Saluto

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Innanzitutto, mi scuso per non essere qui con voi. Purtroppo, come molte delle autorità presenti sanno, la partecipazione a eventi pubblici come questo, anche se fortemente voluto da me e organizzato dalla società di cui faccio parte, è sempre subordinata a mille imprevisti. Vorrei però salutare tutti i presenti spiegando per quale motivo sarei contento di vedere, domenica pomeriggio, una palestra piena di persone, ad assistere allo spettacolo di Jean Michel Saive e del fratello Philippe che si prendono a pallinate. Ho iniziato a giocare a ping pong dopo aver visto, alla televisione, un incontro di professionisti: e mi ricordo come fosse oggi, o al massimo ierilaltro, questi due ragazzi che si scambiavano la pallina a trequattro metri dal tavolo, sempre più veloci e sempre più lontani. E mi ricordo di aver pensato che sarebbe stato bello essere bravi come loro. Ora, il ping pong è uno sport maledettamente difficile. La palla va a velocità che è più o meno la metà di quella da tennis, ma la distanza a cui stanno i due giocatori è circa un decimo. Inoltre, la cara vecchia pallina da ping pong pesa due grammi e qualcosa. Potresti spostarla soffiandoci sopra, e a volte succede davvero, non serve avere il fiato particolarmente pesante. Ho scoperto sulla mia pelle che imparare a questo gioco non è affatto facile. Ma tutto quello che ho imparato giocando a ping pong, fuori dalla palestra, mi è servito. Ho imparato a distinguere la persona calma da quella nervosa, e quella falsamente amica da quella onesta e leale. Ho imparato a non entrare in azione prima del momento giusto. Ho imparato che lo stesso colpo all’interno dello stesso schema, fatto in partita su un punto decisivo, non è facile come in allenamento. Soprattutto, ho imparato a giocare a ping pong. Posso sentire qualcuno in palestra ridere, per cui riformulo: ho imparato a fare cose che da bambino, da ragazzo, mi sembravano impossibili e irraggiungibili. E ho imparato perché qualcuno mi ha insegnato. (Alberto, non ti nascondere dietro la colonna. Primo, perché ti si vede lo stesso. Secondo, perché sei un grande coach e te lo meriti.) Tempo fa, leggendo il libro di un grande del nostro sport, il difensore inglese Matthew Syed, ho scoperto che metà della nazionale inglese degli anni ’90 era nata non solo nella stessa città, ma anche nello stesso quartiere. Motivo? Probabilmente la presenza, nel quartiere medesimo, dell’Omega Club; società di tennistavolo in cui allenava un signore che


si chiamava Desmond Douglas. Evidentemente, uno che il ping pong lo sapeva insegnare. Non starò qui a sottolineare l’importanza di una buona scuola per emergere nello sport: la sola presenza di Salvatore Sanzo, uno degli ultimi prodotti della scuola Di Ciolo, basterebbe. Vorrei concludere quindi questo intervento ricordandovi che lo scopo di esibizioni come queste, del guardare due campioni che giocano a un gioco bellissimo e difficilissimo, ha per me uno scopo preminente: ricordarci che l’essere umano è in grado di fare cose strepitose, imparando a far funzionare bene il proprio corpo e il proprio cervello. Perché nessuno dei due giocatori che vedrete in campo domenica è nato con una racchetta in mano, esattamente come nessuno di noi è nato sapendo camminare. Ognuno di noi è in grado di fare cose meravigliose, ma prima di farle occorre sapere quali. Occorre conoscerle. Ho passato troppo tempo, come chiunque pratichi il nostro sport, a sentirmi dire “Giochi a ping pong? Perché, è uno sport?” Venite, domenica, a vederlo con i vostri occhi. Ci saranno i fratelli Saive. Ci sarò io. E ci sarà anche Enrica Guidi, la Tiziana del BarLume. Almeno, se anche non vi dovesse piacere il ping pong...


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