Il clowning nei contesti educativi: un'esperienza con studenti universitari

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

C O R S O D I L A U R E A I N S C I E N Z E D E L L ’E D U C A Z I O N E E DELLA

FORMAZIONE

IL CLOWNING NEI CONTESTI EDUCATIVI: UN’ESPERIENZA CON STUDENTI UNIVERSITARI

Relatore: PROF. GIANFRANCO NUVOLI

Tesi di Laurea di: STEFANIA PIRRI

ANNO ACCADEMICO 2010/2011



INDICE Introduzione

pag. 9

CAPITOLO 1: Escursus storico dalla nascita del clown alla Clownterapia.

pag. 11

1.1 Le prime figure di clown

pag. 11

1.2 L'importanza della risata. Un esempio: Norman Cousins

pag. 13

1.3 Pacht Adams, il padre della clownterapia

pag. 17

1.4 La scoperta e l'evoluzione della clownterapia in campo ospedaliero

pag. 19

1.5 Ricerche sui benefici della clownterapia

pag. 22

CAPITOLO 2: Il clown educatore

pag. 24

Premessa

pag. 24

2.1 Dicotomia tra il clown Bianco e il clown Rosso

pag. 25

2.1.1 Aspetti psicopedagogici delle due tipologie di clown

2.2. Che cosa sviluppa la clownerie

pag. 26

pag. 28

2.2.1 Autoefficacia e sfide della vita

pag. 29

2.2.2. Autostima e insegnamenti emozionali

pag. 29

2.3 La clownerie all'interno dei contesti educativi

pag. 31

2.3.1 La figura del clown nelle carceri

pag. 32

2.3.2 La figura del clown nella scuola

pag. 34

2.4 Il gioco come strumento educativo

pag. 36

2.4.1 Strumenti specifici utilizzati dal clown

2.5 Un'esperienza sul campo

pag. 38

pag. 40 3


CAPITOLO 3: Ricerca sperimentale

pag. 42

Premessa

pag. 42

3.1 Obiettivi ed ipotesi

pag. 46

3.2 Campione

pag. 47

3.3 Strumenti e metodologia

pag. 47

3.4 Procedure

pag. 49

3.5 Analisi dei dati e discussioni

pag. 49

Conclusioni

pag. 54

Bibliografia

pag. 58

Sitografia

pag. 64

Ringraziamenti

pag. 66

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Alla mia mamma che mi sta vicina che porto con me nella mia tasca nel mio zaino nel mio cuore e che durante il corso di studi mi ha donato un valido aiuto

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Il clown Sono il clown che ti ha rubato il sorriso, sono il buffone di corte che ha cambiato il tuo viso, recito una parte che non mi appartiene, senza trucco e senza inganno scalfisco questo tempo,

Applaudono mentre presento il mio show,

mormoro frasi a volte senza senso.

tu in fondo al tendone osservi stupita:

Sono il clown che non porta buon umore,

non è possibile, era il tuo segreto, ma hai sottovalutato il mio sorriso stregato,

sono il buffone di corte che regala solo rumore,

hai capito il trucco quando ormai tutto era passato.

recito una parte che ho dimenticato ho il cuore infranto … sono l'umiliato.

Sono il clown che ti ha mostrato tristezza,

Sono il personaggio che non ti aspettavi, sono la sorpresa che più desideravi

sono il buffone a cui non hai voluto dare retta,

e adesso delusa guardi al paradiso

eri sconvolta prima del finale

senza sorriso.

hai pagato un biglietto solo per farti umiliare,

Sono il clown di mille spettacoli,

non hai più lacrime per lasciarti andare

sono coriandoli a terra già calpestati,

e nemmeno sorrisi che ti sei fatta rubare.

sono il passato che non è più tornato,

Ricorda il clown, ricorda l'inizio,

sono i ricordi che hai dimenticato,

ti sei distratta, caduta nel tuo precipizio.

sono tutto e niente, un clown, un buffone,

rocco paolo

il personaggio della tua confusione. 7


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Introduzione Questo lavoro nasce dal desiderio di approfondire l'importanza che la clownerie ha nell'educazione e nella formazione dei più piccoli ma anche di quelli già cresciuti, nell'intento di suggerire al mondo che è la nostra mente a scegliere come vivere la vita, che siamo noi a scegliere di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, di pungerci con le spine o di godere del profumo di una rosa, di avere paura della notte o di scoprirla come un intermezzo fra due giorni illuminati dal sole, di crogiolarci nei nostri dolori e dispiaceri o di porgere la mano verso chi aspetta un nostro sguardo e un nostro aiuto: siamo noi cioè che dobbiamo scegliere se essere felici o infelici. Nel primo capitolo si fa una panoramica sulla storia e le origini della figura del clown, dai giullari e saltimbanchi, ai clowns nelle corti e nel circo, indicandone le caratteristiche generali, i valori e le virtù. In seguito si valorizza l'importanza del sorriso, sia a livello relazionale che a livello personale; in speciale modo l’attenzione è posta sull’importanza della risata in campo ospedaliero. Con ciò si intende dire che vivere la propria esperienza di malattia in maniera positiva favorisce il paziente perché, sarà lui stesso e in prima persona, a ricavarne benefici, poiché ridere porta con sé, oltre che allegria e gioia, enormi vantaggi fisici, psichici e spirituali. Tali giovamenti, che non sono da considerare secondari al fine terapeutico, sono determinanti per la guarigione, come ci testimonia l’esperienza di Cousins. Infine, un breve accenno alla figura di Patch Adams e ai clown dottori che da lui hanno preso spunto: è stato lui, infatti, il primo medico ad entrare nelle corsie degli ospedali vestito da clown con una valigia carica di sorrisi, giochi, ilarità e humor, colui che ha rivoluzionato il concetto del “prendersi cura” di coloro che soffrono e che ha fondato la clown-terapia, la quale pone l’accento sulla grande valenza terapeutica del ridere. Patch Adams continua a girare il mondo e ad insegnare il suo approccio alla malattia impiegando metodi non convenzionali e strambe sorprese per alleviare l'ansia dei pazienti e agevolare la loro guarigione e continua a sostenere che la compassione, il coinvolgimento e l'empatia sono di aiuto ai medici quanto i medicinali innovativi e i progressi. Il suo metodo, considerato popolarmente efficace per alleviare tensioni e malesseri, oggi è una certezza scientifica.

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Nel secondo capitolo si sottolinea la valenza socio-psico-pedagogica del clown all'interno dei contesti educativi come le carceri e le scuole, luoghi in cui educatori professionali e animatori

consentono lo sviluppo di competenze relazionali,

corporee ed emotive. Nei penitenziari i volontari clown offrono il loro servizio di aiuto e di ascolto ai detenuti che imparano a mettersi a disposizione degli altri in modo gioioso, acquistano fiducia nell’altro e della propria oggettività, potenziano la creatività e il pensiero. Il clown sta cominciando ad entrare anche nelle scuole al fine di migliorare la comunicazione tra docenti e studenti. In seguito si specificano gli aspetti psicopedagogici del clown Bianco che rappresenta l'adulto, e del clown Rosso che esprime gli aspetti più infantili e irrazionali: un percorso di clowning, dove chiunque ne venga in contatto affronta un cambiamento nel suo modo di vivere il corpo e le emozioni. Si fa riferimento a quali abilità sviluppa la clownerie: l'importanza nel migliorare l'autoefficacia che permetterà di assicurare una maggior opportunità di superare le sfide della vita , in quanto ciò è possibile solo se si conosce se stessi e se si è sempre in una costante relazione con le sensazioni, emozioni, pensieri e bisogni. Per poter dire di vivere una vita sana bisogna possedere una buona e sicura personalità in quanto riguarda giudizi di valore personale e si sviluppa profondamente attraverso l'identificazione di se stessi con gli altri. Si analizza il gioco come strumento efficace ad acquisire una maggiore padronanza di sé perché il bambino, il ragazzo e l'adulto, prendano coscienza del proprio corpo e delle proprie possibilità. Infine si racconta un'esperienza sul campo ad opera della Dottoressa Alessandra Farneti. Il lavoro si conclude con un'indagine sperimentale che si basa sull'esperienza diretta di venti studentesse che hanno accolto l'idea di partecipare ad un training di clowning, secondo il metodo EDEL (Zucca, 2011), per verificare se, successivamente, si potesse

riscontrare un miglioramento nella gestione delle

emozioni e di come questa fosse influenzata dall'autoefficacia emozionale percepita. Esse stesse sono state gratificate dall'idea di essere parte attiva in una vera e propria figurazione di un clown educatore, e dando il loro contributo, hanno permesso di analizzare e verificare quanto sia importante imparare a riconoscere e a saper controllare le proprie emozioni.

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CAPITOLO 1: Escursus storico sulla nascita del clown 1.1 Le prime figure di clown La figura del clown esiste da sempre; infatti, in ogni cultura e in ogni società, è stato sempre presente il giullare, il matto, lo scemo del villaggio. Egli può essere definito come l’archetipo dell’umorismo puro in quanto ricorre ai meccanismi di comicità più antichi ed innati, e a volte lo fa coinvolgendo in prima persona lo spettatore. La parola “clown” ha origine tedesca e nel suo senso più proprio significa "contadino"; questo personaggio aveva il compito di divertire gli spettatori provando a farli calare nella propria dimensione e utilizzando come strumento l’immaginazione (Caprifoglio, Paglietti, 2004). Il termine può essere riferito anche ad un modo comportamentale, tipico di una persona poco credibile o avvezza a non prendere sul serio un argomento in senso non necessariamente negativo ma che ama far divertire il proprio gruppo. Il clown è generalmente vestito in modo buffo, con il volto truccato e abiti colorati ed è l’icona della povertà umana: rappresenta l’ultimo, il diverso e una delle sue caratteristiche principali è l’essere costantemente soggetto al "fiasco" e al fallimento, caratteristiche prettamente umane che provocano un senso di frustrazione. È possibile far risalire le prime figure di giocoleria al 2040 a.C. grazie al rinvenimento di un graffito nella tomba di Ben Hassani in Egitto; in esso sono rappresentate due immagini: nella prima sono presenti tre donne che giocolano con alcune palline e nella seconda sono riconoscibili quattro figure che formano piramidi umane (Renevey, 1985).

Fig. 1 Decorazione muraria egizia, 2040 a.c., da Luci della giocoleria, di A Serena, p.14

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In Grecia era facile incontrare per le strade cantori, danzatori, giocolieri e comici che intrattenevano i passanti, mentre nella Magna Grecia erano i nobili a mettere in scena quest'arte sfruttando la figura del mimo durante le celebrazioni religiose. I giocolieri e gli acrobati raggiunsero il loro massimo splendore nell'antica Roma tanto che sono presenti circhi, arene e anfiteatri in ogni luogo di conquista e di dominazione (Madaudo, Padiglione, 1986). Con l'avvento del cristianesimo e la decadenza dell' Impero Romano l'attività dei giocolieri si concluse, in quanto veniva considerata alla stressa tregua dei crudeli giochi perpetrati a scapito dei cristiani (David, 1971). In seguito ad intrattenere il pubblico per le strade o nelle corti dei nobili sono i saltimbanchi, i giullari, i danzatori e i menestrelli che nel XII secolo vengono definiti e compresi nel termine unico di "mimo-tuttofare" (David, 1971). I Giullari si esibivano nei paesini, nelle piazze, nei mercati ma anche nelle ricche corti della nobiltà, in occasioni di celebrazioni festose, nei tornei e nelle investiture cavalleresche (Serena, 2002). I Saltimbanchi eseguivano i loro giochi di destrezza e di grandi acrobazie su un palco; si distinsero per l’attenzione che dedicarono alla poesia, al canto e alla musica (Safiotti, 1990). A metà del XVI sec. gli artisti decisero di unirsi per creare delle compagnie professionali che mettevano in scena delle commedie improvvisate basandosi solo su un semplice copione; nasce così un nuovo genere, la Commedia dell'Arte, dove gli attori professionisti utilizzavano la mimica, le acrobazie, i costumi e delle particolari maschere che raffiguravano tipi o personaggi fissi. Ogni maschera aveva delle caratteristiche psicologiche, un proprio linguaggio e una sua gestualità; degli esempi sono le maschere di Arlecchino, Brighella e Pulcinella. Si riesce così a cogliere l'esigenza di persone che avevano bisogno di lavorare insieme sfruttando le piazze dei mercati dove si svolgevano i momenti della vita sociale dell'epoca (Seibe, 1993). Nella seconda metà del ‘700, in Inghilterra, Philip Astley fu riconosciuto il "padre del circo moderno" e Joe Grimaldi il "creatore della nuova maschera del clown". Philip Astley era un ex sottufficiale di cavalleria che lasciò l'esercito perché lo riteneva poco conveniente ed iniziò la sua carriera da illusionista nei teatri di fiera; inoltre, essendo molto abile nel montare cavalli selvaggi, iniziò a esibirsi in spettacoli equestri.

