A.D. MDLXII
U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ
DI
L INGUE
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L ETTERATURE S TRANIERE
___________________________
CORSO
DI
LAUREA
IN
M E D I A ZI ON E L I N G U I S T I C A
LA POSIZIONE ANTISCETTICA DI WITTGENSTEIN NELLA SUA PRODUZIONE IN LINGUA INGLESE
Relatore: PROF. MASSIMO DELL’UTRI
Correlatore: PROF. ANTONIO PINNA
Tesi di Laurea di: RICCARDO DESOLE
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
INDICE
INTRODUZIONE ……………………………………………………………….........4
CAPITOLO 1 LUDWIG WITTGENSTEIN: CENNI BIOGRAFICI …..........7 1.1. Vita e opere ...…………………………………………………………………........8 1.2. Primo e secondo Wittgenstein …………………………………………………..14
CAPITOLO 2 LO SCETTICISMO: MOMENTI DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA …………………………………………………………………..............19 2.1.Lo scetticismo nell’antica Grecia …………………………………………..........20 2.2 Lo scetticismo descritto da Renè Descartes …………………………….……....31 CAPITOLO 3 LUDWIG WITTGENSTEIN: IL FASCINO DELL’ENIGMA E LA RICERCA DELLA VERITA’ ………...........................................................43 3.1. Attualità di un uomo inattuale …………………………………………………..44 3.2. Certezza e verità ………………………………………………………………….49 CONCLUSIONI ……………………………………………………………………...61 BIBLIOGRAFIA ……………………………………………………………………..66
Introduzione
L’uomo, macchina estremamente complessa, definita da Aristotele “animale parlante”, ha da sempre la certezza di affermazioni che riguardano l’ordine ideale e l’ordine reale. A volte però incorre a cosiddetti “errori dell’intelletto”, ovvero illusioni dei sensi, cose credute come reali e invece frutto della propria immaginazione. Questa contrapposizione tra “verità reale” e “verità contraffatta” è diventato il problema principale della filosofia moderna, la quale tra gli svariati interrogativi ha cercato risposte a domande come: Possiamo conoscere la verità? Possiamo conoscerla con certezza? Con certezza filosoficamente giustificata di fronte a qualunque critica? Nella società odierna, diciamo vera quella proposizione che è conforme alla realtà, falsa quella difforme. Davanti alla verità, la mente può trovarsi in vari stadi: nescienza, detta ignoranza; dubbio, attraverso il quale si cessa di credere ad una certezza; opinione, ovvero un’idea che ha senso in merito ad una cosa; certezza, che, come sosteneva Bertrand Russell, è ciò che tutti gli uomini vogliono. Ludwig Wittgenstein riteneva che il problema della verità, non poteva porsi come tale, ma era necessario focalizzare l’attenzione 4
sulla certezza, ovvero quella convinzione circa la verità di una proposizione. Le proposizioni che assumiamo come certe non sono “vere”, perché la verità stessa, così come il dubbio, possono essere stabiliti e formulati solo a partire da proposizioni già ritenute certe. Queste proposizioni costituiscono il punto di riferimento per i nostri giudizi e, in un certo modo, la base non controllabile delle nostre procedure di controllo.
Sono proposizioni che funzionano, per così dire, a priori, nel senso che vengono prima dell’esperienza e anzi l’esperienza stessa è possibile solo presupponendole. Ciò che viene assunto come certezza è un insieme di proposizioni con uno statuto speciale, che non funziona come acquisizione di un sapere relativo al mondo, ma come presupposto per sapere e per conoscere il mondo. Quando
sottoponiamo
a
controllo
una
proposizione
confrontandola con i fatti, dobbiamo assumere come certe alcune condizioni, ad esempio, l’esistenza e l’attendibilità dello stesso apparato di controllo, senza il quale si avrebbe un regresso all’infinito. Queste certezze non hanno un fondamento, non possono essere dimostrate o verificate. Sono dei presupposti accettati come ovvi non perché siano evidenti, ma semplicemente li abbiamo appresi come tali, e a partire da essi abbiamo conosciuto il resto. Nel corso di questo elaborato verranno affrontati il tema dello scetticismo a partire dalle prime scuole di pensiero dell’antica Grecia, come per esempio quella di Pirrone di Elide, fino ad arrivare al 5
quindicesimo secolo con le teorie scettiche e critiche di Renè Descartes. Proseguendo con il nostro cammino, arriveremo sino ai giorni nostri con i pensieri e le “teorie antiscetticheâ€? di Ludwig Wittgenstein, filosofo austriaco che fece scalpore sin dai suoi esordi sia nel Circolo di Vienna che nella storia filosofica del suo tempo, e che anche nei giorni nostri continua a suscitare notevole interesse.
6
CAPITOLO 1
LUDWIG WITTGENSTEIN: CENNI BIOGRAFICI
1.1. Vita e opere Figura emblematica della filosofia del Novecento, Ludwig Joseph Wittgenstein nasce a Vienna il 26 Aprile del 1889, da una famiglia alto borghese di origine ebraica. Sin dall’infanzia egli si ritrovò in un clima intellettuale molto vivace ed inquieto. Nel primo quindicennio del Novecento,infatti, Vienna era uno degli epicentri della cultura europea d’avanguardia: Freud vi aveva appena aperto il primo gabinetto medico, e di lì andava organizzando il movimento psicoanalitico. In ambito filosofico-scientifico, Mach vi aveva appena pubblicato Erkenntnis und Irrtum “Conoscenza ed errore” (1905) e stava ulteriormente approfondendo la critica al positivismo e le sue originali tesi empiriocriticiste, che avranno grande influenza sui fondatori della scuola neopositivistica (anche essa di origine viennese). Uno dei tratti della cultura viennese di questo periodo è il profondo interessamento per la problematica del linguaggio, centrale nell’arte non meno che nella filosofia e nella scienza: un interesse testimoniato dalla riflessione sulla crisi delle forme espressive, dalla correlativa ricerca di nuove forme (per esempio la dodecafonia in 8
campo musicale ) e, in sede più speculativa, da un rinnovato studio del linguaggio sia in sé, sia nel rapporto col sapere e col mondo. Il tema principale di indagine di Wittgenstein fu appunto il linguaggio. Fino a quattordici anni Wittgenstein studiò in casa. Proprio dalla famiglia dipese per esempio l’amore intenso per la musica che lo accompagnò per tutta la vita. Particolarmente indicativo a questo proposito è ciò che, secondo la testimonianza dell’amico Maurice O’Connor Drury, egli avrebbe osservato in una conversazione del 1949:
È impossibile per me dire nel mio libro una parola su tutto ciò che la musica ha significato nella mia vita. Come posso allora essere compreso?1
Successivamente, dopo tre anni di scuola a Linz, studiò ingegneria a Berlino. Nel 1912 si trasferisce a Cambridge per approfondire gli studi di matematica e di logica alla scuola di Bertrand Russell, con il quale stringe rapporti di amicizia e collaborazione. In più occasioni Russell ha descritto i suoi incontri con Wittgenstein, tra questi:
Uno sconosciuto tedesco mi apparve…ostinato e perverso, ma non penso stupido
1
M. Drury, Conversations with Wittgenstein, in Recollections of Wittgenstein a cura di R. Rhees, Oxford University Press, Oxford–New York 1984, p.160
9
““ […] Alla fine del suo primo trimestre a Cambridge, Wittgenstein venne da me e mi chiese: “‘Può dirmi, per favore, se sono un idiota completo o no?’” Gli risposi: “‘Caro amico, non lo so proprio. Ma perché me lo chiede?’” E lui: “‘Perché se sono un idiota completo farò il pilota d’aereo, se no, farò il filosofo’” . Gli dissi di scrivermi qualche cosa, durante le vacanze, su un qualche argomento filosofico, e poi gli avrei detto se era un idiota completo o no . Seguì il mio consiglio e all’inizio del trimestre successivo mi portò il suo elaborato. Dopo averne letto una sola frase gli dissi: “‘No, lei non deve fare il pilota d’aereo”’.
2
Russell smesse quasi subito le vesti di maestro, riconobbe nel giovane austriaco colui che avrebbe potuto risolvere
Quei problemi che io sono ormai troppo vecchio per risolvere […]. Wittgenstein è il giovane sul quale si possono appuntare le nostre speranze3
Ma Russell non si limitò a riconoscere le doti logiche di Wittgenstein; egli si accorse subito di come, nel giovane austriaco, l’interesse per la logica non andasse in alcun modo disgiunto da un profonda e persuasiva tensione etica. Del resto si deve proprio al filosofo inglese un aneddoto che serve a mostrare quanto intimo fosse per Wittgenstein il legame tra la 2 3
B. Russell, Portraits from Memory, Allen & Unwin, Londra 1957 Cfr. L. Perissinotto, Wittgenstein una guida, Feltrinelli p. 12
10
logica e quello che nel Tractatus logico-philosophicus chiamerà il “problema della vita”: Wittgenstein, ricorderà Russell nella sua autobiografia,
“Era solito venirmi a trovare ogni sera a mezzanotte e si metteva a camminare su e giù per la stanza, come una belva in gabbia, per tre ore di fila in un silenzio agitato. Una volta gli chiesi: “‘Stai pensando alla logica o ai tuoi peccati?’” “‘A entrambi’ rispose, e continuò ad andare su e giù””.
4
Durante gli anni trascorsi a Cambridge Wittgenstein strinse amicizia anche con il filosofo George Edward Moore e l’economista John Maynard Keynes. In quell’ambiente elabora il primo nucleo di quello che sarà il suo capolavoro: il Tractatus logico-philosophicus, l’unica opera che egli volle dare alle stampe (fu pubblicato prima in una rivista austriaca nel 1921 e poi nel 1922, a Londra, con una lunga introduzione di Bertrand Russell). Nonostante lo stile arduo ed inconsueto, il Tractatus fu accolto con vivissimo interesse sia in Inghilterra, sia in Austria, dove presto diverrà un testo di riferimento fondamentale per i membri del Circolo di Vienna. Ma Wittgenstein non partecipò quasi mai ai dibattiti scaturiti dalla sua opera, né tanto meno entrò nel gruppo dei “circolisti” viennesi (dai quali si sentiva assai distante).
