A.D. MDLXII
U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ
DI
S CIENZE P OLITICHE ___________________________
CORSO
DI
LAUREA
IN
S C I E N ZE P O L I T I C H E
LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE E RICONOSCIMENTO DEI TITOLI NELL’UNIONE EUROPEA ALLA LUCE DEL CASO PEŚLA
Relatrice: PROF.SSA SILVIA SANNA
Tesi di Laurea di: VALENTINA TEDDE
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
A mio padre, la stella piĂš luminosa del mio cielo
A chent’annos, babbu meu in calesisiat locu sias imbÏanos bellas noas dae calecoe terra o chelu
Indice
Capitolo I: L’evoluzione delle disposizioni sulla libera circolazione delle persone nell’Unione Europea I.1 Libera circolazione nel trattato di Roma e i primi atti di
p.1
diritto derivato I.2 La libera circolazione dei lavoratori
p.4
I.2.1 L’ambito di applicazione
p.4
I.2.2 La famiglia del lavoratore
p.7
I.3 Il contenuto del diritto alla libera circolazione
p.11
I.3.1 Il diritto di ingresso
p.12
I.3.2 Il diritto di soggiorno
p.13
I.3.3 Il diritto di rispondere ad offerte di lavoro effettive
p.14
I.3.4 Il diritto alla parità di trattamento con riferimento
p.16
all’accesso all’impiego I.3.5 Il diritto alla parità di trattamento con riferimento alle
p.20
condizioni di lavoro
I.4 I limiti alla liberta’ di circolazione I.4.1 Le ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e
p.22
p.22
sanità pubblica I.4.2 L’impiego nella pubblica amministrazione I.5 La libera circolazione dei lavoratori autonomi I.5.1 La libertà di stabilimento e la prestazione di servizi
p.25
p.27
p.28
(differenze) I.5.2 Il diritto di stabilimento
p.30
I.5.3 La direttiva 96/71 relativa al lavoro distaccato
p.34
I.5.4 La direttiva 2006/123 relativa ai servizi (c.d.
p.36
Bolkenstein)
I.6 L’evoluzione della libera circolazione nei trattati di
p.37
revisione: dalla libera circolazione dei lavoratori alla libera circolazione delle persone
Capitolo II: Il riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche professionali nell’ordinamento dell’Unione Europea II.1 La necessità del riconoscimento
p.47
II.2 I titoli di studio riconosciuti nell’UE
p.50
II.3. Le direttive transitorie e settoriali: il sistema di
p.51
riconoscimento automatico
II.3.1 Le direttive settoriali riguardanti le professioni di:
p.53
medico, infermiere, dentista, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista
II.4 Le direttive sul sistema generale di riconoscimento dei
p.59
titoli II.4.1 La direttiva 89/48
p.61
II.4.2 La direttiva 92/51
p.70
II.4.3 La direttiva 2005/36
p.75
II.4.4 La proposta di riforma della direttiva 2005/36
p.90
II.5 Il particolare caso degli avvocati: le direttive 77/249 e
p.93
98/95
Capitolo III: La disciplina del riconoscimento
nella causa C-345/08 della Corte di Giustizia III.1 La richiesta di interpretazione pregiudiziale
p.99
III.2 Il contesto normativo nazionale
p.101
III.4. I fatti all’origine della controversia
p.105
III.4.1 Le posizioni delle parti
p.106
p.108
III.5. Il giudizio della Corte III.5.1 Il diritto dell’Unione Europea applicabile alla
p.108
fattispecie libera
p.109
III.5.3 I poteri e gli obblighi degli stati membri nel
p.111
III.5.2
L’applicabilità
delle
deroghe
alla
circolazione dei lavoratori
definire le condizioni di accesso ai tirocini preparatori alle professioni legali riconoscimento
p.112
III.5.5 I criteri di esame di equipollenza delle
p.115
III.5.4
Le
condizioni
per
il
dell’equipollenza
conoscenze acquisite
III.6 Conclusione
p.118
III.6.1 Conclusioni della Corte di Giustizia
p.118
III.6.2 Riflessioni conclusive
p.119
Riferimenti bibliografici
p.122
CAPITOLO I L’EVOLUZIONE DELLE DISPOSIZIONI SULLA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE NELL’UNIONE EUROPEA
I.1 Libera circolazione nel trattato di Roma e i primi atti di diritto derivato Il Trattato CE1 dedica il Titolo III alla “libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali”. Il capo I del Titolo III si riferisce ai lavoratori, i successivi, rispettivamente, riguardano la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi. Il Trattato riconosce così, in un primo momento, il diritto alla libera circolazione alle tre categorie “attive” della Comunità: i lavoratori dipendenti (artt. 48-51 CE), i liberi professionisti (artt. 52-58 CE), i prestatori di servizi (artt.59-66). Il cammino comunitario compiuto per la realizzazione di tali obiettivi non è stato sempre semplice ed ha visto coinvolta principalmente la Corte di Giustizia2, la quale con le sue 1
Considerata la più importante delle Comunità europee, nacque nel 1957 con il nome di Comunità economica europea (CEE), a seguito dell’entrata in vigore del trattato di Roma, ratificato da sei stati fondatori (Italia, Francia,Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania). La parola economica fu rimossa dal nome a seguito del Trattato di Maastricht (1992) che fece della Comunità europea il "Primo pilastro" dell'azione dell'Unione europea. 2 La Corte di giustizia delle Comunità europee (spesso indicata semplicemente come “la Corte”) è stata istituita nel 1952 dal trattato CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e ha sede a Lussemburgo. La sua funzione è garantire che la legislazione dell’UE sia interpretata e applicata in modo uniforme in tutti i paesi dell’Unione. La Corte vigila inoltre affinché gli Stati membri e le istituzioni agiscano conformemente ai trattati e ha il potere di giudicare le controversie tra Stati membri, istituzioni comunitarie, imprese e privati cittadini. È costituita da un giudice per ciascuno Stato membro, in modo da rappresentare tutti i 27 ordinamenti giuridici nazionali dell’UE. Tuttavia, per motivi di efficienza, raramente la Corte si riunisce in 1
interpretazioni e sentenze si è sempre espressa in maniera “ampia” sulle
disposizioni
dei
trattati
cercando
così
di
abbattere
sostanzialmente gli ostacoli e le discriminazioni di diritto e di fatto, che impediscono l’accesso alle attività lavorative di un Paese diverso da quello di appartenenza. Quello che è “l’elemento cardine” sul quale è imperniato l’intero sistema è il principio di non discriminazione e parità di trattamento che, sancito dall’articolo 6 del Trattato CE, trova concreta applicazione negli artt. da 48 a 66.3 . L’articolo 64, inserito nella parte del Trattato che contiene i principi ispiratori della Comunità, è stato considerato di fondamentale rilevanza dalla dottrina e dalla Corte poiché costituisce la “chiave di lettura” anche per la libera circolazione. Le norme che dovevano assicurare il diritto alle tre libertà sancite nel Titolo III avrebbero dovuto essere emanate dalle istituzioni, per consentirne l’attuazione, entro il periodo transitorio 5 ma, al termine di esso, solo le disposizioni relative alla libertà di circolazione dei lavoratori risultarono adottate. Le disposizioni del seduta plenaria. Di norma, si tratta di riunioni in “grande sezione”, costituita da 13 giudici, o in sezioni di cinque o tre giudici. La Corte si avvale dell’assistenza di otto “avvocati generali”, che hanno il compito di presentare, pubblicamente e con assoluta imparzialità, conclusioni motivate sulle cause sottoposte alla Corte. 3 Come puntualizzato da M. Orlandi, Cittadinanza europea e libera circolazione delle persone, cit., p.102. 4 L’articolo 6 del Trattato CE, corrispondente all’articolo 7 del Trattato CEE, sancisce che: 1. L'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri. 2. L'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitari. 3. L'Unione rispetta l'identità nazionale dei suoi Stati membri. 4. L'Unione si dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue politiche. 5 L’art.8 del Trattato di Roma fissava tale periodo in 12 anni, suddiviso in 3 tappe da 4 anni ciascuna, per cui il periodo transitorio doveva finire nel 1970. In realtà il termine della fase transitoria fu successivamente anticipato al 1° luglio 1968, quando fu adottata la tariffa doganale comune. 2
Trattato relative sono state integrate e completate, attraverso atti di diritto derivato, in tre fasi, corrispondenti all’emanazione di tre Regolamenti (ognuno dei quali è stato affiancato da una Direttiva volta ad armonizzare le eventuali formalità amministrative): - il Regolamento CEE n.15 del 1961 e la Direttiva del 18 giugno 1961 rendevano effettiva la libertà di circolazione del lavoratore subordinato all’interno di uno Stato membro ma consentivano agli Stati di sottoporla ad eventuali riserve. Alla parità di trattamento dei lavoratori nazionali e cittadini di altri Stati si affiancava la regola della priorità del mercato nazionale, intesa come la possibilità per un lavoratore migrante di occupare un posto di lavoro nello stato ospitante solo nel caso in cui non ci fossero candidati a quel posto cittadini dello Stato considerato. Inoltre importanti erano le limitazioni relative all’ingresso e al soggiorno della famiglia del lavoratore; - il Regolamento CEE n.38 del 1964 e la Direttiva n.64/240/CEE, sostitutivi degli atti del 1961. Le norme introdotte toglievano ai lavoratori nazionali la priorità di accesso al posto di lavoro vacante e gli Stati venivano rassicurati concedendogli la clausola di salvaguardia e la possibilità, in merito alla libertà di circolazione, di “sospendere tale diritto in una determinata regione o professione, se esiste un’eccedenza di manodopera o se l’equilibrio del mercato del lavoro è gravemente minacciato”6; - il Regolamento CEE n.1612 del 1968 e la Direttiva n. 360/68/CEE relativi, rispettivamente, alla libera circolazione dei lavoratori e alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei lavoratori degli stati membri e delle loro famiglie all’interno degli stati membri. Questi due atti sostituiscono gli omologhi atti del 1964 e costituiscono le principali fonti normative in 6
Così l’articolo 20 del Regolamento CEE n. 38/64 3
merito al libero accesso al mercato del lavoro. Ad essi si aggiunge la direttiva n. 64/221/CEE relativa al coordinamento dei provvedimenti speciali che riguardano le limitazioni alla libera circolazione delle persone, e dunque anche dei lavoratori subordinati, per quanto riguarda le ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica.
I.2 La libera circolazione dei lavoratori
I.2.1 L’ambito di applicazione L’ambito di applicazione territoriale delle norme relative alla libera circolazione dei lavoratori coincide con la sfera di applicazione dell’art. 299 CE. Oltre a trovare applicazione nel territorio degli Stati membri, la disciplina si applica anche nei territori europei di cui uno Stato membro assuma rappresentanza nei rapporti con l’estero (come ad esempio Gibilterra) e nei dipartimenti francesi oltremare.7 Definire, invece, l’ambito di applicazione ratione personae delle norme sulla libera circolazione significa individuare quali siano i soggetti a cui le stesse sono dirette e, in questo caso, individuare la nozione precisa di lavoratore. Il Trattato non dà una definizione specifica di lavoratore, ma è stata la Corte di Giustizia ad attribuire negli anni rilevanza comunitaria al concetto come risulta dall’art. 39
7
Al sesto comma dell’articolo 299: “In deroga ai paragrafi precedenti: a) il presente trattato non si applica alle Faeroer, b) il presente trattato non si applica alle zone di sovranità del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord a Cipro, c) le disposizioni del presente trattato sono applicabili alle isole Normanne ed all'isola di Man soltanto nella misura necessaria per assicurare l'applicazione del regime previsto per tali isole dal trattato relativo all'adesione di nuovi Stati membri alla Comunità Economica Europea e alla Comunità europea dell'energia atomica, firmato il 22 gennaio 1972.” 4
CE8 , con la conseguenza di non consertirne l’identificazione attraverso criteri propri dell’uno o dell’altro ordinamento nazionale. In particolare secondo la corte vanno evitate interpretazioni restrittive essendo sufficiente, per individuare un rapporto di lavoro subordinato, che una persona fornisca per un certo periodo di tempo, a favore e sotto la direzione di un’altra persona, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione 9. La prestazione fornita dal lavoratore dovrà comunque risolversi in “attività reale”, tenendosi escluse, dunque, le attività talmente ridotte da potersi definire marginali, questo perché le norme del Trattato sulla libera circolazione si dirigono (o si dirigevano) solo a
coloro
che
esercitano
o
intendano
esercitare
un’attività
economica.10 Sempre seguendo questa prospettiva la Corte ritiene applicabili le norme degli artt. 39 CE allorquando il lavoratore svolga un’attività di valore economico sotto la direzione e la sorveglianza di altro soggetto a favore del quale l’attività è prestata ricevendone una 8
Articolo 39 del Trattato CE, corrispondente all’articolo 48 del Trattato CEE: “1. La libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità assicurata 2. Essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. 3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive, b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri, c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l'occupazione dei lavoratori nazionali, d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti di applicazione stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. 4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione.” 9 Come riprendono M.P.Chiti e G.Greco (2007), Trattato di diritto amministrativo europeo, seconda edizione, Milano, p.121. Cfr. la sentenza della Corte del 3 luglio 1986, 66/85, Lawrie - Blum in Racc., 1986 p. 2121 ss. 10 Cfr. la sentenza della Corte del 23 marzo 1982, 53/81, Levin, in Racc., p 1035 ss., punti 15-17. Il principio è stato ripreso nella sentenza del 3 giugno 1986, 139/85, Kempf, in Racc. p 1741 ss., punti 10-14. 5
retribuzione, essendo ininfluente che si tratti, per il lavoratore, di un periodo di preparazione pratica collegata all’esercizio vero e proprio dell’attività professionale, come nel caso del tirocinanti
11
. La
nozione di lavoratore dipendente di cui all’art.48 è espressione del diritto comunitario e proprio per questo prescinde da qualsiasi nozione di lavoratore adottata su base nazionale, infatti, se il significato del termine dovesse ricavarsi dal diritto interno, ciascuno Stato potrebbe modificare la portata della nozione di “lavoratore migrante” ed escludere a suo piacimento determinate categorie di persone dalle garanzie offerte dal Trattato.12 Del tutto irrilevante è il settore in cui viene prestata l’attività lavorativa e questa irrilevanza è stata ribadita dalla Corte con riferimento alle attività degli sportivi professionisti, ai quali si applica l’art.39 in quanto la loro è configurabile come un’attività economica ai sensi dell’art.2.13 del Trattato, nonostante essa presenti profili sportivi e culturali normalmente estranei alle più classiche tipologie di attività lavorativa14. L’interpretazione ampia di cui viene fatta oggetto la nozione di lavoratore ha condotto la Corte a ritenere che conservi lo 11
Cfr. la sentenza del 3 luglio 1987, Lawrie-Blum, già citata e, successivamente, sentenza del 26 febbraio 1992, Bernini, cit., con riferimento ad un tirocinante nell’ambito della formazione professionale. 12 Così il punto 1 della motivazione della sentenza 19 marzo 1964, in causa 75/63, “M.K.H Unger in Hoekstra contro Bedrijfsvereninging voor detailhandel en Ambachten” in Racc. 1964, p.348. 13 L’articolo 2 del Trattato CE: “ La Comunità ha il compito di promuovere nell'insieme della Comunità mediante l'instaurazione di un mercato comune e di un'unione economica e monetaria e mediante l'attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione dell'ambiente e il miglioramento di quest'ultimo, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri”. 14 Cfr. le sentenze della Corte del 12 dicembre 1974, 36/74, Walrave, in Racc., p.1405 ss. E del 15 dicembre 1995 C-415/93, Bosman, in Racc., p.I4921 ss., punti 6987. Gli stessi criteri portano ad applicare all’attività sportiva semi-professionistica e professionistica le norme sulla libera prestazione dei servizi, allorché sia svolta come autonoma prestazione di servizio: cfr. la sentenza del 14 luglio 1976, 13/76, Donà, in Racc., p. 1333 ss., punti 9-10. 6
status di lavoratore, ai sensi dell’articolo 39 CE, colui che, dopo aver svolto attività lavorativa subordinata in uno stato membro diverso dal proprio, lasci volontariamente il lavoro per dedicarsi a studi a tempo pieno, purché sussista una certa relazione tra la precedente attività e gli studi in questione. La titolarità del diritto di libera circolazione, in ogni caso, può essere riconosciuta solo a chi sia cittadino di uno dei Paesi della Comunità, fermo restando che quest’ultima non ha competenza in materia di cittadinanza e che le regole relative alla sua attribuzione sono di competenza dello Stato membro. Deve trattarsi, comunque, di un cittadino di un Paese comunitario che si sposti sul territorio di altro Paese della Comunità; la disciplina, infatti, non riguarda le situazioni puramente interne agli Stati membri e non può trovare applicazione nei rapporti fra il singolo lavoratore e lo Stato di cui egli abbia la cittadinanza: non potrebbe essere invocata, ad esempio, per contestare una misura di carattere penale implicante limiti alla libertà di muoversi sul territorio dello Stato di cui si è cittadini15. In linea di principio, il cittadino di uno Stato non può invocare le norme suddette nei confronti del proprio Stato. Questa disposizione è stata ridimensionata con l’interpretazione della Corte la quale ha evitato di ricondurre alla nozione di situazione puramente interna anche quelle ipotesi in cui il cittadino, pur invocando una norma comunitaria, tenta di tutelare, pur facendolo in maniera indiretta, il suo personale diritto a circolare nel territorio degli altri Stati membri.
I.2.2 La famiglia del lavoratore L’estensione del diritto alla libera circolazione si presenta nel processo comunitario anche sotto il profilo della famiglia. Le norme 15
Così M.Roccella e T.Treu (2007), Diritto del lavoro della Comunità Europea, quarta edizione, Padova, p.83. 7
di diritto derivato hanno infatti valorizzato la specialità del vincolo familiare favorendo dunque il ricongiungimento della famiglia del lavoratore che esercita il suo diritto alla libera circolazione migrando, a causa della propria attività economica, verso uno Stato membro della Comunità. Ci si ritrova di fronte ad una deroga al principio generale per cui godono della libertà di circolazione solo i soggetti economicamente attivi cittadini di uno stato membro. Vengono a beneficiare di quella libertà, in un primissimo momento con il suddetto regolamento 1612/68 CEE, anche soggetti ai quali non si richiede come presupposto per il loro spostamento un’attività economica dipendente, ma rilevando come presupposto solamente il vincolo familiare che lega questi soggetti con il familiare-lavoratore dal quale deriva il diritto e del quale seguono le sorti.16 La disciplina, presente nell’articolo 10 del Regolamento distingueva due categorie di familiari: a) gli aventi diritto a stabilirsi con il lavoratore occupato sul territorio di uno stato membro diverso da quello di cui è cittadino: il coniuge17 ed i discendenti minori di anni ventuno o a carico e gli 16
In questo senso M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene (2003), Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, Milano, p. 78 17 Per coniuge deve intendersi la persona legalmente sposata: il coniuge conserva il diritto di soggiorno fino al divorzio o all’annullamento del matrimonio, quindi anche durante la separazione e anche in assenza di coabitazione (come deciso nella sentenza del 13 febbraio 1985, 267/83, Diatta, in Racc., p.567 ss., punto 20). In caso del decesso del lavoratore il coniuge ha diritto di soggiorno alle condizioni previste dal regolamento n. 1251/70/CEE, che subordina il diritto a rimanere al fatto che il lavoratore abbia compiuto due anni di residenza ininterrotta al momento del decesso. Il convivente non sposato non può essere equiparato al coniuge. Tuttavia se uno Stato attribuisce un diritto di soggiorno alla convivente non sposata del lavoratore nazionale, deve concederne il beneficio anche al lavoratore comunitario: la Corte di giustizia ha basato tale conclusione sul diritto alla non discriminazione nel beneficio dei vantaggi sociali, di cui all’art.7 del regolamento n.1612/68 CEE (sentenza del 17 aprile 1986, Reed., in Racc., p 1283). Un caso particolare, che non sembra contraddire l’impostazione sinora seguita dalla corte, in quanto frutto dell’apprezzamento delle peculiari circostanze del caso di specie, è stato deciso con la sentenza del 22 giugno 2000, C-65/98, Eyup, in Racc., p. I-4747 ss., dove la Corte ha concluso nel senso che la convivente di fatto di una coppia già entrata nella comunità poteva equipararsi al formale matrimonio. Si trattava, infatti, di interpretare l’art.7, § 1 della decisione n. 1/80 del Consiglio di associazione istituito dall’accordo tra la Comunità europea e la Turchia, che stabilisce: «I familiari che sono stati autorizzati a raggiungere un lavoratore turco inserito nel regolare mercato del lavoro di uno stato membro hanno il 8
ascendenti del lavoratore e del coniuge che siano a suo carico; b) ogni altro componente la famiglia del lavoratore che, nel paese di provenienza, sia a carico o viva “sotto il tetto del lavoratore”. Per questa ultima categoria di familiari, peraltro, non sussisteva l’obbligo dello
Stato
di
ammetterli
sul
proprio
territorio,
essendo
semplicemente previsto che gli Stati ne favoriscano l’ammissione. La norma, inoltre, condiziona l’esercizio al ricongiungimento alla disponibilità del lavoratore di un alloggio “considerato normale per i lavoratori nazionali nella regione in cui è occupato”. La disciplina dettata dal regolamento n.1612 è stata ripresa in termini estensivi dalla direttiva 2004/38/CE. Questa riconosce nell’art 7 ai familiari del lavoratore migrante il diritto di soggiorno sul territorio dello stato dove egli svolge la propria attività lavorativa nonché, nell’art.23 il diritto di esercitarvi “un’attività economica come lavoratori subordinati o autonomi”: in entrambi i casi prescindendo dalla circostanza che il familiare abbia, o meno, la cittadinanza di uno Stato membro. L’esigenza di favorire la mobilità intra-comunitaria dei lavoratori ha portato come si vede, a prescindere in questa specifica ipotesi dal requisito della cittadinanza ai fini dell’applicazione delle regole sulla libera circolazione. Inoltre ai fini della suddetta direttiva sono considerati familiari non soltanto diritto di rispondere fatta salva la precedenza ai lavoratori degli Stati membri della Comunità, a qualsiasi offerta di impiego, se vi risiedono regolarmente da almeno tre anni». La Corte ha, infatti, statuito che “considerati i particolari elementi di fatto della causa principale e in particolare la circostanza che il periodo di coabitazione extramatrimoniale del signore e della signora Eyup si collocava tra i due matrimoni, tale periodo no può essere ritenuto un’interruzione della loro vita familiare comune in Austria, di modo ch deve essere preso in considerazione integralmente ai fini del calcolo del periodo di residenza regolare ai sensi dell’art. 7, primo comma, della decisione 1/80” (punto 36). Benché manchino pronunce sul punto, dalla stessa giurisprudenza sembra di poter concludere che la nozione di coniuge ai sensi dell’articolo 10 del regolamento n.1612/68 CEE non comprenda il compagno dello stesso sesso, anche se si tratta di unione registrata ( cfr. sentenze del 17 febbraio 1998, C-249/96, Grant, in Racc., p. I-621 ss. e del 31 maggio 2001, C-122/99 P e C-125/99 P, De Svezia c. Consiglio in Racc., p. I-4319 ss.). Come riportato da M.P.Chiti e G.Greco in Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., p.125. 9
il coniuge del migrante, i discendenti diretti di età inferiori ai ventuno anni o a carico e quelli del coniuge, ma anche il partner non coniugato “che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro ospitante che equipari l’unione registrata al matrimonio”, nonché i discendenti e gli ascendenti diretti del partner non coniugato (art.2). Se le condizioni non sono soddisfatte, ma la persona intrattiene con il lavoratore “ una relazione stabile debitamente attestata” (art 3 § 2, b), lo Stato ne “agevola l’ingresso”, e deve comunque effettuare un esame approfondito della situazione personale e giustificare l’eventuale rifiuto dell’ingresso o soggiorno. Per ogni altro familiare, che non possa vantare un diritto di ingresso poiché non appartenente al nucleo più ristretto dei familiari appena elencati è previsto che lo Stato possa agevolarne l’ingresso qualora il cittadino della Comunità debba assisterlo personalmente per gravi problemi di salute. Ai familiari del lavoratore dovrà essere rilasciata una carta di soggiorno con caratteristiche uguali a quelle del documento rilasciato al lavoratore.18 Al coniuge e ai figli minori di anni ventuno o a carico del lavoratore viene attribuito il diritto di accedere a qualsiasi attività subordinata su tutto il territorio dello Stato a prescindere dal possesso della cittadinanza di uno Stato membro. Affinché i familiari di un lavoratore possano avvalersi della disciplina appena esplicata è necessario che il lavoratore stesso abbia preventivamente esercitato il diritto alla libera circolazione infatti, come già ribadito precedentemente, su interpretazione della Corte, il diritto comunitario in materia non potrebbe essere invocato per regolare situazioni puramente interne allo Stato membro.19 Il 18
Si veda in proposito la direttiva 68/360/CEE (art 4); cfr la sentenza dell’11 aprile 2000, C-356/98, Kaba, in Racc., p. I-2623 ss. 19 Come ad esempio in relazione alla controversia originata dalla richiesta di permesso di soggiorno avanzata da due cittadine del Suriname allo scopo di ricongiungersi ai propri figli, cittadini olandesi che non avevano mai esercitato il 10
trattamento dei familiari cittadini di paesi terzi, come si evince, interferisce nella disciplina con la politica di immigrazione la quale, tradizionalmente riservata alla competenza nazionale, di recente è diventata materia comunitaria. Le tensioni, di volta in volta emergenti, tra diritto comunitario e diritto nazionale sono state affrontate con un approccio casistico dalla corte di giustizia ed è per questo motivo che la direttiva 2004/38/CE contiene una disciplina parecchio articolata sull’ingresso e il soggiorno dei familiari cittadini di paesi terzi rispetto ai sintetici artt. 10 e 11 del regolamento n.1612/68/CEE ora abrogati.20
I.3 Il contenuto del diritto alla libera circolazione L’articolo 48 del trattato CE ha fissato i principi fondamentali che disciplinano il settore prevedendo che: “ la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità […] implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità, tra lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione ed altre condizioni di lavoro”
21
. Sempre nell’articolo 48, nel paragrafo
seguente si esplicitano una serie di ipotesi in cui la libertà di circolazione si concretizza nei diritti : a) di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;
diritto alla libera circolazione garantito dal Trattato: Corte di Giustizia 27 ottobre 1982 cause riunite 35 e 36/82, Morson e Jhanjan v. Stato olandese, in Racc., 1982, p.3723. Come riportato da M.P.Chiti e G.Greco in Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., p.79. 20 Sull’influenza della politica comunitaria nella disciplina della libera circolazione dei familiari del lavoratore di uno Stato membro, cfr M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, p.248 ss. 21 Testo dell’ex articolo 48, comma 2, del Trattato CEE ora articolo 39 11
c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l’oggetto di Regolamenti di applicazione stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.
I.3.1 Il diritto di ingresso Presupposto logico e necessario per l’esercizio effettivo del diritto di lavorare in un altro Stato membro è la facoltà di fare ingresso nel territorio di un paese membro diverso da quello di cui sono cittadini e ad essa è strettamente connessa la facoltà di lasciare il territorio dello Stato di appartenenza: la disciplina relativa al diritto di lasciare il proprio paese e di fare ingresso in un altro Stato membro è contenuta nella direttiva n. 68/360/CEE. Questa prevede che gli Stati membri riconoscano ai propri cittadini il diritto di lasciare il territorio dello stato per esercitare un’attività salariata sul territorio di un altro stato sotto la condizione dell’onere di presentare una carta d’identità o di un passaporto validi (la validità non dev’essere inferiore ai 5 anni). Contestualmente la direttiva impone l’obbligo per gli Stati membri di accettare sul proprio territorio i cittadini comunitari che intendano entrarvi sulla base della sola presentazione dei documenti richiesti per l’uscita dallo Stato d’origine. La direttiva 68/360/CEE rimanda l’individualizzazione dei beneficiari di tali diritti al Regolamento n.1612/68/CEE, indentificandoli, quindi, in coloro che si spostano per esercitare un’attività lavorativa salariata, ovvero di un loro familiare. Le norme comunitarie, però, non consentono in ogni caso allo Stato di subordinare l’ingresso alla dimostrazione di 12
appartenenza ad una delle categorie previste dal regolamento suddetto. Tale prova potrà essere richiesta solo al momento del rilascio del documento di soggiorno e non alla frontiera. Secondo la giurisprudenza della Corte 22, il possesso del titolo ed i controlli su di esso alla frontiera non dovevano costituire una condizione all’ingresso e la stessa Corte ha negato la legittimità di norme nazionali in forza della quale un cittadino di uno stato membro doveva essere tenuto a rispondere alle domande dei funzionari incaricati alle frontiere, quanto all’oggetto, alla durata del viaggio e ai mezzi finanziari di cui disponeva prima di essere autorizzato ad entrare nel territorio dello Stato. Legittime invece potevano considerarsi le domande finalizzate a verificare la validità del titolo d’identità presentato poiché era un’ipotesi che discendeva dalla stessa direttiva. Inoltre la direttiva 68/360 esclude che gli stati possano apporre visti di ingresso o di uscita o formalità equivalenti come ad esempio, per la Corte, è stata considerata l’apposizione sul passaporto di una menzione che autorizzava l’ingresso di uno Stato per un periodo di sei mesi23.
I.3.2 Il diritto di soggiorno Ai cittadini, una volta ammessi, viene riconosciuto il diritto di soggiorno nel territorio dello Stato membro, questo diritto essendo finalizzato alla prestazione di attività lavorativa non è concesso per una durata indeterminata. La direttiva citata indica i documenti che lo Stato può richiedere al lavoratore per provare la sua qualità e non può imporre la presentazione di documenti diversi. Per impieghi inferiori ai tre mesi il diritto di soggiorno viene concesso sulla base del solo 22
Cfr. le sentenze del 3 luglio 1980, 157/79, Pieck, in Racc., p.2171 ss.; del 27 luglio 1989, 321/87, Commissione c. Belgio, in Racc., p.997 ss.; del 30 maggio 1991 C-681789, Commissione c. Paesi Bassi, in Racc., p. I-2637 ss. 23 Cfr. la sentenza Pieck citata nella nota precedente. 13
documento in virtù del quale il lavoratore ha fatto ingresso nello stato e di un documento del datore di lavoro che attesti la durata dell’impiego. Per impieghi di durata superiore al lavoratore viene rilasciata una “carta di soggiorno di cittadino di uno Stato membro della CE”, dietro presentazione del documento attraverso il quale ha fatto ingresso nel territorio dello Stato e di una dichiarazione di assunzione o di un attestato di lavoro24. La carta di soggiorno che ha una validità non inferiore a cinque anni ed è rinnovabile automaticamente, ha un valore meramente dichiarativo di un diritto che è attribuito al lavoratore direttamente dal Trattato, infatti essa non può essere in alcun modo equiparata al permesso di soggiorno attraverso il quale si esercita un potere discrezionale degli Stati e delle autorità nei confronti dei cittadini stranieri. Ne discende che la violazione delle norme che regolano il rilascio della carta non può venire sanzionata né con la detenzione25 né con l’espulsione poiché una sanzione così forte e non motivata dai limiti di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, farebbe derivare una negazione del diritto conferito al singolo dal Trattato.