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Astley portò l'arte equestre ai massimi livelli: egli, galoppando in cerchio si rese conto che la forza centrifuga gli permetteva di rimanere in piedi sull'animale. Fu così che introdusse la piattaforma circolare nei propri spettacoli. Nasce la pista da circo e, solo in un secondo momento, si inseriscono musicisti, giocolieri, funamboli, trapezisti e animali ammaestrati (Cervellati, 1961). Joe Grimaldi rappresenta il fondatore di tutti i clowns; egli fu un bravissimo ballerino e si specializzò in ruoli comici sfruttando al massimo le sue capacità mimiche, acrobatiche e la sua nota agilità. Creò un nuovo personaggio: il clown Bianco, un contadino con la faccia bianca punteggiata di lentiggini rosse. Il clown, con le sue esibizioni comiche, aveva il compito di alleggerire l'atmosfera tra un esercizio equestre e l'altro, rilassando la tensione del pubblico (Cervellati, 1961). Attualmente la figura del clown viene impiegata non solo a teatro o nel circo ma anche per la Clownterapia, ovvero la terapia del sorriso: il clown si reca in ospedale, fa visita ai bambini poco fortunati per portare loro il sorriso e la voglia di vivere. Un lavoro davvero lodevole che nobilita la figura del clown e lo rende più umano e più vicino ai bambini, grandi ammiratori di questa poliedrica figura.

1.2 L'importanza della risata. Un esempio: Norman Cousins

"Ridere non è solo contagioso, ma è anche la migliore medicina" Hunter 'Patch' Adams dal film "Patch Adams"

Molti filosofi e letterati tra i quali Platone, Aristotele, Schopenhauer e Freud si sono dedicati allo studio della risata. Platone e Aristotele sono stati i primi ad affrontare quest’argomento: Platone (427-348 a.C.) era preoccupato del fatto che la risata potesse minare le istituzioni statali e sociali; nell’opera “Repubblica” esamina le conseguenze negative dell’abbandonarsi a violenti scrosci di riso perché la risata eccessiva è segno di un grande turbamento dell’animo. Platone pretendeva che ne fosse regolamentato l’uso, sottolineando l’importanza di rivedere e correggere tutti i testi che, parlando della risata stessa, avrebbero potuto corrompere l’animo dei giovani addestrati per il suo ideale di Stato (Repubblica, 2009). Aristotele riteneva, invece, che la risata e la comicità avessero un valore positivo: sosteneva la teoria dello sfogo e vedeva il riso come un atto utile a procurare 13


sollievo dallo stress quotidiano. Il filosofo pensava quindi che la risata fosse importante ma che comunque dovesse essere usata con moderazione (Panebianco, 1998). Arthur Schopenauer (1788-1860) dava un’impostazione cognitiva allo studio della risata elaborando la "teoria dell’incongruità". Egli riteneva che la risata fosse un meccanismo fisiologico per scaricare l’energia nervosa accumulata e che l'umorismo e l'ironia permettessero all'uomo di rendersi liberi dal dominio della ragione (Panebianco, 1998). Sigmund Freud (1856-1939), nell’opera "Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio" affermava che la gradevolezza delle situazioni ilari era dovuta al fatto che queste permettessero di risparmiare energia psichica. Difatti, il piacere insito nell’umorismo richiede poco dispendio di idee, sentimento e inibizione. È solo in questo modo che la liberazione improvvisa di energia scatena la risata e rappresenta una valvola di sfogo (Freud, 1975). Pirandello, poeta, saggista e narratore, parlava del "sentimento del contrario" definendo così un modo particolare di osservare la vita; egli affermava che, tramite la riflessione, si potesse osservare la realtà da un punto di vista diverso, permettendo di vederne il suo contrario e l'aspetto nascosto. Pertanto un atteggiamento ridicolo poteva essere letto come il risultato di una sofferenza. Pirandello grazie al saggio intitolato: "Una vecchia signora" fa capire che il comico nasce dalla stranezza, dalla dissonanza, dalla parodia della realtà e suscita il riso involontario mentre l’umorismo nasce dalla contraddittorietà (Pirandello, 1995). Nell'ambito della psicologia dello sviluppo la capacità di ridere è una componente innata: diversi studi hanno dimostrato, infatti, che il sorriso si manifesta già nel grembo materno ed è, quindi, una forma istintiva di comportamento programmato dai nostri geni. Nei primi anni dello sviluppo la modalità del pianto, rappresenta per il bambino uno dei pochi mezzi che ha per comunicare, sia per attirare l'attenzione della mamma che per accattivarsi chi gli sta attorno. Il bambino inizia a sorridere ancor prima di parlare, ma non sempre questo è conseguenza del divertimento. Per parlare di sorriso sociale bisogna aspettare il terzo mese di vita, quando il neonato sorride come risposta a stimoli che gli provengono dai familiari e soprattutto all'udire la voce della mamma perché rappresenta per lui lo stimolo più potente (Fioravanti, Spina, 2000).

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La risata agisce positivamente sull'organismo e sulla psiche: nel primo caso, ridere agisce come calmante, come antidolorifico, come euforizzante ma soprattutto come immuno-stimolante perché aumenta la risposta immunitaria. Si è pensato, infatti, che l'humour riesca a moderare le conseguenze dell'ansia derivante da situazioni di stress, tanto da migliorare le funzioni dell'intero sistema immunitario (Farnè, 1999). Da un punto di vista psichico, è importante sottolineare che, di fronte ad eventi stressanti, ognuno reagisce in maniera differente. Mentre alcune persone riescono ad affrontare tali eventi senza conseguenze negative per la propria persona, altri, invece, arrivano a commettere gesti autosabotanti (Aiello, 2008) nei quali mettono in atto comportamenti controproducenti, nella maggior parte dei casi non consapevoli, fino a provocarsi malattie organiche come colite, ulcera, ipertensione, asma bronchiale e artrite reumatoide (Francescato, 2002). La capacità di vivere la vita con umorismo consente anche una diminuzione dello stress: oltre agli "Stressors" ambientali, che producono e fanno nascere emozioni "tossiche", esistono anche i "Meliors" costituiti da tutte quelle situazioni sociali e personali che ci danno la possibilità di ridere e quindi di vivere meglio (Farnè, 1999): "Saper ridere è salutare: è una forma di prevenzione che evita di mantenere l'organismo in un prolungato e nocivo stato d'ansia in quanto ridere è veramente importante per tutti ed in qualsiasi momento della vita. Non bisogna perdere occasione di farci una risata o, comunque, di affrontare gli eventi quotidiani con un sorriso sulle labbra o nel cuore" (Farnè, 1999, p.50).

Sempre in questo campo le ricerche condotte da Robert R. Provine sono arrivate a determinare un'importante scoperta: la maggior parte delle risate non si verificano in risposta a barzellette o di fronte a stimoli comici precostituiti (show, tv, film), ma dipendono sia dal contesto nel quale ci si trova che dalla relazione amicale o affettiva che lega le due persone coinvolte (Provine, 2002). Se quindi imparassimo a gestire le diverse situazioni, riusciremmo a trasformare lo stress in pensieri positivi e potremmo così disporre di molta più energia e dare il meglio di noi stessi in diversi ambiti, tra i quali quello dell'apprendimento e della memoria.

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L'umorismo permette di distrarre l'attenzione dalla tensione; la risata fa scaricare l'ansia, libera l'attenzione e permette una prestazione efficiente e soddisfacente (Farnè, 1999). È chiaro che non si possono sostituire o cambiare gli eventi e le situazioni della propria vita, ma si può almeno cambiare il proprio stato d'animo, il modo di affrontare, percepire e vedere il problema:

"La serenità interiore, la capacità di ridere con il cuore (...) dipende dalla capacità personale di trovare granelli di gioia ovunque, anche in mezzo al dolore, anche nelle situazioni più negative " (Albisetti, 2001, pag16).

A dimostrazione di ciò, è opportuno ricordare la storia di Norman Cousins, noto giornalista americano, a cui venne diagnosticata la spondiloartrite anchilosante1 con una probabilità di guarigione su cinquecento. Documentandosi sulle ricerche più recenti e in accordo con il suo medico, il giornalista decise di interrompere il trattamento con analgesici e di assumere una dose giornaliera di 25 grammi di acido ascorbico, ovvero vitamina C (che tra l'altro ha forti proprietà antistress) e di fare delle abbondanti e intense risate. L'idea si dimostrò subito valida: dieci minuti di buone risate avevano un effetto analgesico che gli permetteva di fare almeno due ore di sonno senza dolori. Questa "cura" portò ad un oggettivo miglioramento, lento ma costante, di tutto il suo quadro clinico. Il commento finale di Cousins fu: "La voglia di vivere non è un'astrazione teorica, ma una realtà fisiologica con effetti terapeutici. (…) Ho imparato anche a non sottovalutare mai la capacità di recupero della mente umana e dell'organismo anche quando le prospettive sembrano più infauste" (Cousins, 1982, pp. 30-33).

Diversi medici che hanno studiato l'esperienza di Cousins, ritengono che, oltre alla risata, ci siano stati altri comportamenti determinanti nel suo modo di affrontare la malattia, tra i quali: l'estrema fiducia nelle capacità di guarigione, l'assenza di panico di fronte al pericoloso disturbo che lo aveva colpito e l'aver condiviso la responsabilità della malattia senza delegarla solo ai medici.

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La spondilite anchilosante è una malattia reumatica cronica. Il termine con il quale si definisce tecnicamente questa patologia deriva da due parole greche che significano “colonna vertebrale ricurva”. La spondilite colpisce inizialmente le articolazioni spinali e sacro-iliache, in modo simmetrico, e in seguito la colonna vertebrale, anche se non è raro il coinvolgimento di spalle, anche, ginocchia e piedi. Essendo una malattia sistemica, può interessare anche altri organi.

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Attraverso la sua esperienza, Norman Cousins dà testimonianza di come sia possibile guarire da una grave malattia anche mediante la forza di volontà del paziente, unita all'indubbia utilità della collaborazione scientifica del medico (Cousins, 1982).

Cousins inaugura una nuova strada in campo scientifico, ovvero lo studio dei reali benefici fisici e psichici dati dalle emozioni positive e dalla risata. Inoltre, il giornalista, come evidenzia nel suo racconto autobiografico intitolato “Anatomia di una malattia, com’è percepita dal paziente”, analizza l'importanza svolta dal placebo nella cura di una malattia. Infatti, molte persone sono convinte che i loro sintomi non siano presi seriamente in considerazione dal medico se non viene fatta loro la prescrizione di un farmaco: per il paziente la ricetta rappresenta una guarigione assicurata, sebbene le medicine non sempre siano necessarie. Pertanto il placebo diventa un autentico agente terapeutico per alterare la chimica dell'organismo e per stimolare l'attivazione delle difese organiche per combattere la malattia. Questa è la dimostrazione che la malattia è sempre data dall'interazione tra corpo e mente: può cominciare dalla mente e coinvolgere il corpo, o può cominciare dal corpo e coinvolgere la mente (Cousins, 1982).

1.3. Patch Adams, il padre della clownterapia

"Dobbiamo cominciare a curare il paziente come curiamo la malattia" Hunter 'Patch' Adams dal film "Patch Adams"

Il padre della clownterapia è Hunter Patch Adams, divenuto famoso grazie all'interpretazione cinematografica di Robin Williams. Di lui l'attore afferma:

"Patch è un essere strano e piuttosto incredibile. Egli indossa grandissime camicie a fiori brillanti e cravatte che all'occasione rumoreggiano. Egli è una persona provocatoria e al tempo stesso un medico delicato. Non ha mai voluto far parte del sistema, egli ha creato un nuovo sistema".

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La sua storia reale comincia in un ospedale psichiatrico dove Unter Adams, reduce da un tentativo di suicidio, si fa ricoverare spontaneamente perché è consapevole della sua grave depressione. In questo contesto, scopre che i medici e il personale fanno il loro lavoro senza amore e entusiasmo. Durante il periodo di internato incontra il suo compagno di stanza, Rudy, e lo aiuta a superare le sue fobie ricorrendo a un gioco divertente, che consiste nel visualizzare una vera e propria battaglia immaginaria contro le sue allucinazioni (era terrorizzato dagli scoiattoli). Improvvisamente capisce di avere un dono: sa aiutare chi soffre creando un rapporto fatto di allegria e complicità. Uscito dall'ospedale decide di studiare medicina al Medical College in Virginia, dove si laurea nel 1971. Gli anni universitari sono difficili per lui perché si scontra con il mondo accademico che non accetta il suo modo rivoluzionario con cui intende curare i pazienti fatto di: barzellette, musica, gags comiche e un'attenzione particolare ai desideri espressi dai malati. Patch Adams è il promotore di un'assistenza sanitaria vista come servizio e incentrata sui reali bisogni dei pazienti, dove la comicità è utilizzata per creare familiarità con i malati e ridurre il disagio e l'alienazione dei degenti. Animato dalla volontà di mettere in pratica questo suo ideale, Patch Adams, dopo la laurea, trasforma la casa dove vive in una clinica aperta a chi soffre. Con un gruppo di volontari riesce, in dieci anni, a prestare cure gratuite a circa 15000 malati e, nel 1977, compra un terreno nel North Carolina dove progetta di costruire una clinica vera e propria (Adams, 1998). Aiutato da diversi amici riesce a realizzare il suo sogno nel 1983, anno nel quale nacque il Gensuhndeit Institute. Una delle motivazioni che portò alla scelta della costruzione di una casa-ospedale fu la constatazione che i pazienti non avevano bisogno solo di semplici farmaci per curare le malattie, ma era necessario che il medico si prendesse cura del malato, dimostrandogli gioia e amore. Inoltre, l’insoddisfazione nei confronti del lavoro, della famiglia e di se stessi può rendere vana la cura o impedire il miglioramento della salute perché la salute fisica è collegata alla qualità della vita. Tale concezione stravolge alcuni dei concetti cardine della medicina occidentale. Patch Adams si sente investito di una missione da compiere: viaggia in tutto il mondo per far conoscere la teoria del potere terapeutico del sorriso e il progetto del

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suo ospedale che sia veicolo concreto del suo ospedale ideale. Nel 2000 fonda la "Clown One Italia Onlus", un’associazione che raccoglie attorno a sé clown ambasciatori del sorriso, medici, volontari e altri animatori per offrire un pronto intervento clownesco nelle emergenze umanitarie. Egli sceglie di operare in ospedale perché è un medico, ma non si stanca di suggerire ai suoi allievi di esportare la sua idea in altri contesti della vita (carceri, strade, centri di accoglienza) perché non esiste un ambito in cui non se ne abbia bisogno (Adams, 1998).

