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Indice
PREFAZIONE Per iniziare a conoscere Martin Lutero leggendo Paolo di Tarso (di Ernesto Borghi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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1. Martin Lutero e la Bibbia: la passione di una vita (di Franco Buzzi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 2. Paolo ai Romani: cenni introduttivi storico-letterari (di Stefania De Vito) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 3. Paolo ai Romani: analisi e commento (di Pier Luigi Galli Stampino). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1. Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2. Suddivisione della lettera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3. Lettura e commento della lettera ai Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.1. Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,1-17) . . . . . . . . . . . . . 3.3.2. La verità soffocata dall’ingiustizia (Rm 1, 18-32) . . . . . . . . . . . . 3.3.3. Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore (Rm 2,1-19) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.4. La fedeltà di Dio (Rm 3,1-8) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.5. Giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono (Rm 3,9-20) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.6. Giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo (Rm 3,21-31) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.7. Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza (Rm 4,1-25) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
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3.3.8. La speranza poi non delude (Rm 5,1-11) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.9. Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia (Rm 5,12-21) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.10. Siamo stati battezzati in Cristo Gesù (Rm 6,1-14). . . . . . . . . 3.3.11. Liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia (Rm 6,15-7,6) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.12. Non riesco a capire ciò che faccio (Rm 7,7-25) . . . . . . . . . . . 3.3.13. Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio (Rm 8,1-17). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.14. Nella speranza siamo stati salvati (Rm 8,18-30) . . . . . . . . . . . 3.3.15. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? (Rm 8,31-39) . . . . . . . . 3.3.16. La parola di Dio non è venuta meno (Rm 9,1-29) . . . . . . . . . 3.3.17. Il termine della Toràh è Cristo (Rm 9,30-10,21). . . . . . . . . . . 3.3.18. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti! (Rm 11,1-36) . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.19. Rinnovate il vostro modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio (Rm 12,1-2) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.20. Non stimatevi sapienti da voi stessi (Rm 12,3-16) . . . . . . . . . 3.3.21. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene (Rm 12,17-13,7) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.22. L’amore non fa alcun male al prossimo: pienezza della Toràh infatti è l’amore (Rm 13, 8-14) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.23. Chi sei tu, che giudichi un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone (Rm 14,1-13) . . . . . . . . . . . 3.3.24. Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo (Rm 14,14-15,6) . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.25. Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi (Rm 15,7-13) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.26. Giungendo presso di voi, ci verrò con la pienezza della benedizione di Cristo (Rm 15,14 - 16,27) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4. Selezione bibliografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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4. La lettera ai Romani: una sintesi (di Martin Lutero). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 absi: presentazione e pubblicazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 4
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P R E F A Z I O N E
Per iniziare a conoscere Martin Lutero leggendo Paolo di Tarso Ernesto Borghi Che cosa significa riformare la Chiesa di Gesù Cristo? Questa domanda, con maggiore o minore profondità culturale e passione religiosa, ha probabilmente attraversato, anche quando non era formulata precisamente così, il cuore e la mente di tante persone in varie epoche e molteplici occasioni. La fedeltà al Vangelo di Gesù Cristo e alla libertà individuale e sociale derivante da tale rapporto è stata offuscata o annichilita da altre relazioni, spesso liaisons terriblement dangéreuses: la ricerca del potere, del denaro e del successo come obiettivi prioritari. Questi tre idoli hanno reso sovente istituzioni, ambienti ed esponenti della Chiesa capaci di veri tradimenti rispetto al Dio di Gesù Cristo in cui spesso affermavano di credere. Indubbiamente una delle fasi della storia del cristianesimo più complesse in proposito è stata quella dei secoli XV e XVI. In questo quadro temporale la figura e l’opera del monaco agostiniano tedesco Martin Luther ha inciso in modo particolarissimo sulla storia religiosa e civile della Germania e, per molti versi, su quella della cultura europea e mondiale. Sino al 31 ottobre 2017, quando sarà vissuto il cinquecentesimo anniversario della cosiddetta “affissione” a Wittenberg delle 95 tesi contro la pratica, locale e non, delle indulgenze, potremo anche avere una strana impressione: che sia iniziata una sorta di “processo di beatificazione” di Lutero, dopo che sino a pochissimo tempo fa – e in certi ambienti “cristiani” fondamentalisti ancora oggi – egli era spesso visto in termini largamente negativi anzitutto sotto il profilo religioso. Indubbiamente Lutero visse momenti difficili e fu responsabile anche di posizioni del tutto censurabili (una su tutte: l’antigiudaismo violento e veemente di certi suoi interventi, per es., il tragico libello Degli ebrei e delle loro menzogne). Cionondimeno a Lutero anzitutto ogni credente 7
cristiano, ma anche l’umanità in generale deve rendere grazie costantemente almeno per una ragione: l’attenzione che egli pose alla centralità della Bibbia e della sua lettura esistenziale come dimensione essenziale dell’essere effettivamente cristiani. Questo numero di “Parola&parole - monografie” intende essere un modo per celebrare questo grandissimo e innegabile merito storico di Lutero attraverso un approccio triplice, reso possibile dalla competenza e dalla generosità di coloro che hanno collaborato a questo nostro volumetto e che ringrazio di ciò con vivissima cordialità. Ragioneremo in primo luogo sul rapporto tra il riformatore tedesco e la Bibbia nella sua globalità (le preziose, sintetiche osservazioni di Franco Buzzi che qui riportiamo, come il suo recentissimo saggio La Bibbia di Lutero, ci aiuteranno in proposito). Secondariamente offriremo una lettura globale di uno dei libri biblici – la lettera di Paolo ai Romani – che maggiormente hanno inciso nella formazione e vocazione accademica ed educativa di Lutero, motivandone gli slanci al ritorno alla radicalità della fede delle origini cristiane. Le osservazioni storico-culturali introduttive di Stefania De Vito e il commento divulgativo generale alla lettera proposto da Pier Luigi Galli Stampino consentiranno a lettrici e lettori di confrontarsi da vicino con questi folgoranti e intensissimi capitoli paolini. Essi appaiono davvero l’apice teologico ed antropologico del pensiero e dell’opera di Paolo. Durante lo sviluppo della trattazione lettrici e lettori troveranno, a pie’ di pagina, alcune osservazioni sul testo paolino in esame tratte dalle lezioni proposte da Lutero sulla lettera ai Romani tra il 1515 e il 1516, dunque a pochissima distanza temporale dal fatidico anno 1517. In terzo luogo, proprio per presentare quanto Lutero stesso abbia scritto per introdurre alla lettera ai Romani, ci è parso doveroso e stimolante proporre una traduzione della prefazione a questo libro neo-testamentario che egli pubblicò nel 1522 proprio per un’edizione della sua traduzione della Bibbia. Chi leggerà questo nostro libretto, in certi passaggi certo impegnativo, avrà alcune opportunità per mettersi in rapporto con Martin Lutero a partire in particolare, dal suo approccio con la lettera rivolta da Paolo alla comunità di Roma. Ciò permetterà, speriamo, a tutti di fare delle esperienze culturali e spirituali di grande spessore, al di fuori da ogni 8
accademismo erudito e con tutta l’appassionata serietà che l’approccio con Lutero, lettore di Paolo, e il confronto con lo scritto più articolato e “mature” dell’Apostolo delle genti indubbiamente possono stimolare ed esigere… Buona lettura!
PER RICORDARE PAOLO DE BENEDETTI Un gravissimo lutto ha colto l’11 dicembre scorso il mondo degli studi biblici e tante, tantissime persone di varia ispirazione culturale e religiosa: è spirato il giudaista astigiano Paolo De Benedetti, nato nel 1927, una delle figure più significative negli ultimi cinquant’anni, anzitutto in Italia, per quanto concerne la conoscenza della cultura giudaica biblica e rabbinica, dal mondo accademico (a Milano, Urbino e Trento), a quello della divulgazione ad ampio spettro. Un uomo “di confine” tra giudaismo e cristianesimo, dalla generosità intellettuale senza limiti e dall’ironia semplice e raffinatissima ha lasciato un’eredità preziosa di passione umanistica e sensibilità religiosa e culturale che sarebbe criminale disperdere. I suoi scritti, spessissimo racchiusi in volumetti dalla mole inversamente proporzionale al loro grande valore formativo ed esistenziale, hanno avuto una diffusione molto ampia, ancorché forse ancora inferiore a quanto avrebbero meritato. Per avere un’idea effettiva della produzione bibliografica di Paolo De Benedetti, può essere di grande utilità il suo ultimo volume, curato da Agnese Cini Tassinario, co-fondatrice con De Benedetti di BIBLIA, Associazione laica di cultura biblica. Si tratta del saggio Fare libri. Panorama completo delle opere di PDB, Morcelliana, Brescia 2016. Per l’Associazione Biblica della Svizzera Italiana, la cui attività egli aveva sempre seguito con evidente affetto, il Prof. De Benedetti scrisse due contributi, che ripubblicheremo a parte, in una brochure specifica, per testimoniare in questa forma la nostra riconoscenza nei suoi confronti. Alla carissima sorella Maria e a tutti i loro cari le condoglianze più cordiali ed intense dell’Associazione Biblica della Svizzera Italiana e di tutti coloro che a Paolo hanno voluto bene... Caro Paolo, grazie di tutto!
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1. Martin Lutero e la Bibbia: la passione di una vita 1
di Franco Buzzi2 Non è esagerato dire che Martin Lutero (1483-1546) ebbe, durante tutta la sua vita, un’unica passione: la Bibbia. Quando la scoprì? Qui il discorso si fa necessariamente sfumato, perché occorre distinguere tra la Bibbia, fisicamente intesa come «Il Libro» che contiene i libri, gli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento, e la percezione viva della Parola di Dio, dei vangeli, di brani degli apostoli o passi scelti anche dall’Antico Testamento, che egli fin da bambino, probabilmente con interesse e avidità, ascoltò per anni in chiesa, per lo più durante la celebrazione liturgica della messa. Senz’altro egli fu un giovane particolarmente capace di ascoltare. Poco alla volta comprese che tutti i suoi problemi di ordine morale e spirituale avrebbero potuto trovare una risposta nella Sacra Scrittura, intesa come la Parola autorevole che Dio rivolge agli esseri umani. Giunto in tarda età, nell’estate del 1540, il Riformatore ricorda, compiaciuto, uno dei suoi primi incontri con la Bibbia nella biblioteca dell’Università di Erfurt, quando, ancora adolescente, si imbatté casualmente nel racconto di Anna che pregava nel Tempio (cfr. 1Sam 1). Ricorda anche che avrebbe voluto non interrompere la lettura di tutta Tratto da: F. Buzzi, La Bibbia di Lutero, Claudiana-EMI, Torino-Bologna 2016, pp. 5-9. 2 Nato a Lurate Caccivio (CO) nel 1948, è prete dell’Arcidiocesi di Milano dal 1972. Ha studiato teologia e filosofia a Milano, Roma e Monaco di Baviera, conseguendo la licenza in teologia (Facoltà Teologica di Milano) e dottorato in filosofia (Pontificia Università Gregoriana, Roma). Ha insegnato filosofia nel Seminario Arcivescovile di Milano e presso la Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale. È stato professore invitato alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. È Socio Corrispondente Residente dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere. Dal 2007 è Prefetto della Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Tra i suoi libri più recenti: Erasmo e Lutero. La porta della modernità, Jaca Book, Milano 2014; Religione. cultura e scienza a Milano (secoli XVI-XVIII), Jaca Book, Milano 2015; Nichilismo, Editrice Bibliografica, Milano 2016. 1
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la Bibbia, ma che ne fu impedito dal dovere di frequentare le lezioni, essendo egli iscritto alla Facoltà delle arti presso l’Università di Erfurt, a partire dal 1501. Quando poi entrò, sempre a Erfurt, nel monastero degli agostiniani (1505), lasciando perdere tutto il resto e «disperando di se stesso», egli chiese ai confratelli di avere una Bibbia. La ottenne da loro e la lesse e rilesse diligentemente fino a impararla a memoria, benché il testo della medesima non fosse filologicamente corretto. Ma poi, man mano che crebbe, quella Bibbia gli fu tolta di mano e gli diedero da leggere «i libri dei sofisti», cioè i libri di filosofia e teologia scolastica. Nondimeno, tutte le volte che gli si presentava l’occasione, egli si rifugiava in biblioteca e riprendeva in mano l’amata Bibbia. Per volontà di Giovanni Staupitz, suo superiore diretto, fu trasferito nel 1508 alla nuova Università di Wittenberg, appena fondata dal principe Federico il Saggio nel 1502. Qui entrò in contrasto con i professori e i colleghi, perché costoro nello studio e nell’insegnamento della teologia erano orientati in senso speculativo e astratto, mentre Lutero cercava ragioni di vita e conforto nella Sacra Scrittura. Solo Staupitz lo comprese e lo incoraggiò, anzitutto facendogli tenere delle lezioni sulla Scrittura e in secondo luogo dandogli l’incarico della predicazione (1512). Così, per Lutero, la preparazione delle lezioni e della predicazione divennero un incremento costante a crescere nella conoscenza profonda della Sacra Scrittura, coltivandone la comprensione anche attraverso l’approfondimento delle lingue originali (ebraico e greco) in cui tali libri sono stati scritti. Del resto tale orientamento corrispondeva in modo perfetto alla nuova sensibilità umanistica, che, tramite il suo confratello Erasmo, si era diffusa nei principali centri di cultura europei e richiedeva uno studio attento e serio anche ai testi biblici, in modo tale che la predicazione al popolo potesse essere garantita nella sua attendibilità e piacevolezza. Erasmo caldeggiava appunto la necessità che la Bibbia, tramite la predicazione, raggiungesse la gente e che il popolo cristiano fosse sempre meglio istruito nella Parola di Dio. Tutti questi elementi, presi insieme, spiegano come l’esigenza, fortemente avvertita da Lutero, di tradurre in tedesco la Bibbia sia nata dalla necessità di rievangelizzare le terre della Germania, offrendo a 12
tutti i tesori di spiritualità racchiusi nel testo sacro. In quanto servitore o ministro della Parola rivelata, Lutero ha preso a cuore la necessità di comprenderla, di spiegarla a scuola, di tradurla e di predicarla alla comunità dei credenti. Fin dall’inizio, la Sacra Scrittura non significò per lui un oggetto di studio qualsiasi, ma fu da lui avvertita come quella Parola di Dio che sola contiene i segreti di un’esistenza umana ben riuscita, in quanto conforme al volere di Dio e ai suoi altissimi disegni sull’umanità. Iniziando pertanto dalla presentazione a scuola dei libro dei Salmi (1513-1515) e continuando con il commento di alcuni libri importanti del Nuovo Testamento, tra i quali e in primis, la Lettera ai Romani (1515-1516), Lutero prese gradualmente coscienza che, «davanti a Dio» (coram Deo, vor Gott), esiste un solo atteggiamento umano, che risulti a Lui “gradito”: la fede incondizionata nella sua Parola. Al di fuori di questa prospettiva che, per grazia, si esercita nella gioiosa adesione all’Evangelo mediante la fede, nell’accoglienza dell’amore di Dio crocifisso per noi, non esiste altra alternativa che quella della Legge. Mi spiego: con Legge (che qui e altrove scrivo con la maiuscola) intendo esprimere la condizione dell’essere umano che, rifiutando la fede in Cristo – dunque rendendo del tutto vana la sua croce per noi –, si illude di procurarsi la salvezza con le «proprie opere», che egli ritiene pure «buone», e che pretende di compiere senza di Lui, senza il dono del suo Spirito, nell’indifferenza o addirittura nella negazione esplicita di ciò che Dio ci comunica nella sua Parola. Da questo punto di vista «Legge» ed «Evangelo» sono due modi, completi e diversi, di essere al mondo, di vivere e di comprendere la propria esistenza nel mondo; due modi di rapportarsi a se stessi, agli altri e a Dio, in ogni momento e in ogni evenienza della vita. Secondo il sistema della Legge, l’uomo è unicamente centrato su se stesso, in tutto ciò che fa – nel mondo e nel rapporto con gli altri – non cerca nient’altro che di piacere a se stesso e di glorificare se stesso, cerca addirittura di piegare Dio a se stesso, facendosi un Dio a proprio uso e consumo. In questo caso anche la legge di Dio – sia quella «scritta nel cuore» dell’uomo (cfr. Rm 2,15) sia quella rivelata tramite Mosè – si trasforma in uno strumento di cui l’uomo si appropria per celebrare se stesso, non certo per dare gloria a Dio, secondo l’intenzione del Legislatore. 13
Questo stile di vita è propriamente «il peccato» che coincide con l’incredulità e in essa – in questa mancanza di fede – si esercita e si accresce. Invece, secondo il sistema dell’Evangelo, l’essere umano vive, in modo pieno e vero, solo esercitandosi nel rapporto di fede con Dio. Tale fede si manifesta, costantemente e concretamente, nella consapevolezza di ricevere momento per momento la propria esistenza da Dio e nel dare ragione a Lui in tutte le sue parole, ma – principalmente e definitivamente – nel dargli ragione a proposito di Colui che è il compimento di tutte le parole precedentemente pronunciate da Dio nell’Antico Testamento, vale a dire Gesù Cristo, la Parola vivente di Dio, il Verbum breviatum et consummatum. La legge, assunta nel sistema della Legge, non fa nient’altro che consegnare l’uomo a se stesso, rivelandogli di essere peccatore, perché privo di fede: gli manifesta la sua incapacità di costituirsi come persona ben riuscita e integra. Così intesa, la legge consegna l’essere umano alla sua disperazione, la disperazione di non riuscire a realizzarsi, a costruirsi, a mettersi in salvo dal proprio nulla; così, nel caso migliore, la legge esprime un’invocazione disperata di quella salvezza che essa stessa non riesce a procurarsi. La legge, effettivamente, rimanda oltre se stessa, invoca un compimento che può venirle solo da altrove (aliunde); in questo senso essa prepara alla venuta di Cristo e alla sua giustizia, che è esterna all’uomo (aliena, extranea) e che è offerta a questi solo per mezzo della fede. La fede, assunta nel sistema dell’Evangelo, consente di intendere la condizione umana, sottoposta alla legge e alla sua impotenza, come una «desperatio», sì, ma una desperatio «fiducialis». In altri termini, la fede è perfettamente in grado di conoscere lo scopo vero della legge, in quanto tutta la sua impotenza suona come un grido d’invocazione a Cristo; la fede, secondo il sistema dell’Evangelo, scorge nella legge una testimonianza indiretta della missione e della realtà di Cristo. Occorre tenere conto di tutti questi rapporti complessi e dialettici, per intendere il nesso che, secondo Lutero, intercorre tra l’Antico e il Nuovo Testamento. L’uno e l’altro rendono testimonianza a Cristo: le profezie e le promesse direttamente, la legge indirettamente. C’è perciò, nelle promesse e nelle profezie, un contenuto che suona come evangelico; in questo senso l’Evangelo, inteso come sistema di chi vive nella e della 14
fede in Cristo (anche semplicemente in quanto “atteso”, perché “promesso”!), è presente anche nell’Antico Testamento. Viceversa nel Nuovo Testamento non c’è soltanto l’Evangelo, ma anche la legge, perché la situazione dell’uomo giustificato, che dunque si muove nel sistema dell’Evangelo, non è sottratta una volta per sempre al peccato, anzi il giustificato è costantemente tentato di ricadere nel sistema della Legge, perciò anche nel Nuovo Testamento è presente la legge e c’è sempre bisogno dell’insopprimibile funzione della legge3.
«Con gratitudine riconosciamo che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa. Attraverso l’ascolto comune della Parola di Dio nelle Scritture, il dialogo tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale, di cui celebriamo il 50° anniversario, ha compiuto passi importanti. Chiediamo al Signore che la sua Parola ci mantenga uniti, perché essa è fonte di nutrimento e di vita; senza la sua ispirazione non possiamo fare nulla. L’esperienza spirituale di Martin Lutero ci interpella e ci ricorda che non possiamo fare nulla senza Dio. “Come posso avere un Dio misericordioso?”. Questa è la domanda che costantemente tormentava Lutero. In effetti, la questione del giusto rapporto con Dio è la questione decisiva della vita. Come è noto, Lutero ha scoperto questo Dio misericordioso nella Buona Novella di Gesù Cristo incarnato, morto e risorto. Con il concetto di “solo per grazia divina” ci viene ricordato che Dio ha sempre l’iniziativa e che precede qualsiasi risposta umana, nel momento stesso in cui cerca di suscitare tale risposta. La dottrina della giustificazione, quindi, esprime l’essenza dell’esistenza umana di fronte a Dio. Gesù intercede per noi come mediatore presso il Padre, e lo prega per l’unità dei suoi discepoli “perché il mondo creda” (Gv 17,21)» (Papa Francesco, Intervento nella cattedrale luterana di Lund, 31 ottobre 2016). 3
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2. La lettera ai Romani: cenni introduttivi storico-letterari di Stefania De Vito1 Nell’epistolario paolino, la lettera ai Romani assume un importante rilievo; infatti, nell’ordine canonico del Nuovo Testamento, questa viene collocata all’inizio dell’intero epistolario, pur non essendo stata scritta per prima. Con le sue 34.410 battute, essa troneggia sulle altre epistole, persino sulla prima lettera ai Tessalonicesi, che, scritta presumibilmente nel 50 d.C., rappresenta il più antico scritto del Nuovo Testamento2. La lettera ai Romani, scritta a Corinto tra il 55 e il 59 d.C., viene considerata uno dei testi più significativi sia del periodo apostolico paolino che dell’intero Nuovo Testamento. In essa, infatti, troviamo un’articolata argomentazione sul tema della grazia e della giustificazione. «Romani è – con Efesini – la più elaborata lettera di Paolo. Non è la più facile da leggere e da interpretare, ma è indubbiamente quella che, assieme ai Galati, riveste una maggiore importanza dal punto di vista ecclesiaÈ nata ad Avellino nel 1976, sposata con Nicola e madre di Giuseppe e Andrea. Si è laureata in Filosofia presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli e ha discusso la tesi di dottorato in teologia biblica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma nell’ottobre 2015. Sino al 2016 è stata docente di Introduzione alla Sacra Scrittura presso l’ISSR “Moscati” di Avellino. Ha pubblicato il volume La schiavitù via di pace. Una prospettiva pragmalinguistica di Rm 6,15-23, G&B Press, Roma 2016. In «Parola&parole» ha pubblicato i seguenti contributi: Paolo, servo di Cristo Gesù. Ecco come ti racconto una esperienza di Dio, 20 (2012), 13-22; Lc 7,36-50: Il perdono in lacrime. Una lettura in chiave comunicativa, 23 (2015), 51-64. 2 «La Prima Lettera ai Tessalonicesi è molto significativa perché rappresenta lo scritto più antico del Nuovo Testamento. Essa fornisce una testimonianza indispensabile per la tradizione orale del Vangelo, nell’intervallo intercorso fra la morte e risurrezione di Gesù e la composizione delle opere del Nuovo Testamento (fra il 30 e il 50 circa). La Prima Lettera ai Tessalonicesi è la prova letteraria più vetusta a nostra disposizione, più diretta e contigua ai fatti, tale da renderci avveduti sulla rilevanza che i primi cristiani hanno attribuito alla morte e alla risurrezione di Cristo. È una delle fonti essenziali della dottrina della Chiesa riguardo alla morte, alla risurrezione e alla parusia di Cristo» (S.N. Brodeur, Il cuore di Paolo è il cuore di Cristo, GBP, Roma 2010, 20145, pp. 125-126). 1
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le. Paolo dovette difendere reiteratamente la propria posizione riguardo alla giustificazione senza le opere della legge: i cristiani provenienti dal paganesimo non andavano circoncisi e non dovevano farsi ebrei per essere salvati»3.
