! ROBERTO: Eeh? (Julia si inchina sul tavolino e scrive velocemente qualcosa sul bloc72
notes che c’è sopra e va di corsa verso il foro. Roberto, che è rimasto solo, si alza e legge quello che c’è scritto. “Un’auto.” Cavoli! Getta il bloc-notes sul tavolino e si precipita immediatamente verso il foro. C’è una breve pausa con la scena vuota: poi rientrano tutti nel foro. Pantecosti, Julia e Beatriz davanti, e Roberto per ultimo. Entrano molto contrariati.) PANTECOSTI: Un altro camioncino di pesce! BEATRIZ: Benedetti camioncini di pesce! (Loro si siedono di nuovo, e Pantecosti riprende a passeggiare.) ROBERTO: (Sedendosi anche lui.) Ma non era un’auto? BEATRIZ: No. Era un camioncino che passava. ROBERTO: Come? BEATRIZ: Era un camioncino!! JULIA: (A Pantecosti.) Non ti disturbare, glielo scrivo io. (Scrive qualcosa nel blocnotes.) BEATRIZ: A che ora ti ha detto che sarebbero venuti precisamente , Reginaldo? PANTECOSTI: Non ha parlato di un’ora precisa… Ha detto che sarebbero arrivati qui verso le quattro. BEATRIZ: Beh, son già le cinque meno un quarto, perché è appena passato il treno delle due e mezza. PANTECOSTI: Beh, però potrebbero aver fatto tardi, essere partiti più tardi da Madrid, aver bucato una gomma… ROBERTO: (Leggendo nel bloc-notes che gli dà Julia.) “Non era un’auto; era un camioncino di pesce.” Ah, sì! (Dentro si sente un altro clacson. Nuovo soprassalto tra tutti.) PANTECOSTI: Perbacco! (Va verso il foro.) JULIA: È qui. (Si alzano con l’idea di uscire ma l’ingresso di Fernanda e Mariano li ferma, evitandogli l’uscita di scena. In effetti, dal foro entra Fernanda, una bella donna di venticinque anni, e Mariano che è un quarantenne molto elegante. Viene senza niente sulla testa, facendo capire che stavano nel giardino, e con aria annoiata.) MARIANO: (A quelli della scena.) Niente; non vi muovete. PANTECOSTI: Neanche ora? MARIANO: Neanche ora. PANTECOSTI: Un altro camioncino di pesce? MARIANO: Un altro camioncino di pesce! 73
BEATRIZ: Oh Gesù! (Tornano alle posizioni iniziali, e anche Fernanda e Mariano si siedono.) ROBERTO: E ora che succede? Non stava arrivando un’auto? (Julia di tutta risposta gli dà il bloc-notes, e Roberto legge.) “Non era un’auto; era un camioncino di pesce.” Ma questo è quello di prima! JULIA: E quello di adesso! ROBERTO: Come? (Julia scrive di nuovo nel bloc-notes.) PANTECOSTI: Passano diecimila camioncini al secondo!! ROBERTO: Eeeh? (Julia gli dà il bloc-notes e Roberto legge.) “Stai zitto e smettila di rompere le scatole.” Va bene! Va a finire sempre così! (Si alza.) Arrivederci! BEATRIZ: Arrivederci. MARIANO: Addio. (Roberto va verso il foro.) FERNANDA: Povero Roberto! PANTECOSTI: Non si rende conto di niente. JULIA: È già un anno che per capirmi con lui devo scrivergli le cose. PANTECOSTI: E il brutto è che per colpa della sua sordità ha rinunciato al suo destino… FERNANDA: (Da parte a Mariano.) (Ma che lavoro faceva Roberto?) MARIANO: (Da parte a Fernanda.) (Auditore di guerra.) BEATRIZ: Reginaldo, perché non esci di nuovo a vedere se arriva la macchina? PANTECOSTI: Sono stufo di entrare e uscire. Quando arriverà ci avviseranno i ragazzi, che stanno di fuori. BEATRIZ: Lì fuori? Non li ho visti… MARIANO: Sì. Sono nel campo da tennis con Elena. BEATRIZ: Questa maledetta donna è quella che ha la colpa di tutto! FERNANDA: Ha saputo abbindolarlo bene, lo zio Ernesto! BEATRIZ: E abbindolarlo quando già avevamo un’eredità in mano. Perché ce l’avevamo in mano! PANTECOSTI: Io avevo addirittura già chiuso i pugni. FERNANDA: Come se due giorni dopo averci letto il testamento lo zio Ernesto stesse vivendo gli ultimi… BEATRIZ: Era consumatissimo. MARIANO: E con un affanno spaventoso. 74
PANTECOSTI: Mamma mia! E respirava soffocando, con un rantolo che faceva piacere a sentirlo… BEATRIZ: Reginaldo, Per l’amor di Dio! Da allora si son verificate le catastrofi: il suo entusiasmo sempre maggiore, la sua proposta di matrimonio… MARIANO: E l’eredità sempre più lontana. E il torto che sta facendo a tutti! A me gli uscieri del Monte dei Pegni danno del tu. PANTECOSTI: Beh il mio caso è peggiore perché non mi lasciano passare. MARIANO: Non c’è altra soluzione che Sergio Hernán… BEATRIZ: Certo che se non fa innamorare quell’intrusa… PANTECOSTI: Non dubitare neanche, Beatriz. La farà innamorare. Duecentomila pesetas all’orizzonte hanno molto potere. Senza contare il fatto che lui è infallibile, e oltretutto, Elena gli piace tantissimo! MARIANO: Ma che, a quanto pare, è una cosa da vedere il ritratto e svenire… PANTECOSTI: Da rimanere steso nella poltrona! BEATRIZ: Beh, figli miei, non è il caso… JULIA: Sarà svenuto perché aveva lo stomaco sottosopra. PANTECOSTI: E grazie al suo accompagnatore, che è l’Enciclopedia di tutti i valletti, è ritornato in sé in due minuti… ma le pressioni che mi ha fatto poi Hernán, chiedendomi quando e come Elena si era venuta a trovare qui, sono una prova che gli interessa, e che è disposto a tutto per vincere mettendo in atto tutti i suoi trucchi. Il primo già lo sapete: è iniziare a far la corte a tutte voi… MARIANO: Questa è l’unica cosa che mi dà un po’ fastidio. FERNANDA: Andiamo, scemo! Sei geloso? BEATRIZ: Mio marito non è geloso di me… MARIANO: Certo! È ovvio!! PANTECOSTI: Perché è ovvio? MARIANO: No, per niente; per niente… JULIA: E neanche il mio Roberto è geloso. MARIANO: Il tuo Roberto non è geloso perché ancora non se n’è reso conto; ma scriviglielo nel bloc-notes al tuo Roberto e vediamo cosa dice il tuo Roberto… BEATRIZ: E poi Sergio Hernán ci corteggerà per finta. Per interessare a Elena. MARIANO: Visto! Per questo non ho rifiutato del tutto. JULIO: (Guardando verso il foro.) Sta arrivando Arturito! 75
BEATRIZ: Arturito? Allora ci sono notizie. PANTECOSTI: Vediamo se sta venendo per… (Va verso il foro. Tra tutti si ravviva l’attesa. Dal foro entra Arturito. È un ragazzone forte, sportivo, con dei muscoli da atleta e un cervello da tartaruga. Indossa dei pantaloni bianchi e tiene in mano una racchetta da tennis, ed è indiavolato nero.) Ci siamo, Arturito? BEATRIZ: Ci siamo, figlio mio? TUTTI: Ci siamo? ARTURITO: Ma ci siamo cosa? PANTECOSTI: Come, ci siamo cosa? Se si vede la macchina di Hernán … ARTURITO: Hernán? Maledizione, accidenti! Sono già stufo, mannaggia, maledizione. È così. Nessuno lo può sopportare, maledizione, mannaggia! PANTECOSTI: Sì, però, sta arrivando o non sta arrivando la macchina di Hernán? ARTURITO: Non sta arrivando, mannaggia! maledizione! (Dà un colpo alla sedia con la racchetta.) PANTECOSTI: Però, figlio mio, Arturito, che ti succede? ARTURITO: Che mi succede, accidenti? Che mi succede? Maledizione! Che ne sapete voi?… Perché non ci siamo! Perché no, maledizione, mannaggia! PANTECOSTI: Ma spiegati, figlio mio! ARTURITO: Non mi sto spiegando? Ancora non mi spiego? Non sto parlando ben chiaro? Ho detto di no, mannaggia! No, maledizione! (Un altro strattone al tavolo.) E se voi… beh, mannaggia! Ma a me, maledizione, accidenti! A me no! Mannaggia! A me no! E ho detto già abbastanza, mannaggia, maledizione!! E non aggiungo altro, maledizione, mannaggia!!77 (Va via verso il foro destro, tra lo stupore di tutti, tirando pedate all’aria e ai mobili.) PANTECOSTI: Ma che gli succede? (Dal foro entra Nina, una ragazzina tra i diciassette e i diciotto anni, molto carina, anche lei in tenuta da tennis, e tiene in mano un’altra racchetta. Entra come un fulmine.) NINA: (A Pantecosti.) Beh gli succede che è un imbecille, zio. È un imbecille dalla testa ai piedi, e non aggiungo altro! PANTECOSTI: Cosa? BEATRIZ: Nina… che significa? NINA: Che è geloso questo stupido! Che da quando ieri lo zio Reginaldo è tornato da 77
È un esempio dell’insensatezza dei dialoghi, proprio del teatro dell’assurdo.
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Madrid, e ha saputo che veniva a far innamorare Elena, è entrato in crisi e dice che io sono pazza di Sergio!… BEATRIZ: Che Dio mi salvi! NINA: Che siamo tutte pazze di Sergio! MARIANO: Tutte? NINA: Sì! Io! E la zia Julia! E la zia Fernanda! JULIA E FERNANDA: Noi? JULIA: Questo Arturito è uno sciocco! NINA: Ed è quello che ho detto: “Però, grandissimo idiota, come possiamo essere pazze di Sergio Hernán se ancora non lo conosciamo? Aspetta almeno che lo conosciamo.” JULIA: Infatti! FERNANDA: Certo! MARIANO: (A Fernanda.) Senti, senti, ma, tu stai aspettando di conoscerlo per… ? FERNANDA: Andiamo, Mariano! Non essere stupido. NINA: E così ugualmente, prendendo il tè, ieri e oggi, mentre Elena mi chiedeva chi fosse quell’amico che aspettiamo e per quanto tempo sarebbe rimasto con noi, beh Arturito ha iniziato a diventare burbero e dire volgarità in un modo tale che c’è mancato poco perché Elena non sentisse il nome e il cognome di Sergio Hernán… FERNANDA: (Allarmata.) Ma li ha sentiti? NINA: No, non li ha sentiti. PANTECOSTI: State attenti, ciò che più mi ha raccomandato Hernán è che non sveliamo la sua identità a Elena. BEATRIZ: E questo non ti sembra strano, Reginaldo? PANTECOSTI: Suppongo che la conoscesse da prima e le voglia fare una sorpresa. NINA: Risultato: ho detto ad Arturito che si cerchi una fidanzata, perché io e lui, chiuso! BEATRIZ: Ma Nina! JULIA: Che dici, bambina? NINA: Chiuso e chiuso! E se mi piacerà Sergio Hernán, che mi piacerà, perché dicono che piaccia a tutte, e io non sono da meno rispetto alle altre, beh… diventerò la fidanzata di Hernán!