1.4. La scoperta e l'evoluzione della clownterapia in campo ospedaliero

"Perché sei un essere speciale e io avrò cura di te" Franco Battiato

La comicoterapia nasce nel 1986 a New York e si va diffondendo lentamente in tutto il mondo. Questa si basa sul concetto che ridere fa bene alla salute e che permette di guarire da alcune malattie, anche se nessuno è mai riuscito a dimostrare fino in fondo che la risata si possa considerare una vera e propria cura. La comicoterapia ha, quindi, come scopo quello di aiutare i pazienti, adulti e bambini, a rilassarsi ed a stimolare in loro la capacità di sorridere: in questo modo si contribuisce a rendere più piacevole la degenza e si agevola l’uso delle terapie mediche sui malati. La clownterapia, che viene solitamente inserita nella più ampia categoria della comico-terapia, è un termine composto dall'unione di due parole chiave, clown e terapia, con cui si definisce un nuovo tipo di terapia medica alternativa. Questa è basata su un insieme di tecniche derivate dal circo e dal teatro di strada, in contesti di disagio sociale o fisico, quali ospedali, case di riposo, case famiglia, orfanotrofi, centri diurni, centri di accoglienza (Mirabella, 2005). I clown nelle corsie non sono medici che si mettono il naso rosso o studenti di medicina che fanno tirocinio, ma sono clown professionisti e non, appositamente formati per operare nelle corsie ospedaliere ed in altre situazioni di disagio, attraverso le arti della clownerie (prestidigitazione, gags comiche, burattini,

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micromagia) per sostenere le persone che si trovano a vivere una difficoltà di tipo sanitario e/o sociale. Il ruolo di clown può essere svolto, oltre che da volontari e clown professionisti, anche dal personale sanitario, creando così un continuo servizio di clownterapia per evitare di ridurre tale operato alle sole visite dei volontari. Esiste quindi una distinzione tra clown dottori e dottori clown in quanto: "Gli uni (clown dottori) sdrammatizzano con l'arte circense e con la "terapia del buon umore" la paura, l'ansia delle pratiche terapeutiche e a volte l'abbandono in ospedale da parte dei familiari, mentre i dottori clown sono medici o paramedici che hanno un'esperienza lavorativa di stampo medico alle spalle " (Catarsi, 2008, pag 36).

Il nome di "clown dottore", è stato scelto per precisi motivi: si tratta di una figura di per sé terapeutica, date le potenzialità mediche del riso e del buonumore. Il clown dottore non solo opera in stretto contatto con l’èquipe ospedaliera ma indossa un camice colorato e variopinto, con il fine di cambiare la percezione dell’immagine del dottore da parte del bambino. L’operato del clown dottore riguarda tre campi di competenza

strettamente

connessi

(Simonds,

2003):

quello

artistico

(improvvisazione, musica, personalità del clown), quello relazionale (ascolto, percezione del contesto, relazione con il personale medico, comprensione della struttura familiare e delle necessità del bambino e delle sue figure di riferimento) e quello terapeutico (la comicità come terapia e come differente visione del mondo) I clown dottori, operando in coppia, hanno la possibilità di improvvisare gags, di operare su più fronti (bambino/mamma o altri) e possono, infine, sostenersi a vicenda con l'obiettivo di trovare una "metafora terapeutica" che permetta il cambiamento delle emozioni negative in positive. Il loro compito principale e quello di sdrammatizzare le pratiche sanitarie, mutare segno alle paure, permettere al bambino di esprimere, gestendole, la rabbia, l'ansia e l'angoscia legate alla sua malattia. Infatti, è ormai noto che le tecniche di animazione comica con cui i clown rendono i pazienti protagonisti attivi nella costruzione della propria gioia e serenità, contribuiscono a mettere i pazienti stessi nelle condizioni di affrontare con maggior efficacia situazioni di malessere e ridimensionare ansie e paure (Catarsi, 2008). Essi trasformano il reparto o la camera d’ospedale in un ambiente magico, in cui la risata si fa strumento di gioia e sicurezza, incoraggiando il dialogo, quale forma essenziale di interazione e legame. Inoltre, i clown dottori provano a stabilire con i

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pazienti un rapporto umano di fiducia e confidenza, capace di far dimenticare la quotidianità della vita ospedaliera, a vantaggio della fantasia e dell’immaginazione. Infatti, durante le visite dei dottori-clown i bambini si divertono, i medici e le infermiere sorridono e i genitori ritrovano il coraggio di sostenere i loro figli nel cammino verso la guarigione. I clown non vogliono corazzarsi nei confronti delle sofferenze dei malati, ma vogliono amare ogni bambino, capire la sua sofferenza e trovare gesti e parole che portino sollievo e liberazione (Simonds, 2003). L’importanza di questa figura non si esaurisce nel paziente, bensì si estende a tutta la sua famiglia, in quanto i miglioramenti del malato sono vissuti e condivisi anche da coloro che lo circondano con amore e affetto. Inoltre, il clown-dottore è l’unica figura dell’èquipe la cui presenza può essere rifiutata dal piccolo paziente o dalla sua famiglia e, questo fatto, restituisce loro un minimo di "potere", in un contesto in cui ne sono privati. Questa figura, durante la sua formazione, apprende, oltre alle tecniche clown, anche nozioni di psicologia, in particolare quelle relative all'età evolutiva, per poter essere in grado di rendere la propria azione la più specifica possibile a seconda del paziente: ogni intervento è, pertanto, personalizzato e adattato al target con il quale ci si deve relazionare (Simonds, 2003). La clownterapia può essere impiegata in diverse maniere: nelle corsie ospedaliere, in corsi ad hoc di clownterapia per il personale medico e infermieristico e istituendo minibiblioteche comiche itineranti. Vale la pena chiarire che non esiste un metodo di clownterapia specifico: ciascuno può farlo a suo modo, in funzione della situazione, dell’ambiente, delle proprie capacità creative ed espressive e del vero "bisogno" della persona che si intende aiutare. L’insegnamento più grande che Patch Adams ci offre è di considerare che

"Ogni individuo può essere una persona che sta per morire" (Adams, 1998);

se guardiamo il nostro prossimo con questo semplice pensiero, ci verrà spontaneo essergli amici, diventare più gentili e tolleranti, favorire l’instaurarsi di armonia, serenità e gioia (Mirabella, 2005).

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1.5. Ricerche sui benefici della clownterapia “La medicina non è divertente, ma c'è molta medicina nel divertimento” M. Cowan

Svariati studi scientifici hanno dimostrato, tramite delle ricerche incentrate su questo settore, che la clownterapia ha degli effetti positivi sui pazienti. A questo proposito, si può prendere in esame l'esperienza degli ospedali di S. Carlo, Como e Cantù nei quali, tra il 1999 e il 2001, sono stati effettuati studi scientifici sugli effetti della clownterapia nella salute dei bambini ricoverati, dimostrandone gli effetti positivi (www.verieroi.com). L'associazione "Dottor Sorriso" è stata scelta come parte attiva di questo progetto pilota, caratterizzato da un protocollo scientifico che, per sei mesi, ha studiato gli effetti clinici della clownterapia sui bambini ricoverati presso gli ospedali di Tradate e Sant’Anna di Como. Questo progetto ha impegnato, per cinque giorni alla settimana, due medici-clown della Fondazione nel reparto pediatrico dei due ospedali coinvolti. Inizialmente, sono stati analizzati gli effetti clinici della clownterapia praticata in presenza e con la partecipazione attiva dei medici clown. Successivamente i dati, sono stati confrontati con i risultati ottenuti dall'analisi sugli effetti clinici di un gruppo di bambini ricoverati e non "sottoposti" a tale terapia, confermandone i suoi benefici effetti. Tali risultati, che per la Fondazione sono motivo di grande soddisfazione e orgoglio, rappresentano un incoraggiamento a sviluppare l’attività dei "Dottor Sorriso", confidando anche in un più ampio sostegno morale e finanziario da parte di tutti (www.verieroi.com). Riportando altri dati in questo settore, è necessario evidenziare una ricerca internazionale realizzata dall'Ospedale Meyer di Firenze che ha dimostrato come l'intervento dei clown in corsia, messa in atto da "Soccorso Clown", ha ridotto del 50% l'ansia nei bambini sottoposti a interventi chirurgici. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Pediatrics (Vagnoli, Caprilli e Robiglio, 2005) ha preso in esame 40 bambini di età compresa fra i 5 e i 12 anni che dovevano sottoporsi a intervento di chirurgia minore in day-hospital. La metà di questi, selezionata a caso, veniva accompagnata in sala preoperatoria da due professionisti clown e da un 22


genitore, mentre l’altra metà entrava con la sola compagnia di un genitore. Nel gruppo sperimentale due clown-in-corsia avevano già conosciuto il bambino in reparto. In sala operatoria il bambino veniva addormentato dagli anestesisti mentre era distratto da giochi e dalle magie dei clown-in-corsia di "Soccorso Clown". Successivamente, attraverso dei test psicologici specifici, si è misurata l’ansia del bambino e del genitore e sono state fatte interviste ai genitori, ai clown-in-corsia e ai medici e infermieri della sala operatoria. I risultati ottenuti hanno indicato che l’ansia dei bambini accompagnati dai clownin-corsia diminuiva quasi del 50% ed essi, all'avvicinarsi dell'anestesia, non presentavano un innalzamento della paura come invece succedeva a quelli senza l'intervento di "Soccorso Clown". All'Ospedale SS. Annunziata, a Forcella, nel reparto di pediatria operano i clown della cooperativa "Le Nuvole", un gruppo di artisti professionisti che lavorano al progetto "Guarir dal ridere". La reazione dei bambini ricoverati alla presenza dei clown in corsia è stata straordinaria (www.benessere.com). Grazie agli studi dei ricercatori sono state ampliate le conoscenze sul mondo della risata, sui suoi benefici, anche se questi devono essere confermati da studi sistematici e più approfonditi. Il passaggio dalla teoria alla pratica può sembrare immenso rispetto alle risorse attualmente disponibili, e forse lo è. Ogni professionista sa bene che proprio in ciò sta la sua competenza: promuovere e cercare di attuare le innovazioni che migliorano lo stato di benessere delle persone. I clown dottori sono riusciti a dare una nuova svolta nell'ambito ospedaliero lavorando a stretto contatto con infermieri e dottori, focalizzando l'attenzione sul lavoro di equipe, avendo le giuste conoscenze e diventando un buon collante tra la struttura e il paziente, tra il paziente e il medico e tra i componenti dell’equipe. Un buon medico è colui che si impegna ad affrontare la malattia non solo a livello biologico, ma predisponendo una relazione empatica. Considerando i grandi benefici della risata ci si augura che, in un futuro non troppo lontano, la clownterapia non sia più volontariato opzionale all’interno dei reparti, ma parte integrante della struttura sanitaria.

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2 Capitolo: Il clown educatore

"Iniziare bambini e ragazzi al “clowning” è un metodo educativo particolare" Alessandra Farneti

Premessa

Il termine “educazione” racchiude in sé numerosi concetti: facendo riferimento all'etimologia latina, la parola "educare" significa aiutare, nutrire e curare in maniera duratura nel tempo, con lo scopo di condurre a una crescita interiore. Partendo da questo presupposto si può dedurre che l'educazione è finalizzata a spronare e sollecitare la formazione della personalità dell'individuo. In particolare si privilegia la sfera sociale, affettiva ed etica per sviluppare la capacità di rielaborare consapevolmente, da un punto di vista critico e valutativo, i valori impartiti, le norme e le regole. In questo modo il singolo individuo potrà acquisire i comportamenti più conformi alla società in cui vive (Avalle, Maranzana, 2007). In generale, per educazione si intende la trasmissione e l'apprendimento delle tecniche culturali, cioè quelle tecniche di comportamento che l'uomo mette in atto per soddisfare i suoi bisogni e per sopperire alle difficoltà dell'ambiente fisico e biologico. Tuttavia, nella nostra società viviamo ogni giorno continui cambiamenti e siamo obbligati a confrontarci con situazioni sempre nuove, per cui l'educazione, oltre ad avere il compito di trasmettere le tecniche culturali, deve fornire prioritariamente gli strumenti necessari per correggerle, migliorarle e orientarle in relazione alla società in cui si vive, in maniera tale da permettere la formazione e la maturazione di ciascun individuo (Abbagnano, 1998). Nella

pedagogia novecentesca, soprattutto nella seconda metà del secolo, il

concetto di educazione assume una dimensione formativa, un processo che non riguarda solo la crescita nell'età evolutiva ma che si protrae per tutta la vita e che coinvolge l'individuo e, in particolar modo, la società: si inizia a parlare, infatti, di "società educante" (Abbagnano, 1998). Nel processo educativo è sempre presente il fenomeno del "rischio" perché la riuscita dipende anche dalle caratteristiche dell'allievo e dalle sue qualità recettive

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all'apprendimento.