Lo spessore della lettera ai Romani aumenta, in maniera esponenziale, se prendiamo in seria considerazione il fatto che questa lettera è la sola che l’apostolo scrive, indirizzandola ad una comunità che non ha fondato. La storia della comunità romana e la sua genesi è pressoché sconosciuta; essa è diventata oggi una questione di interesse storico, proprio per l’invio della lettera paolina a tale comunità. Le informazioni storiche, dunque, sono scarse ed imprecise, però, pur non essendo certa l’identità dei o del fondatore della comunità romana, è certo che il cristianesimo sia giunto lì, tra la fine degli anni 30 e gli inizi del decennio successivo. Infatti, l’editto di Claudio del 49 d.C., menzionato in At 18,2-3 e dallo storico Svetonio, sembra essere una delle tante risposte al fenomeno “cristianesimo” 4. Sembra che la proclamazione del Vangelo in Roma si sia innestata su una comunità giudaica, molto ben consolidata, frammentata, però, in varie sinagoghe. Secondo R. Penna, si possono contare, grazie alla presenza di epigrafi sepolcrali delle catacombe ebraiche romane risalenti alla metà del I sec. d.C., ben 5 synagoghé, che non identificavano il luogo di culto e di preghiera, ma una comunità orante. Secondo il teologo P. Lampe, a Roma c’era una coesistenza pacifica tra giudeo-cristiani e timorati di Dio; questi ultimi, infatti, pur provenendo dal paganesimo idolatra, erano rimasti affascinati in modo particolare dalla possibilità di approdare alla salvezza e alla grazia liberante del Cristo, senza dover votarsi necessariamente al giudaismo e senza farsi circoncidere5. Si ritiene, in particolare, che gli stessi luoghi di culto giudaici divennero “versatili”, consentendo così agli etno-cristiani di rendere lì il proprio culto al Signore, Dio della Vita. Le divergenze sarebbero nate più tardi e avrebbero avuto per oggetto la presunta superiorità etnica, arrogata J.-N. Aletti, La lettera ai Romani. Chiavi di lettura, Borla, Roma 2011, p. 123. Cfr. A. Sacchi, La lettera ai Romani, Città Nuova, Roma 2000, pp.15-16. 5 Cfr. P. Lampe, The Roman Christians of Romans 16, in K.P. Donfried (ed.), The Romans Debate, Hendrickson, Peabody 1991, pp. 216-230. 3 4
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sia dal gruppo giudaico che da quello pagano, e l’annosa questione della condivisione della mensa, per celebrare l’Eucarestia6. L’editto di Claudio nasce per mettere fine a queste tensioni, che, inevitabilmente, influivano sull’assetto sociale e democratico della città. Così, i giudei e i giudeocristiani vennero allontanati da Roma, per potervi, poi, rientrare con la morte dell’Imperatore7. Paolo dimostra, all’interno della lettera ai Romani, che, pur non avendo fondato la comunità, la conosce in modo molto approfondito. Da Rm 16 apprendiamo che la comunità romana era una comunità mista; nei saluti epistolari, questi menziona ben 26 persone, che testimoniano la complessa organizzazione sociale della comunità. Vi sono menzionati giudei e pagani, uomini e donne, schiavi e liberti, insieme a uomini e donne di diverse estrazioni sociali8. In verità, ciò che ci aiuta a capire la profonda conoscenza che l’apostolo aveva di questa comunità è il prescritto epistolare (Rm 1,1-7), in cui Paolo evita, come farà nell’intera lettera, di indicare questa comunità come una comunità ecclesiale. Il prescritto epistolare è un importante luogo comunicativo e relazionale. Secondo l’epistolografia classica, le lettere hanno una scansione fissa in tre momenti: introduzione, corpo e proscritto9. Il prescritto, a sua volta, era caratterizzato dalla presenza di tre elementi: superscriptio, ovvero la menzione del mittente, l’adscriptio, l’indicazione del destinatario, e la formula valetudinis, i saluti finali. Come fa notare R. Penna, già Cfr. P.F. Esler, Conflitto e identità nella lettera ai Romani, tr. it. Paideia, Brescia 2008, pp. 102-169. 7 Cfr. M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Jaca Book, Milano 1983, passim. 8 Cfr. M.D. Nanos, Mistery in Romans. The Jewish Context of Paul’s Letter, Fortpress, Minneapolis 1996. 9 «Dall’antichità fino ad oggi gli essere umani fisicamente distanti tra loro hanno scelto di scrivere delle lettere. Questa pratica rappresenta infatti uno dei più comuni e più importanti esempi di composizione di testi scritti nell’antichità. Le epistole giunte fino a noi dal passato furono redatte da contadini e re, da schiavi e da imperatori, da segretari anonimi e da filosofi famosi. Questi testi trasmettono argomenti personali e privati tra familiari e amici, come pure questioni pubbliche e comuni tra governanti e sudditi. La descrizione di eventi ordinari e comuni e la sintesi di riflessioni filosofiche profonde venivano redatti sotto forma di lettera e scambiati tra individui che desideravano o necessitavano di rimanere in contatto con altri. I teorici dell’epistolografia affermano che la lettera è contrassegnata da tre importanti caratteristiche: la sua qualità ad hoc, la sua abilità di comunicare una presenza personale, la sua capacità di includere altri generi letterari» (S.N. Brodeur, Il cuore di Paolo, p. 21). 6
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nel mondo classico, rappresentato da Platone e Seneca, questa struttura comune poteva prendere forme ed estensioni diverse, assecondando le inclinazioni e le finalità comunicative dello scrivente. Anche nella lettera ai Romani, troviamo un uso creativo di questa struttura epistolografica. Nel v. 1a, Paolo si presenta, nel v. 7a, offre l’identità storica dei destinatari e in v. 7b, scrive delle formule di saluti e benedizioni. In realtà, se il prescritto avesse per Paolo una sola funzione informativa, fedele al canovaccio classico, questa introduzione epistolare avrebbe avuto una forma breve e scarna. Invece, ci troviamo innanzi uno spazio ampio, che corre dal v. 1b sino al v. 6, che sembra sfuggire al protocollo epistolare. Questo sentore si dissolve, nel momento in cui si rendiamo conto che Paolo ha bisogno di creare con la comunità di Roma delle relazioni stabili: non a caso, il tema della “relazione” regge, anche dal punto di vista contenutistico, l’intera struttura introduttiva e le pagine che seguiranno, fino al capitolo 6 della lettera. La relazione con Dio e con Cristo, descritta in Rm 1,1.6.7, descrive le identità del mittente, dei destinatari e la possibilità di creare tra loro un rapporto reciproco. Perché tanto spazio? Questa domanda, che potrebbe trovare giustificazione nell’estro creativo di Paolo, solletica la nostra attenzione, soprattutto, se consideriamo il fatto che la menzione dei destinatari avviene secondo una categoria “geografica” e una particolare identità etico-religiosa. In Rm 1,7a, leggiamo testualmente: pâsin tòis ûsin en Rōmē agapētois theû klētòis haghìois (= a tutti coloro che sono in Roma, amati da Dio, chiamati santi). In questa minuziosa descrizione dei destinatari, manca, però, l’appellativo di ekklēsía, che ritroviamo in altri praescripta paolini10, ma mai menzionato nella lettera ai Romani11. Ciò ci suggerisce che Paolo non riconosce a questo gruppo di persone, riunite a Roma, lo Cfr. 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; 1Ts 1,1 e nella lettera a Filemone. Il termine, già in uso nell’antico Testamento per indicare l’intero popolo di Dio, è impiegato dagli autori neotestamentari per descrivere un’assemblea che invoca il nome di Cristo Gesù e che sente l’appartenenza a Dio Padre, che ha risuscitato Gesù dai morti. Il termine deriva dalla preposizione ek e dal verbo kalèin (chiamare). La sfumatura semantica è garantita proprio dalla preposizione, che suggerisce, come preposizione di moto da luogo, un movimento verso l’esterno, che, secondo alcuni teologi, ben si adatta alla teologia paolina dell’elezione. Cfr. F.J. Matera, New Testament Theology. Exploring Diversity and Unity, Louisville 2007. 11 L’espressione compare in Rm 16,1.23, ma non per designare il gruppo di cristiani che sono in Roma. 10
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spessore etico di una comunità cristiana. Alla sua origine, c’è l’amore di Dio e la comune chiamata alla santità, ma ciò che manca è la visibilità di questo camminare etico, che ha il suo sigillo nell’essere ekklēsía, ovvero non gruppo di persone radunate, ma un gruppo di persone che, chiamate da Dio, manifestino il suo volto nella faticosa “ascesa” alla santità. Da quanto ci dice lo stesso Paolo in Rm 15-16, questa comunità era attraversata da conflitti, provocati sia da stili di vita diversi e da precomprensioni di natura teologica. Era, a nostro avviso, una comunità mista, anche se a prevalenza pagana, dalla spiccata formazione giudaica, che, a causa di conflitti etnici e tensioni relazionali, ha perso di vista sia la propria identità cristiana sia la comune identità ecclesiale. E tutto questo è svelato proprio nel prescritto e in quel surplus di parole, che troviamo in Rm 1,1b-6. In Rm 1,7a, c’è la menzione dei destinatari; ciò che colpisce è il fatto che questi non vengano solo indicati secondo coordinate geografiche, ma anche secondo coordinate di fede. Se il primo dato, pâsin tòis ûsin en Rōmē, è utile ai fini di una individuazione pratica ed immediata degli interlocutori paolini, gli altri due dati, di natura etica, sembrano uscire fuori da una qualsiasi logica epistolare. Infatti, la menzione di simili coordinate etico-religiose sarebbero molto utili per presentare a qualcuno una comunità o una persona a lui sconosciuta. Nel caso della lettera ai Romani, invece, la missiva doveva essere consegnata direttamente nelle mani di questa comunità, perciò non era necessario indicare altro, se non il nome del destinatario. Escludendo un errore di valutazione che porterebbe paolino in un delirio relazionale e logorroico, ci troviamo in una situazione in cui i destinatari vengono “presentati” ai destinatari stessi, come se questi avessero avuto un vuoto di memoria. Così, “tutti quanti sono in Roma” si trovano come dinanzi ad uno specchio, in cui ritrovano un volto eticamente e religiosamente costruito, frutto delle relazioni con Dio Padre. E che senso ha presentare un destinatario al destinatario stesso dell’epistola? Una simile strategia comunicativa può giustificarsi solo se si contempla, da parte dei destinatari un vuoto di memoria identitario, provocato da un trauma di natura relazionale. In realtà, se guardiamo bene alla sezione che corre da Rm 1,1b-6, troviamo una singolare espressione: pánta tà éthne, a cui appartiene il gruppo di coloro che abitano a Roma. 21
L’espressione, solitamente, allude ai Gentili e questo ci dovrebbe far pensare tout court che la comunità romana sia essenzialmente formata da cristiani, provenienti dal paganesimo. Ma come Paolo stesso ci dice, nei capitoli terminali della lettera, la comunità romana è mista e, inoltre, nella sezione argomentativa di Rm 1,18-4,25, l’apostolo fa continuo riferimento sia all’esperienza religiosa dei giudeo-cristiani che degli etnocristiani. La questione è che l’espressione tà éthne non è così univoca, come si potrebbe credere. In essa, infatti, è condensato un linguaggio “sociale” che serve a definire e a costruire una identità cristiana, a partire dal concetto di ingroups e outgroups. In tutto il Nuovo Testamento, l’espressione indica, solitamente, quanti non appartengono al popolo di Israele. Spesso, la formula linguistica si tinge di una coloritura peggiorativa, indicando nell’estraneità al popolo eletto una forte accusa di inferiorità e di idolatria. Ma se Paolo stesso dichiara la struttura “composita” della comunità romana, se si rivolge alternativamente agli etno-cristiani (cfr. Rm 1,18-32) e ai giudeo-cristiani (cfr. Rm 2,17-29), bisogna escludere a priori sia che il termini indichi solo una porzione della comunità romana sia che questi venga impiegato, nella sua sfumatura dispregiativa. Infatti, se la lettera, nell’antichità, aveva lo scopo di accorciare le distanze tra persone lontane, presentarsi “a muso duro” ad una comunità sconosciuta, avrebbe rappresentato per Paolo a priori un flop comunicativo. Una lettera, così concepita, avrebbe ulteriormente allontanato, dal punto di vista emotivo e relazionale, mittente e destinatario. In ogni caso, bisogna escludere l’uso dispregiativo dell’espressione, perché viene portata a compimento da un’altra formula linguistica: kletòi Iesû Xristû. Se nel tà éthne, troviamo una dichiarazione di estraneità e un’accusa di idolatria, in che modo tale accusa potrebbe armonizzarsi con la chiamata da parte di Cristo Gesù, specificata nel, v. 7a, come una chiamata alla santità? Se l’apostolo, inoltre, avesse toni così aspri nei confronti della comunità romana, perché far seguire al prescritto una formula di ringraziamento, in cui la relazione Io-Voi è sostenuta dal tema della preghiera e del ricordo (cfr. Rm 1,10)? Come già abbiamo affermato, l’espressione tà éthne ha un forte impatto identitario; Paolo, infatti, descrive l’intero gruppo romano con la categoria tà éthne, svelando, con essa, non la personale opinione 22
che si è fatta della comunità di Roma, ma lo stato dei fatti, di cui gli stessi cristiani romani non avevano perfetta consapevolezza. Dunque, l’espressione, dal punto di vista della strategia comunicativa, ha un effetto shock e costringe i destinatari che la leggono, e ai quali è rivolta, a fermarsi. La formula tà éthne porta ancora con sé un principio di inclusione e di esclusione, ma non fondato su criteri etnici e presunte superiorità sociali. Secondo l’ipotesi di P. Treblico12, nella lettera ai Romani, l’espressione tà éthne ha una natura sociologica, ma non geo-politica. Questa indicherebbe non un popolo, che condivide la stessa porzione di terra, quanto un gruppo di persone a cui è riconosciuta la stessa identità, fondata, e nel nostro caso, sulla comune chiamata alla santità. Non a caso, quando Paolo parlerà esplicitamente dei Greci, ovvero dei Gentili rispetto al gruppo giudaico, userà l’espressione ho Éllēn, impiegata, in tutta la cultura greca antica, come un’auto-designazione per indicare una pretesa superiorità etnica, esplicitata nella capacità di parlare il greco e di godere di una accreditata tradizione letteraria. «Le due coppie di persone menzionate in questo versetto [v. 14 ] – “Greci e barbari”, “dotti e ignoranti” – possono comprendersi in vario modo. Ogni coppia include l’intera umanità, visto che esse sono sinonimiche e in ognuna il termine Greco implica un Greco come opposto a Giudeo (cfr. Rm 1,16; 2,9-10; 3,9; 10,12), che qui sembra far coppia con barbaro, anche se esso suggerisce un significato completamente diverso. La parola “barbaro” è onomatopeica e mima il modo rozzo con cui una lingua straniera giungeva alle orecchie dei Greci. Infatti, il termine è molto usato, in letteratura greca, per indicare i popoli che non parlavano il greco e che, quindi, godevano di una cultura inferiore»13.
Inoltre, il Giudeo, che appare in binomio con Greco in Rm 1,16, rappresenta anch’essa una prospettiva auto-centrata, in cui questi rivendica la sua superiorità, in nome dell’elezione divina. Le espressioni, impiegate da Paolo secondo le prospettive dei due gruppi etnici a confronto, svelano Cfr. P. Treblico, Creativity at the Boundary. Features of the Linguistic and Conceptual Construction of Outsiders in the Pauline Corpus, NTS 60/2 (2014), 185-201. 13 D.J. Moo, The Epistle to the Romans, Eerdmans, Grand Rapids 1996, 20017, p. 61. Traduzione e corsivo sono miei. 12
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un atteggiamento idolatrico di chi da più importanza ad una etnia, che all’identità cristiana, rivelata da Dio Padre. Le due prospettive auto-centrate vengono sublimate da Paolo nell’uso dell’espressione tà éthne, che, pur non essendo semanticamente univoca, indica un nuovo orizzonte identitario, da cui rischiano di escludersi i cristiani che sono a Roma. Potrebbe, persino, contemplarsi nel tà éthne un sottile velo di ironia, con cui Paolo annuncia che i due gruppi, avendo perso di vista la comune chiamata alla santità, rischiano di auto-escludersi dall’esperienza dell’ekklesìa. E, forse, in questa ironia, c’è una velata e bonaria accusa di idolatria, lanciata nei confronti di chi si dice di Cristo e, poi, lo esclude, fondando al propria identità su precomprensioni ideologiche auto-centrate. Questo gioco di amara ironia, in cui è costretta a riflettersi la comunità romana, è garantito, inoltre, da un movimento significativo, che attraversa Rm 1,1b-6. Si tratta di un movimento che va dal generale al particolare, garantita dall’asindeto del v. 6. Dal punto di vista grammaticale, il v. 6 si lega al materiale letterario precedente, senza alcuna transazione: è come se ci fosse una brusca virata nel cammino. Proprio l’asindeto consente agli interlocutori della lettera, e prima di essi ai destinatari empirici della stessa, di concentrarsi meglio sull’identità dei ricettori. Esso ha una funzione telescopica, perché avvicina agli occhi e alla coscienze il vero “problema” della comunità romana. In tal modo, risulta subito evidente che la lettera rientra all’interno della grazia dell’apostolato, ottenuta per la conversione delle Genti e che la comunità romana, tutta intera, può ancora contemplarsi nei tà éthne. Dunque, il cammino che Paolo propone è un cammino di grazia e di conversione, rivolto a convertiti che hanno ancora bisogno di cambiare mentalità. Se guardiamo bene gli attori coinvolti nell’atrio epistolare, che saranno, poi, gli stessi del cammino etico proposto da Paolo, sono tre: un Io, che è Paolo, un Noi-Voi che include i Romani, e Dio, Padre nostro, che annuncia il Vangelo nelle Scritture e fa risorgere il Figlio dai morti. Il destinatario che si accinge ad ascoltare o a leggere queste pagine ha bisogno di riconoscere, innanzitutto per se stesso, la propria idolatria.