I.3.3 Il diritto di rispondere ad offerte di lavoro effettive Ritornando alle previsioni dell’articolo 48, il diritto alla libera circolazione si concretizza, dunque, non solo negli appena descritti diritti di uscita, d’ingresso e di soggiorno, ma anche nella facoltà del lavoratore di “rispondere ad offerte di lavoro effettive”. La previsione del trattato non considerava la semplice ricerca del lavoro e la fase 24
Come M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, cit., p.83 25 Cfr. la sentenza del 30 aprile 1998, C-24/97, Commissione c. Germania, in Racc., p. I-2133 ss. 14
anteriore all’esistenza di qualunque offerta ma appunto offerte “effettive”; in occasione della direttiva n.68/360/CEE, il Consiglio convenne che i cittadini di uno Stato membro possa recarsi in un altro Stato membro semplicemente al fine di cercare lavoro disponendo, a tal fine, di un termine di tre mesi. Decorso questo periodo di tempo senza il risultato previsto possono venire allontanati da tale Stato. Per quanto queste dichiarazioni non potessero considerarsi parti formali della direttiva in questione, gli Stati ebbero attenzione nel riportarla nei propri ordinamenti nazionali così che in pratica venne previsto il diritto del lavoratore di spostarsi per ricercare un lavoro limitatamente ai tre mesi di tempo. La Corte ha, ad ogni modo, preferito una più libera interpretazione della portata dell’articolo 48, onorando il principio fondamentale per cui la norma, consacrando una libertà fondamentale nell’ordinamento
comunitario,
non
può
essere
oggetto
di
interpretazioni restrittive poiché ne comprometterebbero il reale godimento e la reale utilità. Nel dettaglio, il giudice comunitario ha valutato di non poter accogliere l’interpretazione che esclude il diritto del cittadino di uno Stato membro di trasferirsi liberamente e prendere dimora sul territorio di un altro stato per cercarvi lavoro poiché tale diritto sussiste proprio in virtù dell’articolo sopra citato, l’unica valutazione che occorre fare può essere quella in merito ad una limitazione temporale, e questa limitazione, sempre secondo la Corte, deve consentire al lavoratore un tempo considerato ragionevole che gli permetta di prendere conoscenza delle offerte corrispondenti alle eventuali qualifiche in suo possesso o che gli permetta di adottare le misure necessarie all’assunzione per un determinato impiego. Il tempo ragionevole è stato delimitato ai sei mesi, tempo che già il governo inglese aveva preso come termine per il diritto al soggiorno del lavoratore comunitario nel proprio 15
territorio. Allo scadere del tempo stabilito per la ricerca del lavoro, qualora il soggetto continui a cercare lavoro o possa ritenere, ragionevolmente, di avere effettive possibilità di essere assunto non potrà essere obbligato dallo Stato che lo ha ammesso a lasciare il territorio26. Il diritto di soggiorno per la ricerca di un lavoro viene meno qualora ci si trovi di fronte all’impossibilità effettiva da parte dell’individuo di trovare od ottenere un impiego. Il diritto di cui gode il soggetto non è da considerarsi pieno e paragonabile a quello del lavoratore durante il periodo di attività; questo evidente limite alla libertà di circolazione è strettamente legato ad una forma di tutela nei confronti degli Stati membri che potrebbero doversi sobbarcare l’onere eccessivo attraverso il sistema di protezione sociale nazionale (una delle direttive sul soggiorno del 199027 garantiva il diritto d’accesso e soggiorno solo a persone coperte da assicurazione per il caso di malattia o che godevano di una rendita o pensione sufficiente).
I.3.4 Il diritto alla parità di trattamento con riferimento all’accesso all’impiego Nell’articolo 48 § 2 CEE è contenuto il diritto alla parità di trattamento del lavoratore comunitario migrante rispetto ai lavoratori nazionali con riferimento all’accesso all’impiego. La garanzia di parità di trattamento nell’acceso a posti di lavoro disponibili insieme alla connessa garanzia di protezione dalle discriminazioni nelle condizioni di lavoro, possono essere definiti come contenuti fondamentali del generale diritto del lavoratore comunitario poiché
26 27
Cfr. la sentenza del 26 febbraio 1991, Antonissen, in Racc., p. I-773 La direttiva del 28 giugno 1990, n.90/364/CEE, in GUCE, L180 del 13 luglio
1990 16
sono specificazioni che rendono l’articolo 6 del Trattato CEE effettivamente operante. Il Regolamento n. 1612/68/CEE ha dato ampio svolgimento alle disposizioni originali del Trattato fissando la cosiddetta regola del mercato comunitario del lavoro, infatti, dopo la sua entrata in vigore è venuta meno la possibilità di ricorrere alla clausola di salvaguardia del precedente Regolamento 38/64 che consentiva di sospendere il diritto del lavoratore in una determinata regione o professione in caso di eccedenza di manodopera o di equilibrio del mercato del lavoro gravemente minacciato28. Grazie all’articolo 1 del Regolamento n. 1612 ogni cittadino di uno stato membro qualunque sia il suo luogo di residenza ha il diritto di accedere ad un’attività subordinata e di esercitarla sul territorio di un altro Stato membro conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative
che
disciplinano
l’occupazione
dei
lavoratori
nazionali di detto Stato, egli gode, in particolare, della stessa precedenza riservata ai cittadini di detto stato per l’acceso agli impieghi disponibili. Per rendere ancor più sostanziale la garanzia di parità di trattamento l’art.3 sancisce l’inapplicabilità di disposizioni legislative, amministrative, regolamentari comunitarie nonché di ciascuno Stato membro che abbiano carattere direttamente o indirettamente discriminatorio ed accompagna la prescrizione con un elenco di disposizioni o pratiche29. Fra le disposizioni inapplicabili ai 28
Vedi nota 6. Le disposizioni o pratiche inapplicabili sono quelle: “a) che limitano o subordinano a condizioni non previste per i nazionali la domanda e l’offerta d’impiego, l’accesso all’impiego ed il suo esercizio da parte degli stranieri; - o che sebbene applicabili senza distinzione di nazionalità, hanno per scopo o effetto esclusivo o principale di escludere i cittadini degli altri Stati membri dall’impiego offerto”. Disposizioni o pratiche del genere possono considerarsi ad esempio quelle che in uno Stato membro rendono obbligatorio il ricorso a procedure di reclutamento di manodopera speciali per gli stranieri, oppure subordinano l’accesso all’impiego a condizioni d’iscrizione agli uffici di collocamento od ostacolano il reclutamento 17 29
cittadini dei Paesi membri il Regolamento include in particolare quelle che “limitano, per impresa, per ramo di attività, per regioni o su scala nazionale, il numero o la percentuale degli stranieri occupati” (art.4.1). La Corte di giustizia, sottolineando l’inderogabilità del divieto di discriminazioni e il suo effetto, cioè quello di offrire in ciascuno stato ai cittadini degli altri Stati analoghe possibilità di accesso al lavoro, ha dichiarato incompatibili con il diritto comunitario la norma del Code du travail maritime secondo la quale nelle navi battenti bandiera francese una determinata percentuale dell’equipaggio doveva essere formata da cittadini francesi. La stessa disposizione è stato utilizzata dalla Corte per mettere fine alla controversia che limitava l’impiego dei calciatori professionisti con cittadinanza di un Paese membro da parte di società sportive di un altro Paese membro. Rilevante è il caso Bosman in cui la Corte ha definitivamente sancito che il diritto comunitario non permette a regolamenti di associazioni sportive di limitare il diritto dei cittadini di altri Stati membri di partecipare, in quanto professionisti, ad incontri calcistici30. Il divieto di discriminazione costituisce, dunque, un limite non soltanto per l’attività normativa, o per il comportamento dei pubblici poteri ma anche per l’autonomia privata sia individuale che collettiva. Sono, per questo, nulle le clausole discriminatorie contenute in contratti collettivi o individuali poiché il nominativo di lavoratori “quando si tratta di persone che non risiedono sul territorio di detto Stato” (art. 3.2.) 30 Nella sentenza del 15 dicembre 1995, Bosman, cit., La Corte si è preoccupata di sgombrare il campo da eventuali e prevedibili obiezioni, precisando che “il fatto che tali norme non riguardino l’ingaggio dei detti calciatori, ma la possibilità, per le società cui appartengono, di farli scendere in campo nelle partite ufficiali è irrilevante”, giacché “…è evidente che una norma che limiti detta partecipazione incide anche sulle possibilità di ingaggio del calciatore interessato” (punto 120 della motivazione). Prima di Bosman i trasferimenti intracomunitari dei calciatori professionisti risultavano regolati sulla base di una soluzione di compromesso, la cosiddetta regola 3+2, concordata fra l’organizzazione calcistica europea (UEFA) e la Commissione e tradotta in una decisione di quest’ultima del 17 aprile 1991. Al riguardo la Corte ha seccamente ricordato che la Commissione “non dispone del potere di autorizzare comportamenti contrari al Trattato”. 18
diritto alla libera circolazione dei lavoratori sarebbe compromesso “se oltre alle limitazioni stabilite da norme statali non si eliminassero anche quelle poste da associazioni o organismi non di diritto pubblico nell’esercizio della loro autonomia giuridica”31. Ne discende che ciò che la Corte intende sanzionare sono tutti i tipi di discriminazione all’accesso all’impiego cosiddette dirette, cioè quelle costituite da normative contrarie ai principi del Trattato, e quelle indirette, cioè quelle meno palesi, che in maniera dissimulata pervengono al medesimo risultato discriminatorio che non permettono la parità di diritto e di fatto. Numerose
sentenze
che
trattano
il
problema
della
discriminazione sono legate al problema dell’origine del titolo di studio, infatti, molte normative nazionali subordinano l’accesso all’impiego al possesso di un titolo di studio rilasciato dalle autorità dello Stato ospite, sena considerare i titoli conseguiti dall’interessato nello Stato d’origine o di provenienza. Richiamandosi al divieto di discriminazioni dissimulate la Corte ha ritenuto incompatibile una normativa spagnola che per l’accesso ad un certo impiego richiedeva il possesso di un titolo di diploma rilasciato da un istituto di formazione situato in Spagna ad esclusione di diplomi analoghi conseguiti in altri Stati membri. La Corte, infatti, ha deciso che, qualora sia richiesto un determinato titolo di studio per l’accesso ad un impiego, le autorità statali ospitanti possono convalidare i diplomi esteri, oppure qualora non provvedano in tal senso dovranno valutare in che misura le conoscenze attestate dal diploma del soggetto siano 31
Nella già citata sentenza del 12 dicembre 1974, Warlave, nella fattispecie si discuteva della compatibilità col diritto comunitario di una norma del regolamento dell’Union Cycliste Internationale, che imponeva all’allenatore la stessa cittadinanza del corridore con riguardo alle gare valevoli per il campionato mondiale di mezzofondo. In senso conforme vedi Corte di Giustizia 15 dicembre 1995, Bosman, cit., 11 aprile 2000, Deliége, (riguardante lo sport dello judo); 13 aprile 2000, causa C176/96, Lehtonen, in Racc., 2000, (riguardante le regole sul trasferimento dei giocatori professionisti di pallacanestro). 19
equipollenti rispetto a quelle richieste dalla normativa dello Stato ospitante32.
I.3.5 Il diritto alla parità di trattamento con riferimento alle condizioni di lavoro La regola della parità di trattamento si estende, dopo l’accesso, alle condizioni di lavoro, intese sia come condizioni strettamente inerenti lo svolgimento delle mansioni, come ad esempio la retribuzione o la durata dei contratti, sia come vantaggi e diritto non direttamente connessi all’impiego, quali i vantaggi sociali e fiscali. Il principio di non discriminazione nell’accesso all’impiego, infatti, sarebbe destinato a restare pura enunciazione verbale se non fosse accompagnato da una più ampia garanzia come quella della parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro, questa garanzia ha una funzione strumentale rispetto all’obiettivo di rendere effettivamente operante quel principio di libera circolazione dei lavoratori. Anche in questo
caso
il
Trattato
prevede
l’abolizione
di
qualsiasi
discriminazione fondata sulla nazionalità (art. 39.2) ma la disciplina è, ancora una volta, ripresa dal Regolamento n.1612 (Titolo II, artt. 7, 8, 9, 12) che disciplina diversi ambiti di esercizio di un impiego. Facendo riferimento a ciò che si riferisce allo svolgimento delle mansioni, l’art.7 § 1 del Regolamento regola la parità nel campo della retribuzione, del licenziamento, della reintegrazione professionale e del ricollocamento in caso di disoccupazione. I principi del Regolamento sono destinati a trovare applicazione non soltanto nei confronti di norme o prassi amministrative degli Stati membri ma anche nei contratti di lavoro individuale e collettivi, le cui disposizioni discriminatorie nei confronti dei lavoratori cittadini di 32
Cfr. le sentenze dell’8 luglio 1999, C-234/97, Fernández de Bobadilla c. Museo Nacional del Prado, in Racc., p.I-4773 ss.; 20
altri Stati membri sono definite nulle di diritto (art.7 § 4). Nella giurisprudenza della Corte di giustizia si trovano numerose applicazioni pratiche del principio, soprattutto che colpiscono le discriminazioni dissimulate: è stata ritenuta contraria al diritto comunitario una norma nazionale che impedisse al lavoratore migrante, costretto ad interrompere la propria attività lavorativa per adempiere nel paese di origine ai propri obblighi militari, di far includere il periodo trascorso sotto le armi nel calcolo dell’anzianità aziendale, allorché il servizio militare compiuto nel paese in cui è occupato venisse computato a vantaggio dei lavoratori nazionali33. Ancora in un’altra interpretazione della Corte
34
è stata ritenuta
applicabile al lavoratore cittadino di altro Stato membro, la normativa speciale di tutela contro il licenziamento per riduzione della capacità lavorativa conseguente ad infortunio, prevista per i lavoratori nazionali. Numerosi sono anche i casi relativi alla parità di trattamento nella fruizione di vantaggi sociali e fiscali. Si ricordano i casi in cui la Corte ha affermato il diritto del lavoratore di usufruire di incentivi finanziari concesse ai nazionali in occasione della nascita di un figlio35, o addirittura, ha ritenuto rientrare nelle previsioni dell’articolo 7 del suddetto regolamento il diritto alla riduzione sulle tariffe ferroviarie concessa da un ente ferroviario nazionale alle famiglie numerose.36 L’art. 39, par. 3 lettera d del TCE riconosce il diritto di rimanere sul territorio di uno stato membro dopo avere occupato un impiego, alle condizioni previste dai regolamenti di applicazione. Tali condizioni sono fissate dal regolamento n. 1251/70
33
Sentenza del 15 ottobre 1969, 15/69, Ugliola, in Racc., p.363, ss. Sentenza del 13 dicembre 1972, 44/72 Marsman, in Racc., p.1243 35 Sentenza del 14 gennaio 1982, 65/81, Reina, in Racc., p.33 ss e ribadito poi nella sentenza del 10 marzo 1993, C-111/91, Commissione c. Lussemburgo, in Racc., p.I-817 ss., punti 9-12. 36 Sentenza del 30 settembre 1975, 32/75, Cristini, in Racc., p.1085 ss. 21 34
del 29 giugno 1970. Esso prevede che i lavoratori divenuti inabili al lavoro, i lavoratori frontalieri e gli aventi i requisiti per la pensione di vecchiaia o di invalidità abbiano diritto a rimanere permanentemente nello stato membro in cui hanno prestato attività lavorativa per una durata minima – diversa a seconda delle categorie citate - e purché risiedano nel paese ospitante da un certo numero di anni, anch’essi definiti in relazione a ciascuna categoria (art. 2).
I.4 I limiti alla liberta’ di circolazione I.4.1 Le ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica La libertà di circolazione è sottoposta dall’ex art. 48 del Trattato CEE (ora art. 39) a limitazioni giustificate da ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Si tratta di limitazioni, queste tre, che riguardano l’esercizio dei diritti di ingresso e soggiorno. L’eccezione di ordine pubblico compariva anche nell’articolo 56 del Trattato (ora art. 46) in relazione al diritto di stabilimento e proprio sulla base di tale articolo il Consiglio adottò una direttiva37 in materia di coordinamento dei provvedimenti nazionali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi di ordine pubblico o di sanità pubblica, le cui disposizioni risultavano, peraltro inequivocabilmente applicabili non soltanto a lavoratori autonomi e destinatari di servizi, ma anche ai lavoratori subordinati. Queste disposizioni vennero abrogate e trasfuse nella nuova direttiva 2004/38 (nel capo VI, artt.27-33) e anch’esse risentono dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte. Si tratta di una normativa “trasversale” che copre tutte le aree della 37
Vedi la direttiva 64/221 del 25 febbraio 1964. 22
libertà di circolazione delle persone contemplate dal diritto comunitario.38. L’oggetto delle regole riguarda il riconoscimento della possibilità degli Stati membri di “limitare la libertà di circolazione di un cittadino dell’Unione o di un suo familiare … per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o di sanità pubblica”39 a conferma che i limiti in esame attengono in senso proprio al diritto di mobilità territoriale dei lavoratori. Le limitazioni connesse alle ragioni di sanità pubblica erano determinate in maniera molto dettagliata e precisa nella direttiva 64/221, la quale indicava in un elenco allegato le malattie rilevanti che potevano essere causa di emanazione, da parte degli Stati, di provvedimenti restrittivi riguardanti la circolazione. Tale elenco è ora soppresso dalla nuova normativa che si limita ad enunciare che “le sole malattie che possono giustificare misure restrittive della libertà di circolazione sono quelle con potenziale epidemico”, secondo le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità40, nonché “altre malattie infettive o parassitarie contagiose, sempreché esse siano oggetto di disposizioni di protezione che si applicano ai cittadini dello Stato membro ospitante” (art.29.1). Anche nelle restrizioni motivate da ragioni di sanità pubblica si trova applicato il principio di non discriminazione. Nonostante l’obiettivo del Trattato in materia di limitazioni alla
libertà
di
circolazione
sia
quello
di
giungere
ad
un’armonizzazione dei provvedimenti nazionali in merito, questo 38
Vedi M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, cit., p. 98. 39 Art. 27.1 Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004 40 L'Organizzazione mondiale della sanità (OMS, o World Health Organization, WHO in inglese), agenzia specializzata dell'ONU per la salute, è stata fondata il 7 aprile 1948, con sede a Ginevra. L'obiettivo dell'OMS, così come precisato nella relativa costituzione, è il raggiungimento da parte di tutte le popolazioni del livello più alto possibile di salute, definita nella medesima costituzione come condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto come assenza di malattia o di infermità. 23
stesso scopo è compromesso dall’assenza di qualsiasi definizione di ordine pubblico e pubblica sicurezza. Questi due concetti sono esposti a variazioni di contenuto a seconda delle circostanze storiche e dei contesti politici, sociali e culturali di riferimento ed è anche per questo motivo di facile comprensione il fatto che sia stato tradotto in disposizioni non omogenee all’interno degli Stati membri. Nella direttiva 64/221, prima, e in quella 2004/38, in seguito, non ci sono modificazioni evidenti di leggi o regolamenti ma criteri uniformi di applicazione delle normative nazionali in materia di ordine pubblico; viene chiarito che il concetto di ordine pubblico non è così vasto da ricomprendere il lato economico: la definizione è qui in negativo poiché l’ordine pubblico non può essere invocato per fini economici41 come per esempio la volontà di tutelare i mercati nazionali del lavoro. I motivi di ordine pubblico non possono essere adottati se non in relazione al comportamento personale dello straniero, né sulla base di precedenti condanne penali pendenti su questo42, né si può disporre l’allontanamento dal territorio di uno Stato membro per la scadenza del documento di identità con cui l’individuo ha fatto ingresso nello Stato ospitante.43
41
Testo dell’art. 27.1 della direttiva 2004/38: Fatte salve le disposizioni del presente capo, gli Stati membri possono limitare la libertà di circolazione di un cittadino dell'Unione o di un suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Tali motivi non possono essere invocati per fini economici. 42 Testo dell’art.27.2 della direttiva 2004/38: I provvedimenti adottati per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza rispettano il principio di proporzionalità e sono adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale della persona nei riguardi della quale essi sono applicati. La sola esistenza di condanne penali non giustifica automaticamente l'adozione di tali provvedimenti. Il comportamento personale deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società. Giustificazioni estranee al caso individuale o attinenti a ragioni di prevenzione generale non sono prese in considerazione. 43 Previsione già contenuta nella direttiva 64/221 (art.3.3) e ripresa nell’art. 15.2 della direttiva 2004/38: Lo scadere della carta d'identità o del passaporto che ha consentito l'ingresso nello Stato membro ospitante e il rilascio dell'attestato d'iscrizione o della carta di soggiorno non giustifica l'allontanamento dal territorio. 24
E’ stato l’intervento della Corte, anche in questo caso, a costituire i limiti interpretativi dell’ordine pubblico. Essa ha riconosciuto alle autorità competenti nazionali poteri discrezionali entro i limiti imposti dal Trattato affermando che la nozione di ordine pubblico varia da un Paese all’altro e da un’epoca all’altra; la nozione presuppone una minaccia effettiva e sufficientemente grave ad un interesse fondamentale della collettività ed autorizzando una deroga al principio fondamentale della libera circolazione va intesa in senso stretto, difatti il compito delle istituzioni comunitarie è quello di controllare che gli Stati non facciano un uso arbitrario di questo potere così importante.44
I.4.2 L’impiego nella pubblica amministrazione Il quarto paragrafo dell’art. 48 del Trattato (ora art. 39)45 esclude l’applicazione dei precedenti tre paragrafi (e quindi dell’intera disciplina sulla libera circolazione dei lavoratori) agli impieghi nella pubblica amministrazione. La deroga alla disciplina sembrerebbe molto ampia, infatti l’interpretazione della norma da parte degli Stati membri è stata sempre quella di escludere l’intero settore pubblico agli stranieri comunitari. La spiegazione logica di questa pluriennale interpretazione è da ricavarsi nell’idea di protezione di sé, e del proprio mercato del lavoro, che ogni Stato raggiunge attraverso la pubblica amministrazione. Ad ogni modo, trattandosi di una deroga ad un principio così importante, l’interpretazione suddetta non trova più considerazione: la Corte ha sostenuto, anche in questo caso, la necessità di un’interpretazione restrittiva della deroga così da permettere gli scopi del Trattato. Dal 44
Cfr. la sentenza del 4 dicembre 1974, Van Duyn, p. 1338 Testo del quarto comma dell’ex articolo 48: Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione. 25 45
momento in cui la pubblica amministrazione ha ormai accesso ad ogni campo di attività di carattere economico la portata della deroga sarebbe stata ampliata in maniera eccessiva nel caso in cui i criteri per la sua applicazione fossero stati lasciati alla competenza statale, da qui l’esigenza di una definizione “comunitaria” di pubblica amministrazione. La Corte ha precisato che possono esistere mansioni, all’interno di enti pubblici e pubbliche amministrazioni, che hanno come presupposto “l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato, nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo della cittadinanza” e nel contempo ha ridimensionato il requisito della cittadinanza solo con riguardo a quel “ complesso di posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche”.46 L’interpretazione restrittiva dell’art. 48.4 in relazione agli impieghi pubblici è stata prima affermata per gli impieghi alle dipendenze delle ferrovie ed enti locali belgi è stata successivamente ribadita con riguardo ai posti di infermiere negli ospedali pubblici47, di insegnante48, di lettore di lingua straniera49. La deroga però, può applicarsi anche al settore del lavoro privato qualora le funzioni svolte implichino “una partecipazione all’esercizio di poteri d’imperio ai fini della salvaguardia dell’interesse generale dello Stato” come nel caso di specie di un capitano o comandante in
46
Cfr. la sentenza della Corte del 3 luglio 1986, 66/85, Lawrie - Blum in Racc., 1986, cit. 47 Nella sentenza del 3 giugno 1986, causa 307/84, Commissione v. Repubblica francese, in Racc., 1986, 1725. 48 Vedi nota 46 49 Sentenza del 30 maggio 1989, 33/88, Allué e Coonan v. Repubblica Italiana, in Racc., 1987, p.1591 26
seconda di navi mercantili50. Alcuni limiti all’accesso a determinati impieghi nella pubblica amministrazione possono derivare dalla circostanza che alcune mansioni richiedano il possesso di alcune qualifiche professionali o la conoscenza di una certa lingua. Per il primo aspetto la questione si risolve con l’applicazione delle direttive sul riconoscimento di titoli e diplomi (vedi cap. secondo), mentre per il secondo aspetto è il regolamento n.1612 a prevedere che “ le condizioni relative alle conoscenze linguistiche richieste in relazione alla natura dell’impiego offerto”
51
possano tradursi in un limite
all’assunzione di lavoratori cittadini di altri Stati membri.52 La Corte ha confermato l’ammissibilità di tale limite53. E’ da precisare che il limite per gli impieghi nella pubblica amministrazione è previsto solo per l’accesso all’impiego, infatti, una volta immesso nella pubblica amministrazione, il lavoratore deve godere del principio di non discriminazione in relazione alle condizioni di lavoro.
50
Sentenza del 30 settembre 2003, C-405/01, Colegio de oficiales de la Marina Mercante Española v. Administraciòn del Estado, in Racc., 2003, p.10391 51 Testo dell’art. 3.2 del Regolamento 1621/68CEE del 15 ottobre 1961: Nel quadro del presente regolamento non sono applicabili le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative o le pratiche amministrative di uno Stato membro: che limitano o subordinano a condizioni non previste per i nazionali la domanda e l'offerta d'impiego, l'accesso all'impiego ed il suo esercizio da parte degli stranieri; - o che, sebbene applicabili senza distinzione di nazionalità, hanno per scopo o effetto esclusivo o principale di escludere i cittadini degli altri Stati membri dall'impiego offerto. Il disposto del comma precedente non concerne le condizioni relative alle conoscenze linguistiche richieste in relazione alla natura dell'impiego offerto. 52 Sul requisito delle conoscenze linguistiche vedi anche Strozzi Girolamo (2010), Diritto dell’Unione Europea - Parte speciale, III edizione, G.Giappichelli Editore, Torino, p.108 53 Sentenza del 28 novembre 1989, causa C-379/87, Groener v. Minister for Education and the City of Dublin Vocational Education Commitee, in Racc., 1989, p. 3967. 27
I.5 La libera circolazione dei lavoratori autonomi
I.5.1 La libertà di stabilimento e la prestazione di servizi (differenze) La libertà di circolazione dei lavoratori autonomi viene disciplinata sotto due distinti profili: la libertà di stabilimento e la libertà di prestazione dei servizi a seconda che si applichi a situazioni e attività temporanee od occasionali in uno Stato membro. La differenza tra questi due concetti è che “la nozione di stabilimento ha carattere statico e implica l’ insediamento permanente del prestatore di servizi in uno Stato membro.” 54Alcuni esempi possono essere: un industriale italiano che decide di avviare una nuova attività imprenditoriale in Germania, un commerciante olandese che apre in Italia un negozio oppure un medico spagnolo che si trasferisce nel Regno Unito per esercitare la sua professione. In questi esempi i soggetti si insediano stabilmente in un paese diverso da quello da cui provengono e l’elemento interstatuale è presente solo nel momento di stabilimento, difatti l’attività che i soggetti eserciteranno nello Stato ospite non presenterà nessuna caratteristica interstatuale poiché si svolgerà interamente nell’ambito dello stato in cui i lavoratori si sono stabiliti. La prestazione di servizi risponde ad un concetto dinamico poiché sono considerati “servizi”, ai sensi delle norme del Trattato, quelli che vengono prestati da uno stato membro in un altro senza che debba avvenire l’esercizio del diritto di stabilimento cioè senza lo stabilirsi permanente del lavoratore nello stato di prestazione del servizio. Possono così presentarsi diverse situazioni per quanto 54
Come spiegano U.Draetta e N. Parisi in Elementi di Diritto dell’Unione Europea – Parte speciale: il diritto sostanziale, cit., p.157 28
riguarda la prestazione di servizi: può aversi lo spostamento temporaneo del prestatore professionista nel paese ospitante per offrire una consulenza come nel caso di un medico che si rechi in un paese membro per eseguire una diagnosi o curare un paziente; può verificarsi lo spostamento del destinatario della prestazione, seguendo l’esempio del medico, il paziente che si sposti per beneficiare di cure mediche, o ancora dello studente che soggiorni in un altro stato per ricevere una formazione professionale55; infine può non aversi uno spostamento di persone ma solo del servizio come nei casi di vendita di polizze assicurative ad un soggetto residente in un paese diverso da quello in cui ha sede la società assicurativa. La libertà di prestazioni di servizi garantisce al prestatore di servizi il diritto di esercitare la sua attività a titolo temporaneo nello stato membro ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte da tale Stato ai propri cittadini (principio del trattamento nazionale). Ai sensi dell’articolo 60 del Trattato CE (ora art. 50) “sono considerate come servizi le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. I servizi comprendono in particolare: a) attività di carattere industriale, b) attività di carattere commerciale, c) attività artigiane, d) attività delle libere professioni. Senza pregiudizio delle disposizioni del capo relativo al diritto di stabilimento, il prestatore può, per l'esecuzione della sua prestazione, esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nel paese ove la prestazione fornita, alle stesse condizioni imposte dal paese stesso ai propri cittadini”. Se ne deduce che la categoria della 55
Vedi sentenza del 31 gennaio 1984, 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone, in Racc.,
p.377. 29
prestazione dei servizi è una categoria residuale poiché comprende le prestazioni non regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. Inoltre la prestazione ed i servizi devono avere un valore economico, cioè essere prestazioni che normalmente vengono praticate dietro retribuzione anche se non assume rilevanza il fatto che il servizio sia pagato da persona diversa da colui che ne beneficia. Il Trattato contiene una clausola di standstill56 che preclude l’introduzione da parte degli Stati di qualsiasi nuova misura che possa costituire un ostacolo all’esercizio della libertà di prestazione dei servizi.