Il

vero educatore deve in ogni

caso

"scommettere"

sull'educando, in modo particolare se questo si trova in situazioni di svantaggio (Avalle, Maranzana, 2007). Alla base dell'odierna educazione si pone il rispetto dell'uomo, sia nella sua dignità che nella sua individualità, pertanto si deve preoccupare di rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo del singolo (Abbagnano, 1998). In questo caso, per meglio chiarire il concetto, è utile citare Rogers che sostiene che: "Gli individui hanno in se stessi ampie risorse per auto-comprendersi e per modificare il loro concetto di sé, gli atteggiamenti di base e gli orientamenti comportamentali. Queste risorse possono emergere quando può essere fornito un clima definibile di atteggiamenti psicologici facilitanti" (Rogers, 1980, p. 100).

Un valido aiuto nel creare un clima sereno che faciliti l'apprendimento, può essere dato dalla figura del clown che interagisce con l'interlocutore utilizzando come strumenti il gioco e l'animazione.

2.1 Dicotomia tra il clown Bianco e il clown Rosso

In generale, i clowns si possono suddividere in due tipologie: il clown Rosso e il clown Bianco. Il primo, detto anche Augusto o Tony, si presenta al pubblico con indosso abiti molto colorati e spesso in totale contrasto fra loro (per esempio pantaloni a righe, camicia a quadri e giacca a pois), le scarpe sono molto grandi e di solito sfondate, porta una parrucca vivace e un cappello che può essere molto piccolo o molto grande, così come gli oggetti che talvolta porta con sé (occhiali, valigie, ecc.). Mette in campo le sue doti più comiche: la goffaggine, la timidezza, la stupidità e l'incapacità di fare le cose più semplici, come ad esempio riuscire a camminare senza inciampare sulle proprie scarpe. Nonostante ciò egli risolve sempre le situazioni difficili in cui si trova utilizzando l'ironia e la comicità:

"La sua stupidità si trasforma in "intelligenza emotiva" e diventa terapeutica nel momento in cui permette delle identificazioni e proiezioni allo spettatore" (Farneti, 2004, p. 9).

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Il secondo invece, indossa abiti sfarzosi ed eleganti: un vestito rigonfio sui fianchi, pantaloni al ginocchio e calzettoni bianchi, scarpe nere e della giusta misura. La sua faccia è bianca, gli occhi e la bocca sono truccati. Le sue doti sono la bellezza, l'intelligenza e la furbizia, si mostra altezzoso, intransigente e arrogante. Il Bianco, che secondo la Farneti viene definito "(…) il vero clown", domina sull'Augusto: lo deride in continuazione, gli dà ordini e cerca in ogni occasione di metterlo in difficoltà e a disagio davanti al pubblico (Fioravanti, Spina, 2002; Farneti, 2004). Insieme i due personaggi danno vita a gags divertenti seguendo un copione generale: il Clown Bianco deride e insulta l’Augusto per la sua incapacità, lo sfrutta per la sua fragilità e ingenuità; l’Augusto, dal canto suo, si dimostra capace di attirare l'attenzione del pubblico ad ogni sua mossa, rubando la scena al suo antagonista. È ovvio che tra le due parti la dialettica è portata all'esagerazione per provocare l’ilarità del pubblico (Farneti, 2004). Tra il clown Bianco e il Rosso esiste quindi un rapporto basato sugli opposti che può essere di tipo: •

fisico (alto-basso, magro-grasso);

sociale (maestro-aiutante, ricco-povero);

psicologico (astuto-ingenuo, intelligente-stupido);

morale (onesto - canaglia) (Cervellatti, 1946).

Anche in ciascuno di noi sono presenti alcuni degli opposti su citati, per cui chi osserva i due clown riconosce in loro gli stessi tratti psicologici e gli stessi vissuti esistenziali che lo caratterizzano e quindi facilmente si rispecchia negli aspetti della propria individualità (Berger 1999).

"Attraverso il loro naso rosso - simbolo di regressione verso il mondo creativo - e tramite oggetti che diventano parte integrante del loro personaggio, vivono modalità di approccio e vita molto differenti. Entrambi sono l’uno il continuo dell’altro" (Zucca, 2006, p.15).

2.1.1 Aspetti psicopedagogici delle due tipologie di clown

Da un punto di vista psicologico, la figura del clown approfondisce le caratteristiche individuali e sociali del singolo, facendone risaltare le diversità nei comportamenti e negli aspetti relazionali ed emozionali che si vivono quotidianamente e di cui, solitamente, non si è consapevoli. 26


Tale condizione genera nell'individuo paura e insicurezza che lo rende incapace di superare l'ostacolo, facendolo diventare, così, succube di se stesso (Carceri, Farneti e Cadamuro, 2008). Il clown incarna, quindi, quel bambino che risiede in ognuno di noi, cioè l'aspetto goffo e nascosto che le persone cercano costantemente di tenere per sé per evitare di sentirsi vulnerabili e ridicoli davanti agli altri (Carceri, Farneti e Cadamuro, 2008). Il clown rosso e il clown bianco fanno emergere, durante le loro esibizioni, gli aspetti più contradditori e intimi degli individui nei quali essi stessi possono identificarsi; questo rende più agevole la comunicazione tra il clown e chiunque voglia mettersi in relazione con lui. Considerando la figura del clown rosso e del clown bianco dal punto di vista della psicologia dello sviluppo e dell'educazione, possiamo dire che il primo identifica sia il bambino, del quale mette in luce la semplicità, l'irrazionalità e la vivacità, che l'adolescente, ribelle, invece, alle imposizioni dettate dall'adulto; tale scontro aiuta il ragazzo a costruire e a ritrovare la sua identità. Per quanto riguarda, invece, il clown bianco, esso raffigura l’autorità dell'adulto, come l'insegnante o il genitore repressivo, che impone rigidamente le sue regole al bambino/ragazzo prevalendo su di lui; questa figura rispecchia quindi la razionalità e il potere del mondo degli adulti (Farneti, 2004). Esaminando le figure dei clown attraverso una teoria rielaborata da Zucca, che prende spunto dal modello di intervento Gestalt di Perls (1969, 1977), si potrebbe dire che:

"(…) il bianco rappresenta la figura, cioè quella parte di noi che porta a consapevolezza solo una piccola parte dell’esperienza che noi facciamo nel corso della nostra esistenza, il rosso invece rappresenta lo sfondo, cioè tutti quei vissuti e stati emotivi con i quali non vogliamo entrare in contatto perché “strani” e scomodi. E se l'individuo vuole esprimere al meglio la sua potenzialità è necessario che le due figure si riuniscano" (Zucca, 2011, p.17).

Si può concludere dicendo che il clown è capace di smascherare i suoi lati deboli e le sue imperfezioni, riuscendo nei suoi spettacoli a metterli in ridicolo, attraverso l'autoironia suscita negli altri l'ilarità.

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2.2. Che cosa sviluppa la clownerie

Il clowning è uno strumento che può aiutare a sviluppare e a rinforzare alcuni aspetti fondamentali per la formazione della personalità perché permette ai bambini, ai ragazzi e agli adulti di sviluppare quello che viene definito "il pensiero positivo". Questo nasce dalla necessità di potenziare e di migliorare la qualità della vita mettendo in discussione i propri pensieri. La mente dell'uomo, infatti, agisce seguendo degli schemi prestabiliti che sono stati appresi dal contesto in cui si vive (in famiglia, a scuola, a lavoro) e che non danno la possibilità di avere una mente elastica, in grado di pensare in maniera autonoma e positiva (Hay, 2009). Un primo passo per migliorare quest'aspetto, potrebbe essere quello di acquisire la capacità di riflettere sugli eventi negativi della giornata e di rileggerli in un'ottica positiva cercando, cioè, di valutare ogni cosa fatta in quel contesto, come la migliore azione che si poteva fare in quel momento. Accettare questo consente di avere una maggiore consapevolezza delle proprie qualità e di vivere le esperienze quotidiane con maggiore responsabilità. Infine, è bene imparare a modificare opportunamente i propri schemi mentali per evitare che il proprio futuro venga da essi condizionato (Hay, 2009). Il seguente esempio, tratto dal libro "Puoi guarire la tua vita" scritto da Louise Hay, può essere utile per dare una più chiara spiegazione di questo concetto: "Una volta un amico parlando di una sua situazione, disse: - Questa è l'unica cosa bella di questo periodo. Perché non dire invece: - Questa è la prima cosa bella di questo periodo!" (Hay, 2009). Cambiando semplicemente una parola, valutiamo quella determinata situazione secondo un'ottica positiva e facciamo sì che la nostra mente riceva un messaggio creativo e portatore di nuove opportunità. Se si imparasse a diventare consapevoli di ciò che si pensa, si potrebbe lavorare sia sull'aspetto mentale che su quello emozionale per svincolarsi dai vecchi pensieri limitanti e attuare dei cambiamenti nella propria vita (Hay, 2009).

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2.2.1 Autoefficacia e sfide della vita

La vita quotidiana si basa sulla capacità di autoefficacia che permette di affrontare le piccole e grandi sfide che si presentano davanti. Nel libro "Il senso di autoefficacia" di Bandura, egli afferma che:

"La nostra vita è guidata dal nostro senso di autoefficacia. Il senso di autoefficacia corrisponde alle convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati" (Bandura,1992, p. 23 ).

Questo vuol dire che quando si devono fare delle scelte importanti o affrontare degli insuccessi, per avere una buona autoefficacia bisogna rispondere "Sì" alla domanda “Ce la farò?", perché il nostro pensiero influenza il risultato (Bandura, 1992). Per potenziare l'autoefficacia è indispensabile conoscere se stessi ed essere consapevoli delle proprie emozioni, dei propri pensieri e bisogni con lo scopo di vivere compiutamente la propria vita. E' fondamentale, quindi, avviare un percorso di crescita e di sviluppo che dia la possibilità all'individuo di comprendere e vivere con soddisfazione le esperienze importanti della vita, come il benessere del proprio corpo e le relazioni con gli altri. Infatti, ciascuno può essere in grado di migliorare l'ambiente in cui vive ed è necessario che tutti contribuiscano a questo perché ciò che un individuo fa, si riflette sugli altri (Pajares, Kranzler, 1995).

"Le convinzioni di autoefficacia sono l'elemento base, se le persone credessero di non averle la possibilità di produrre risultati, non proverebbero neanche a farlo" (Bandura, 1992, p. 23).