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3. Per leggere la lettera ai Romani di Pier Luigi Galli Stampino1
3.1. Premessa Leggere (lectio), meditare (meditatio) e pregare (oratio) la lettera ai Romani è una grazia e un’avventura; una grazia perché si entra in contatto con il “Vangelo” vivo di Gesù, cioè con Gesù stesso. Quando Paolo scrive la lettera ai Romani le versione evangeliche canoniche non erano ancora state redatte come ci sono arrivate. La “nostra” lettera (= LR) è stata scritta tra il 57 e il 58 d.C. (alcuni datano 54-55), la lettera ai Galati è del 54; i vangeli: Marco (65-70), Matteo e Luca (80/85), Giovanni o scuola giovannea (95/100). Il Vangelo di cui parla Paolo è l’evento storico di Gesù che ha sconvolto la sua vita e la nostra. Leggere la lettera ai Romani è anche un’avventura perché non lascia indifferenti: siamo di fronte al “cuore incandescente” della fede cristiana. Stupisce che ben poco di questa lettera sia conosciuto da molti credenti. Parole chiave come: salvezza, giustizia di Dio, giustificazione, grazia, elezione, sono ancora troppo o del tutto assenti dal “sapere comune” cristiano. Oggi è decisivo vivere questa avventura perché la Chiesa si sta guardando allo specchio e deve più che mai riformare se stessa per diventare conforme all’immagine del Figlio di Dio. Il titolo che potremmo dare a LR è: la giustizia di Dio si attua con la fede in Gesù; l’opera dello Spirito rinnova la vita e toglie la paura. Paolo Nato a Milano nel 1946, prete della diocesi ambrosiana dal 1970. Ha iniziato il proprio ministero come viceparroco a Bresso (MI) ed è stato in seguito Assistente ecclesiastico diocesano del Settore Giovani dell’Azione Cattolica Italiana e Assistente regionale F.U.C.I. Dal 1996 è assistente pastorale in Università Cattolica del Sacro Cuore e dal 2009 vi insegna introduzione alla teologia. È promotore di varie iniziative culturali nel campo della formazione teologica e storico-religiosa (per es. è presidente dell’associazione “L’Asina di Balaam” ed ha ideato, insieme ad altri collaboratori, iniziative editoriali come la collana “Il Terebinto” e la rivista internazionale “Munera”). Per la serie “Parola&parole - monografie” ha pubblicato un commento divulgativo al Cantico dei Cantici (cfr. n. 14/2013). 1
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scrive questa lettera ad una comunità non fondata da lui e presenta il “suo” Vangelo: con Cristo è finito il tempo della Toràh di Mosè come via di salvezza ed è cominciata l’epoca della Grazia. La lettera ai Romani è una lettera complessa (e perciò studiatissima); come è ovvio ci sono molte interpretazioni e svariate sintesi teologiche. Per iniziare diciamo ciò che appare chiaro dalla lettera: • La salvezza è offerta a tutte le genti non solo ai giudei. • Tutti abbiamo peccato e nessuno “merita” la salvezza. • La salvezza proviene dalla fede in Cristo Gesù e non dall’osservanza della Toràh2. • La salvezza portata da Gesù è la vita nuova secondo lo Spirito con esigenze morali molto concrete. • Il percorso della salvezza è un cammino continuo di trasformazione fino al compimento escatologico. Il commento cercherà di essere il più concreto e attuale possibile, senza trascurare i frutti dell’esegesi là dove è necessario per la comprensione del testo. La traduzione è la versione C.E.I 2008; dove necessario seguiremo altre traduzioni. 3.2. Suddivisione della lettera La lettera è divisa in due parti (dottrinale ed esortativa), precedute da un prescritto e un ringraziamento e seguite da raccomandazioni conclusive e una glorificazione finale. • PRESCRITTO: ,-. • RINGRAZIAMENTI: 1,8-15. • PARTE PRIMA (,-,): L’ESSENZA DELL’IDENTITÀ CRISTIANA
Renderò la parola greca nòmos in LR essenzialmente con il vocabolo ebraico Toràh al posto della più consueta traduzione italiana Legge. Infatti la parola legge per chi è di radice culturale occidentale greco-latina suona essenzialmente in senso giuridico-normativo, valore che impoverisce quanto il testo di LR intende verosimilmente esprimere. Toràh = nòmos non fa riferimento essenzialmente ad un codice giuridico, ad un corpus di norme legali, ma ad una serie di insegnamenti, di istruzioni per la vita. Circa i significati complessivi della Toràh cfr., per es., E.L. Bartolini De Angeli, La Toràh, un dono divino nelle mani degli uomini, in E.L. Bartolini De Angeli - C. Di Sante, Ai piedi del Sinai. Israele e la voce della Toràh, EDB, Bologna 2015, pp. 11-24. 2
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Colpisce che ben 11 dei 16 capitoli sono per l’esposizione delle argomentazioni teologiche e “dottrinali”. Questo è il primo insegnamento della lettera: il messaggio viene prima di ogni precetto; una volta compreso e accolto il “vangelo”, la “vita secondo lo Spirito” viene quasi da sé. Tema generale della lettera (1,16-17): «Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: “Il giusto per fede vivrà”». 1. La Giustizia di Dio: antitesi tra giustizia retributiva e giustizia evangelica (1,18-5,21) A. La giustizia di Dio in una visione diversa da quella evangelica (1,18-3,20) A1. La Giustizia punitiva e imparziale di Dio (1,18-32): A2. La giustizia che punisce (1,18-32) A3. La giustizia imparziale (2,1-11) A4. Di fronte alla giustizia retributiva non sono sufficienti Toràh e circoncisione (2,12-29). a. La Toràh è insufficiente (2,12-24) b. La circoncisione non basta (2,25-29) A5. Risposta e perorazione finale (3,1-20) a. Risposta ad alcune obiezioni (3,1-8) b. Perorazione finale (3,9-20). B. La giustizia di Dio annunciata nell’Evangelo. (3,21-5,21) B1. L’evento-Cristo e la fede in lui (3,21-31) a. Il sangue di Cristo e la giustizia di Dio (3,21-26) b. La giustizia di Dio è connessa con la fede (3,27-31) B2. La fede di Abramo è l’archetipo della fede del credente (4,1-25) a. La giustizia di Abramo (4,1-12) b. La fede di Abramo lo fa capostipite della fede dei gentili (4,13-22) c. Applicazione ai discepoli di Gesù Cristo (4,23-25) B3. La riconciliazione con Dio ha il suo fondamento in Gesù Cristo (5,1-21) a. In Cristo il fondamento della salvezza (5,1-11) b. Da Adamo il peccato, da Cristo la giustificazione (5,12-21)
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2. Il discepolo inserito in Cristo Gesù è condotto dallo Spirito santo (6,1-8,39) A. Effetti del Battesimo che inserisce in Cristo (6,1-7,25) A1.Vittoria sul peccato (6,1-14) A2. Superamento della Toràh (6,15-7,6) A3. Excursus sul rapporto tra Toràh e peccato (7,7-25) B. Lo Spirito di Cristo e la libertà cristiana (8,1-30) B1. Il discepolo di Gesù Cristo come figlio “del dono” (8,1-17) B2. La prospettiva finale (escatologica) (8,18-30) C. Perorazione finale (8,31-39) 3. Israele e l’Evangelo (9,1-11,36) A. Introduzione sulla dignità di Israele (9,1-5) B. Dio elegge per grazia (9,6-29) C. In Gesù si rivela definitivamente il Vangelo della grazia (10,1-21) D. La fedeltà di Dio al suo popolo (11,1-32) E. Dossologia finale (11,33-36) • PARTE SECONDA (12,1-15,13): LA COMPONENTE ETICA DELL’IDENTITÀ CRISTIANA Tema: esortazione a trarre adeguate conseguenze etiche dall’essere nuova creatura (12,1-2) 1. Criterio dell’etica dei discepoli di Gesù Cristo: L’agàpe (12,3-13,14) 2. Caso particolare: rapporto deboli/forti (14,1-15,12) RACCOMANDAZIONI FINALI E GLORIFICAZIONE CONCLUSIVA (15,1316,27) Augurio (15,13) Situazione personale di P. (15,14-33) Raccomandazione di Febe (16,1-2) Saluti finali (16,3-23) Dossologia (16,25-27)
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3.3. Lettura e commento della lettera ai Romani3 3.3.1. Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,1-17) (a) Il testo Prescritto (1,1-7) e Ringraziamenti (1,8-15) Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – 2che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture 3e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, 4costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; 5per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, 6e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, 7a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo! 8 Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché della vostra fede si parla nel mondo intero. 9Mi è testimone Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunciando il vangelo del Figlio suo, come io continuamente faccia memoria di voi, 10chiedendo sempre nelle mie preghiere che, in qualche modo, un giorno, per volontà di Dio, io abbia l’opportunità di venire da voi. 11Desidero infatti ardentemente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, 12o meglio, per essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. 13Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni. 14Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: 15sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma. 1
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Sottolineature, corsivi e grassetti sono opera mia.
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Tema generale della lettera (1,16-17) Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio4 per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. 17In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà. 16
(b) Linee di analisi Il brano iniziale (vv. 1-7) ricalca l’impostazione dell’epistolografia classica con: nome del mittente (superscriptio: vv. 1-6), destinatario (adscriptio: v. 7a), saluti (salutatio: v. 7b). Paolo segue l’usanza metodologica con, tuttavia, un tocco molto personale; la superscriptio, infatti, ha una lunghezza inusuale, forse perché egli deve farsi conoscere e giustificare la lettera scritta a una comunità che non ha fondato. • v. 1: Servo di Cristo Gesù. La traduzione addolcisce di molto l’originale greco che dovrebbe essere reso con “schiavo”. Paolo mette subito in evidenza la sua esclusiva appartenenza a Cristo. • v. 1: apostolo. A differenza del “titolo” precedente, che indica una scelta di Paolo, qui è sottolineato il tema della chiamata: è stato scelto, è apostolo non di sua iniziativa. • vv. 2-3. Il vangelo non è un fatto estemporaneo: ha avuto una lunga preparazione. • v. 4. È una formula di fede cristologica, forse preesistente a Paolo e qui da lui adattata. • v. 7a. Si veda la stessa formula del v. 1 “apostolo per chiamata”. È una bel modo di chiamare i cristiani… purtroppo andato perduto. • v.7b. Ecco finalmente la “salutatio”: grazia a voi e pace da Dio • vv. 8-15. È l’unità letteraria, ben compaginata, dei ringraziamenti. «Affermare che l’Evangelo è potenza di Dio, cioè che l’Evangelo è forza dello Spirito, è ricchezza, armatura, ornamento, è ogni bene dello stesso Spirito (dal quale si riceve tutta la propria capacità) e affermare che tutto ciò viene da Dio è fare un discorso valido quanto quest’altro: ricchezze, armi, oro, argento, regni ed altre cose di questo genere costituiscono la potenza degli uomini, sono ciò grazie a cui essi hanno la forza di fare tutto quello che fanno e senza di cui non possono fare nulla. Ma come ho detto, è necessario che queste cose siano distrutte, almeno per quanto concerne il desiderio appassionato di esse; altrimenti la potenza di Dio non potrà operare in noi» (M. Lutero, La lettera ai Romani [1515-1516], a cura di F. Buzzi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 19962, p. 203). 4
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Sono da rimarcare: il tono familiare e diretto (inusuale nelle epistole “ufficiali”), il “voi” è ripetuto ben 13 volte in 8 versetti. Non sarà ripreso che in 6,11ss. Il passo è divisibile in tre parti: preghiera e ricordo (vv. 8-10), intenzione di recarsi a Roma (vv. 11-13), enunciazione del suo programma apostolico (vv. 14-15). • v. 15: pronto. La sottolineatura è più forte: diremmo “bramoso”. • vv. 16-17. Sono più di una cerniera tra il testo precedente e quello successivo. Con il precedente il rapporto è chiaro; con il successivo non c’è rapporto. Al v. 18 inizia un discorso diverso. Dobbiamo considerare questi versetti come molto importanti: è il titolo (la tesi) di ciò che Paolo vuole mostrare nell’intera lettera. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Come Paolo anche noi, anzitutto, rendiamo grazie (v. 8). Il clima della lettera è spesso quello della preghiera. Paolo (d’ora in poi sempre P.) si qualifica come “schiavo di Cristo Gesù”. A noi questo può sembrare eccessivo, allergici, come siamo spesso, ad ogni formula che sembri limitare anche di poco la libertà. In realtà essere “schiavi di Cristo” è un modo essenziale per essere liberi da tutto il resto. Il donarsi a Gesù non è uno sforzo di rettitudine morale da perseguire ad ogni costo e neppure l’autoconvincersi di verità che restano fuori dalla vita, ma impegnarsi nella gioiosa sequela di chi, ogni volta che ti chiede qualcosa, ti dice: “…se vuoi”. Non c’è nessuno che mi renda libero come mi rende libero Gesù, quando decido che solo lui è il mio “Signore”. È una consegna che nasce, resiste, cresce solo per amore: amati da Dio e chiamati (v. 7). E questo amore ha un effetto sorprendente e, per tanti aspetti sconcertante: si diventa debitori verso chi non si conosce e non ci ha dato nulla (v. 14). Il paradosso di P. è evidente: si sente in debito dell’annuncio del Vangelo verso persone che non conosce e che non ha mai visto. Solo la forza attrattiva dell’amore verso Gesù può spiegare una cosa del genere. Io mi sento (forse) in debito verso chi ha fatto qualcosa per me; qui il debito è verso Gesù, ma subito viene “trasferito” su altri che neppure conosco. È questa la forza del Vangelo. Se vogliamo fare un piccolo (?) esercizio di cristianesimo dovremmo chiederci come consideriamo i “barbari” e gli “ignoranti” che sono attorno a noi. Ce n’è per tutti i gusti e per tutti i… propositi. 33
3.3.2. La verità soffocata dall’ingiustizia (Rm 1,18-32) (a) Il testo
Infatti l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, 19poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. 20 Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa 21 perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. 22Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. 24Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, 25perché hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. 26Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti, le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. 27Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. 28E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: 29sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità; diffamatori, 30maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, 31 insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. 32E, pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa. 18
(b) Linee di analisi Ci si trova di fronte ad un improvviso e inaspettato cambiamento; dopo aver parlato della giustizia misericordiosa di Dio, P. cambia e parla dell’ira di Dio, abbandonando ciò che ha appena detto sulla giustizia sal34
vifica. Dalla misericordia all’ira: dobbiamo abituarci e cercare di capire queste sterzate impreviste che sono frequenti in LR. Ma per affrontare bene questi brani complessi dobbiamo richiamare ed aver ben presente l’intera sezione da 1,18 fino a 3,20. Si possono vedere tre parti ben distinte: - I. P. presenta la giustizia divina vista come (1,18-32) ira e come (2,1-11) imparzialità; - II. la Toràh come criterio e canone dell’esercizio di questa giustizia (2,12-29); - III. interrogativi (3,1-8) e peroratio finale (3,9-20) in cui P. presenta l’incompatibilità di questa giustizia con quella contenuta nella rivelazione dell’evangelo di Gesù. • v. 18. L’ira di Dio dipende dall’imperfetta conoscenza di lui che “scambia” la sua identità confondendo creatura e creatore. Essa non è un Vangelo sulla terra ma viene dal cielo ed è un annuncio di sventura. Il giudizio d’ira sulle opere malvagie non appartiene all’evangelo perché fa parte della giustizia distributiva. Resta il fatto che Dio rigetta ogni empietà e ingiustizia degli uomini. • vv. 19-31. In questi versetti P. sviluppa l’enunciato del v. precedente e lo fa in tre momenti diversi: Dio si manifesta nel creato con sufficiente chiarezza (19-20); ma gli esseri umani non hanno né lodato, né ringraziato (21) per questo hanno vaneggiato trasformando le loro creazioni razionali in entità assolute; ecco allora la punizione divina, che conclude l’argomentazione iniziata al v. 18 e che riguarda tutti quelli (giudei e gentili) che hanno travisato la conoscenza di Dio. - vv. 24-25. Primo passaggio: la disonesta sopravvalutazione del corpo e la venerazione della creatura invece del creatore (v. 25 - i termini usati hanno un uso liturgico). - vv. 26-27. Secondo passaggio nell’esplicitazione della punizione dell’idolatria: si parla dell’omosessualità (femminile e maschile). P. segue la condanna dell’AT; significativo l’uso degli stessi termini di Genesi (maschio e femmina, non uomo e donna) per indicare la naturalezza della distinzione sessuale e per sottolineare la fedeltà all’ordine della creazione. - vv. 28-31. Terzo passaggio per formulare la punizione divina nei confronti dell’idolatria: la visione è pessimista e presenta un vero e 35
proprio catalogo dei vizi (ventuno per la precisione) secondo un genere letterario già noto nell’antichità. - v. 32. Conclusione. Da una parte P. sottolinea la pervicacia dei malvagi, dall’altra la sentenza di condanna. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Si è capito bene qual è il fulcro del ragionamento di P.: sta parlando della situazione dell’umanità (giudei; gentili, ossia pagani) prima dell’evangelo di Gesù. A loro è rivelata la giustizia retributiva di Dio che giudica le azioni riprovevoli commesse dagli uomini. La descrizione impietosa dei “vizi” ha un’unica radice: l’idolatria. È una della due radici fondamentali dei peccati (l’altra è l’ipocrisia), perché mette la creatura al posto del Creatore. Rileggendo il brano non deve sfuggire la triste e sottile ironia che guida P. e che richiama Genesi 3, quando agli esseri umani, entusiasti di poter diventare dio, si aprirono gli occhi e si accorsero di essere nudi. “Aprire gli occhi”: ecco quello che dobbiamo fare. Sembra la cosa più facile ma è la più difficile perché ci siamo perduti in vani ragionamenti e la nostra mente ottusa si è ottenebrata. Là dove si erge la superbia umana (“posso tutto, come un dio”) si annida la sua debolezza ed essa è tale che diventa resistenza e caparbietà nella lontananza da Dio con annessa facilità di scivolare nel male. La descrizione di P. per tanti aspetti sembra il racconto delle debolezze del nostro tempo. Ma questo è solo un esempio, che va riscritto rileggendo le vicende della nostra storia, alla luce di quanto afferma la Parola divina contenuta nei testi biblici. Operazione complessa che richiede, prima tutto, una grande umiltà e fiducia; fiducia sia nella forza della ragione sia nella verità della Rivelazione. Ridare spazio alla ragione è il primo compito che è richiesto ad ogni essere umano, in particolare al cristiano. Egli sa che deve rifuggire da ogni forma dogmatica di razionalismo, perché la ragione lo porta fin sulla soglie dell’affidamento e, lì giunto, prosegue il suo cammino cercando la verità per mezzo della libertà, cioè con il confidare di sé in Dio per amore. Questa fiducia, quando è nelle braccia del Dio di Gesù Cristo, evita la tragedia del peccato. 36
L’altro obiettivo urgente è scoprire i processi idolatrici che sono nascosti nel cuore anche di quanti dicono di essere cristiani. Come il popolo di Dio ha potuto nel deserto costruirsi il “vitello d’oro”, così oggi ci possono essere tante forme di “vitello d’oro”, che non preparano ad accogliere il Vangelo della misericordia nella vita propria e altrui. Dobbiamo chiederci se siamo pronti a passare dall’ira di Dio alla sua misericordia; cioè dalla Toràh fine a se stessa alla Grazia. Lo vedremo presto: P. prevede l’obiezione: Ma se la Toràh va superata, allora si può fare quello che si vuole! Egli risponderà che non è così: l’evangelo non abolisce la Toràh, ma la scrive nel cuore e diventa la regola dello Spirito che dà la vita. Questo è quello che ci aspetta alla fine del nostro cammino, ma intravederlo già allevia la fatica di fare tutti i passaggi necessari. Pensiamo seriamente al mondo e alla cultura in cui viviamo, formulando qualche valutazione evangelica che aiuti a capire dove e come possiamo essere “idolatri”. 3.3.3. Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore (Rm 2,1-29) (a) Il testo
Perciò chiunque tu sia, o essere umano che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose. 2Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio contro quelli che commettono tali cose è secondo verità. 3Tu che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, pensi forse di sfuggire al giudizio di Dio? 4O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? 5Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, 6che renderà a ciascuno secondo le sue opere: 7la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; 8ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. 9 Tribolazione e angoscia su ogni uomo che opera il male, sul giudeo, prima, come sul greco; 10gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il giudeo, prima, come per il greco: 11Dio infatti non fa preferenza di 1
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persone. 12Tutti quelli che hanno peccato senza la Toràh, senza la Toràh periranno; quelli invece che hanno peccato sotto la Toràh, con la Toràh saranno giudicati. 13Infatti, non quelli che ascoltano la Toràh sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Toràh saranno giustificati. 14Quando i pagani, che non hanno la Toràh, per natura agiscono secondo la Toràh, essi, pur non avendo Toràh, sono Toràh a se stessi. 15Essi dimostrano che quanto la Toràh esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono. 16Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli esseri umani, secondo il mio Vangelo, per mezzo di Cristo Gesù. 17 Ma se tu ti chiami giudeo e ti riposi sicuro sulla Toràh e metti il tuo vanto in Dio, 18ne conosci la volontà e, istruito dalla Toràh, sai discernere ciò che è meglio, 19e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, 20educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Toràh possiedi l’espressione della conoscenza e della verità… 21 Ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? 22Tu che dici di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? 23Tu che ti vanti della Toràh, offendi Dio trasgredendo la Toràh! 24Infatti sta scritto: Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra le genti. 25Certo, la circoncisione è utile se osservi la Toràh; ma, se trasgredisci la Toràh, con la tua circoncisione sei un non circonciso. 26Se dunque chi non è circonciso osserva le prescrizioni della Toràh, la sua incirconcisione non sarà forse considerata come circoncisione? 27E così, chi non è circonciso fisicamente, ma osserva la Toràh, giudicherà te che, nonostante la lettera della Toràh e la circoncisione, sei trasgressore della Toràh. 28Giudeo, infatti, non è chi appare tale all’esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; 29 ma giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli esseri umani, ma da Dio. (b) Linee di analisi Consideriamo l’intero cap. 2 che contiene due unità distinte: la I (2,1-11) si riferisce all’imparzialità della giustizia divina, la II (2,12-29) 38