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PANTECOSTI: Nina! Qui non ci sarà un’altra fidanzata di Hernán se non Elena! Maledizione, mannaggia! BEATRIZ: Dio mio! Quante cose brutte ci sta facendo fare questa donna infame. MARIANO: Schhh! Non parlate male di lei, che sta arrivando qui. (Dal foro entra Elena, effettivamente, in tenuta da tennis. È più bella che nel prologo: si capisce che ha sofferto, e la sofferenza le ha dato più delicatezza e più incanto. La sua aria è malinconica, ma sorridente. Tiene anche lei la racchetta. Vedendola entrare, la gentilezza e la cortesia appaiono in tutti i suoi lineamenti.) JULIA: Elena! (Le va incontro.) BEATRIZ: (Gentilissima.) Venga qui, cara amica. (Le indica un posto al suo fianco sul divano.) Devo implorarle scusa a nome di questi ragazzi, che non hanno rispetto neanche della sua presenza per addentrarsi nelle loro discussioni e ragazzate… ELENA: Ciò non ha importanza, baronessa. (Si siede.) Nina e Arturito vanno avanti come due innamorati, e agli innamorati è perdonato tutto. BEATRIZ: Bontà sua, benevolenza sua, cara amica, che è una delle persone più incantevoli del mondo, e sa farsi voler bene e stimare da tutti coloro con cui ha a che fare … Almeno in questa casa tutti le vogliamo bene e la stimiamo come merita... PANTECOSTI: (Da parte a Mariano.) (Che faccia tosta hanno le donne!) MARIANO: (Anche lui da parte.) (Queste cose le fanno come nessun altro.) JULIA: (A Elena.) E passiamo il giorno parlando di lei… PANTECOSTI: (Da parte a Mariano.) (Questo è vero, ma se sentisse quello che diciamo!...) BEATRIZ: E mi creda che la sera che lo zio Ernesto ci presentò lei come sua futura moglie, fu una sera di giubilo in questa casa… (A Pantecosti.) Vero? PANTECOSTI: Uh! Che sera che fu quella! ELENA: (Con tono sincero.) Tutti sono molto gentili, e io realmente tra voi mi sento come in famiglia… BEATRIZ: (Fingendo un gran compiacimento.) Oh, senti, Reginaldo! Dice che si sente come in famiglia… PANTECOSTI: Sì? (Da parte.) (Che carina!)
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ELENA: Ed è ancor più piacevole vedere tanto affetto disinteressato per una donna come me, che orfana da piccolissima ha vissuto sempre sola, errante, con l’amarezza di non aver incontrato veri affetti. Perché mio padre mi ha addestrato i nervi perché potessi andare per il mondo senza l’aiuto altrui, però non è riuscito a educarmi il cuore perché potessi vivere con piacere tra la solitudine delle persone. BEATRIZ: Ma con la sua giovinezza, la sua bellezza e i suoi pregi lei non deve disperare di incontrare un giorno un uomo innamorato e giovane! Soprattutto un giovane, che è la cosa migliore… (Rettificando.) Che è la cosa migliore… per un giovane! PANTECOSTI: (Insinuando.) Lo stesso amico che stiamo aspettando, senza andare molto lontano… Chi le dice che al vederlo non si innamori di lui, e lui di lei, e si pentirà del suo matrimonio con Ernesto, e… (A voce bassa.) noi riscuotiamo? MARIANO: Giusto! BEATRIZ: Certo!! Chi le dice che non accada una cosa così?... ELENA: (Alzandosi con un sospiro.) Ahi! Gli uomini, i giovani… Di loro ho già una triste esperienza… Ne ho amato uno come si ama solo una volta , ponendo in lui tutta la fede, e tutti i miei sogni, e la disillusione mi ha fatto tanto male che da allora ho rinunciato per sempre all’amore. PANTECOSTI: Però, d’accordo, anche a noi uomini fa malissimo fumare, e non rinunciamo al tabacco. ELENA: E a questo precisamente si deve il mio matrimonio progettato con Ernesto, che a molti sembrerà incomprensibile e ad altri sembrerà indegno… BEATRIZ: Lei dice che si deve a questo? PANTECOSTI: All’inganno? ELENA: Sì. Perché ho visto nel marchese un interesse per me, affetto e tenerezza paterna, e dato che io non oso aspirare ad altro nella vita, ho risolto volendomi sposare con lui, visto che è questa la sua massima aspirazione, per ripagare il suo interesse, il suo affetto e la sua tenerezza… MARIANO: (Da parte a Pantecosti.) (Si capisce, eh?) PANTECOSTI: (Anche lui da parte.) (Certo! È più furba del Rocambole …)78
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Rocambole è il protagonista di una serie di romanzi dello scrittore francese Ponson du Terrail, nei quali si narrano le sue varie avventure e peripezie. Dal nome del personaggio deriva il termine “Rocambolesco”, oggi usato comunemente nella lingua italiana.
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ELENA: Ma non ha più importanza parlare di queste cose… Esco con Nina, che voleva sistemarsi un po’. NINA: Ma sì dai, andiamo Elenina… ELENA: Arrivederci. BEATRIZ: (Gentilissima.) Arrivederci, cara amica. (Elena e Nina vanno verso la prima porta a destra. Appena Elena scompare, scoppia l’indignazione tra tutti.) JULIA: Che cinismo! BEATRIZ: Che sfacciataggine inaudita! JULIA: Beh, non dice che si sposerà con lo zio Ernesto perché ha visto in lui la tenerezza paterna? PANTECOSTI: Quello che ha visto sono i diciotto milioni di pesetas, uno dietro l’altro. MARIANO: Certo! In fila indiana. JULIA: Ovviamente! (In questo momento nel foro compaiono Oshidori, Francisca e Roberto. Lei indossa un abito da viaggio, e Oshidori un cappotto sul braccio e un cappello inglese; entrambi portano con sé delle valigie. Entrano chiedendo informazioni a Roberto, che, come si può immaginare, non li sente.)79 OSHIDORI: Dicevo,signore, se è questo la villa del barone di Pantecosti! ROBERTO: Eh? FRANCISCA: Di Pantecosti!! PANTECOSTI: Sono qui! (Va al foro.) TUTTI: Eh? (Agitazione generale.) OSHIDORI: Ah! Signor barone… (Si inchina.) PANTECOSTI: Signorina… Ma, e il suo padrone, Oshidori? Non viene il signor Hernán? OSHIDORI: Sì, signor barone. È che noi siamo venuti in treno e il signore viene in macchina… PANTECOSTI: Ah! Capisco, capisco. (Agli altri.) È Oshidori, il famoso Oshidori di cui vi ho tanto parlato nelle ultime ventiquattro ore. Venga, la presento. (Indicando Beatriz.) Mia moglie!… OSHIDORI: (Inchinandosi.) Signora baronessa, onoratissimo. PANTECOSTI: Le mie cugine, donna Julia Garrastazu di Pantecosti e della Torre di Laín e Urrutia. 79
Oltre al “Laismo” l’autore si serviva anche del “Leismo”, difatti nell’originale non troviamo “Los oye”, ma “Les oye”.
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OSHIDORI: Onoratissimo. PANTECOSTI: Donna Fernanda Pantecosti di Garrastazu e della collina e Tredici Merli Laín Gamboredo… OSHIDORI: (Inchinandosi.) Onoratissimo. PANTECOSTI: Mio cugino, don Roberto di Pantecosti la Torre e Gamboreado delle Tre Vigne di Pomar. OSHIDORI: S ordissimo. PANTECOSTI: Un appassionato del cinema sonoro. OSHIDORI: (Inchinandosi.) Signore… ROBERTO: (A Pantecosti.) E questo signore chi è? Eh? Chi è? (Pantecosti non gli risponde e continua con le presentazioni.) Boh! È da un po’ che nessuno fa caso a me. (Se ne va di malumore verso la seconda porta a destra.) PANTECOSTI: Mio nipote don Mariano Garrastazu della Collina e Pantecosti di Urrutia. OSHIDORI: (Inchinandosi.) Signore… PANTECOSTI: E infine, mio figlio Arturito di Pantecosti Gamboreado della Torre e mia nipote Nina Laín Garrastazu del Pomar Tredici Merli… (Oshidori li cerca fin sotto i mobili per salutarli.) No, sono al piano superiore. OSHIDORI: Ah ecco! Sì, sì… PANTECOSTI: (Riferendosi a Francisca.) E questa signorina, Oshidori? OSHIDORI: (Presentando Francisca.) La signorina Francisca Montanchez, segretaria per amore del signore. JULIA: (Da parte a Beatriz e Fernanda.) (Ha detto segretaria per amore.) BEATRIZ: Segretaria per amore! FERNANDA: Che romantico! JULIA: Si segga, signorina… Qui, con noi. FRANCISCA: Molte grazie, signora… (Si siede nel gruppo delle donne.) PANTECOSTI: E lei, Oshidori, venga qui. (Lo prende per il braccio e lo porta alla sua destra con Mariano.) Nel frattempo che arriva Hernán, fumiamo una sigaretta insieme. OSHIDORI: (Emozionatissimo.) Signor barone! Un umile valletto non può permettersi… PANTECOSTI: Gliel’ho detto in confidenza. OSHIDORI: Ah! Se c’è confidenza… (Prende tre sigarette.) 81
PANTECOSTI: Occhio, c’è confidenza, ma non così tanta. OSHIDORI: Per Dio, signor barone! Ne ho preso una per ciascuno… (Dà loro due sigarette e rimane con uno. Le accendono.) PANTECOSTI: (Da parte a Mariano.) (Che figura!) Mi perdoni; pensavo che ne prendesse una per ora e due per dopo… Comunque, in questa casa, Oshidori, lei è trattato come un amico… (Oshidori si alza in piedi.) Si segga. Come un alleato di noi tutti. OSHIDORI: (Alzandosi di nuovo.) Signor barone… PANTECOSTI: Ma si segga… A parte il fatto che lei è un uomo abituato a portare il frac. (Oshidori si alza di nuovo.) Però si segga, che… OSHIDORI: No, stavo andando a scrollare la cenere… (La lascia nel posacenere. Si siede definitivamente con Pantecosti e Mariano e fumano.) PANTECOSTI: Sinceramente noi vi aspettavamo tutti assieme. OSHIDORI: Quella era la prima idea del signore, ma poi ha deciso che noi lo precedessimo allo scopo di aiutare per la sistemazione di… PANTECOSTI: Niente! Voi non dovete preoccuparvi. È già tutto a posto. FRANCISCA: Certo! Siamo arrivati così tardi… Ma chi si immaginava che il treno delle due e trenta arrivasse alle cinque meno un quarto? PANTECOSTI: Uh! La maggior parte dei giorni arriva molto dopo… BEATRIZ: Beh ieri è arrivato puntualissimo. OSHIDORI: Sì, signora baronessa; ce l’hanno detto alla stazione, e se ne è discusso tanto; ma a quanto pare non era quello di ieri, ma quello dell’altro ieri che non è arrivato fino a ieri. BEATRIZ: Oh Gesù! Veramente, in quel treno non si può viaggiare, dato che è un treno-tram… FRANCISCA: Ah! È un treno-tram… OSHIDORI: A noi è sembrato un treno-pressacarte. PANTECOSTI: Comunque: l’importante è che Hernán sia in viaggio. JULIA: Io avevo già pensato anche a un incidente automobilistico… OSHIDORI: Oh! Su quello non c’è da preoccuparsi. Perché, dato che l’autista del signore è argentino, è abituato al ritmo del tango e guida molto lentamente. PANTECOSTI: Meno male.