2.2.2. Autostima e insegnamenti emozionali

Mentre l'autoefficacia riguarda giudizi di capacità personale, l’autostima è intesa come la considerazione che un individuo ha di se stesso. Essa ha un ruolo molto importante nello sviluppo della personalità in quanto riguarda giudizi di valore personale e si sviluppa profondamente sia attraverso l'identificazione di se stessi in figure di riferimento, sia con l'insieme di messaggi che una persona riceve dagli altri sulla propria immagine (Avalle, Maranzana, 2007). Una persona può ritenersi 29


inutile in una certa circostanza senza perdere la propria autostima o viceversa (Mone, Baker e Jeffries, 1995). Steele ha riscontrato che i bambini che godono di buona autostima avevano genitori che li accettavano, che proponevano standard espliciti e raggiungibili e che davano ai propri figli molto sostegno. Il senso di valore personale, pertanto, dipende dalle valutazioni ricevute dagli altri (Steele, 1996). La clownerie consente di superare le difficoltà relazionali, favorisce l'integrazione tra i gruppi e offre la possibilità di cambiare temporaneamente identità tramite il mascheramento, grazie all'utilizzo di abiti particolari e colorati che mettono in rilievo le imperfezioni individuali invece di nasconderle. Questa può essere, quindi, un'occasione per i bambini e i ragazzi con difficoltà psico-motorie di accettare i propri limiti psico-fisici e di poter essere, almeno per poco, qualcun'altro. Infatti, vestendo i panni del clown, il bambino/adolescente nasconde il suo vero io, giacché si sente al riparo e libero dal giudizio altrui, consentendogli di essere accettato dagli altri almeno come clown (Ricci Bitti, Cortesi, 1977; Anolli, 2002). Non si può negare che l'insieme di ciò che è stato analizzato sia automaticamente legato a una migliore gestione ed espressione delle proprie emozioni: il clown lavora con le emozioni delle persone, permette loro di conoscersi meglio e di acquisire maggiore autoconsapevolezza. Quest’ultima offre libertà di decisione e un agire meno impulsivo, poiché è importante saper riconoscere le emozioni ma è fondamentale saperle gestire. L'infanzia rappresenta un'occasione importante per impartire ai bambini gli insegnamenti emozionali: la tendenza a un temperamento malinconico o allegro, timido o spavaldo, emerge nel primo anno di vita in base agli insegnamenti impartiti nell'ambito emozionale (Goleman, 2002). Il clown opera attraverso l'uso dell'autoironia che dovrebbe essere alla base della nostra vita per aiutarci a ridimensionare le situazioni difficili, ad accettare le nostre carenze e le nostre debolezze attraverso la scoperta e la riscoperta della propria comicità (Farneti, 2008). Tramite l'interazione con gli altri, si valorizza una nuova forma di comunicazione, chiamata "comunicazione non-verbale" che comprende le posizioni del corpo: la mimica, i gesti e le posture. Si è osservato che tali aspetti possano comunicare agli altri dei valori individuali e culturali che non possono essere tradotti in parole (Avalle, Maranzana, 2007). 30


Una buona gestualità, una maggiore consapevolezza dei movimenti del proprio corpo e l'assoluta libertà di fare azioni e gesti che normalmente non sono permessi, delinea l'identikit di un clown. Sul piano pedagogico, per sviluppare la comunicazione non-verbale si educa all'uso del linguaggio corporeo. Per questo, nella scuola vengono organizzate e realizzate attività dove si lavora esclusivamente col corpo: l'educazione psicomotoria, l'educazione fisica e il gioco (Avalle, Maranzana, 2007). 2.3 La clownerie all'interno dei contesti educativi

Considerando la figura del clown all'interno della struttura ospedaliera, non si può fare a meno di precisare che egli opera in un contesto socio-educativo. Il "medico clown", il "portatore di pace" o il "clown maestro", si allontanano dal loro ambiente naturale, il circo; pertanto, essendo cambiato il contesto in cui operano, è necessario che essi modifichino l'approccio comunicativo: i gesti, il linguaggio e persino il tono della voce dovranno essere più pacati, più sobri ma comunque capaci di cogliere le necessità dell'altro. Egli infatti deve, se necessario, essere disposto anche a piangere (Farneti, Carlini, 1981; Argyle, 1992). Nei diversi contesti sociali e psico-educativi, quindi, il clown diventa una figura comica e ironica e, allo stesso tempo, educativa. La persona, automaticamente, si rivede nelle azioni del clown imitandone i valori che esso porta con sé, perciò bisogna far sì che il clown sappia operare mettendo in pratica i fondamenti dell'educazione. Bertolini, nel suo libro intitolato "L’esistere pedagogico", parla di:

"Tecniche che definiamo complessivamente di «animazione» proprio in quanto sono capaci di muovere la personalità dell’educando, di stimolarlo al di là del suo presente, e quindi di dilatare il suo campo esperienziale" (Bertolini, 1995, p.250).

Come già affermato dallo stesso Pirandello, la risata e la comicità presentano una dicotomia. Nell'educazione, infatti, il riso è indicato come un utile strumento per creare una relazione collaborativa cercando di allentare la tensione in casi specifici, perciò è fondamentale instaurare un rapporto ironico per ottenere fiducia e dar vita ad una comunicazione profonda. Un sorriso spontaneo e sincero è, quindi, fondamentale per far sorgere positività e per creare un ambiente accogliente che 31


metta a proprio agio i protagonisti della relazione, facendola diventare, in questo modo, più intensa (La Porta, 1957). Invece la comicità presenta tre momenti e l'educatore deve riconoscerne il valore: 1. la conoscenza del fanciullo: il contatto umano tra educando ed educatore è lo strumento ottimale per mettere in risalto gli elementi che compongono la personalità; 2. la formazione del rapporto educativo stesso che è importante nel periodo di immaturità del soggetto: in questa fase la comicità serve per il valore sociale che deriva dall' unione del gruppo; 3. lo sviluppo della personalità di ogni soggetto che padroneggia il proprio senso del comico, personalizzandolo a seconda della sua formazione individuale (La Porta, 1957). Questa padronanza del senso comico è possibile sperimentarla e impararla attraverso le tecniche clown che operano all'interno di diversi contesti educativi: dai luoghi più critici dove la sofferenza deriva dalla malattia, dalla sensazione di inadeguatezza e dal disagio psicologico, ai luoghi più semplici come l'ambiente scolastico dove, i ragazzi con problemi di disciplina e di disadattamento sociale rappresentano il terreno più adatto al lavoro di queste figure in grado di affiancarsi alle situazioni più ostili con il loro semplice sorriso (Farneti, 2004). Il clowning è una tecnica che permette di cambiare la percezione del sé in senso positivo dando luogo a nuovi schemi e a caratteristiche innovative utili ad affrontare alcuni dei problemi legati alla realtà scolastica. Il clowning inizialmente crea una prima relazione con il bambino o il ragazzo e contemporaneamente usa il suo metodo avendo come scopo ultimo le finalità educative (Menditto, 2000).

2.3.1 La figura del clown nelle carceri

Le carceri vengono viste spesso come un luogo dove si è obbligati a stare rinchiusi per scontare una colpa, ma è bene ricordare che il fine ultimo è quello di programmare una rieducazione e, in un secondo momento, di lavorare affinché il condannato possa reinserirsi all'interno della società (Sartarelli, 2003). Il detenuto conosce le regole e ne riconosce l'importanza ed è consapevole del fatto

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che le leggi sono indispensabili per regolare una società basata sulla democrazia. Tuttavia è incapace di rispettarle, in quanto il suo vissuto e le sue esperienze gli impediscono di interiorizzarle e farle proprie (Favretto, 2006). Affinché si possa parlare di rieducazione, il detenuto deve riconoscere il proprio errore, deve avere fiducia in se stesso, deve essere motivato e disponibile a condividere il progetto educativo che gli permetterà di scoprire la possibilità di una nuova relazione con gli altri (Dettori, 2010). In un contesto come quello del carcere è indispensabile che il clown volga lo sguardo alla

ricchezza di ogni essere umano, rimuovendo totalmente i propri

pregiudizi: deve essere capace di applicare "l'epochè", cioè la sospensione del giudizio. Solo con questo approccio, unito all'accettazione a priori dell'altro, si può pensare di lavorare in tale ambiente con lo scopo di creare le condizioni affinché il detenuto possa esprimere le proprie qualità e, da queste, trarne consapevolezza (Sartarelli, 2003). Negli ultimi dieci anni, si è potuto notare che diverse persone si recano spontaneamente nei penitenziari per collaborare affinché avvenga il cambiamento di recupero; questo scopo spesso viene raggiunto usando le caratteristiche e le competenze dei clown. Nonostante non sia un obiettivo facile da raggiungere, i volontari clown, spendendosi al massimo e cercando di creare un clima di gioia, di ascolto, di accoglienza e fiducia spesso sconosciuti in quei luoghi, cercano di trasmettere la felicità di vivere a chi, in un modo o nell'altro ne manifesti la mancanza o ne espliciti la necessità (Mancuso, 2001). Il loro obiettivo primario è, infatti, quello di migliorare l'ambiente e la qualità della vita stessa attraverso attività di giocoleria e mimo, favorire le comunicazioni nonverbali, aumentare le capacità artistico espressive, promuovere la capacità di mettersi a disposizione degli altri con un approccio gioioso, far acquisire fiducia nei confronti degli altri e della propria realtà, potenziare la creatività e il pensiero e, infine, rendere capaci di ironizzare su se stessi e di sdrammatizzare le proprie paure (Mancuso, 2001).

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2.3.2 La figura del clown nella scuola

Nella scuola si dà poca importanza alla felicità degli alunni: gli insegnanti, troppo preoccupati di raggiungere gli obiettivi imposti dal Ministero, utilizzano il linguaggio verbale

spesso come unico linguaggio esistente; valorizzano

maggiormente il controllo e l'autocontrollo sottovalutando il pensiero divergente e creativo. Anche nella scuola dell'infanzia si organizzano attività collegate a finalità programmate che lasciano pochissimo tempo al gioco libero e ai giochi di ruolo, condizioni tanto importanti perché si manifesti l'attitudine di ciascun bambino. Purtroppo, anche nella quotidianità, gli adulti tendono spesso a pianificare ogni minuto del tempo dei più piccoli con un susseguirsi di impegni (Farneti, 2008). Il clowning è già stato sperimentato nelle scuole di ogni ordine e grado: dalla scuola dell'infanzia, alle superiori e persino all' Università, chiaramente con finalità differenti in base alla fascia di età. Per far sì che i bambini possano liberamente esprimere le proprie emozioni e i propri sentimenti, il clown si serve di attività che ottimizzano la comunicazione attraverso il corpo e la mimica facciale e, per ottenere questo, talvolta coinvolge genitori e insegnanti (Ricci Bitti, 2000; Belfiore, Colli, 1998 a, 1998 b). La clownerie nella scuola può essere introdotta come una metodologia del tutto nuova che permette di sviluppare la creatività, di accettare se stessi con i propri limiti e di migliorare la relazione all'interno del gruppo classe e fra insegnanti e alunni (Farneti, 2008). Spesso si tende a sminuire l'importanza della risata. Un proverbio africano dice:

"Il riso di un bambino è il fondamento per la casa" (Kenya)

Non solo in casa, ma anche in un ambiente come la scuola primaria è importante permettere agli studenti di esprimere se stessi. In Italia gli insegnanti conoscono in maniera superficiale il linguaggio degli studenti e pensano che il linguaggio-riso sia un elemento di disturbo. Generalmente è la componente seria e burocratica a prevalere e questo non permette ai ragazzi di sviluppare le potenzialità emergenti. 34


In altri contesti scolastici, come ad esempio in America, la situazione è diversa perchè si vive con maggior fantasia la formazione dei ragazzi; infatti, grazie ad alcuni corsi di aggiornamento per docenti, si lavora sulla risata come prevenzione al disagio giovanile (www.dottorclownpadova.it). Anche nel nostro paese, negli ultimi tempi qualcosa fortunatamente sta cambiando: il clown sta cominciando ad entrare nelle scuole all’interno di un programma atto a migliorare la comunicazione tra docenti e studenti, nonché ad invogliare quest’ultimi a raccontarsi senza tanti timori (www.dottorclownpadova.it). Con i bambini il rapporto è naturalmente più facile: essi si lasciano guidare prevalentemente dall'istinto e dalla spontaneità e non essendo in grado di controllare le emozioni relative al pensiero astratto, giocano sul concreto, sulle proprie esperienze, sul "fare", per cui dalla seconda e terza elementare in poi si può lavorare utilizzando l’umorismo, anche perché i bambini hanno una naturale inclinazione verso la risata. Durante la scuola primaria l'educazione al clowning assumerà una significatività maggiore in quanto, in questa fascia d'età, il bambino è capace di gestire e di usufruire al massimo delle sue abilità espressive e mimiche, consentendogli di sfruttare più adeguatamente la modalità giocosa che caratterizza questo personaggio (Vianello, Lucangeli, 2004). Nella scuola superiore di primo grado, il clowning potrebbe essere un’occasione per un primo approccio con i ragazzi e ciò può avvenire soprattutto durante la fase di accoglienza, cioè nel delicato momento di passaggio tra le due scuole di ordine diverso. Attraverso modalità tecniche, teatrali e ginniche, seguite sempre dalla riflessione e da un lavoro di presa di coscienza, si aiuta il ragazzo a costruire la propria personalità e soggettività (Alberini e Barchi, 1981; Alberini,1982). Grazie ad alcune esperienze svoltesi nelle scuole superiori di secondo grado, si può dire che mantenendo un clima di umorismo nei primi giorni di scuola, si sono formati gruppi-classe più collaborativi e cooperativi (www.dottorclownpadova.it). In conclusione, un buon insegnante dovrebbe porsi tre obiettivi: aiutare i bambini e i ragazzi a maturare per diventare gli uomini del domani, favorire lo sviluppo dal punto di vista intellettuale fornendo loro la cultura necessaria e, infine, ottenere in qualunque attività il loro coinvolgimento del tutto spontaneo. Il raggiungimento di tali obiettivi produce l'ammirazione e l'affetto degli studenti che, per un insegnante,

35


corrisponde al traguardo più gratificante. Tutto ciò è possibile se l'insegnante oltre ad assumere il ruolo di guida che gli compete si predispone ad ascoltare con orecchio attento gli alunni che gli vengono affidati (Petter, 2006):

"(…) un bambino, un ragazzo o un adolescente stabilisce un rapporto affettivo positivo nei confronti di quelle persone che, con una certa continuità, interagendo con lui, lo aiutano a crescere" (Petter, 2006, p.35)

2.4 Il gioco come strumento educativo

"Il gioco è il primo grande educatore" Baden-Powwell

Per il bambino il gioco rappresenta l'unico impegno della sua giornata ed è un'attività indispensabile alla sua vita, tanto che si può avanzare il concetto di "bisogno fisiologico". Il gioco viene vissuto nella realtà di ogni luogo e paese, ma deve svilupparsi in modo libero e piacevole, si gioca per crescere e non per raggiungere altri fini (Staccioli, Hoffmann, 1985). Poiché il bambino gioca in maniera consapevole, vive le esperienze da protagonista e utilizza il pensiero creativo, il gioco dà la possibilità di educare e di auto educarsi, in quanto le abilità vengono sfruttate in maniera ottimale. Tramite i giochi di finzione si facilitano i rapporti sociali, si inizia a conoscere i ruoli che saranno svolti da adulti, e si acquisisce la consapevolezza che tutto ciò che accade durante il gioco può essere modificato: si può "tornare indietro" e far sì che ciò che è avvenuto non sia mai successo (Agesci, 2010). "Attraverso il gioco il bambino impara a conoscere se stesso: i suoi pregi, i suoi difetti, le sue paure, i suoi desideri e i suoi bisogni" (Agesci, 2010, p.54).