4
Cfr. ibid
11
Per anni sembrò anzi volersi allontanare dalla filosofia stessa, insegnando come modesto maestro elementare in alcuni paesi austriaci. Solo alla fine degli anni ’20 si arrese alle insistenze pressanti degli amici, uscendo dal suo volontario isolamento. Nel 1929 torna a Cambridge dove il 18 giugno consegue il titolo di Doctor of Philosophy discutendo il Tractatus con Moore e Russell. I primi anni ’30 sono per Ludwig Wittgenstein un periodo molto produttivo (a questi anni risalirebbe l’inizio del secondo periodo della sua filosofia), insegna a più riprese a Cambridge, dove i suoi allievi raccolgono i suoi appunti in quelli che saranno poi conosciuti come il Libro blu e Libro marrone. Nel Libro blu Wittgenstein lotta contro il desiderio di generalità che ci induce a cercare definizioni univoche di una parola. Il desiderio di generalità è secondo Wittgenstein all’opera soprattutto nei filosofi quando cercano a mo di scienziati di definire le parole.
Le parole sono “indefinibili” perché ogni volta assumono un aspetto diverso a seconda dell’accordo e non accordo con altre parole.5
Nel Libro marrone egli continua l’analisi dei giochi linguistici, e inizia a introdurre il concetto di “somiglianza di famiglia”, che diverrà centrale nel suo pensiero filosofico. L’idea di Wittgenstein è che “il confronto” non è mai una prova univoca ma una serie di somiglianze che si sovrappongono.
5
Cfr. il sito internet http://it.wikipedia.org//wiki/Ludwig_Wittgenstein.
12
Tra il 1936 e il 1937 si reca in Norvegia, dove inizia a lavorare alle due opere più significative del secondo periodo: le Ricerche filosofiche e le Osservazioni sui fondamenti della matematica (pubblicate postume e sistemate dai curatori testamentari). Nel 1938, a causa degli avvenimenti politici determinati dall’affermarsi del nazismo chiede la cittadinanza inglese. Nel 1939 succede a Moore come Professor of Philosophy nell’Università di Cambridge, posto che lascerà nel 1947. Durante la guerra, tra il 1941 e il 1944, lascia Cambridge per prestare aiuto come volontario in vari ospedali in Inghilterra. Stimolato dalla lettura di Goethe, avvenuta durante le vacanze natalizie del 1949, Wittgenstein redige le Osservazioni sui colori. Fino a due giorni prima di morire si impegna poi nella stesura di una serie di appunti raccolti in seguito con il titolo Della certezza. Ludwig Wittgenstein muore a Cambridge il 29 aprile del 1951. La casa in cui si spense apparteneva al suo medico, il dottor Edward Bevan, che aveva acconsentito ad accoglierlo già alla fine di gennaio, dopo aver constatato il rapido decorso del tumore alla prostata, per evitargli il ricovero in ospedale. Gli ultimi giorni del filosofo fino alla sua morte sono anche essi ricchi di aneddoti; le sue ultime parole, ad esempio, confidate alla padrona di casa e destinate al gruppo fedele di amici e discepoli raccolti nella stanza attigua furono: “Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa”.6
6
Cfr. http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=133&biografia=Ludwig+Wittgenstein
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1.2. Primo e secondo Wittgenstein Wittgenstein riteneva fermamente che in filosofia: “Non vi siano né fondamenta da gettare, né edifici da innalzare e che il filosofo sia piuttosto simile ad un uomo, il quale pur sapendo muoversi e orientarsi assai bene in una regione, trova molto difficile disegnare una mappa e quando ci prova, improvvisamente gli sembra di trovarsi in un luogo selvaggio, anziché nel territorio ben curato che conosceva così bene”.7
Il suo pensiero filosofico è diviso in due periodi. La prima fase, espressa dal Tractatus, è caratterizzata da un realismo empiristico che afferma l’esistenza di un mondo esterno come totalità di fatti particolari e stabilisce i criteri di senso del linguaggio, arrivando a destituire di senso le proposizioni della logica e della filosofia.
7
Wittgenstein’s lectures, Cambridge 1932-1935, from the notes of Alice Ambrose and Margaret Mc Donald, a cura di A. Ambrose, Basil Blackwell, Oxford 1979, p.43
14
Nel secondo periodo, invece, Wittgenstein si volge dallo studio di un linguaggio ideale a quello delle differenti espressioni e funzioni espresse dal linguaggio quotidiano a seconda del contesto in cui è usato, cercando di individuare l’origine dei problemi filosofici nella complessità e nell’ambiguità del linguaggio stesso. Cominciamo con l’illustrare il primo periodo. Il Tractatus come sostiene lo stesso Wittgenstein, non deve essere visto come un manuale o un libro di testo, ma vuol essere un’opera di filosofia. E la filosofia non è una dottrina, ossia un corpo organizzato di conoscenze, un sapere sistematico sul mondo, che possa venir raccolto e ordinato in un manuale, bensì un’ attività il cui risultato non sono “proposizioni filosofiche” ossia un corpo di conoscenze filosofiche, un sapere filosofico sul mondo, ma il chiarificarsi di proposizioni che con la filosofia nulla hanno a che fare. Uno degli obiettivi del Tractatus è di mostrare che gran parte dei problemi filosofici, e molte delle domande e delle proposizioni che i filosofi hanno prodotto, si fondano sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Wittgenstein voleva affidare l’opera della sua vita a qualcuno che sapesse ricavarne un grande piacere trovandovi espressi con esattezza, i pensieri che aveva pensato per proprio conto. Nella Prefazione, egli ci informa su quello che considera il senso del Tractatus:
“Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può discorrere, si deve tacere”.
15
Se questo è il senso, anzi “tutto il senso” del libro, allora il compito a cui esso è chiamato non può che essere il seguente: tracciare nel linguaggio, dall’interno del linguaggio, il limite che divide nettamente il senso dal nonsenso; quel limite oltre il quale “non sarà che nonsenso”. Ovvero: delimitare il pensabile (il dicibile) e con ciò, l’impensabile (l’indicibile).8 Per quanto riguarda la struttura del Tractatus, esso è organizzato come un insieme di proposizioni lapidarie, enunciate in maniera assertoria, le quali si susseguono l’una all’altra, senza che sia sempre chiaro il nesso che le unisce. Più che di un organismo deduttivo di proposizioni, derivate l’una dall’altra secondo un ordine preciso e graduale di successione, si tratta di una rete, in cui ogni maglia è intrecciata alle altre, ogni pensiero è connesso agli altri, con temi che scompaiono e ricompaiono. Dopo la pubblicazione del Tractatus Wittgenstein attraversa un periodo di silenzio e riflessione, che trascorre insegnando nelle scuole elementari di villaggi austriaci. Il contatto quotidiano con il “linguaggio dei bambini” delle scuole elementari, e alcune discussioni intellettuali con il matematico Frank Ramsey e l’economista Piero Sraffa, conducono Wittgenstein ad avvertire che nella sua analisi filosofica aspetti fondamentali del’esperienza umana, non erano stati affrontati. Nel 1929 torna a Cambridge e rivede la sua posizione teorica elaborando una “seconda filosofia” e adottando una diversa interpretazione del linguaggio. 8
Cfr. Perissinotto. Wittgenstein una guida, cit, p. 20
16
Egli si allontana dalle soluzioni del Tractatus e la sua nuova prospettiva filosofica culmina nell’opera dal titolo Ricerche filosofiche. L’indagine si focalizza ora sull’ambito della vita quotidiana, sull’esame delle esperienze della vita sociale, spostando l’attenzione dal linguaggio logico–formale al linguaggio comune, quotidiano. L’obiettivo di Wittgenstein è descrivere e mostrare il carattere assai variegato di tale linguaggio. Il filosofo rifiuta ora l’idea di un linguaggio perfetto sostenendo che nel linguaggio quotidiano non può essere identificata una struttura formale unitaria, ma che esiste una molteplicità di pratiche linguistiche. Il linguaggio raffigurativo che aveva posto al centro del Tractatus diventa nulla più che uno dei possibili linguaggi esistenti nella quotidianità. Esso si trova sullo stesso livello dei linguaggi con cui non si denomina nulla, ad esempio le esclamazioni, le preghiere, le implorazioni e sullo stesso livello della miriade di atti (cantare, raccontare, inventare storie, imitare) con cui l’uomo svolge le funzioni più varie. Ripudiando la teoria di un linguaggio dotato di essenza logica, strutturalmente simile ad un mondo logico, l’autore giunge alla conclusione che la comprensione dei significati del linguaggio risiede nei suoi svariati modi d’uso, nei diversi ambiti della vita quotidiana. È l’osservazione di come una frase viene utilizzata in pratica, che permette di coglierne il senso.
17
Il significato di una parola varia in relazione al contesto in cui è inserita, i suoi significati sono quindi posizionali e non “essenziali”, generati da presupposti pratici e non teorici. I modi d’uso del linguaggio che Wittgenstein chiama “giochi linguistici” sono innumerevoli. Questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte, ma cambia continuamente così che, di volta in volta, nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, si affermano mentre altri invecchiano e vengono dimenticati.
18
CAPITOLO 2
LO SCETTICISMO: MOMENTI DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA
2.1. Lo scetticismo nell’antica Grecia.
Tra le costanti che hanno caratterizzato con maggiore profondità le vicende del pensiero occidentale dalle più remote origini greco-romane sino ai dibattiti che seguono lo stato attuale della ricerca filosofica, la cosiddetta “sfida scettica” occupa certamente un posto di grande rilievo. Innanzitutto, lo scetticismo si caratterizza come una sfida alle nostre pretese di conoscenza. Esso, rifiutando ogni cristallizzazione in scuola, volle presentarsi come un indirizzo di pensiero ancorato all’esercizio di una ricerca ininterrotta, strutturalmente votata all’aporia, fautrice di un’apertura mentale che sta e si regge sulla produzione infinita di argomenti conflittuali. Lo scettico antico, di fronte all’impossibilità di individuare strumenti incontrovertibili per assentire all’uno o all’altro dei discordanti aspetti del reale evita di formulare conclusioni definitive sulla verità o falsità delle cose, anzi più esattamente sulla corrispondenza fra il modo in cui le cose appaiono e la loro essenza o realtà ontologica.1 1
Cfr. Scetticismo, una vicenda filosofica, a cura di Mario De Caro ed Emidio Spinelli, p. 10.