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BEATRIZ: Un autista argentino e autore di tanghi, una marchesa come serva, una ballerina ungherese come cuoca e questa signorina (riferito a Francisca), segretaria per amore… Che uomo!! FERNANDA: È un tipo da leggenda! FRANCISCA: Lei non lo sa bene, signora… JULIA: Lei lo conoscerà a fondo…, è vero tutto ciò che raccontano di lui? FRANCISCA: Quello che raccontano di lui è pallido. BEATRIZ: Pallido? OSHIDORI: Invisibile, signora baronessa. JULIA: E lei è contenta di essere la sua segretaria? FRANCISCA: Non cambierei il mio posto per tutti i diamanti del mondo… Soffro così tanto vicino a Sergio! OSHIDORI: Bisogna precisare che la signorina Montánchez traduce sofferenza con godimento… BEATRIZ: È possibile? PANTECOSTI: (A Francisca.) Beh se avesse vissuto nella situazione in cui abbiamo vissuto noi un mese fa lei sarebbe morta dalle risate, signorina. OSHIDORI: Bah! I signori si preoccupano per ciò che è già risolto in anticipo… PANTECOSTI: Allora lei non dubita del successo del signor Hernán in questa casa, vero? OSHIDORI: Il signore farà come Giulio Cesare, verrà, si toglierà i guanti, parlerà e trionferà. PANTECOSTI: Julio Cesare non si tolse i guanti, Oshidori. OSHIDORI: Perché le sue conquiste non erano femminili, signor barone. E per trionfare, il mio padrone inizierà a fare la corte a queste signore… MARIANO: (Facendo un balzo.) Ma per finta, eh? Per finta e solo per interessare a Elena! OSHIDORI. Sì, signore, per interessare a quella signorina e per allenarsi… MARIANO: Per allenarsi? Ha detto per allenarsi? OSHIDORI: Naturalmente, signore. È logico. MARIANO: (Arrabbiatissimo.) Logico? Logico che abbia bisogno di allenarsi come un pugile o un calciatore?
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OSHIDORI: Signore, e cos’è l’amore se non uno sport? L’amore è uno sport in cui il cuore fa da arbitro… JULIA-FERNANDA: Giusto! BEATRIZ: E detto molto bene! OSHIDORI: (Con la sua abituale modestia.) È una frase del signore… MARIANO: Beh io non sono disposto a tollerarlo!! Che si alleni con Julia, che ha un marito sordo; che si alleni con Nina, che ha un fidanzato tonto; che si alleni, se è abbastanza stupido per quello, con Beatriz!… PANTECOSTI: Beh, se ci sarà bisogno si allenerà, e io, tranquillino… MARIANO: … Ma con lei, (riferito a Fernanda), con lei non si allenerà. Io ve lo assicuro! (Pantecosti chiama da parte Mariano.) PANTECOSTI: Ricordati del Monte dei Pegni, Mariano; ricordati che gli uscieri ti danno già del tu… Hernán è la nostra unica salvezza economica e sociale. Se Hernán non fa innamorare Elena, mettendoci così nelle mani l’eredità dello zio Ernesto, finalmente potrai imparare a suonare il violino e scegliere un angolo dove tocchi il sole. MARIANO: (Da parte.) (Cavoli! Beh è vero… ) PANTECOSTI: Perciò, guarda quello che fai. OSHIDORI: (Come se sentisse un rumore che viene da fuori.) Eh? Fate silenzio! PANTECOSTI: Che succede? OSHIDORI: Sì! È il clacson… Il signore!! Sta arrivando il signore!! BEATRIZ: Sta già arrivando? OSHIDORI: Sì!! PANTECOSTI: Beh andiamo, andiamo… (Tutti si mobilitano, le signore danno l’ultimo tocco alla loro pettinatura, gli uomini si stringono il nodo della cravatta.) JULIA: Corri, Fernanda! Sali ad avvisare Nina ed Elena! BEATRIZ: E Arturito! E digli che se non scende a ricevere il signor Hernán se la vedrà con me… FERNANDA: Sì, sì… (Va verso la prima porta a destra.) PANTECOSTI: Lei viene, Oshidori? OSHIDORI: Subito, signor barone. PANTECOSTI: Andiamo, andiamo… (Prende sottobraccio Mariano e insieme a Julia e Beatriz vanno verso il foro destro. Rimangono soli sulla scena Oshidori e Francisca.)
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OSHIDORI: Bisogna approfittare del momento, signorina Montánchez… Se lei non gli spiana la strada, il signore fallirà, e non solo perderà le duecentomila pesetas, ma sarà addirittura capace di suicidarsi. FRANCISCA: San Pietro Nolasco! OSHIDORI: Lei sa che da quando il barone l’altro ieri è arrivato a Madrid il signore non è più il signore… FRANCISCA: Certo che non è lui! OSHIDORI: Sono quarantotto ore che non fa una conquista, e al posto di quelle frasi brillanti proprie di lui, ora dice delle stupidaggini che ci lasciano costernati… Tutto ciò, signorina Montánchez è opera dell’amore. Risultato… che il signore va verso il fallimento. Morale: che non abbiamo altro rimedio se non aiutarlo. Io non gli negherò la mia mano. E per quanto riguarda lei, signorina Montánchez, lei sa che quella donna è sfuggita a lui una volta, e appena capirà che l’amico che aspettano in questa casa è il signore, fuggirà di nuovo. FRANCISCA: E qual è il mio compito, quindi? OSHIDORI: Parlare a questa signora, evitare che vada via, dicendole che il signore è veramente innamorato di lei. E in cambio di questo, ottenere la sua felicità. FRANCISCA: La mia felicità? OSHIDORI: Certo! Perché se lei, amando il signore, gli spiana la strada perché conquisti un’altra, si immagini il grado do sofferenza che avrà! Potrà soffrire barbaramente! FRANCISCA: Beh, è vero! Quanto potrò soffrire! Potrò soffrire pene tremende!… OSHIDORI: Potrà ritornare polvere soffrendo! FRANCISCA: Certo, certo… OSHIDORI: Potrà anche morire dal dispiacere… FRANCISCA: Che gioia! (Dalla prima porta a destra appare Fernanda, poi Nina e dopo Arturito.) FERNANDA: Andiamo, ragazzi! Fate in fretta. (Taglia la scena correndo e va verso il foro destro.) NINA: (Entrando e parlando verso l’interno della scena.) Beh, tu puoi fare quello che ti pare, però hai sentito cosa ha detto tua madre… (A Oshidori e Francisca.) Buonasera…
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OSHIDORI: Signorina… (Si inchina, Francisca saluta con un cenno, e Nina va verso il foro destro.) Questa dev’essere la nipote del barone… ARTURITO: (Entrando a sua volta dalla prima porta a destra con un umore da cani.) E uno deve… Maledizione, accidenti! Che uno è un imbecille e nient’altro che un imbecille, mannaggia! Se non mi servisse più di… Mannaggia, maledizione! Sto per… Maledizione, mannaggia! (Va via dal foro destro, disperato.) OSHIDORI: E questo fuori di sé dev’essere il figlio… (Nella prima porta a destra appare Elena, che vedendo Oshidori si ferma all’improvviso.) ELENA: Eh? Oshidori! OSHIDORI: (Inchinandosi.) Signora… ELENA: Che significa questo? Che ci fa lei qui? (Vedendo le valigie che son rimaste per terra e intuendo tutto.) Ma…? Ma forse è il suo padrone che…? OSHIDORI: Sì, signora. L’amico che aspettano qui è il signore. ELENA: No! Non è possibile! OSHIDORI: Sì, signora, sì. ELENA: Beh, non mi vedrà! Me ne andrò! Ho giurato a me stessa di non rivederlo per tutta la vita! (Inizia l’uscita di scena dalla prima porta a destra.) OSHIDORI: (Mettendosi tra lei e la porta.) Tuttavia, signorina, prima di andar via, farà bene ad ascoltare qualcosa che deve dirle questa signorina. ELENA: Questa signorina? OSHIDORI: (Presentandola.) Francisca Montánchez, segretaria del signore e una delle sue vittime più recenti. La vittima lecca-lecca. ELENA: Cosa vuol dire? OSHIDORI: Voglio dire esattamente quello che le dirà lei, signora. Così… (Si inchina sorridendo e va verso il foro destro.) FRANCISCA: (Da parte.) (Dammi la forza, san Luigi Gonzaga!) ELENA: Parli, signorina, e parli in fretta; dopo aver saputo che Sergio è in questa casa non posso rimanere qui un secondo di più… FRANCISCA: Lo teme così tanto? ELENA: Temerlo? No. Aborrirlo, sì; questo sì, con tutte le mie forze. FRANCISCA: Dio mio! Ma come si può aborrire lui? Come si può aborrire un uomo che sembra fatto solo per essere amato?
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ELENA: Esattamente per questo; perché l’amore è una strada alla cui fine c’è l’odio. Lei, signorina, oggi lo ama perché sta intraprendendo ora la strada, ma anche lei lo aborrirà domani, quando la sua strada sarà già terminata… FRANCISCA: (Con un sospiro imponente.) Ah! Io son di quelle che si siedono nella cunetta. ELENA: Eh? FRANCISCA: L’ho amato ieri, lo amo oggi, lo amerò domani, lo amerò sempre... È il mio destino! ELENA: Esistono persone che chiamano destino i loro errori. FRANCISCA Sì. E ci sono altre persone che chiamano aborrimento la loro superbia. ELENA: Che pensa lei? FRANCISCA: Sono perfettamente a conoscenza del suo “caso”, signora. Ho visto con i miei occhi il tomo della H, dove si può leggere: “Elena.- Conosciuta al Sakuska il 10 giugno…” ELENA: Stia zitta, stia zitta… FRANCISCA: E più in basso: “Bionda. Giovane. Romantica tendente allo sdolcinato…” ELENA: Stia zitta, per favore! FRANCISCA: Oh! Non è mia intenzione farla soffrire, perché il motivo per cui son venuta qui è per soffrire io; però è brutto, signora, che una donna aborrisca un uomo solo perché lui l’ha considerata inferiore a quanto la sua vanità le ha fatto credere. ELENA: Non son sfuggita a Sergio, né lo aborro per questo. Lo aborro perché, dopo averlo amato con tutto il cuore, ho visto che io, al contrario, ero stata per lui una fra tante… FRANCISCA: Cosa avremmo voluto di più, quelle “tante” se non che lei fosse per lui una di noi!... ELENA: Eh? FRANCISCA: Se lei fosse stata per lui “una fra tante”, ora Sergio non sarebbe a Cercedilla, signora… ELENA: (Sarcastica.) Non vorrà farmi credere che Sergio è venuto in questa casa per me?