riguarda l’insufficienza della Toràh e della circoncisione di fronte alla giustizia retributiva. Nella prima parte P. sembra condividere l’idea di fondo della giustizia retributiva (retribuisce ciascuno secondo il proprio comportamento morale). • v. 1. P. si riferisce all’uomo in generale e non specificamente al giudeo o al greco. • v. 5. C’è un leggero cambiamento di prospettiva rispetto al pessimismo del brano precedente: c’è la possibilità della conversione dal male e quindi di un giudizio positivo. Inoltre il giudizio è “al futuro” e non è legato alla vita “perversa” del peccatore (cfr. 1,28-29). • v. 6. Emerge con chiarezza il principio fondamentale che contraddistingue il Dio “non-evangelico”: “retribuirà ciascuno secondo le sue opere”. Il termine “opera” con connotato morale compare qui per la prima volta. • vv. 7-11. L’intenzione prima di P. non è tanto quella di affermare che tutti gli uomini sono nel peccato, ma che, fuori dal Vangelo, agisce una giustizia divina basata solo sulle opere dell’uomo. • v. 11. Assioma conclusivo della giustizia retributiva. Come diciamo noi: “La legge è uguale per tutti”. • vv. 12-16. Il discorso di P. vuol dimostrare che la Toràh da sola non può essere presentata dal giudeo come garanzia e salvaguardia di fronte al giudizio di Dio. • vv. 17-24. Unità a se stante caratterizzata dal tono duro nei confronti del “giudeo”. È ancora il tema dell’insufficienza della Toràh, se non addirittura del sua inutilità. • vv. 25-29. La Toràh richiede la circoncisione ma neppure essa può servire come privilegio e garanzia nel giudizio5. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi In questo brano le argomentazioni serrate di P. sono rivolte principalmente ai discepoli provenienti dal giudaismo, che erano numerosi nella comunità di Roma. È quindi comprensibile una certa nostra fatica Per approfondire questi temi cfr., per es., A. Sacchi, Paolo e i non credenti, Paoline, Milano 2008. 5
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di comprensione. In ogni caso l’intento di P. è chiaro: sta facendo un percorso per giungere alla novità dell’identità cristiana, inserita sì nell’antica promessa, ma novità assoluta sgorgata dall’evangelo di Gesù. Noi siamo già nella novità cristiana perché nel Battesimo siamo consacrati al Padre e il dono dello Spirito ha indelebilmente scritto in noi la logica della libertà, Ma è così? Oggettivamente sì, ma soggettivamente qual è la coscienza di questa consacrazione? E come intendiamo esprimerla nella vita quotidiana? La ripresa di alcuni passaggi del brano letto ci aiutano un poco. Il giudizio appartiene a Dio. In teoria questa verità non è negata da nessuno, ma nella pratica esprimiamo giudizi in ogni momento. Siamo in una situazione paradossale: da una parte la distinzione tra bene e male è praticamente saltata nell’ethos pubblico, dall’altra un “giustizialismo” strisciante ammorba l’aria ed emette condanne non sul male, ma sugli uomini. Nessuno nega la dignità di ogni essere umano, ma molti uomini sono trattati peggio degli schiavi. Il tema della giustizia (e quindi del giudizio) è il tema centrale della nostra lettera, ma dobbiamo fin da queste prime battute predisporci ad entrare in una logica diversa da quella alla quale siamo abituati. P. ci porta per mano sulla soglia della misericordia, cioè della giustizia salvifica; non sta negando la giustizia retributiva, ma ci sta insinuando il dubbio che la novità evangelica, sorprendentemente, ci prepara un orizzonte diverso. La Toràh da sola non salva. Qui P. parla della Toràh, cioè della base dell’Alleanza sinaitica. Vedremo che la Toràh è certamente un dono, ma si ferma alla scoperta del peccato e quindi alla sanzione (retribuzione), l’evangelo porta una condizione nuova che è l’evento stesso di Gesù. Il rapporto vivo (opera dello Spirito) con lui è la salvezza; questa salvezza non esclude il passaggio della retribuzione, ma lo supera di slancio nella misericordia che salva. Questo ci impone, già da queste prime battute, di chiederci qual è il nostro rapporto con la “legge”; certamente non quella mosaica (passaggio avvenuto con dolore e fatica già nella prime comunità dei discepoli di Gesù Cristo), ma con la “legge” in generale, sia ecclesiastica che civile. Già in queste prime pagine della sua lettera, P. insegna che, da una parte la legge è necessaria, dall’altra è solo un mezzo per arrivare alla “legge interiore”. Per noi è un passaggio difficile, ma leggere la lettera ai 40
Romani significa essere pronti a scavare fino in fondo con coraggio. Non per niente in questa lettera la parte argomentativa e concettuale è preponderante su quelle dei precetti e delle raccomandazioni. Nella pratica quotidiana, sia ecclesiale che educativa, noi invertiamo continuamente questo rapporto al punto che la maggioranza dei nostri contemporanei ritiene che il cristianesimo sia “un peso” per le tante osservanze richieste. Si è persino coniato (ed è ancora disgraziatamente usato) il termine “praticante” (cioè osservante di regole, riti e comportamenti) per indicare la categoria dei cristiani (altro termine terribile) “impegnati”. Così è nata l’idea che la “fede” è un’altra cosa: la si vive nell’intimo del proprio cuore senza “impegni” particolari (né sacramentali, né morali) che sono prerogativa dei cristiani “veri”, cioè quelli “impegnati”. Anche per noi può succedere che, non capendo la direzione profonda del Vangelo, ci perdiamo in precetti e leggi che non sono vissuti come passaggi verso il Vangelo, ma come “opere” da mettere sul conto che riceverà la ricompensa finale. Ma così il Vangelo è morto perché non annuncia più la legge della libertà dei figli di Dio. Posso sforzarmi di cambiare “lessico” e non pensare più che esistano “cristiani praticanti” (cioè cristiani per “la legge”), ma solo cristiani e basta? Sembra facile ma… 3.3.4. La fedeltà di Dio (Rm 3,1-8) (a) Il testo Che cosa dunque ha in più il Giudeo? E qual è l’utilità della circoncisione? 2Grande, sotto ogni aspetto. Anzitutto perché a loro sono state affidate le parole di Dio. 3Che cosa dunque? Se alcuni furono infedeli, la loro infedeltà annullerà forse la fedeltà di Dio? 4Impossibile! Sia chiaro invece che Dio è veritiero, mentre ogni essere umano è mentitore, come sta scritto: Affinché tu sia riconosciuto giusto nelle tue parole e vinca quando sei giudicato. 5 Se però la nostra ingiustizia mette in risalto la giustizia di Dio, che diremo? Dio è forse ingiusto quando riversa su di noi la sua ira? Sto parlando alla maniera umana. 6Impossibile! Altrimenti, come potrà Dio giudicare il mondo? 7Ma se la verità di Dio abbondò nella mia menzogna, risplende di più per la sua gloria, perché anch’io sono giudicato ancora 1
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come peccatore? 8E non è come alcuni ci fanno dire: «Facciamo il male perché ne venga il bene»; essi ci calunniano ed è giusto che siano condannati. (b) Linee di analisi Facciamo il punto: P. ha dimostrato in termini chiarissimi un dato fondamentale. Tra i giudei e i gentili non esiste nessuna differenza di fronte alla giustizia distributiva. Per il giudeo aver ricevuto la Toràh non è motivo né di vanto né di vantaggio; Dio giudica in modo imparziale sia l’uno che l’altro. Questa acquisizione P. l’ha compiuta sottolineando con forza l’aspetto del peccato umano e quindi l’aspetto punitivo della giustizia distributiva. Questo, però, è solo un mezzo per far risaltare la novità assoluta della giustizia dell’evangelo. Si pone, però, la necessità di un ultimo passaggio: se è vero che non c’è nessuna differenza tra giudeo e greco, che cosa ci sta a fare il giudeo? A queste domande ora P. vuole rispondere e la fa in modo molto articolato in due tempi nei vv. 1-8. • vv. 1-8. Molti esegeti considerano il passaggio di questo capitolo come uno snodo essenziale dell’intera lettera. P. presenta uno stato d’animo di particolare calore ed eccitazione: ci sono ben otto domande in otto versetti. E vedremo che in essi si anticipano molti dei temi successivi trattati nella lettera. Balza una novità, appena accennata e che verrà ripresa e cioè l’assoluta fedeltà di Dio di fronte alla condotta peccaminosa dell’uomo, questa fedeltà esiste anche nella giustizia retributiva. • vv. 1-4. Si annuncia una prima risposta alla domanda cruciale: c’è un “di più” nel giudeo? Serve a qualcosa la circoncisione? La veloce risposta affermativa di P. sarà ripresa e argomentata nei capp. 9-11 della lettera. • v. 4. Citazione del salmo 51,6; P. toglie la citazione dal contesto e la assolutizza (ogni essere umano è menzognero), mentre il contesto del salmo esprime la misericordia di Dio verso il peccatore. • vv. 5-8. Domanda: se Dio rimane fedele anche di fronte all’infedeltà del giudeo perché non dovrebbe fare così anche con i “pagani”? Non solo: se Dio dimostra la sua fedeltà di fronte al mio peccato, allora è bene che io pecchi perché così trionfa la fedeltà/verità di Dio6 . 6
«In un triplice modo Dio è giustificato, dichiarato verace, ecc. In un primo modo quando
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• v. 5. Domanda: quale rapporto esiste tra la nostra ingiustizia e la giustizia di Dio: l’ingiustizia umana elimina la giustizia divina o la giustizia divina “conferma” l’ingiustizia umana? Il verbo usato e qui tradotto con “mette in risalto” va inteso nel senso di dimostrare, confermare, rendere certo. Anche qui emerge la duplicità di interpretazione: la giustizia divina è “confermata” nella condanna dell’ingiustizia umana (P. parla dell’“ira di Dio”) oppure la giustizia divina si rivela nel togliere la nostra ingiustizia con la misericordia redentrice? Vedremo che tutto il senso della lettera va nella seconda direzione. • v. 8. L’esegesi non è concorde nel dire quali siano questi diffamatori di P. (giudeo-cristiani o gentili?). In ogni caso P. risponde sbrigativamente respingendo in modo perentorio l’accusa dei suoi detrattori. Il tema sarà ripreso, almeno in parte, più avanti in Rm 3,27-31. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Soffermiamoci sulla fedeltà di Dio. È una categoria importante e qui introdotta per indicare la sproporzione tra il peccato umano e la giustizia di Dio. Il nostro peccato, per quanto grave, non fa cambiare idea a Dio. Dirà P. più avanti e proprio in questa lettera: «I doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento» (11,29). Detto così sembra una cosa molto bella e quasi ovvia; in realtà nel nostro modo di concepire Dio procediamo in modo molto diverso. A parole diciamo che l’Alleanza tra Dio e noi è asimmetrica, nei fatti più quotidiani della psicologia e della nostra spiritualità, invece, noi trattiamo punisce e condanna l’ingiusto, il bugiardo, lo stolto, ecc.; infatti allora si mostra giusto, vero, ecc. Così la sua giustizia, verità ecc. sono messe in risalto e ricevono gloria dalla nostra ingiustizia e menzogna poiché vengono chiaramente manifestate…In secondo luogo: in modo relativo. Come realtà opposte, quando sono collocate l’una accanto all’altra, risaltano meglio di quando sono prese isolatamente, così la sua giustizia è tanto più splendida quanto più ripugnante è la nostra ingiustizia. L’Apostolo non parla di questi due modi, perché questa è la giustizia di Dio, formale ed interna, di cui egli non dice [assolutamente] nulla. In terzo luogo: in modo effettivo. Ciò si verifica quando noi, non potendo giustificarci da noi stessi, veniamo a lui, affinché egli ci renda giusti proprio mentre confessiamo la nostra incapacità di vincere il peccato. Egli opera questo, quando noi crediamo le sue parole; mediante tale fede, infatti, egli ci giustifica, cioè ci considera giusti. Perciò la giustizia della fede è detta anche giustizia di Dio in senso effettivo» (M. Lutero, La lettera ai Romani [1515-1516], pp. 284-285).
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Dio come un “alleato umano”. Se noi rompiamo l’alleanza, anche il ns. alleato può fare altrettanto e viceversa: se il ns. alleato rompe l’alleanza noi siamo autorizzati a fare lo stesso. Cioè: Dio alla fine si stanca e non ci perdona (o meglio non perdona quelli che commettono ingiustizie tremende). La crisi del sacramento della Riconciliazione non deriva in primo luogo dalla mancanza del senso del peccato, ma dalla sfiducia nella fedeltà di Dio: “non credo che possa continuare ad amarmi se io lo tradisco”. D’altra parte spesso il nostro comportamento verso Dio è “punitivo” e ci allontaniamo da lui (fino a dire di “aver perso la fede”) perché non ha ascoltato (è un Dio “infedele”) una nostra richiesta. Cominciamo a capire che questa Parola nel suo procedere, complesso ma lineare e logico, ci mette di fronte al problema fondamentale della fede e cioè in quale Dio siamo disposti a credere. P. non ha ancora parlato di Gesù (lo farà presto) ma già ci lascia intravedere che dobbiamo essere disposti ad una profonda conversione del nostro modo di concepire Dio. Noi pensiamo che il peccato dell’essere umano sia più che sufficiente per far “cambiare i programmi” di Dio; che la pensiamo così è facilmente dimostrabile dall’infinità di richiami proposti alla penitenza e alla conversione “a prescindere” da quello che Dio prova per me. La nostra stessa preghiera assume i toni della supplica per “attirare l’attenzione” di un Dio che, forse, è arrabbiato con me per il male che ho fatto. Da qui a pensare che, “se faccio il bravo”, Dio mi ascolta più volentieri, il passo è breve. Più breve ancora è il passo successivo che mi chiede una serie di “impegni” che, se osservati, mi riserveranno un occhio di riguardo da parte sua. Chiedo scusa del linguaggio un po’ banale, ma vorrei che fosse chiara la strada sulla quale, pian piano, P. sta portando chi legge la lettera ai Romani: Dio è disposto sempre a perdonarci e lo fa per pura grazia (= amore gratuito). Pur con la necessità di qualche precisazione (che uscirà nelle prossime pagine) è più vicino alla verità dire che Dio ci perdona prima del nostro pentimento (anzi il pentimento cristiano è frutto del perdono già accordato) che affermare che Dio “aspetta” il mio pentimento per perdonarmi. Non si può mai e per nessun motivo pensare che Dio “giri la faccia dall’altra parte” e non si prenda cura di un essere umano perché ha peccato e non si è ancora pentito. 44
Concludo con una annotazione linguistica relativa al nostro brano, che può orientarci verso una corretta visione di Dio. Al v. 3 (ed l’unica volta che si usa questa espressione) si parla della “fede di Dio” (pìstis tû theû); gli esperti dicono che si tratta di un chiaro genitivo soggettivo, cioè si dice che Dio “crede in noi” nel senso che la sua “fede” in noi è la fedeltà con cui ci segue senza stancarsi. Interessante notare altre due parole messe in relazione con la “fede di Dio”: verità (v. 4) e gloria (v. 7). La gloria di Dio è il perdono dell’essere umano e la sua verità è la misericordia. 3.3.5. Giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono (Rm 3,9-20) (a) Il testo
Che dunque? Siamo forse noi superiori? No! Infatti abbiamo già formulato l’accusa che, Giudei e Greci, tutti sono sotto il dominio del peccato, 10come sta scritto: Non c’è nessun giusto, nemmeno uno, 11non c’è chi comprenda, non c’è nessuno che cerchi Dio! 12Tutti hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti; non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno. 13La loro gola è un sepolcro spalancato, tramavano inganni con la loro lingua, veleno di serpenti è sotto le loro labbra, 14la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza. 15I loro piedi corrono a versare sangue; 16rovina e sciagura è sul loro cammino 17e la via della pace non l’hanno conosciuta. 18Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi’. 19Ora, noi sappiamo che quanto la Toràh dice, lo dice per quelli che sono sotto la Toràh, di modo che ogni bocca sia chiusa e il mondo intero sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. 20Infatti in base alle opere della Toràh nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Toràh si ha conoscenza del peccato. 9
(b) Linee di analisi Subito si nota la lunghezza della citazione biblica: è la più lunga tra quelle che si trovano nelle lettere di P. In realtà non si tratta di una sola citazione ma di un centone preso da vari libri dell’AT (Salmi, Qohèlet, Isaia, Proverbi). La citazione della Bibbia era “d’obbligo” nel contesto in cui P. si trova; esse giustificano due affermazioni che saranno fondamentali per tutto il resto del suo discorso: tutti gli esseri umani sono 45
sotto il dominio del peccato, le opere della Toràh non sono in grado di rendere giusto nessuno. Siamo alla conclusione della prima sezione e la conclusione è drastica: la giustizia retributiva (cioè punitiva e e imparziale) basata sulle opere dell’individuo non permette di comprendere la giustizia annunciata dall’evento Gesù (= Vangelo). • v. 9. Questo versetto pone problemi non piccoli di traduzione, anche se il contenuto è chiaro. A seconda di come viene inteso il modo del verbo greco si può tradurre: Vogliamo scusarci? oppure Siamo in svantaggio? oppure Siamo superiori? Per spiegare questo passaggio un po’complesso alcuni presentano P. in una vera e propria impasse, portato da una parte a dire che la Toràh non serve, dall’altra a riconoscerne il valore. È come se dicesse: “Il giudeo ha, sì, titolo per differenziarsi dal pagano, ma di fronte all’evangelo tutte le sue pretese non valgono più”. La seconda parte (9b) è essenziale: P. non nega che ci possano essere persone (anche gentili) che fanno il bene, ma tutti restano comunque sotto il dominio del peccato • vv. 10-18. Notare l’enfasi della ripetizione: «Non c’è nessuno…». La marcata visione pessimistica di P. serve a introdurre (3.21) la svolta decisiva della lettera. • vv. 10.12: Sal 14,1-3; vv. 13-14: Sal 5,10; 139,4); vv.15-17: Is 59,7-8; Prv 1,16. Capiremo più avanti il perché del modo “disinvolto” con cui P. cita le Scritture. • vv. 19-20. P. trae la conclusione del centone biblico che ha portato a sostegno della sua tesi. Questi due versetti necessitano di una spiegazione approfondita non solo per le svariate interpretazioni (da Agostino a Lutero), ma perché introducono alla peculiarità del pensiero di P. • v. 19. È come la conclusione di “arringa giudiziaria” incominciata con Rm 1,18. Che cosa si è scoperto? Questo: tutto il mondo è colpevole davanti a Dio. • v. 19b. “Il florilegio” portato a testimonianza “nel processo” chiude la bocca a tutti. Nessuno è innocente. • v. 20. Di questo versetto vanno analizzati tre aspetti: - opere della Toràh (espressione tipica di P.). Che cosa significa? Sono state date interpretazioni con sfumature diverse. Potremmo dire così: per P. neppure l’osservanza fedele della Toràh, cioè “facendo le opere della 46
Toràh”, pareggia i conti con Dio. Al fine della giustificazione l’osservanza della Toràh non porta nessun risultato. - Nessuno sarà giustificato. Qui il problema è posto dalla palese contraddizione con quello che è stato detto in 2,13: non gli ascoltatori delle Toràh sono giusti davanti a Dio, ma gli esecutori della Toràh saranno giustificati. A questa evidente contraddizione sono state proposte varie soluzioni. La più convincente, secondo me, è questa: guardando al contesto ci si rende conto che P. parla da due punti di vista diversi, ossia quello del giudeo, per il quale l’osservanza della Toràh può giustificare (2,13), e quello del discepolo del Nazareno crocifisso e risorto, secondo cui la redenzione può essere operata solo dal sacrificio redentore di Cristo (3,20). È da notare che questo versetto introduce la “svolta” del versetto successivo. - Rapporto Toràh e peccato. La conclusione da tutti accolta, pur di fronte a interpretazioni variabili, è la seguente: la Toràh invischia l’essere umano nei suoi obblighi e non gli permette da sola di liberarsi. Sola la redenzione di Cristo può guarire dal peccato. La Toràh permette la scoperta del peccato, ma non libera da esso. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Siamo ad un passo dal punto di svolta decisivo della ns. Lettera. Nessuno essere umano può fare solo il bene; la Toràh, con i suoi precetti, non giustifica nessuno: né il giudeo, né il pagano. Davanti a Dio nessuno sarà mai “in pareggio”. Ognuno di noi coltiva il “sogno” di essere buono e di fare il bene; ogni azione ha nel suo “cuore” un desiderio buono (per sé o per gli altri). Nonostante questo siamo destinati alla solitudine e all’impotenza di fronte al raggiungimento di ciò che pure desideriamo. Nessuno è innocente. Il tema dell’innocenza oggi è formidabile ed è al centro di tante riflessioni e comportamenti; in qualche modo innocenza e desiderio della felicità camminano insieme. Ogni nostro respiro anela alla felicità (innocenza). È per questo che di fronte ad una evenienza negativa o tragica, non solo si cercano le eventuali responsabilità, ma subito si cerca “il colpevole” così da potersi ritenere innocenti. Siamo tranquilli quando possiamo dire: “Signore, io non sono come gli altri”. Oppure quando diciamo: “È stato lui; io non c’entro niente”. 47
Questo avviene nelle piccole come nelle grandi cose. Per quegli strani paradossi che costellano la nostra vita, il bisogno di innocenza è spesso unito a tanti sensi di colpa; a ben pensarci l’atteggiamento è identico, anche se di segno diverso. “Io non c’entro” o “È tutta colpa mia” sono entrambi il segnale della nostra povertà. L’essere umano non può essere giusto davanti a Dio né se obbedisce alla Toràh, né se chiede perdono. Questa verità è difficile da accettare; per questo la lettera ai Romani è scandalosa e accompagna da sempre i grandi passaggi della storia della Chiesa e della cultura. Pone un’alternativa secca sia ai credenti che ai non credenti. Ai primi dice: “se sognate di essere in pace con Dio (cioè di essere giusto), non pensate di poter raggiungere questo scopo per la vostra onestà. Il Vangelo di Gesù vi dice che arriverete alla giustizia di fronte a Dio (la pace con Dio) solo per grazia (= per amore divino gratuito)”. Agli altri dice: “se voi sognate di avere nella vostra volontà, nella vostra intelligenza e, recentemente, nella vostra tecnica la possibilità di trovare un bel posto nel mondo, non illudetevi: per ogni problema che risolvete ne creerete almeno altri due e così…all’infinito; solo da fuori di voi verrà la pace e il perdono”). Ma proprio l’essere arrivati con P. a questo discrimine decisivo apre la strada ad una bella notizia, cioè ad un Vangelo che dice a tutti gli esseri umani: “per voi c’è la giustizia (cioè il “posto giusto” verso se stessi, gli altri, l’universo e Dio) e vi sarà donata”. Da questo punto in poi inizia tutta un’altra storia che era già vagamente intuibile nella storia precedente e che anche ora presenta aspetti enigmatici, ma che – per chi crede – si basa sulla promessa di un’Alleanza che non si è spezzata e che non si spezzerà mai. Vivere nella speranza di questo Vangelo è il percorso iniziato da Gesù che è lo Sposo; ora questo percorso è affidato alla Sposa (= la Chiesa di Gesù in tutte le sue articolazioni confessionali) affinché, con fatica e nonostante le sue infedeltà, gioiosamente continui a raccontare al mondo la possibilità di vivere la vita con un senso pieno e, alla fine, di uscirne vivi.