20
Analizziamo nello specifico l’indirizzo scettico nella filosofia dell’antica Grecia. Fra le molte dottrine e possibilità di filosofare elaborate dai Greci ve n’è anche una, a suo modo originale, che va sotto il nome di “scetticismo”. Contrariamente alle altre filosofie, impegnate nella ricerca del vero e nella costruzione di un determinato sistema “metafisico” sull’universo, lo scetticismo dichiara che l’uomo non può accedere alla verità ultima delle cose e che la più alta forma di intelligenza e saggezza consiste proprio nel riconoscere questo fatto, inequivocabilmente dimostrato, secondo gli scettici, dalla molteplicità delle filosofie e delle teologie in lotta fra di loro. Come già i maestri della Sofistica, ed ancora più di loro, gli scettici appaiono colpiti dalla varietà sconcertante delle “visioni del mondo” presenti fra gli uomini. Per cui, di fronte ad una serie di sistemi in polemica fra di loro e parimenti convinti di possedere l’autentica chiave di spiegazione dell’universo, da cui far dipendere la felicità e la serenità dell’animo, gli scettici traggono la conclusione che l’unico modo per raggiungere la tranquillità della mente è un’indagine volta a riconoscere come ugualmente fallaci (o incapaci di stringere la verità) tutte le dottrine. Da ciò il nome stesso di “scetticismo” (derivato da skepsis, che significa indagine, ricerca, dubbio). Infatti, secondo gli scettici, la quiete dello spirito non si raggiunge accettando una qualche dottrina metafisica, ma rifiutando ogni dottrina. 21
Parte integrante del mondo ellenistico e della sua concezione della filosofia come terapia mentale ed esistenziale, lo scetticismo, analogamente alle altre scuole, subordina l’indagine speculativa a un fine pratico: l’ottenimento della pace interiore generato dalla critica consapevolezza delle “vane ciance” dei dogmatici. Di
conseguenza,
lo
scetticismo
si
dedica
prevalentemente alla distruzione delle altre dottrine filosofiche, specialmente di quelle contemporanee: lo Stoicismo e l’Epicureismo.2
Per opera di una lunga tradizione filosofica, lo scetticismo ha subito, in un certo senso, un processo di “banalizzazione”, in quanto è stato tendenzialmente interpretato come una dottrina che mette in discussione la verità di tutto ciò che esiste e che nega, di conseguenza, ogni criterio per la vita. Tipica in questo senso, è la schematizzazione anedottica di Pirrone, presentato come un uomo che, non credendo in niente, andava in giro senza guardare e scansare nulla, affrontando carri, precipizi, cani, ecc. In realtà gli scettici non negano, propriamente, la verità dei fenomeni, quanto le teorie su di essi, cioè la pretesa filosofica di spiegarne la natura profonda:
2
Cfr. il sito internet http://www.preba.net/filosofia/testi/ellenismo.html
22
Noi ci opponiamo esclusivamente all’indagine relativa alle cose non evidenti che soggiacciono ai fenomeni.3
Di conseguenza, presso gli scettici, non è tanto il che dei fenomeni, cioè il fatto della loro presenza ad essere in discussione, bensì il loro come, ossia la conoscibilità del loro genuino modo di essere. Ad esempio che esista il giorno e la notte, il sole e gli astri è certo, quale sia la causa ultima dell’universo è invece oscuro. Che esistano gli uomini e le loro menti è un fatto ovvio, ma che cosa siano veramente gli uomini o la loro mente è un enigma. Infine, per quel che riguarda la vita pratica, non sembra vero che lo scetticismo lasci l’uomo totalmente privo di criteri e renda quindi impossibile l’esistenza quotidiana, come si è tradizionalmente ripetuto, in quanto lo scettico greco anziché fuggire dal mondo, in genere continua, nella vita di tutti i giorni, a fare ciò che fanno gli altri: o per convenzione ed utilità (ad esempio Pirrone e Sesto Empirico), oppure perché ritenuto più ragionevole e probabile (ad esempio Arcesilao e Carneade). Tutto ciò mostra forse come il discorso sullo scetticismo, sia tuttora aperto e suscettibile di nuovi approfondimenti. Lo scetticismo in Grecia non fu una scuola a sé, ma l’indirizzo seguito da tre scuole distinte: la scuola di Pirrone di Elide, al tempo di Alessandro Magno; la Media e Nuova Accademia; gli scettici posteriori, a cominciare da Enesidemo, che sostengono un ritorno al Pirroismo.
3
Cfr. ibid
23
Esaminiamo nel dettaglio le tre scuole. La prima scuola da prendere in considerazione è quella di Pirrone di Elide. Secondo un giudizio di Jaques Brunschwig:
Pirrone non fu il primo pirroniano. Il primo pirroniano fu Timone, il più noto degli immediati discepoli di Pirrone.4
Pirrone, nativo di Elide, potette forse, nella sua città, venire a conoscenza della scuola eleo-megarica, che, per molti aspetti, è un antecedente dello scetticismo (scuola fondata da Euclide di Megara e che aveva come obiettivo quello di conciliare la metafisica eleatica dell’unico essere con la teoria del bene morale). Partecipò alla campagna di Alessandro Magno in Oriente, ove venne a contatto con la saggezza indiana. Fondò in patria una scuola che dopo la sua morte ebbe breve durata. Visse in semplicità e morì vecchissimo verso il 270 a.C. . Fra i suo autori prediletti vi era Omero, di cui amava ripetere i versi che alludono all’instabilità degli uomini, come ad esempio:
Quale delle foglie la stirpe, tale anche quella degli uomini5
4
Scettismo, una vicenda filosofica, a cura di Mario De Caro ed Emidio Spinelli,Carocci, Roma 2007, p. 21
24
Secondo Pirrone non ci sono cose vere o false, belle o brutte, buone o cattive per natura e assolutamente, ma soltanto per convenzione e relativamente. In altri termini sono le abitudini degli uomini e i loro costumi a rendere bella o brutta, buona o cattiva una cosa. Al di fuori di tali credenze sempre mutevoli, ciò che rimane è il dubbio. L’atarassia (condizione esistenziale ideale caratterizzata da assoluta imperturbabilità di fronte alle passioni, esente da ogni dolore) viene raggiunta con l’estraniazione da ogni dottrina. Lo scettico infine vive nel mondo come tutti gli altri, con la consapevolezza in più però, conquistata con l’indagine, che né la vita né le cose posseggono un significato assoluto riconoscibile dalla ragione.
L’allievo Timone invece afferma che l’uomo per essere felice deve conoscere tre cose: quale sia la natura delle cose, quale atteggiamento bisogna assumere nei loro confronti, e quali sono le conseguenze di tali atteggiamenti. Ma essendo impossibile conoscere tali cose, l’unica cosa da fare è non pronunciarsi su niente.6
Altra scuola importante per quanto riguarda il percorso dello scetticismo in Grecia è quella della Media e Nuova Accademia.
5
Cfr. il sito internet http://www.greciaantica.blogspot.com/2010/01/riflessioni-esistenziali-nellacultura 29.html 6
Cfr. il sito internet http://it.wikipedia.org/wiki/Timone_(filosofo)
25
Dopo la morte di Pirrone lo scetticismo venne ripreso dai filosofi dell’accademia di Platone, che vedevano nella sua dottrina un appiglio allo scetticismo, avendo negato Platone che il mondo sensibile possa essere studiato con la scienza, essendo soltanto l’essere l’oggetto della scienza. Ma poiché ai filosofi di questo tempo non interessava il mondo dell’essere, ma solo quello della vita sensibile, presero il lato negativo della teoria di Platone, affermando l’impossibilità di una conoscenza certa delle cose di questo mondo. L’indirizzo scettico dell’Accademia fu iniziato da Arcesilao.
In primo luogo Arcesilao, scolaro di Polemone, trasse soprattutto la convinzione, dai vari scritti di Platone e dai dialoghi di Socrate, che niente può essere appreso con sicurezza attraverso i sensi o la mente. Si dice che questo filosofo, parlando in modo estremamente piacevole, rifiutasse ogni valutazione proveniente dalla mente e dai sensi e stabilisse per primo (sebbene questo metodo fosse del tutto socratico) l’uso di non rivelare il proprio pensiero e di confutare invece le opinioni espresse da ciascuno dei suoi interlocutori.7
7
Cicerone, De oratore III, 17, 67;trad. it. pp. 619-21 .
26
Secondo la teoria scettica egli si dedicò esclusivamente alla critica delle altre dottrine, contrapponendo ad ogni tesi quella opposta, arrivando così a dimostrare l’impossibilità di scegliere l’una o l’altra. Sostiene così la sospensione nel dubbio: l’uomo non può essere guidato da una conoscenza assoluta, ma soltanto da un motivo più o meno ragionevole. Il criterio di ciò che deve essere scelto o evitato è il buon senso o ragionevolezza, che sta alla base della saggezza. Fondatore della Nuova Accademia è Carneade. Egli tenne due discorsi importanti a Roma sulla giustizia: nel primo dimostrò che la giustizia è alla base della vita civile; nel secondo dimostrò che la giustizia è diversa a seconda dei tempi e dei popoli ed è spesso in contrasto con la saggezza. Carneade rivolse il suo tempo alla critica degli stoici: negava che la rappresentazione catalettica fosse un criterio sufficiente di verità e negava il valore degli argomenti con cui gli stoici dimostravano l’esistenza di una provvidenza divina nel mondo. Egli non si ferma però all’assenso, ma ritiene che se un criterio di verità non può esistere, può farlo un criterio di credibilità che consente di scegliere certe opinioni come più plausibili di altre.