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FRANCISCA: Magari non riesco a farglielo credere, però è la verità… Sergio la ama, signora. Dall’altro ieri che ha saputo che lei stava qui e che era fidanzata col marchese, non dorme né si calma pensando di venire e rompere questo fidanzamento… ELENA: Il mio fidanzamento? FRANCISCA: Bacia una sua immagine, passeggia per la casa sospirando... È cambiato completamente. È un altro uomo… Per concludere, signora, le dico che quando mette in funzione il fonografo non mette altro disco che “Torna a Sorrento.” ELENA: Niente di tutto ciò può essere vero! FRANCISCA: È tutto vero... Tutto! ELENA: E se lo fosse… per quale ragione lei, che dice di amarlo, parlerebbe a me in questi termini? FRANCISCA: Proprio perché lo amo desidero che lui sia felice… Ma non è solo questo… Ci sono altre ragioni che lei non comprenderebbe… Anche ora ho il cuore così colmo di gioia che mi vien voglia di saltare ed esultare… (A momenti gioendo.) Perché lei mi crede…, vero che mi crede? Che piacere! Che piacere! E mi dà la sua parola che rimarrà…; vero che mi dà la sua parola che rimarrà? ELENA: Solo per convincere Sergio che quanto vorrà tentare è inutile… FRANCISCA: Che felicità, Dio mio! Grazie santo Stanislao! (Piangendo.) Ah! Come soffro! Che gioia! Mi sta venendo voglia di ridere! Voglia di ridere!! Ho bisogno di un calmante, sali inglesi, qualcosa che… ELENA: Ma che le succede? Vado a prendere i sali… FRANCISCA: Soffro in una maniera tale! Che ridere! (Piange ancora di più.) Che risate grasse!! Ah, non si potrebbe soffrire di più al mondo! Ah ah ah! (Esce di scena dietro ad Elena ridendo con tutte le sue forze, verso la prima porta a destra. Dal foro entra Mariano furibondo, e seguito da Oshidori.) MARIANO: No! Preferisco non vederlo! OSHIDORI: Le supplico un po’ di calma, signore… MARIANO: Calma un bel niente! L’atteggiamento di quell’uomo appena è apparso nel giardino è stato insopportabile! OSHIDORI: Signore… MARIANO: E questo alla fine non mi preoccupa… Ma si è spinto con mia moglie!! Perché le ha dato un bacio… Non vorrà negare che le ha dato un bacio? OSHIDORI: Ma nella mano, signore; nella mano… 88
MARIANO: Nella mano? Da quando le donne hanno la mano alla fine del braccio? OSHIDORI: Dai tempi di Adamo ed Eva, signore. MARIANO: Che uno debba sopportare questo! Che uno debba sopportare questo per diciotto maledetti milioni di pesetas!… OSHIDORI: Cavoli! Non così maledetti, signore. (Dal foro entra Arturito; la sua disperazione non ha precedenti nella storia. Non ci vede dalla rabbia. È furibondo. Avanza come un carro armato verso Oshidori e si trova faccia a faccia con lui.) ARTURITO: Maledizione; mannaggia, è finita! Ora sì che è finita! È così perché non ne posso più! Maledizione! E glielo dice lei al suo padrone! Che se non fosse per mia madre lo prenderei e lo…! Maledizione, mannaggia! E che, a prescindere da mia madre lo prenderò e lo… Mannaggia! Maledizione!! (Va verso a prima porta a destra mangiandosi le mani per la rabbia.) OSHIDORI: Perché lo lasciano libero? (A Mariano meravigliato.) Questo cosa vuol dire,80 signore? MARIANO: Vuol dire che è furioso, cosa per cui ha troppa ragione, e non può parlare da bruto quale è, cosa per cui avrebbe sempre troppa ragione, perché nella nostra famiglia ci son stati vari casi. (Nel foro si sente il rumore di persone che si avvicinano.) Stanno arrivando? OSHIDORI: Sì, signore. MARIANO: Allora qui rimane lei. (Va via a passo spedito verso la prima porta a destra. Dal foro allora entrano Sergio con Beatriz, Fernanda, Julia e Nina, che entrano mangiandoselo con gli occhi.) BEATRIZ: (A Sergio, mielosissima.)… E per quanto mi riguarda lei è molto più interessante dal vivo che per sentito dire... NINA: Molto molto di più… SERGIO: Grazie, molte grazie… (Si allontana da loro e da parte parla con Oshidori con ansia.) E lei? Dov’è lei? OSHIDORI: Ora salgo a cercarla. Però, per quanto il signore lo voglia, finga indifferenza. Si ricordi quanto detto in giardino; faccia il galante con le altre, mascheri i suoi sentimenti… SERGIO: Sì, sì… hai ragione… (Oshidori va verso la prima porta a destra.)
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Il verbo “dire” è volutamente in corsivo, perché in realtà potremmo renderlo con “farfugliare”, giacché gli interventi di Arturito sono sempre privi di un senso logico.
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JULIA: (Afferrando Sergio per un braccio e portandolo verso il divano sulla sinistra.) Mi dica, amico Hernán... È vero che lei non si è mai innamorato? SERGIO: Mai, signora. Però se lei continua a guardarmi così… (Si siede nel divano e rimangono da parte a parlare.) FERNANDA: (A Nina.) Che uomo incantevole! NINA: È meraviglioso! BEATRIZ: Secondo voi cosa mi ha detto prima? Che ho degli occhi da donna fatale… FERNANDA: Anche a me. NINA: Che caso! L’ha detto anche a me… BEATRIZ: Anche a te? Beh, ma a te lo avrà detto in tono scherzoso. Dato che sei una ragazzina… (Le dà le spalle e va verso sinistra, sedendosi all’altro lato di Sergio.) NINA: Che stupida! (Va anche lei a sinistra e si appoggia allo schienale del divano, facendo sì che rimangano tutte e tre a circondare Sergio. Dal foro sono entrati Pantecosti e Indalecio Cruz. Indalecio è un uomo moro sui trent’anni, che parla con un accento argentino molto marcato e cammina con quel dondolio delle persone digiune, tipico anche degli argentini puri. Indossa l’uniforme da autista.) PANTECOSTI: (A Indalecio, indicando il gruppo delle signore e Sergio.) La verità è che seduce le donne, non c’è dubbio… INDALECIO: Non s’è niente da fare, vecio, non s’è niente! A mi me lasa incantado me lasa. Son sinco mesi che li faccio da autista per studiare i suoi prosedimenti di conquista… PANTECOSTI: Sì, me l’ha detto Hernán, che lei è venuto dal suo paese… INDALECIO: Per questo, non altro; per questo. La sua fama grandissima mi ha attratto e, desideroso di sapere, ho voluto trasferirmi qui. PANTECOSTI: E ancora non ha verificato? INDALECIO: Non del tutto. Il mio essere soggiogato crese ogni giorno, crese. Solo un gallego può arrivare a un risultato così brillante. Che cosa barbara! Prendere le donne quando vuoi e le lasci per capriccio. A noi succede al riocontra.81 PANTECOSTI: Al che? INDALECIO: Al riocontra. PANTECOSTI: Ah, sì sì. (Da parte.) (Niente; non gli capisco una sola parola.)
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In realtà la parola esatta sarebbe “contrario”. L’autore ha voluto dare a Indalecio una considerazione di sé così alta da inventarsi le parole, per apparire in qualche modo colto di fronte agli altri.
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INDALECIO: A noi sono loro che si lasano e si infuriano come delinquenti. Lo saprete dai tanghi, no? PANTECOSTI: Sì. Me ne son già reso conto. E lei ha fatto qualche nuovo tango ultimamente? INDALECIO: E come no, vecio? PANTECOSTI: Ascolti; questo vecchio non lo sopporto. È già la seconda volta che mi chiama così e no!… INDALECIO: Ma è un appellativo affettuoso di là. Comunque, come le disevo, di resente ne ho improvisado uno, di resente. Che delizioso! Si intitola “Pretorino del Supremo”. PANTECOSTI: Però! Che bel titolo! BEATRIZ: Cos’è, Reginaldo? PANTECOSTI: Beh qui, il tizio… INDALECIO: (Indignato.) Come, tizio! PANTECOSTI: È un appellativo affettuoso di qui. Comunque, questo è Indalecio Cruz, che mi sta parlando del suo nuovo tango che si intitola “Pretorino del Supremo”. JULIA: E com’è? FERNANDA: Com’è? INDALECIO: È un po’ immorale e davanti a delle signore non mi sembra opportuno, non mi sembra… NINA: È immorale? BEATRIZ: Certo! Se è immorale… PANTECOSTI: Beh se è immorale ci dica soltanto le parole. TUTTI: Sì, sì! INDALECIO: Recita così:
“Pretorino del Supremo Che abboccani il bolicio E campanei il fleticio Con buffosi di baccan; non scrutarmi la belema, non toccarmi il milongo non ramarmi nel ballongo 91
nei rulli del gotan.82
Vi piace, no? TUTTI: Sì! È bellissimo! Bellissimo! INDALECIO: Dopo continua così:
Pretorino, pretorino: tuoi capricci bottanieri; hai l’aria di catrame dell’arca del bugheno… non tossire, pretorino questo è alloro di beccaccia che terremo sulla faccia sopra un bel capotreno.
Stupendo, no? PANTECOSTI: No. Volevo dire, sì, sì, molto. INDALECIO: Grazie, molte grazie. Mi emosionano questi applausi sinseri!… (Tutti applaudono.) PANTECOSTI: Comunque, aveva ragione lui: è molto immorale. BEATRIZ: (Da parte.) (Ma tu ci hai capito qualcosa, Reginaldo?) PANTECOSTI: Non hai sentito della capruccia? Uff! (Dalla prima porta a destra entra Oshidori.) OSHIDORI: La signorina Elena sta scendendo, signor barone. SERGIO: (Impallidendo e alzandosi.) Eh? PANTECOSTI: È giunto il suo momento, amico Hernán…Ve li presenterò e… (Si alzano tutti.) OSHIDORI: Credo sia meglio che li lasciamo soli. PANTECOSTI: Beh, allora, non una parola di più… Andiamo Beatriz… Andiamo, ragazze… (Iniziano la sfilata. A Sergio.) Non le dico niente, amico Hernán! È il momento decisivo… 82
Normalmente lo spagnolo degli argentini viene storpiato se paragonato all’idioma della Penisola, ma qui è portato all’estremo tanto da non riuscire proprio a capire il significato delle stesse parole.