I.5.2 Il diritto di stabilimento Il diritto di stabilimento doveva essere realizzato, nelle previsioni del Trattato, attraverso l’intervento delle istituzioni e l’emanazione di atti di diritto derivato i quali avrebbero dovuto, entro la fine del periodo transitorio, eliminare gli ostacoli esistenti, esattamente come fu previsto per la libera circolazione dei lavoratori subordinati. Era prevista l’adozione di un programma generale da emanare entro la fine della prima tappa, la cui scadenza era prevista per il 31 dicembre 1961, che avrebbe dovuto fissare, per ogni singola attività, le modalità e le condizioni di attuazione della libertà di stabilimento. Inoltre le disposizioni di ogni singolo Stato relative all’accesso ad attività non salariate e al loro esercizio (comprese dunque le disposizioni in merito al riconoscimento dei diplomi) avrebbero dovuto essere coordinate attraverso altrettante direttive da emanarsi prima della fine del periodo transitorio. Il programma 56
Clausola presente in alcuni trattati internazionali che comporta per gli Stati un obbligo di non facere in attesa dell’applicazione dell’accordo o della stipula di convenzioni particolari da esso previste. La “clausola di standstill” dal dizionario giuridico online: <http://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&dizionario=11&id=1363> 30
generale fu adottato nel 196157 ma le direttive di attuazione non completarono la libertà disegnata dal Trattato. Ancora una volta fu la Corte a definire l’interpretazione in maniera ampia: essa stabilì che alla scadenza del periodo di attuazione, la mancanza delle direttive previste non era di ostacolo all’applicazione dei principi della libertà di stabilimento poiché il divieto di discriminazione sancito nell’articolo 52 (ora 43) che vieta le discriminazioni in base alla nazionalità è una norma dotata di effetto diretto58 e le direttive previste non costituiscono fondamento del diritto in questione ma valgono solo ad agevolarne l’esercizio. Il diritto derivato relativo al diritto di stabilimento si è inizialmente limitato a poche direttive: la direttiva n.73/148/CEE59 che definisce il diritto dei cittadini di uno stato membro e dei loro familiari a lasciare il territorio del proprio Stato per stabilirsi in un altro per esercitare un’attività autonoma e a fare ingresso e soggiorno nello stato ospite. Anche in questo caso i diritti sono sanciti da una carta di soggiorno con valore giuridico molto simile alla stessa rilasciata ai lavoratori dipendenti.60 La direttiva n.75/34/CEE61 estende al lavoratore autonomo che abbia cessato la sua attività per cause di anzianità o invalidità, e ai suoi familiari, il diritto di soggiorno nella stessa maniera in cui è previsto per i lavoratori dipendenti; infine, la direttiva n. 64/221/CEE che ha esteso anche al lavoratore autonomo la disciplina degli effetti dell’ordine pubblico e della sanità pubblica sul rilascio e il rinnovo dei documenti di soggiorno. La libertà di stabilimento (così come la 57
In GUCE, n.2 del 15 gennaio 1962, p.36 ss. Sentenza del 21 giugno 1974, 2/74, Reyners, in Racc., p.631 ss 59 Adottata il 21 maggio 1973, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei cittadini degli stati membri all’interno della Comunità in materia di stabilimento e di prestazione i servizi, in GUCE, L 172 del 28 giugno 1973, p.14 ss. 60 Si rinvia al paragrafo I del capitolo, p.8 ss. 61 La direttiva, adottata il 17 dicembre 1974, relativa al diritto del cittadino di uno Stato membro di rimanere sul territorio di un altro stato membro dopo avervi svolto un attività non salariata, in GUCE L 14 del 20 gennaio 1975, p.10 ss. 31 58
libertà di prestazione di servizi e la libera circolazione dei lavoratori subordinati) è soggetta all’esclusione dalle attività che partecipano all’esercizio dei pubblici poteri. La libertà di stabilimento ha tanto elementi in comune quanto di differenziazione rispetto alla libertà di circolazione del lavoratore subordinato e alla libera prestazione di servizi. Ciò che la differenzia dalla libertà di circolazione del lavoratore è il carattere non subordinato dell’attività svolta dall’operatore che, invece, accomuna lo stabilito al prestatore di servizi. La seconda parte dell’ articolo 43 del Trattato CE (ora art.49 TFUE) chiarisce che lo stabilimento importa accesso alle attività non salariate, definendo come salario il corrispettivo per l’attività svolta dal lavoratore subordinato.62 La giurisprudenza ha dato un senso “comunitario” al vincolo di subordinazione che prescinde dalle eventuali accezioni di volta in volta stabilite dai diritti nazionali e stabilisce subordinate le attività fornite sotto la direzione di un diverso soggetto; correlativamente per aversi una situazione regolata dal diritto di stabilimento l’operatore economico deve svolgere la sua attività lavorativa in regime di indipendenza la quale è caratterizzata da autonomia gestionale e assunzione del rischio economico.63 La libertà di stabilimento si concretizza in due diverse modalità dette “stabilimento a titolo principale” e “stabilimento a titolo secondario” Nel primo caso la persona fisica originaria di uno Stato membro insedia la sua attività nell‘altro Stato senza che il diritto comunitario gli imponga condizioni ulteriori alla cittadinanza dello Stato membro da cui proviene, come per esempio la residenza. Svariate modalità di 62
Vedi testo dell’articolo 43, del Trattato CE: “La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività non salariate e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 48, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.” 63 Come M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, cit., p. 117 32
stabilimento a titolo principale sono ad esempio l’avvio di un’attività professionale come l’apertura di uno studio, di un’azienda o, secondo la terminologia dell’articolo 43, attraverso la “costituzione o la gestione di imprese e in particolare di società”, alle condizioni previste dalla legislazione del paese di stabilimento per i propri cittadini. In linea di principio le modalità previste dal Trattato per le persone fisiche sono riconosciute per il diritto di stabilimento anche alle persone giuridiche, potendo una società partecipare alla costituzione di una nuova società in un diverso stato membro sia trasferire la propria sede e luogo principale delle attività in un diverso Stato membro, pur conservando la natura giuridica di società nata nell’ordinamento dello Stato di provenienza. Di fatto, però, allo stato attuale del diritto la sola forma di stabilimento principale consentita alle società è quella che si risolve nella partecipazione alla costituzione di una diversa società in un altro Stato membro poiché è appunto la sede della società a determinare la nazionalità di essa e il trasferimento della sede può risultare incompatibile con la disciplina sul mantenimento della personalità giuridica. Il trattato prevede anche che il diritto di stabilimento comporti il divieto di restrizioni all’apertura di agenzie, succursali o filiali da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. Dunque si configura un ipotesi di esercizio del diritto che consiste nel mantenimento di due distinti centri di attività: uno nello Stato di stabilimento originario o principale e l’altro nel paese della succursale o filiale. Questa è l’ipotesi suddetta dello stabilimento a titolo secondario. Ne discende che l’azienda può scegliere l’ordinamento più favorevole per la sua costituzione e tale scelta non costituirà abuso di diritto comunitario, di conseguenza la normativa di uno Stato membro che, attraverso il meccanismo dei conflitti di legge, giunga a negare la stessa esistenza giuridica della 33
società costituita all’estero
e secondo la legge di un diverso
ordinamento, e pertanto non ne ammetta l’esercizio del diritto di stabilimento secondario è contraria alle norme del Trattato.64 L’articolo 43 citando “agenzie,succursali o filiali”65 fa intendere
lo
stabilimento
secondario
come
una
modalità
principalmente utilizzata dalle aziende, ma data l’assenza di limitazioni nel Trattato è ritenuto applicabile anche alle professioni liberali e dunque alle persone fisiche.
I.5.3 La direttiva 96/71 relativa al lavoro distaccato Si ha spesso la situazione in cui le imprese nell’ambito della loro attività transfrontaliera distacchino temporaneamente all’estero i propri dipendenti per eseguire lavori nel territorio di uno stato membro diverso da quello in cui essi sono abitualmente occupati. Il Consiglio ha definito in questo ambito un nucleo di norme vincolanti ai fini della “protezione minima” cui deve attenersi nel paese ospite il datore di lavoro che distacca i dipendenti. Il legislatore comunitario intende 64
ostacolare
fenomeni
di
social
dumping66,
che
si
Come nella sentenza del 5 novembre 2002, Überseering, in Racc., p. I-9919 ss.la Corte ha specificato come non volesse riconoscere agli stati la facoltà di subordinare al rispetto del loro diritto nazionale delle società, l’esercizio effettivo, nel loro territorio, della libertà di stabilimento da parte di società validamente costituite in altri Stati membri, rispetto alle quali ritengono che esse abbiano trasferito la loro sede nel territorio suddetto. In particolare al punto 73 la Corte ha fatto valere questa precisazione con riferimento al riconoscimento della capacità giuridica e processuale della società. Per l’affermazione che è la localizzazione della sede sociale, dell’amministrazione centrale o del centro di attività principale a determinare, al pari della cittadinanza delle persone fisiche, il collegamento delle persone giuridiche all’ordinamento di un determinato stato. Cfr. M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, cit., p. 134 65 Per agenzia, succursale e filiale la Corte ha chiarito che ai fini della Convenzione di Bruxelles ora diventata regolamento CE n. 44/2001, si debba intendere “un centro operativo che si manifesti in modo duraturo verso l’esterno come un’estensione della casa madre, provvisto di direzione e materialmente attrezzato in modo da poter trattare affari con terzi”. 66 Espressione con cui viene indicata la pratica di alcune imprese (soprattutto multinazionali) di localizzare la propria attività in aree in cui possono beneficiare di 34
verificherebbero qualora le imprese scegliessero di stabilirsi in paesi con un ordinamento di protezione del lavoro più debole per poi utilizzare i propri dipendenti in altri paesi a tutela forte per il tramite dell’istituto del distacco. Al riguardo è stata emanata la direttiva 16 dicembre 1996, n. 96/71, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi.67 La normativa comunitaria si applica ad una serie di fattispecie: al distacco di lavoratori dipendenti da un’impresa di uno stato membro nel territorio di un altro stato membro, per conto dell’impresa distaccante e sotto la sua direzione, nell’ambito di un contratto concluso tra l’impresa che invia il lavoratore ed il destinatario della prestazione di servizi; al distacco di lavoratori appartenente al gruppo, ma operante nel territorio di un altro stato membro dipendenti da un’impresa di uno stato membro in uno stabilimento estero o in un’altra impresa. Presupposto comune a tutte le ipotesi di distacco sopra elencate è anzitutto la sussistenza, durante il periodo del distacco, di un rapporto di lavoro tra il lavoratore e l’impresa che lo invia. Altra caratteristica è lo spostamento non già definitivo , nel qual caso si avrebbe trasferimento, ma “per un periodo limitato”, del lavoratore nel territorio di uno stato membro diverso da quello nel cui territorio lavora abitualmente, anche se presso un’ unità produttiva che giuridicamente faccia sempre capo al distaccante (art. 2). Le imprese che distaccano i lavoratori devono garantire a questi ultimi le condizioni che, nel paese dove presta lavoro il lavoratore distaccato, sono stabilite da norme di legge, regolamentari o amministrative ovvero da disposizioni meno restrittive in materia di lavoro o in cui il costo del lavoro è inferiore. In questo modo i minori costi per l’impresa possono essere trasferiti sul prezzo finale del bene che risulta più concorrenziale. 67 Luisa Galantino in qualità di relatore nei convegni presso il Consiglio superiore della magistratura ( Roma, Il diritto del lavoro comunitario 4-6 ottobre 2004 sul tema Libera circolazione dei lavoratori e ambito di tutela uniforme). 35
contratti collettivi come per esempio periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo, tariffe minime salariali, comprese quelle maggiorate per lavoro straordinario, sicurezza, igiene e salute sul lavoro; garantire la tutela della lavoratrice in gravidanza o puerperio e del lavoro minorile e la parità di trattamento tra uomo e donna attraverso il divieto di discriminazioni.
I.5.4 La direttiva 2006/123 relativa ai servizi (c.d. Bolkenstein)
La direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, adottata il 12 dicembre 2006 allo scopo di stabilire “disposizioni generali che permettono di agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento … nonché la libera circolazione dei servizi …”68, completa il lavoro di analisi compiuto dalla direttiva 96/71 sul lavoro distaccato ed è stata accompagnata nel corso della sua elaborazione da aspre discussioni e dibattiti, generati spesso dalle organizzazioni sindacali per la paura che i contenuti della direttiva, cosiddetta
Bolkestein69,
potessero
produrre
degli
effetti
destabilizzanti per i mercati del lavoro dei singoli stati. Ciò che suscitò le maggiori critiche fu la volontà di generalizzare il principio del Paese d’origine alla prestazione di quasi tutti70 i servizi senza dover attendere il progressivo avvicinamento delle legislazioni nazionali. L’applicazione generalizzata del principio avrebbe dovuto suscitare una sorta di competizione virtuosa tra i legislatori nazionali, inducendoli ad adottare normative agili e razionali, per evitare il 68
Così come definito dall’articolo 1.1 della direttiva 2006/123/CE; Dal nome del componente olandese della commissione che ne era stato ispiratore. 70 La direttiva si applica ad ogni servizio fornito dietro corrispettivo economico con eccezione di alcuni settori indicati tra cui i servizi finanziari, i servizi di comunicazione elettronica, i servizi nel settore dei trasporti, i servizi sanitari e i servizi audiovisivi. 36 69
rischio che i prestatori di servizi potessero decidere di stabilirsi in altri Stati membri, salvo poi esercitare comunque i propri servizi in ogni Stato membro in forza del diritto alla libera prestazione. L’obiezione generale fu che la concorrenza tra le legislazioni poteva concretizzarsi, invece che in una corsa virtuosa, in una gara “al ribasso” degli Stati per attrarre imprese nel proprio territorio, mettendo da parte le principali norme in materia di sicurezza sociale e protezioni del lavoratore. Un esito normativo del genere sarebbe stato ovviamente incompatibile con la disciplina delineata dalla direttiva n. 96/71 ma il risultato offerto dalla direttiva 2006/123/CE è stata costruita così da evitare sovrapposizioni con le norme preesistenti in materia di libera circolazione dei lavoratori nell’ambito della prestazione di servizi. L’articolo 3 della direttiva dichiara che “se disposizioni della presente direttiva configgono con disposizioni di altri atti comunitari che disciplinano aspetti specifici dell’accesso ad un’attività di servizi o del suo esercizio in settori specifici o per professioni specifiche, le disposizioni di questi altri atti comunitari prevalgono e si applicano a tali settori o professioni specifiche” citando tra quegli “atti comunitari” proprio la direttiva 96/71.
I.6 L’evoluzione della libera circolazione nei trattati di revisione: dalla libera circolazione dei lavoratori alla libera circolazione delle persone La libera circolazione è una delle libertà fondamentali al centro del sistema comunitario ed è il segno più evidente della costruzione di uno spazio “comune” ed è per questo che è stata disciplinata attraverso molti atti di diritto derivato, ma non mancano le novità accolte nei trattati successivi a quelli delle Comunità originarie. La prima fase di vita della libertà di circolazione (per ora 37
solo dei lavoratori) vedeva un’interpretazione di tipo economico di essa poiché era vista come uno dei mezzi per raggiungere gli scopi di carattere economico che gli stati fondatori della CEE si erano prefissati. Le libertà di ingresso e uscita erano strumentali alle libertà economiche quali la libertà di stabilirsi in uno Stato membro, di prestare servizi e di esercitare un’attività subordinata. Inoltre il Trattato di Roma riservava queste libertà ai cittadini aventi nazionalità di uno degli Stati membri. Con l’Atto Unico Europeo71 del 1986 gli Stati membri si impegnano per la prima volta a realizzare la libera circolazione delle persone e non solo dei lavoratori, dunque la libertà di circolare non è più legata all’esercizio di un’attività di tipo economico. Il mercato interno è uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali ma per la prima volta anche, a determinate condizioni, la libera circolazione degli studenti, dei pensionati e delle persone non esercitanti un attività economica. Una libertà di circolazione completa, tuttavia, ha bisogno di misure comprendenti molti più aspetti così partendo da questo e prendendo atto del fatto che la reticenza di alcuni stati membri non permetteva di andare avanti sull’argomento, alcuni stati hanno sentito la necessità di una cooperazione rafforzata dando vita al sistema di Schengen.72 Lo scopo principale di questo accordo è quello di 71
L'Atto unico europeo (AUE), firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 da nove Stati membri e il 28 febbraio 1986 dalla Danimarca, dall'Italia e dalla Grecia, costituisce la prima modifica sostanziale del trattato che istituisce la Comunità economica europea (CEE). L'AUE è entrato in vigore il 1° luglio 1987. http://europa.eu/legislation_summaries/institutional_affairs/treaties/treaties_singleact_ it.htm 72 L’accordo di Schengen, firmato nel 1985 fra Francia, Germania e Benelux ed al quale hanno successivamente aderito Italia (1990), Spagna e Portogallo (1991), Grecia 38
realizzare
uno spazio di libertà eliminando progressivamente i
controlli alle frontiere interne, sviluppando la cooperazione doganale e di polizia. Pur trattandosi di un accordo intergovernativo e non comunitario esso non è completamente slegato dal contesto della Comunità. La Commissione europea partecipa come osservatore alle attività di Schengen per garantirne la coerenza con le attività comunitarie. Con Schengen avviene uno sviluppo storico parallelo a quello dell’Unione Europea e nello spazio “Schengen” sono state create le basi per la realizzazione di una piena libertà di circolazione attraverso l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne, che possono essere attraversate in qualunque punto senza che vengano esercitati controlli, attraverso l’armonizzazione delle politiche dei visti, infatti viene introdotto il visto uniforme valido per tre mesi e in tutti i paesi Schengen, attraverso l’adozione di misure compensative, atte a non indebolire la sicurezza e la protezione dello spazio comune. Tali misure compensative sono ad esempio lo spostamento simultaneo dei controlli alle frontiere esterne. Con la Convenzione di Schengen73 nasce il SIS, il Sistema Informativo Schengen, un meccanismo fondato sulla cooperazione tra le varie autorità nazionali per consentire una maggiore sicurezza e un alto livello di comunicazione tra i vari Stati della cooperazione74, infatti in base a tale sistema le amministrazioni si scambiano dati specifici e informazioni su persone (1992), Austria (1995), Danimarca, Svezia e Finlandia (1996), benché copra attualmente tutto il territorio dell’Unione Europea (ad eccezione di Regno Unito e Irlanda), non è un accordo”comunitario” ma un accordo intergovernativo. Non è stato realizzato ed eseguito all’interno del quadro istituzionale comunitario ma è un accordo intergovernativo di tipo classico, negoziato dai governi e ratificato dai Parlamenti di stati che, allo stesso tempo fanno parte dell’Unione (e non solo). 73 Le disposizioni che costituivano l’Accordo di Schengen sono state integrate e completate con la Convenzione di applicazione del 19 giugno 1990. 74 M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, cit., p. 227 e Strozzi Girolamo (2010), Diritto dell’Unione Europea - Parte speciale, III edizione, G.Giappichelli Editore, Torino, p.145 ss. 39
scomparse, o da mettere sotto protezione, su persone citate a comparire davanti alle autorità giudiziarie o ricercate per fini specifici. L’accordo di Schengen costituisce
il primo tentativo
europeo di dare una risposta comune a questioni che superano il quadro nazionale e quindi il primo passo verso la creazione di uno spazio europeo di sicurezza comune e piena libertà di circolazione. Il trattato di Maastricht75 inaugura una nuova fase del processo di costruzione comunitaria. Un’ unione sempre più stretta fra i popoli non può,infatti, non fondarsi sul concetto di cittadinanza e , di conseguenza, di libera circolazione dei cittadini. Con il Trattato viene istituita la “cittadinanza dell’Unione”76 volta a completare, e non a sostituire la cittadinanza nazionale. Ad ogni cittadino viene riconosciuto il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (fatte salve specifiche eccezioni). La libera circolazione viene sganciata così da ogni riferimento economico ed assume una connotazione più politica, essa viene riconosciuta al cittadino in quanto tale e non in quanto lavoratore subordinato o libero professionista. Inoltre il Trattato introduce una nuova forma di cooperazione nei settori della giustizia e degli affari
75
Il Trattato di Maastricht, anche chiamato Trattato sull’Unione Europea, è stato firmato dai dodici paese membri dell’allora Comunità Europea, il 7 febbraio 1992, ed è entrato in vigore il 1° novembre 1993. riunisce in una stessa entità che prende il nome di Unione europea le tre Comunità (Euratom, CECA, CEE) e le cooperazioni politiche istituzionalizzate nei settori della politica estera, della difesa, della polizia e della giustizia. La maggiore delle tre comunità, la CEE, viene denominata semplicemente Comunità Europea, CE. Inoltre, il trattato crea l'unione economica e monetaria, introduce nuove politiche comunitarie (istruzione, cultura, cooperazione allo sviluppo, coesione) e sviluppa le competenze del Parlamento europeo (procedura di codecisione). Daniele Luigi (2010), Diritto dell’Unione Europea, IV edizione, Giuffré Editore, Milano, p.11 ss. 76
La Parte seconda del Trattato è dedicata e intitolata alla “Cittadinanza dell’Unione”, artt.17-22 TCE. 40
interni77 anche per facilitare l’esercizio del diritto alla libera circolazione in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia; è il cosiddetto “Terzo Pilastro”78 che, occupandosi della strategia comune in materia di giustizia e affari interni, ha definito una serie di questioni di interesse comune in merito alla circolazione, come ad esempio la politica d’asilo, d’immigrazione da paesi terzi, l’attraversamento delle frontiere, la cooperazione in materia civile e doganale. Con il Trattato di Amsterdam si ha un’ulteriore svolta poiché l’Unione deve fare i conti sempre più con la circolazione anche di lavoratori e cittadini extra-comunitari, si parla sempre più di immigrazione insieme a libera circolazione. Viene introdotto un nuovo titolo IV nel trattato CE denominato "Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse alla libera circolazione delle persone" che, all’articolo 63 attribuisce al Consiglio competenza ad adottare: “3) misure in materia di politica dell’immigrazione nei seguenti settori: a)condizioni di ingresso e soggiorno e norme sulle procedure per il rilascio da parte degli stati membri di visti a lungo termine e di permessi di soggiorno, compresi quelli rilasciati a scopo di
ricongiungimento
familiare;
b)immigrazione
e
soggiorno
irregolari, compreso il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare; 4) misure che definiscono con quali diritti e a quali 77
Si tratta della GAI, la cooperazione in materia di Giustizia e Affari Interni disciplinata dal Titolo VI, artt 29-37 Trattato sull’ Unione Europea. 78 I tre pilastri dell'Unione Europea, creati con il Trattato di Maastricht del 1992, sono stati un modo di dividere le politiche dell'Unione Europea in tre aree fondamentali. Sono stati aboliti con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009. Il primo riguardava le Comunità Europee ovvero un mercato comune europeo, l'unione economica e monetaria, una serie di altre competenze aggiunte nel tempo, oltre alla politica del carbone e dell'acciaio e quella atomica. Il secondo affrontava la Politica estera e di sicurezza comune ossia la costruzione di una politica unica verso l' esterno.Il terzo, ovvero la Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale intendeva costruire uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia in cui vi sia collaborazione contro la criminalità a livello sovranazionale. 41
condizioni i cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente in uno stato membro possono soggiornare in altri Stati membri.79 Inoltre, data la sempre maggiore corrispondenza degli obiettivi di Schengen con quelli dell’Unione europea, e al fine di rimuovere gli ostacoli derivanti dall’esistenza di due sistemi distinti, le disposizioni del nuovo trattato hanno previsto la comunitarizzazione
80
dell’acquis di
Schengen . Si era già tentato di inserire gli Accordi di Schengen nell’alveo del diritto dell’Unione ma diversi Stati membri si erano tenacemente opposti, in primis la Gran Bretagna, che, temendo un afflusso incontrollato di cittadini extracomunitari sul proprio territorio, non solo non aveva aderito alla cooperazione Schengen ma si è anche opposta alla diretta applicabilità dell’art. 14 del Trattato CE
relativo
alla
libera
circolazione
delle
persone.
La
comunitarizzazione dell’ Accordo, e della successiva Convenzione, ad opera del Trattato di Amsterdam ha, dunque, dovuto tener conto delle posizioni della Gran Bretagna e dell’Irlanda: l’art. 4 del protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen ha pertanto previsto che questi due Stati possano non applicare le disposizioni dell’accordo.81 Il Trattato di Nizza82 non ha invece apportato modifiche sostanziali alle disposizioni sulla libera circolazione poiché si è 79
M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, cit., p. 234 80 Con il termine “comunitarizzazione” si fa riferimento all’assorbimento in ambito comunitario di politiche in settori che prima erano svolte soltanto a livello di cooperazione tra i governi nazionali e con un coinvolgimento marginale delle istituzioni comunitarie. Con questo processo, presente in maniera evidente nel Trattato di Amsterdam, molte competenze entrano a far parte del processo legislativo dell’Unione e dunque dei relativi metodi stabiliti dai Trattati, sottoponendo le disposizioni “comunitarizzate” ad un controllo maggiore, anche della Corte di Giustizia, e assicurando maggiori garanzie di applicazione. 81 M.Roccella e T.Treu in Diritto del lavoro della Comunità Europea, cit., p. 82 Il Trattato di Nizza è stato approvato al Consiglio europeo di Nizza, l'11 dicembre 2000 e firmato il 26 febbraio 2001. Dopo essere stato ratificato dagli allora 15 stati membri dell'Unione europea, è entrato in vigore il 1º febbraio 2003. L'obiettivo del Trattato di Nizza è relativo alle dimensioni e composizione della 42
concentrato principalmente nella revisione in campo istituzionale in vista dell’allargamento dell’Ue ai paesi dell’ex Unione Sovietica. Il Trattato di Lisbona83, segna un momento importante per il futuro dell’ Europa Poiché ridisegna l'organizzazione istituzionale e i meccanismi decisionali dell'Unione europea in considerazione dell'accresciuto numero dei suoi membri, passati in pochi anni da 15 a 2784. Il trattato ha apportato ampie modifiche al Trattato sull'Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea, che viene qui Commissione, alla ponderazione dei voti in Consiglio e all'estensione del voto a maggioranza qualificata, e infine alle cooperazioni rafforzate tra i paesi dell'Unione Europea 83 Il trattato (noto anche come Trattato di riforma),entrato ufficialmente in vigore il 1°dicembre 2009, fu redatto per sostituire La Costituzione europea (ufficialmente Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa) che è stato un progetto di revisione dei trattati fondativi dell'Unione Europea, redatto nel 2003 e abbandonato a seguito dei referendum svoltisi in Francia e Paesi Bassi che hanno bocciato la ratifica. Dopo lo stop dovuto ai referendum negativi nei due paesi membri l'intesa è arrivata dopo due anni di "periodo di riflessione" ed è stata preceduta dalla Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007. In essa si è espressa la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi, al fine di consentire l'entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009 (anno delle elezioni del nuovo Parlamento europeo) Si è così svolto sotto la presidenza tedesca dell'Unione il vertice di Bruxelles tra il 21 e il 23 giugno 2007 che ha portato al raggiungimento di una soluzione. Gli stati membri hanno superato l’incertezza della situazione redigendo un nuovo trattato esemplificato che contenesse la maggior parte delle innovazioni proposte dalla Costituzione ad esclusione di quelle che avevano portato al rifiuto di ratifica di Francia e Olanda. Il Trattato di Lisbona fu, dunque, firmato dai capi di Stato il 13 dicembre 2007. La Costituzione avrebbe dovuto sostituire tutti i trattati con un testo unico di riorganizzazione dei Trattati; la maggior parte delle innovazioni introdotte dalla Costituzione sono state mantenute dal Trattato di Lisbona ad esclusione dei punti controversi che non avevano permesso la sua entrata in vigore. 84 Il 1° gennaio 1973 I sei paesi fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) diventano ufficialmente nove con l’adesione all’UE di Danimarca, Irlanda e Regno Unito. Il 1° gennaio del1981 la Grecia diventa il decimo Stato membro. Il 1° gennaio 1995 Austria, Finlandia e Svezia aderiscono all’UE. Gli Stati membri sono ora quindici e comprendono quasi tutta l’Europa occidentale. L’ex Germania dell’Est entra a far parte dell’UE in seguito alla riunificazione. Il 1° maggio 2004 Otto paesi dell’Europa centrale e orientale, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria, entrano a far parte dell’UE così come Cipro e Malta. Il 1° gennaio 2007 altri due paesi dell’Europa dell’Est, la Bulgaria e la Romania, entrano a far parte dell’UE, facendo salire così il numero degli Stati membri a 27. I paesi candidati all’adesione sono ora la Croazia, l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia e la Turchia. Per la storia delle adesioni: Pocar Fausto (2006), Diritto dell’Unione e delle Comunità Europee, decima edizione, Giuffré Editore, Milano, p.35 ss. 43
ribattezzato Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE). Rispetto al precedente Trattato, quello di Nizza, il Trattato di Lisbona abolisce i "pilastri", provvede al riparto di competenze tra Unione e Stati membri stabilendole in tre categorie: “competenze esclusive”, “competenze concorrenti” e “azioni di sostegno, coordinamento o completamento” dell’azione degli Stati membri; il Trattato rafforza il principio democratico dell’Unione poiché il Parlamento, organo eletto direttamente dai cittadini dell'Unione, è dotato di nuovi importanti poteri, in virtù di un rafforzamento della democrazia rappresentativa, diventando colegislatore, insieme al Consiglio dei Ministri85, per la quasi totalità della legislazione europea86. La procedura legislativa ordinaria diviene la procedura di codecisione (di Parlamento e Consiglio)87 che è applicata per l’approvazione degli atti legislativi tutte le volte che i trattati non prescrivono che debba seguirsi una procedura legislativa speciale.88 Analogo potere sarà attribuito anche nell'ambito della procedura di approvazione del bilancio annuale e del quadro finanziario pluriennale. L’introduzione della codecisione come procedura ordinaria è la novità introdotta da Lisbona più decisiva per la circolazione poiché rafforza la cooperazione fra gli Stati in materia sia di libertà di circolazione, di 85
Il Consiglio dell'Unione europea, noto anche come Consiglio dei Ministri Europei, detiene - insieme col Parlamento europeo - il potere legislativo nell'ambito dell'Unione europea. Ha sede a Bruxelles. E’ composto, ai sensi dell'art. 16 del Trattato sull'Unione europea da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale che possa impegnare il governo dello Stato membro, scelto in funzione della materia oggetto di trattazione. Dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona le formazioni sono dieci:Affari generali, Affari esteri (presieduto dall'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza); Affari economici e finanziari (Ecofin); Agricoltura e pesca; Giustizia e affari interni; Occupazione, politica sociale, salute e consumatori; Competitività; Trasporti, telecomunicazioni ed energia; Ambiente; Istruzione, gioventù e cultura. 86 Sito internet del Senato della Repubblica, Servizio Affari Internazionali, Ufficio dei rapporti con le istituzioni dell’Unione Europea <http://www.senato.it/documenti/repository/lavori/affarieuropei/schede_informative/I L%20TRATTATO%20DI%20LISBONA.pdf> 87 Articolo 294 TFUE 88 Articolo 289, par.2, TFUE 44
sicurezza e di giustizia. Prima dell'entrata in vigore del trattato di Lisbona, le decisioni importanti in queste materie richiedevano l’unanimità del Consiglio, mentre il Parlamento europeo e la Corte di giustizia europea svolgevano solo un ruolo limitato. Il trattato di Lisbona rende il processo decisionale più democratico e trasparente: gli atti giuridici vengono adottati secondo una procedura uniforme.89 L’azione dell’UE nel campo della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale risulta agevolata dall'abolizione dei settori distinti per le varie politiche – i cosiddetti “pilastri” – che caratterizzavano la struttura istituzionale. Anche i parlamenti nazionali partecipano più attivamente all’esame delle proposte e alla formulazione di pareri su temi riguardanti la libertà, la sicurezza e la giustizia. Il trattato di Lisbona garantisce le libertà e i diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea90, poiché li rende giuridicamente vincolanti. Anche la Corte di giustizia dispone di maggiori poteri per assicurare che la Carta sia applicata correttamente. Questi passi avanti facilitano la creazione di un processo decisionale più ampio, legittimo, efficiente, trasparente e democratico per quanto concerne lo Spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, risolvendo il problema dei frequenti blocchi delle proposte dovuti alla regola dell’unanimità. Ciononostante, tre 89
Daniele Luigi (2008), Diritto dell’Unione Europea, IV edizione, Giuffré Editore, Milano, p.100; Daniele Luigi (2010), Diritto dell’Unione Europea, cit., p. 110 90 La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea è stata solennemente proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 a Nizza e una seconda volta, in una versione adattata, il 12 [1] dicembre 2007 a Strasburgo da Parlamento, Consiglio e Commissione. La Carta, resa vincolante al pari dei Trattati con il Trattato di Lisbona, enuncia i diritti e i principi che dovranno essere rispettati dall'Unione in sede di applicazione del diritto comunitario. L'attuazione di tali principi, comunque, è affidata anche alle normative nazionali. Il testo della Carta è suddiviso in 6 capi i cui titoli enunciano i valori fondamentali dell'Unione: Dignità (art 1-5); Libertà (art. 6-19); Uguaglianza (art. 2026); Solidarietà (art. 27-38); Cittadinanza (art. 39-46); Giustizia (art. 47-50). Il settimo capo (art. 51-54) è rappresentato da una serie di "Disposizioni Generali" che precisano l'articolazione della Carta con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). <http://europa.eu/legislation_summaries/justice_freedom_security/combating_discrim ination/l33501_it.htm> 45
Stati membri hanno ritenuto necessario negoziare o prorogare delle deroghe per determinati aspetti della politica di libertà, sicurezza e giustizia, al fine di mantenere disposizioni nazionali specifiche.91
91
Protocollo (n. 20) allegato al T.U.E. e al T.F.U.E. consente al Regno Unito di effettuare i controlli che esso ritenga necessari al fine di sacrificare il diritto di accesso sul territorio per i cittadini di Stati membri e le persone a loro carico, che esercitano diritti conferiti loro dall’ordinamento dell’Unione nonché per i cittadini di altri Stati ai quali tali diritti sono stati conferiti da accordi internazionali. I Protocolli nn. 21 e 22 prevedono che rilevanti disposizioni dello spazio di sicurezza, libertà e giustizia non si applicano al Regno Unito, all’Irlanda e alla Danimarca (c.d. clausole di opting out). Vedi Strozzi Girolamo, Diritto dell’Unione Europea - Parte speciale, p. 144 ss. 46
CAPITOLO II IL RICONOSCIMENTO DEI TITOLI DI STUDIO E DELLE QUALIFICHE PROFESSIONALI NELL’ORDINAMENTO DELL’UE
II.1 La necessità del riconoscimento Il problema del riconoscimento dei titoli di studio di livello superiore è molto complesso ed è stato affrontato non solo nell’ambito
della
Comunità
Europea
ma
anche
da
varie
organizzazioni internazionali che hanno percepito la difficoltà pratica dei lavoratori che si ritrovano a doversi spostare in altri Stati per intraprendere un attività economica. Il Consiglio d’Europa92, già dal 1953 ha preparato una Convenzione relativa all’equivalenza dei diplomi che danno accesso all’università, che in quell’anno è stata ratificata da tutti i membri del Consiglio. Dopo questo primo passo nel continente europeo, la nascente Comunità Europea nel suo Trattato istitutivo ha espressamente previsto
all’articolo 57 il
reciproco riconoscimento dei diplomi e dei certificati come 92
Il Consiglio d’Europa, il cui Statuto è approvato a Londra il 5 maggio 1949 da dieci Stati dell’Europa occidentale (Belgio, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia: attualmente gli Stati membri sono 46). Si tratta di un’organizzazione con compiti ed obiettivi assai ampi: conseguire un’unione più stretta tra i suoi membri, salvaguardare ed attuare gli ideali e i principi che costituiscono il loro patrimonio comune, facilitare il loro progresso economico e sociale. L’organo principale è il Comitato dei Ministri nel quale siedono i Ministri degli Esteri degli Stati membri. Per le decisioni più importanti è richiesta la maggioranza semplice dei componenti e l’unanimità dei votanti. Lo strumento d’azione principale consiste nel predisporre e favorire la conclusione di convenzioni internazionali tra gli Stati membri, ossia di atti la cui entrata in vigore è subordinata alla ratifica da parte dei vari Stati. Una tra le più rilevanti Convenzioni firmata nel Consiglio d’Europa è senz’altro la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950. Daniele Luigi (2008), Diritto dell’Unione Europea, cit., p. 5 47
condizione indispensabile per la concreta attuazione della libera circolazione dei professionisti. Con l’Atto Unico Europeo si da ulteriore rilievo al riconoscimento come concreta applicazione della libera circolazione dei lavoratori, prevedendo che tutte le delibere del Consiglio riguardanti questa materia debbano essere assunte all’unanimità dopo aver seguito la proceduta di cooperazione con il Parlamento Europeo. Il Programma generale93 previsto dal Trattato di Roma contemplava per il periodo successivo, un’attività normativa delle istituzioni finalizzata, da una parte, all’armonizzazione delle condizioni di accesso alle diverse professioni, e dall’altra, proprio al reciproco riconoscimento dei titoli ottenuti in base a curricula armonizzati. L’attività di armonizzazione durante il periodo transitorio fu esigua ma venne compensata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che individuò nel principio di leale collaborazione presente nell’articolo 10 del Trattato, l’obbligo per gli Stati di concedere il riconoscimento qualora
lo consentissero le norme
interne in materia di equipollenza dei titoli.