Il gioco dà la possibilità di stimolare numerosi aspetti: quelli intellettuali e quelli legati alle abilità corporee e motorie, è considerato un mezzo valido per migliorare e consolidare le relazioni con gli altri, permette di lavorare sullo sviluppo della creatività, sulla gestione delle emozioni e sul controllo dell'ansia (Bianchi, Parisio di Giovanni, 2007). 36


Per poter giocare al meglio è necessario che il bambino riconosca l'importanza delle regole e la consapevolezza che queste devono essere rispettate. Affinché il gioco sia regolare spesso è presente la figura dell'arbitro che controlla e supervisiona; per vivere in prima persona il senso di giustizia e di lealtà è importante far interpretare questo ruolo ai bambini stessi (Staccioli , Hoffmann, 1985) Grazie al principio di emulazione, durante il gioco, si insegna la disciplina, l'altruismo, il rispetto per l'ambiente e la maturazione di alcuni aspetti della personalità: come la pazienza e la tenacia. Chi gioca viene spronato, anche dai compagni di squadra, a raggiungere il massimo delle sue qualità, egli lavorando sulle sue possibilità, acquisisce una maggiore padronanza di sé, prende coscienza del proprio corpo e dei propri limiti, soddisfa il desiderio innato di realizzarsi: ogni individuo ha necessità e voglia di fare cose per affrontare con successo le difficoltà della vita (Baden -Powell, 2009). "Nel gioco si conoscono i ragazzi. Il gioco tira fuori la vera personalità di un ragazzo, ciò che veramente è, libera tutte le sue passioni" (San Giovanni Bosco)

Nella storia della pedagogia, Loocke fu uno dei primi pedagogisti che approfondì l'importanza del gioco, sosteneva che sviluppasse nel bambino qualità cognitive e morali collegate al miglioramento delle abilità manuali e delle proprie capacità. L'insieme di queste qualità possono essere analizzate da un punto di vista produttivo ma anche come occasione di svago (Calidoni, 2004). Friedrich Frebel riteneva le attività espressive un utile strumento di apprendimento e di esplorazione. La didattica si svolgeva nel Kindergarten (Giardino d'infanzia) e si lavorava sul rapporto diretto con la natura superando, per la prima volta, l'atteggiamento assistenzialistico nei confronti dell'infanzia e ci si poneva in un ottica educativa. Il materiale utilizzato poteva essere naturale (terra, creta, sabbia) o strutturato (oggetti geometrici) e veniva chiamato "dono" (Calidoni, 2004). In seguito le sorelle Agazzi istituirono la scuola materna seguendo alcune indicazioni froebeliane dove il bambino impara facendo, acquisisce le abilità e affina le proprie capacità attraverso il fare (Calidoni, 2004). Successivamente la Montessori, con la scuola dell'infanzia a misura di bambino, ha permesso

di

sottolineare

l'importanza

della

conoscenza

senso

motoria,

dell'esperienza e della manipolazione come momenti fondamentali della 37


conoscenza. Grazie ai suoi studi, ha potuto dimostrare che se si incoraggia e si pone l'accento sui desideri naturali del bambino, lo si può educare in un ottica più solida e ampia, perché, se si propongono attività che stimolano le sue passioni e i suoi interessi, egli potrà acquisire autonomamente quegli aspetti caratteristici del carattere

che, da adulti in una prospettiva futura, potranno essere messi a

disposizione degli altri (Baden -Powell, 2009). "Un bambino che non gioca non può considerasi un bambino, mentre un adulto che non gioca ha smarrito del tutto il "bambino" che portava al suo interno" (Pablo Neruda)

Un gioco eccessivamente tecnologico ed individuale non stimola la fantasia e la finzione del "facciamo finta che": fondamentali per sviluppare la creatività dei bambini (Avalle, Maranzana, 2007), ne elimina la dimensione sociale perchè non esiste funzione svolta dal gruppo dei partecipanti: non si è autori del gioco ma semplici esecutori. In conclusione è doveroso sottolineare che i bambini devono essere aiutati a raggiungere la propria autonomia, in modo da permettere loro di adattarsi ad ogni situazione e di risolvere autonomamente e responsabilmente i problemi. Tramite il divertimento l'obiettivo si può realizzare più facilmente: il gioco è in grado di offrire un aiuto prezioso a tutte quelle istituzioni che, a vario titolo, si occupano dello sviluppo psicofisico del bambino. Quindi, bisogna lavorare per far sì che sia presente negli oratori, nelle ludoteche, negli scout, negli ospedali, nelle scuole di ogni ordine e grado.

2.4.1 Strumenti specifici utilizzati dal clown

Durante i suoi spettacoli, il clown impiega materiale strutturato specifico: palline colorate, diablo, libri magici, fiori, anelli e occhiali giganti che spruzzano acqua e piccoli oggetti che vengono utilizzati per mettere in scena attimi di micro magia. In particolare, per coinvolgere i più piccoli, impiega il trucco per colorare le loro facce e trasforma palloncini che, su richiesta dei bambini, vengono sagomati in animali, spade, fiori e cuori. All'interno dell'esibizione clownesca è possibile riconoscere tre tecniche specifiche: la sberla o schiaffo, il calcio e la caduta. 38


La sberla o schiaffo È l'imitazione di uno schiaffo che in realtà non viene dato: il clown che dà lo schiaffo deve far finta di impiegare la stessa forza che userebbe se avesse davvero intenzione di colpire e allo stesso tempo deve essere coordinato nel fermare la mano il più vicino possibile al viso di chi deve riceverlo. L'effetto della sberla potrebbe non riuscire se la distanza fosse eccessiva. D'altro canto il compagno deve mostrarsi rilassato, le braccia possibilmente vicino al corpo e, facendo molta attenzione a cogliere il momento preciso, dovrà battere le mani con un colpo secco e immediatamente dopo avvicinare la mano alla guancia colpita. Perché il tutto funzioni, facendo sembrare l'episodio del tutto vero, è indispensabile che i due clown siano in perfetto sincronismo (Zucca, 2011).

Il calcio È la riproduzione di un calcio che in realtà non viene dato; qui i movimenti devono essere esagerati e, anche in questa tecnica, il sincronismo è di fondamentale importanza: chi dà il calcio deve avvicinare la parte interna del piede al fondo schiena del compagno e contemporaneamente, con la mano deve colpire il proprio sedere provocando maggior rumore possibile. Il secondo clown deve soltanto enfatizzare la reazione al calcio subito, spesso utilizza il pianto e a volte anche la caduta (Zucca, 2011).

La caduta da in piedi all'indietro Perché questa tecnica riesca, la caduta deve avvenire realmente e il tutto deve essere eseguito provocando molto rumore. Per evitare di farsi male, il clown deve mettere in atto la coordinazione motoria e controllare i movimenti del corpo nei minimi dettagli. La caduta viene utilizzata in continuazione: in seguito a una sberla o a un calcio, talvolta al semplice tocco del clown Bianco (Zucca, 2011). All'interno di un gags, tramite l'utilizzo degli strumenti e delle tecniche su descritte, il clown crea la possibilità di mettersi in relazione con un altro clown o direttamente con il pubblico. Da un punto di vista educativo vengono sviluppate le abilità di cooperazione, di improvvisazione, empatiche ed emotive (Zucca, 2011).

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2.5 Un'esperienza sul campo

Alessandra Farneti, docente di Psicologia dello sviluppo presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna, durante le sue lezioni, per affrontare il tema del clown, raccontò ai suoi studenti l'esperienza maturata nel gruppo di Pacht Adams, in Siberia. Essi si appassionarono talmente tanto ed il loro coinvolgimento fu tale da suscitare una gran voglia di replicare l'esperienza in Italia provando a ricoprire essi stessi, almeno per una volta, panni del clown. Insieme programmarono di andare per le strade per portare un messaggio di gioia e di felicità e divertimento fine a se stesso. Lo scopo dell'esperimento era quello di ricreare il clima e l'ambiente creatosi dal gruppo di volontari di Adams in Siberia, per dar vita a una giornata prettamente da clown, dove non doveva mancare l'elemento sorpresa; infatti l'esperienza

non

aveva un canovaccio ben preciso ma doveva svolgersi in una condizione del tutto imprevista. Nella nostra società e nella nostra cultura non si fa nulla senza ricevere denaro o qualcosa in cambio, il rapporto con "l'altro" è condizionato dall'individualismo e dalla diffidenza, per cui la previsione era che sarebbe stato difficile riscontrare lo stesso successo che avevano avuto in Siberia, dove il circo è familiare nella loro cultura. La preparazione consisteva nel vestirsi e truccarsi da clown, riempirsi le tasche di palloncini e di adesivi di semplici scritte e facce sorridenti (smile); così abbigliati gli studenti si riversavano per le vie della città, privilegiando le strade più affollate e preferendo un orario dove il traffico era intenso e con molta serenità e tranquillità entravano in relazione con chiunque si trovasse in strada e con il loro consenso fissavano ai vestiti gli adesivi. I cittadini hanno risposto positivamente, in particolare si può dire che quasi tutti hanno reagito col sorriso, molto incuriositi da quello che stava succedendo. Tra gli anziani, più liberi dai freni sociali, e gli studenti si è creata una inaspettata complicità, e i bambini, accompagnati dai loro genitori, scherzavano con i clown; chiedevano loro palloncini e adesivi. Solo alcuni, per indifferenza o forse per timore, preferivano allontanarsi. La festa è terminata nell'atrio della Facoltà dove la professoressa ha presentato gli studenti al personale docente e non docente.

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L'aspetto più positivo di tale esperienza è stato quello di rendere il docente "più umano" agli occhi dei ragazzi, i quali hanno ringraziato la professoressa Farneti per essere riuscita a spogliarsi del proprio ruolo, decidendo di vivere in prima persona tale evento insieme ai suoi studenti: essa aveva rinunciato a " quella specie di aurea che viene dal ruolo" (Farneti, 2004). Uno dei valori psicologici della maschera del clown è quello di consentire di guardare oltre quello che si vede solamente con gli occhi (Farneti, 2004). Anche un proverbio africano dice:

"E' cieco chi guarda con gli occhi soltanto" (Senegal)

Infatti, quando si acquisisce la capacità di perdere le abitudini e gli schemi che bloccano in comportamenti fissi, rigidi e standardizzati dalla società, si scoprono idee nuove, si ampliano i propri orizzonti e si guarda il mondo con occhi diversi (Farneti, 2004).