Specificando meglio questa sua convinzione e preoccupandosi in particolare dell’aspetto soggettivo dei meccanismi conoscitivi, Carneade arrivò a formulare una vera e propria scala progressiva delle rappresentazioni,
distinguendole
in:
persuasive;
persuasive
e
non
27
contraddette; persuasive, non contraddette e ben esaminate, in grado più di tutte le altre non di certo di essere, ma quanto meno di apparire vere.8
Questo criterio puramente soggettivo venne definito come rappresentazione persuasiva o probabile. Se tale rappresentazione non è contraddetta da altre, allora essa diviene il criterio di verosomiglianza massimo cui l’uomo può giungere. Abbandonato dall’accademia, lo scetticismo venne ripreso da altri filosofi che si ispirarono direttamente a Pirrone. Essi non costituirono una scuola e i più importanti furono Enesidemo, Agrippa e Sesto Empirico. Ciò che sicuramente caratterizza la posizione di Enesidemo è una forte polemica contro i rappresentanti dell’accademia dei suoi giorni (in primo luogo, forse contro Filone di Larissa): essi si dicono ancora scettici, ma il loro pensiero si rivela piuttosto “una lotta di stoici contro stoici”. Secondo Enesidemo, quindi non era all’interno della storia dell’accademia che poteva essere individuato il vero atteggiamento scettico. Occorreva cercare altrove un “padre fondatore”; per questo egli si rivolse alla figura di Pirrone, che tuttavia interpretò, forse ripensando anche alla lettura che ne aveva dato Timone, come il portavoce di una filosofia completamente scettica, trasformandolo così in una sorta di modello ideale.9 8
Cfr. Scetticismo, una vicenda filosofica, cit. p. 25.
9
Ivi, p. 27.
28
Enesidemo enumerava dieci modi per giungere alla sospensione del giudizio; ossia dieci argomenti contro la conoscenza assoluta, in favore di quella relativa. Essi si risolvono nel riconoscere che le conoscenze cambiano a seconda di vari motivi, appunto dieci, come la diversità degli uomini e animali, i tempi, le circostanze, ecc . Questi elementi determinano la varietà delle conoscenze, che diventano così diverse da uomo a uomo, rendendo quindi impossibile determinare quale sia vera. L’unico atteggiamento legittimo è la sospensione nell’assenso. Sulle orme di Enesidemo, Agrippa assunse altri cinque modi, i quali argomentano l’impossibilità di dimostrare qualche cosa. Infatti ogni dimostrazione parte da premesse che, per essere dimostrate, richiedono altre premesse, le quali a loro volta rinviano ad altre premesse e così via all’infinito; ma se è possibile regredire in questo modo all’infinito, allora non è possibile avere alcuna dimostrazione certa a partire da premesse certe. Se invece si raggiungono conclusioni a partire da premesse, le quali a loro volta sono dimostrate a partire da quelle stesse conclusioni, si cade nel diallele, o circolo vizioso. Resta la possibilità di assumere come punti di partenza ipotesi che non richiedano di essere dimostrate, ma in tal caso, nota Agrippa, è possibile assumere come ipotesi di partenza anche il contrario di qualsiasi premessa, cosicché anche in questo modo non è possibile costruire dimostrazioni certe. Ne segue allora per Agrippa la necessità dell’epoké, della sospensione del giudizio a cui ricorreva già Pirrone.
29
Ultimo fra gli scettici fu Sesto Empirico, a cui libri dobbiamo le maggiori fonti riguardo lo scetticismo antico. I punti fondamentali delle sue confutazioni furono essenzialmente tre, oltre a quelle contro le scienze: Critica della deduzione e induzione (secondo Sesto, deduzione e induzione sono entrambe un circolo vizioso. La deduzione infatti pretende di dimostrare una conclusione derivandola da un principio universale, ma in realtà la si presuppone già dimostrata. L’induzione invece è ritenuta senza validità, in quanto fondata sull’esame di casi particolari, e può essere smentita dai casi che non ha esaminato); Critica del concetto di causa (se la causa produce l’effetto, deve precederlo e sussistere prima di esso. Ma se sussiste prima di produrre l’effetto, è causa prima di essere causa); Critica della teologia stoica (Sesto insistette lungamente contro la concezione del Dio stoico, utilizzando le contraddizioni implicite di questo concetto. Se tutto è corpo, e lo è anche Dio, allora è soggetto al dissolvimento, quindi è mortale, oppure è come uno degli elementi, quindi inanimato, che è assurdo. Se Dio poi vivesse sentirebbe, e se sentisse riceverebbe piacere e dolore, ma dolore significa turbamento, e se Dio è capace di turbamento allora è mortale). Con questi argomenti e molti altri Sesto voleva convalidare l’atteggiamento scettico della sospensione nell’assenso. Secondo Sesto poi la vita dello scettico è condotta da quattro guide, ossia le indicazioni che la natura gli dà attraverso i sensi, i bisogni, le leggi e i costumi. Inoltre il vero scettico non ammette neppure che è impossibile conoscere qualche cosa, ma si limita alla pura ricerca aperta per principio.
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Pur essendo sempre stato riconosciuto come uno dei possibili atteggiamenti di fronte alla vita e come una delle grandi alternative filosofiche del pensiero umano, lo scetticismo greco non ha avuto molta fortuna nella storia della cultura occidentale. Anzi, spesso, come si è detto, è stato banalizzato e ridotto a pseudo-filosofia. Ciò non toglie che anche lo scetticismo abbia avuto i suoi ammiratori. Ad esempio Montaigne, Hume e Schulze, per citare qualche nome, pur cercando di mitigarne le affermazioni più radicali e paradossali e di renderlo più “praticabile”, si sono esplicitamente richiamati alla sua lezione. Comunque, al di là della sua limitata fortuna, lo scetticismo, nella storia del pensiero, ha soprattutto agito: Come pungolo della ricerca filosofica e come monito contro ogni dogmatismo immemore del carattere problematico delle costruzioni concettuali umane; Come “scetticismo metafisico”, cioè come radicale messa in discussione di ogni discorso che si proponga di andare oltre i fenomeni dell’esperienza. E in tutte e due i casi, l’eredità scettica, soprattutto nel pensiero moderno e contemporaneo, è stata e continua ad essere oggettivamente notevole.
2.2. Lo Scetticismo descritto da Renè Descartes Facendo un salto in avanti nella storia dello scetticismo, sino al diciassettesimo secolo, troviamo un’altra figura importante, ovvero: Renè Descartes. 31
Cartesio viene considerato il fondatore della filosofia moderna, anche se poi i punti di vista degli interpreti divergono nel definire in che cosa consista precisamente la “novità” della filosofia cartesiana e dove si collochi esattamente il punto di “rottura” fra Cartesio e la tradizione scolastica, da cui peraltro prese le mosse la sua riflessione. Senza addentrarci nel campo delle tesi storiografiche, e pur senza voler sottovalutare la presenza in Cartesio di altri motivi ispiratori, ci pare che un’ interpretazione plausibile sia quella che individua il centro della filosofia cartesiana in un interesse di tipo scientifico, e il punto focale per intenderne la problematica nel nesso che lega, nella sua riflessione, la fisica alla metafisica. L’analisi del suo rapporto con il pensiero di Galileo Galilei si rivela qui decisiva. Sia Cartesio che Galilei concordano nel criticare la fisica aristotelico - scolastica e nell’assumere la matematica come lo strumento più idoneo a penetrare la struttura del mondo. Galilei tuttavia si era limitato a ipotizzare che le proprietà dei corpi che non si possono sottoporre a misura siano solo nel soggetto senziente, rifiutandosi di indagare le “essenze” qualitative, ma non aveva analizzato a fondo questa congettura, allargando così l’ambito della sua considerazione dalla fisica alla metafisica. Spirito più sistematico, Cartesio si propone di dare un fondamento radicale alla nuova visione della natura, dimostrando come si debba concepire la realtà, perché a essa sia applicabile la matematica, elevata al rango non tanto di metodo particolare, ma di strumento universale del sapere.
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La visione sistematica e organica della filosofia propria di Cartesio è espressa in modo inequivocabile nella celebre metafora che troviamo nella prefazione ai Principi della filosofia.
Tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sorgono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica, e la morale.10
Mentre Galilei, potremmo dire, riteneva che la fisica si reggesse da sola, Cartesio pensa che essa abbia bisogno di “radici” metafisiche. Benché nascoste, infatti, le radici (ossia la metafisica) sono indispensabili per la salute e la fioritura dell’albero del sapere.
Come non è dalle radici, né dal tronco degli alberi che si colgono i frutti, ma solo dall’estremità dei loro rami, così la principale utilità della filosofia dipende da quella delle sue parti, che non si possono imparare che per ultime.11
Vi è discussione fra gli interpreti su quale siano per l’esattezza le dottrine metafisiche in cui Cartesio dice, più di una volta, di aver trovato i fondamenti della sua fisica meccanicistica. Secondo alcuni, 10
Cfr. il sito internet http://www.maat.it/livello2/Descartes-01.html
11
Cfr. il sito internet http://www.tecalibri.info/B/BENCIVENGA-E_passi.html
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tale fondamento andrebbe cercato nella dottrina cartesiana delle verità eterne, che fa dipendere la validità delle verità matematiche da un libero decreto divino ed elimina ogni finalismo antropomorfico dalla considerazione scientifica della natura. Non ha senso, cioè, ricercare le cause finali per la spiegazione dell’universo fisico, dal momento che Dio non ha creato il mondo in vista dell’uomo, o di qualsiasi altro scopo particolare, ma unicamente per manifestare la sua gloria e assoluta libertà creativa. Secondo altri, che pur non sottovalutano l’importanza delle concezioni metafisico-teologiche di Cartesio, ma che preferiscono vedere il centro della sua ispirazione piuttosto nella fisica, alla base del rifiuto cartesiano delle forme sostanziali tipiche della fisica aristotelico – scolastica vi sarebbe piuttosto il dualismo di sostanza estesa e sostanza pensante o anima, quale si trova esposto dall’autore nella Meditazione metafisiche. Tracciamo alcuni tratti importanti della biografia di Cartesio. Rene Des Cartes o Descartes, o Cartesius, o Cartesio, o Delle Carte, nacque a La Haye, Turenna nel 1596 e morì a Stoccolma nel 1650. Fu educato dai gesuiti nel collegio di La Flèche, dove approfondì, oltre ai classici, lo studio della matematica o della filosofia scolastica. In seguito, studiò diritto presso l’università di Poitiers e dal 1618 si arruolò nell’esercito del principe protestante olandese Maurizio di Nassau, deciso a intraprendere la carriera militare. La sua attenzione era tuttavia già rivolta ai problemi filosofici e matematici ai quali avrebbe dedicato tutta la vita.