Per quanto queste
interpretazioni abbiano coadiuvato le norme del Trattato, non era ancora risolto il divario tra i differenti sistemi di riconoscimento degli Stati membri. La necessità di un sistema più articolato si iniziò a percepire a partire dagli anni 70’ con i primi atti di diritto derivato, relativi alle differenti professioni, che diedero il via all’emanazione delle direttive sul riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche 93
Il Programma generale per la soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento del 18 dicembre 1961. Secondo il Trattato di Roma , art.52, tutte le restrizioni allo stabilimento avrebbero dovuto essere soppresse durante il periodo transitorio e il Programma generale in questione, in armonia con il Programma generale per la soppressione delle restrizioni alla libertà di prestazione di servizi, posto in essere in pari data, aveva la funzione di fissare “per le singole categorie di attività, le condizioni generali per l’attuazione della libertà di stabilimento e in particolare le tappe di tale attuazione”. Santa Maria Alberto (2007), Diritto Commerciale europeo, terza edizione, Giuffré Editore, Milano, p. 171 48
professionali che, ad oggi, regolano gran parte delle professioni svolte all’interno dell’Unione. Il diritto comunitario vieta espressamente ogni discriminazione verso i cittadini per ragioni fondate sulla nazionalità, ad eccezione dei limiti imposti alle attività connesse con la pubblica amministrazione, ma, in assenza di tali eccezioni, l’accesso o l’esercizio di alcune professioni dipendono dalla garanzia del riconoscimento di diplomi che certificano un insieme di conoscenze pratiche e teoriche relative ad una determinata competenza professionale. Il diritto ad esercitare un’attività professionale specifica, usufruendo dei diritti compresi nella libertà di circolazione dei lavoratori, non ha più una valenza meramente economica, poiché la libera circolazione di elevata preparazione e cultura comporta un arricchimento per la Comunità, non solo di tipo economico ma anche culturale, consentendo uno scambio di idee e di esperienze funzionale al raggiungimento di una maggiore integrazione sociale e culturale.94 La necessità di una normativa specifica sul riconoscimento si avverte sostanzialmente per il fatto che sia l’istruzione, che l’accesso alle professioni e al loro esercizio sono sempre stati materia di competenza degli Stati, per cui all’interno della Comunità si possono ritrovare tante regolamentazioni differenti per una singola professione quanti sono gli Stati membri. Per professione che può essere dichiarata equipollente all’interno dei diversi Stati della Comunità si intende la “professione regolamentata”. Questa nozione indica un’attività professionale per la quale l’accesso alla medesima o l’esercizio o una delle modalità di esercizio dell’attività siano subordinati direttamente o indirettamente
mediante disposizioni
legislative, regolamentari od amministrative, al possesso di un 94
Come M.P.Chiti e G.Greco in Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., p.1483 49
diploma, o alla certificazione del superamento di un esame specifico senza i quali non sia possibile esercitare quella determinata professione.95
II.2 I titoli di studio riconosciuti nell’UE Per quanto riguarda il riconoscimento di titoli di studi stranieri va fatta una distinzione fra: a)
Titoli che abilitano all’esercizio di una determinata
professione. Il riconoscimento può essere richiesto in applicazione del diritto alla libera circolazione dei lavoratori oppure del diritto alla libertà di stabilimento e prestazione dei servizi a condizione che il richiedente sia un cittadino dell’Unione Europea; b)
Titoli accademici, ossia titoli di studio che
certificano il compimento di un ciclo di istruzioni ma che non comportano necessariamente l’abilitazione all’esercizio di una professione.96 Esistono convenzioni ed accordi internazionali, stipulati anche fra paesi non aderenti all’Unione, che regolano l’equipollenza dei titoli accademici, il richiedente, dunque, deve essere cittadino dello Stato compreso in una delle convenzioni. Nel primo caso trova applicazione la normativa comunitaria. Si applica infatti la direttiva 2005/36/CE, atto che unifica tutti gli atti di diritto derivato in materia di riconoscimento come le differenti direttive settoriali per determinate professioni, il sistema di riconoscimento generale regolato dalla direttive sul riconoscimento 95
Casavola Francesco Paolo, Maria Rita Saulle, Flaminia Kojanec, (1992) Il riconoscimento dei diplomi e dei titoli di studio in Europa: aree economico-giuridiche ed altre aree, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, p. 129 96 Vedi M.Garber in Linee Guida per il riconoscimento delle qualifiche professionali e dei diplomi nell’Unione Europea, Ufficio per l’integrazione europea e Ufficio assistenza scolastica ed universitaria, pag 4 50
dei diplomi universitari n.89/48/CEE, la direttiva generale di riconoscimento n.92/51/CEE e la direttiva riguardante le attività professionali n. 99/42/CE. Nel secondo caso, invece, si parla di riconoscimento accademico o equipollenza dei titoli di studio. Il titolo riconosciuto, in questo caso, consente al possessore di un diploma di continuare gli studi o di avvalersi di un titolo accademico in un altro Stato membro dell’UE. In questo tipo di riconoscimento trovano applicazione le rispettive normative nazionali: il diritto comunitario non regola i sistemi scolastici e di istruzione poiché appartengono alle competenze esclusive degli Stati membri. In Italia le Autorità competenti al riconoscimento dei titoli di studio sono: gli Uffici Scolastici Provinciali, per i titoli di studio pre-universitari, le Università per i diplomi di Laurea, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR), per i titoli di Dottorato.97
II.3.1 Le direttive transitorie e settoriali: il sistema di riconoscimento automatico Il primo approccio della Comunità in merito al riconoscimento di titoli e qualifiche professionali fu di tipo settoriale. Ai sensi dell’art.54 CEE furono emanate diverse direttive concernenti diversi ambiti di attività professionale quali l’agricoltura, il commercio, le banche, le assicurazioni. Le direttive avevano l’obbiettivo di sopprimere o almeno restringere le limitazioni alla libertà di stabilimento basate sulla cittadinanza come per esempio la necessità di presentare documentazioni speciali o di versare cauzioni 97
Come Germani Lidia (2011), Libera circolazione delle persone e dei servizi e professioni regolamentate: Guida all’utente, Ufficio per il mercato interno e la competitività, Dipartimento per le politiche comunitarie della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pag.32 51
o di ottenere autorizzazioni per accedere ad una professione. Dopo la fine del periodo transitorio98, conclusosi senza importanti novità sul riconoscimento, ai sensi dell’articolo 57 del Trattato (art. 47 TUE, art. 53 TFUE)) sono stati generalmente emanati due tipi di direttive per le diverse professioni. Le tipologie di direttive emanate in quel momento furono: 1)
Direttive di coordinamento per armonizzare le
formazioni. Le direttive in questione si occupano di stabilire il contenuto della formazione ed i criteri quantitativi come per esempio gli anni di studio necessari per la conclusione della formazione, le ore di corso, tutti criteri che devono rispettare i diplomi per poter essere riconosciuti in maniera reciproca dagli Stati. In questa modalità di coordinamento le caratteristiche fondamentali riguardano la formazione, la quale deve aderire agli standard minimi dettati dalle norme della direttiva. Inoltre si impone il divieto di subordinare il riconoscimento dei diplomi rilasciati da altri paesi e alle condizioni supplementari che ogni paese membro può imporre per le qualifiche acquisite sul suo territorio. Un’ ulteriore caratteristica è la flessibilità poiché non si è scesi nel dettaglio delle formazioni specifiche. 2)
Direttive
che
istituiscono
il
riconoscimento
automatico dei diplomi. Tra queste direttive, spicca quella relativa alla professione di architetto99 che si distacca dallo schema delineato in precedenza perché non definisce la formazione necessaria per permettere al soggetto l’esercizio delle attività nel campo dell’architettura. La direttiva permette agli architetti in possesso di una serie di diplomi nazionali, che 98 99
Vedi nota 5 Direttiva del 10 giugno 1985, 85/384/CEE 52
vengono comunicati dagli Stati alla Commissione, di stabilirsi in tutti i paesi della Comunità e di esercitare la professione. Il regime di riconoscimento adottato per le formazioni si basa, in sostanza, sull’armonizzazione preventiva dei percorsi formativi, assicurando un riconoscimento automatico per chiunque volesse intraprendere la sua attività professionale in un altro Stato membro. L’armonizzazione prospettata dalle direttive settoriali riguarda solo questi specifici diplomi indicati e ogni paese può continuare a rilasciare sul suo territorio anche altri diplomi che però possono non risultare validi ai fini dell’esercizio della professione all’interno di altri Stati membri diversi da quello dove si è conseguito il diploma. Il tentativo di definire per tutti gli stati uno standard comune di formazione professionale per la messa in opera del riconoscimento del diploma ai fini dell’esercizio dell’attività professionale, si rivelò molto laborioso, difficile e di esito incerto. La lentezza con cui si è attuata la normativa relativa alla professione di architetto è una prova dei limiti che ha avuto il sistema organizzato per singole professioni. Solo dopo ben diciotto anni di lavori fu adottata la unica direttiva sul riconoscimento reciproco dei diplomi, evitando così di dettare norme concernenti la formazione professionale.100 Questo approccio, trovò completa attuazione e realizzazione soltanto con riferimento alle professioni mediche e paramediche, più semplici da armonizzare sia nelle formazioni che nel successivo riconoscimento.
II.3.2 Le direttive settoriali riguardanti le professioni di: medico, infermiere, dentista, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista 100
Carinci Franco, Pizzoferrato Alberto , (2010) Diritto del lavoro – Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Volume IX, UTET Giuridica, Milano, p. 338 e Casavola, Saulle, Kojanec in Il riconoscimento dei diplomi e dei titoli di studio in Europa: aree economico-giuridiche ed altre aree, cit., p.135 53
Le direttive relative al riconoscimento di titoli e diplomi in uno stato membro diverso da quello di provenienza riguardano101: • La professione di Medico: -
La direttiva 75/362/CEE. Direttiva del Consiglio del
15 giugno 1975 riguardante il reciproco riconoscimento di diplomi, certificati ed altri titoli di medico e comportante misure destinate a agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e della libera prestazione di servizi. -
La direttiva 75/363/CEE. Direttiva del Consiglio del
16 giugno del 1975 concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative per attività di medico. -
La
direttiva
81/1057/CEE.
La
Direttiva
del
Consiglio del 14 dicembre 1981 che completa le direttive 75/362/CEE,
77/452/CEE,
78/686/CEE,
e
78/1026/CEE
concernenti il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli rispettivamente di medico, infermiere responsabile dell’assistenza generale, di dentista e di veterinario, per quanto riguarda i diritti acquisiti. -
La direttiva 82/76/CEE. La direttiva del Consiglio
del 26 gennaio 1982 che modifica la direttiva 75/362/CEE e la direttiva 75/363/CEE -
La direttiva 93/16/CEE. La direttiva del Consiglio
del 5 aprile 1993 intesa ad agevolare la libera circolazione dei medici e il reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli. Nella direttiva è regolata l’attività medica in diritto
101
I dati e gli elenchi dei diplomi reciprocamente riconosciuti e delle direttive settoriali sono presi da Casavola, Saulle, Kojanec, Il riconoscimento dei diplomi e dei titoli di studio in Europa, op.cit. , p.136 ss. 54
di stabilimento e di prestazione dei servizi oltre che come attività dipendente. L’intero ciclo di formazione medica deve avere una durata minima di sei anni e comprendere un minimo di 5500 ore di insegnamento teorico e pratico impartito in un università o sotto il controllo di un università. • La
professione
di
Infermiere
responsabile
dell’assistenza generale: -
La direttiva 77/452/CEE. La direttiva del Consiglio
del 27 giugno 1977 sul reciproco riconoscimento dei diplomi certificati ed altri titoli di infermiere responsabile dell’assistenza generale. -
La direttiva 77/453/CEE. La direttiva del Consiglio
del 27 giugno 1977 relativa al coordinamento delle disposizioni legislative regolamentari ed amministrative in questo campo. -
La direttiva 78/1057/CEE. La direttiva del Consiglio
del 14 dicembre 1981 che completa le direttive 75/362/CEE , 77/452/CEE, 78/686/CEE e 78/1026/CEE. La formazione professionale di infermiere comprende almeno tre anni o 4600 ore di studi teorici e pratici a tempo pieno. • La professione di Dentista: -
La direttiva 78/686/CEE. La direttiva del Consiglio del 25 luglio 1978 riguardante il reciproco riconoscimento dei diplomi, dei certificati e dei titoli.
-
La direttiva 78/687/CEE. La direttiva del Consiglio del 25 luglio 1978
sul
coordinamento
delle
disposizioni
legislative,
regolamentari ed amministrative.
55
-
La direttiva 78/1057/CEE. La direttiva del Consiglio del 14 dicembre
1981
che
completa
le
direttive
75/362/CEE,
77/452/CEE e 78/1926/CEE. La formazione di dentista comprende in totale almeno cinque anni di studi teorici e pratici a tempo pieno presso un’università od un istituto superiore di livello equivalente. La formazione degli specialisti ha una durata minima di tre anni. • La professione di Veterinario: -
La direttiva 78/1026/CEE. La direttiva del Consiglio del 18 dicembre 1978 concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, titoli e certificati di veterinario.
-
La direttiva 78/1027/CEE. La direttiva del Consiglio del 18 dicembre 1978 sul coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative.
-
La direttiva 78/1057/CEE. La direttiva del Consiglio del 14 dicembre
1981
che
completa
le
direttive
75/362/CEE,
78/686/CEE e 78/1026/CEE. La formazione veterinaria deve avere una durata complessiva di almeno cinque anni d’insegnamento teorico e pratico a tempo pieno, impartito in un’università o in un istituto superiore di livello equivalente. • La professione di Ostetrica: -
La direttiva 80/154/CEE. La direttiva del Consiglio del 21 gennaio 1980 sul reciproco riconoscimento di diplomi, certificati, ed altri titoli di ostetrica.
56
-
La direttiva 80/155. La direttiva del Consiglio del 21 gennaio 1980 relativa al coordinamento delle disposizione legislative, regolamentari ed amministrative.
La durata del ciclo di formazione a tempo pieno delle ostetriche può variare dai 18 mesi a più di tre, e può prevedere una pratica professionale di uno o due anni. • La professione di Architetto: -
La direttiva 85/384/CEE. La direttiva del Consiglio del 10 giugno 1985 riguarda il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell’architettura e prevede misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi.
Per la professione di architetto non sono stati coordinati i corsi di studio con una specifica direttiva ma ogni stato membro riconosce diplomi, certificati ed altri titoli conseguiti durante un ciclo di formazione di almeno quattro anni post secondari di studio a tempo pieno e rispondente a condizioni minime di formazione102. A tali diplomi, rilasciati dagli altri Stati membri, lo Stato ospitante attribuisce, sul proprio territorio, lo stesso effetto dei diplomi, certificati ed altri titoli da esso rilasciati. La direttiva non definisce la formazione necessaria per poter esercitare la professione di architetto all’interno della Comunità ma permette ali architetti in possesso di una serie di diplomi nazionali, i quali vengono comunicati dagli Stati alla Commissione, di stabilirsi ed esercitare la professione in uno degli Stati membri.
102
Esiste un elenco di diplomi dei diversi Stati membri per i quali è necessaria una procedura di riconoscimento qualora l’interessato/a abbia iniziato lo studio a partire dall’anno accademico 1988/89. L’elenco è reperibile nel sito internet http://citizens.eu.int 57
• La professione di Farmacista: -
La direttiva 85/432/CEE. I titolari di un diploma, certificato o altro titolo in farmacia, la cui equipollenza sia stata riconosciuta, sono specialisti nel campo dei medicinali e possono accedere in tutti gli Stati membri ad un campo minimo d’attività in questo settore. La direttiva del Consiglio del 16 settembre 1985 impedisce agli Stati membri di esigere condizioni di formazione complementari per l’accesso alle attività non incluse nel campo minimo di attività. È stato redatto un elenco di tutte le tipologie di attestato reciprocamene riconosciuto dagli Stati membri. Tali diplomi garantiscono che i titolari hanno seguito almeno quattro anni d’insegnamento teorico e pratico a tempo pieno impartito in un università o in un istituto superiore di livello equivalente ed almeno sei mesi di tirocinio presso una farmacia aperta al pubblico, o in un ospedale.103
Alcune tra le direttive in questione sono stati modificate in taluni aspetti dalla direttiva 2001/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2001 che modifica le direttive 89/48/CEE104 e 92/51/CEE105 del Consiglio relative al sistema generale di riconoscimento
delle
qualifiche
professionali
e
le
direttive
77/452/CEE, 77/453/CEE, 78/686/CEE, 78/687/CEE, 78/1026/CEE, 78/1027/CEE, 80/154/CEE, 80/155/CEE, 85/384/CEE, 85/432/CEE, 85/433/CEE e 93/16/CEE del Consiglio concernenti le professioni di infermiere responsabile dell'assistenza generale, dentista, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista e medico. Il provvedimento era finalizzato a facilitare e rendere più trasparente il meccanismo di riconoscimento dei titoli di studio e riprende un concetto di 103
Casavola, Saulle, Kojanec, Il riconoscimento dei diplomi e dei titoli di studio in Europa, op.cit. , p.139. 104 Vedi paragrafo 4.1 105 Vedi Capitolo II, paragrafo 4.2 58
formazione regolamentata per cui lo Stato membro che ospita il professionista al momento della valutazione dei titoli e delle esperienze professionali di quest’ultimo deve tener conto della formazione che egli abbia acquisito nel paese d’origine, anche se lo Stato membro non rilascia un titolo corrispondente. In tal modo lo Stato non potrà richiedere i due anni di esperienza professionale né esigere misure di compensazione. Inoltre la direttiva prevede che se uno Stato membro riconosce ad un cittadino europeo una formazione ottenuta in un paese terzo, un secondo Stato membro ospitante non può rifiutare, se non motivandola, la domanda di riconoscimento.106 Per gli ingegneri non venne realizzato alcun accordo.
II.4
Le
direttive
sul
sistema
generale
di
riconoscimento dei titoli Una nuova fase si ebbe nella metà degli anni ’80, contemporaneamente alle iniziative politiche di rilancio del processo di integrazione europea. Già dal Consiglio di Fontainbleau107 si mostrò l’interesse a superare l’approccio settoriale nel campo del riconoscimento, ma solo nel Consiglio di Milano108 nel giugno del 106
Di Francesco Andrea (2007), Lezioni di diritto privato europeo del lavoro, Giuffré Editore, Milano, p. 88 107 Consiglio europeo tenutosi nel giugno del 1984 nella cittadina francese in cui si è giunti all’Accordo di Fontainbleau con il quale si poneva fine alla lunga disputa relativa all’entità della contribuzione della Gran Bretagna al bilancio comunitario Da tempo questo Stato chiedeva una riduzione dell’importo della propria contribuzione al bilancio delle Comunità, dal momento che esisteva una notevole sproporzione tra quanto versato e la cifra che invece otteneva sotto forma di finanziamenti comunitari. La questione fu risolta concedendo alla Gran Bretagna una riduzione dei contributi che era tenuta a versare. 108 Consiglio europeo svoltosi a Milano tra il 28 e il 29 giugno 1985 fu presentata la proposta di convocare una Conferenza intergovernativa (CIG), incaricata di predisporre un progetto di Trattato per la cooperazione nel campo della sicurezza e della politica estera. In questa circostanza, per la prima volta, si superò un tabù che aveva condizionato i lavori dei Consigli: quello della unanimità nelle votazioni. La 59
1985, quando venne presentato il Libro Bianco109 per la realizzazione del Mercato Interno, venne formulata una proposta concreta su un nuovo sistema di riconoscimento dei titoli. Di fronte alle difficoltà ed ai ritardi di attuazione delle direttive settoriali e sotto la spinta della necessità di dare il prima possibile avvio al Mercato interno si rese palese l’idea che non fosse necessaria la completa uniformità normativa, ma sufficiente un reciproco riconoscimento delle norme degli Stati membri secondo un criterio adottato da ordinamenti di tipo federale. Si poteva raggiungere un compromesso normativo che non subordinasse il riconoscimento reciproco dei diplomi alla condizione dell’armonizzazione delle formazioni professionali ma che si basasse sulla fiducia reciproca che gli Stati, fiducia che gli Stati, come quelli membri della Comunità, devono avere l’uno nei confronti dell’altro dal momento in cui si tratta di Stati con un livello equivalente di sviluppo economico, sociale e politico. Lasciato, così, indietro il metodo delle direttive “verticali”110 il Consiglio approvò, dopo più di tre anni di discussioni, due direttive: la direttiva 89/48 relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanciscono formazioni professionali di durata minima di tre anni e la direttiva 92/51 relativa ad un secondo sistema generale di reciproco riconoscimento dei diplomi di durata inferiore ai tre anni.