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SERGIO: Sì, barone, sì. BEATRIZ: Da lei dipende la tranquillità di tutti, caro amico… Se fosse per me, non avrei niente da fare… SERGIO: Sì, baronessa, sì. FERNANDA: (Da parte.) (Come se fosse lei, Nina!) NINA: Ah sì! Come se fosse lei! JULIA: Che fortuna hanno alcune donne… PANTECOSTI: Oshidori. Neanche a lei dico niente! (A Indalecio.) A lei dirò dopo alcune cosine. INDALECIO: Che occasione per studiare mi perderò! Che stizza andar via adeso! (Sono tutti usciti di scena dal foro.) OSHIDORI: (A Sergio, che è rimasto come una statua di sale.) Animo, signore! La signorina Montánchez l’ha già preparata e io le ho appena detto che tutte le signore della casa sono pazze del signore, che ha fatto la sua bella figura… SERGIO: Per la prima volta, tremo, Oshidori. Per la prima volta dubito… OSHIDORI: Il signore ricordi le sue teorie… “Dubitare è fallire”, “Le donne e i tram bisogna prenderli quando sono in moto”… SERGIO: Sì. Io ho detto questo, e molte altre cose, ma allora non ero innamorato, Oshidori, ed ero forte e audace; ora è diverso… Ora non potrei dire niente; mi sento inesperto e debole… OSHIDORI: Sta scendendo! SERGIO: (Guardando verso la prima porta a destra.) Quanto è bella! È più bella di quel giorno… (Dalla prima porta a destra entra Francisca seguita da Elena: quest’ultima rimane immobile alla fine delle scale, mentre Francisca se ne va piangendo verso la seconda porta a destra.) OSHIDORI: (Vedendola andar via.) Come gode! (Va via dietro Francisca. Rimangono Elena e Sergio uno di fronte all’altra. L’emozione non li fa parlare per alcuni istanti. È lai la prima a reagire e avanza sorridente.) ELENA: (Sempre sorridente.) È stato predisposto l’incontro: si son ritirati il tuo aiutante e la tua “manager”… Inizia il match… Non era quello che volevi? Da dove vuoi iniziare? Mi dirai qualche frase ironica o… mi reciterai “Il lago” di Lamartine? SERGIO: Nessuna delle due cose, Elena. L’altro ieri ho saputo che stavi qui e che stai per sposarti, e son venuto perché parliamo seriamente… 93
ELENA: Parlare seriamente! E questo, cosa significa per te, sfinimento o cambio di tattica? SERGIO: Questo significa sincerità e disillusione. ELENA: Ma tu sai qualcosa su uno e l’altro concetto? Hai mai saputo cos’è l’illusione e cos’è la sincerità? SERGIO: Prima di conoscerti, mai, dopo averti conosciuta, sì. ELENA: Forse ti ho contagiato le mie… SERGIO: Sono tanto grandi? ELENA: Immense. SERGIO: E qual è maggiore? ELENA: Non lo so. A volte penso che sia maggiore la mia sincerità. Altre volte penso se non è maggiore la mia disillusione. SERGIO: E se ti chiedessi, Elena, la causa del tuo matrimonio… appellandomi alla tua sincerità? ELENA: Ti risponderei la disillusione. Ma se mi chiedessi la causa della mia disillusione, allora ti risponderei la tua sincerità… SERGIO: Fino ad un attimo fa dubitavi di lei… ELENA: Della tua sincerità nel parlare seriamente a una donna dubiterò sempre. Della tua sincerità nel prenderti gioco delle donne, di quella non ho alcun dubbio. Noi romantiche tendenti allo sdolcinato… siamo così. SERGIO: Non parliamo di questo… Non mi sono mai pentito tanto di certe parole scritte in un momento di… ELENA: Sì. È meglio non parlare di questo; si rivangano troppe cose passate… SERGIO: E dimenticate? ELENA: E morte. SERGIO: Capisco che tu non creda alla mia sincerità nel parlarti, ma credi alla mia disillusione al sapere che ti sposi… Credi almeno che finché non l’ho sentito da te stessa avevo dubitato della verità sulle tue nozze… ELENA: E perché questi dubbi? Perché questo narcisismo? Credi che l’averti amato un giorno doveva impedirmi di amare subito un altro? SERGIO: Non è possibile che ti sposi per amore…
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ELENA: No. Non mi sposo per amore. E cosa importa? Si arriva a certi matrimoni come si arriva al suicidio: quando il cuore ha fallito e non ne ha uno a cui aggrapparsi. Quel giorno che ho constatato tutte le cose spiacevoli che pensavi di me, il tuo valletto mi ha detto che io non ero altro che una donna disposta alla disperazione. Ha centrato il bersaglio, ed è stato così da allora. Ora non provare a chiedermi scusa per le tue colpe. SERGIO: Però tutto questo vuol dire che mi ami… ELENA: No. Questo significa che ti ho amato… E che mi sono sbagliata sul tuo conto… SERGIO: Non c’è ragione per questo sbaglio. Te lo giuro… ELENA: I tuoi giuramenti! Nessuno che li abbia sentiti una volta crederà nuovamente in loro… SERGIO: Elena! ELENA: Lasciami… Non c’è niente da dire… SERGIO: Elena… Non so parlare né esprimermi… Ho sempre vissuto l’amore senza sentirlo, e oggi che lo sento vedo che non lo so vivere… Ma ti amo, Elena, e… ELENA: Lasciami… SERGIO: Cosa posso dirti? Cosa deve dire un uomo per convincere una donna? ELENA: A qualsiasi uomo basterebbe quello che hai detto tu. SERGIO: E a me? ELENA: A te quello che hai detto avanza anche… (Inizia l’uscita di scena.) SERGIO: (Fermandola nuovamente e parlandole col cuore in mano.) Mi aspettavo tutto questo, mi aspettavo di vederti addolorata e incredula, ma quello che mai mi sarei aspettato era sapere che tu avessi dimenticato così quanto tu stessa avevi confessato di esser stata felice con me… ELENA: Taci! Lasciami… (Vuole andare via e lui la afferra.) SERGIO: Elena! ELENA: (Rigirandosi incollerita. Trasformando in rabbia la disperazione per non potergli credere.) Cosa pretendi? Cosa vuoi? Risvegliare di nuovo la mia fiducia per umiliarla di nuovo? Aggiungere qualche riga in più nel tuo catalogo di uomo che si prende gioco delle donne? Che io ti creda di nuovo? Che io sogni, che io mi fidi ancora una volta?… Che soffra di nuovo la stessa disillusione e lo stesso inganno? No, no! È già abbastanza! È già abbastanza, Sergio. SERGIO: Elena! 95
ELENA: Si soffre un giorno e per sempre. Io ho sofferto per mesi interi e non soffrirò più… SERGIO: E non ci sarà mai niente tra noi due? ELENA: Mai. Torna a Madrid e allora tra noi ci sarà l’unica cosa che ci potrà essere: la distanza. (Reggendosi con un ultimo sforzo per non piangere, se ne va verso la prima porta a destra. Sergio, rimanendo da solo, ha un attimo di esitazione; poi va dietro a Elena, ma coma arriva alla porta, Oshidori, che è uscito dalla seconda porta a destra, lo ferma.) OSHIDORI: Fermo! Che sta facendo, signore? Attenzione, così rischia di perdere tutto, signore. SERGIO: È già tutto perso, Oshidori. OSHIDORI: Al contrario, signore; è tutto vinto. Sta piangendo, e “nella donna le lacrime sono il sale dell’amore”. Il signore non ricorda questa frase? SERGIO: Quindi, tu credi…? OSHIDORI: Che ce l’ha in pugno. Ora il signore si dedichi alle altre, e stanotte, nel giardino, approfittando della luna… SERGIO: (Abbracciandolo.) Oshidori… Che Dio ti ricompensi. Molte grazie! (Va via, come un morto risuscitato, verso il foro.) OSHIDORI: Quanta gioia dà fare il proprio dovere! (Dal foro entra Adelaida preceduta da un autista.) AUTISTA: È qui, signora contessa… ADELAIDA: È qui? Sì. È qui… OSHIDORI: (Vedendola. Da parte.) (La contessa? Siamo morti!) (L’autista va via per il foro.) ADELAIDA: (Scoprendo Oshidori, avanzando maestosamente e sedendosi su una poltrona.) Ciao, Oshidori. OSHIDORI: Buonasera, signora contessa… Che sorpresa inaspettata! ADELAIDA: Tutte le sorprese sono inaspettate, perché se non fossero inaspettate non sarebbero sorprese. OSHIDORI: È vero, signora contessa. ADELAIDA: E non arrossire fingendo gioia per vedermi, perché mi risulta che la mia presenza qui dev’essere per voi un dispiacere… OSHIDORI: In alcun modo, signora contessa. 96
ADELAIDA: Sergio sarà qui dentro, vero? Non dirmi di no, perché oggi te la vedrai brutta. OSHIDORI: Sì, signora contessa. È là dentro. ADELAIDA: Facendo la corte alla signorina delle duecetomila pesetas, certo! OSHIDORI: Alla signorina delle duecentomila pesetas, signora contessa? ADELAIDA: Non sforzarti di negare, so tutto. La segretaria che ha congedato l’altro ieri ha informato espressamente mio marito dell’affare che ha proposto al tuo padrone quel barone Pantecosti, e mio marito l’ha detto subito a me… E la verità è che dopo averci pensato tanto, ancora non so chi sia più svergognato, se la ex segretaria, il barone, Sergio, tu, io, o mio marito… OSHIDORI: Il conte, signora contessa? ADELAIDA: Il conte, Oshidori, il conte… Leggi, leggi questa lettera. (Gli dà una busta aperta), che mi ha lasciato per Sergio prima di partire con destinazione California. OSHIDORI: In California! ADELAIDA: Sì. Dice che va a girare dei film… OSHIDORI: (Tirando fuori la lettera e leggendo.) “Signor don Sergio Hernán. Mio caro amico e sostituto…” Cavoli! ADELAIDA: E l’inizio? OSHIDORI: (Leggendo.) “Sono trent’anni, signor Hernán, che aspetto l’occasione di vedere un altro cittadino modello innamorato di mia moglie, e oggi si realizzano, finalmente, i miei desideri. Lei ama Adelaida? Beh è sua per sempre. Io me ne vado in California, che ha un clima ideale. Arrivederci, amico Hernán. Mi mandi quello che vuole, tranne Adelaida, e riceva un abbraccio dal suo riconoscentissimo… ” ADELAIDA: Andiamo… Bisogna essere svergognati, sì o no? OSHIDORI: A me sembra un genio, signora contessa. ADELAIDA: Eh? (In questo momento entrano dal foro Pantecosti, Julia, Beatriz, Fernanda, Nina, Mariano, Arturito e Sergio. Arrivano tutti a circondare quest’ultimo e chiedendogli informazioni sul suo colloquio con Elena.) PANTECOSTI: Racconti, racconti… JULIA: Siamo troppo impazienti… FERNANDA: Cosa ha detto Elena? SERGIO: Beh… (Vedendo Adelaida.) Eh? Adelaida! (Avanzando verso di lei.) Che succede? Che ci fai qui? Cosa sei venuta a fare in questa casa? 97
PANTECOSTI: Quella del ritratto della bisnonna! (Pantecosti e la sua famiglia rimangono a parlare da parte.) ADELAIDA: Cosa son venuta a fare? Beh per vederti… Porto una lettera di raccomandazione… Su, Oshidori, dagli la lettera. OSHIDORI: (Da parte, dando la lettera a Sergio.) (La fine, signore… Sa tutto…) ADELAIDA: (A Pantecosti e gli altri.) Quindi voi siete i famosi ereditieri? PATECOSTI: Come? GLI ALTRI: Eh? ADELAIDA: Quindi voi siete quelli che hanno sborsato le duecentomila pesetas perché Sergio facesse innamorare la promessa sposa del marchese e potervi accaparrare l’eredità? MARIANO: (Da parte.) (Dannazione!) JULIA: Lo sa! BEATRIZ: Lo sa, Dio mio! SERGIO: (Che ha appena divorato con ansia la lettera.) Ma questo è uno scherzo intollerabile! ADELAIDA: Che? SERGIO: E sei venuta! Devi essere pazza per pensare che io…! ADELAIDA: (Con una calma che fa rabbrividire.) No, bello, no; io non ho pensato niente… (In questo momento, rispettivamente dalla prima e seconda porta a destra, entrano Elena e Francisca.) Ora parlo! Vengo a scoprire un complotto e a svelare a questa signorina che le stai facendo la corte per duecentomila pesetas! ELENA: (Avanzando.) Cosa dice questa signora? OSHIDORI: Niente, signorina. Non dice niente. Sta scherzando. PANTECOSTI: Esatto! Sta scherzando! Ah ah ah! (Agli altri da parte.) (Ridete per dissimulare!…) TUTTI: Ah ah ah! Ah ah ah! Ah ah ah! Che simpatica! SERGIO: (Da parte.) (Portatela via di qui!) PANTECOSTI: Andiamo, andiamo! Ah ah ah! Che ridere! TUTTI: Che ridere! Ah ah ah! Che buffo! Che scherzi! (Piano piano trascinano Adelaida fino a riuscire a portarsela via per il foro in mezzo a un pandemonio imponente. Rimangono sulla scena Oshidori, Elena, Francisca e Sergio.) SERGIO: Elena, ascolta… 98
ELENA: Basta! Lasciami! Sei una canaglia! Una canaglia! (Se ne va piangendo per la prima porta a destra.) SERGIO: Elena! (La segue.) FRANCISCA: (Imbarazzata.) Santa Margherita di Savoia!