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Tra il 1623 e il 1625 viaggiò in Italia, dal 1625 al 1628 visse in Francia dedicandosi alla filosofia e agli esperimenti di ottica. Si trasferì poi in Olanda, dove visse in diverse città, tra cui Leida e Amsterdam. Durante i primi anni della permanenza in Olanda, Cartesio compose tre trattati importanti, La Diottrica, Le Meteore,e La Geometria, pubblicati nel 1637 e introdotti dal Discorso su metodo, che compendiava la sua filosofia. Seguirono altri scritti filosofici, tra i quali le Meditazioni metafisiche (1641) e i Principi di filosofia (1644). Nel 1649 Cartesio fu inviato alla corte di Stoccolma per dare lezioni di filosofia alla regina Cristina di Svezia, ammalatosi di polmonite, morì l’anno seguente. Due parole chiave per capire la filosofia di Renè Descartes sono “dubbio” e “cogito”. Il dubbio di Cartesio è un dubbio sistematico, si propone di demolire tutte le opinioni che aveva accolto come vere, partendo dai principi:
[…] non v’è bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il che richiederebbe un lavoro infinito, ma poiché la ruina delle fondamenta trascina necessariamente con sé il resto dell’edificio, io attaccherò dapprima i principi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano appoggiate.12 12
Cartesio, Opere filosofiche, vol. II, Meditazioni metafisiche, Obbiezioni e risposte, a cura di Eugenio Garin, trad. it. di Adriano Tilgher, riveduta da Francesco Adorno, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 18.
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E’ chiaro che Cartesio ha qui un bersaglio preciso, prima ancora del dubbio scettico, che è il sapere filosofico in cui lui è stato educato, e cioè il cosiddetto “sapere delle scuole”. Ma la portata filosofica del dubbio cartesiano è ben più ampia di quella di una polemica tra orientamenti filosofici. Cartesio non si limita a confutare dottrine costituite, né accoglie il modo di dubitare dei pirroniani, perseverante, ma contingente e non “reciso”, né contesta ad alcuno, come aveva fatto a suo tempo Agostino con gli scettici accademici, che dicendo che nulla è certo, comunque si afferma una verità: Cartesio rivendica anzi, fin da principio, con fare radicale, l’esigenza d idubitare di tutto per trovare un fondamento certo di verità, la necessità di
disfarmi di tutte le opinioni ricevute […] per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo nelle scienze.13
Di qui la notissima e severissima regola disciplinare del suo dubitare:
[…] in quanto la ragione mi persuade già che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono interamente certe e indubitabili che a quelle
13
Ivi, p. 17.
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che ci appaiono manifestatamente false, il minimo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare.14
Ma a questo punto il dubitare diventa un indagare: in esso già si presuppone una verità possibile, ed anzi esso diventa l’unico strumento per pervenire ad una verità, se mai una ci fosse. Fino a qui, il percorso sembra essere molto semplice. Presumibilmente con l’espressione “dubbio metodico” si intende proprio quello che fino ad ora è emerso. Ma occorre anche capire in che senso questo dubbio possa essere metodico, e perché, come ed in che senso tale dubbio possa diventare anche “iperbolico”. E non lo si può capire fino a che non si analizzi quale nozione di verità esso presupponga. Chi ha visto nelle Meditazioni un inizio “gnoseologico”, come ha fatto tra gli altri Cassirer (filosofo tedesco nato a Breslavia il 28 luglio 1874 e morto a New York il 13 aprile 1945), non può concepire il senso del testo principalmente come uno studio un po’ forzato del rapporto tra “io ed oggetto”, “pensiero ed essere”, e giunge inevitabilmente alla conclusione che si diano singolari “deviazioni”, “circoli viziosi”, ed in fin dei conti, a pensare che la funzione di Dio e della sua asseverata esistenza non siano altro che un deus ex machina, un intervento dall’alto, dove non si capisce chi garantisca che cosa, e forse un compromesso un po’ sfilacciato, dove si tengono insieme le novità dirompenti della riflessione cartesiana, per ciò che concerne la 14
Ibid.
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scienza e la conoscenza, ed alcune verità tradizionali di cui l’autore non riusciva o non voleva disfarsi. Ma, a prescindere dal fatto che mi sembra inappropriato applicare una categoria come quella della “gnoseologia” (branca della filosofia che si occupa dello studio della conoscenza) al pensiero di quest’epoca, è senz’altro vero che le Meditazioni sono un’opera metafisica, che si pone il problema della conoscenza, ma, fin dall’origine, mai svincolato da quello dell’essere. E questo si capisce bene dalla nozione di verità che trapela piano piano dalle maglie del testo. Conviene accostare alla lettura della famosa regola del dubbio citata sopra quella del brano seguente, posto all’inizio della terza meditazione, quando il processo del dubbio, anzi del dubitare, è ormai terminato:
Ora chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, distrarrò tutti i miei sensi, cancellerò anche dal mio pensiero tutte le immagini delle cose corporee o almeno, poiché ciò può farsi difficilmente, le reputerò vane e false; e così intrattenendo solo me stesso e considerando il mio interno, cercherò a poco a poco di rendermi più noto e più familiare a me stesso. Io sono una cosa che pensa, cioè che dubita, che afferma, che nega, che conosce poche cose, che ne ignora molte, che ama, che odia, che vuole, che non vuole, che immagina anche, che sente. Poiché, come ho notato prima, sebbene le cose che sento ed immagino non siano forse nulla fuori di me ed in se stesse, io sono tuttavia 38
sicuro che quelle maniere di pensare, che chiamiamo sensazioni ed immaginazioni, per il solo fatto che sono modi di pensare, risiedono e si trovano certamente in me.15
Ciò che qui è da reputare “vano e falso” sono le immagini delle cose sensibili. Ma il concetto non cambia. Per reputare una cosa “vana e falsa”, occorre “chiudere gli occhi” di fronte ad essa, “distrarsi da essa”, addirittura “cancellarla”. Una cosa si suppone falsa, in primo luogo, se si suppone che non vi sia. Questa è la vera specificità della nozione di verità (o di falsità) di Cartesio, e non va mai svincolata dalla sua massima di considerare nel suo sforzo dubitativo le cose solo provabilissime
alla
stregua
di
quelle
che
ci
appaiono
“manifestatamente false”.Questa problematica ci permette di uscire dall’impostazione gnoseologica; è tuttavia molto complessa e non priva di nodi da sciogliere, e va quindi seguita da vicino, passo passo. Peraltro questa nozione si esprime in questo momento in modo quanto mai larvale: essa verrà piano piano definita in modo più rigoroso attraverso la nozione di causalità, e poi di seguito attraverso quella di possibilità e necessità. La regola che segue Cartesio per sospendere il giudizio, come gli è stato più volte fatto notare dai suoi interlocutori è molto singolare: i pirroniani, per sospendere il giudizio, tra due tesi opposte non sceglievano, e si limitavano a non dire nulla. Cartesio invece preferisce scegliere che una tesi che afferma qualche cosa sia considerata falsa. Egli spiega la sua scelta così: 15
Ivi, p. 33.
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Ma non basta aver fatto queste osservazioni, bisogna che io prenda anche cura di ricordarmene; perché quelle antiche e ordinarie opinioni mi ritornano ancora spesso nel pensiero, poiché il lungo e familiare uso dà loro il diritto di occupare il mio spirito contro il mio volere, e di rendersi quasi padrone della mia credenza. Ed io non mi disabituerò mai di aderire loro e di aver confidenza in esse, finchè le considererò quali sono in effetti, cioè in qualche modo dubbie, come ho testè mostrato, e tuttavia provabilissime, di guisa che si ha molta più ragione di credervi che di non credervi. Ecco perché io penso di farne un uso più prudente, se, prendendo un partito contrario, impiego tutte le mie cure ad ingannare me stesso, fingendo che tutti questi pensieri siano falsi; finchè, avendo talmente posto in equilibrio i miei pregiudizi, che essi non possano far inclinare il mio parere più da un lato che da un altro, il mio giudizio non sia più oramai dominato da cattivi usi e distolto dal retto cammino che può condurlo alla conoscenza della verità. Io sono sicuro, infatti, che non può esserci pericolo né errore in questa via, e che non saprei oggi conceder troppo alla mia diffidenza, poiché ora non si tratta d’agire, ma solo di meditare e di conoscere.16
Specificando meglio quanto detto prima, secondo Cartesio, si dovrà dubitare, infine, delle stesse certezze matematiche, poiché non
16
Cfr. Ibid, p. 21.
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si può escludere che Dio mi voglia ingannare, o almeno permetta che io stesso mi inganni, oppure, se ciò ripugna alla bontà che inerisce necessariamente alla sua essenza, è possibile supporre che in luogo di Dio esista un genio maligno, che impieghi tutta la sua onnipotenza per ingannarmi. Malgrado l’applicazione metodica del dubbio sia così radicale, una cosa tuttavia si sottrarrà sempre al mio dubitare: il fatto stesso che io dubito; anche questa in fondo è una concezione di matrice scettica e agostiniana: non ho certezze se non la certezza di non avere certezze, tuttavia si può muovere la critica che se non si hanno certezze non si può avere la certezza di non averne. Se è evidente che dubito, dice Cartesio, è altrettanto evidente che penso e quindi esisto come sostanza pensante. Cogito ergo sum. Ancorché io sogni anziché essere desto, o ancorché io sia ingannato da un genio cattivo, nondimeno io certamente penso, seppure fantasticherie ed errori, ed ho la certezza di esistere come soggetto del mio pensiero. Facendo leva sull’“ergo” contenuto nella forma del cogito, già i contemporanei accusarono Cartesio di essersi servito di un ragionamento di cui si tace, presupponendo la premessa maggiore: “Tutto ciò che pensa esiste”, “Io penso”, “Dunque sono”. Il cogito non sarebbe dunque la conoscenza “prima e certissima” su cui tutto il resto si deve fondare, ma dipenderebbe da una premessa sottoponibile al dubbio, e quindi non dimostrata. Inoltre Cartesio avrebbe in qualche modo introdotto quella logica sillogistica di matrice aristotelica che tanto aborriva. Ma Cartesio stesso risponde all’obbiezione, precisando che il cogito ergo sum non è un 41
ragionamento discorsivo, ma un’ intuizione immediata, con la quale colui che dubita o che pensa, il che è lo stesso, percepisce la propria esistenza come un’evidenza certissima e inconfutabile. Cogitare ed essere non sono due momenti distinti di una successione logica, malgrado l’“ergo” che li connette, ma due aspetti di un'unica evidenza.