proposta, infatti, fu approvata a maggioranza; sette contro tre. Votarono contro l’Inghilterra, la Grecia e la Danimarca. Il Consiglio di Milano si concluse anche con l’approvazione del Libro Bianco di Delors. 109 Libro Bianco è un documento ufficiale designato dalla Commissione Europea che talvolta viene di conseguenza a un Libro verde; la sua funzione è quella di proporre azioni mirate ad un settore particolare dell'economia ed è in genere sottoposto al vaglio del Consiglio dell'Unione, al Parlamento Europeo e alle parti sociali; è sottoposto al regime di pubblicità. Definizione dal sito internet http://europa.eu Il Libro Bianco approvato nel Consiglio di Milano del 1985 prende il nome di “Libro Bianco Delors” dal nome del suo designatore Jacques Delors, l’allora presidente della Commissione Europea, e tratta del completamento del Mercato Unico. 110 O anche “settoriali” 60
II.4.1 La direttiva 89/48 Il 21 dicembre 1988 venne emanata la direttiva 89/48 ed essa segna una tappa fondamentale per l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle persone. La direttiva introduce un “sistema generale” per il riconoscimento dei diplomi rilasciati a fini professionali, riguarda tutti i diplomi ma ne sono escluse le professioni mediche e paramediche, nonché la professione di architetto, dunque tutte le professioni ricomprese nelle direttive settoriali, ma è ricomparsa la professione di avvocato dato che la direttiva 77/249 sulla materia si limitava a considerare la prestazione di servizi. Tutti gli Stati hanno convenuto per la prima volta di basarsi sul
principio
della
reciproca
fiducia
e
non
su
quello
dell’armonizzazione. Il principio del mutuo riconoscimento si era già imposto nell’ambito della circolazione delle merci nella nota sentenza “Cassis de Dijon”111 secondo la quale un prodotto nazionale conforme ai requisiti comunitari, gode automaticamente del diritto a circolare liberamente in territorio comunitario, così che ciò che va 111
Sentenza del 20 febbraio 1979, Causa 120/78, Rewe zentral. In questa sentenza si è affermato il principio del mutuo riconoscimento nella libera circolazione delle merci. La pronuncia mirava ad accertare la legittimità della legislazione tedesca, che vietava in Germania l’importazione dei liquori con gradazione alcoolica inferiore a 32°: nel caso di specie, il liquore Cassis de Dijon. La giustificazione addotta dal governo tedesco era paradossale, in quanto si pretendeva di tutelare la salute pubblica contenendo la proliferazione di bevande a bassa gradazione alcoolica, che avrebbe favorito l’assuefazione a bevande di più alto tenore alcoolico, nonché la lealtà del commercio. La Corte, nel 1979, affermò che qualsiasi bene legalmente prodotto e venduto in uno Stato membro deve, in linea di massima, essere ammesso sul mercato di ogni altro Stato membro. Dalla sentenza sono ricavabili i principi per cui gli Stati, in mancanza di una regolamentazione comune o di un’armonizzazione, restano liberi di regolare, sul proprio territorio, tutto quanto riguarda la commercializzazione, il consumo, l’etichettatura e la designazione dei prodotti; tale libertà non deve concretarsi, però, in misure suscettibili di frapporre ostacoli al commercio comunitario ai sensi dell’articolo 30 CEE (ora 34 TFUE); una regolamentazione nazionale in materia costituisce un intralcio agli scambi comunitari quando non sia giustificata da esigenze imperative. Vedi B. Nascimbene, M. Condinanzi (2007), Giurisprudenza di diritto comunitario. Casi scelti, Giuffre Editore, Milano, p. 815 ss., e Strozzi Girolamo (2010), Diritto dell’Unione Europea, cit., p. 34 61
bene ed è accettato in uno Stato membro può anche andare bene per gli altri Stati. Questo principio può trovare applicazione anche nell’ambito dei servizi infatti viene assunto dalla direttiva in questione. Ciò che la direttiva vuole assicurare è la mobilità del professionista tramite la mobilità riconosciuta al titolo di studio posseduto: “se per ogni titolo preso in esame, si considera che lo Stato che l’ ha rilasciato ha inteso conferire l’abilitazione, sul territorio nazionale, all’esercizio di una data professione, occorre allora fare in modo che ciò si realizzi anche nello spazio europeo privo di frontiere interne”.112 La direttiva 89/48 è basata sulla nozione di “diploma”113 che non è più intesa come nelle direttive di coordinamento dei titoli di studio,
ma
viene
inteso
come
“attestato
di
qualificazione
professionale”, ossia ciò che permette di adattare il titolo di studio in possesso del richiedente ai diversi requisiti previsti dai sistemi 112
Come D. Fisichella, Il riconoscimento dei titoli professionali nell’Unione Europea,cit., p. 39 113 Articolo 1, primo comma della direttiva 89/48: “a) per diploma, qualsiasi diploma, certificato o altro titolo o qualsiasi insieme di diplomi, certificati o altri titoli; - che sia stato rilasciato da un'autorità competente in uno Stato membro, designata in conformità delle sue disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, - da cui risulti che il titolare ha seguito con successo un ciclo di studi postsecondari di durata minima di tre anni oppure di durata equivalente a tempo parziale, in un'università o un istituto di istruzione superiore o in un altro istituto dello stesso livello di formazione e, se del caso, che ha seguito con successo la formazione professionale richiesta oltre al ciclo di studi postsecondari e - dal quale risulti che il titolare possiede le qualifiche professionali richieste per accedere ad una professione regolamentata in dello Stato membro o esercitarla, quando la formazione sancita dal diploma, certificato o altro titolo, è stata acquisita in misura preponderante nella Comunità o quando il titolare ha un'esperienza professionale di tre anni, certificata dallo Stato membro che ha riconosciuto il diploma, certificato o altro titolo rilasciato in un paese terzo. E' assimilato a un diploma ai sensi del primo comma qualsiasi diploma, certificato o altro titolo, o qualsiasi insieme di diplomi, certificati o altri titoli, che sia stato rilasciato da un'autorità competente in uno Stato membro qualora sancisca una formazione acquisita nella Comunità e riconosciuta da un'autorità competente in tale Stato membro come formazione di livello equivalente e qualora esso conferisca gli stessi diritti d'accesso e d'esercizio di una professione regolamentata;” 62
nazionali di formazione professionale. La direttiva infatti, nel delimitare il campo di applicazione materiale, esordisce definendo la nozione di “attività professionale regolamentata”.114 Le due nozioni di “professione” e “attività”, all’interno della direttiva a volte risultano poco chiare poiché i termini vengono utilizzati in maniera ampia, ma l’articolo 1 della direttiva fa intendere che non si tratta di nozioni equivalenti. L’attività definisce un comportamento di fatto, mentre la “professione” indica in sé la nozione di attività, trattandosi di un’attività esercitata da persone ed in condizioni definite giuridicamente. La nozione di professione racchiude in sé quella di attività e costituisce una categoria più ampia che ben può essere fatta risalire anche alla prestazione di un servizio, dunque non solo attività esercitate professionalmente ma anche svolte occasionalmente in maniera non abituale e non sistematica. La direttiva trova applicazione in molte situazioni tra cui due situazioni in particolare a seconda che l’individuo: a) abbia ricevuto la formazione professionale in uno Stato in cui la professione sia regolamentata ed intenda esercitare in uno Stato in cui tale regolamentazione non esiste; b) intenda esercitare una professione che i due Stati sottopongono a regolamentazioni differenti. La 114
Articolo 1, terzo e quarto comma, della direttiva 89/48, si intende: “c) per professione regolamentata, l'attività o l'insieme delle attività professionali regolamentate che costituiscono questa professione in uno Stato membro; d) per attività professionale regolamentata, un'attività professionale per la quale l'accesso alla medesima o l'esercizio o una delle modalità di esercizio dell'attività in uno Stato membro siano subordinati, direttamente o indirettamente mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di un diploma. In particolare, costituiscono modalità di esercizio di un'attività professionale regolamentata: - l'esercizio di un'attività con l'impiego di un titolo professionale qualora l'uso del titolo sia limitato a chi possieda un dato diploma previsto da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative; - l'esercizio di un attività professionale nel settore sanitario qualora la retribuzione e/o il rimborso della medesima siano subordinati dal regime nazionale di sicurezza sociale al possesso di un diploma.” 63
direttiva può essere utilizzata in entrambi i casi poiché la richiesta del soggetto non mira a promuovere nello Stato ospitante il riconoscimento di un titolo di studi bensì una certa qualifica professionale necessaria allo svolgimento di una specifica attività. La verifica che lo Stato potrà fare, poiché prevista dalla direttiva, dovrà tenere presente quest’esigenza ed essere funzionale ad essa. Anche nel caso in cui l’attività che si intende praticare e riconoscere nello stato ospitante sia ricompresa in una categoria più ampia, ciò non obbliga lo stato a riconoscere il titolo formale collegato all’attività. La comparazione dei titoli, come si è visto, non avviene, secondo la direttiva, a livello accademico, ma di formazione professionale, ciò significa che lo Stato deve fare una comparazione tra i requisiti presentati dal richiedente e quelli richiesti dalla normativa nazionale necessari allo svolgimento dell’ attività oggetto del riconoscimento, ma deve farlo tenendo conto del fatto che il professionista candidato costituisce un “prodotto finito”.115 I professionisti sono considerati “prodotti finiti” se nello stato d’origine soddisfano tutte le condizioni prestabilite per accedere ad una professione regolamentata o per esercitarla, essendo inteso che una di queste deve necessariamente essere il compimento di un corso di studi post-secondari di una durata di almeno tre anni. Così che il “diploma” richiesto dalla direttiva in questione è piuttosto un “attestato di qualificazione professionale” di carattere pratico. In Italia, ad esempio, il “diploma” ai sensi della direttiva può essere inteso come il titolo di laurea116, che sancisce il compimento di un 115
Trattasi di un’espressione frequentemente utilizzata in tutta la dottrina citata; ad esempio in Fisichella, riconoscimento dei titoli professionali nell’Unione Europea, cit., p.51 116 In Italia la laurea (non ufficialmente laurea di primo livello o laurea triennale) è un titolo accademico di primo ciclo rilasciato dalle università secondo le convenzioni del Processo di Bologna, cioè il processo di riforma internazionale dei sistemi di istruzione superiore che ha portato alla firma dell’Accordo di Bologna del 1999. La laurea, dalla durata triennale, va a sostituire nel 1997, con la Riforma Berlinguer, i 64
ciclo di studi di durata non inferiore a quattro anni, il tirocinio professionale ed il superamento dell’esame di Stato eventualmente previsto. Anche il Diploma Universitario (DU)117 si colloca nell’ambito della direttiva tra i diplomi universitari di primo livello. Qualora lo Stato ospitante, il quale si ritrova a dover riconoscere ad un soggetto, l’esercizio di una determinata “attività professionale” nel suo territorio, non dovesse trovare corrispondenza con gli standard richiesti per quella determinata attività, non può limitarsi ad un diniego, ma dovrà adoperarsi affinché entrino in gioco gli strumenti di compensazione. La direttiva,infatti, prevede dei meccanismi al fine di adattare la formazione professionale del richiedente alle esigenze nazionali di esercizio professionali, riguardanti sia la durata che il contenuto di essa. Questi meccanismi di adattamento sono il tirocinio, la prova attitudinale118 e l’esperienza
vecchi titoli di diploma universitario. Internazionalmente la laurea corrisponde al bachelor, titoli di primo grado dalla durata triennale o quadriennale (comunque 180 ECTS, 1 credito ogni 20 ore). 117 Il diploma universitario è stato un titolo di primo ciclo soppresso con la riforma Berlinguer del 1999, che ha introdotto in Italia il percorso "3+2" (laurea più laurea magistrale). Il percorso di studi era della durata triennale, ma nel caso in cui lo studente si fosse iscritto ad un corso di diploma di laurea (laurea di secondo ciclo), il percorso poteva durare solamente due anni. Il curriculum era ritenuto più professionalizzante che accademico, come è possibile vedere delle qualifiche del diploma universitario. Il titolo di diploma universitario è equipollente all'attuale laurea purché sia di durata triennale (e non biennale), come stabilito dalla Legge n.240 del 2010 118 Testo dell’articolo 3 della direttiva: “Quando nello Stato membro ospitante l'accesso o l'esercizio di una professione regolamentata è subordinato al possesso di un diploma, l'autorità competente non può rifiutare ad un cittadino di un altro Stato membro, per mancanza di qualifiche, l'accesso a/o l'esercizio di tale professione, alle stesse condizioni che vengono applicate ai propri cittadini: a) se il richiedente possiede il diploma che è prescritto in un altro Stato membro per l'accesso o l'esercizio di questa stessa professione sul suo territorio, e che è stato ottenuto in un altro Stato membro, oppure b) se il richiedente ha esercitato a tempo pieno tale professione per tue anni durante i precedenti dieci anni in un altro Stato membro in cui questa professione non è regolamentata ai sensi dell'articolo 1, lettera c) e del primo comma dell'articolo 1, lettera d), ed è in possesso di uno o più titoli di formazione: - rilasciati da un'autorità competente di uno Stato membro, designata conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative di questo Stato membro, 65
professionale.119 Ogni volta che la comparazione dei titoli di un richiedente con quelli dello stato ospitante dovesse risultare insufficiente vengono attivati questi strumenti di compensazione. - da cui risulti che il titolare ha seguito con successo un ciclo di studi postsecondari di durata minima di tre anni oppure di durata equivalente a tempo parziale, in un'università o un istituto di istruzione superiore o in altro istituto dello stesso livello di formazione di uno Stato membro, e, se del caso, che ha seguito con successo la formazione professionale richiesta oltre al ciclo di studi post-secondari, e - che l'hanno preparato all'esercizio di tale professione. É assimilato al titolo di formazione di cui al primo comma qualsiasi titolo o insieme di titoli che sia stato rilasciato da un'autorità competente in uno Stato membro qualora sancisca una formazione acquisita nella Comunità e sia riconosciuto come equivalente da detto Stato membro, a condizione che il riconoscimento sia stato notificato agli altri Stati membri e alla Commissione. 119 Testo dell’articolo 4 della direttiva 89/48: “1. L'articolo 3 non osta a che lo Stato membro ospitante esiga inoltre che il richiedente: a) provi che possiede un'esperienza professionale, quando la durata della formazione addotta a norma dell'articolo 3, lettere a) e b) è inferiore di almeno un anno a quella prescritta nello Stato membro ospitante. In tal caso, la durata dell'esperienza professionale richiesta: - non può oltrepassare il doppio del periodo di formazione mancante, allorché il periodo mancante riguarda il ciclo degli studi post-secondari e/o un tirocinio professionale effettuato sotto la guida di un istruttore e sanzionato da un esame; - non può oltrepassare il periodo di formazione mancante, allorché questo riguarda un periodo di attività professionale pratica sotto la guida di un professionista qualificato. Quando si tratti dei diplomi di cui all'articolo 1, lettera a), ultimo comma, il periodo di formazione riconosciuta equivalente viene determinato in base alla formazione definita all'articolo 1, lettera a), primo comma. Nell'applicazione della presente lettera si deve tener conto dell'esperienza professionale di cui all'articolo 3, lettera b). L'esperienza professionale richiesta non può comunque superare quattro anni; b) compia un tirocinio di adattamento, per un periodo massimo di tre anni, o si sottoponga a una prova attitudinale: - quando la formazione ricevuta conformemente all'articolo 3, lettere a) e b) verte su materie sostanzialmente diverse da quelle contemplate nel diploma prescritto nello Stato membro ospitante oppure, - quando, nel caso di cui all'articolo 3, lettera a), la professione regolamentata nello Stato membro ospitante comprende una o più attività professionali regolamentate che non esistono nella professione regolamentata nello Stato membro di origine o provenienza del richiedente, e tale differenza è caratterizzata da una formazione specifica prescritta nello Stato membro ospitante e vertente su materie sostanzialmente diverse da quelle contemplate dal diploma dichiarato dal richiedente, oppure - quando, nel caso di cui all'articolo 3, lettera b), la professione regolamentata nello Stato membro ospitante comprende una o più attività professionali regolamentate che non esistono nella professione esercitata dal richiedente nello Stato membro di origine o di provenienza e tale differenza è 66
Lo Stato ospitante, qualora il soggetto richiedente non sia in possesso di un “diploma” ai sensi dell’art.1120 e la sua formazione sia inferiore di almeno un anno a quella prescritta dallo Stato ospitante, può richiedere il requisito dell’”esperienza professionale”, ma il periodo integrativo non può essere superiore a quattro anni.121 Se la lacuna nella formazione riguarda il ciclo di studi postsecondari e/o un tirocinio professionale, l’integrazione non può essere superiore al doppio del periodo di formazione mancante122; se essa riguarda invece un periodo di attività professionale pratica, svolta sotto la guida di un professionista qualificato, l’integrazione richiesta non potrà eccedere il periodo di formazione mancante.123 In alternativa all’esperienza professionale, lo Stato può richiedere il compimento di un tirocinio o il superamento di una prova attitudinale i quali non intendono supplire alle differenze temporali del periodo di formazione, come il meccanismo dell’esperienza professionale, ma attengono al contenuto della formazione. Proprio con l’utilizzo della prova attitudinale sorge un limite della direttiva, la quale da’ allo Stato ospitante un margine caratterizzata da una formazione specifica prescritta nello Stato membro ospitante e vertente su materie sostanzialmente diverse da quelle contemplate dal titolo o dai titoli dichiarati dal richiedente. Se lo Stato membro ospitante ricorre a tale possibilità, esso deve lasciare al richiedente la scelta tra il tirocinio di adattamento e la prova attitudinale. in deroga a tale principio, lo Stato ospitante può prescrivere un tirocinio di adattamento o una prova attitudinale se si tratta di professioni il cui esercizio richiede una conoscenza precisa del diritto nazionale e nelle quali la consulenza e/o l'assistenza per quanto riguarda il diritto nazionale costituisce un elemento essenziale e costante dell'attività. Qualora lo Stato membro ospitante intenda introdurre eccezioni al diritto di scelta del richiedente per altre professioni, si applica la procedura di cui all'articolo 10. 120 vedi nota 109 121 Vedi nota 115, Articolo 4, paragrafo 1, lettera a) ultimo comma. 122 Ad esempio in Spagna la laurea in giurisprudenza permette l’immediata iscrizione all’albo e abilita all’esercizio professionale; in Italia è invece richiesto un esame di Stato al quale si accede dopo un tirocinio pratico di circa due anni dopo la laurea. Lo Stato italiano potrebbe richiedere all’avvocato spagnolo la prova di un’esperienza professionale sino a quattro anni (il doppio cioè del periodo mancante) prima di autorizzarlo all’esercizio professionale. Vedi Belloni, La libera circolazione degli avvocati nella comunità europea, cit., p. 98 123 Vedi nota 115, Articolo 4, paragrafo 1, lettera a), primo e secondo trattino, 67
d’azione molto ampio che rischia di “svuotare la ratio dell’intera direttiva”.124 Lo Stato ospitante, infatti, ha l’obbligo di porre al richiedente la scelta tra un tirocinio di adattamento della durata massima di tre anni presso un professionista responsabile e una prova attitudinale attinente all’insieme o a parte delle materie mancanti. In via eccezionale,però, questa scelta può essere fatta dallo stesso Stato ospitante qualora si tratti di professioni che possono avere una formazione su “materie sostanzialmente diverse” come nel caso delle professioni giuridiche, ma non solo, che richiedono una conoscenza approfondita del diritto nazionale che differisce da Stato a Stato. Lo Stato ospitante in quel caso deve dare previa comunicazione alla Commissione, la quale può opporvisi entro tre mesi.125 Questo meccanismo può generare qualche perplessità sull’ampia possibilità che hanno gli Stati di appellarsi alla differenza di contenuto delle formazioni per dissuadere i richiedenti a voler beneficiare del sistema di riconoscimento e non stupirebbe se quest’eccezione concessa agli Stati fosse utilizzata da essi per frenare la circolazione dei professionisti. Per evitare abusi nell’espletamento della prova attitudinale la direttiva fornisce alcune indicazioni cui gli Stati membri devono attenersi. In primo luogo colui che richiede il riconoscimento deve essere considerato un professionista qualificato nello Stato d’origine dunque l’esame attitudinale deve vertere su alcune
delle
oggettivamente
materie
mancanti.
Non
può
essere
stabilito
l’elenco delle materie mancanti semplicemente
ricorrendo ad un raffronto dei curricula studiorum nei diversi Stati, ma la prova attitudinale dovrebbe essere stabilita anche sulle
124
Come D. Fisichella ne Il riconoscimento dei titoli professionali nell’Unione Europea,cit., p. 59 125 Articolo 10, punto 2 della direttiva 89/48: “Fatta salva la facoltà della Commissione e degli altri Stati membri di presentare osservazioni circa il progetto, lo Stato membro può adottare la disposizione soltanto se la Commissione non vi si è opposta entro tre mesi mediante decisione”. 68
aspettative professionali del candidato, in modo da poter stabilire le materie da giudicare essenziali all’esercizio dell’attività che egli si propone di esercitare effettivamente.. La tutela prevede anche che le procedure di esame di una richiesta di riconoscimento per l’esercizio di una professione regolamentata si concludano nei più brevi termini con una decisione motivata dall’autorità competente dello Stato, adottata non più tardi di quattro mesi successivi alla presentazione e della documentazione relativa alla richiesta. Contro tale decisione o in assenza di decisione può essere proposto un ricorso giurisdizionale di diritto interno. La direttiva però non precisa il tempo che può trascorrere tra la risposta alla domanda d’ammissione e il periodo di adattamento o la prova attitudinale, né tra il superamento di tali meccanismi di adattamento e l’ammissione definitiva all’esercizio della professione.126 La direttiva non si applica alle professioni già regolate da direttive specifiche e il riconoscimento ai sensi della direttiva è data solo ai cittadini comunitari e non alle istituzioni nazionali. Infatti, sono legittimati a chiedere solo a titolo individuale il riconoscimento del titolo di cui sono in possesso; la direttiva non ha conferito, infatti, alle Università, o agli istituti abilitati a rilasciare titoli di studio, la possibilità di chiedere direttamente il riconoscimento alle competenti autorità degli altri Paesi membri. Il riconoscimento avviene dunque sempre “caso per caso”. I candidati risultati idonei, cioè coloro che soddisfano le condizioni di accesso o esercizio della professione regolamentata in questione hanno il diritto di fregiarsi del titolo professionale dello Stato membro ospitante. Le norme che riguardano il riconoscimento generale dei titoli non modificano le norme professionali e quindi
126
Belloni, La libera circolazione degli avvocati nella Comunità Europea, prima edizione, Padova, p. 100 ss. 69
deontologiche di quella professione nello Stato ospitante, alle quali il lavoratore migrante dovrà necessariamente conformarsi.
II.4.2 La direttiva 92/51 Con l’emanazione della direttiva del 18 giugno 1992, 92/51/CEE, la Comunità ha completato il sistema generale di riconoscimento della formazione professionale. La direttiva si articola in ventuno considerando , composti di diciannove articoli e di quattro allegati127. I principi ispiratori della direttiva sono da ritrovarsi in tutto il testo, il quale completa e a volte coincide con quello della direttiva 89/48; essi sono quello del mutuo riconoscimento e della reciproca fiducia fra gli Stati, e anzi nella direttiva 92/51 questi vengono addirittura rafforzati dato l’ambito oggettivo della sua applicazione. La direttiva si rivolge al cittadino comunitario, non fornito di laurea, che voglia esercitare, come lavoratore autonomo o subordinato, una professione regolamentata in uno Stato membro ospitante diverso da quello di formazione; essa rappresenta un
127
L’allegato (A) contiene un ampio numero di direttive specifiche, riguardanti professioni alle quali non può essere applicato il sistema di riconoscimento. L’allegato (B) individua un gruppo di attività particolari alle quali il riconoscimento può essere applicato anche se esercitate a titolo subordinato. Si tratta di alcune attività dell’industria, dell’artigianato, del commercio all’ingrosso e al minuto, della distribuzione di prodotti tossici, di servizi personali (ristoranti, bar, campeggi). L’allegato (C) enumera i cicli di formazione con struttura particolare, che rilasciano un diploma che può essere ricompreso nella definizione di “diploma europeo”. Le professioni interessate sono quelle relative al settore paramedico e socio-pedagogico in Germania, Lussemburgo, Italia (con particolare riferimento, in quest’ultimo caso, all’attività di odontotecnico, ottico, e podologo); a quello dei “mastri artigiani” in Danimarca, Germania, Lussemburgo; a quello marittimo in Danimarca, Paesi Bassi, Germania e Italia; al settore tecnico nei Paesi Bassi (con riferimento all’ufficiale giudiziario) ed in Italia (riguardante l’attività di geometra, perito agrario, ragioniere e perito commerciale, consulente del lavoro); ai corsi di formazione nel Regno Unito, in quanto “National” o “Scottish Vocational Qualification” . L’allegato (D) riguarda, infine, alcune formazioni specifiche nel Regno Unito che danno accesso a professioni per cui è richiesto il possesso di un diploma; si tratta di qualifiche che danno competenza per un ampio numero di attività, in contesti molto diversi o con una precisa connotazione tecnica. 70
ulteriore tassello nella costruzione del mercato interno e, in particolare, del mercato europeo delle professioni.128 Questa
direttiva
si
riferisce
all’esercizio
di
attività
professionali di natura prettamente pratica, dove l’elemento materiale della formazione è maggiore rispetto alla componente intellettuale. Si applica, dunque, sullo schema di tre livelli, alle professioni che possono essere esercitate con il conseguimento di titoli rilasciati al termine di corsi di studio “brevi”129 come ad esempio il “diploma” rilasciato al termine di studi post-secondari della durata di almeno un anno130, il “certificato” che sancisce il compimento di un ciclo di 128
Vedi M.P.Belloni in La libera circolazione dei lavoratori e il diritto all’istruzione superiore nella Comunità Europea, cit., p.106 129 Cfr. il XVII considerando della direttiva 92/51/CEE: “considerando che il sistema generale complementare si riferisce a professioni il cui esercizio presuppone una formazione professionale di grado secondario, nonché a qualifiche relative a capacità di tipo prevalentemente manuale e deve quindi prevedere la possibilità di riconoscere queste qualifiche anche nei casi in cui siano state acquisite attraverso la sola esperienza professionale in uno Stato membro in cui le professioni in questione non siano regolamentate”. 130 Testo dell’articolo 1, lettera a) della direttiva: “per «diploma», qualsiasi titolo di formazione o qualsiasi insieme di tali titoli: — che sia stato rilasciato da un'autorità competente in uno Stato membro, designata in conformità delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di quest'ultimo, — da cui risulti che il titolare ha seguito con successo: i) un ciclo di studi postsecondari diverso da quello di cui al secondo trattino dell'articolo 1, lettera a) della direttiva 89/48/CEE, della durata di almeno un anno oppure di durata equivalente a tempo parziale, per il quale in generale una delle condizioni di accesso è, di norma, quella di aver portato a termine il ciclo di studi secondari richiesto per accedere all'insegnamento universitario o superiore, nonché la formazione professionale eventualmente richiesta oltre a questo ciclo di studi postsecondari, ii) oppure uno dei cicli di formazione che figurano all'allegato C e — dal quale risulti che il titolare possiede le qualifiche professionali richieste per accedere ad una professione regolamentata in detto Stato membro o esercitarla, quando la formazione sancita da tale titolo è stata acquisita in misura preponderante nella Comunità, o fuori della Comunità in istituti di istruzione che impartiscono una formazione conforme alle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di uno Stato membro o quando il titolare del diploma ha un'esperienza professionale di tre anni, certificata dallo Stato membro che ha riconosciuto un titolo di formazione rilasciato in un paese terzo. È assimilato a un diploma ai sensi del primo comma qualsiasi titolo di formazione o qualsiasi insieme di tali titoli, che sia stato rilasciato da un'autorità competente in uno Stato membro qualora sancisca una formazione acquisita nella Comunità e riconosciuta da un'autorità competente in tale Stato membro come formazione di 71
studi secondari131, e l’”attestato di competenza”, il quale non essendo né un diploma né un certificato fornisce il valore eminentemente pratico del riconoscimento della formazione professionale.132 Per il primo livello il riconoscimento si applica al “diploma” che attesta la conclusione di studi post-secondari di almeno un anno (o di durata equivalente a tempo parziale); il cursus studiorum deve, ovviamente, essere diverso da quello previsto per il conseguimento della laurea, cioè quelli individuati dalla direttiva 89/48. La direttiva
livello equivalente e qualora esso conferisca gli stessi diritti d'accesso e d'esercizio di una professione regolamentata;” 131 Testo dell’articolo 1, lettera b) della direttiva: “per «certificato», qualsiasi titolo di formazione o qualsiasi insieme di tali titoli: — che sia stato rilasciato da un'autorità competente in uno Stato membro, designata in conformità delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di quest'ultimo, — da cui risulti che il titolare, dopo aver seguito un ciclo di studi secondari, ha compiuto: un ciclo di studi o di formazione professionale diverso da quelli di cui alla lettera a), impartito in un istituto d'istruzione o nell'impresa, o in alternanza in un istituto di istruzione e nell'impresa, e completato, se del caso, dal tirocinio o dalla pratica professionale richiesti oltre a tale ciclo di formazione, oppure il tirocinio o il periodo di pratica professionale richiesti oltre a tale ciclo di studi secondari, oppure — da cui risulti che il titolare, dopo aver seguito un ciclo di studi secondari a carattere tecnico o professionale, ha compiuto, se del caso, un ciclo di studi o di formazione professionale quale contemplato nel secondo trattino, oppure il tirocinio o il periodo di pratica professionale richiesti oltre a tale ciclo di studi secondari a carattere tecnico o professionale,e — dal quale risulti che il titolare possiede le qualifiche professionali richieste per accedere ad una professione regolamentata in detto Stato membro o esercitarla, quando la formazione sancita da tale titolo è stata acquisita in misura preponderante nella Comunità, o fuori dalla Comunità in istituti di istruzione che impartiscano una formazione conforme alle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di uno Stato membro o quando il titolare ha un'esperienza professionale di due anni, certificata dallo Stato membro che ha riconosciuto un titolo di formazione rilasciato in un paese terzo. È assimilato a un certificato ai sensi del primo comma qualsiasi titolo di formazione o qualsiasi insieme di tali titoli, che sia stato rilasciato da un'autorità competente in uno Stato membro qualora sancisca una formazione acquisita nella Comunità e riconosciuta da un'autorità competente in uno Stato membro come formazione di livello equivalente e qualora esso conferisca gli stessi diritti d'accesso e d'esercizio di una professione regolamentata; 132 Come D. Fisichella, Il riconoscimento dei titoli professionali nell’Unione Europea,cit., p. 63 72
92/51 equipara al diploma qualsiasi titolo di formazione rilasciato da uno Stato membro, qualora sancisca una formazione acquisita nella Comunità e riconosciuta da un Autorità competente in tale Stato membro, come formazione di livello equivalente e qualora conferisca gli stessi diritti di accesso e di esercizio di una professione regolamentata. Per il secondo livello il riconoscimento si applica al certificato che costituisce formazioni acquisite al termine di studi secondari. La direttiva prende in considerazione quattro casi specifici. Nel primo caso il titolare del “certificato” dopo una preparazione secondaria risulta aver compiuto un ciclo di studi o di formazione professionale completati da un tirocinio o da una pratica della professione. Nel secondo caso gli studi secondari sono individuati da un tirocinio o da una pratica professionale. Nel terzo caso, a studi secondari tecnici o professionalizzanti segue un ulteriore ciclo di studi o di formazione professionale; nel quarto caso gli studi tecnico professionalizzanti sono perfezionati da un tirocinio o da un periodo di pratica professionale. In quest’ultima ipotesi si accetta per il riconoscimento una formazione specialistica. Sia per il primo che per il secondo livello, qualora il richiedente non sia in possesso di “diploma” o “certificato”
ma nei precedenti dieci anni abbia esercitato la
professione per tre anni consecutivi in uno Stato membro in cui essa non è regolamentata, lo Stato ospitante non può negargli l’accesso e l’esercizio della professione. Per il terzo livello il riconoscimento si applica all’”attestato di competenza” che consente di accedere ad una professione anche senza possedere un diploma o un certificato poiché tale attestazione è rilasciata dalle Autorità competenti di uno stato sulla base della valutazione
di
qualifiche,
attitudini
e
conoscenze
ritenute
73
indispensabili per l’esercizio di una professione, senza una formazione preliminare particolare. È dunque previsto un trattamento differenziato tra i lavoratori a seconda che essi provengano da uno Stato in cui la professione che intendono svolgere è regolamentata o no, in quanto nel caso in cui sia regolamentata
non
è
richiesta
l’esperienza
professionale.
È
considerata equivalente ad una professione regolamentata e, dunque, disciplinata da norme giuridiche anche un’attività professionale che venga gestita da un’associazione od organizzazione che si occupi di mantenere all’interno dello Stato uno standard di professionalità elevato e che rilasci un riconoscimento, anche se in Italia questa forma non viene riconosciuta poiché le attività presso le associazioni non possono essere considerate equivalenti ad una professione regolamentata. Come la direttiva 89/48, la direttiva 92/51, non è automatica poiché prevede dei meccanismi di adattamento che entrano in gioco nel caso in cui il candidato dimostri di non possedere i requisiti essenziali e possono consistere in un tirocinio o in una prova attitudinale, comprese le prove di onorabilità, moralità, di assenza di dichiarazione di fallimento o di assenza di dichiarazioni che sospendano o vietino l’esercizio di tale attività per gravi motivi. Per il livello sancito dal “diploma” si può esigere un’esperienza professionale se la durata della formazione richiesta nel paese d’origine è inferiore di almeno un anno rispetto a quella del paese ospitante. Se le differenze nelle materie teoriche o pratiche risultano essere sostanziali nei due Paesi si può richiedere al candidato un tirocinio di adattamento per un periodo massimo di tre anni o eventualmente una prova attitudinale. Nel caso in cui la professione richieda una conoscenza del diritto nazionale come elemento essenziale dell’attività lavorativa, lo Stato ospitante ha la facoltà di 74
scegliere fra tirocinio e prova attitudinale. Per il livello sancito da un “certificato” la prova o il tirocinio, il quale non deve superare i due anni, sono richiesti alle stesse condizioni del diploma. La scelta concessa nella maggior parte dei casi al candidato, tra tirocinio e prova attitudinale è un importante garanzia per il cittadino comunitario il quale potrà evitare di sottoporsi alla prova attitudinale nel caso in cui questa sia utilizzata dallo Stato ospitante come una barriera protettiva nei confronti dei propri ordini professionali. L’esame della domanda, ai sensi della direttiva, deve concludersi nei tempi più brevi, con una decisione motivata e adottata non più di quattro mesi dopo la presentazione della documentazione richiesta per il riconoscimento. Solo il rifiuto de ve essere motivato ed è ammessa per il richiedente la possibilità di un ricorso giurisdizionale di diritto interno contro l’assenza di decisione da parte delle Autorità competenti superati i quattro mesi.