SIPARIO
ATTO TERZO
La stessa decorazione del secondo atto. Son passati due mesi e in questo periodo la maggior parte di quelli che erano andati a passare l’estate nella Sierra sono tornati a Madrid; sulla porta di molte ville è stato messo il cartello “Affittasi”: gli alberi hanno perso le foglie e la Compagnia dei Ferrovieri del Nord ha sospeso il suo servizio di treni-tram. Inizia l’azione nelle ultime ore della sera, quasi di notte. La porta del foro è chiusa e le luci accese.
Al sollevarsi il sipario, sulla scena Sergio e Oshidori. Sergio, seduto in una poltrona davanti al finestrone, vede calare la sera con un’aria fascinosamente triste e malinconica. Indossa una vestaglia da camera e delle pantofole; esala disillusione, disincanto ed esaurimento da ogni parte del corpo, e, cosa più evidente, ha la barba, una signora barba di due mesi, come quelle che andavano tanto di moda nel 1900 o 1903. Al suo fianco, e con un libro aperto in mano, c’è Oshidori, che legge ad alta voce. Precisamente, il libro che Oshidori sta leggendo a Sergio è le “Rime” di Bécquer.
SERGIO: (Molto emozionato.) Continua, Oshidori. OSHIDORI: (Leggendo.)
Torneranno le brune rondinelle al tuo balcone ad appendere i nidi e ancora con le ali contro i vetri giocando chiameranno. 99
Ma quelle che il volo frenavano la tua bellezza e la mia fortuna a contemplare, quelle che i nostri nomi imparavano, Quelle... non torneranno!83 SERGIO: (Ripetendo a media voce.) “Quelle che i nostri nomi imparavano, quelle non torneranno.” Dammi un fazzoletto, per favore… (Oshidori glielo dà e Sergio si asciuga le lacrime. Sospirando.) Dio mio! OSHIDORI: Andiamo, signore… Si tiri su! Se il signore continua così, si liquefarà con le lacrime… SERGIO: Sto già meglio… (Gli ridà il fazzoletto.) Prendi. Ora leggimi quell’altra che dice: “Arrivò la notte…” OSHIDORI: Arrivò la notte? SERGIO: Sì, certo. “Arrivò la notte e io non trovai un riparo…” OSHIDORI: Ah, sì, sì! Quella io la chiamo “la rima della mendicità”…(Sfoglia diverse pagine. Leggendo.)
“Arrivò la notte e non trovai un riparo. Ed ebbi sete! Bevvi le mie lacrime. Ed ebbi fame. E chiusi i miei occhi gonfi per morire.”
SERGIO: (A pezzi.) È il mio caso, Oshidori! Il mio stesso caso!! Su, continua. OSHIDORI: Signore, credo che sarebbe meglio smettere, perché… SERGIO: Continua, Oshidori. Continua! OSHIDORI: (Leggendo.)
“Piangi! Non vergognarti di confessare che mi hai amato un poco. Piangi! Nessuno ci vede… Vedi; io sono un uomo e anche io piango.”84 83
Traduzione tratta da: http://scrittiatlantici.blogspot.com/2006_10_01_archive.html [27/02/2011] La traduzione è nostra. A differenza della poesia precedente non è stato possible reperire una traduzione ufficiale perchè Bécquer è stato tradotto poco in italiano. 84
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SERGIO: (Piangendo a dirotto.) Dammi di nuovo il fazzoletto, su!! OSHIDORI: (Dandogli il fazzoletto.) Ma signore!… SERGIO: “Vedi; sono un uomo e anch’io piango!!” OSHIDORI: (Da parte.) (E finirà per far piangere anche me!) SERGIO: Che poeta era quello che disse che i versi sono il linguaggio di coloro ai quali il dolore non fa parlare? OSHIDORI: Qualcuno sdolcinato. (Strizza in un angolo il fazzoletto di Sergio.) SERGIO: Vorrei che fossi più sensibile. Io, da quando sto soffrendo, mi sento più sensibile, Oshidori. Cerca lì, nel libro, e troverai una cartella piena di versi miei… OSHIDORI: (Meravigliato.) Versi del signore! SERGIO: Li ho scritti stanotte. Da quando Elena se n’è andata la mia anima è caduta nell’abisso più profondo. OSHIDORI: Andiamo, signore. Leggerò i suoi versi al signore per allontanare quelle idee oscure, e vedrà come rideremo. (Leggendo un foglio che ha tirato fuori dalle pagine del libro.) “Sonetto. Il mio cuore angustiato soffre tutte le torture di un amore che non raggiungerà mai.” SERGIO: Quello è il titolo. OSHIDORI: Un pochino lungo, no? SERGIO: Sì, ma dato che i versi sono corti… OSHIDORI: Giusto! Beh, vediamo… (Leggendo.)
“Io ero un uomo senza cuore che sprecava la sua vita in modo frivolo, stupido e superficiale passando da un falso amore a una passione finta, unendo feste e baccanali…” (Da parte.) (Bello!) (Riprendendo a leggere.)
“Ogni donna che incontrai si arrese subito all’udir che nei suoi occhi c’era qualcosa di fatale, e che lei fosse bionda, più o meno tinta, o che fosse mora, per me era uguale. ”
(Oshidori lancia uno sguardo lungo e lento verso Sergio e continua a leggere.) 101
“Ma un giorno l’amore attraversò la mia strada, e caddi come cade in trappola il gorilla, sotto il completo potere di una donna senza pari… E sono qui, da allora, annientato e avvilito, vedendo i giorni passare in fila uno dopo l’altro, desiderando la morte, triste e senza radermi.”
“Sergio Hernán. Cercedilla, 24 novembre.”
SERGIO: Che te ne pare? OSHIDORI: Bruttissimo, signore. SERGIO: Anche a me. (Affliggendosi nuovamente.) Anche a me sembra troppo brutto, Oshidori! È bruttissimo! Ma in qualche modo devo pur sfogarmi! OSHIDORI: E perché il signore non scrive una tragedia in cinque atti? SERGIO: Ahi, Oshidori! Perché Elena se n’è andata? OSHIDORI: Il signore crede che una donna possa sopportare la presenza dell’uomo che ama sapendo che lui le sta facendo la corte per duecentomila pesetas? SERGIO: Ma tu sai che io le facevo la corte sinceramente… OSHIDORI: Io sì; ma vediamo chi è il genio che convincerà anche lei… SERGIO: E sparire all’improvviso, senza una parola, senza una spiegazione! Come ho potuto sopportarlo? Perché non sono morto in quell’istante, Oshidori? OSHIDORI: Perché morire è sempre faticoso, signore. SERGIO: E non aver saputo più niente di lei! OSHIDORI: Magari sapremo di lei il giorno che meno ce l’aspettiamo… SERGIO: Illusioni, Oshidori! (Tornando alla disperazione.) OSHIDORI: Andiamo! Bisogna essere fiduciosi. Se tre mesi fa mi avessero detto che avrei visto il signore in questo stato… E a causa di una donna! Dopo averne avute centinaia! SERGIO: Ma nessuna è come lei, Oshidori! OSHIDORI: Il signore una volta mi disse che “le donne si differenziano una dall’altra solo per quello che dichiarano nella carta d’identità..” SERGIO: Cosa sapevo allora! Ero cieco! Elena è la donna più spirituale che io abbia conosciuto. 102
OSHIDORI: Anche su quella classe di donne il signore aveva la sua opinione… SERGIO: È possibile? OSHIDORI: Il signore garantiva che “anche le donne più spirituali hanno due reni, uno stomaco e un fegato”. SERGIO: Io non posso aver mai detto una cosa simile! OSHIDORI: Sì, signore, sì. SERGIO: Questa è un’infamia!! OSHIDORI: Un’infamia avere fegato e stomaco? Un’infamia avere due reni, signore? SERGIO: Taci!! Taci!! Stomaco, reni, fegato … Che porcherie! Elena non può aver niente di questo: mi gioco la testa! OSHIDORI: Eh? SERGIO: E se ce li ha, saranno meravigliosi. Ma poi, non voglio parlare di questo argomento! Lasciami… Vai via… Sto meglio da solo… (Assume nuovamente la sua aria malinconica e si mette a recitare a media voce.)