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CAPITOLO 3
LUDWIG WITTGENSTEIN: IL FASCINO DELL’ENIGMA E LA RICERCA DELLA VERITÀ.
3.1. Attualità di un uomo inattuale
Questo libro è stato scritto per coloro che guardano amichevolmente lo spirito in cui è scritto. Questo spirito, io credo, è diverso da quello della grande corrente della cultura europea e americana. Lo spirito di questa cultura, che si esprime nell’industria, nella musica, nell’architettura, nel fascismo e nel socialismo del nostro tempo, è estraneo e non congeniale all’autore. […] Essere capito o apprezzato dal tipico uomo di scienza occidentale non mi importa affatto, perché costui non capisce lo spirito in cui io scrivo. La nostra cultura è caratterizzata dalla parola “progresso”. Il progresso è la sua forma, non una delle sue proprietà, quella di progredire. Essa è tipicamente costruttiva. La sua attività consiste nell’erigere qualcosa di sempre più complesso. E anche la chiarezza serve a sua volta solo a questo scopo, non è fine a sé stessa. Per me, al contrario, la chiarezza, la trasparenza, sono fine a sé stesse.1
1
Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi 1980, pp. 26-28
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Già queste poche righe lo suggeriscono: Ludwig Wittgenstein non si considerò e in effetti non fu mai un uomo del suo tempo. Per rendersene conto basterebbe anche solo un rapido sguardo alla sua biografia; ciò che lo conferma sono una moltitudine di affermazioni, stese per tutto l’arco della sua vita. Wittgenstein è ritenuto da molti lo stimolo principale per la nascita della filosofia neopositivista viennese e della filosofia analitica inglese; si tratterebbe dunque di una figura di primo piano del pensiero contemporaneo, niente meno che uno dei pilastri su cui si regge lo sviluppo di due tra le tradizioni di pensiero novecentesche storicamente più rilevanti. Ciò però non toglie che forse egli sia stato anche uno dei filosofi del novecento meno compresi e con più frequenza inscatolati in presentazioni semplicistiche, distorte o poco chiare ( ad opera di interpreti anglosassoni non meno che ad opera di interpreti “continentali” ). Peraltro i tentativi di interpretazione o di impiego di sue argomentazioni non sono mancati. Si può anzi dire che Ludwig Wittgenstein sia stato fra i filosofi del Novecento anche uno fra quelli che più hanno attirato interesse. È stata però una ricezione strana, la sua, sempre al confine fra l’ammirazione per una straordinaria intelligenza e la diffidenza nei confronti di una personalità complessa, ingestibile, quasi percepita come “ridondante”. Specialmente nel caso delle interpretazioni del suo lavoro, si ha spesso l’impressione di un più o meno capace tentativo di ripulire questa figura poco presentabile per poterne poi estrarre i concreti prodotti. A volte pare quasi che si
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assuma che egli evidentemente non fosse in grado di spiegare in termini chiari quello che voleva dire, malgrado la genialità necessaria a pensarlo. Le anomalie però non si fermano a queste superficiali impressioni. In effetti, anche prescindendo dalla notevole biografia di studi wittgensteiniani, accumulatasi in uno spazio di pochi decenni, colpisce quanto questo filosofo abbia fornito materia di ispirazione in ambiti artistici e culturali relativamente estranei ai dettagli del suo pensiero. Per limitarci a pochi cenni, l’introduzione di Amedeo Conte all’edizione Einaudi del Tractatus logico-philosophicus riporta l’esistenza di due film, un pezzo teatrale e due raccolte di fotografie dedicate all’autore dell’opera.2 Consultando invece la pagina inglese di Wikipedia dedicata a Wittgenstein, si possono raccogliere informazioni su un artista pesantemente influenzato dai temi da lui trattati e un musicista che ha inserito in alcuni suoi pezzi delle sue citazioni.3 Tutto questo senza dimenticare l’interesse quasi morboso suscitato dalla sua figura, interesse testimoniato dal saccheggio e dalla progressiva pubblicazione di materiali relativi alla sua vita privata ( in
2
Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus e Quaderni 1914–1916, Einaudi 1998, pp. 29 e 48. 3 Si tratta rispettivamente di Joseph Kosuth e Steve Reich. Cfr il sito internet http://en.wikipedia.org/wiki/Ludwig_Wittgenstein#Influence.
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particolare il suo epistolario e alcuni suoi diari ) e dall’esistenza di diverse biografie.4 Potremmo dunque parlare del “fascino di Ludwig Wittgenstein”. Se ora per un attimo rammentiamo le nostre prima considerazioni, sarà facile avanzare l’ipotesi che si tratti del fascino dell’enigma. Del resto la sua vita è un monumento all’intensità della ricerca personale, un continuo susseguirsi di esperienze che a volte mette in ombra la sua attività di filosofo. Dalla ricchezza e dal mecenatismo musicale della famiglia, alla partecipazione volontaria alla Prima guerra mondiale, dall’esperienza come maestro elementare in alcuni paesini di campagna alla totale mancanza di interesse per la vita accademica, la figura di Wittgenstein pare spesso stagliarsi in un singolare contrasto con le sue riflessioni. Certamente per chiunque le conosca solo superficialmente è molto facile chiedersi “come è possibile che quest’uomo così instabile e mosso da aspirazioni così assolute abbia passato gran parte della sua vita a riflettere sul linguaggio?”, ma forse si potrebbe anche dire che troppo spesso gli addetti ai lavori, studiando quei pensieri, hanno tenuto in scarsa considerazione la vita e lo spirito nei quali venivano alla luce. Il risultato troppo spesso è stato l’emergere di una messe di letture della sua filosofia volte a cercare di metterne in luce l’esito “conoscitivo” principale, salvo poi essere contraddette dalla generazione successiva di interpreti.
4
Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus e Quaderni 1914–1916, Einaudi 1998, pp. 40–45 e 47–48. Amedeo Conte cita solo due biografie, ma una semplice ricerca online mostrerà rapidamente quanto il loro numero sia più consistente.
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Ora, la perenne giovinezza non è un fenomeno raro nel campo dei problemi e delle risposte del pensiero umano. Nel caso di Wittgenstein pare però che questo fenomeno assuma i caratteri dell’inafferrabilità. Pare cioè che la sua opera per la sua stessa natura rimanga sempre nel chiaroscuro, quasi che ogni tentativo di trovare la giusta angolazione dalla quale illuminarla per averne un quadro completo, sia l’inevitabile presupposto di un fraintendimento. Si tratterebbe di una peculiare assonanza con un carattere ricorrente dello stesso pensiero wittgensteiniano: quello per cui le questioni irrisolvibili sono tali solo perché espressioni di presupposti insensati. Ancora giovane egli scrisse che “l’enigma non v’è” 5 , fu una persona straordinariamente tormentata, spinta per tutto il percorso della propria esistenza a muoversi e agire in una sorta di perenne ricerca della verità. Questo suo cammino però fu forse alimentato non tanto dalla necessità di trovare risposte formulabili a domande più o meno fattuali, quanto dalla necessità di venire in chiaro dell’enigma costituito dall’esistenza degli enigmi; o, detto in altre parole, l’enigma coinvolto nel nostro cercare risposte a qualcosa che nemmeno comprendiamo, ovvero la vita. Vorrei aggiungere che, muovendoci oltre il paradigma del fascino del mistero e dell’inusuale, per spiegare l’ascendente che la figura di Ludwig Wittgenstein ha esercitato sul Novecento forse sarebbe necessario ipotizzare anche qualcos’altro. Alludo ad una considerazione che apparentemente contraddirebbe l’inattualità e 5
Ivi, prop. 6.5, p. 108
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l’enigmaticità del nostro uomo, ma che ciononostante le è a mio avviso complementare. È infatti mia impressione che il suo cammino abbia avuto risonanza nella cultura della nostra epoca proprio in quanto profondamente intrecciato con quelli che sono stati e sono forse tutt’ora le sue difficoltà e i suoi travagli caratteristici. Così come sovente accade che la coscienza di un uomo si soffermi sistematicamente su aspetti del tutto secondari della sua esistenza, lasciando agli insondabili fenomeni del sogno e della fantasia il dominio sulle logiche profonde che ne muovono lo sviluppo, allo stesso modo è possibile che un giorno ci si accorga che le convulsioni sociali novecentesche hanno avuto molto a che fare con i temi che hanno tormentato personaggi apparentemente estranei alle tendenze culturali più popolari. Se così fosse anche per Wittgenstein, l’interesse per lui così presente nella sensibilità del nostro secolo forse testimonierebbe anche una connaturalità fra lo spirito di quest’uomo e i travagli che hanno caratterizzato l’occidente nel meriggio del “disincanto del mondo”.
3.2. Certezza e verità
Come già affermato nel secondo paragrafo del primo capitolo, in Ludwig Wittgenstein, un po’ come in Alessandro Manzoni in letteratura, si ebbe un primo e un secondo Wittgenstein, o meglio, un primo e secondo periodo filosofico. 49
Il primo è il giovanissimo autore del Tractatus-logico philosophicus, uno dei libri di filosofia più influenti del ventesimo secolo, il secondo è l’uomo che dedicò gli ultimi vent’anni della sua non lunga vita a cercare di scrivere un altro libro, che rimediasse ai “gravi errori” contenuti nel Tractatus. Non ci riuscì, o almeno non ritenne di esserci riuscito in tutto e per tutto, ma alcuni dei risultati che egli stesso giudicò più soddisfacenti furono pubblicati sotto il titolo di Ricerche filosofiche. Il primo Wittgenstein formulò una teoria del linguaggio che fu assunta come base dai neopositivisti di Vienna, e attraverso di loro determinò molte delle caratteristiche dello studio del significato fino ad oggi; il secondo Wittgenstein sostenne invece che fare una teoria del linguaggio non è né possibile né necessario, e che più in generale la filosofia non deve produrre teorie, essendo le teorie filosofiche sempre sbagliate. Il primo Wittgenstein pensava che il linguaggio raffigurasse la realtà, il secondo pensava invece che questa tesi fosse l’estensione indebita e dogmatica di una metafora fin dall’inizio confusa e forviante, una cattiva immagine di cui ci si dovrebbe liberare. Il primo Wittgenstein pensava che ci fosse, in un certo senso, un solo linguaggio, il secondo che ci fossero innumerevoli giochi linguistici differenti. Il primo Wittgenstein pensava che, a livello profondo, tutte le parole funzionassero allo stesso modo, e cioè come nomi di oggetti, il secondo pensava invece che le parole fossero come gli attrezzi di un artigiano, che funzionano in modi molto diversi anche se contenuti
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all’interno di un'unica cassetta. E così via. Certo ci sono importanti elementi di continuità tra la riflessione del “primo” Wittgenstein e quella del “secondo” Wittgenstein, e le differenze sono state spesso esagerate da una vulgata semplicità, ma non c’è dubbio che Wittgenstein abbia ad un certo punto raggiunto la convinzione che il suo libro giovanile, il Tractatus, fosse sostanzialmente sbagliato. Affermando in altre parole quanto detto, e focalizzando in particolar modo l’attenzione sul suo secondo periodo filosofico, possiamo dire che in questo Wittgenstein rinuncia al fondazionalismo logicista del Tractatus. In particolare, nelle Ricerche filosofiche, Wittgenstein rigetta il postulato della determinatezza di senso di ogni enunciato, che nel Tractatus era alla base della deduzione trascendentale della semplicità degli oggetti. Nella sua opera più tarda, Wittgenstein enuncia il requisito della determinatezza di senso in questi termini:
Da un lato è chiaro che ogni proposizione del nostro linguaggio è in ordine così com’è. […] D’altra parte sembra chiaro questo: che, dove c’è senso, là dev’esserci ordine perfetto. L’ordine perfetto deve essere dunque presente anche nella proposizione più vaga. […] La proposizione deve avere, in ogni caso, un senso determinato.