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3.3.6. Giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo (Rm 3,21-31) (a) Il testo Ora invece, indipendentemente dalla Toràh, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Toràh e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24 ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. 25È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26 mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù. 27 Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. 28Noi riteniamo infatti che l’essere umano è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Toràh. 29Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche delle genti? Certo, anche delle genti! 30Poiché unico è il Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede. 31 Togliamo dunque ogni valore alla Toràh mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la Toràh. 21
(b) Linee di analisi Non trovo di meglio, nell’introdurre la nuova sezione della lettera, che trascrivere le parole di un attento esegeta della lettera a Romani: «Passare dal v. 20 al v. 21 di Romani 3 è come varcare una soglia, come valicare un displuvio, come superare un dislivello verso l’alto con un balzo deciso. E si tratta di un salto, che torna a recuperare l’altitudine del tema enunciato nella propositio 1,16-17, rimettendosi su quella stessa quota. P. da lì era partito… ma da 1,18 in poi, era passato a discorrere in termini contrapposti della “iustitia retributiva”, quella che i suoi interlocutori giudeo-cristiani di Roma coltivavano come parte determinante della loro ermeneutica (nb. interpretazione) dell’evangelo e quindi della loro fede… 49
Evidentemente i cristiani destinatari della lettera non avevano dedotto dalla loro fede cristologica nessuna originale conseguenza sulla dimensione del suo risvolto antropologico»7.
Per inciso e come “antipasto” del molto che vedremo in seguito, sia detto che la condizione attuale del nostro cristianesimo non differisce molto… dal giudeo-cristianesimo della comunità romana. Il termine stesso giustificazione non fa parte del linguaggio comune se non per… parlare delle assenze scolastiche, mentre è la parola centrale (ovviamente nel suo contenuto) della consacrazione battesimale e quindi dell’essere stesso del cristiano. • vv. 21-31. Questo brano si può, con una certa facilità, dividere in due parti (21-26; 27-31). - la prima parte potrebbe essere vista come l’oggetto della Rivelazione divina: la giustizia di Dio nel sangue di Cristo; - nella seconda viene presentata la fede come mezzo adeguato per accogliere questa rivelazione. • v. 21. La giustizia di Dio crea un nuovo processo di giustificazione dell’essere umano. Dio rivela di aver abbandonato la logica retribuizionista a favore di una misericordia assoluta e gratuita. Questo dipende dal fatto essenziale che Gesù è morto per i peccatori. Con la fede si entra in questo grande e inaudito mistero. • v. 22. Esclusa la giustizia retributiva di quale giustizia si sta parlando? Quella che viene dalla fede in Gesù Cristo. L’opposizione alla Toràh è netta. P. li mette in alternativa: la relazione con cui Dio entra in rapporto con l’uomo non è più attraverso la Toràh, ma mediante Gesù Cristo. In questo contesto si inserisce il problema del significato da dare al genitivo greco che riguarda “la fede di Gesù Cristo” (in greco pìstis Iesû Christû). È giusto anche solo accennare a questo fatto non tanto per amore di “acribia esegetica” ma per far cogliere la ricchezza straordinaria di questo testo di P. Si tratta di una genitivo oggettivo (Gesù, oggetto della fede: fede in Cristo Gesù) oppure di un genitivo soggettivo (fede di Gesù Cristo che ci ha redenti con la sua fedeltà a Dio fino al sacrificio)? Molti esegeti fanno notare che entrambe le interpretazioni hanno valide ragioni che le suppor7
R. Penna, Lettera ai Romani, p. 229.
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tano. Noi ne accogliamo la ricchezza; quello che è chiaro è la storicità e concretezza della manifestazione del “nuovo corso” della giustizia di Dio. • v. 22b. “Non c’è differenza”, sottinteso tra giudei e pagani: il nuovo corso “copre” tutta l’umanità conosciuta. • v. 23. È un richiamo duro e sintetico di quanto scoperto nell’intera prima sezione della lettera. Gloria: indica lo stato di splendore che l’umano ha perso con il peccato e che viene ora ri-donato all’essere umano dalla giustizia di Dio. • v. 24. È l’esplosione dell’annuncio imprevedibile (è il Vangelo!): già da oggi tutti sono giustificati gratuitamente mediante la redenzione che è in Cristo Gesù. Alla situazione generale di peccato P. oppone il “nuovo stato”: «Non si può mai sottolineare a sufficienza l’importanza di questa precisazione (nb. “gratuitamente, con la sua grazia”) che rende ragione più di ogni altra della natura positiva, favorevole, buona, vantaggiosa, conveniente di quello che non a caso si chiama “eu-anghélion” (Evangelo)»8.
P. annuncia questo Vangelo servendosi di due forme etimologicamente diverse. «La prima è un avverbio (“doreàn”), letteralmente “donativamente”, che implica l’idea di dono, di regalo, e quindi allude a un risultato ottenuto senza sforzi personali, che prescinde dall’idea di una acquisizione difficile e laboriosa. La seconda è un complemento che impiega il sostantivo “cháris” (grazia) per la prima volta dopo il suo uso formale nel saluto inziale (1,7) e che nella nostra lettera si incontrerà ancora 22 volte… dobbiamo constatare che vi manca ogni accenno a qualche condizionamento della grazia divina da parte dell’uomo (P. non accosta mai, né qui né altrove, la parola “grazia” alla parola “àxios” degno)… va anche notato che tutti, pur essendo peccatori sotto il Peccato (v. 23), ottengono di essere e di rimanere ampiamente “giustificati” in un modo sorprendente e totalmente imprevedibile perché immeritato. Bisogna riconoscere che questo è un ben originale modo di esercitare la giustizia da parte di Dio: invece di condannare coloro che hanno peccato, cioè “tutti”, l’atto di Dio, pur espresso con un linguaggio forense, non ha nulla del giudice che siede in tribunale»9.
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R. Penna, Lettera ai Romani, p. 249. Ivi, pp. 249-251.
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• v. 25. Ora è la figura di Gesù ad essere al centro dell’attenzione. È da notare che “nella parte dell’ira” il nome di Gesù è usato solo una volta in 2,16. La possibilità e la gratuità che il peccatore sia giustificato risiede nella redenzione che è in Cristo Gesù. La seconda parte del versetto va letta come un tutt’uno con la prima del v. 26. • v. 26. P. riprende il contenuto fondamentale della fede che gli è pervenuto dalla tradizione e lo riesprime con parole sue. • vv. 27-31. Inizia una unità letteraria diversa in stile di diatriba. Ci sono sei domande e altrettante risposte. Il tono è deciso ed essenziale; non sempre le risposte sono chiare e complete, ma a noi basta sottolineare che P. riprende la dialettica tra la legge delle opere e la legge della fede per dirci che la novità del Vangelo è tutta nella fede che è diventata logica di vita che salva. • v. 31. P. prevede una obiezione: se la Toràh non serve alla giustificazione non dovrebbe essere semplicemente abolita? Risposta: la Toràh resta nella sua stabilità per tutti coloro che, attraverso di essa, sono giunti alla conoscenza di Cristo. La Toràh non salva ma accompagna a Cristo. Come si vede la novità sta nel fatto che tutto viene a noi dal Padre attraverso Gesù, anche la Toràh. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Penso che dopo un così impegnativo percorso la meditazione sia già sgorgata dal cuore ammutolito e commosso di fronte a tanta misericordia. Il problema che voglio sottolineare è quanto di questo Vangelo entra nella pratica quotidiana della nostra fede. Il percorso dell’Anno Santo della Misericordia 2015-2016, se non viene lasciato alle spalle come una bella “iniziativa cristiana”, dovrebbe aver portato anzitutto chi cerca di essere cristiano ad un punto di non ritorno nel concepire sia Gesù, sia il Padre, sia lo stile da tenere come credenti. Gesù Cristo crocifisso e risuscitato è il centro della fede cristiana. Per P., proprio nel brano che abbiamo meditato, l’artefice e il “regista” di tutto è sempre il Padre che decide di dare una svolta nel suo rapporto con gli esseri umani attraverso la fede in (di) Cristo Gesù. Secondo le origini cristiane, la centralità di Gesù è una svolta annunciata dalla Toràh e dai Profeti (il Primo Testamento non va “buttato”, anzi…), da pochi capita e accolta, e attuata solo nel sacrificio Redentore di Gesù. 52
Quindi la prima grande asserzione del Vangelo è che, nel presente umano, si è manifestata la misericordia gratuita, non motivata da comportamento umano, puramente donata a tutti perché si manifesti nel mondo la grandezza del Verbo di Dio, essere umano tra gli esseri umani. Manca (ma arriverà presto) il protagonista sul versante storico-ecclesiale della grazia che alimenta e trasforma la vita umana: lo Spirito Santo. Di fronte ad un progetto così grande e inaspettato quale sarà lo “stile cristiano” adatto perché questa misericordia sia conosciuta all’interno dell’umanità? La risposta va lasciata alla fede di ognuno. Aggiungerei solo una cosa: mettiamo “le opere” al loro posto. Molti percorsi e annunci della Chiesa non partono dal mistero della misericordia ma dal comportamento morale; quasi che la morale, in qualche modo faciliti o “meriti”, la gioia del ricevimento della misericordia. Così, di fatto, nella psicologia di tanti credenti, è “più” quello che dobbiamo fare noi di quello che sta facendo Dio. Questo è un rischio interpretativo che possiamo correre tutti. Siamo straordinariamente fuori strada. Sembra tutto così logico; infatti nei rapporti normali della “giustizia”, l’intelligenza e il buon senso seguono una logica rigidamente retributiva. Noi non possiamo mettere Dio sul nostro stesso piano. Dio ci ama (cioè ama tutti, proprio tutti: assassini e terroristi compresi) nello stesso modo. Questo non toglie alcunché alla necessità e alla serietà della morale: il male è male e resta sempre male. Ma noi sperimentiamo un Dio che il male lo perdona e non solo a me, ma a tutti. Io debbo con forza condannare il male, ma, fatto questo, non posso dire come Dio perdona questo male perché la sua misericordia arriva là dove io non posso neppure immaginare e quindi, dopo aver lottato contro il male, consegno ogni persona nelle mani di Dio. Insomma ogni persona che cerca di essere realmente cristiana, deve annunciare la speranza senza la paura di essere “buonista”; questa paura diffusa non deve fermare la misericordia, come le calunnie contro P. non hanno fermato la sua meraviglia verso la sorpresa dell’amore gratuito di Dio, la grazia.
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3.3.7. Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza (Rm 4,1-25) 1 Che diremo dunque di Abramo, nostro progenitore secondo la carne? Che cosa ha ottenuto? 2Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. 3Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia. 4 A chi lavora, il salario non viene calcolato come dono, ma come debito; 5 a chi invece non lavora, ma crede in Colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia. 6Così anche Davide proclama beato l’essere umano a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere: 7beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati ricoperti; 8beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato! 9Ora, questa beatitudine riguarda chi è circonciso o anche chi non è circonciso? Noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia. 10Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non dopo la circoncisione, ma prima. 11Infatti egli ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia, derivante dalla fede, già ottenuta quando non era ancora circonciso. In tal modo egli divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia 12ed egli fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo provengono dalla circoncisione ma camminano anche sulle orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione. 13 Infatti non in virtù della Toràh fu data ad Abramo, o alla sua discendenza, la promessa di diventare erede del mondo, ma in virtù della giustizia che viene dalla fede. 14Se dunque diventassero eredi coloro che provengono dalla Toràh, sarebbe resa vana la fede e inefficace la promessa. 15La Toràh infatti provoca l’ira; al contrario, dove non c’è Toràh, non c’è nemmeno trasgressione. 16Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura per tutta la discendenza: non soltanto per quella che deriva dalla Toràh, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il quale è padre di tutti noi – 17come sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli – davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono. 18Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: 54
Così sarà la tua discendenza. 19Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. 20Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, 21pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. 22 Ecco perché gli fu accreditato come giustizia. 23E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato, 24ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, 25il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione. (b) Linee di analisi Bisogna dimostrare la fondatezza della manifestazione della giustizia divina mediante la fede. P., in questo senso, “usa” la vicenda di Abramo che diventa così il personaggio centrale di questo capitolo. La posizione di P. è “scandalosa” per un giudeo. Infatti qui si parla di Abramo per due motivi: il primo perché la sua giustificazione è avvenuta indipendentemente dalla Toràh e poi perché, di conseguenza, è considerato progenitore anche dei non-giudei credenti in Cristo. Tutta l’esposizione potrebbe essere considerata come un midràsh (cioè un commento) del versetto della Genesi (15,6) che viene citato da P. Il capitolo è variamente diviso dagli esegeti; noi seguiamo la divisione più semplice. • vv. 1-12. La giustizia di Abramo è basata sulla fede. • v. 3. Il punto di partenza di P. è Gen 15,16. P. usa alla lettera la versione dei LXX (traduzione-versione, letterale, in lingua greca, della Bibbia ebraica con l’aggiunta di alcuni libri come, per es., Siracide e Sapienza). • vv. 4-8. P. ricorre alle regole vigenti di un comune contratto. Questo serve per introdurre la differenza tra “grazia” e “debito”. P. cita anche un altro passo biblico (Sal 31,1-2) usato come commento al testo citato della Genesi. • vv. 9-12. P. parla della circoncisione relativamente alla giustificazione e partendo da Abramo, fa capire che egli non considera più la circoncisione come segno dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. • vv. 13-22. Dalla fede di Abramo vengono immessi anche i gentili nella sua discendenza. 55
• v. 18. Elogio della fede di Abramo: fede e speranza sono collegate insieme e si richiamano a vicenda. Alcuni traducono: «Contro ogni speranza, credette nella speranza». • vv. 20-21. P. introduce il tema della promessa nel suo rapporto con la fede. Il tema della promessa è praticamente assente nel Primo Testamento; qui P. ne fa un uso sovrabbondante. • vv. 23-25. Applicano ai cristiani quanto detto della fede di Abramo. Secondo la lettura cristiana, il N.T. invera l’A.T. e si pone in continuità con esso. Non è solo un’appendice del midràsh sulla Genesi, ma ne è la logica e necessaria conclusione. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Questo è una capitolo “di passaggio”. Il fariseo P. certa di convincere i giudeo-cristiani di Roma della bontà del “suo” Vangelo; non può, quindi, fare a meno di citare e commentare le Scritture e parte proprio da Abramo. Abbiamo visto che il discorso di P. è “scandaloso”: non è la circoncisione ma la fede che ha reso Abramo giusto e proprio per questa giustizia donatagli da Dio può ben definirsi padre nella fede di tutti i credenti in Cristo. Sarebbe interessante sapere quale valore danno i cristiani di oggi all’A.T. e al fatto di essere discendenti di Abramo. Quale spunto ci può offrire una simile “figliolanza”? Aggiungerei, sommessamente per la mia ignoranza, una cosa che P. non poteva sapere e cioè che Abramo è padre della fede anche dei musulmani. Questa paternità e questa figliolanza hanno poco peso nella visione della fede cristiana comune. Altrimenti non si spiegherebbe, per esempio, il disinteresse di tanti cristiani per la terra di Abramo che poi è diventata la terra di Gesù. Abramo è chiamato nostro padre nella fede. È una formula complessa. Almeno ne prendiamo quanto è detto in questa lettera (il discorso su Abramo verrà ripreso da P. anche più avanti, in un contesto diverso per dire cose diverse). Riprendo qui solo due spunti: • Credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia. L’essere giusti è frutto delle fede e non delle opere. Che cosa significa? Che solo la misericordia di Dio può togliere l’essere umano dalla sua incompiutezza e dalla sua radicale solitudine. È normale e istintivo pensare che Dio 56
interviene (ovviamente il discorso vale per il credente) in modo diverso a seconda della disposizione del ricevente. Dice un proverbio molto diffuso ma non biblicamente fondato: “Aiutati che il ciel ti aiuta!”. Come dire: “tu comincia a fare qualcosa, se Dio vede la tua buona volontà, allora interviene a darti una mano”. Ovvio, chiaro, semplice e lineare. Ognuno di noi spesso fa così con i suoi simili? D’altra parte non si fanno regali a chi non li merita. In Rm 4 si dice una cosa del tutto diversa: Dio ha reso giusto Abramo prima che egli muovesse un dito. Reso giusto vuol dire perdonato e santificato. Eppure era stato lo stesso Dio che aveva fissato il modo per essere gradito a lui: fare la circoncisione; con essa Abramo espresse la sua volontà di appartenere stabilmente a “quel” Dio che lo ha invitato a uscire da Ur (nell’attuale Iraq) per entrare in una terra misteriosa e sconosciuta. Ma Dio aveva già scelto Abramo prima della circoncisione. L’amore di Dio viene prima di ogni pur lodevole iniziativa umana. È questa la fede cristiana che viviamo di solito? Se ci sono delle domande e dei problemi nel credere partono da questo pre-dilezione di Dio o dalle nostre preoccupazioni di piacere a Dio perchè egli si interessi di noi? • Credette, saldo nella speranza contro ogni speranza. Sembra che anche la speranza dipenda dal singolo individuo: “tieni duro; quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. È questo il senso di andare a “testa bassa” resistendo anche contro la speranza? Ovviamente no. Ma noi un modo simile di concepire la speranza lo capiamo bene e lo pratichiamo anche. Ma qui che cosa ci insegna la figura di Abramo? Ci dice che la speranza è legata alla fede. “Io credo in Dio e spero in lui. Sperare in lui mi dà fiducia e forza”. E se si spera in Dio, non gli si chiede di ragionare come un essere umano, ma di capire e imparare a ragionare come lui. Abramo è proprio un caso emblematico. Sembra che Dio si prenda gioco di lui. Vuole un figlio, la moglie è vecchia e sterile. Dio gli dice che l’avrebbe avuto. Abramo, a testa bassa, si fida e genera un figlio seguendo la Toràh. La sua schiava partorisce sulle ginocchia della moglie Sara. Ismaele è figlio suo. Tutto a posto? No. Dio gli dice: “Il figlio lo devi avere da tua moglie”. Impossibile! Ma Abramo crede e spera e, contro ogni logica umana, nasce Isacco. Tutto a posto? No. Dio interviene e gli dice: 57
“Uccidilo!”. Adesso basta, diremmo noi. Ma Abramo, contro ogni speranza, si incammina sul Monte Mòria (che, per inciso, è nel luogo santo di Gerusalemme, amato e visitato da Gesù, sul quale ha anche pianto; l’identificazione del monte può anche essere una “leggenda”, ma ha un forte valore simbolico e teologico). Qui Dio interviene e gli fa scoprire il senso profondo della fede e della speranza. Per questo Abramo è il padre di tutti i giusti per la fede. Noi sappiamo che, arrivati qui, il discorso è ancora monco. La finale del capitolo annuncia il senso della giustificazione per la fede; essa avviene per mezzo di Gesù, «il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione». Di questo si parlerà con ampiezza nel prossimo capitolo. 3.3.8. La speranza poi non delude (Rm 5,1-11) (a) Il testo Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. 2Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. 3E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. 5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. 6Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. 7Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. 8Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. 9A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. 10Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. 11Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione. 1
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(b) Linee di analisi Di colpo P. ci “porta in alto” con un testo ricco e straordinario dove ricorrono parole e frasi che ci possono e devono diventare care: pace con Dio; saldi nella speranza della gloria; l’amore di Dio riversato nei nostri cuori; Cristo morto per noi; salvati mediante la sua vita. Come si vede dallo schema iniziale il capitolo è diviso in due sottosezioni: nella prima, che ora stiamo leggendo, è presentato l’esito positivo della mediazione di Cristo. Questo vale in ciò che successo e cioè la sua morte in Croce, ed anche in quello che succederà alla fine. • vv. 1-2. Questi versetti uniscono i tempi dell’esistenza credente: il passato della giustificazione, il presente della pace con Dio, e il futuro della speranza della gloria. • v. 1. La pace con Dio è il frutto e l’esito più alto della giustificazione. Dio soddisfa il nostro desiderio di “pareggiare i conti con lui”. • v. 2. Tutto il percorso della giustificazione avviene per mezzo di Cristo Gesù. Saldezza e vanto sono le caratteristiche della nuova condizione dei discepoli del Nazareno crocifisso e risuscitato. Il vanto positivo deriva dalla partecipazione attuale alla grazia e la speranza del destino escatologico che ci aspetta. • vv. 3-5. In un crescendo impressionante P. mostra la forza della speranza nel tempo della sofferenza. P. si riferisce in particolare alle sofferenze sopportate per il Vangelo, ma non sono da escludere anche le sofferenze fisiche. • v. 5. È la prima volta che P. parla di amore nella lettera e lo fa parlando dell’agàpe (amore) di Dio. Il genitivo è certamente soggettivo, si parla, cioè, dell’amore con cui Dio ama noi e non del nostro amore verso di lui. «Per mezzo dello Spirito che ci è stato donato» tra l’amore di Dio e lo Spirito c’è un rapporto strettissimo, se non addirittura identità. • v. 8. L’importante di questo versetto è che viene chiaramente legato l’amore di Dio con la morte di Gesù in Croce. Il principio fondamentale con cui leggere e interpretare la Croce non è il dolore, ma l’amore; di Dio per noi in Gesù e l’amore di Gesù verso il Padre per arrivare a ciascuno di noi. • v. 9. Saremo salvati per la misericordia del Padre e non per le opere. • v. 11. È la chiusura che riprende i temi trattati. 59
(c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Alla coscienza credente queste parole suonano come balsamo per ogni ferita e come gioia che non può fare a meno di traboccare pur in mezzo a tutte le nostre variopinte e quotidiane “tribolazioni”. Da questa “massa incandescente” io vorrei prendere solo qualche “briciola” di fuoco che illumini e scaldi la nostra vita. Noi siamo in pace con Dio. Essere in pace con Dio è bello e importante; anche coloro che non sono credenti cristiani cercano la pace del cuore. È come se nella nostra vita, un giorno qualsiasi, abbiamo sentito il bisogno di “pareggiare i conti”: trovare il perdono, rimettere a posto gli errori commessi, i dolori inflitti agli altri, le occasioni perse, le persone abbandonate, le parole sfuggite come frecce che hanno ferito qualcuno… l’elenco non finirebbe mai. Insomma vorremmo “stare tranquilli” senza conti in sospeso da pagare. Molti pensano che l’idea stessa di Dio sia nata da questo bisogno; la voglia di stare in pace, di non essere inseguiti dai fantasmi è tale che arriviamo a “inventarci” Dio pur di avere il perdono. Ma anche solo questo sospetto non risolverebbe il problema. Ma perché mai dovremmo, per sopire le nostre angosce esistenziali, inventarci una consolazione infinita? Non ne basterebbe una più piccola e più realistica? Evidentemente è il nostro desiderio che è misteriosamente infinito. La gioia nasce quando, per grazia, si scopre che non c’è bisogno di nessuna invenzione o introspezione per trovare la pace. Essa c’è perché Dio si è davvero manifestato in un essere umano, che è talmente pieno d’amore da rivelare la sua essenza divina. La Croce di Gesù è lo spettacolo dell’amore di Dio incarnato che non ama il dolore e neppure lo vuole, ma lo prende su di sé perché ha in sé un amore così grande da andare a portare la luce proprio là dove l’amato è disperato e senza via d’uscita. Questa è l’estetica del cristianesimo: è bello essere in pace con Dio. Non ho nulla da pagare; vado alla cassa e chiedo: “Quanto pago?”. Risposta: “Tutto a posto, qualcuno ha già pagato”. Bello! È il caso di farlo sapere in giro. • Saldi nella speranza della gloria di Dio. In questa semplice frase ci sono tre parole importanti collegate tra loro; sono parole corroboranti e belle. La saldezza è sempre riferita alla fede; stare saldi nella fede vuol dire che essa vive di “resistenza” e di “pazienza”. Stare saldi, cioè fermi 60
e ben piantati, non è immobilismo, ma la capacità di cogliere l’essenza della fede come “affidamento sicuro” partendo da qualcosa che si vede e che la libertà sa spingere “oltre”. Tutti coloro che non vedono, non vogliono vedere, non sanno guardare “oltre”… si affollano attorno al credente e gli pongono dubbi e domande. Alcuni pensano che la fede è vera solo quando non ha dubbi. Nulla di più falso; “l’atmosfera” della fede è il dubbio, nel senso che l’affidarsi sfida continuamente la non evidenza “scientifica” di questo gesto. Ci si affida e c’è sempre qualcuno che dice: “Ma sei matto? Ti butti, ma non vedi che sotto non c’è nessuno che ti prende?”. Il credente resiste al dubbio perché conosce Colui al quale si affida e questa conoscenza nasce da un’evidenza non evidente che è quella dell’amore. Quando si “sta saldi” nella fede, nasce la sua “sorellina” che è la speranza. Speranza di che cosa? Della gloria di Dio, cioè dello splendore che Dio inizia a donare alla vita umana e che esploderà completamente solo alla fine. Secondo me non si sottolinea mai abbastanza che il Vangelo è una parola per “questa” vita perché Gesù ci dona la gioia di vivere qui e adesso. Il futuro è nelle sue mani ed è al sicuro. La vita cristiana non è come fare un compito in classe dove, all’improvviso, viene ritirato il foglio e si sta in ansia per vedere quanti errori si sono fatti e quale voto si prenderà. Se non viviamo il cristianesimo con gioia c’è da rivedere “tutto l’impianto” perché da qualche parte c’è stato un corto circuito. È quello che dobbiamo fare con una certa urgenza altrimenti la fede muore10.
«Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. Quando diciamo che questo annuncio, che è il kérygma, è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi… La centralità del kérygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche» (Papa Francesco, esort. apost. Evangelii gaudium, nn. 164-165). 10
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3.3.9. Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia (Rm 5,12-21) (a) Il testo Quindi, come a causa di un solo essere umano il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli esseri umani si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato… 13Fino alla Toràh infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Toràh, 14la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. 15Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo essere umano Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti. 16E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. 17Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo essere umano, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. 18Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli esseri umani la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. 19Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. 20La Toràh poi sopravvenne perché abbondasse la caduta; ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. 21Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. 12
(b) Linee di analisi Si nota subito che questo brano presenta una certa difficoltà di comprensione ed è faticoso nella lettura. Lo scopo di P. è fare un discorso più “pratico” e dimostrativo di quanto appena detto; vuole fare un paragone tra peccato e grazia per far vedere l’enorme differenza a vantaggio della grazia e per far questo introduce un contrapposizione tra Adamo 62
(peccato) e Gesù (grazia). Questa contrapposizione “appare” solo al v. 15 dopo un inizio “goffo” con un bel anacoluto dove, tuttavia, il non detto è abbastanza chiaro. È come se P. fosse preso dalla foga del dire a mette insieme le cose apparentemente alla rinfusa. • v. 12. Inizia un paragone ma è lasciato in sospeso mancando il secondo termine. È un “anacoluto” che, anche alla scuole medie, prenderebbe una bacchettata. Dopo aver enunciato il primo termine del paragone, P. da buon fariseo, pensa subito alla Toràh… e il discorso devia su una strada secondaria, ma non inutile. Il peccato è quasi personificato. L’uomo appare insieme colpevole ed anche vittima del peccato come una “potenza” più forte di lui. • vv. 13-14. Digressione sulla Toràh. Parla della forza del peccato che produce la morte anche prima della Toràh che l’ha fatto conoscere. Senza Toràh non c’è la conoscenza del peccato, ma esso è tanto forte da produrre la morte anche nel periodo, da Adamo a Mosè, in cui non c’era la Toràh. Il v. 14 termine aprendo il riferimento a Cristo che prepara l’esplicitazione del paragone con Adamo. • vv. 15-17. Vengono contrapposte le due figure di Adamo e Cristo. Sono due realtà incomparabili: l’opera di Cristo è infinitamente superiore di quella di Adamo. • vv. 15. È esplicitata la tesi di P.: non si possono paragonare i due eventi (Adamo e Cristo). Infatti (15c) ecco la novità evangelica: la grazia è arrivata a tutti con eccezionale abbondanza. Notare: sono due soggetti (“grazia di Dio” e “dono… del solo uomo Cristo”) ma nel testo greco c’è un verbo al singolare (“abbondò sui molti”) ad indicare chiaramente che l’azione del Padre e di Gesù sono la stessa cosa. • v. 16. Si ribadisce la sproporzione con una sottolineatura: ad una singola caduta (Adamo) corrispose una giusta condanna (la morte), alle tante cadute seguì, sorprendentemente, un’affermazione di grazia (Cristo) totalmente giustificante. • v. 17. Non c’è il tema del peccato ma quello della morte e vita. C’è un’aggiunta nuova: la prospettiva escatologica, ossia «regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo». • vv. 18-19. In qualche modo P. ricapitola il percorso sin qui fatto, sottolineando l’esito diverso tra Adamo e Cristo. Si noti la sottolineatura della ripetizione “un solo”. 63
• vv. 20-21. Questi versetti concludono in modo sintetico il discorso precedente e aprono allo sviluppo del capitolo successivo. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Il testo che stiamo considerando è di grande intensità. Bisogna avere la pazienza di leggerlo con calma più di una volta; allora balzano all’occhio alcuni punti formidabili che spiegano tanti “misteri della morte e della vita”. Noi siamo tutti figli di Adamo. Questa espressione indica la nostra condizione umana segnata e dominata dal peccato. Il peccato è la mancanza della “gloria”, cioè dello splendore che Dio ha destinato all’essere umano che è uscito dalle sue mani il giorno della creazione. Già questo linguaggio può suscitare un “risolino” ironico perché noi sappiamo molto di più rispetto alla Bibbia circa la nostra origine, la “naturalità” della morte, la complessità evolutiva del reale, la fatica delle conquiste dell’intelligenza, il dolore e l’ansia del vivere… Eppure il linguaggio simbolico è ricco e dice molte cose di noi e della nostra storia. Il legame, per esempio, tra peccato e morte, è un legame forte. La morte, con il disfacimento inglorioso del corpo, è la negazione della gloria ed è la disperazione (per quanto la si possa affrontare “cinicamente”) che annebbia l’intera esistenza umana. Tutto questo è “fuori dal disegno” di Dio. Come facciamo a saperlo? È la Rivelazione del Vangelo, cioè è la bella notizia che dice: “quello che si vede è vero, ma è molto più vero quello che non si vede e che si aspetta appoggiandosi alla Promessa della Grazia”. Fuori dal disegno che Dio, però, non ha abbandonato; anzi la ri-creazione è più gloriosa della creazione. Il Nuovo Adamo non aggiusta i guasti del primo ma inizia una nuova creazione. Come facciamo a saperlo? Guardando alla Croce di Gesù. In essa si è rivelato, spettacolo stupendo, l’amore del Padre che mostra la forza del Dono che abbonda nella Gloria. Il nostro vivere non è un “vuoto a perdere” nonostante la violenza del peccato che riempie il mondo di cattiveria e di bruttezza. La nostra libertà (sarà un tema che verrà ripreso più avanti) è malata, ma la sua guarigione, già attuata in parte e promessa nel compimento, supera di gran lunga la sua condizione originaria. 64
C’è un altro dato commovente e sorprendente: la forza di “uno solo” che compie tutto questo. La centralità di Gesù per la fede cristiana è totale. Noi non abbiamo altra speranza che in lui: guardando al Dono di Grazia veniamo a sapere che non siamo più solo “figli di Adamo”, ma figli di Dio mediante il Figlio Unigenito. Siamo figli nel Figlio. Cosa vuol dire? Significa che questo è un “dato di fatto”: la figliolanza della Grazia è la condizione di tutti gli esseri umani. Accogliere questo Vangelo è determinante per la fede cristiana. Noi abbiamo il peccato “accovacciato alla nostra porta” e ne facciamo l’esperienza quotidiana. Malauguratamente mettiamo il peccato “al centro” della vita cristiana e delle sue preoccupazioni; in questo modo la vita cristiana rischia di essere vista quasi esclusivamente come lotta contro il peccato per arrivare alla Grazia. Falso. La Grazia è il nuovo “dato”; il fatto che sia ancora possibile il peccato non toglie nulla alla nostra nuova condizione. Siamo il Popolo santificato dal Dono e non il Popolo che “rischia” nel giudizio. P. ci dice che la “sovrabbondanza della Grazia” è in noi; essa non è in un “deposito” da cui possiamo attingere “se e nella misura in cui facciamo i bravi”. Noi siamo sotto il regime della grazia e non della condanna. Le esigenze (belle e forti, come vedremo) della morale non sono la condicio sine qua non per gustare la Grazia, ma la morale cristiana è l’espressione della vita di Grazia già posseduta per sempre. Per essere più semplice e chiaro: il mio problema non è “come debbo vivere per diventare santo?”, ma “come devo comportarmi dal momento che sono santo?”. L’insidia del peccato c’è (e lo sperimentiamo tutti i giorni) e purtroppo ci infelicita la vita, ma non ci toglie la gioia di sapere di essere continuamente destinatari del Dono gratuito, eccedente e immeritato, ossia l’amore di Gsù Cristo. (d) Per approfondire: la giustificazione per fede11 Alla fine del suo argomentare, in Rm 3,20, l’apostolo afferma che tutti gli esseri umani sono peccatori. Si tratta di un’argomentazione lunga ed annosa, in cui si dichiara che essi, tutti, appartenenti a qualsiasi ceppo 11
Questo paragrafo è stato redatto da Stefania De Vito. 65
culturale e religioso, incappano in un’imperfetta conoscenza di Dio e della sua identità, sebbene questo Dio si sia manifestato loro sin dalle origini. La forte immagine dell’ira di Dio (cfr. Rm 1,18) diventa una manifestazione storica del Signore contro il peccato fondamentale dell’umanità, presentato nell’espressione asèbeian kài adikìan (empietà ed ingiustizia). Questi due ultimi atteggiamenti vengono ben descritti con l’azione del “soffocare” la verità nell’ingiustizia. Il verbo “soffocare” è reso in greco da katéchein, talvolta, impiegato anche in incantesimi e formule magiche, dando l’idea di un’oppressione violenta e misteriosa. Viene fuori il volto di un uomo solo, così impegnato ad opporsi alla manifestazione di Dio nella storia e nella sua storia personale, da approdare, infine, in un delirio relazionale. Il “no”, pronunciato al Dio della Storia”, è un “no” all’alterità divina ed umana, una corrosione relazionale, che chiude l’uomo nell’idolatria e nel peccato. In Rm 2,1, Paolo presenta, nel suo argomentare, un altro interlocutore: all’individuo che affossa la verità, si affianca “colui che giudica” il cui contro-altare è rappresentato da un Dio, giudice imparziale. Accanto a questi empi e peccatori, che non hanno nessun volto etnico o socializzante, ci sono coloro che sono in grado di operare il Bene. Sono i “senza Toràh”, tecnicamente i pagani, che, pur non possedendo la rivelazione di Dio nelle Scritture, sono in grado di fare la Legge, seguendo ciò che è scritto nel proprio cuore. L’apostrofe su Ioudàios, che impera in Rm 2,17, ha di mira non la categoria sociale del popolo di Israele, ma tutti quei Giudei che vivono la propria vita e la propria fede in contraddizione con la Toràh, riposta nei loro cuori e ottenuta in dono nella Parola. L’apostolo, dunque, racconta una situazione, in cui la grande suddivisione del mondo religiosi in “giudei” e “pagani” non regge più. Mentre prima si era arroccati ad un principio di inclusione, determinato dal possesso o meno della Toràh, “oggi” Paolo propone un principio di inclusione, fondato sull’essere posseduti e vissuti dalla Toràh, sia da quella scritta che da quella riposta nei cuori. Questa nuova visuale che Paolo offre dell’umanità, mette in discussione molte categorie teologiche del mondo giudaico, quali la questione della retribuzione divina e della giustificazione. Come ben afferma Rm 3,21, la giustizia di Dio è una concreta manifestazione di Dio nella storia: è un Dio che opera nella storia individuale, in costante dialogo con l’uomo. 66
L’esperienza teologica della giustificazione è condensata nella bella pagina di Rm 4, in cui Abramo, che tecnicamente non era un Giudeo, perché non circonciso, riceve da Dio la giustificazione, in nome della fede. Nel confronto tra Rm 4,20 (si rafforzò nella fede e rese gloria a Dio) e Rm 1,21 (pur conoscendo Dio non gli hanno reso gloria), è evidente che non riconoscere la potenza creatrice di Dio nella propria storia equivale a non avere fede. «Ciò che Paolo sottolinea è il legame tra fede ed identità. Quando in Gen 15,6 Abramo crede, riceve la propria identità di padre e, al tempo stesso, quella dei suoi discendenti, dei figli fututri. La sua identità e la nostra si esprimono nello stesso atto di credere. Ecco perché Paolo non privilegia, come altri, il cammino lungo e sempre da ricominciare dell’atto di fede, ma rinvia all’origine, come a una fecondità che ci precede. È la fede che ci ha generati ed è grazie ad essa che siamo ciò che siamo: e per “fede” dobbiamo sì intendere quella di Abramo, ma anche la nostra, poiché l’atto di credere ci dà un’ascendenza, ci ricollega ad una storia, quella dei credenti»12.
È evidente, dunque, che la fede non è questione di caste sociali, né di riti, né di possessi esteriori: la fede è relazione vissuta, è dare il proprio assenso al Dio della Vita, che, conosciuto come Creatore, viene vissuto nella propria vita come Colui che è in grado di costruire volti nuovi e nuove identità. E, nel confronto con Abramo, apprendiamo che la fede non dona semplicemente nuove identità sociali. Certo, Abramo è trasformato dall’uomo, vecchio, che se ne andava senza progenie a padre di una moltitudine; ma la vera trasformazione è quella interiore, che vede Abramo trasformato da fedele a giusto. Perciò, l’etichetta della giustificazione non viene apposta come se fosse una classificazione sociale o un titolo onorifico, che spetta al Giudeo piuttosto che al pagano. “Giusto” è chi custodisce questa relazione amorosa con Dio, aprendola alla vita e alla creatività. Ecco, svelata la problematica della comunità di Roma, ripiegata su sé stessa, incapace persino di accorgersi dell’oggi del Cristo, che è l’oggi di Dio per noi. Chi non si accorge di questo, non riesce a comprendere la forza performante della fede e della Parola, evidente nella bella espressione di Rm 5,1: giustificati dalla fede, abbiamo la pace innanzi a Dio. 12
J.-N. Aletti, La lettera ai Romani e la giustizia di Dio, Borla, Roma 1997, p. 113.