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CAPITOLO 3: Ricerca sperimentale

Premessa

Tramite la ricerca si vuole analizzare l'importanza dell'autoefficacia nella gestione delle emozioni e nei processi di scelta, in quanto questa ne determina la validità. Bisogna sapere che, in base alle proprie convinzioni di autoefficacia, l'individuo è in grado di condizionare positivamente o in maniera negativa, da un punto di vista psicologico e relazionale, tutto quello che deve affrontare nella vita (Bandura , 2005). In campo universitario, per autoefficacia si intende la capacità che lo studente dovrebbe avere per far fronte alle difficoltà che si presenteranno durante il corso di studi. Grazie alle ricerche effettuate in questo campo è possibile osservare che vi è uno stretto legame tra il livello di autoefficacia che il ragazzo ha al momento dell'iscrizione e chi continua gli studi universitari: infatti chi ha un'alta considerazione delle proprie capacità porta a termine con facilità e con ottimi voti il corso di studi, mentre si riscontra una diminuzione della motivazione, che può portare lo studente a lasciare l'università, in chi ha una più debole convinzione di autoefficacia (Bouffard-Bouchard, Parent e Larivée, 1991). In Italia, l'abbandono degli studi universitari è un fenomeno in aumento, soprattutto nel periodo che va dal primo al secondo anno; tramite una ricerca, pubblicata nella rivista "Età evolutiva, rivista di scienze dello sviluppo", si è potuto constatare che lo studente che non possiede valide ed efficaci strategie di studio arriva agli esami con una preparazione inadeguata, i risultati così ottenuti lo portano a vivere emozioni negative che abbassano la motivazione e di conseguenza farà più facilmente la scelta di rimandare o interrompere gli studi (Mega, Pazzaglia e De Beni, 2008). Quindi possiamo affermare che, nei corsi universitari, il rendimento dipende in maggior misura dalla forza di autoefficacia (Lent, Brown e Larkin, 1987), dalle capacità cognitive, dalle motivazioni e dalla capacità di avvalersi delle conoscenze pregresse (Schunk, 1989). Andando a verificare le differenze fra l'autoefficacia maschile e femminile, Zilber (1988) sostiene che le donne sono più esposte all'insuccesso rispetto agli uomini; per quanto riguarda lo studio le studentesse universitarie attribuiscono i propri

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successi a motivazioni esterne, il caso o la fortuna, e gli insuccessi a cause interne, come per esempio la mancanza di capacità; questa modalità di ragionare le porta ad abbassare il livello della convinzione di efficacia, condizionando negativamente la qualità delle prestazioni. Gli uomini, invece, attribuiscono i propri successi a cause interne, i buoni voti e le situazioni positive sono considerati come risultato delle loro capacità, mentre gli insuccessi, la difficoltà dei compiti e la non riuscita, sono conseguenze di fattori esterni indipendenti

dalla loro volontà e difficilmente

modificabili (Zilber, 1988). In ambito lavorativo, Hackett dà prova di come le convinzioni di efficacia personale determinino un ruolo fondamentale nella scelta di una professione: se un individuo è certo di svolgere al meglio un determinato compito, il suo senso di efficacia produrrà ulteriore interesse per il lavoro che, a sua volta, accrescerà la qualità delle prestazioni professionali successive (Bandura , 2005). Pare essere di fondamentale importanza l'acquisizione di quelle abilità, comunemente chiamate Life skills o "abilità per la vita", che danno modo di affrontare efficacemente le sfide e gli ostacoli dell'esistenza. Tra queste ve ne sono alcune che permettono all'individuo di decifrare le innumerevoli informazioni da cui viene bombardato quotidianamente: riuscendo a comprenderne il significato e a interpretarle in maniera attiva e costruttiva, egli è capace di fare una valutazione critica e consapevole. Incrementando nei giovani il "pensiero critico" si formano cittadini in grado di rincorrere e padroneggiare le scelte individuali e in grado di partecipare responsabilmente alla vita sociale (De Leo, 1986). L'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha individuato l'educazione alle Life skills come uno degli obiettivi fondamentali per arricchire e promuovere l'autonomia e la responsabilità nei giovani, gli adulti del domani (WHO, 1993). Una delle agenzie preposte a tale educazione è sicuramente la scuola: affinché si possa programmare un progetto efficace e produttivo sarà necessario creare un gruppo di lavoro motivato e altamente qualificato che dovrà comprendere genitori, insegnanti, psicologi e pedagogisti. All'interno del gruppo si dovrà condividere la responsabilità di ciascuno e, perché il progetto riesca, si devono decidere sin da subito gli obiettivi, i contenuti, il gruppo target e le strategie su cui lavorare (De Leo, 1996). Grazie alle ricerche svolte, si può sostenere che i programmi a breve termine hanno riscontrato l'acquisizione delle informazioni, mentre nei programmi a

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lungo termine si evidenza l'assunzione di nuovi comportamenti che restano invariati nel tempo. Per agire in maniera efficace è più utile intervenire nel periodo che va dai cinque ai sedici anni, età in cui il bambino/ragazzo non ha ancora sperimentato i sentimenti di inadeguatezza tipici dell'adolescenza, e durante il quale pare essere meno problematico trasformare e correggere comportamenti già acquisiti (Boda, Mosiello, 2005). La progettazione di programmi volti all'educazione delle Life skills deve seguire alcuni presupposti basilari: adattare le modalità di intervento ai bisogni dei ragazzi; sviluppare abilità che possano essere applicate nella vita di tutti i giorni; rendere l'alunno capace di intervenire in modo attivo nel proprio processo di apprendimento e infine offrire agli studenti la possibilità di sviluppare sicurezza nelle proprie capacità individuali tramite l'incremento dell'autonomia e del personale senso di responsabilità (Boda, Mosiello, 2005). Le linee guida presentate dall'OMS

fanno riferimento ad alcune abilità che

agiscono sia nella sfera cognitiva che in quella delle competenze di tipo relazionale e sociale, e altre che vanno a comporre la "sfera" emotiva, ma che sono comunque collegate e interscambiabili le une con le altre. A questo punto si ritiene utile elencare quali abilità psico-sociali vengono considerate indispensabili per affrontare con efficacia esperienze di vita: a)

capacità di prendere decisioni e di risolvere i problemi

b)

esercizio del pensiero critico e creativo

c)

comunicazione interpersonale

d)

gestione dello stress

e)

gestione delle emozioni

f)

empatia (Caprara, 2001, p.138)

Analizziamo più dettagliatamente gli ultimi due punti dell'elenco: la gestione delle emozioni e l'empatia. L'autoefficacia percepita è strettamente legata alla gestione delle emozioni: con questa abilità si intende la capacità di individuare le emozioni, che consapevolmente o inconsciamente condizionano il nostro modo di agire, e di regolarle nella maniera adeguata alla situazione (Boda, Mosiello, 2005). Un'alta percezione dell'efficacia emozionale migliora le relazioni interpersonali, fortifica la propria identità e rende capaci di valutare positivamente il proprio sé e le situazioni che si verificano nella vita di tutti i giorni (Argyle, 1999). 44


L'attenzione che si deve porre alla "sfera emotiva" dei ragazzi, impone agli insegnanti l'utilizzo di strumenti specifici, che permettono lo sviluppo di aspetti connessi alle capacità intellettive ma all'interno di attività che riguardano la gestione delle emozione e delle relazioni (Caprara, 2001). Non è mai facile fare delle scelte che influenzeranno sia il periodo formativo che il futuro lavorativo; inoltre ad aggravare le scelte interviene spesso l'insicurezza nelle proprie capacità e gli interessi che cambiano continuamente (Bandura, 1997; Hachett, 1995; Lent, Brown e Hackett, 1994). La capacità di scegliere la professione in maniera consapevole e di portare a termine gli obiettivi prefissati viene fortemente influenzata dall'autoefficacia percepita dal singolo e automaticamente si mette in relazione con i processi cognitivi, affettivi ed emozionali (Bandura, Barbaranelli, Caprara , e Pastorelli, 1996; Hackett, 1985; 1995; Scunk, 1989; Zimmerman, 1995); chi è dotato di un'alta considerazione personale generalmente non vive situazioni di oppressione o di eccessiva preoccupazione (Lazarus e Folkman, 1984); chi è capace di

nutrire

fiducia in se stesso e nelle proprie capacità, anche in situazioni difficili, è sicuro di ottenere i risultati sperati. Nel libro "Orientamenti per l'orientamento" si fa riferimento all'importanza che Malatesta dà alle emozioni:

"(…) Malatesta

concepisce le emozioni come l'asse portante della personalità

dell'individuo e ipotizza che la struttura emotiva funzioni (…) come una predisposizione che dirige i processi percettivi, cognitivi e le azioni comportamentali di ciascun individuo" (Malatesta, 1990, p.116).

In seguito a questa constatazione appare evidente come vi sia una stretta correlazione fra la gestione delle emozioni e l'autoefficacia empatica, in quanto questa sembra influenzare le relazioni con gli altri sia dal punto di vista della sensibilità che da quello dell'accettazione senza preconcetti. Quanto più il singolo è in grado di rapportarsi con gli altri in maniera positiva, tanto più risulta capace di inserirsi costruttivamente nella vita sociale (Caprara, Gerbino e Della Fratte, 2001). Nel linguaggio della psicologia l’empatia viene definita come:

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"la capacità di immedesimarsi in un'altra persona al punto di coglierne i pensieri e gli stati d'animo. In genere questa capacità viene contrapposta alla comprensione razionale, in cui è possibile riconoscere la "logica delle azioni dell'altro senza però "sentire " le emozioni e i desideri che ad esse si collegano" (Avalle, Maranzana, 2007, p.43)

Per autoefficacia empatica quindi, si intende la convinzione relativa alla propria capacità di "riconoscere i sentimenti, le emozioni e le necessità degli altri" e a valutare in che misura si è disposti ad aiutare e sostenere "l'altro" senza che questi ne faccia specifica richiesta (Caprara, 2001, p.53). Per concludere si è pensato di effettuare una ricerca che verificasse il valore attribuito dagli studenti all'importanza dell'autoefficacia percepita e all'influenza che questa determina nella vita personale del singolo. 3.1 Obiettivi ed ipotesi

L'ipotesi della ricerca è quello di riuscire a verificare se il training di clowning psico-educativo risulti efficace nello sviluppare l'autoefficacia nella gestione delle emozioni e l'autoefficacia empatica nei partecipanti che hanno svolto il training. Il lavoro è stato portato avanti improntando attività relative alla: •

comunicazione verbale e non-verbale: che ha permesso di capire che si

comunica non solo con le parole ma anche con il corpo e la mimica facciale; •

capacità di partecipare ad attività in coppia e in gruppo: uno degli

esercizi che ha come fine ultimo l’imparare ad ascoltare, consisteva nello stare seduti uno di fronte all’altro e, a turno, nello stare in silenzio per cinque minuti mentre l’altro parlava di sé. È emersa sia la difficoltà nello stare in silenzio ad ascoltare che nel mettersi a nudo davanti a un estraneo; •

conoscenza dei primi insegnamenti sulla struttura delle gags: è stato

possibile sperimentare e apprendere le basi di interazione tra due clown, come il "doppio" o la "sberla"; •

capacità di acquisire una buona gestione del movimento del proprio

corpo collegato ai processi comunicativi. Lo scopo del corso era quello di portare i partecipanti ad acquisire competenze e abilità rispetto alle diverse aree legate alla comunicazione, l'empatia e il riconoscimento delle proprie emozioni. 46


3.2 Campione

Il campione è costituito da studenti universitari, iscritti al terzo anno nel corso di laurea in Scienze dell'Educazione e della Formazione, della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Sassari, frequentanti il corso di Psicologia dello sviluppo e dell'educazione. I soggetti del campione, tutti di sesso femminile, hanno un età compresa tra i 21 e i 26 anni (età media: 24.7; DS 5,63).

3.3 Strumenti e metodologia

Lo strumento della ricerca, mediante il quale è stato possibile procedere, è un questionario composto di due parti . Nella prima parte è presente una scheda informativa, tramite la quale vengono richieste informazioni generali: nome e cognome, età, genere, corso di laurea, residenza, lavoro, titolo di studio e professione dei genitori, tipologia di diploma, voto di maturità. Nella seconda parte sono presenti il Questionario sull’autoefficacia nella gestione

delle emozioni negative e nell’espressione di quelle positive (Caprara & Gerbino 2001), composto da 15 items di cui 8 relativi alle emozioni negative e 7 a quelle positive e il Questionario sull’autoefficacia empatica (Caprara, Gerbino, Frattini 2001), composto da 12 items.

Tra gli strumenti, oltre a quelli di misurazione, è stato utilizzato al fine della ricerca il training di clowning psico-educativo che si basava sull'utilizzo del metodo EDEL, proposto da Zucca2 (2011). Tale metodo può essere indirizzato: a) ai bambini tramite il gioco; b) agli adolescenti, attirando inizialmente la loro attenzione con attività di giocoleria e lavorando in seguito sulle problematiche, sui conflitti interiori, sui problemi esistenziali e le prime trasformazioni tipici di quell'età; c) agli adulti per vincere l'imbarazzo e per imparare a gestire le proprie emozioni, così come proposto agli studenti universitari.

2

Il training di clowning è stato svolto, secondo il modello psico-educativo da lui sperimentato, dal Dott. Daniele Zucca, con gli studenti del corso di Psicologia dello sviluppo tenuto dal Prof. Nuvoli.

47


Il metodo EDEL può essere descritto come un processo circolare composto da quattro tappe: 1.

esperienza: si presentano le attività che permetteranno di prendere

confidenza con il mondo del clown; 2.

descrizione: caratterizzata dalla descrizione di quello che si è vissuto nella

prima tappa, necessario per capire in che direzione si sta lavorando; 3.

espressione individuale/di gruppo: ognuno dei componenti è invitato a

esprimere i propri sentimenti e le emozioni personali, al fine di comprendere meglio a livello emotivo, cosa si è provato durante le varie attività svolte . 4.

apprendimento: le tecniche circensi vengono riportate nell'educazione e si

trasforma la tecnica in abilità educativa, in modo da concretizzare un potenziale apprendimento rispetto all'obiettivo sul quale si è deciso di lavorare. L'apprendimento risulta più significativo se svolto in un clima creativo e divertente, perché le esperienze positive rimangono in memoria per più tempo (Zucca, 2011). Di fondamentale importanza è l'utilizzo dello spazio: normalmente le aule sono occupate quasi interamente dai banchi, sistemati in file ordinate, che limitano di fatto lo sviluppo di

abilità di carattere motorio e percettivo e che blocca le

relazioni; è importante invece svolgere le attività in ampi spazi privi di costrizioni (Zucca, 2009). Durante il training, generalmente, le attività vengono svolte individualmente o in coppia e si concludono con un momento di riflessione e di condivisione, in modo da rendere tutti

i componenti partecipi delle emozioni, dei sentimenti e delle

riflessioni personali suscitate dall'esperienza. Questa modalità ha permesso di sostenere una corretta e più significativa comunicazione tra i partecipanti, i quali con il passare del tempo hanno agito con atteggiamenti e posture maggiormente rilassate e tranquille. Alcune attività vengono svolte con un sottofondo musicale per creare un clima più sereno e più giusto a un setting di lavoro recettivo. Le studentesse hanno avuto l'occasione di incontrarsi e di confrontarsi attorno ad un interesse comune: verificare come la figura del clown psico-educativo possa intervenire in maniera attiva all'interno di strutture che hanno compiti educativi. Al termine le stesse hanno valutato il training con un esito positivo; infatti, grazie ad esso hanno potuto vivere momenti molto significativi e hanno riscontrato dei

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benefici rispetto alle loro capacità interpersonali di comunicazione, di ascolto e di gestione delle emozioni.