“Il tuo respiro è il respiro dei fiori, la tua voce è dei cigni armoniosi…”
OSHIDORI: (Afflitto, da parte.) (Povero signore! È a pezzi…) SERGIO: Hai sentito? Arriva qualcuno. OSHIDORI: Questi saranno gli svergognati. SERGIO: Quali svergognati? OSHIDORI: Gli ereditieri del marchese. SERGIO: È presto per loro, perché dopo i funerali stavano pensando di andarsene a passare la giornata a Navarracerrada. OSHIDORI: Allora saranno don Indalecio Cruz e la signorina Montánchez, che sono invitati a cena. SERGIO: Indalecio e Francisca… Altri due che mi hanno abbandonato… OSHIDORI: Don Indalecio si è convinto che il sistema per far innamorare le donne è trattarle male e ha fatto impazzire Francisca facendola soffrire. Eccoli. (Dal foro entra Francisca. Arriva in abito da sera e con il cappotto.) FRANCISCA: (Allegramente.) Ciao, Oshidori! Buonasera, Sergio!
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SERGIO: (Salutando per cortesia; senza la minima voglia di salutare.) Ciao, Francisca. (Va via verso la prima porta a destra.) OSHIDORI: (Molto afflitto per l’atteggiamento di Sergio.) Povero signore! (Va verso la poltrona a sinistra e si lascia cadere su di essa.) Povero signore! FRANCISCA: Sta allo stesso modo di quando siamo andati via, vero? OSHIDORI: Sta peggio, signorina Montánchez. Sta molto peggio… (Dal foro entra allora Indalecio Cruz e chiude la porta alle sue spalle. Indossa lo smoking, il cappotto e dei guanti da automobilista. Arriva togliendosi i guanti e canticchiando un tango.) INDALECIO: (Canticchiando mentre avanza.)
“Adalzisa, bambina zentile, con li occhi dipinti di indaco…”
OSHIDORI: Ma guarda questo! FRANCISCA: (Lasciando Oshidori e andando verso Indalecio con gli occhi colmi d’amore.) Indalecio! INDALECIO: Spostati dalla luse, spostati. (La rifiuta.) FRANCISCA: Ma Indalecio… INDALECIO: Lasa stare le moine e toglimi il cappotto. (Francisca gli toglie dolcemente il cappotto. Indalecio, vedendo la tristezza di Oshidori.) Cosa susede al vecio? FRANCISCA: Soffre per Sergio, che sta sempre peggio… INDALECIO: Quindi il padrone sta pezo, vecio? OSHIDORI: Peggio, signor Cruz. Continua a non voler mangiare, senza voler bere e senza voler dormire… FRANCISCA: E senza volersi radere. OSHIDORI: Non ha voglia di niente, e passa le ore morte in questo finestrone piangendo, contando gli agnelli che passano e dicendo addio con un fazzoletto a tutti i macchinisti di tutti i treni. INDALECIO: Monomania ferroviaria; brutta cosa, né. OSHIDORI: A giorni mi ordina di leggergli dei versi… FRANCISCA: (Meravigliata.) Di leggergli dei versi? INDALECIO: Catastrofico, né. Così iniziò il mio povero tatà. 104
OSHIDORI: La sua balia? INDALECIO: Mio padre! E finì in un manicomio di Tucumán, dicendo che era Cristoforo Colombo, e chiedendo con urla quattro caravelle per venire a scoprire l’Europa… FRANCISCA: Tutto questo sta succedendo a Sergio perché è innamorato; se riuscissi a far venire qui Elena, Oshidori… OSHIDORI: Ci riuscirò, signorina Montánchez. Le ho scritto raccontandole la faccenda per stuzzicarle la curiosità, e ha risposto che oggi alle sette verrà a vedere il signore. FRANCISCA: E allora? OSHIDORI: La mia paura è che, una volta soddisfatta la sua curiosità, se ne rivada senza dare nessuna considerazione al signore… INDALECIO: Si può aspettare di tutto dalla decadenza di Sergio. E pensare che quest’uomo è quello che mi ha insegnato a conquistare!… Che cosa barbara!… OSHIDORI. È certo che vi sposate, signor Cruz? INDALECIO: Presto a giugno. Quando fioriranno le rose e la natura indoserà i suoi abiti migliori, allora Francisca brilerà nel suo abito da sposa… Sarà bello, no? OSHIDORI: Debole motivo per un tango… INDALECIO: Ho già il titolo. Si intitolerà: “Sei bella, Francisca!” OSHIDORI: Che bello! FRANCISCA: (Gettandosi tra le sue braccia.) Quanto ti amo, Indalecio mio! Quanto ti amo! INDALECIO: (Rifiutandola di nuovo.) Spostati dalla luse, spostati! Ti ho già detto di non essere appiccicosa! FRANCISCA: (Affettuosamente.) Indalecio!... INDALECIO: Stai per prendere una pizza! Te la prendi!... FRANCISCA: (Affettuosissima.) Perdonami. Non ti infastidirò più… INDALECIO: Vai, vai e levati di mezzo! (Da parte, a Oshidori.) (Mi dispiace dirle di levarsi di mezzo, ma non c’è altro rimedio, né. Vedi come la domino, come risultato...) OSHIDORI: Lei la tiene ai suoi piedi. INDALECIO: E lei dice che non può esere più felise. FRANCISCA: Non lo sono mai stata così tanto, Oshidori. INDALECIO: E fino ad ora l’ho picchiata solo con la mano… OSHIDORI: È possibile? 105
INDALECIO: Se lo dice lei… FRANCISCA: Sì. È uno stupidino… INDALECIO: Immagina cosa susederà quando ci sposeremo. Le lascrò sei lividi al giorno… FRANCISCA: (Con entusiasmo.) Che felici saremo! Che felici! INDALECIO: Rimani con i piedi per terra, donna! (La abbraccia. Dalla prima porta a destra entra un servo diretto alla seconda porta a sinistra.) OSHIDORI: (Al servo.) È tutto pronto per la cena, Felix? SERVO: Tutto, sì, signore. OSHIDORI: Son arrivati i musicisti? SERVO: Sì, signore. OSHIDORI: Un sestetto? SERVO: Da quattro, sì signore. OSHIDORI: I vini, le decorazioni del salone?... SERVO: È tutto pronto… OSHIDORI: Non avrete dimenticato di mettere il ritratto del signor marchese, che riposi in pace? SERVO: Si vede nella parete principale, circondato da nastri, con lo scudo del marchesato da una parte e quello della baronia dall’altra, e in basso, l’iscrizione che mi ha ordinato il signor barone: “Bravo, zio Ernesto! Così muoiono gli uomini!” OSHIDORI: Molto bene, puoi andare. (Il servo va via dal foro.) FRANCISCA: Alla fine, hanno avuto la loro gli ereditieri. OSHIDORI: Tutti gli svergognati hanno fortuna, e questi, non solo son riusciti ad ottenere che il marchese morisse facendo testamento in loro favore, ma inizia anche a frullarmi per la mente che negheranno al mio padrone le duecentomila pesetas offerte. FRANCISCA: È possibile? INDALECIO: Da cosa lo deduce, vecchio? OSHIDORI: Perché dicono che il mio padrone non se li è guadagnati. Come voi sapete, poco dopo che la signorina Elena se n’è andata, il marchese iniziò a decadere visibilmente. E gli ereditieri gli organizzarono un tal numero di feste, picnic, merende, passeggiate, escursioni, che dopo un mese e mezzo da queste sfacchinate, cioè, otto giorni fa, il marchese si mise a letto e morì esclamando: “Darò la mia anima a Dio, perché non posso più farlo con lei.” 106
FRANCISCA: Poverino! OSHIDORI: Morale, se non fosse stato per il mio padrone, né la signorina Elena se ne sarebbe andata, né il marchese sarebbe morto nominandoli ereditieri. Ma dato che sono una massa di furfanti, prevedo che rivendicheranno il fatto che il signore ha fallito nella sua conquista per non pagarci le duecentomila pesetas… Ora, se loro fanno questo gioco con il signore, io ho risolto con l’idea di fare di loro un film sonoro, chiamandoli svergognati in cinque versioni, e verrà trasmesso ad Hollywood. INDALECIO: Dica, vecchio, e allora questa cena e questa festa a cui ci hanno invitati…? OSHIDORI: Beh fa paura dirlo, ma è per celebrare la scomparsa del marchese… FRANCISCA: Ma è possibile? INDALECIO: Mi si accappona la pelle, né! (Dentro, nel foro, suonano due clacson di automobile e dal finestrone si vede la luce abbagliante di alcuni fari.) OSHIDORI: Sono già qui! FRANCISCA: Devono essere loro. TUTTI: Ah ah ah! (Dentro si sente rumore di voci e risate.) INDALECIO: Che fracasso fanno! PANTECOSTI: (Dentro.) Schhh! Silenzio, che ora rideremo in casa! MARIANO: (Dentro.) Va bene, però prima un Evviva. Evviva lo zio morto! TUTTI: Evvivaaa! (Gran caciara. Entrano tutti. Pantecosti, Mariano, Beatriz, Fernanda, Julia, Nina, Roberto e Arturito, rigorosamente in lutto. Vedendo Francisca diventano serissimi e addolorati.) PANTECOSTI: Caramba, ci sono visite! Come va, pretorino? (A Indalecio.) MARIANO: Ciao, Francisca. ROBERTO: Come? Quando è questo matrimonio? (Indalecio gli dice a gesti che sarà a breve.) No! Può parlarmi… Ora ci sento… FRANCISCA: Ora ci sente? JULIA: È guarito lo stesso giorno che è morto lo zio Ernesto. BEATRIZ: Il malcapitato Ernesto! TUTTI: Il povero zio! PANTECOSTI: Quel sant’uomo, che abbia pace! OSHIDORI: (Da parte a Indalecio, riferendosi a Pantecosti.) (Il capo della banda.) (Beatriz parla con Francisca.) 107
BEATRIZ: Nel modo più sorprendente, amica mia. Si immagini che al sopraggiungere la tragedia, io come al solito scrissi la notizia a Roberto nel bloc-notes. ROBERTO: È così. E non riuscirò mai a spiegare cosa mi è accaduto, ma so che all’aver letto: “Lo zio è venuto a mancare; tutti ereditieri”, ho sentito una cosa stranissima alle orecchie e son svenuto… E quando ho ripreso i sensi, dopo pochi istanti ho percepito con assoluta chiarezza nel giardino la sua voce (Riferito a Pantecosti.) che si incamminava a informare del fatto il tribunale cantando il “Rigoletto”. (Nella prima porta a destra compare Sergio.) OSHIDORI: Il signore… (Tutti diventano serissimi vedendolo.) SERGIO: Proseguite, proseguite; non preoccupatevi per me… OSHIDORI: (Avanzando.) Aveva bisogno di qualcosa, signore? SERGIO: Sì. Ho lasciato qui…? OSHIDORI: Lo yo-yo? SERGIO: Le “Rime” di Bécquer. PANTECOSTI: (Da parte, agli altri.) (Ma legge le “Rime” di Bécquer?) MARIANO: (Da parte anche lui.) (Pover’uomo!) OSHIDORI: Sì, signore. È qui. (Prende il libro e glielo dà.) SERGIO: Grazie, Oshidori. PANTECOSTI: Come, amico Hernán, lei non ci fa compagnia a tavola?... SERGIO: Perché? PANTECOSTI: Ovviamente, per mangiare… SERGIO: Le sono molto grato, ma non sono dell’umore adatto; finirei per far intristire tutti… Vado di sopra. (Va verso la prima porta a destra.) MARIANO: Che disastro di uomo! (Dal foro entra il servo.) SERVO: (Annunciando.) La signorina Elena Fortún… (Va via. Dal foro entra Elena. Indossa un abito da pomeriggio e il cappotto. Si ferma timidamente nel foro.) JULIA: Elena! NINA: Elenina! (Le signore vanno verso di lei. Tutti si immobilizzano.) INDALECIO: Allora aveva ragione Oshidori quando ha detto che sarebbe venuta oggi stesso, non più… FRANCISCA: Vado a dirgli che è già arrivata… (Va verso la prima porta a destra.) ELENA: Ho saputo della morte del povero Ernesto. (Tutti fanno di nuovo la faccia di circostanza.) E mi son affrettata a venire per consolarvi. 108