II.4.3 La direttiva 2005/36 L’esigenza di estendere il più possibile la facoltà di esercitare la propria professione con il titolo professionale originario, favorendo la libera circolazione di lavoratori qualificati, ha portato il legislatore comunitario a rivedere la disciplina e il meccanismo del riconoscimento delle qualifiche.133 Infatti alla fine degli anni ’90 coesistevano 35 direttive transitorie, 12 direttive settoriali, e due relative ad un sistema generale di riconoscimento dei titoli, tutte ispirate a principi molto diversi e non sempre di facile lettura e applicazione, difatti non avevano prodotto i risultati sperati dal
133
Come Carinci, Pizzoferrato, Diritto del lavoro – Diritto del lavoro dell’Unione Europea, cit., p. 340 75
legislatore.134 Il problema delle misure di compensazione e dei test di idoneità, così come la mancata corrispondenza, nei diversi Stati, tra attività consentite attraverso il possesso di un identico titolo professione e il fatto che in alcuni Stati membri determinate attività fossero riservate a professioni regolamentate, mentre in altri Stati fossero liberamente accessibili , hanno dato luogo ad un processo di profondo ripensamento del sistema generale di riconoscimento dei 134
Come Chiti M. e Greco. G. in Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., p. 1509 ss. Nella Relazione sullo stato di applicazione del sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore, presentata dalla commissione al Parlamento europeo il 15 febbraio 1996 risultava che, nel periodo tra il 4 gennaio 1991 e il 31 dicembre 1994, solo undicimila riconoscimenti erano stati concessi ai sensi della direttiva 89/48, e seimila solo nel Regno Unito, e di questi ultimi la maggior parte con riferimento ad insegnanti. Ciò era dovuto, oltre ad uno scarso interesse da parte dei professionisti ad approfittare della libertà di stabilimento nei vari Paesi della Comunità, che si era manifestato del resto anche rispetto all’attuazione delle direttive sui medici, da un lato alla difficoltà di comparare i caratteri della professione per la quale si chiede il riconoscimento con quella di cui si possiede il diploma nel Paese di provenienza, e dall’altro alla tendenza da parte degli Stati a non riconoscere le peculiarità del sistema di riconoscimento professionale dei titoli e a tentare di subordinarlo al superamento di una prova attitudinale o di un tirocinio ogni qual volta fossero rilevabili delle difformità rispetto al livello “accademico” della formazione. Talvolta le due questioni sono connesse, essendovi la tendenza, in caso di dubbio, a riconoscere il diploma non in base alle attività professionali effettivamente svolte ma al livello e alla qualità della preparazione “teorica” ricevuta e a trasformare la prova attitudinale in un vero e proprio esame di abilitazione. Si spiega così come, sino al 1995, dei trecentoquaranta avvocati sottoposti alla prova, di cui all’art.4, solo duecentoquattordici l’abbiano superata. Inoltre, si avvertiva la necessità di assicurare una maggiore sinergia tra riconoscimento professionale e accademico dei diplomi: benché le due nozioni separate e anzi la Commissione abbia sottolineato l’importanza di non applicare criteri “accademici” nella valutazione dei diplomi che permettano l’accesso ad una professione regolamentata, è indubbio che esistano delle interazioni, se non altro perché il riconoscimento a fini professionali poggia largamente sulla formazione accademica e in alcuni Stati il diploma accademico vale direttamente come titolo professionale (si pensi alla laurea in giurisprudenza che permette l’iscrizione all’albo dei procuratori in Spagna senza necessità di ulteriori requisiti). A tal fine sono state avanzate dalla Commissione varie proposte, tra cui l’adattamento consensuale delle formazioni, sia a livello di organizzazione che di contenuto dei corsi universitari, che garantiscano al termine degli studi un più facile, se non automatico, riconoscimento, così come proposto anche da più ordini professionali. Di conseguenza, la Commissione ha accolto favorevolmente, ad esempio, la creazione del titolo di “EurIng” creato dalla federazione delle Associazioni Nazionali degli Ingegneri che, per superare le profonde differenze esistenti nella formazione degli ingegneri nei vari paesi europei, stabilisce un percorso minimo di addestramento teorico e pratico al cui termine il riconoscimento del diploma non dovrebbe essere subordinato a misure compensative (Cfr. la risposta della Commissione alla domanda scritta n.3429/93, in GUCE del 26 settembre 1994, n. C 268). 76
diplomi e delle qualifiche professionali, alla ricerca di una semplificazione degli strumenti normativi sino a quel momento applicabili, pur cercando di non stravolgerne le linee portanti che, infatti,
sono
state
confermate
nel
meccanismo
del
mutuo
riconoscimento della qualifica senza preventiva armonizzazione.135 In adempimento all’invito del Consiglio Europeo di Stoccolma136 del 23-24 marzo 2011 ad introdurre un regime più uniforme , trasparente e flessibile di riconoscimento delle qualifiche si è pervenuti all’adozione della direttiva 2005/36 del 7 settembre 2005. La direttiva 2005/36 consolida in un unico testo di sessantacinque articoli le direttive n. 89/48, n. 92/51, n. 99/42137, nonché le dodici direttive settoriali relative agli infermieri (n. 77/452 e n.77/453), ai dentisti (n. 78/686 e n. 78/687), ai veterinari (n. 78/1026 e n. 78/1027), alle ostetriche (n. 80/154 e n. 80/155), ai farmacisti (n. 85/432 e n. 85/433), agli architetti (n. 85/384), ai medici (n. 93/16).138 La direttiva 2005/36 detta regimi nettamente differenziati con riferimento ai servizi (artt.5-9) e allo stabilimento (artt.10-20). Con la 135
203
Come Strozzi Girolamo, Diritto dell’Unione Europea - Parte speciale, cit., p.
136
Il Consiglio europeo di Stoccolma del 23-24 marzo 2001 ha affrontato il tema della sfida demografica rappresentata dall'invecchiamento della popolazione, con una quota sempre più ridotta di persone in età lavorativa; ha discusso le modalità per creare nuovi e migliori posti di lavoro, accelerare la riforma economica, modernizzare il modello sociale europeo e sfruttare al meglio le nuove tecnologie; ha delineato un orientamento strategico per gli indirizzi di massima per le politiche economiche, al fine di realizzare una crescita sostenuta e condizioni macroeconomiche stabili; ha convenuto di migliorare le procedure affinché la riunione di primavera del Consiglio europeo diventi il punto di riferimento per il riesame annuale dei problemi economici e sociali. In questo contesto, il Consiglio europeo di Göteborg del mese di giugno terrà conto, in tale riesame, dell'obiettivo generalmente riconosciuto della sostenibilità; ha convenuto di elaborare le modalità per coinvolgere attivamente i paesi candidati negli obiettivi e nelle procedure della strategia di Lisbona. 137 Direttiva sul riconoscimento delle qualifiche per l’artigianato, il commercio ed alcuni servizi. 138 Vedi Draetta, Parisi, Elementi di diritto dell'Unione Europea. Parte speciale. Il diritto sostanziale, cit., p. 155 77
libera prestazione di servizi ogni cittadino dell’UE può prestare servizi in modo temporaneo e occasionale in un altro Stato membro con il proprio titolo professionale d’origine, senza dover richiedere il riconoscimento
delle
proprie
qualifiche
poiché
si
fonda
essenzialmente sul principio del paese d’origine. Con riguardo alla libertà di stabilimento un professionista può stabilirsi in un altro Stato membro per svolgervi un’attività professionale in modo stabile. La possibilità di stabilirsi è, però subordinata al riconoscimento della qualifica professionale.139 Il riconoscimento avviene all’esito di una procedura che l’interessato è onerato di attivare presso le competenti autorità dello Stato membro ospitante e sulla base dei criteri previsti dalla stessa direttiva.140 Il riconoscimento può seguire uno dei tre regimi previsti dalla direttiva: sistema generale, riconoscimento automatico, riconoscimento in base all’esperienza professionale. La direttiva si applica a tutti i cittadini dei 27 Stati membri dell’Unione Europea, nonché ai cittadini dell’Islanda, Norvegia e Liechtenstein,
che
intendono
esercitare
una
professione
regolamentata141 in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito la qualifica professionale, sia come lavoratori autonomi sia come lavoratori dipendenti.142 Se la professione esercitata dal cittadino che intende operare nel Paese ospitante non è regolamentata da quest’ultimo, non è necessario richiedere il riconoscimento delle qualifiche professionali e si può iniziare ad esercitare la professione evitando l’applicazione della direttiva 2005/36.143 139
Germani Lidia (2011), Libera circolazione delle persone e dei servizi e professioni regolamentate: Guida all’utente, cit., p.6 140 Strozzi, Diritto dell’Unione europea – Parte speciale, cit., p. 203-204 141 Per la nozione di professione regolamentata vedi il paragrafo 1, Capitolo II. 142 Articolo 2, n.1, della direttiva. 143 Germani Lidia (2011), Libera circolazione delle persone e dei servizi e professioni regolamentate: Guida all’utente, cit., p.6 78
Beneficiari della direttiva in esame sono anche i cittadini di paesi terzi che siano familiari di un cittadino dell’Unione europea, il quale eserciti il proprio diritto alla libera circolazione all’interno dell’Unione Europea144 ma, qualora la qualifica professionale sia stata acquisita in un paese terzo rispetto ai paesi ricompresi dalla direttiva 2005/36, essa non è applicabile allo Stato membro al quale viene presentata, per la prima volta nell’Unione Europea, la domanda di riconoscimento della qualifica professionale. La direttiva è applicabile
soltanto
riconoscimento. riconoscimento”
a
partire
Dunque, ammetta
ove
dalla lo
seconda
Stato
all’esercizio
membro della
domanda “di
di
primo
professione
regolamentata il titolare del diploma ottenuto in un paese non appartenente all’Ue, dopo tre anni di esperienza professionale sul territorio di tale Stato, debitamente certificata dalle autorità del medesimo, l’interessato viene riconosciuto titolare di un titolo di formazione “assimilato” suscettibile di riconoscimento in un altro Stato membro e salva la facoltà di quest’ultimo di imporre misure di compensazione (art.3, n.3). La direttiva è intervenuta in questo modo a disciplinare un aspetto difficile già affrontato sia dal giudice nazionale che dalla Corte di Giustizia. Dopo un primo momento in cui il riconoscimento di un titolo professionale acquisito in un paese terzo era considerata competenza nazionale, la Corte ha affermato che discende direttamente dai Trattati l’obbligo per uno Stato membro di valutare i titoli in possesso del richiedente e di compararli con i titoli richiesti nello Stato per l’esercizio della corrispondente professione, dando così applicazione alla giurisprudenza Vlassopoulou145, precedente al diritto derivato in materia di riconoscimento professionale, giungendo ad affermare l’obbligo dello Stato membro
144 145
Vedi Capitolo I, paragrafo Sentenza 7 maggio 1991, C-340/89, cit, p. I-2357 79
di riconoscere la qualifica professionale rilasciata da uno Stato terzo che è stata già riconosciuta da uno Stato membro.146 Nella direttiva è inserito un Titolo147 relativo alla libera prestazione dei servizi. Disposizioni relative ai servizi erano già presenti in alcune delle direttive sul riconoscimento dei diplomi, ma la direttiva in questione disciplina in termini generali la materia. Ogni membro della Comunità, stabilito legittimamente148 in uno Stato membro, può prestare servizi su base temporanea e occasionale in un altro Stato membro con il titolo professionale dello Stato membro di origine, senza essere costretto a richiederne il riconoscimento. Nel caso in cui il prestatore di servizi abbandoni lo Stato membro di stabilimento per fornire servizi e la professione non sia ivi regolamentata, deve certificare un’esperienza professionale biennale che sia stata effettuata nei dieci anni precedenti alla prestazione di servizi per la quale si presenta la dichiarazione, e di avere uno o più attestati di competenza o uno o più titoli di formazione. I titoli di formazione, per essere validi, devono essere rilasciati da una Autorità competente dello Stato membro di provenienza , devono attestare un livello di qualifica professionale almeno equivalente al livello
146
Strozzi, Diritto dell’Unione Europea – Parte speciale, cit., p. 205 Titolo II, artt.5-9. L’inserzione di tali disposizioni intende “estendere la possibilità di esercitare attività professionali con il titolo professionale originario. Data la diversità dei regimi in merito alla prestazione transfrontaliera dei servizi su base temporanea e occasionale e allo stabilimento è opportuno precisare criteri di distinzione tra questi due concetti” (considerando n. 4). La direttiva 2005/36/CE disciplina solo il riconoscimento delle qualifiche professionali e non gli altri aspetti rilevanti per garantire la libera prestazione dei servizi. Di conseguenza non si dovrebbero porre questioni di sovrapposizione tra le disposizioni qui in esame con il disposto della direttiva c.d. Bolkenstein, come del resto specificato nel considerando n.31 e nell’articolo 17, n 6 di quest’ultima. Nel caso peraltro, in cui un conflitto si ponesse, l’art.13 lett.d della direttiva 1006/123 prescrive che si applichi la direttiva 2005/36. 148 O “legalmente stabilito”. Si è legalmente stabiliti nel momento in cui si soddisfano tutti i requisiti per esercitare una professione in uno Stato membro e non si è oggetto di alcun divieto, neppure temporaneo, all’esercizio di tale professione. 80 147
immediatamente anteriore a quello richiesto dallo Stato membro ospitante149 e devono attestare la preparazione del titolare all’esercizio della professione interessata. Lo Stato membro ospitante può richiedere al prestatore di servizi di presentare una dichiarazione prima di fornire il primo servizio e di rinnovarla annualmente. A questa dichiarazione devono essere allegati i dettagli relativi alla copertura assicurativa o ad un altro tipo di protezione individuale o collettiva riguardanti la responsabilità civile professionale.150 Inoltre lo Stato membro ospitante può richiedere di allegare alla prima dichiarazione una serie di documenti enumerati in modo esaustivo nella direttiva: un certificato di nazionalità, un attestato di legittimo stabilimento del prestatore di servizi e un attestato relativo alle qualifiche professionali.151 Il prestatore di servizi deve rispettare le norme della deontologia professionale direttamente correlate alle qualifiche professionali in vigore nello Stato membro ospitante ed è dispensato dall’ iscrizione o affiliazione ad un organismo professionale dello Stato ospitante.152 È possibile che sia richiesta un’iscrizione temporanea o proforma sempre che non ritardi né complichi la prestazione, e il prestatore è dispensato anche dall’iscrizione ad un organismo previdenziale.153
149
Articolo 13, paragrafo 2, della direttiva. Vedi articolo 6 della direttiva. 151 Pellini Cristina - Schuster Arno (2005), Linee guida per il riconoscimento delle qualifiche e dei diplomi europei, Ufficio per l integrazione europea, Info Point Europa : Ufficio assistenza scolastica ed universitaria, Servizio consulenza universitaria, Bolzano, p. 11 152 Carinci, Pizzoferrato, Diritto del lavoro dell’Unione Europea, cit., p.343 153 Germani Lidia, Libera circolazione delle persone e dei servizi e professioni regolamentate: Guida all’utente, cit., p. 27 150
’
81
Il Titolo III della direttiva 2005/36 riguarda la libertà di stabilimento già sancita dall’articolo 47 del trattato CE (ora 53 TFUE). Per il lavoratore che intenda stabilirsi in un altro Stato membro diverso da quello in cui ha conseguito la qualifica, per esercitare in maniera duratura e non occasionale la sua professione, sono previsti tre meccanismi di riconoscimento delle qualifiche che corrispondono a quelli già esistenti. Riconoscimento automatico per alcune professioni: Questo modello è basato sull’armonizzazione preventiva dei percorsi formativi così da assicurare un riconoscimento automatico. Tale regime si applica alle professioni i cui requisiti minimi di formazione sono stati armonizzati a livello comunitario come le professioni di: medico, infermiere responsabile dell’assistenza generale, odontoiatra, veterinario, ostetrica, farmacista e architetto). La direttiva, ai fini del riconoscimento fissa condizioni minime di formazione per ciascuna delle professioni elencate anche per quanto riguarda la durata degli studi. La direttiva contiene, nell’allegato V, i titoli di formazione conformi alla direttiva che ogni Stato ha individuato nel proprio sistema formativo: essi assicurano un determinato livello di requisiti per poter esercitare la professione in tutto l’ambito dell’Unione. La Commissione europea, il 3 Marzo 2011, ha adottato il regolamento n. 213/2011154 che modifica gli allegati II e V della direttiva 2005/36, introducendo la specializzazione di “oncologia medica” e di “genetica medica”, le quali potranno essere riconosciute in base al sistema di riconoscimento automatico. Per poter beneficiare
154
In GUCE L.59/4 del 4 marzo 2011. 82
del sistema automatico il periodo di formazione minimo dovrà essere di 5 anni per la prima e di 4 per la seconda.155 Riconoscimento delle qualifiche sulla base dell’esperienza professionale: Per le attività dei settori industriale, artigianale e commerciale è previsto il riconoscimento automatico delle qualifiche sulla base dello schema proposto dalla direttiva 99/42, la quale ha introdotto il riconoscimento delle qualifiche in base al parametro dell’esperienza professionale156 maturata dal migrante nel paese d’origine.157 Per il riconoscimento dell’esperienza professionale vengono considerati la durata e il tipo (attività in proprio o dipendente) dell’esperienza professionale maturata nel rispettivo settore. Anche il percorso formativo precedente viene tenuto in considerazione e può venire calcolato rispetto alla durata dell’esperienza professionale richiesta. Tutti i percorsi formativi precedenti devono tuttavia essere attestati da un certificato riconosciuto a livello statale o essere considerati pienamente validi dall’organizzazione professionale competente.
158
Nell’allegato IV della direttiva sono elencate le
professioni artigianali, industriali e commerciali che la direttiva regola
con
questo
sistema
di
riconoscimento;
l’esperienza
professionale è definita in base alla natura (esercizio come lavoratore autonomo, come imprenditore, lavoratore dipendente,ecc.) e alla 155
Germani Lidia, Libera circolazione delle persone e dei servizi e professioni regolamentate: Guida all’utente, cit., p.10 156
Articolo 16 della direttiva 2005/36 : “Se, in uno Stato membro, l'accesso a una delle attività elencate all'allegato IV o il suo esercizio è subordinato al possesso di conoscenze e competenze generali, commerciali o professionali, lo Stato membro riconosce come prova sufficiente di tali conoscenze e competenze l'aver esercitato l'attività considerata in un altro Stato membro.” 157 Carinci, Pizzoferrato, Diritto del lavoro dell’Unione Europea, cit., p.344 158 Pellini Cristina - Schuster Arno, Linee guida per il riconoscimento delle qualifiche e dei diplomi europei, cit., p.17 83
durata (numero di anni di esercizio, data in cui è terminata l’esperienza, ecc.).159 Sia per il sistema di riconoscimento automatico per le professioni settoriali, sia per il sistema basato sull’esperienza professionale, nel caso in cui i richiedenti non soddisfino i requisiti previsti dai due sistemi che assicurano l’automaticità, si può applicare il Sistema Generale di riconoscimento anche per queste attività. Il Sistema Generale di riconoscimento: Il terzo meccanismo previsto dalla direttiva è residuale e si basa sul principio della mutua fiducia fra gli Stati, ciò significa che uno Stato membro non può rifiutare l’accesso ad una determinata professione ad un professionista proveniente da
un altro Stato
membro. Nel caso l’assunzione o l’esercizio di una professione regolamentata nello Stato membro ospitante sia vincolato al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente dello Stato membro consente ai richiedenti l’assunzione o l’esercizio di questa professione alle stesse condizioni vigenti per i cittadini, a condizione che i primi possano presentare il diploma professionale richiesto nell’altro Stato membro e che questo corrisponda almeno al livello formativo immediatamente inferiore a quello richiesto nello Stato membro ospitante. Nel caso, in cui, l’assunzione o l’esercizio di un’attività professionale nello Stato membro di origine del richiedente non sia vincolato al possesso di determinate qualifiche professionali, per poter assumere l’attività nello Stato membro ospitante in cui la professione è regolata, il richiedente è tenuto ad attestare, insieme al
159
Artt. 17-18 della direttiva 2005/36 84
certificato formativo, un’esperienza professionale biennale a tempo pieno, maturata nei dieci anni precedenti la richiesta.160 Il Sistema Generale non prevede il riconoscimento automatico delle qualifiche professionali acquisite in un altro Stato membro ma in alcuni casi tale sistema si applica anche a professioni coperte dai regimi a riconoscimento automatico settoriale e ai regimi a riconoscimento automatico basato sull’esperienza professionale, questo quando non sono soddisfatti i requisiti per i primi due tipi di riconoscimento. La procedura di riconoscimento professionale secondo il Sistema Generale si fonda su un confronto dei percorsi formativoprofessionalizzanti previsti nello Stato ospitante e in quello di appartenenze. Il riconoscimento si fonda sulla configurazione di cinque distinti livelli di qualifiche professionali161 che da quella inferiore a quella superiore possono così riassumersi: • Attestato di competenza che certifichi una formazione generale del livello d’insegnamento primario o secondario comprovante il possesso di conoscenze generali o un attestato di competenza rilasciato da un’autorità competente dello Stato membro d’origine sulla base di una formazione attestata da un certificato
o
da
un
diploma,
ovvero
un’esperienza
professionale di tre anni;162
160
Ceccacci Gianfranco, Rigato Cristina , (2007), Studi associati e società tra
professionisti, quarta edizione, Milano, p.115 e Pellini Cristina, Schuster Arno, Linee guida per il riconoscimento delle qualifiche e dei diplomi europei, cit., p.15 161
Articolo 11 della Direttiva 2005/36 Articolo 11, lettera a) : “a) un attestato di competenza rilasciato da un'autorità competente dello Stato membro d'origine designata ai sensi delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di tale Stato membro, sulla base: i) o di una formazione non facente parte di un certificato o diploma ai sensi delle lettere b), c), d) o e), o di un esame specifico non preceduto da una formazione o dell'esercizio a tempo pieno della professione per tre anni 85 162
• Certificato che corrisponda ad una formazione a livello di insegnamento secondario tecnico o professionale generale, completato con un ciclo di studi o di formazione professionale o da tirocinio.163 • Diploma che sancisca una formazione a livello postsecondario della durata minima di un anno, o una formazione di
livello
professionale
comparabile
in
termini
di
responsabilità e funzioni.164 • Diploma
che
sancisca
una
formazione
a
livello
dell’insegnamento superiore o universitario, della durata minima di tre e inferiore a quattro anni.165 consecutivi in uno Stato membro o a tempo parziale per un periodo equivalente nei precedenti dieci anni, ii) o di una formazione generale a livello d'insegnamento elementare o secondario attestante che il titolare possiede conoscenze generali”. 163 Articolo 11, lettera b): “un certificato che attesta il compimento di un ciclo di studi secondari, i) o generale completato da un ciclo di studi o di formazione professionale diversi da quelli di cui alla lettera c) e/o dal tirocinio o dalla pratica professionale richiesti in aggiunta a tale ciclo di studi, ii) o tecnico o professionale, completato eventualmente da un ciclo di studi o di formazione professionale di cui al punto i), e/o dal tirocinio o dalla pratica professionale richiesti in aggiunta a tale ciclo di studi”. 164 Articolo 11, lettera c): “un diploma che attesta il compimento di i) o una formazione a livello di insegnamento post-secondario diverso da quello di cui alle lettere d) ed e) di almeno un anno o di una durata equivalente a tempo parziale, di cui una delle condizioni di accesso è, di norma, il completamento del ciclo di studi secondari richiesto per accedere all'insegnamento universitario o superiore ovvero il completamento di una formazione scolastica equivalente al secondo ciclo di studi secondari, nonché la formazione professionale eventualmente richiesta oltre al ciclo di studi post-secondari; 30.9.2005 IT Gazzetta ufficiale dell'Unione europea L 255/31 ii) o, nel caso di professione regolamentata, una formazione a struttura particolare inclusa nell'allegato II equivalente al livello di formazione indicato al punto i) che conferisce un analogo livello professionale e prepara a un livello analogo di responsabilità e funzioni. L'elenco nell'allegato II può essere modificato secondo la procedura di cui all'articolo 58, paragrafo 2, per prendere in considerazione la formazione che soddisfi i requisiti previsti nella frase precedente;” 165 Articolo 11, lettera d): “un diploma che attesta il compimento di una formazione a livello di insegnamento post-secondario di una durata minima di tre e non superiore a quattro anni o di una durata equivalente a tempo parziale, impartita presso un'università o un istituto d'insegnamento superiore o un altro istituto che impartisce una formazione di 86
• Diploma
che
sancisca
una
formazione
a
livello
dell’insegnamento superiore o universitario della durata minima di quattro anni.166 L’articolazione così introdotta dovrebbe consentire un più facile raffronto tra la qualifica posseduta e quella richiesta dal paese di stabilimento, senza che si possa pretendere una perfetta corrispondenza tra le due. Infatti il criterio generale posto dall’articolo 13 della direttiva impone all’autorità competente dello Stato di stabilimento di dare accesso alla professione quando il candidato sia in possesso di attestati di competenza o di titoli che comprovino un livello di qualifica professionale almeno equivalente al livello immediatamente inferiore a quello richiesto dallo Stato ospitante.167 A parziale attenuazione del meccanismo di mutuo riconoscimento c’è la possibilità per lo Stato di stabilimento di imporre delle “misure di compensazione”168 quando: • la formazione del richiedente è inferiore di un anno rispetto alla formazione richiesta nello Stato membro ospitante, • la formazione precedente del richiedente ha avuto per oggetto materie sostanzialmente differenti da quelle coperte dal titolo di formazione richiesto nello Stato membro ospitante, oppure • in base alle disposizioni dello Stato membro ospitante la professione comprende una o più attività professionali regolamentate che non sono componente della professione nello Stato membro di origine e questa differenza consiste in una formazione particolare livello equivalente, nonché la formazione professionale eventualmente richiesta oltre al ciclo di studi post-secondari;” 166 Articolo 11, lettera e): “un diploma attestante che il titolare ha completato un ciclo di studi postsecondari della durata di almeno quattro anni, o di una durata equivalente a tempo parziale, presso un'università o un istituto d'insegnamento superiore ovvero un altro istituto di livello equivalente e, se del caso, che ha completato con successo la formazione professionale richiesta in aggiunta al ciclo di studi post-secondari.” 167 Vedi Strozzi, Diritto dell’Unione Europea – Parte speciale, cit., p. 206 168 Articolo 14 della direttiva 87
concernente materie che variano sostanzialmente da quelle coperte dalla formazione del migrante. Le misure di compensazione previste dalla direttiva 2005/36 sono il tirocinio di adattamento e la prova attitudinale. Il tirocinio di adattamento è definito dalla direttiva come “l'esercizio di una professione regolamentata nello Stato membro ospitante sotto la responsabilità di un professionista qualificato, accompagnato eventualmente da una formazione complementare”.169 Esso non deve superare i tre anni e le modalità della sua attuazione e valutazione spettano allo Stato ospitante. La prova attitudinale ai sensi della direttiva è definita come “un controllo riguardante esclusivamente le conoscenze professionali del richiedente effettuato dalle autorità competenti dello Stato membro ospitante allo scopo di valutare l'idoneità del richiedente ad esercitare in tale Stato una professione regolamentata”.170 Il controllo delle conoscenze del professionista deve vertere su materie scelte nell’ambito di un elenco predisposto dall’ autorità competente, che include, materie che non sono contemplate nel titolo di formazione del candidato e la cui conoscenza è condizione essenziale per poter esercitare la professione nello Stato ospitante.171 La scelta fra l’una e l’altra metodologia di compensazione spetta, in linea di principio, all’interessato, salvo deroga che lo Stato può
introdurre
dietro
autorizzazione
della
Commissione.
L’autorizzazione della Commissione non è necessaria, e quindi lo Stato può liberamente derogare alla facoltà di scelta dell’interessato imponendo unilateralmente una delle due misure compensative, con 169
Articolo 3 della direttiva 2005/36, lettera g). Articolo 3 della direttiva 2005/36, lettera h). 171 Come in Carinci, Pizzoferrato, Diritto del lavoro dell’Unione Europea, cit., p.346. Ad esempio la prova può anche comprendere la deontologia nazionale della professione regolamentata per la quale si chiede il riconoscimento. 88 170
riferimento alle professioni il cui esercizio richieda una conoscenza precisa del diritto nazionale e per le quali la prestazione di consulenza o assistenza in materia di diritto nazionale costituisca un elemento essenziale e costante dell’attività professionale (come previsto dall’articolo 14 della direttiva).172 Per evitare che la deroga dello Stato alla scelta dello strumento di compensazione divenga un abuso, la direttiva 2005/36 prevede un metodo alternativo che esime i professionisti dalla compensazione. Questo metodo è basato sulla definizione, a livello europeo, di “piattaforme comuni”173, cioè insiemi di criteri caratterizzanti le qualifiche professionali e idonee a colmare le differenze sostanziali esistenti nei curricula formativi dei diversi stati membri.
Le
piattaforme rappresentano in una certa misura l’ammissione dell’utilità evidente di un compromesso tra l’armonizzazione dei percorsi formativi e il semplice riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali.
174
Tuttavia è necessario fare attenzione al
carattere puramente facoltativo delle piattaforme comuni. Da un lato, le associazioni professionali interessate non sono in alcun modo obbligate ad elaborare una piattaforma o a presentarla alla Commissione affinché essa la traduca in un atto giuridico comunitario vincolante per gli stati membri. Dall’altro gli appartenenti ai gruppi professionali interessati, perfettamente qualificati, che non adempiono ai criteri possono continuare a 172
Strozzi, Diritto dell’Unione Europea, cit.,p. 207 Adottate attraverso provvedimenti della Commissione. Le piattaforme possono essere proposte alla Commissione non solo dagli Stati membri ma anche dalle associazioni e organismi rappresentativi della professione a livello nazionale ed europeo. Il coinvolgimento delle associazioni professionali potrebbe rivelarsi meno conveniente del previsto dato l’atteggiamento protezionistico che alcune categorie professionali mostrano verso l’apertura del mercato del lavoro europeo e della libera circolazione. Come Carinci, Pizzoferrato, Diritto del lavoro dell’Unione europea, cit., p. 346. 174 Strozzi, Diritto dell’Unione Europea – Parte speciale, cit., p. 207 89 173
ricorrere
alle
disposizioni
di
riconoscimento,
ma
devono
eventualmente accettare l’imposizione di una misura compensativa.175 La direttiva 2005/36 non fa venir meno il requisito della conoscenza della lingua poiché secondo l’articolo 53 “ i beneficiari del riconoscimento delle qualifiche devono avere le conoscenze linguistiche necessarie all’esercizio della professione nello Stato membro ospitante”.176 Il sistema delineato dal diritto derivato appare chiaro: i diplomi conseguiti a seguito di un percorso formativo armonizzato dal diritto comunitario sono automaticamente riconosciuti, sia si tratti di attività a titolo dipendente, autonomo o in regime di prestazione di servizi. Gli altri diplomi professionali sono oggetto di una procedura di riconoscimento definita dal diritto dell’Unione e affidata alle autorità nazionali che, pur ispirandosi al principio del mutuo riconoscimento e quindi alla regola del paese d’origine, se ne discosta per la possibilità da parte dello Stato di opporvi misure di compensazione.