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Il locativo “innanzi” non racconta la posizione statica del credente, ma racconta di una fede che muove il credente dal proprio Io verso Dio. Le due immagini di Dio, l’ira e l’amore, raccontano una storia della salvezza non piatta né scontata. È una storia di relazioni, che possono cambiare. Dio, impegnato proporre il suo progetto di salvezza all’essere umano, è in continuo dialogo. E l’essere umano non sta semplicemente “fuori” o “dentro” questa proposta, ma decide di intrecciare relazioni con questo Dio della Storia o di tranciarle per sempre. Il Dio della Storia, infatti, non è un Dio della manifestazione, ma un Dio dell’incontro. La storia dell’oggi della fede è inaugurata dal Risorto, ma rimane ancora da scrivere. Ai Romani, allora, e a noi, oggi, il compito di uscire fuori dalle nostre idolatrie, che non consentono alla Misericordia di Dio di spargere il suo profumo. 3.3.10. Siamo stati battezzati in Cristo Gesù (Rm 6,1-14) (a) Il testo Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? 2È assurdo! Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? 3O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? 4Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. 5Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. 6Lo sappiamo: l’essere umano vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. 7Infatti chi è morto, è liberato dal peccato. 8Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, 9sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. 10Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. 11Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. 12Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. 13Non offrite al peccato le vostre membra 1
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come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia. 14 Il peccato infatti non dominerà su di voi, perché non siete sotto la Toràh, ma sotto la grazia. (b) Linee di analisi Tema centrale: partecipando alla morte di Cristo il discepolo del Nazareno crocifisso13 e risuscitato è sottratto al dominio del peccato ed entra in una vita nuova. Chiave interpretativa dell’intero brano è il v. 11: Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. Il discepolo di Gesù Cristo sa che consegnandosi al gesto di Gesù in Croce è liberato dal potere del peccato. Campeggia in modo chiaro e deciso la centralità della Morte-Resurrezione di Cristo come evento al quale misticamente il discepolo stesso si unisce; egli è coinvolto (anzi travolto) nello stesso destino di Cristo. Va notato e ripetuto: c’è un nuovo stato del credente, frutto esclusivo della forza Redentrice dell’obbedienza del “solo” Gesù Cristo che lo unisce a sé. È l’unione con Cristo che quasi cambia la natura dell’individuo e rende possibile ciò che prima non lo era. • v. 1. P. sa che potrebbe esserci un equivoco e quindi si riaggancia al versetto precedente per chiarirlo. • v. 2. C’è una prima risposta che è sorprendente: il discepolo di Gesù Cristo è morto al peccato e quindi non può restare nel peccato. È un modo per insistere ulteriormente su quanto detto: Cristo sottrae il cristiano al peccato in modo radicale come radicale è la morte. Così dicendo P. non sta esortando i credenti a smettere di peccare; egli sta proclamando loro l’ottima notizia che sono morti al peccato. NdR: in questo saggio si troveranno formulazioni come discepolo del Nazareno crocifisso e risuscitato oppure discepolo di Gesù Cristo o varianti del tutto analoghe a queste due e l’espressione cristiano solo in riferimento ad epoche successive al II secolo d.C. La ragione è storico-culturale: l’espressione cristiano in riferimento ai discepoli del Dio di Gesù Cristo compare per la prima volta, a livello neo-testamentario, in At 11,26. Questo è un libro arrivato a redazione finale vari anni dopo la lettera ai Romani. È assai verosimile che la parola cristiano sia entrata in voga diffusamente nel II secolo d.C. in particolare dopo la fine della guerra giudaica del 134-136 d.C. In fasi precedenti, appare più storicamente rispettoso della realtà culturale e religiosa dell’epoca limitarsi a parlare appunto di discepoli di Gesù Cristo. 13
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• vv. 3-11. Questo brano serve a spiegare cosa significa essere morti al peccato. • v. 3. P. stabilisce un legame strettissimo tra il cristiano e la morte di Cristo. La sua preoccupazione non è quella di dire: al discepolo del Cristo sono perdonati “i peccati”, ma dall’unione mistica con l’evento “Morte-Resurrezione” di Cristo egli è “sottratto al peccato” e diventa una creatura nuova. È un’autentica rivoluzione (o meglio ri-creazione) che cambia lo “statuto umano”. Val la pena di notare che il linguaggio non è quello “giuridico” del perdono, ma quello “mistico” dell’unione con Cristo. • v. 4. Continua la spiegazione del v. 3. Per indicare la realtà dell’unione alla morte di Cristo si parla di con-sepoltura per aprire alla resurrezione. P. non parla dell’immersione nell’acqua come di una sepoltura; qui l’orizzonte non è quello rituale del battesimo, ma quello storico salvifico della Morte-Resurrezione. P. parla del battesimo non per spiegare come gli esseri umani stati sepolti con Cristo, ma per dimostrare che sono stati sepolti con lui. • v. 5. È un versetto importante che sembra semplice, ma le parole usate nel testo greco si prestano a sfumature diverse e dunque variano anche le interpretazioni. Due appaiono i punti fondamentali: - il realismo dell’unione del discepolo di Gesù Cristo con la morte di Cristo (reso nella nostra traduzione con intimamente uniti a lui, da intendere in senso mistico-ontologico e non solo morale); - il discepolo è “connaturato” a Cristo in virtù della sua morte in Croce. Questa connaturalità è dinamica (questo dinamismo è reso con il termine somiglianza) e quindi si percepisce il senso di una “crescita progressiva” della connaturalità con Cristo. La connaturalità con la morte di Cristo è al presente, il destino della con-resurrezione è iniziato ma si compirà solo nel futuro escatologico. • v. 6. Si parla degli effetti della con-morte con Gesù Cristo. “Corpo del peccato” va inteso non come una componente dell’essere umano ma come essere umano vecchio, cioè, tolto il peccato, è iniziata la nuova condizione per la quale noi non siamo più schiavi perché il nostro vecchio padrone (il peccato) è stato tolto di mezzo. • v. 7. Ribadisce lo stesso concetto in modo sintetico. • vv. 8-11. Questi versetti ribadiscono quanto già detto sopra combinando insieme il binomio morte-resurrezione. 70
• vv. 12-14. Conclusione esortativa. Viene detto che il comportamento etico del discepolo di Gesù Cristo nasce in modo naturale dall’evento salvifico a cui, per grazia, è stato misticamente unito. Il fondamento dell’etica cristiana è la Croce di Cristo. In Croce il peccato è “morto”, dunque il discepolo non deve più peccare perché anch’egli è morto al peccato. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi La riflessione colloca immediatamente lettrici e lettori nel cuore della fede cristiana per far capire a quale grandezza i destinatari del testo siano stati portati con il Battesimo. Oggi è necessario, prima di tutto, se si è credenti cristiani, verificare il proprio atteggiamento “psicologico” di fronte al Battesimo. Spesso si rischia di vedere in esso una semplice “ripulitura” dai peccati (in particolare dal “peccato originale”). Io sono quello che sono “con un po’ di peccati addosso” e il battesimo (come poi la confessione) mi ripulisce; da qui l’impegno a fare in modo di non sporcare più la veste bianca della grazia. Pensando tutto ciò ed esprimendolo, si dice troppo poco di quello che è successo. Visto così il Battesimo ha come effetto primario quello di aiutare il battezzato a non fare più peccati. Invece con il Battesimo inizia tutta un’altra vita: si diventa un altro; si è una cosa sola con Gesù e lo si resterà sempre anche quando si commetteranno dei peccati. Un figlio, se scappa di casa, non cessa di essere figlio, così il battezzato non sarà mai più del peccato, anche se continuerà purtroppo ad avere la possibilità di peccare. Credo si veda con estrema chiarezza l’importanza della fede; credere significa sapere che si è per sempre di Gesù perché la sua morte e la sua vita sono diventate, per ogni credente battezzato la morte al peccato e la vita per la giustificazione. Qui cogliamo la bellezza e il realismo di quanto Gesù ci dice nel vangelo secondo Giovanni: «Io sono la vite e voi siete i tralci… senza di me non potete far nulla» (15,1.5). Abbiamo visto con quale coraggio P. insiste sulla valenza salvifica della morte di Gesù. Anche su questo punto è necessaria la nostra conversione, il cambiamento della nostra mentalità. Con quali occhi alzo lo sguardo verso la Croce? C’è spesso un atteggiamento penosissimo 71
verso la Croce, perché vista sul versante del dolore; addirittura si insiste in modo quasi esclusivo sulla responsabilità personale nel procurare dolore a Gesù. Gesù è morto per i peccati, senza la volontà di soffrire in modo masochistico o con gioia («Padre, tutto è possibile a te, passi da me questo calice» – Mc 14,36) ma è una morte liberamente accolta, amorosamente accettata, gloriosamente vittoriosa. Soffermarsi più del dovuto sul dolore reintroduce “l’impegno di non peccare” visto come non infliggere “dolore a Gesù” e non come logica conseguenza di essere passato dalla Toràh alla grazia. La Croce è essenziale per la salvezza umana, ma non diventa lo stile normale, ossia doloroso e sacrificato, della vita, in particolare quella fedele all’amore del Dio di Gesù Cristo. La lotta contro i peccati è già vittoriosa in partenza perché il mio peccato è il peccato di chi “non cessa di essere santo” dal momento che è giustificato (cioè fatto santo) dalla Croce. Non ci si può staccare dalla Croce, non perché si voglia soffrire o si voglia “consolare Gesù”, ma perché, se ci si allontana da essa e dalla sua logica di amore gratuito per gli altri, si ritorna sotto il padrone di prima… 3.3.11. Liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia (Rm 6,15-7,6) (a) Il testo
Che dunque? Ci metteremo a peccare perché non siamo sotto la Toràh, ma sotto la grazia? È assurdo! 16Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? 17Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. 18Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia. 19 Parlo un linguaggio umano a causa della vostra debolezza. Come infatti avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità, per l’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per la santificazione. 15
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Quando infatti eravate schiavi del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. 21Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Il loro traguardo infatti è la morte. 22Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliete il frutto per la vostra santificazione e come traguardo avete la vita eterna. 23Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore. 7 1O forse ignorate, fratelli – parlo a gente che conosce la Toràh – che la Toràh ha potere sull’essere umano solo per il tempo in cui egli vive? 2La donna sposata, infatti, per legge è legata al marito finché egli vive; ma se il marito muore, è liberata dalla legge che la lega al marito. 3Ella sarà dunque considerata adultera se passa a un altro uomo mentre il marito vive; ma se il marito muore ella è libera dalla legge, tanto che non è più adultera se passa a un altro uomo. 4Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla Toràh per appartenere a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio. 5Quando infatti eravamo nella debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Toràh, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. 6 Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla Toràh per servire secondo lo Spirito, che è nuovo, e non secondo la lettera, che è antiquata. 20
(b) Linee di analisi L’incipit di questo brano sembra ricominciare da capo quanto detto all’inizio del brano precedente (6,1); in realtà esso crea una inclusione con il versetto 7,7 che inizia allo stesso modo. Questa unità ben delimitata sposta l’attenzione dal peccato alla Toràh. Ne viene, così, il messaggio su cui P. insiste: il discepolo di Gesù Cristo non è più né sotto il peccato né sotto la Toràh. Ma per ulteriore chiarezza P. sottolinea che ormai costui deve stabilmente dedicarsi ad un tipo di vita diversa abbandonando decisamente il peccato, che ha come esito finale la morte, per vivere nella nuova condizione della libertà di figlio di Dio. • v. 1. Viene introdotta la dialettica non più tra peccato e Grazia ma tra Toràh e Grazia. Il problema che P. ha davanti è chiaro e sta nella 73
domanda: dal momento che il cristiano non è più né sotto il peccato né sotto la Toràh, può forse peccare? I singoli peccati, ancora possibili, non saranno imputati? La risposta è chiara: assolutamente no. • vv. 16-18. Inizia una prima risposta al quesito appena posto. P. fa riferimento ad una situazione nota che è quella della schiavitù. P. mette sullo stesso piano il rapporto con il peccato e quello con la Toràh; come dire: visto che comunque siete schiavi di qualcuno si tratta di sapere di chi siete schiavi. • v. 18. «È interessantissimo l’ossimoro che si viene a creare tra la libertà acquisita e la sua combinazione di una nuova forma di schiavitù! La libertà cristiana è un dato pre-morale, che tocca alla radice l’identità del credente e lo connota prima di ogni suo esercizio etico (cfr. Gal 5,1; Gv 8,36). Sul piano morale, invece e paradossalmente, la libertà richiede l’esercizio anche faticoso di rapporti di amore, concreti e diuturni (Gal 5,13-14; Rm 13,8)»14. • vv. 19-23. P. continua la risposta al quesito inziale. Vengono ancora ripresi i concetti di schiavitù e libertà sottolineando meglio il loro significato e il loro esito. • v. 19. Non è un “insulto”, ma significa semplicemente che P. cerca di esprimersi in modo semplice (!) per farsi capire bene. • vv. 22-23. La conclusione di P. è straordinaria: l’impegno morale del cristiano non nasce dall’obbedienza ai precetti della Toràh e neppure da un altro “precetto morale” che la sostituisce, ma dal continuo confronto con la benevolenza di Dio che si è manifestata nell’evento della Croce di Gesù. È una morale dialogica motivata solo dall’amore ricevuto. Cambia anche il linguaggio: la Toràh diventa giustizia e santificazione e le opere diventano frutti e non meriti. Non c’è una obbedienza a precetti “freddi e impersonali” ma l’agire morale è mosso sempre dalla meraviglia suscitata dall’amore svelato che motiva l’impegno a vivere secondo una dimensione vitalmente nuova. Eccezionale! vv. 7,1-6. Questi versetti fanno da raccordo tra quanto precede e quanto segue: da una parte, infatti, è chiara la libertà dalla Toràh, dall’altra la Toràh continua a presentarsi in modo drammatico nell’esperienza del cristiano. 14
R. Penna, Lettera ai Romani, pp. 460-461.
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vv. 2-3. Per la sua dimostrazione P. si serve del paragone matrimoniale. Alla morte del marito la moglie è libera perché non gli appartiene più. Così il discepolo di Gesù Cristo, con la morte del peccato, è libero dalla Toràh, perché appartiene totalmente a Cristo. Questo ragionamento non può che far tornare ancora la domanda: Ma allora a che cosa serve la Toràh? A questo interrogativo risponderà il resto di Rm 7. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Questa pagina mi pone davanti un paio di domande che mi chiedono di essere onesto e sincero con me stesso. • La prima domanda potrebbe essere così formulata: Come posso superare l’istintiva diffidenza verso una impostazione di vita che mi apre alla libertà dei discepoli di Gesù Cristo? Ad alcuni può sembrare una domanda da poco; in realtà da essa dipende interamente lo stile della mia fede. Mi chiedo: dato che sono credente in quale modo, oggi, devo esserlo? Lo “stile” prevalente che appare diffuso nel modo concreto di vivere e di concepire la vita cristiana è molto distante dalla libertà. C’è una “legge” che è ancora diffusa e che fa apparire il cristianesimo esattamente come il contrario di quanto descritto da P. Che cosa è successo al Vangelo perché si presenti ancora come insieme di precetti da seguire? Credo ci siano molte risposte che ciascuno cercherà nell’intimo del suo cuore. Se dovessi tentare una mia parziale risposta direi così: è tutta colpa del clericalismo. Con questo termine non mi riferisco al clero in quanto tale, ma ad un modo di vivere la fede che fa dell’obbedienza “al clero” il punto centrale. Essere clericali vuol dire vivere la Chiesa senza amarla e come “organizzazione” di cui si fa parte solo a certe condizioni. Una Chiesa ben gerarchizzata dove alcuni “sanno” che cosa è cristiano e che cosa non lo è. Una Chiesa fatta di “opere” e di abitudini e non di rapporto esistenziale con Gesù. La novità che mi è richiesta è la serietà della fede: “io sono convinto che appartengo a Cristo non in forza di scelte di vita particolari, ma in forza dell’amore che Dio ha manifestato attraverso la Croce di Gesù?”. Queste per me sono solo belle parole per dire in altro modo che ‘mi salverò, se faccio il bravo’ o rappresentano la mia conversione al Vangelo che mi mette sullo stesso piano (magari un po’ più sotto) di tante sorelle e fratelli? 75
Credo davvero che la Chiesa sia una “fraternità” che nasce per grazia e che è dolce e bello servire? • L’altra domanda, più complessa, riguarda la libertà. Sono stato liberato dal peccato e dall’obbedienza precettistica della Toràh, ma posso ancora peccare. Ma se sono libero dal peccato perché il peccato ha ancora il potere di trascinarmi a sé? Dove sta l’efficacia del Battesimo? E se non sono più sotto la Toràh non c’è il rischio di interpretare le cose dalla vita a modo mio? La mia tentazione è quella di precisare subito e di mettere dei “paletti” ben chiari e precisi. Ma quali sono i paletti da mettere senza che la libertà cristiana ne abbia a soffrire? Mi posso davvero fidare dello Spirito? E come debbo giudicare, alla luce del Vangelo, il concetto oggi assolutamente prevalente di libertà che, in quanto “libertinismo”, ha ben poco a che vedere con la libertà cristiana? E questo giudizio può avvenire solo nella mia coscienza? Quale rapporto nuovo devo istituire tra libertà e autorità? A molte di queste domande P. risponderà presto in questa stessa lettera ai Romani, ma mi sembra di intuire che egli avrà una risposta sola: “è la Grazia (cioè il dono dello Spirito) che ti guida; affidati con umiltà, vivi con amore i gesti della Chiesa e ‘diventa Chiesa’ ogni giorno di più”. Sono risposte che pongono altre domande: vuol dire che stiamo andando nella giusta direzione che è quella gioiosa ed entusiasmante della ricerca, con tutte le difficoltà, i dubbi e le ambiguità del caso. 3.3.12. Non riesco a capire ciò che faccio (Rm 7,7-25) (a) Il testo
Che diremo dunque? Che la Toràh è peccato? No, certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare. 8Ma, presa l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento, ogni sorta di desideri. Senza la Toràh infatti il peccato è morto. 9E un tempo io vivevo senza la Toràh ma, sopraggiunto il precetto, il peccato ha ripreso vita 10e io sono morto. Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte. 11Il peccato infatti, presa l’occasione, mediante il comandamento mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. 12Così la Toràh è santa, e santo, giusto e 7
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buono è il comandamento. 13Ciò che è bene allora è diventato morte per me? No davvero! Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato risultasse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento. 14Sappiamo infatti che la Toràh è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. 15 Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. 16Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Toràh è buona; 17quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21Dunque io trovo in me questo principio: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22Infatti nel mio intimo acconsento alla logica di Dio, 23ma nelle mie membra vedo un’altra logica, che combatte contro quella della mia ragione e mi rende schiavo della logica del peccato, che è nelle mie membra. 24Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? 25Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la logica di Dio, con la mia carne invece quella del peccato. (b) Linee di analisi È uno dei testi più famosi dell’intero corpus delle lettere paoline; ma è anche uno dei più complessi. Fedeli al nostro intento iniziale ci sottraiamo alla “tentazione” di seguire le varie interpretazioni per offrire il minimo di spiegazioni esegetiche per poter, poi, dare un fondamento alla meditazione. P. non può sottrarsi al “dramma” che suscita l’impostazione data alla giustizia evangelica: serve ancora la Toràh? Di più: avendo egli costruito un nesso inscindibile tra Toràh e peccato sorge la domanda: ma la Toràh è peccato? P. tratta questa “spinosa faccenda” da due prospettive diverse: la prima che potremmo chiamare “oggettiva” affronta la situazione esistente nel rapporto tra peccato e Toràh (vv. 7-13); la seconda di tipo più esistenziale-soggettivo mostra la situazione lacerante e drammatica dell’individuo umano (vv. 14-25). 77
È da notare la scelta “stilistica” di P. che, in qualche modo, personifica (è la figura retorica che gli esperti chiamano “prosopopea”) tre “attori”: peccato, Toràh, l’Io. Diamo un quadro di massima su come si svolge il ragionamento paolino. • vv. 7a. Proposta del tema. • vv. 7b-12. Ciò che porta la morte è solo il peccato. Il proposito della Toràh è buono perché vuole arginare il peccato; ma il suo esito è negativo perché la Toràh mi fa conoscere meglio il peccato e quindi lo fa “dilagare”. Il peccato è potente, ma senza la Toràh lo conoscerei meno; per paradosso la Toràh favorisce la diffusione del peccato: più proibizioni = più peccati. • v. 11. Il peccato (personificato) si approfitta della Toràh per farmi sentire ancora più peccatore (cioè “morto”). • v. 12. La Toràh, di per sé, è santa e buona; “ma il peccato se ne serve per schiacciarmi ancora di più”; vien da chiedersi: perché questo? È il tema dei vv. successivi. • v. 13. Questo versetto funge da passaggio alla seconda parte del ragionamento di P. • vv. 14-23. La situazione si fa drammatica. La Toràh fa dilagare il peccato, ma non è in grado di fermarlo. “Mi viene detto quello che debbo fare ma io non sono in grado di farlo. La Toràh mi indica il peccato e mi lascia in balìa di esso perché dentro di me il peccato è più forte della Toràh”. • vv. 18-20. Il pessimismo di P. serve a far spazio all’ottimismo della Grazia. Il termine carne non va inteso come corpo, ma indica l’intero essere umano nella sua realtà creaturale oppure nella sua realtà di creatura che è stata “rovinata” dal peccato. • vv. 21-23. Pongono un problema: il termine nòmos è ripetuto ben 5 volte con significati diversi. Le interpretazioni sono variegate già dall’antichità. Le ipotesi sono fondamentalmente due: la prima ritiene che si tratti sempre della Toràh vista in varie sfaccettature; la seconda, oggi preferita dalla maggior parte dei commentatori, ritiene che si tratti della stessa parola che richiama, di volta in volta, significati differenti. Si veda, per es., il v. 23 dove, in sequenza, ci sono tre locuzioni diverse. • vv. 24-25. Al grido disperato e senza via d’uscita risponde la Grazia. Fa problema, a questo punto, il v. 25b. Non si capisce, infatti, come P. reintroduca a questo punto il tema dal quale è appena “uscito”. Per 78
questo molti autorevoli esegeti ritengono che 25b sia una interpolazione successiva. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Ciascuno di noi è posto di fronte alla verità di se stesso e della propria vita; ognuno sa quanto è grande dentro di lui la frattura tra la tensione al bene e la debolezza che gli permette di raggiungerlo solo in parte. Dopo un faticoso cammino P. ci porta alle altezze della fede e alle profondità del nostro essere. Noi siamo in grado, oggi più di ieri, di conoscere il cuore umano e le sue ambivalenze. Molto sappiamo circa le origini delle nostre paure e tanto conosciamo dei meccanismi del “Male” che dominano la storia degli esseri umani. Le scienze (fisica, medicina, psicologia, biologia, ecc.) ci forniscono strumenti straordinari di conoscenza; tutto questo non impedisce l’uso distorto della stessa conoscenza e dei beni della Terra. Si generano addirittura, in misura talora maggiore, cattiverie, ingiustizie, sopraffazioni. All’apice della sua espansione, che apre ogni giorno scenari fantastici, l’essere umano si trova spesso più solo e più “cattivo” del passato anche recente. Passiamo da slanci di entusiasmo per le scoperte a momenti di paura (e perfino di terrore) per quello che può succedere; ogni problema risolto sembra ne… generi altri due da risolvere. Pare di essere di fronte ad una sequenza senza fine. Questo al di fuori di noi. Ma anche dentro di noi, intendo nel nostro cuore, il panorama non è meno complesso. L’inseguimento della ricchezza sfianca, con le sue pretese insaziabili, le vite di tantissimi. L’infinita possibilità di relazioni e contatti non si traduce spesso in una potenziata capacità di amare. Conosciamo i “meccanismi” dei nostri comportamenti, ma il perché siamo in un modo o in un altro continua a sfuggirci. Verrebbe da dire con il Qohèlet: “Niente di nuovo sotto il sole: quello che si è fatto, si rifarà”. Sappiamo che non è proprio così e che l’intelligenza umana, dono fantastico di Dio, migliorerà ogni giorno la nostra condizione sulla terra, ma… c’è sempre un ma… Siamo, allora, al punto centrale che ci indica P.: la creazione e l’essere umano non si possono salvare da soli. Il nemico (cioè il peccato e la 79
morte) è incatenato, ma non sconfitto. La vittoria ormai certa del bene sul male, della giustizia divina sulla cattiveria umana non tolgono forza al nemico che è accovacciato presso la porta del nostro cuore. Qui la fede nel Dio di Gesù Cristo assume la sua forma esatta: “mi affido a Dio che si è rivelato come Colui che mi ama sopra ogni cosa; non mi distoglie da nulla di quello che vivo e vedo; godo di quello che c’è da godere; conosco tutto quello che riesco a conoscere”. Tutto questo con la riconoscenza di chi, guardando alla Croce del Figlio, sa di essere figlio per sempre e che la misericordia metterà ordine là dove io non riuscirò mai a mettere ordine, perdonerà dove non riesco a perdonare, mi farà vedere un piccola luce nel buio più grande e mi farà trovare un sentiero nella foresta più intricata. La Croce si fa vicina a me nell’Eucaristia a cui tutta la mia converge e da cui tutto il mio essere prende vita. La fede riempie la mia intelligenza di domande e non mi permette di essere schiavo di nessuna ideologia, mi dà la forza di resistere alle mode (anche quelle spirituali e teologiche), non umilia mai la mia ragione ma la esalta aprendola a panorami sconfinati che neppure sarebbero immaginabili. Credo che Dio tutto mi dona nel Figlio e che anch’io riuscirò a godere e a vivere qualcosa di questo Mistero immenso e della sua eredità. Ma non è finita qui. C’è un altro passaggio indispensabile perché tutto questo non sia una specie di “gran castello” campato per aria. Come Maria subito ci viene la domanda: “Come è possibile tutto questo? Io non sono che un povero uomo”. P. ci accompagnerà nel passo successivo e decisivo del Mistero: …sta per arrivare l’annuncio della libertà donata dallo Spirito del Padre e del Figlio che rende possibile il Mistero cristiano. 3.3.13. Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio (Rm 8,1-17) (a) Il testo
Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. 3Infatti ciò che era impossibile alla Toràh, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: 1
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mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4perché la giustizia della Toràh fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito. 5 Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. 6Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. 7Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. 8Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. 9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. 11E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12 Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, 13perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. 14Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. 15E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». 16Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. 17E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. (b) Linee di analisi Assistiamo ad uno stacco netto ed entriamo nel cuore incandescente dell’esperienza cristiana. Il cristiano ha superato il peccato e la Toràh per iniziare una radicale trasformazione dovuta al suo inserimento in Cristo; questo inserimento in Cristo introduce il discepolo del Nazareno crocifisso e risuscitato in una relazione particolare e decisiva con lo Spirito santo. L’esito di questa relazione è la libertà cristiana. 81
Possiamo vedere quattro passaggi nel brano che stiamo leggendo; vv. 1-4: l’evento nella sua oggettività; vv. 5-8: l’opposizione carne/spirito; vv. 9-11: tutto questo discorso visto nell’esperienza concreta del cristiano; vv. 12-17: punto di arrivo culminante = la figliolanza divina. • v. 1. La costruzione greca della frase è messa in modo da voler escludere una qualsiasi forma di condanna. Questo è l’evangelo del Vangelo; cioè qui viene annunciata la liberazione più radicale mai operata a favore dell’uomo. La seconda parte del versetto chiarisce la modalità di questa liberazione: con l’unione mistica al sacrificio redentore di Cristo Gesù. È da notare che questa liberazione è preveniente, cioè gratuita e viene dalla libertà di Dio e non come ricompensa di un impegno umano che scatta dopo, come vedremo. • vv. 2-3. Presentano il motivo di fondo dell’esclusione di ogni condanna. Riporto il pensiero di Romano Penna che è interessante: «Qui più che mai si vede bene che il carisma proprio di Paolo non è la chiarezza ma la densità; sicché una lettura veloce del testo sicuramente non basta»15… Ce ne siamo accorti! Il versetto ha un andamento trinitario: a monte della liberazione compiuta da Gesù, operata e resa viva nel credente dal dono dello Spirito, sta l’iniziativa gratuita e onnipotente della misericordia del Padre. • v.4. Ciò che la Toràh, pur nel suo intento buono, non è stata capace di compiere per la limitatezza della “carne” è compiuto per la grazia dello Spirito. • vv. 5-8. Vengono contrapposti radicalmente i due principi della carne e dello spirito. Sia ripetuto per inciso quello che ormai è noto e cioè che non si può leggere carne/spirito come anima/corpo. L’antropologia di P. è tutta incentrata sull’uomo spirituale, cioè sull’uomo (tutto intero) inserito nel Mistero della Pasqua di Cristo. Questa è la descrizione di un dato oggettivo operato da Gesù per grazia. Da qui verrà la nuova libertà cristiana che sarà descritta nella parte morale (secondaria e più breve). • vv. 9-11. P. passa alla seconda persona plurale rivolgendosi direttamente ai suoi interlocutori. Qui c’è una “invenzione” bella di P.: parlando dello Spirito introduce l’immagine dell’abitazione, immagine sconosciuta nell’A.T. 15
Lettera ai Romani, p. 536.