PANTECOSTI. È inutile. ELENA: Come? PANTECOSTI: Non c’è consolazione per noi. MARIANO: Siamo straziati. ELENA: E come è morto il povero marchese? Come è stato? PANTECOSTI. È stata una fortuna…, di infarto, che se l’è portato via in due ore… ELENA: Poverino! (Rimangono a parlare. Dalla prima porta a destra entrano Oshidori e Francisca.) BEATRIZ: (A Elena.) Beh qui c’è una persona, cara amica, la cui visita rallegrerà più che chiunque altro. ELENA: Una persona? PANTECOSTI: Andiamo… non faccia la finta tonta, che siamo tutti a conoscenza del fatto… BEATRIZ: Davvero non ha niente da dire a Sergio Hernán?... OSHIDORI: (Avanzando.) A me pare di sì, signora. ELENA: Oshidori! OSHIDORI: E dato che anch’io ho qualcosa da dire ai signori, se i signori fossero così gentili da venire un momento con me nel salottino… MARIANO: (Da parte a Pantecosti.) (Lo immagino… questo ci deve parlare delle duecentomila pesetas…) PANTECOSTI: (Anche lui da parte.) (Beh è tutto a posto!) (Tutti vanno verso la seconda porta a destra, tranne Pantecosti, che finge di andar via per la prima porta a destra. Oshidori lo chiama.) OSHIDORI: Ssssss! Signore! Direzione vietata… Segua la freccia… (Gli indica la seconda porta a destra, e Pantecosti esce di scena da lì molto a malavoglia. A Indalecio. Da parte.) (Venga anche lei, signor Cruz, perché credo sia arrivato il momento del film sonoro…) INDALECIO: E io, in qualità di cosa devo venire? OSHIDORI: In qualità di autore di tanghi. Ho già il titolo: “Se non ti pagano, picchiali.” INDALECIO: Bello, vecchio! (Vanno entrambi verso la seconda porta a destra. Nella prima porta a destra appare Sergio. Rimangono soli Elena e Sergio. C’è un lungo momento di silenzio. Lui è sorpreso, imbarazzato ed emozionato. Lei sorride senza smettere di guardarlo.) 109
SERGIO: Perché non parli, Elena? Perché mi guardi così? Di cosa ridi? ELENA: Sei molto cambiato… Mi fa sorridere vederti con la barba. Sapevo già che l’avevi lasciata incolta. E nonostante ciò, non posso farci niente… Mi fa sorridere… SERGIO: Se avessi immaginato che saresti venuta… ELENA: Te la saresti rasata? Andiamo, su. Ti sta molto bene… SERGIO: No. Devi trovarmi per forza grottesco e ridicolo… ELENA: Grottesco e ridicolo? No. Ti trovo cambiato, sì… Ti trovo molto cambiato… Mi sembri un altro… SERGIO: (Gravemente.) Sono realmente un altro, Elena. Sono un altro dentro. E quando si è un altro dentro, si è per forza un altro anche fuori… ELENA: Senza dubbio… SERGIO: Fuori mi ha cambiato la barba, e dentro… ELENA: E dentro cosa ti ha cambiato, Sergio? SERGIO: L’amore… ELENA: (Ridendo.) L’amore! Che tristezza sapere che i filosofi hanno scombussolato secoli interi analizzando i sentimenti che muovono il mondo per arrivare alla conclusione che l’amore è uguale alla barba! SERGIO: Ridi?... ELENA: Non pretenderai che parliamo seriamente di una barba, Sergino… Quello che ti dico seriamente è che ti dà un’aria nuova… E un’aria vecchia… SERGIO: Vecchio! ELENA: (Sorridendo.) Vecchio nel senso storico. SERGIO: Quindi, antico. ELENA: Antico, giusto… Per il resto so che son state la tristezza e la voglia di far niente a farti crescere la barba. So già che non l’hai lasciata per esibizionismo. SERGIO: Figurati! A quale donna può piacere una barba così lunga?... ELENA: Oh! Chi lo sa? Niente è impossibile. Noi donne siamo molto strane. E tu dato che ci conosci così profondamente… SERGIO: Inizio a dubitare di conoscervi, Elena. Inizio a dubitare di avervi mai conosciute… ELENA: Davvero? SERGIO: Perlomeno a te… ELENA: E da cosa è dato questo? 110
SERGIO: Dal fatto che, credendo di conoscerti, non mi sarebbe mai passato per la testa che ti saresti decisa a fare questo passo… Sii sincera. Dimmi la verità. Spiegami che cosa ti ha spinto a venire… ELENA: Non è un mistero. Oshidori ha scoperto la mia residenza e mi ha scritto una serie di lettere, senza che io rispondessi ad alcuna. Ma nell’ultima mi ha stuzzicato la curiosità dicendomi che avevi lasciato la barba incolta e alla fine ho deciso di inviargli una risposta. La risposta… sono io. SERGIO: Quindi, è stato Oshidori a farti venire? ELENA: Oshidori è esperto e sa che l’uomo è mosso dall’ambizione e la donna dalla curiosità… SERGIO: Devo ringraziare molto Oshidori; ma quello di oggi… non lo dimenticherò mai. ELENA: E farai bene, perché si è dimostrato uno di quei buoni allievi che superano il maestro. Anche le sue frasi sono diventate più efficaci delle tue: lo vedi bene… SERGIO: Con quanto piacere gli chiederei una frase per convincerti!... ELENA: Per convincermi di cosa? SERGIO: Del fatto che ti amo… ELENA: Di questo inizio a convincermene io, Sergio… SERGIO: (Meravigliato.) Elena! ELENA: Perché sono ben conscia della tua malinconia, dei tuoi pianti, delle tue letture di Bécquer… Dei… (Intenzionalmente.) tuoi “romanticismi tendenti allo sdolcinato”… (Sergio abbassa la testa per la vergogna.) Non la pensi più come prima, vero? Ma non vergognartene… Voi uomini vi vergognate sempre di ciò che dovrebbe inorgoglirvi e vi inorgoglite di ciò per cui dovreste vergognarvi. Che frase per Oshidori, eh? SERGIO: Non burlarti di me. ELENA: Non mi sto burlando di te. Come posso burlarmi del fatto che hai pianto e ti sei sentito solo e triste? Nessuno si burla di questo… e quelli che se ne burlano, anche loro l’hanno fatto! Non c’è che un modo per innamorarsi, Sergio, e considera quanti uomini e donne si innamorano quotidianamente nel mondo!... SERGIO: Allora, mi credi? Ti senti pronta a credermi… e ad amarmi?... ELENA: Per amarti non mi manca nulla. SERGIO: Elena!
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ELENA: E per crederti, mi basta solo convincermi che tu non sia venuto qui a farmi innamorare per soldi… (Dalla seconda porta a destra entra quindi Oshidori, con un umore pessimo. Lo seguono Francisca e Indalecio.) OSHIDORI: Quello che temevo!! LORO DUE: Eh? OSHIDORI: Quegli svergognati si rifiutano categoricamente di darci le duecentomila pesetas! (Da parte, vedendo Elena.) (Accidenti, mi è scappato!) SERGIO: Un abbraccio, Oshidori! (Lo abbraccia.) Sei decisamente un genio! OSHIDORI: Sì, signore. SERGIO: Hai sentito, Elena… Loro si rifiutano di darci quei soldi, e dopo averlo saputo ti amo più di prima… ELENA: Allora è molto probabile che inizierò a crederti… SERGIO: Elena! (Si abbracciano.) ELENA: (A Sergio.) Però devi promettermi che l’Hernán che annotava in un catalogo è morto… SERGIO: Promesso! ELENA: E che romperai il giradischi e che non vedrai la fatalità in altri occhi che non siano i miei. SERGIO: (Ridendo.) Promesso anche questo! FRANCISCA: Il conquistatore conquistato. INDALECIO: Che motivo per un tango! OSHIDORI: Ho già il titolo! “Lei ha degli occhi da donna fatale.”
SIPARIO
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4. CONCLUSIONI
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In questa tesi si è ragionato sulla traduzione in generale, sulla traduzione umoristica nello specifico, e son state illustrate alcune tra le tante teorie che nei secoli si sono susseguite in ambito traduttologico. In realtà il lavoro maggiore è stato valutare sul campo se l’umorismo è traducibile o no. Abbiamo avuto modo di sperimentare sul campo che non si può sempre essere fedeli in tutto e per tutto a un testo, tanto meno se caratterizzato da elementi che appartengono a una determinata lingua rispetto a un’altra. L’opera di traduzione in sé, se si conoscono a sufficienza la lingua di partenza e quella d’arrivo, non è faticosa, ma diventa particolarmente impegnativa al momento di dover operare delle scelte. Per alcuni tipi di testo una traduzione letterale è la soluzione migliore, ma abbiamo appurato che in un testo umoristico una scelta di questo tipo sarebbe priva di ogni logica. È inconcepibile riportare testuali parole per una frase idiomatica, perché la commedia, o il romanzo che sia, perderebbe la sua ragion d’essere e diventerebbe una serie di dialoghi fini a se stessi. Il punto è che ogni traduttore prima di intraprendere la sua attività deve studiare bene il testo che ha davanti, domandarsi che funzione ha, e cosa potrebbero aspettarsi i lettori. È da qui che poi opterà per l’utilizzo di un metodo o di un altro, prendendosi la responsabilità di soddisfare o deludere i propri lettori. È ovvio che se la funzione di una commedia è quella di far ridere, e si vuole rispettare tale funzione, bisognerà fare delle scelte che per forza di cose penalizzeranno la forma, ma ne trarrà vantaggio il messaggio che si vuole far arrivare, che ha sicuramente più importanza di qualsiasi accorgimento formale.
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