Per
parlare
propriamente,
un
senso
indeterminato – non sarebbe un senso affatto. – Così come
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una delimitazione indistinta non è propriamente una delimitazione affatto.6
Qui, tuttavia, Wittgenstein non condivide più questa prospettiva. Dal suo nuovo punto di vista, non c’è motivo di sostenere che una proposizione vaga sia per questo motivo necessariamente priva di senso, e, per converso, non c’è motivo di sostenere che una proposizione dotata di senso esibisca necessariamente un perfetto ordine logico. Una proposizione può essere dotata di senso anche se essa non risponde al modello idealizzato dal Tractatus, ovvero all’ideale del linguaggio in “ordine perfetto”. Secondo il Wittgenstein delle Ricerche, il problema è che facciamo confusione sulla funzione di questo ideale: esso, da nostro medium rappresentativo, diviene una proprietà costitutiva della realtà: “si predica della cosa ciò che è insito nel modo di rappresentarla”.7 Ma questa deduzione di una verità metafisica da una concezione idealizzata del linguaggio è un aspetto distorto della generale prospettiva trascendentale della metafisica e del Tractatus: se infatti, il punto di partenza di una deduzione trascendentale è una concezione idealizzata, altrettanto idealizzate saranno le sue conclusioni. Scrive Wittgenstein in alcuni passi delle Ricerche:
6
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1999 ( 1° edizione 1967; edizione originale 1953), prop. 98-99, p. 63. 7 Ivi, prop. 104, p. 64.
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Ora viviamo con quest’idea: che l’ideale deva trovarsi nella realtà.8
L’ideale, nel nostro pensiero, sta saldo e innamorabile. […] L’idea è come un paio di occhiali posati sul naso, e ciò che vediamo lo vediamo attraverso di essi. Non ci viene mai in mente di toglierli.9
Il conflitto diventa intollerabile, l’esigenza minaccia a questo punto di trasformarci in qualcosa di vacuo. Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro !10
Secondo il Wittgenstein delle Ricerche, non è possibile trarre verità sul mondo dalle condizioni di possibilità della nostra rappresentazione di esso: le sole verità che possiamo derivare dal linguaggio sono verità sul linguaggio, ovvero sul nostro modo di parlare, sui nostri “giochi linguistici”. Questo ribaltamento di prospettiva risulta chiaramente dalla proposizione 50 delle Ricerche, laddove Wittgenstein sta discutendo proprio dell’ineffabilità dell’esistenza di “oggetti” e della loro 8
Ivi, prop. 101, p. 64. Ivi, prop. 103, p. 64. 10 Ivi, prop. 107, p. 65. 9
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presunta semplicità. La portata della deduzione trascendentale effettuata nel Tractatus viene qui, per così dire, svuotata, la deduzione di una verità sostanziale ridotta al nostro modo convenzionale di parlare.
Di una cosa non si può affermare e nemmeno negare che sia lunga un metro, del metro campione di Parigi. Naturalmente con ciò non gli abbiamo attribuito nessuna proprietà straordinaria, ma abbiamo soltanto caratterizzato la sua funzione particolare nel gioco di misurare con il metro. […] Questo campione è uno strumento del linguaggio. […] Non è il rappresentato, ma il mezzo di rappresentazione. […] E’ un paradigma del nostro giuoco; qualcosa con cui si fanno i conti. E constatare ciò può voler dire fare una constatazione importante; ma tuttavia è una constatazione che riguarda il nostro giuoco linguistico: il nostro modo di rappresentazione.11
Queste constatazioni, di cui parla Wittgenstein, non sono semplici truismi: il fatto che giochiamo un determinato gioco linguistico non è privo di conseguenze. Se applichiamo tale semplice considerazione al gioco linguistico del dubitare e del ricercare, infatti, ne risultano gli argomenti anti-scettici che Wittgenstein sviluppa in Della certezza.
11
Ivi, prop. 50, p 37-38.
54
La peculiarità di impostazione degli argomenti anti-scettici di Della certezza risiede nel fatto che essi collocano il dubbio scettico all’interno del gioco linguistico, ovvero del contesto pragmatico, in cui esso viene enunciato. Poiché il significato di un enunciato non può, secondo Wittgenstein, essere separato dal modo in cui abbiamo appreso il significato delle espressioni che in esso ricorrono, e poiché questo apprendimento è avvenuto anche per il tramite di alcune verità empiriche basilari, il riconoscimento di tali verità essenziali è necessariamente
presupposto
dall’uso
sensato
di
determinate
espressioni. Ad esempio, il riconoscimento della verità dell’enunciato “ questa è la mia mano”, nel momento in cui guardo la mia mano, è uno dei mezzi tramite i quali mi è stato insegnato il significato del termine “mano”: è cioè una condizione di possibilità degli stessi giochi linguistici in cui utilizzo il termine. Il che significa che il significato stesso delle parole nel contesto di un determinato gioco linguistico presuppone necessariamente la verità di alcuni enunciati basilari in cui la parola ricorre. Scrive Wittgenstein:
Tutti i giochi linguistici riposano sul fatto che si possono riconoscere parole ed oggetti. Che questa è una sedia l’impariamo con la medesima inesorabilità con cui impariamo che 2 X 2 = 4.12
12
L. Wittgenstein, On certainty, Oxford 1969; Trad. It. Della certezza, l’analisi logica del senso comune; trad. it. di M. Trinchero, Torino, Einaudi 1999; prop. 455, p.73.
55
Del fondamento di tutto l’operare con i pensieri ( con il linguaggio ) fanno parte non soltanto le proposizioni della logica, ma anche certe proposizioni che hanno la forma di proposizioni empiriche.13
Evidentemente questo ha delle conseguenze sulla possibilità di esprimere sensatamente dei dubbi nel contesto di un gioco linguistico. Infatti, se uno scettico solleva un dubbio si presume che egli usi le parole in modo sensato, ma se egli mette in dubbio proprio quelle verità basilari senza le quali non gli sarebbe nemmeno stato possibile acquisire il senso dei termini che occorrono nell’enunciazione del suo dubbio, questa enunciazione contraddirebbe una delle proprie condizioni di possibilità pragmatica. Il fatto è che “del dubbio ci facciamo un’immagine falsa” 14 : riteniamo che sia legittimo anche laddove esso non ha senso alcuno e dimentichiamo che la sua formulazione, proprio perché avviene all’interno di un gioco linguistico,
deve
anche
essere
riconoscibile
e
soprattutto
comprensibile. Per questo, secondo Wittgenstein:
Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso giuoco del dubitare presuppone già la certezza.15
13
Ivi, prop. 401, p. 63 Ivi, prop. 249, p. 41. 15 Ivi, prop. 115, p. 22. 14
56
Emerge così l’aspetto anti-scettico della teoria dei giochi linguistici: lo scettico non può mettere in dubbio le condizioni paradigmatiche del gioco linguistico che sta giocando, poiché altrimenti renderebbe la formulazione stessa del proprio dubbio insensata o priva di senso. Fintanto che l’enunciazione del dubbio scettico su alcune certezze “paradigmatiche” del gioco linguistico rimane all’interno di questo gioco, essa, per così dire, si “sconfigge” da sé: in quanto atto linguistico che contraddice le proprie presupposizioni pragmatiche, tale enunciazione è in ultima analisi una contraddizione performativa. Questa argomentazione non è tuttavia da intendersi, nel caso di Wittgenstein, in senso fondazionale, proprio in virtù del mutamento di prospettiva che è caratteristico della seconda fase della sua filosofia e che, come si diceva, ribalta del tutto la prospettiva trascendentale del Tractatus. Né sarebbe opportuno interpretare l’argomento anti-scettico di Della certezza come la dimostrazione di una qualche verità: se così fosse, infatti, potrebbe nascere l’illusione che da tali verità discende la possibilità stessa del linguaggio; ma, secondo Wittgenstein “il linguaggio è in ordine così com’è”.16 Con riguardo alle certezze mostrate dal suo argomento antiscettico, egli nota:
Nessuno mi ha insegnato che le mie mani non scompaiono quando non ci bado. Né si può dire che con le mie osservazioni, ecc., io presupponga la verità stessa di questa 16
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., prop. 98, p.63.