II.4.4 La proposta di riforma della direttiva 2005/36 A soli 5 anni dall’adozione della direttiva 2005/36 sul riconoscimento delle qualifiche professionali177 la Commissione europea punta ad una rivalutazione del sistema. Il 22 giugno 2011 l’esecutivo ha adottato un libro verde178 e ha tracciato il perimetro dell’attuale sistema di riconoscimento tra luci e ombre. Malgrado la mobilità professionale sia un elemento centrale nella crescita del 175
Pellini Cristina, Schuster Arno, Linee guida per il riconoscimento delle qualifiche e dei diplomi europei, cit., p. 17 176 U.Draetta e N. Parisi in Elementi di Diritto dell’Unione Europea – Parte speciale: il diritto sostanziale, cit., p. 193 177 Recepita in Italia con Dlgs 206/2007. 178 Vedi nota 109. 90
mercato e il settore dei servizi costituisca il 70% dell’economia UE , sono ancora troppi gli ostacoli ad un’effettiva libera circolazione. Sia il rapporto sulla cittadinanza 2010179, sia quello SOLVIT180 hanno messo in luce gli ostacoli che gli Stati membri hanno posto nell’attuazione della direttiva alla libera circolazione delle qualifiche e quindi all’accesso alle attività professionali. La Commissione, poi, prende atto che il sistema delle tessere professionali rilasciate da associazioni o organizzazioni professionali, che doveva favorire la mobilità dei professionisti, non ha funzionato e non ha accelerato il meccanismo di riconoscimento. Di qui la necessità di una riforma, anche utilizzando le nuove tecnologie e puntando all’adozione di una carta professionale europea che possa consentire maggiore libertà di circolazione
nello
spazio
Ue.
Fondamentale
una
maggiore
applicazione del sistema delle piattaforme comuni che dovrebbe arginare l’ampio utilizzo di misure compensative, non sempre giustificate. Senza dimenticare – ha precisato Bruxelles – che le sentenze della Corte Ue vanno applicate con rigore. A partire dalla pronuncia Morgenbesser del 13 novembre 2001 (C-313/01).
179
http://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0602:FIN:I T:PDF 180 SOLVIT è una rete per la risoluzione di problemi on line, in cui gli Stati membri collaborano per risolvere concretamente i problemi derivanti dall'applicazione scorretta delle norme sul mercato interno da parte delle amministrazioni pubbliche. Esiste un centro SOLVIT in ogni Stato membro dell’Unione europea (come pure in Norvegia, Islanda e Liechtenstein). I centri SOLVIT possono intervenire per risolvere problemi presentati sia dai cittadini che dalle imprese. I cenri fanno parte dell’amministrazione nazionale e s'impegnano a fornire soluzioni concrete a problemi concreti entro dieci settimane da quando viene presentato il caso, inoltre è un servizio gratuito. La rete opera da luglio 2002. Sebbene la sua gestione sia di competenza degli Stati membri, è la Commissione europea che fornisce le infrastrutture e, se necessario, offre assistenza per accelerare la soluzione dei problemi. Essa trasmette inoltre a SOLVIT alcuni dei reclami formali che le pervengono quando vi sono buone possibilità che il problema possa essere risolto senza necessità di un’azione legale. http://ec.europa.eu/solvit/site/index_it.htm 91
La
Commissione
europea
chiama
a
raccolta
ordini
professionali, associazioni, consumatori, istituzioni e altri soggetti interessati per rispondere alla consultazione pubblica sulla direttiva 2005/36. La consultazione, che si chiuderà il 20 settembre 2011, è incentrata sull’individuazione di nuovi strumenti per ridurre i problemi che incontrano i professionisti che si spostano nello spazio Ue e di meccanismi alternativi. Da modificare, ad esempio, il meccanismo delle piattaforme comuni che dovrebbe portare allo sviluppo dei curricula europei per le varie professioni, da avviare anche con un numero limitato di Stati membri in vista dell’introduzione di una sorta di «28esimo regime applicabile in aggiunta ai requisiti fissati in ambito nazionale». Sono attesi anche gli interventi da parte dei consumatori che, secondo la Commissione, possono avere contraccolpi negativi da un mercato interno troppo frammentato attraverso un numero eccessivo di professioni regolamentate (nei 27 Stati membri sono circa 4.700 raggruppate in 800 differenti categorie). 181 Raccolte le risposte, la Commissione presenterà, nel 2012, la proposta per una nuova direttiva.
II.5 Il particolare caso degli avvocati: le direttive 77/249 e 98/95 La direttiva 2005/36 fa espressamente salve altre disposizioni giuridiche specifiche aventi ad oggetto il riconoscimento di qualifiche professionali, quali quelle esistenti nel settore dei trasporti, degli intermediari di assicurazione e dei revisori di conti e
181
http://www.marinacastellaneta.it/category/libera-circolazione (consultato il 7 luglio 2011) 92
non pregiudica l’applicazione delle direttive 77/249/CEE182 e 98/95 CE183 che hanno come scopo la libera circolazione degli avvocati. Le direttive relative agli avvocati non concernono direttamente il riconoscimento delle qualifiche professionali, che ricade, anche per questa professione, sotto l’ambito di operatività del sistema generale previsto dalla direttiva 2005/36184, ma mirano ad agevolare la libera circolazione di tali professionisti, fissando le condizioni in base alle quali questi possono esercitare la loro attività a titolo rispettivamente di prestazione di servizi e di stabilimento. Il minor impatto socio-economico della prestazione di servizi rispetto allo stabilimento consentì l’attuazione della libertà di circolazione innanzitutto con riferimento alla prima. La direttiva 77/249/CEE è stato il primo provvedimento inteso a facilitare l’esercizio effettivo della prestazione dei servizi da parte degli avvocati, ed impose agli Stati membri di riconoscere come avvocati, limitatamente all’esercizio dell’attività forense in regime di libera prestazione di servizi185, le persone abilitate all’esercizio della professione negli Stati di provenienza.
186
la direttiva non prevede
alcun limite temporale della durata del servizio reso nello Stato membro ospite. Tale limite si può presumere dipendente dalla natura
182
Direttiva del Consiglio del 22 Marzo 1977 intesa a facilitare l’esercizio della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati, in GUCE L 78 del 26 Marzo 1977. 183 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in un Paese membro diverso da quelo in cui è stata acquisita la qualifica, in GUCE L 77 del 14 marzo 1998. 184 Cfr. il considerando 42 della direttiva 2005/36: “ il riconoscimento delle qualifiche professionali degli avocati al fine dello stabilimento immediato in base al titolo professionale dello Stato ospitante” rientra nella presente direttiva. La direttiva 98/95 prevede invece un’idoneità a vedersi riconoscere il titolo a seguito dell’esercizio della professione nello Stato in cui il professionista si è stabilito per un congruo periodo di tempo. 185 Cioè in maniera temporanea ed occasionale. Vedi Capitolo I. 186 M.P.Chiti e G.Greco in Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., p.1518 93
del servizio fornito e può comportare che l’avvocato risieda temporaneamente, ma anche per mesi nel Paese ospitante. L’ambito di applicazione della direttiva è delineato nei primi articoli; l’articolo 1, primo comma, precisa che la direttiva si applica all’attività di avvocato esercitata, a titolo di prestazione di servizi, dai cittadini187 degli Stati membri, specificando che questi possono riservare a determinate categorie di avvocati la compilazione di atti che abilitano all’amministrazione dei beni di persone defunte o che riguardano la costituzione o il trasferimento di diritti reali o immobiliari. Se ne desume che gli avvocati possono esercitare, escluse quelle summenzionate, tutte le rimanenti attività nel Paese ospite.188 Per avvocato, ai sensi della direttiva189, si intende ogni persona abilitata ad esercitare le proprie attività professionali facendo uso del titolo attribuitogli dalla legislazione nazionale. L’articolo 3 dispone che nell’esercizio della propria attività di prestatore di servizi l’avvocato deve far uso del proprio titolo professionale espresso nella lingua o in una delle lingue riconosciute nello
Stato
membro
di
provenienza,
con
indicazione
dell’organizzazione o ordine professionale cui appartiene.190 Per le attività relative alla rappresentanza e alla difesa in giudizio la direttiva dispone191 il rispetto delle regole dello Stato ospitante previste per gli avvocati locali (ad eccezione della residenza e
187
“Resortissants” La riserva cui fa riferimento l’articolo 1 è giustificata dal fatto che in molti Paesi tali attività sono di competenza di una categoria separata di operatori giuridici come ad esempio in Italia i notai. 189 Articolo 1, secondo comma. 190 Belloni, La libera circolazione degli avvocati nella Comunità Europea,cit., p.57 191 Articolo 4, comma 1. 94 188
dell’iscrizione agli ordini) oltre che degli obblighi cui il professionista è soggetto nello Stato di residenza.192 Può essere richiesto, dallo Stato ospitante, al candidato in regime di prestazione di servizi
di essere introdotto presso il
presidente dell’organismo giurisdizionale dinanzi al quale intende operare, o dell’ordine forense competente, e di agire di concerto con un avvocato locale, o un procuratore, che eserciti dinanzi alla giurisdizione adita.193 La Corte di Giustizia non ha risparmiato, nelle numerose interpretazioni della direttiva 77/249, neppure la legislazione italiana di attuazione della direttiva. Nella sentenza Gebhard194 è stata ritenuta incompatibile con le previsioni della direttiva e dell’articolo 49 del Trattato CE, il divieto assoluto posto all’avvocato straniero in regime di prestazione di servizi di “stabilire nel territorio della Repubblica uno studio” o “una sede principale o secondaria”. Il carattere temporaneo della prestazione non esclude che l’avvocato possa dotarsi di un’infrastruttura necessaria al compimento della prestazione. La soluzione individuata con la direttiva 77/249 permette una mobilità solo occasionale e temporanea degli avvocati. Il diritto di stabilimento garantisce di rispondere in modo adeguato all’esigenza sempre più evidente degli studi professionali di mantenere sedi associate o secondarie in altri Paesi della Comunità, permettendo anche al singolo avvocato di trasferirsi in modo permanente in un
192
Si crea un cumulo delle regole professionali, una “doppia deontologia” che può sollevare evidenti problemi quando le disposizioni dei due Stati si trovino tra di loro in contrasto. In questo caso l’avvocato ospite sarebbe comunque obbligato al rispetto delle disposizioni più restrittive. 193 Articolo 5 della direttiva. 194 Sentenza del 30 novembre 1995, C-55/94,in Racc., p. I-04165 95
diverso Stato membro.195 Nonostante il riconoscimento da parte della Corte di giustizia nella sentenza Reyners196 della diretta applicabilità dell’articolo 52 del Trattato CE (articolo 43 TUE e 49 TFUE) non è venuta meno la necessita di misure dirette a favorire e a facilitare l’esercizio effettivo di tale diritto. La direttiva sul riconoscimento dei titoli e delle qualifiche professionali 89/48 non ha risolto le difficoltà di coloro che svolgono la professione di avvocato proprio per le differenze, spesso radicali fra Stato e Stato nei curricula universitari, saldamente ancorati ai singoli diritti nazionali. Il meccanismo della direttiva in questione richiede spesso, proprio per le differenze dei diritti nazionali, misure compensative come le prove attitudinali che si pongono ovviamente come
ostacolo
alla
libera
circolazione
e
allo
stabilimento
dell’avvocato. Soltanto con la direttiva 98/5/CE del 16 febbraio 1998197 il legislatore comunitario ha introdotto il principio del mutuo riconoscimento del titolo professionale che abilita all’esercizio della professione di avvocato, consentendo, a certe condizioni, che l’avvocato possa esercitare stabilmente la propria attività in un altro Stato membro sulla base del proprio titolo d’origine. Le attività consentite sono quelle tipiche dell’avvocato: la consulenza legale sul diritto del proprio Stato, sul diritto internazione, sul diritto dello Stato membro ospitante e sul diritto dell’Unione198; la difesa e la rappresentanza in giudizio che gli Stati possono consentire previo “concerto” con un avvocato che eserciti dinanzi alla giurisdizione 195
Belloni, La libera circolazione degli avvocati nella Comunità Europea,cit.,
p.88 196
Sentenza del 21 giugno 1974, 2/74, Reyners, in Racc., p.631 ss Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica. In GUCE, L 77 del 14 marzo 1998, cit. 198 Articolo 5, primo comma. 96 197
adita.199 Potranno essere escluse solo quelle attività riservate, nello Stato di provenienza, a categorie professionali diverse dall’avvocato, nonostante lo Stato di stabilimento le preveda come facenti parte dell’attività forense.200 Qualora l’interessato possa provare di aver esercitato con il proprio titolo tre anni di attività “effettiva e regolare” nello stato membro ospitante verrà “assimilato” all’avvocato dello Stato ospitante con dispensa della prova attitudinale prevista dalla direttiva 89/48 acquisendo così il diritto di esercitare la professione con il titolo dello Stato membro ospitante.201 O qualora abbia svolto la propria attività effettiva e regolare per tre anni ma con una durata inferiore nel diritto dello Stato ospitante potrà comunque ottenere l’ assimilazione in deroga alle previsioni della direttiva 2005/36 CE, dimostrando le proprie esperienze professionali nel diritto dello Stato ospitante ovvero sostenendo un colloquio per verificare il carattere effettivo e regolare dell’attività esercitata. La
direttiva
98/5/CE202
ha
realizzato
una
completa
armonizzazione dei requisiti richiesti al fine di esercitare il diritto di 199
Articolo 5, terzo comma. Articolo 5, comma secondo. Vedi Strozzi Girolamo, Diritto dell’Unione Europea - Parte speciale, p. 211 201 Vedi Draetta, Parisi, Elementi di diritto dell'Unione Europea. Parte speciale. Il diritto sostanziale, cit., p. 1520; Strozzi, Diritto dell’Unione Europea - Parte speciale, p. 211; M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, cit., p. 159 202 La direttiva in esame è stata oggetto di un ricorso di annullamento introdotto dal Lussemburgo (Sentenza 7 novembre 2000, causa C-168/98, Lussemburgo c. Parlamento europeo e consiglio, in Racc., p. 9131 ss.) che tra i motivi di annullamento deduceva la violazione dell’articolo 52 TCE (ora 49 TFUE) n quanto il provvedimento avrebbe comportato, da un lato, la disparità di trattamento tra cittadini nazionali e migranti, dall’altro, la lesione dell’interesse generale relativamente alla protezione dei consumatori e ad una buona amministrazione della giustizia. La Corte nel confutare quest’ultima tesi ha sottolineato come il legislatore comunitario, per favorire la libertà di stabilimento degli avvocati ha preferito adottare un “meccanismo di assimilazione progressiva delle conoscenze mediante la pratica”, abbandonando quello di controllo a priori. Per quanto riguarda il primo argomento ha sostenuto che nella fattispecie il legislatore comunitario non ha violato il principio di uguaglianza “giacché le posizioni, da un lato dell’avvocato migrante che esercita con il suo titolo professionale 97 200
stabilimento; gli stati membri non posso imporre ulteriori requisiti quale, ad esempio, un colloquio finalizzato alla verifica della conoscenza della lingua del Paese ospitante. Agli avvocati, dopo molti anni di attesa per veder tutelato il loro diritto a circolare liberamente, è ora riservata, grazie alle direttive esaminate, una disciplina ad essi favorevole per cui è sufficiente l’abilitazione nello Stato d’origine di provenienza e il trasferimento della residenza da uno Stato all’altro. Il riconoscimento del diploma professionale è pur sempre possibile ma non è obbligatorio per l’avvocato che potrebbe continuare ad esercitare in base al titolo d’origine.203
d’origine, e dall’altro, dell’avvocato che esercita con il titolo dello Stato membro ospitante non sono paragonabili”. 203 Strozzi, Diritto dell’Unione Europea - Parte speciale, p. 212 ; M. Condinanzi, A.Lang, B. Nascimbene in Cittadinanza dell’unione e libera circolazione delle persone, cit., p. 160 98
III CAPITOLO LA DISCIPLINA DEL RICONOSCIMENTO NELLA CAUSA C-345/08 DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
III.1 La richiesta di interpretazione pregiudiziale Il procedimento in analisi si basa sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte di Giustizia dell’Unione204 dal tribunale di Schwerin (Germania) il 28 luglio 2008. La causa vede contrapporsi il Signor Krzysztof Peśla e il Ministero della Giustizia del Land Meclemburgo-Pomerania anteriore. La domanda pregiudiziale proposta dal Verwaltungsgericht Schwerin verte sull’interpretazione dell’allora articolo 39 del Trattato CE il quale riguarda la libertà di circolazione all’interno della Comunità.205 Per domanda di pronuncia pregiudiziale si intende il procedimento previsto dall’art. 234 CE206 (art. 267 TFUE): il
204
Vedi nota n. 2 Per la “libera circolazione” si rimanda al Capitolo I 206 Articolo 234 CE: “La Corte di giustizia è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull'interpretazione del presente trattato; b) sulla validità e l'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità e della BCE; c) sull'interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto del Consiglio, quando sia previsto dagli statuti stessi. Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla questione”. 99 205
meccanismo del rinvio pregiudiziale dà la possibilità di richiedere alla Corte di Giustizia una pronuncia sull’interpretazione di una determinata norma o sull’invalidità di essa. Qualora la giurisdizione di uno Stato207 membro si trovi a dover applicare una norma, o ad avere dei dubbi sulla validità di un atto dell’UE ha la facoltà, e qualora si tratti di giurisdizione in ultima istanza, addirittura
La pronuncia della Corte ha quindi natura pregiudiziale, sia in senso temporale, perché avviene prima della sentenza del giudice nazionale, sia in senso funzionale, poiché è strumentale rispetto all’emanazione di tale sentenza. Lo scopo del meccanismo di rinvio pregiudiziale è quello di evitare che ciascun giudice nazionale interpreti e verifichi la validità delle norme dell’Unione in maniera autonoma, e anche quello di garantire la corretta ed uniforme interpretazione di tali norme. La Corte ha posto dei requisiti riguardanti il contenuto del provvedimento di rinvio: è necessario che il giudice nazionale “definisca l’ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi almeno le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono sollevate” (sentenza 26 gennaio 1993, cause riunite C-320/90, C-321/90, C-32290, Telemarsicabruzzo, in Racc., p.I-393). Normalmente la Corte non verifica la necessità del rinvio e la rilevanza delle questioni di diritto dell’Unione rispetto alla soluzione del caso pendente davanti al giudice nazionale, ma, un uso talvolta improprio e talvolta abusivo del rinvio pregiudiziale ad opera delle parti e degli stessi giudici nazionali ha indotto la Corte a riservarsi il potere di verificare la rilevanza delle questioni pregiudiziali, la sua competenza a rispondere sulla questione e la sussistenza delle ipotesi patologiche individuate dalla Corte. Tali ipotesi sono le questioni poste nell’ambito di “controversie fittizie”, le questioni “manifestatamente irrilevanti”, le questioni “puramente ipotetiche”. La competenza pregiudiziale, èuna competenza indiretta, poiché l’iniziativa di rivolgersi alla Corte non è assunta direttamente dalle parti ma dal giudice. È anche una competenza limitata poiché la Corte può esaminare solo le questioni di diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale. La procedura di rinvio pregiudiziale può essere attivata solo da un organo che possa essere definito come “un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri” (Vedi le due note successive). La posizione del giudice nazionale varia a seconda che essi emettano decisioni contro le quali sia possibile ricorrere nel diritto interno e oppure non sia possibile. Nel primo caso il rinvio è oggetto di una semplice facoltà (articolo 267 TFUE, secondo comma), mentre nel secondo caso il giudice è sottoposto ad un obbligo di rinvio (terzo comma). Come spiega Daniele (2010), Diritto dell’Unione Europea, cit., p.329 ss. 207 Nella sentenza Dorsch Consult Ingenieurgesellschaft mbH c. Bundesbaugesellschaft Berlin mbH del 17 settembre 1997 (C-54/96) sono stati elencati i vari requisiti che un organo nazionale deve possedere al fine di essere considerato “giurisdizione di uno degli Stati membri” tra cui l’origine legale dell’organo, il carattere permanente di esso, l’obbligatorierà della sua giurisdizione, la sua indipendenza. 100
l’obbligo, di ricorrere al giudizio preventivo della Corte sulla questione, prima di esprimersi autonomamente sulla causa. 208 Nella causa 345/08 la richiesta di interpretazione pregiudiziale alla Corte è stata presentata nell’ambito di una controversia nazionale tra il Signor Peśla e lo Justizministerium Mecklemburg-Vorpommern (Ministero della Giustizia del Land Meclemburgo-Pomerania anteriore), controversia che aveva ad oggetto il rifiuto da parte del Ministero di ammettere la controparte al tirocinio preparatorio alle professioni legali senza sostenere una prova attitudinale sulle materie obbligatorie per il “primo esame di stato in diritto” , in Germania chiamato “erstes juristiches Staatseexamen” (punto 2).
III.2 Il contesto normativo nazionale La sentenza in analisi, dal punto 3 al punto 11, delinea la legislazione nazionale sulle modalità di accesso alla professione legale e del suo esercizio. In Germania l’esercizio di tutte le professioni legali regolamentate è subordinata al conseguimento della “Bafähigung zum Richteramt”, cioè l’”idoneità all’esercizio delle 208
Il giudice nazionale di ultima istanza ha generalmente l’obbligo di porre la questione alla Corte ma può sottrarsi alla richiesta di pronuncia pregiudiziale solo in alcuni casi: qualora la norma comunitaria sia chiara e non presenti alcun ragionevole dubbio, tuttavia, per evitare che gli organi giudiziari nazionali intendano in maniera troppo ampia questa possibilità, la Corte ha fissato gli elementi che definiscono “chiara” la norma che potrebbe giustificare la decisione di evitare il rinvio pregiudiziale. L’ipotesi del c.d. “atto chiaro”, con riferimento al brocardo in claris non fit interpretatio, si ha quando la corretta applicazione del diritto dell’Unione si impone “con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata. Come spiega A. Adinolfi, Materiale di Diritto dell’Unione Europea, Torino, 2007, p.62 Ulteriori ipotesi in cui è concessa facoltà di rinvio anche ai giudici di ultima istanza si ha quando la questione “sia materialmente identica ad altra questione sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia stata già decisa in via pregiudiziale”, “quando la risposta da dare alle questioni “risulti da una giurisprudenza costante della Corte che, indipendentemente dalla natura del procedimento in cui sia stata prodotta, risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie da contendere”. Vedi Daniele (2010), Diritto dell’Unione Europea, cit., p. 342 101
funzioni giudiziarie”. Tale idoneità viene conferita a chi ha superato, sia il primo esame di Stato sostenuto dopo un percorso di studi in diritto completato in un’ Università, sia il secondo esame di Stato in diritto
dopo
un
tirocinio
di
preparazione
denominato
“Rechtsreferendariat” (punto 3). In base alla legge tedesca sull’ ordinamento giudiziario (Deutsches Richtergesetz, richiamato in seguito con la sigla “DRiG”) gli studi universitari devono essere effettuati per almeno due anni in territorio tedesco e devono consistere in materie obbligatorie e specialistiche opzionali. Le materie obbligatorie devono vertere su argomenti di diritto pubblico, penale, civile e processuale nonché sulla metodologia, filosofia e storia giuridiche. Le materie specialistiche completano gli studi dando
al
percorso
universitario
standard
un
approccio
interdisciplinare e internazionale (punto 4). Le materie oggetto del “primo esame di stato” devono essere di livello tale da poter essere studiate in un percorso formativo universitario di quattro anni e mezzo e devono essere presenti nell’esame in una prima parte, che tratta le materie specialistiche, e in una seconda parte che verte sulle materie obbligatorie. L’esame è organizzato in forma di prove scritte e orali (punto 5). Gli studi e il contenuto del tirocinio di preparazione, che dura due anni, devono concordare. Quest’ ultimo è composto da parti obbligatorie e facoltative. Le prime devono essere svolte presso un giudice civile ordinario, un pubblico ministero, un giudice penale, un’amministrazione e un avvocato. La parte del tirocinio svolta presso un avvocato dura nove mesi, mentre le altre tre mesi ciascuna. La parte scritta del secondo esame di stato deve compiersi tra il 18° e il 21° mese del tirocinio di preparazione (punti 6-7). I tirocinanti per le professioni legali, sotto la supervisione di un giudice possono trattare le domande di assistenza giudiziaria, ascoltare le parti in un procedimento (non penale), stabilire prove e 102
tenere udienze e talvolta essi possono sostituire un agente del pubblico ministero (punto 8). Compito dei Länder è di completare la normativa
delineata
dalla
legge
sul
sistema
giudiziario
(Gerichtsverfassungsgesetz, richiamata nella sentenza con la sigla “GVG”). La legge sui giuristi del Land del Meclemburgo e Pomerania anteriore aggiunge che il tirocinio di preparazione compiuto da un tirocinante viene effettuato nel’ambito di una formazione di diritto pubblico. I tirocinanti percepiscono un contributo mensile e devono sottostare ad un controllo gerarchico obbedendo alle istruzioni del loro formatore (punto 9). L’ammissione al tirocinio di preparazione è soggetta al superamento del primo esame di Stato. In forza dell’art. 112 del DRiG un cittadino di uno Stato membro dell’Unione che possiede un diploma di laurea in giurisprudenza che nel suo Stato gli concede di accedere alla formazione post-universitaria per la professione di avvocato, può richiedere alla Germania una dichiarazione di equipollenza con il primo esame di Stato. In caso di dichiarazione di equipollenza il candidato sarebbe ammesso al tirocinio suddetto di preparazione all’esame finale di abilitazione (punto10). La sentenza citando l’articolo del DRiG che riguarda l’”esame di equipollenza per l’ammissione al tirocinio per le professioni legali” (articolo 112) riporta il suo inserimento all’interno della normativa a seguito della sentenza della Corte del 13 novembre 2003, causa C-313/01, Morgenbesser contro Italia. La sentenza citata riguardava una cittadina francese, laureata in Francia che, in Italia, Stato in cui risiedeva, chiedeva l’accesso al tirocinio per diventare avvocato (l’iscrizione al registro dei tirocinanti) non avendo ottenuto in Francia il certificato di idoneità alla professione di avvocato. La sua domanda era stata respinta dall’ordine degli avvocati di Genova in quanto la legge italiana che disciplina la professione di avvocato prevede il 103
possesso della laurea in giurisprudenza conferita o confermata da un'università italiana e la sig.ra Morgenbesser non era abilitata in Francia all'esercizio della professione di avvocato.209 La Corte di Cassazione chiedeva alla Corte di Giustizia se il diritto comunitario ammette che le autorità italiane rifiutino di iscrivere il titolare di una laurea in giurisprudenza ottenuta in un altro Stato membro, per il semplice motivo che questa non era stata rilasciata in Italia. La Corte di giustizia ha ritenuto che il previo riconoscimento accademico, della laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro, per consentire l'accesso all'attività di praticante avvocato è incompatibile con la direttiva 89/48210 la quale, per prima cosa, non prevede un riconoscimento “automatico” del titolo di studi posseduto dal richiedente, e, in secondo luogo, regola principalmente le professioni regolamentate, cioè quelle alle quali si ha accesso con una specifica prassi normativa,e la pratica di tirocinante non costituisce di per sé una professione regolamentata; ma la Corte ,inoltre, ha affermato che qualora l'attività di praticante avvocato comporti l'esercizio di attività retribuite, allora sono applicabili i principi derivanti dai trattati e dalla propria giurisprudenza basata sugli articoli 39 e 43 del TCE (artt. 45 e 49 TFUE) riguardanti la libera circolazione così che, se le norme nazionali, in questo caso le norme italiane, non tengono conto, nell’esame di equipollenza, delle conoscenze e delle qualifiche già acquisite da un cittadino di un altro Stato membro al di fuori dello Stato ospitante, l’esercizio delle libertà di stabilimento e di circolazione risulta ostacolato. Le autorità nazionali sono sempre tenute a operare un confronto tra le conoscenze dell'interessato, attestate dalle sue qualifiche o acquisite nell'ambito della sua esperienza professionale nello Stato membro 209
Comunicato Stampa 99/03 del 13 novembre 2003 sulla sentenza C-313/01, Corte di giustizia dell’Unione Europea, Lussembrugo. 210
Vedi Capitolo II, paragrafo 4.1.
104
d'origine o in quello ospitante, e le conoscenze attestate dal diploma richiesto dalla legislazione nazionale. Se l'esame comparativo mostra una corrispondenza solo parziale, lo Stato membro ospitante può richiedere che l'interessato dimostri di aver acquisito le conoscenze mancanti.211 Alla
luce
della
sentenza
Morgenbesser
l’introduzione
dell’articolo 112 nel DRiG stabilisce che i cittadini di uno Stato membro dell’UE, dell’Accordo sullo Spazio Economico europeo o della Svizzera, in possesso di un diploma di laurea in giurisprudenza vengono ammessi su richiesta al tirocinio per professioni legali qualora le loro conoscenze e abilità corrispondano a quelle attestate dal superamento dell’esame di Stato nelle materie obbligatorie. L’esame delle conoscenze e abilità necessarie comprende i diplomi, i certificati di superamento esami, le prove presentate e se non dovessero essere abbastanza per il livello richiesto dallo stato tedesco può essere richiesta una prova attitudinale. Quest’ultima consiste in un esame di Stato da svolgere in lingua tedesca sulla conoscenza del diritto tedesco212 necessaria per concludere con successo il tirocinio per la professione forense. Si considera superato l’esame di Stato se sono superate le prove riguardo almeno metà delle materie obbligatorie. Il superamento della prova attitudinale riconosce l’equipollenza del primo esame di Stato (punto 11).
III.4 I fatti all’origine della controversia Il Signor Peśla, cittadino polacco, aveva ottenuto nel 2003 il diploma di laurea (magister) presso la facoltà di giurisprudenza 211
Petizione 415/2003, presentata da Nicolas Corvilain alla Commissione per le Petizioni del Parlamento Europeo. 212 In particolar modo del diritto civile, penale, pubblico e dei rispettivi diritti processuali. 105
dell’Università di Poznań (Polonia), nonché i titoli accademici di “Master of German and Polish Law” e di “Bachelor of German and Polish Law” nell’ambito di un corso di formazione giuridica tedescopolacca presso l’Università di Francoforte sull’Oder (Germania). Nel novembre 2005 il Signor Peśla chiedeva di essere ammesso al tirocinio
preparatorio
per
le
professioni
legali
del
Land
Meclemburgo-Pomerania anteriore; egli presentava tutti i titoli e i certificati attestanti gli studi e l’esperienza professionale e faceva riferimento, per la sua tutela, alla già citata sentenza Morgenbesser (punti 12-13). Il Ministero della Giustizia, alla richiesta inoltrata dal signor Peśla rispondeva negativamente.