3.4 Procedure

La modalità di somministrazione del questionario è stata semplice: alle studentesse è stato spiegato il motivo principale della ricerca; è stato detto loro che non esisteva una risposta giusta o sbagliata, ma che avrebbero dovuto scegliere le risposte che ciascuno si sentiva di dare; si è assicurata la presenza del somministratore qualora non riuscissero a comprendere il contenuto delle domande o per eventuali chiarimenti. Gli studenti che hanno partecipato all'esperienza hanno potuto focalizzare l'attenzione sul rapporto relazionale con l'altro e sulla riflessione del proprio sé.

3.5 Analisi dei dati e discussioni

I dati sono stati elaborati con il software statistico SPSS vers. 18. L'analisi della Tstudent per gruppi appaiati ha evidenziato come i due fattori esaminati tramite i test riportino una significatività statistica.

Figura 1 Autoefficacia percepita nella gestione delle emozioni positive e negative Dati medi relativi al Pre-test e Re-test. 60 58

58 56 54

54,1

52 50 48 46 44 42 40

Pre-test

Re-test

t= - 4,124; p= ,001 49


Osservando la tabella 1, si può verificare che c'è stato un incremento positivo tra i risultati ottenuti in fase di Pre--test e quelli conseguiti in fase di Re-test. test. Pertanto si evidenzia

una sostanziale significatività statistica nel misurare l'autoefficacia l'autoefficacia

percepita nella gestione delle emozioni positive e negative. negative

Figura 2 Autoefficacia empatica percepita. Dati medi relativi al Pre-test Pre e Re-test 60 58 56 54 52 50 48 46 44,1 44 42

41

40

Pre-test

Re-test

t= - 2,908; p= ,009

Prendendo in esame la tabellaa numero 2 si può constatare un incremento positivo tra gli esiti del Pre-test test e quelli del Re-test. Re test. Si rileva quindi, anche in questo caso, una sostanziale significatività statistica nella misurazione dell'autoefficacia dell'a toefficacia empatica percepita. Dall'analisi dei risultati della ricerca è stato possibile possibile rilevare un positivo cambiamento nella ella percezione di autoefficacia utoefficacia percepita nella gestione delle emozioni positive e negative e nell' autoefficacia a empatica percepita. Attraverso l'osservazione dei dati è stato possibile verificare che le studentesse, inizialmente molto insicure e succubi delle loro emozioni, mettendo in atto il "pensiero positivo" sono state in grado di riconoscerle e, in relazione alle proprie capacità emozionali, hanno dimostrato un miglioramento nella loro gestione. La ricerca ha promosso la ri-scoperta scoperta della figura del clown, clown, in particolar modo in 50


ambito educativo, e della sua grande capacità di influenzare chiunque ne venga a contatto. Una delle finalità era quella di creare situazioni di incontro attraverso la valorizzazione delle capacità di ciascuno mettendo in gioco abilità e risorse. Dalle risposte analizzate si può dedurre che le studentesse hanno reagito piacevolmente al training, hanno dimostrando interesse, curiosità e forte desiderio di replicare l'esperienza. La possibilità di interpretare tali personaggi "ricreativi", buffi, allegri e divertenti non può che procurare a se stessi e agli altri un senso di benessere, di serenità, di colori e di sane risate. Ognuno di noi può scegliere, per affrontare con ironia la vita di tutti i giorni, di portare quel simpatico naso rosso: simbolo caratteristico di un clown che aspetta solo di essere indossato.

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Il naso tutto Rosso Questa è la storia di un naso tutto rosso, che se te lo mettevi ridevi a piÚ non posso. Un giorno se lo mise il re della foresta e tutti gli animali gli fecero festa. Un giorno in una scuola lo mise il direttore, quel giorno la merenda durò per quattro ore. Un giorno in una guerra lo mise il capitano e tutti i combattenti si strinsero la mano, suonando la trombetta, puntarono il cannone sparando su nel cielo le bolle di sapone. Alzate su le mani chi ancora non l'ha messo, prendete un pennarello e fatevelo adesso. [Scaramella - Vip Applausi Roma]

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Conclusioni

Grazie a questa elaborazione ho potuto allargare i miei orizzonti in merito a quanto già conoscevo e ho potuto constatare che è proprio grazie all'ottimismo e al benessere che si possono fare passi da gigante e vedere le cose sotto diversi punti di vista. Ho imparato a vedere il lato buono delle cose anche nelle esperienze che in un primo momento mi sembravano tutt'altro che positive, ad andare oltre evitando di fermarmi al primo ostacolo, a capire che nella vita non esistono solo il bianco e il nero ma che ci sono tante sfumature di grigio, a scoprire che non vi è una soluzione esclusiva agli enigmi della vita, ma che esistono tante opportunità, bisogna essere capaci di vederle e di sfruttarle al momento giusto. A questo punto voglio riprendere una frase detta da Patch Adams alla fine di un suo convegno a Parma, che forse rappresenta un po' lo scopo che tutti noi dovremmo avere nella vita:

"Ogni mattina, quando mi alzo, scelgo di essere felice"

A chi non crede che sia così facile, il medico suggerisce il modo in cui cominciare la giornata per essere felici, provando gratitudine per tutte le cose belle che abbiamo:

"Appena svegliati, guardiamoci braccia, mani, gambe, piedi, occhi, bocca e ringraziamo chi ce le ha date. E se per strada incontriamo qualcuno che ci sorride, fermiamoci: potrebbe essere un amico che ci farà stare ancora meglio di come stiamo già".

Oggi la società sta diventando sempre più frenetica e caotica, e non si ha più il tempo di rivolgere uno sguardo amichevole a chi ci sta intorno, anche se la chiave per aprire le porte del mondo e soprattutto il cuore della gente, sarebbe proprio un semplice sorriso.

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A questo proposito voglio ricordare e fare mia la preghiera di Padre Faber, "Valore di un sorriso": Donare un sorriso Rende felice il cuore Arricchisce chi lo riceve Senza impoverire chi lo dona Non dura che un istante Ma il suo ricordo rimane a lungo

Nessuno è così ricco Da poterne fare a meno Né così povero da non poterlo donare

Il sorriso crea gioia in famiglia Dà sostegno nel lavoro Ed è segno tangibile d'amicizia

Un sorriso dona sollievo a chi è stanco Rinnova il coraggio nelle prove E nella tristezza è medicina

E se incontri chi non te lo offre Sii generoso e porgigli il tuo

Nessuno ha tanto bisogno di un sorriso Come colui che non sa darlo

A conclusione del mio lavoro, dopo aver letto tanto, sono convinta che la vita debba sempre essere affrontata e vissuta con ottimismo, cercando di vedere l'aspetto positivo di ogni esperienza. Successivamente a questo è importante insegnare ai più piccoli questo stile di vita perché possano essere “uomini felici” del domani e per questo ci tengo a sottolineare ciò che Albert Ellis sostiene a questo proposito e cioè che:

"(…) si può insegnare a un bambino solo ciò che si conosce abbastanza bene" (Di Pietro, 2008, p. V).

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Il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri.

Robert Baden Powell

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Ringraziamenti

Il mio ringraziamento va, prima di tutti, a Dio che mi ha concesso di nascere tra i più fortunati e, subito dopo, va a tantissime persone che mi sono state vicino durante tutto l'arco di questa carriera universitaria e nel momento finale della stesura della tesi: l'appoggio e l'aiuto di ciascuno di loro mi ha permesso di superare le piccole difficoltà incontrate. Il più caloroso va sicuramente alla mia famiglia, ai miei genitori, a mia sorella Martina e a mio fratello Claudio, perché mi sono stati sempre vicino supportandomi ed incoraggiandomi nelle scelte. Un grazie particolare a nonno Salvatore che mi guarda e mi protegge dal cielo e che mi accompagna, passo dopo passo, illuminando la via da percorrere. Lui mi ha sempre insegnato che nella vita è necessaria una grande determinazione e una grande forza di vivere, la stessa che lui ha continuato ad avere anche dopo quello che gli era successo. Io conservo con grande cura i suoi insegnamenti, il suo esempio mi è servito e mi servirà per superare anche gli ostacoli più difficili. A mia nonna Lucia, la migliore di tutti, che con i suoi consigli e gli incoraggiamenti mi sprona a fare scelte positive. A Giuseppe, il mio cuginetto-fratello, che fa il tifo per me e che mi ha sempre incoraggiato nei momenti di sconforto. Ai miei zii e alle mie zie, che sono per me punti di riferimento e che mi fanno sentire sempre un po’ speciale perchè sono contenti di ciò che faccio. A mio padrino e alle mie madrine, perchè nei brevi momenti in cui stiamo insieme mi spronano e mi sostengono. A Chiara D., la mia insostituibile ancora di salvezza senza la quale sarei stata persa, perchè mi tiene attaccata alla quotidianità giorno dopo giorno, con lei ho condiviso le più belle e recenti esperienze, e che continua ad essere sempre al mio fianco . A Salim, che mi è stato vicino nel momento in cui stavo per perdere le speranze; con la sua grande forza di volontà mi ha fatto capire che si poteva guardare al problema da altri punti di vista e che, solo pensando in positivo, la situazione sarebbe migliorata. A Simona e Luana, ciascuna a proprio modo mi ha dato una mano quando avevo necessità, vicine durante le lezioni e gli esami. A Chiara M., perché nel momento

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più difficile e cioè quando ho avuto bisogno di un amica lei c'era; ha sopportato i miei discorsi e con le parole giuste al momento giusto mi ha permesso di sorridere di nuovo. A tutte le colleghe nella mia stessa situazione con le quali ci siamo sostenute a vicenda: quelle conosciute e diventate amiche durante il primo anno: Barbara, Adriana, Giovanna, Irina, Pamela e quelle nuove: Adelaide, Claudia, Manuela, Silvia. A Chiara B., la mia correlatrice di fiducia! Con la sua disponibilità mi ha teso una mano e mi ha accompagnato in questo percorso. A coloro che senza saperlo mi hanno trasmesso coraggio e un modo nuovo di vedere la vita: Alex, Samantha, Luciano, Francesco e tutte le mie compagne di avventura, in quella esperienza che è stata unica e irripetibile: l'Africa. Ringrazio tutti i bambini con cui ho avuto modo di giocare e confrontarmi; le donne che con la loro semplicità nel lavorare la terra e nel cucinare, mi hanno insegnato molto più di quanto potessero insegnarmi tante parole; i giovani e i ragazzi africani che mi hanno dedicato il loro prezioso tempo per parlare e confrontarsi con me su tutto ciò che faceva parte della loro cultura e delle loro tradizioni, sui loro desideri e i loro sogni. Allo scoutismo che mi ha fatto diventare ciò che sono, perchè mi ha insegnato che è fondamentale nella vita imparare a sorridere e a cantare anche nei momenti di difficoltà. A tutti i miei lupetti e ai loro genitori, che mi hanno fatto crescere e diventare una persona "capace di compiere delle scelte e prendersi grandi responsabilità". Un ringraziamento speciale và a tutti i componenti della comunità capi, dai meno presenti ai più partecipi, perché anche con il loro aiuto e il loro sostegno ho potuto realizzare questo mio importante traguardo. A tutti i docenti e, in particolare, al professor Gianfranco Nuvoli perchè ha accolto la mia richiesta e perché, grazie alla sua professionalità e alla padronanza della materia è stato determinante nelle mie scelte. Da subito ha catturato la mia attenzione e fatto capire l'importanza inestimabile della disciplina; mi ha incoraggiato a dare il meglio di me e a perseguire i miei ideali, perché le situazioni col passare del tempo possono migliorare ma l'importante è incominciare. Al Dott. Daniele Zucca che, insieme al professor Gianfranco Nuvoli, ha concesso la mia presenza al training e che, con la sua esperienza nell'ambito educativo, mi ha

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permesso di analizzare l'aspetto della figura del clown da un punto di vista psicopedagogico e di trarne le sue qualità educative. Li ringrazio ulteriormente per avermi dato la possibilità di partecipare al corso di clownerie che si è tenuto nella città di Siviglia, dandomi così modo di interagire con studenti completamente all'oscuro di tale modalità educativa. Un grazie speciale và alla mia mamma, per avermi dato la possibilità di vivere la carriera universitaria e per avermi fatto sperimentare e vivere indimenticabili esperienze che mi hanno consentito di maturare e arrivare fin qui. Perché c'è, sempre.

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