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proposizione (come se le mie osservazioni ripassassero su essa): invece, essa ricava il proprio senso soltanto dal nostro ulteriore asserire.17
Non c’è qualche cosa che “viene prima” del nostro linguaggio e che, lo rende possibile. Semplicemente, il nostro linguaggio è dotato di una grammatica che limita il dominio del discorso sensato, e perciò anche dell’enunciazione dello scettico. Si parte sempre, dunque, dal linguaggio, e proprio per questo il punto di partenza dell’argomento anti-scettico di Wittgenstein non è altro che un’evidenza linguistica interpretata riflessivamente, ovvero l’evidenza della contraddizione performativa in cui cade lo scettico, concepita come un fenomeno che salta agli occhi a qualsiasi agente linguistico in grado di riflettere sul senso delle proprie enunciazioni. Una tale interpretazione riflessiva dell’argomentazione emerge in molti passi di Della certezza:
Se un tizio dicesse che dubita dell’esistenza delle sue mani, e continuasse sempre a guardarle da tutte le parti e cercasse di convincersi che non c’è nessun trucco fatto con gli specchi, o altre cose del genere, noi non saremmo sicuri di poter dire che tutto questo è un dubitare. Potremmo descrivere
il
suo
modo
di agire
come
uno
dei
comportamenti simili al dubitare, ma il suo gioco non sarebbe il nostro.18
17
L. Wittgenstein, Della certezza, cit., prop. 153, p. 28. Ivi, prop. 255, p. 41.
18
58
Se un tizio mi dicesse che dubita di avere un corpo, lo riterrei mezzo pazzo.19
Perché quando voglio alzarmi da una sedia non mi convinco di avere ancora due piedi? Non c’è nessun perché. Semplicemente lo faccio. Agisco così.20
L’appello alla riflessione e alle intuizioni immediate dell’agente linguistico è un tratto onnipresente del secondo Wittgenstein, ed esso è dovuto precisamente al rigetto dell’ideale di “purezza cristallina” che era tipica del Tractatus. Come egli scrive:
Il pregiudizio della purezza cristallina può essere eliminato soltanto
facendo
ruotare
tutte
quante
le
nostre
considerazioni. […] Parliamo del fenomeno spaziotemporale del linguaggio, non di una non-cosa fuori dello spazio e del tempo. […] Ma ne parliamo come parliamo dei pezzi degli scacchi quando enunciamo le regole del giuoco.21
Dal fatto, dunque, che anche dal gioco linguistico del dubbio sia possibile mostrare le caratteristiche, non dovremmo, secondo 19
Ivi, prop. 257, p. 42. Ivi, prop. 148, p. 27. 21 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche,cit., prop. 108, p. 65-66. 20
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Wittgenstein, derivare alcuna conclusione riguardante la possibilità di una fondazione ultima: in fondo, l’argomento anti-scettico non è altro, in ultima analisi, che una delucidazione grammaticale.
60
Conclusioni
Asciugando il percorso filosofico che abbiamo visto da tutti gli aspetti non essenziali, credo che potremmo riassumere sia i caratteri evolutivi che la forte continuità del pensiero di Wittgenstein. Il cammino teoretico di Wittgenstein iniziava tramite un corpo a corpo con i problemi della logica proposizionale volto ad assumerli come chiave di volta di una chiarificazione definitiva delle nostre perplessità sul rapporto fra noi, il pensiero e la realtà. Quel corpo a corpo terminava con l’annichilimento della totalità di significato nei nudi fatti in cui si articola l’essere del mondo, nonché nella produzione dello sguardo libero di chi si muove ormai emancipato da ogni forma di proiezione. Con ciò anche l’intera sfera dello psicologico era risolta pienamente nell’oggettività, lasciando che il vecchio reame del “soggettivo” balenasse solo sottoforma di intuizione ed esperienza diretta della costitutiva libertà umana. Il secondo passo, verificatosi dopo il sofferto ritorno alla riflessione filosofica, consisteva nel prendere le mosse da un approfondimento del fatto che, dopo tutto, l’articolazione linguistica di fatti non meramente oggettivi è per noi una necessità insopprimibile. Proprio indagando questo tipo di linguaggio con l’occhio interpretativo del Tractatus, Wittgenstein era stato naturalmente portato
a
scoprire
la
prospettiva
fenomenologica,
di
fatto
capovolgendo ciò a cui era approdato con la prima opera e finendo per risolvere la totalità dell’ “oggettivo” nello sguardo contemplante e impersonale di una consapevolezza assoluta e senza soggetto. 61
Posto però innanzi alle inaccettabili conseguenze solipsistiche e para-metafisiche che egli aveva visto implicite in questo approccio, Wittgenstein non si rassegnò all’apparente invincibilità della riduzione fenomenologica, così, facendo il “salto nel buio” di lasciare che fosse l’osservazione diretta di ciò che noi facciamo con le parole a illuminarlo sul problema del loro significato, arrivò alla svolta consacrata nelle Ricerche filosofiche. Qui la primarietà della vita reale e di ciò che noi facciamo nel nostro muoverci in essa, era la chiave di una dissoluzione radicale del problema della supposta dicotomia fra “soggettivo” e “oggettivo”. Riducendo questi due termini a due fra i vari ed eventuali strumenti dello spontaneo strutturarsi della forma di vita che ci costituisce, si scopriva che in fondo quella distinzione tanto problematica fra “il mondo” e “l’Io” è solo l’ultimo e più coriaceo frutto di una consumata pratica di chiusura nei confronti dell’immediatezza. Come abbiamo visto, però, l’evoluzione teoretica del pensiero di Wittgenstein non è comprensibile fino in fondo se non intrecciandola con le aspirazioni spirituali che l’alimentarono e vi si intrecciarono. Queste in fondo andarono dall’inizio alla fine nella stessa direzione: posto il “problema della vita”, cioè dell’inspiegabile scomodità che caratterizza il nostro vivere e che apparentemente grida vendetta, si trattava di trovare una risposta che non fosse più dannosa del problema stesso. Ma questa allora doveva essere una risposta che giustificasse anche l’insorgere del problema, che spiegasse cioè perché anche prima le cose andavano bene; in caso contrario avremmo dovuto vivere nel perenne terrore di ripiombare nell’abisso da cui 62
eravamo usciti, di fatto trasformando la nostra supposta soluzione in un fortilizio da cui sarebbe stato impossibile uscire. Wittgenstein già all’epoca del Tractatus intuì una strada diversa: si trattava di inseguire la fede nella vita, cioè la fede che se sono infelice perché il mondo mi appare morente, spaventoso o insignificante, questo non è un difetto della vita in sé,ma è solo la sovrapposizione sul suo volto presente di un qualcosa che in realtà ho prodotto io. Per sviluppare questa fede era necessario mettersi alla prova vivendo il presente “senza filtro”, o, in altri termini, mettere da parte con sempre maggior vigore le proiezioni con cui crediamo di poter afferrare la realtà e controllarla, di fatto mutandola in un perenne deja vù. Essere felici e vivere in armonia con il mondo poteva dunque essere possibile, se solo si trovava la chiave giusta per dissolvere le tenebre. Questa chiave consistette in un primo momento nella conquista del silenzio assoluto invocato dal Tractatus. Questo silenzio, bruciando ogni possibilità di articolare metafisicamente le “istruzioni della realtà”, la svuotava di ogni senso estrinseco, ma così facendo la apriva anche alla libera aspirazione a incarnare il bene implicito nello sguardo di chi si vedeva sopravvivere alla morte della propria soggettività. In un secondo momento, però, il percorso che quest’opera richiedeva cominciò ad incrinarsi, nella misura in cui gli strumenti mediante il quale era realizzato potevano anche essere fraintesi,
63
richiedendo nuove chiarificazioni, nuove investigazioni, nuovi pensieri e dunque: nuovi problemi. La liberazione dalla conseguente vertigine solipsistica portò al recupero di una nuova chiave capace di ricondurci alla pratica del presente. Questa chiave non era più un percorso o un’ascesi determinati, ma la fede nella vita elevata a metodo e filosofia. Mediante questa prospettiva Wittgenstein alla fine scoprì quanto quel linguaggio, che gli era apparso sempre così problematico, fosse, dopo tutto, completamente innocuo, e passò il resto della vita ad esplorarlo e a prendersene cura. Certo, non si può dire quanto fu capace di impiegare le sue chiavi per liberarsi del tutto dalle catene che lo avevano spinto fin dall’inizio a cercare una liberazione. Ma credo che in tutti i casi egli era stato quantomeno capace di dimostrare a sé stesso che la risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso. È stato capace di dimostrarlo anche a noi? Ognuno avrà una sua opinione. È vero che da più punti di vista e anche dopo tutto quanto abbiamo visto ci si potrebbe sentire legittimamente insoddisfatti. L’epistemologo
o
il
razionalista
potrebbero
rimproverare
a
Wittgenstein di lasciare i propri fondamenti al di fuori del pensiero senza rendersi conto che essi, per fondare, devono essere stati in qualche modo conosciuti. Un metafisico di stampo più tradizionale potrebbe rimproverare a Wittgenstein di non aver tratto dalle sue riflessioni sul rapporto fra linguaggio e forma di vita il necessario complemento di leggi sul comportamento del logos di cui siamo intessuti. Un uomo appartenente ad una confessione religiosa ben precisa potrebbe rimproverargli di prendere dal linguaggio della sua 64
tradizione dei temi che, non appartenendogli veramente, fraintende e riduce a meri gesticolamenti umani. Soprattutto, l’uomo che si trova a sua volta immerso in una condizione di sofferenza e di rifiuto del mondo potrebbe ribellarsi all’inesorabile prospettiva wittgensteiniana per la quale la sua felicità non solo è possibile anche quando a lui sembra impossibile, ma che per di più il raggiungerla pesa sulle spalle quasi come un dovere. Tornando a rileggere ciò che ho già scritto, penso che si potrebbero offrire delle possibili dissoluzioni anche di tutti questi problemi. Credo però che qui sia più importante capire che il pensiero del nostro filosofo, in quanto inestricabilmente legato alle sue aspirazioni spirituali, presupponga la scelta di muoversi verso un certo tipo di liberazione. Non credo che nel pensiero di Ludwig Wittgenstein ci sia nulla che possa persuadere chi elevi obbiezioni del tipo di quelle che abbiamo visto e lasciarle cadere, se per lui non si tratta di problemi da dissolvere ma di importanti aperture su discorsi più significativi di qualsiasi realtà presente. Ma dopo tutto la mancanza di argomentazioni che tanto irritava Bertrand Russell o i membri del Circolo di Vienna forse era dovuta anche al fatto che Wittgenstein non intese mai dimostrare nulla a nessuno. Essendo a suo modo un mistico, il nostro uomo si limitava a cantare una propria canzone, testimoniando la verità che veniva scoprendo, in un determinato e illuminante confronto con sé stesso.
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