III.4.1 Le posizioni delle parti Il Ministero della Giustizia del Land213 ha negato al signor Peśla l’ammissione al tirocinio preparatorio senza il superamento dell’esame attitudinale sostenendo che “le conoscenze di diritto straniero non possono essere considerate equivalenti a causa delle differenze esistenti con il diritto tedesco” e le conoscenze, di detto diritto, richieste per il conseguimento degli attestati posseduti dal Sig. Peśla “sono di livello nettamente inferiore a quello delle prove scritte del primo esame di Stato nelle materie obbligatorie” (punto 14). Resta il fatto che il candidato, su richiesta, potrebbe affrontare una prova attitudinale prevista dall’articolo citato del DRiG (punto 15) Il 27 aprile 2007 il Sig. Peśla, vedendosi rifiutata la domanda di accesso al tirocinio alle condizioni da lui richieste, ha proposto ricorso al giudice del rinvio contro la decisione del 27 marzo 2007. A sostegno del ricorso il Sig. Peśla va valere che l’esame di equipollenza dell’Autorità tedesca è contraria alla giurisprudenza 213
Con decisione di rigetto del 27 Marzo 2007. 106
della corte. Secondo il suo ricorso adottando i criteri del Ministero della Giustizia del Meclemburgo e Pomerania anteriore per la valutazione dell’equipollenza, un diploma non potrebbe mai soddisfare il criterio richiesto dall’Autorità poiché il diritto tedesco generalmente non viene insegnato negli altri Stati membri. Inoltre egli contesta la decisione sostenendo la tesi di un’insufficiente considerazione che l’Autorità competente in materia di equipollenza ha avuto degli studi e dell’esperienza da lui avuta in Germania Il Ministero della Giustizia del Meclemburgo e Pomerania anteriore, di contro, ritiene giustificato il rigetto della domanda del candidato, ritenendo inammissibile l’equipollenza (punti 16-18). Il tribunale amministrativo di Schwerin (Germania), dunque, data l’importanza dell’argomento e i dubbi sull’intepretazione del diritto nazionale in conformità al diritto comunitario, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia le questioni pregiudiziali esposte al punto 19 della sentenza. In primo luogo se può ritenersi compatibile con l’art.39 del Trattato CE che la dichiarazione di equipollenza (ai sensi dell’articolo 112 del DRiG) possa aversi solo qualora risulti dai documenti presentati che il cittadino comunitario disponga di conoscenze e abilità uguali a quelle richieste dallo Stato ospitante. Qualora la prima questione pregiudiziale sia accolta in senso negativo, se l’art.39 CE preveda che l’unico criterio di valutazione per riconoscere l’equipollenza debba essere la presa in considerazione del livello di formazione e dello sforzo necessario per ottenere tale formazione, e qualora anche questa seconda questione venga risolta in senso negativo se sia sempre compatibile con l’art.39 CE che la possibilità di riconoscere l’ equipollenza della formazione richieda una riduzione del livello di conoscenza delle materie obbligatorie, cioè del diritto dello Stato membro ospitante. 107
III.5. Il giudizio della Corte La prime due questioni pregiudiziali riguardano, per prima cosa, il problema di individuare se le conoscenze di un candidato debbano vertere sul diritto dello Stato membro ospitante e, in secondo luogo, se le conoscenze del diritto di un altro Stato possano essere considerate equivalenti, sia dal punto di vista della formazione, del tempo degli sforzi impiegati a tal fine, alle conoscenze richieste dallo Stato ospitante per accedere alle professioni legali. La terza questione pregiudiziale individua la richiesta del giudice del rinvio della possibilità che il livello delle conoscenze del diritto dello Stato membro ospitante per l’accesso alla professione legale sia in qualche modo ridotto “allo scopo di promuovere la libera circolazione delle persone” (punti 20-21).
III.5.1 Il diritto dell’Unione Europea applicabile alla fattispecie Il Signor Peśla non può avvalersi del diritto comunitario per il riconoscimento della sua qualifica poiché il diritto in questione regola solo situazioni in cui il professionista costituisce un “prodotto finito” e il candidato non si può considerare tale. Sia la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 98/5/CE relativa all’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica, sia la direttiva 89/48/CEE (vedi capitolo secondo) relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore, non possono essere fatte valere dal candidato Peśla poiché egli, non avendo conseguito l’abilitazione alla professione forense in Polonia, non 108
costituisce ancora un professionista a tutti gli effetti. Le due direttive, infatti, si riferiscono alle professioni regolamentate e l’attività di tirocinante per le professioni legali non costituisce in questo senso una professione regolamentata ma una pratica della formazione necessaria per accedere ad una professione regolamentata quale la professione legale in Germania (punti 22-24).214 Dalla giurisprudenza della Corte215, però, si può evincere che alla causa principale si posso comunque applicare gli articoli 39 e 43 del Trattato CE. Gli articoli, facendo riferimento alla libertà di circolazione dei lavoratori riguarderebbero anche l’attività di tirocinante poiché essa costituisce un’attività professionale retribuita sotto forma di contributo mensile ai tirocinanti per il loro sostentamento. Inoltre il tirocinio di preparazione previsto dalla normativa tedesca è indispensabile e necessario per accedere alla professione di avvocato in Germania, professione regolamentata alla quale si può applicare l’art.43 CE che si riferisce alla libertà di stabilimento, al diritto di esercitare un’attività autonoma e al diritto al trattamento nazionale.
III.5.2
L’applicabilità
delle
deroghe
alla libera
circolazione dei lavoratori Nella causa principale non possono nemmeno essere richiamate le uniche eccezioni previste all’ art. 39 CE che si 214
Questi principi si ritrovano nella citata sentenza Morgenbesser richiamata dal signor Peśla nel giudizio. 215 E’ qui citata la sentenza del 17 marzo 2005, causa C-109, Kranemann, in Racc., p. I-2421. In questa causa, ad un tirocinante tedesco a cui era stata rifiutata la richiesta di rimborso per le spese di viaggio sostenute per il lavoro svolto in un altro Stato membro, la Corte aveva interpretato la norma nazionale che limitava tale rimborso come un limite alla libertà di circolazione dei lavoratori, in contrasto con l’art. 39 TCE applicabile alla professione del tirocinante. 109
riferiscono agli impieghi nella pubblica amministrazione, limite alla libertà di circolazione del lavoratore comunitario, e nemmeno l’eccezione della partecipazione all’ ”esercizio dei pubblici poteri” stabilita nell’articolo 45,primo comma, del Trattato CE (punti 2529).216 Il tirocinante, infatti, pur svolgendo una parte del suo lavoro nel settore pubblico non può essere considerato come impiegato nella pubblica amministrazione perché questo limite non comprende gli impieghi alle dipendenze di un singolo o di una persona giuridica di diritto privato. Inoltre,il tirocinante pur svolgendo una parte dell’attività presso un giudice civile ordinario, un amministrazione, un pubblico ministero, egli agisce conformemente alle istruzioni e sotto la sorveglianza di un responsabile. Le eccezioni previste ai pubblici impieghi non implicano l’inclusione anche di attività, come quella di tirocinante, in cui la partecipazione alla pubblica amministrazione non è quella propriamente definita dal Trattato nel’articolo 39, n.4 (punto 31)217. La deroga all’articolo 45, primo comma, CE è limitata alle attività che costituiscono una partecipazione specifica e diretta all’esercizio dei pubblici poteri, di conseguenza entrambe le eccezioni non possono essere applicate ad
216
217
Vedi Capitolo I, paragrafo 4.1.2
La corte richiama al punto 31 la giurisprudenza della corte riguardante l’applicazione delle eccezioni previste dal Trattato nell’ art. 39:la sentenza del 17 dicembre 1980, causa 149/79, Commissione/Belgio, in Racc., p.3881, nella quale la Corte aveva affermato che “l’eccezione di cui all’art. 48, par.4, non si applica ai posti i quali, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti di diritto pubblico, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta”; veniva quindi ritenuta nulla ogni norma interna discriminatoria; la sentenza del 30 settembre 2003, causa C-47/02 Anker e a., in Racc., p.I-10447, che al punto 59, richiamando la sentenza Commissione/Belgio, afferma che “la deroga di cui all'art. 39, n. 4, CE non trova applicazione per posti i quali, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente né, a fortiori, a impieghi alle dipendenze di un singolo o di una persona giuridica di diritto privato, quali che siano i compiti incombenti al lavoratore dipendente”. 110
un tirocinante anche se parte della sua attività è svolta nel settore pubblico (punti 32-33)218.
III.5.3 I poteri e gli obblighi degli Stati membri nel definire le condizioni di accesso ai tirocini preparatori alle professioni legali La Corte ricorda che, in mancanza di armonizzazione a livello dell’Unione delle condizioni di accesso ai tirocini preparatori alle professioni legali, gli Stati membri sono legittimati a definire le conoscenze e le qualificazioni necessarie.219. Il diritto comunitario però limita l’esercizio di questa competenza attribuita agli Stati esigendo che le norme nazionali in materia non costituiscano un ostacolo
ingiustificato
all’esercizio
effettivo
delle
libertà
fondamentali garantite dal Trattato (punti 34-35).
218
La Corte ai punti 32 e 33 richiama la giurisprudenza della corte relativa all’applicazione delle eccezioni previste all’articolo 45, primo comma, CE: la sentenza del 21 giugno 1974, causa C-42/92, Thijssen, in Racc., p. I-4047, la quale sostiene che l'eccezione contemplata dall'art. 55 (art 45 CE) va limitata alle attività che, considerate di per sè, costituiscono una partecipazione diretta e specifica all'esercizio dei pubblici poteri”; e la sentenza del 31 maggio 2001, causa C-283/99, Commissione/Italia, in Racc., p. I-4363 che riprende il punto 8 della sentenza Thijssen. 219 La Corte al punto 33 richiama il punto 10 della sentenza del 15 ottobre 1987, causa Heylens e a., Racc., p. 4097: " l ' avvocato che esercita con il proprio titolo professionale di origine svolge le stesse attività professionali dell ' avvocato che esercita con il corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante, e può, in particolare, offrire consulenza legale sul diritto del proprio Stato membro d ' origine, sul diritto comunitario, sul diritto internazionale e sul diritto dello Stato membro ospitante. Esso rispetta comunque le norme di procedura applicabili dinanzi alle giurisdizioni nazionali" e il punto 9 della sentenza del 7 maggio 1991, Causa C340/89, Vlassopoulou, in Racc., p.I-2357 secondo il quale “in mancanza di armonizzazione delle condizioni di accesso ad una professione gli Stati membri possono definire le conoscenze e le qualifiche necessarie all' esercizio di tale professione e richiedere la presentazione di un diploma che attesti il possesso di queste conoscenze e di queste qualifiche 111
Le norme nazionali che stabiliscono requisiti di qualificazione, anche se applicati senza discriminazioni fondate sulla nazionalità possono però produrre l’effetto di porre ostacoli all’esercizio delle libertà fondamentali se le norme nazionali prescindono dalle conoscenze e dalle qualificazioni già acquisite dall’interessato in un altro Stato membro. Così che le autorità di uno Stato, il quale si ritrovi ad esaminare la domanda di accesso ad un periodo di pratica volta ad esercitare una professione regolamentata, devono prendere in considerazione la qualificazione professionale del candidato attestata sia dai suoi diplomi, certificati e altri titoli, sia dalla sua esperienza professionale contestualmente alla qualificazione professionale richiesta dalla normativa nazionale (punti 36-37). Come risulta dal punto 61 della citata sentenza Morgenbesser, l’analisi non differisce a seconda che venga fatta valere la libera circolazione dei lavoratori o la libertà di stabilimento, per opporsi ad un rifiuto (quale quello opposto al Signor Peśla) di ammettere un candidato di un altro Stato membro al tirocinio di preparazione senza sostenere la prova attitudinale nelle materie giuridiche obbligatorie per il primo esame di Stato (punto38).
III.5.4
Le
condizioni
per
il
riconoscimento
dell’equipollenza La procedura di valutazione comparativa che devono effettuare gli Stati deve consentire ad essi di stabilire obiettivamente che il diploma straniero attesta conoscenze, se non identiche almeno equivalenti a quelle richieste dallo Stato ospitante. La valutazione dell’equipollenza
del
diploma
straniero
deve
effettuarsi
in
considerazione del livello delle conoscenze e delle qualificazioni che questo diploma consente di presumere. Se, a seguito della procedura 112
comparativa dei diplomi, lo Stato ospitante dovesse trovare corrispondenza, egli è tenuto a riconoscere che tale diploma risponde ai requisiti imposti. Nel caso contrario, lo Stato membro ospitante, ha il diritto di pretendere che l’interessato dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualificazioni mancanti e spetta alle autorità nazionali competenti valutare se le conoscenze acquisite nello stato ospitante nel contesto di un ciclo di studi o di un esperienza pratica siano valide ai fini dell’accertamento del possesso delle conoscenze mancanti (punti 39-41). Il signor Peśla basandosi sui punti precedenti e sul punto 68 e prima parte del punto 70 della sentenza Morgenbesser220 fa valere che per applicare l’art.112 del DRiG, citato al punto 11, in modo conforme al diritto comunitario, si deve tenere conto delle conoscenze acquisite nello Stato membro di origine, cioè la Repubblica di Polonia, e in subordine le conoscenze e le qualifiche acquisite nello Stati ospitante, cioè la Repubblica federale di Germania. Egli ritiene che un diploma straniero non potrebbe mai soddisfare le condizioni richieste dato che il diritto tedesco generalmente non viene insegnato negli altri Stati membri, di conseguenza, a suo parere, la libera circolazione sarebbe esclusa per i giovani giuristi che hanno acquisito i loro titolo in uno Stato membro 220
Punto 68 della citata sentenza: in mancanza di armonizzazione delle condizioni di accesso ad una professione gli Stati membri possono definire le conoscenze e le qualifiche necessarie all' esercizio di tale professione e richiedere la presentazione di un diploma che attesti il possesso di queste conoscenze e di queste qualifiche (v. sentenze 15 ottobre 1987, causa 222/86, Heylens e a.cit., punto 13, e Vlassopoulou, cit., punto 17). E punto 70 : Se a seguito di questo esame comparativo dei diplomi si arriva alla constatazione che le conoscenze e le qualifiche attestate dal diploma straniero corrispondono a quelle richieste dalle disposizioni nazionali, lo Stato membro è tenuto ad ammettere che questo diploma soddisfa le condizioni fissate da dette disposizioni. Se, invece, a seguito di tale confronto emerge una corrispondenza solo parziale tra dette conoscenze e qualifiche, lo Stato membro ospitante ha il diritto di pretendere che l'interessato dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualifiche mancanti (sentenza Vlassopoulou, cit., punto 19). 113
diverso dalla Germania (punto 42). L’argomento del Signor Peśla si basa, però, su un’errata interpretazione della giurisprudenza. Uno stato membro può prendere in considerazione differenze obiettive e nel caso della professione di avvocato ha il diritto di procedere ad un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze che esistono tra gli ordinamenti giudiziari nazionali.221 Contrariamente a ciò che sostiene il signor Peśla, la Corte ritiene che le conoscenze, le qualifiche e le esperienze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro, o quelle ottenute nello Stato ospitante devono essere esaminate con riferimento al livello richiesto dalla normativa dello Stato membro ospitante (punti 43-45) .222 Al punto 46 della sentenza, la Corte sostiene che il solo fatto che dal punto di vista del livello della formazione e degli sforzi per ottenerla siano compatibili con quelli richiesti dallo Stato ospitante, non può comportare il fatto di privilegiare le conoscenze richieste dallo Stato di provenienza in luogo di quello ospitante. Un argomento come quello del signor Peśla porterebbe, alle estreme conseguenze, per cui qualsiasi candidato con conoscenze minime del diritto e della lingua tedesca dovrebbe essere ammesso al tirocinio di preparazione.
221
Il punto 18 della sentenza Vlassopoulou, ripreso nel punto 69 della sentenza Morgenbesser: “Nel contesto di questo esame, uno Stato membro può tuttavia, prendere in considerazione differenze obiettive relative tanto al contesto giuridico della professione considerata nello Stato membro di provenienza come pure al suo campo di attività. Nel caso della professione di avvocato, lo Stato membro ha pertanto il diritto di procedere ad un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze rilevate tra gli ordinamenti giudiziari nazionali interessati. 222 La Corte cita la sentenza del 7 maggio 1992, Aguirre Borrel e a., C104/91, in Racc., p. I-3023, al punto 11: “Ne consegue che spetta allo Stato membro al quale è stata presentata la domanda di autorizzazione all'esercizio di una professione il cui accesso è, secondo la normativa nazionale, subordinato al possesso di un diploma o di una qualifica professionale prendere in considerazione i diplomi, i certificati e gli altri titoli che l'interessato ha acquisito ai fini dell'esercizio della medesima professione in un altro Stato membro, procedendo ad un raffronto tra le competenze attestate da questi diplomi e le conoscenze e qualifiche richieste dalle norme nazionali”. 114
Inoltre, poiché il signor Peśla sostiene che le sue conoscenze del diritto tedesco non sarebbero state prese in considerazione in maniera sufficiente dal Ministero della Giustizia del Meclemburgo e Pomerania anteriore, la Corte ricorda che non spetta a lei determinare se le autorità tedesche siano legittimate a considerare insufficienti gli attestati del Signor Peśla (punti 46-47). Spetta, infatti, al giudice nazionale del rinvio verificare se il regime istituito dall’articolo 112 del DRiG è stato seguito in maniera precisa e non fittizia; L’unico competente a valutare la corretta applicazione del diritto interno sono i giudici nazionali, i qual potranno verificare, in un procedimento interno, se le autorità nazionali hanno rispettato la normativa interna nel valutare le conoscenze precedentemente acquisite dal ricorrente. Le prime due questioni pregiudiziali sono da risolvere interpretando l’articolo 39 CE nel senso che le conoscenze da prendere in considerazione per valutare l’equipollenza delle formazioni sono quelle dello stato membro ospitante in cui il candidato chiede di accedere al tirocinio (punto 48).
III.5.5 I criteri di esame di equipollenza delle conoscenze acquisite Il giudice del rinvio nella terza questione chiede se ai fini dell’esame di equipollenza si debba ridurre anche solo leggermente il livello delle conoscenze richieste per attribuire un effetto utile all’articolo 39, e la Corte afferma che per attribuire un effetto “utile” all’articolo in questione non viene imposto agli Stati l’abbassamento dei requisiti normalmente richiesti per l’accesso ad un’attività professionale. Sulla base della giurisprudenza citata emerge la necessità di conciliare gli imperativi degli articoli 39 e 43 CE con i 115
requisiti relativi al possesso della qualificazioni richieste per determinate attività professionali. Dalla giurisprudenza si evince anche che l’esame di equipollenza da parte dello Stato dev’essere effettuato
tenendo
conto
dell’insieme
della
formazione
sia
accademica che professionale così da valutare se tale insieme soddisfa in maniera totale o parziale i requisiti richiesti nello Stato ospitante.
Se
le
conoscenze
possedute
dovessero
risultare
parzialmente coincidenti con quelle richieste, lo Stato membro ospitante ha il diritto di richiedere le conoscenze mancanti. Il fatto che lo Stato membro ospitante debba obbligatoriamente richiedere solo le conoscenze mancanti e non quelle già acquisite contribuisce ad agevolare la libera circolazione sancita dall’articolo 39 CE poiché in caso contrario ci sarebbe un ostacolo determinante per l’accesso alle professioni legali in quello Stato membro (punti 49-53). Per le motivazioni enunciate l’argomento opposto dal signor Peśla per il quale l’articolo 39 sarebbe privato del suo contenuto se lo Stato ospitante potesse esigere dal candidato lo stesso livello del suo diritto nazionale di quello attestato dalla qualificazione professionale richiesta in tale Stato per l’accesso alla professione legali, non può essere accolto. Inoltre, se il tirocinante fosse ammesso alla prima parte del tirocinio senza una prova di equipollenza delle conoscenze nel diritto nazionale dello Stato ospitante, egli si ritroverebbe ad avere grosse probabilità di insuccesso al momento di sostenere, dopo la prima fase di tirocinio, il secondo esame di stato poiché si ritroverebbe un limitato lasso di tempo per completare le conoscenze mancanti (punti 54-55). Anche se l’articolo 39 CE non impone una riduzione del livello richiesto, non può comunque essere interpretato nel senso di privare gli Stati della facoltà di rendere più flessibili i criteri sulle qualificazioni richieste. Tuttavia, se gli stati non ricorressero alle dichiarazioni di equipollenza parziale delle 116
conoscenze, la mancanza di una ripartizione tra conoscenze acquisite e conoscenze mancanti porterebbe gli interessati, in un momento successivo, a dover dimostrare di aver acquisito non solo le conoscenze mancanti ma anche quelle che potrebbero essere riconosciute
nell’esame
comparativo
iniziale.
L’esigenza
di
ripartizione, però, non può comportare che semplici conoscenze specifiche di taluni aspetti di alcuni settori giuridiche non sarebbero sufficienti per richiedere il riconoscimento parziale delle sue qualificazioni poiché il superamento degli esami di Stato di diritto, come quello che il signor Peśla vuole evitare, è la prova del superamento di conoscenze estese ed approfondite (punti 56-60). Spetta al giudice nazionale di rinvio verificare la giusta applicazione dell’articolo 112 del DRiG da parte delle autorità nazionali competenti, poiché solo ad un giudice nazionale spetta l’applicazione corretta del diritto interno. Il governo tedesco, inoltre, su richiesta della Corte, ha precisato che se per esempio un candidato possedesse conoscenze equipollenti a quelle richieste dallo Stato ma sono nell’ambito del diritto civile ma non possedesse nell’ambito del diritto processuale tedesco, egli si ritroverebbe a sostenere una prova attitudinale solo sulla parte processuali. Nella prassi, l’esame delle conoscenze, richiesto dall’articolo 112 del DRiG, risulta molto meno rigoroso dell’esame richiesto ad un laureato nazionale, poiché verte solo sulle materie obbligatorie, e scritte, e non anche su quelle specialistiche ed orali (punti 61-63). È necessario che, in pratica, la possibilità di un riconoscimento parziale delle conoscenze e delle qualificazioni già acquisite dal candidato non resti semplicemente fittizia e, al punto 64, la Corte
117
afferma che ciò non sembra avvenire in Germania, circostanza che spetta tuttavia verificare al giudice nazionale.223 La
terza
questione
pregiudiziale
si
risolve,
dunque,
dichiarando che l’articolo 39 CE deve essere interpretato in modo che, per il riconoscimento di equipollenza di un candidato che voglia accedere al tirocinio per le professioni legali, lo Stato membro non debba abbassare le richieste delle conoscenze necessarie per la professione ed è compito del giudice nazionale del rinvio far sì che il riconoscimento parziale delle qualifiche attestate dal candidato non risulti fittizio (punto 65).
III.6 Conclusione III.6.1 Conclusioni della Corte di Giustizia • Le conoscenze da prendere come elemento di riferimento per l’ equipollenza, secondo interpretazione dell’art.39 CE, sono quelle attestate dalla qualificazione richiesta nello Stato membro in cui il candidato chiede di accedere al tirocinio. • L’art.39 non impone all’autorità tedesca di esigere un livello di conoscenze giuridiche inferiore a quelle richieste per l’accesso al tirocinio per il “primo esame di stato”. Detto articolo non osta nemmeno ad una tale riduzione della qualificazione richiesta e occorre che vi sia nella pratica, e non resti cosa fittizia, un riconoscimento parziale delle conoscenze attestate e provate dall’interessato, che spetta al giudice del rinvio accertare.
223
Comunicato Stampa 99/03 del 13 novembre 2003 sulla sentenza C-313/01,
cit., p.2 118
III.6.2 Riflessioni conclusive Il riconoscimento delle qualifiche professionali, attualmente, sembra
essere
una
delle
questioni
più
difficili
nel campo della libertà di circolazione dei lavoratori (e nel campo la
della
libertà
Commissione
procedure
di
di
stabilimento). Negli
europea
infrazione
ha
ultimi
avviato
contro
gli
Stati
anni,
numerose membri
a causa del mancato rispetto della normativa europea sul riconoscimento delle qualifiche professionali. Non tutti gli Stati membri,
infatti,
hanno
rispettato
la
scadenza
per
il recepimento della direttiva 2005/36/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio
del
7
settembre
2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. Le difficoltà
per
quanto
riguarda
il riconoscimento delle qualifiche professionali sono state identificate come “il secondo grande ostacolo esistente” per l’attuazione di una maggiore mobilità del lavoro all’interno della Comunità. Da recenti relazioni delle
del
qualifiche
SOLVIT
emerge
professionali
che risulta
il
riconoscimento
essere
uno
dei
principali motivi di preoccupazione per i cittadini UE che desiderano lavorare in un altro Stato membro utilizzando le competenze professionali certificate.224 assicurare
un sistema
È, probabilmente, la difficoltà di
veramente armonizzato a
rendere
il
riconoscimento dei titoli uno degli argomenti più discussi dalla Corte di Giustizia, e ad aver portato il legislatore comunitario ad adottare numerosi atti di revisione del diritto derivato in materia (compresa la 224
Weizsäcker Esther LL.M. (2010) “Freedom of movement of workers and recognition of professional qualifications in the case law of the European Court of Justice” in Online Journal on free movement of workers within the European Union, p. 6 119
recentissima proposta di riforma della direttiva 2005/36)225.
Il
riconoscimento dei diplomi e titoli, comunque, essendo previsto direttamente dal Trattato come forma di agevolazione alla libera circolazione dei lavoratori, è sempre stato tutelato, nelle sentenze della Corte, anche in situazioni di assenza o inapplicabilità delle disposizioni di diritto derivato, utilizzando il legame con il diritto di stabilimento.226 Fino al caso Peśla, era ambigua la questione concernente la possibilità, da parte di uno Stato membro ospitante, nel momento della valutazione di un candidato per il riconoscimento, di richiedere il
superamento
di
un
esame. Era
già
chiaro
che
l’
autorità competente dello Stato ospitante potesse dare la possibilità di scelta al candidato, ma non era affatto chiaro che lo Stato potesse in realtà, a certe condizioni, obbligare il migrante a sostenere l’esame. Con il caso Peśla, sembra che, dopo la prima valutazione delle conoscenze, l’autorità dello Stato ospitante possa valutare se le lacune individuate nella fase iniziale siano state completate e colmate. Tale sistema d’esame deve, però, poter essere tanto flessibile da far evitare l’inutile riesame di argomenti che il candidato potrebbe aver già coperto in maniera sufficientemente approfondita, sia con le certificazioni presentate sia con la sua esperienza.227 Questa nuova sentenza della Corte affida agli Stati ospitanti l’onere sia
di
basarsi,
nella
valutazione
delle conoscenze del candidato, su quelle richieste dalla legge nazionale, sia sulle differenze delle materie affrontate nella 225
Vedi Capitolo II, paragrafo 4.4 Come nel caso Morgenbesser, citato dalla sentenza Pesla. 227 Lonbay, J. (2011), "Assessing the European Market for Legal Services: 226
Developments in the Free Movement of Lawyers in the European Union", in Fordham International Law Journal, vol. 33, no. 6, p.1655
120
formazione, e, nel caso essi valutassero incomplete le conoscenze e le esperienze professionali del candidato, anche sulla possibilità di imporre una prova d’esame; può sorgere una difficoltà qualora gli Stati non dovessero possedere gli strumenti adatti ad un’equa comparazione, ma soprattutto qualora ponessero interessi nazionali davanti a quelli comunitari al momento della valutazione equa di tali conoscenze. Nel caso del signor Pesla le sue conoscenze dovranno essere valutate dal giudice interno, il quale deciderà se siano state prese in giusta considerazione per giustificare il rifiuto all’accesso al tirocinio; si auspica che tali conoscenze, a livello nazionale, siano prese in considerazione in maniera conforme al diritto comunitario e alla giurisprudenza della Corte. Ciò che è certo è che gli interessi degli Stati membri, al momento di riconoscere una qualifica, possono essere influenzati dalla necessità di proteggere le proprie competenze, il proprio mercato del lavoro, e i propri ordini professionali, nonostante le numerose sentenze pronunciate a difesa della libera circolazione. Lo Stato ospitante, nella sua valutazione della preparazione dei candidati, non deve, come sostenuto dalla Corte nella sentenza in questione, “abbassare” il suo livello di conoscenze richieste ma deve comunque cercare di non rendere fittizio il sistema di riconoscimento parziale così da non apporre, in buona fede, ulteriori limiti alla circolazione del professionista o dell’aspirante tale.
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126
Ringraziamenti Ed eccoci alla fine di questo lavoro, erano mesi che pensavo a ciò che avrei scritto nell’ultima pagina, dopo le fatiche di questa tesi e ora che sono davanti al foglio bianco quasi mi blocco. Inizierò dal principio, perché non c’è dubbio, le prime persone che voglio ringraziare sono i miei genitori, e già inizio a piangere…. Ringrazio mio padre, l’assenza più rumorosa della mia vita. Lo ringrazio perché è sempre stato fiero di me e dei miei risultati. Gli dedico questo piccolo grande successo perché seguendo i suoi insegnamenti sono diventata una giovane donna anche senza averlo al mio fianco. Ringrazio mia madre, la persona più paziente che abbia mai conosciuto, la ringrazio per non avermi mai messo pressione in questo percorso di studi anche se a volte l’ ho fatta dubitare della mia buona volontà. La ringrazio perché è forza e dolcezza, perché mi è sempre vicina anche con i suoi silenzi. Ringrazio mio fratello, il mio secondo padre. Perché la sua saggezza è ciò che prendo ad esempio per la donna che voglio essere. Ringrazio Esther, mia cognata, per la sua estrema disponibilità e gentilezza, e perché mi ha donato le bimbe più belle di questo mondo. Ringrazio Alice, che con i suoi milioni di giochi al minuto mi devasta di risate, perché mi abbraccia e mi vuole bene come solo i bambini sanno fare; ringrazio la cucciola di casa, Carletta, perché, così piccola, sta dando a tutti noi l’esempio di una forza enorme, perché nonostante tutto non piange mai e i suoi sorrisi “sdentati” ci ricordano sempre cosa è importante. Ringrazio Alberto, perché c’è. È così. Lo ringrazio perché aspetta sempre che si plachino le mie bufere interiori, perché negli ultimi tre anni è la persona che più mi ha spinto a “sbloccare” questo percorso di studi, senza nessuna pressione ma con una fiducia nelle mie capacità che io ancora non possiedo e con la sua dolcezza e positività. Lo ringrazio perché il suo amore è d’altri tempi. Ringrazio le mie amiche storiche. Limona, l’ottimista, che ha sempre una parola positiva e dolce per me, Lallina, la mia psicologa, la ringrazio perché era lì nei miei momenti peggiori e perché mi ricorda sempre quanto valgo. Ringrazio Vale L., che riscopro spesso simile a me, per i suoi consigli preziosi nei momenti critici, perché mi capisce, e per le nostre risate da finte ciniche.
Ringrazio i Valenciani e la stupenda esperienza che abbiamo condiviso, per avermi reso meno seria e più matura e perché il nostro affetto ha superato la prova del ritorno in patria. Ringrazio le amiche dell’aula studio, Charli e Claudia C., per le risate che ci siamo fatte preparando gli ultimi esami, e perché con loro condivido il successo di questo traguardo. Finalmente è finito “tutto questo”! Auguri ragazze! Ringrazio i miei colleghi più vicini , in particolar modo coloro che considero amici. Ringrazio Ilaria, perché ci stimiamo con sincerità, ci motiviamo a vicenda, e la nostra amicizia prescinde dal sentirci ogni giorno; Amanda e Vanessa, perché i nostri discorsi sullo studio sono sempre serviti anche a me. Ringrazio Gemellino perché raccoglie sempre le mie ansie universitarie con teorie che mi strappano un sorriso. Ringrazio tutti coloro che ho dimenticato di mettere tra queste righe e ringrazio anche quelli che non ho nominato ma che sanno che li ringrazio per essermi vicino, volermi bene e avere sempre fiducia in me. Grazie!