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• vv. 12-17. È una nuova unità introdotta da dunque. Contenuto straordinario di questa unità è la nuova filiazione operata e resa possibile dalla presenza dello Spirito nominato 6 volte (la carne ormai è in ombra, nominata solo 3 volte). • v. 12. Il cristiano è “svincolato” dalla carne-debolezza perché inserito nella forza dello Spirito che lo rende figlio. Non ha più “debiti” da pagare verso la Toràh perché ha la nuova logica dello Spirito. • v. 17. La pericope si chiude con un accenno alla prospettiva escatologica che apre alla sezione successiva. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Qui per meditare bisogna mettersi in ginocchio e adorare il Mistero che vive dentro ogni cristiano. Stiamo contemplando quello che ci è successo e come abbiamo conosciuto il nostro Dio che è Padre, suo Figlio Gesù che è nostro fratello, e l’Amore che lega indissolubilmente il nostro destino di figli “adottivi” a quello del Figlio “naturale”. Non crediamo in un “dio qualsiasi” e non possiamo diluire la nostra fede in un generico sentimento religioso. Accanto all’adorazione vengono anche le “lacrime” di fronte alla nostra durezza di mente e di cuore che fanno fatica a vivere la fede dentro un orizzonte così ampio. Vedremo che tutto coopera al bene per coloro che amano Dio e quindi nulla va disprezzato, ma non possiamo non provare un grande dispiacere nel vedere che l’orizzonte della libertà cristiana è stato impoverito al punto che tanti (cristiani e non) pensano che essere cristiani sia un impegno difficile e, in certi casi, praticamente impossibile. Certo che se pensiamo di “vivere da Dio” senza aver fede in Dio tutto è difficile, anzi impossibile e disumanizzante. Dovremmo toglierci di dosso sia la banalizzazione della nostra fede (tipo: “essere cristiani non è altro che fare del bene al prossimo”), sia l’appesantimento della vita di fede che ci priva di tante gioie in vista di un premio futuro un po’ incerto e di cui non si conosce bene la natura. Lo Spirito introduce nella fede la leggerezza; una fede pesante, noiosa, chiusa, penitente, …“bigotta” è una fede profondamente malata. Se crediamo alla Parola, la lettura (certamente non facile) della lettera 83
ai Romani ci aiuta in questo alleggerimento della fede (che, sia detto anticipando ciò che vedremo tra non molto, non perde nulla delle sue esigenze morali). Sottolineo che questa conversione della fede è decisiva in questo momento storico in cui la fede ha perso le “parole della gente” e quindi si trova nella necessità di dover trovare parole nuove per essere ascoltata. Non dobbiamo inventare nulla: dobbiamo solo dire la verità del nostro Dio e vivere per quello che siamo diventati con la fede che ci rende giusti di fronte a Dio, agli esseri umani e alla creazione. Qui si vede bene che la “nuova evangelizzazione” non passa dall’adeguamento al mondo e ai suoi metodi (spesso leggeri perché vuoti e non perché umanamente belli), ma dalla conversione della nostra mente (prima di tutto) e del nostro cuore (cioè della nostra libertà) alla presenza dello Spirito. La legge dello Spirito che dà la vita ha già cambiato il nostro essere profondo e ci offre un cammino, mai finito e fatto anche di “incidenti”, di cadute, di dubbi, di tradimenti…, ma che è leggero come il Vento, amabile come il volto di Gesù, sicuro e forte come le braccia del Padre. 3.3.14. Nella speranza siamo stati salvati (Rm 8,18-30) (a) Il testo Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. 19L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. 20La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza 21che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. 23Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. 24Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? 25Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. 18
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Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; 27e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio. 28 Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29 Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati. 26
(b) Linee di analisi Inizia, con una formula consueta per P. (Ritengo, infatti,…), un nuovo argomento con la solita “propositio” che in questo caso è il v. 18. In esso P. ci dice che non c’è possibilità di paragone tra le sofferenze presenti e la gloria futura, cioè tra l’attuale condizione del cristiano giustificato e la rivelazione della sua gloria nel futuro. La “tesi” è argomentata in tre passaggi; - vv. 19-22: la creazione aspetta di essere liberata; - vv. 23-25: la stessa attesa è condivisa dai cristiani; - vv. 26-27: lo Spirito sostiene l’identità del cristiano e la sua attesa. I vv. 28-30 si presentano come la conclusione teologica generale. • v. 18. Esplicita quanto detto al v. 17. P. annuncia la sua ferma convinzione circa il destino di gloria che attende il cristiano. La gloria di cui si parla è quella dell’uomo: significa la sua piena riuscita. • vv. 19-22. È di scena la creazione. Va intesa come tutto il creato subumano. La creazione personificata (ritorna la figura retorica della “prosopopea”) ha una tensione spasmodica verso la liberazione dalla sofferenza. • v. 19. Dicono gli esperti che i verbi usati indicano un desiderio ardente del compimento. P. specifica e aggiunge l’oggetto di questa attesa e, sorprendentemente, lo indica nella rivelazione dei figli di Dio. La creazione “aspetta” di vedere la gloria dell’essere umano. C’è un’unità profonda e indisgiungibile tra il creato e l’essere umano. 85
• v. 20. Si sottolineano i limiti della creazione. Non per colpa propria ma per volontà di un agente esterno non nominato. È da escludere il Satana; si tratta di Dio che decide di sottomettere alla “vacuità” (evanescenza, dissoluzione) la creazione in seguito al peccato di Adamo. Ma c’è una speranza ben spiegata nel versetto successivo. • v. 21. Il futuro del creato sarà la sua liberazione dal limite e dalla corruzione. • v. 22. Continuando nella personificazione ardita P. paragona la Creazione ad una partoriente che soffre per i dolori del parto. Non si può dedurre dal testo che la “partoriente” stia per generare un mondo nuovo, P. vuole sottolineare la portata grande del dolore. Il messaggio non è che la sofferenza presente produrrà comunque un bene nel futuro, ma che i tormenti del presente non dureranno per sempre. • vv. 23-25. Cambia il soggetto: non più la creazione ma il “noi dei discepoli di Gesù Cristo”; esso diventa il soggetto di ben 7 verbi. • v. 23. Primizie: nel senso di caparra, assicurazione certa. Il cristiano geme e partecipa ai gemiti generali; tuttavia la speranza è fonte della certezza della salvezza, piena e futura. Il cristiano “geme” perché lo Spirito gli fa cogliere la distanza che lo separa ancora dalla piena liberazione con la redenzione del corpo. La salvezza sarà piena, quando anche la dimensione fisica sarà liberata dalla morte. Il lamento è tanto più grande quanto più il discepolo del Nazareno crocifisso e risuscitato sa di essere giustificato (e dunque sottratto al peccato) mediante il Battesimo. • vv. 24-25. Si riprende e approfondisce il tema della speranza. • vv. 26-27. Questi due versetti costituiscono una unità che sembra non pienamente aderente al contesto. In realtà P. sottolinea la debolezza con la quale il discepolo del Cristo continua a fare i conti nonostante la giustificazione. Il discorso è estremamente interessante perché, a sorpresa, P. parla della preghiera. Egli non rimarca il tema del “metodo” della preghiera (= come si fa a pregare), ma insiste sull’impossibilità di sapere che cosa chiedere nella preghiera. Il disegno di Dio, che sta dietro alla sofferenza, per noi è oscuro: per questo non sappiamo che cosa chiedere; corriamo il rischio di chiedere qualcosa che va contro il percorso pensato da Dio. Tale percorso, pur essendo incomprensibile, non è né assurdo né irrazionale. Per questo “entra in azione lo Spirito”. P. usa due verbi molto interessanti: viene in aiuto e intercede per noi con gemiti. 86
La preghiera dello Spirito potrebbe essere intesa in due sensi: - Egli sostiene la nostra preghiera e ci ispira le cose da dire; - è proprio lo Spirito che “geme” e prega in un modo che noi non comprendiamo; solo Dio percepisce i gemiti dello Spirito. Questa seconda spiegazione mi pare più convincente dell’altra. • v. 27. Entra “in scena” il Padre che scruta ogni cosa e che porta a compimento il suo progetto. • vv. 28-30. Questi versetti esplicitano il “piano di Dio”. In tre passaggi: v. 28 - presentazione generale; v. 29 - il disegno pre-temporale (“preconobbe”, …); v. 30 - la sua realizzazione nel tempo (presente e futuro). (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Potremmo definire questo brano come l’elogio del desiderio. Ogni passaggio sottolinea l’attesa di un evento gioioso. Il mondo cosmico e umano è come pervaso da una frenesia e da una agitazione perché presagisce che la sofferenza non può essere l’ultima parola. C’è la sensazione che “tutto” sia fatto per la felicità. Ciò che è presente, da qualche parte nel cuore degli esseri umani, trova una risposta e un alimento certo nella Rivelazione della giustizia di Dio, che è preventivamente, gratuitamente e totalmente messa a disposizione degli individui. Ognuno di noi sperimenta ogni giorno quest’ansia e questo desiderio di felicità. Nello stesso tempo vede la debolezza che “impasta” i suoi passi e frena il suo cammino; dentro di sé e fuori di sé: nella cattiveria degli altri e nelle forze scatenate della natura. L’annuncio della Gloria, già donata come caparra e promessa in pienezza non come premio ma come riscatto per la forza del sangue di Gesù, suonerebbe “beffardo” e persino crudele, se non fosse garantito dalla certezza di un intervento soprannaturale. Questo avviene con il dono dello Spirito che si attua, già oggi, nella legge della libertà che dona la vita. Non stiamo scherzando: qui c’è una promessa divina fortificata dalla figliolanza donata. Io sono già figlio di Dio ed erede del suo regno. Ogni passaggio, anche tragico o difficile, per i peccati, per la malattia, per le insidie della vita o per la crudezza della morte, non metterà mai in dubbio questa figliolanza. Io sono il figlio di Dio che geme e che soffre; 87
mio Padre ha in mente cosa fare di me e il fatto che io sappia molto poco di questo suo progetto non me lo fa mettere in dubbio; anzi: credo che lo capisco poco proprio perché è veramente divino. Mi piacerebbe accontentarmi di qualche… dollaro in più o di qualche vogliuzza, così non vivrei l’ansia dell’attesa. Contestualmente, però, mi rendo conto che è meglio saper aspettare perché il disegno, per quel poco che capisco, è bello, profondo, umano, sovrumano, cosmico. È impressionante, tra le altre cose, il fatto che la Creazione (sassi, stelle, atomi, molluschi, animali, piante, fiori… zanzare) sia vista come partecipe dell’essere umano in un unico gemere. Ancora più impressionante è che questo gemere della natura è motivato dall’attesa del compimento dell’essere umano. C’è una evoluzione cosmica che sostiene e aspetta una evoluzione antropologica. Questa è la base di ogni “ecologia cristiana”. La cura del creato e la sua finalizzazione umana non sono un giochetto ideologico per individui che tirano pugni contro i mulini a vento, ma è l’ammirazione per una vicenda che ci vede tutti solidali in un cammino che porterà (sta già oggi portando) verso un compimento che sorpassa ogni immaginazione. In questo progetto le doglie del parto, cioè il dolore e l’attesa, hanno i tempi segnati e ben contingentati. È quanto ci racconta anche il Vangelo dell’Apocalisse, cioè la Rivelazione di ciò che “sta dentro e sotto” a tutto il nostro nascere, crescere, amare, lavorare, soffrire, tradire, piangere, ridere, capire e non capire… Io non ho altre parole; vorrei solo che, nella preghiera, nascesse nel cuore di ciascuno la certezza gioiosa che tutto questo è vero (è Vangelo!) e che, avendolo capito anche solo un attimo, riprendiamo il cammino senza scordarcelo: vedere il sole, anche per un istante, dà la certezza della sua presenza, anche quando il cielo è carico di nuvole o quando cala la notte. 3.3.15. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? (Rm 8,31-39) (a) Il testo Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? 33Chi muoverà 31
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accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! 34Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! 35 Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello. 37 Ma in tutte queste cose noi stravinciamo grazie a colui che ci ha amati. 38Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, 39né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore. (b) Linee di analisi P. trabocca di commozione di fronte alla lode dell’amore di Dio manifestato in Gesù e donato al cuore dell’uomo mediante lo Spirito. Si può pensare di dividere il brano in due parti introdotte dalla certezza: Dio è per noi. Nella prima parte la “tesi” è ripresa da quattro interrogativi retorici. La risposta a ciascuno di essi è, paradossalmente, in un’altra domanda retorica in un crescendo travolgente, che porta ad escludere ogni possibile smentita che Dio sia proprio a nostro favore, “per noi”. Nella seconda parte P. dichiara in termini forti e positivi (vv. 37-39) la sua fede certa dell’amore di Cristo Gesù come manifestazione dell’amore di Dio al quale i cristiani sono ormai indissolubilmente legati. • vv. 31-32. Primo interrogativo retorico: nessuno può essere contro di noi. I versetti successivi che specificano le motivazioni della certezza di P. • vv. 33. Niente accuse. • v. 34. Nessuna condanna. • vv. 35. Nessuna possibilità di separazione. È quasi un grido pieno di amore e di forza nella fede. • vv. 37-39. Al grido di vittoria segue la proclamazione dell’atto di fede di P. • v. 39. In linea con tutta la lettera viene solennemente affermato il primato dell’amore di Dio e la sua manifestazione, nuova, ultima, totale nell’amore di Cristo Gesù. 89
(c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Raccontano che Pascal dopo la “notte di fuoco” in cui ha avuto la certezza della presenza del Dio vivo nella sua vita abbia scritto la frase: Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non Dio dei filosofi e l’abbia cucita nell’orlo del mantello per non lasciarla mai più. Così dovrebbe essere per noi: dobbiamo scrivere nella mente e nel cuore questo brano per non dimenticarlo mai più. In esso c’è la sintesi del cristianesimo ed è indicato lo stile perenne del cristiano. Siamo inseriti, e con noi tutti gli esseri umani, in un disegno grandioso. Le vicende della vita personale, ecclesiale, sociale, culturale e politica ci possono momentaneamente distrarre da questa realtà e metterla perfino in dubbio; ma essere credenti vuol dire tornare perennemente ad essa e di essa godere. Non c’è atto cristiano che non debba essere confrontato con queste poche righe per chiederci: esprime questa forza e questa certezza? Se la risposta è sì, allora possiamo tenerlo per buono; se la risposta è no, va rivisto e, se necessario, eliminato. Nel corso della lettera avevamo capito che il cristiano è sottratto al potere della “carne”, del peccato e della Toràh. Qui, per togliere anche la più remota possibilità che ci venga tolta la libertà, P. “infila” una serie di altri agenti pericolosi, esterni o interni, per dire che sono impotenti di fronte all’amore di Dio. Nulla e nessuno può strapparci dall’amore di Dio, neppure se siamo noi a volerlo. In Gesù il Padre ha chiarito di aver messo la sua onnipotenza a servizio della sua misericordia verso ogni angolo della nostra vita. Ci sono cose che non osiamo confessare neppure a noi stessi. Le scienze che ci studiano e che ogni giorno scoprono qualcosa di noi, ci danno una immagine della nostra finitezza e dei limiti della nostra libertà; ma agli occhi di Dio noi siamo grandi perché in “questa argilla” egli ha disegnato l’immagine del Figlio; un’immagine che noi vediamo con gli occhi della fede. E se vediamo questa immagine in noi, dobbiamo non dimenticare di vederla in ogni essere umano. Oggi questa visione soprannaturale si è fatta quanto mai difficile; ma proprio per questo è ancora più necessaria la speranza cristiana, di cui ogni credente trabocca, per ridare fiducia all’essere umano, soprattutto all’essere umano “senza qualità e che non conta nulla”. 90
Aggiungo solo una cosa: non dovremmo avere paura di “far passare” attraverso queste parole di P. tutta la nostra spiritualità e le nostre certezze. Questi versetti della Scrittura debbono fungere da “metal detector” per rivelare quanto c’è di inutile, di spurio, di superato e di inadeguato nel nostro modo di vivere la fede. Se così facciamo, gusteremo una grande libertà e vedremo ogni scelta morale che la fede ci chiede in una luce straordinariamente diversa. Lo stile di vita dei cristiani li deve autorizzare ad un annuncio credibile della libertà, per far giustizia di tante incrostazioni inutili che rendono il Vangelo difficile, superato e noioso per tanti nostri contemporanei. 3.3.16. La parola di Dio non è venuta meno (Rm 9,1-29) (a) Il testo Amarezza di Paolo e dignità di Israele Dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: 2ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. 3Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. 4Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; 5a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen. 1
La tesi di fondo 6a Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. La chiamata di Israele per elezione 6b Infatti non tutti i discendenti d’Israele sono Israele, 7né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli, ma: In Isacco ti sarà data una discendenza (Gen 21,12); 8cioè: non i figli della carne sono figli di Dio, ma i figli della promessa sono considerati come discendenza. 9 Questa infatti è la parola della promessa: Io verrò in questo tempo e Sara avrà un figlio (Gen 18,10.14). 10E non è tutto: anche Rebecca ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre; 11quando essi non erano ancora nati e nulla avevano fatto di bene o di male – perché rimanesse fermo il dise91
gno divino fondato sull’elezione, non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama –, 12le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore (Gen 25,23), 13come sta scritto: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù (Mal 1,2-3). L’insondabile libertà di Dio 14 Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! 15Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla (Es 33,19). 16Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia. 17 Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra (Es 9,16). 18Dio quindi ha misericordia verso chi vuole e rende ostinato chi vuole. 19Mi potrai però dire: «Ma allora perché ancora rimprovera? Chi infatti può resistere al suo volere?». 20O uomo, chi sei tu, per contestare Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». 21Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? 22Anche Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. 23E questo, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria, La chiamata dei gentili associati al popolo di Dio cioè verso di noi, che egli ha chiamato non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani. 25Esattamente come dice Osea: Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo e mia amata quella che non era l’amata (Os 2,25). 26E avverrà che, nel luogo stesso dove fu detto loro: «Voi non siete mio popolo», là saranno chiamati figli del Dio vivente (Os 2,1). 24
La salvaguardia di un resto in Israele 27 E quanto a Israele, Isaia esclama: Se anche il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, solo il resto sarà salvato; 28perché con pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra (Is 10,22-23). 29E come predisse Isaia: Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo divenuti come Sòdoma e resi simili a Gomorra (Is 1,9). 92
(b) Linee di analisi Ci sembrava di essere giunti al termine di un lungo cammino ed ora… dobbiamo riprendere un percorso difficile e accidentato. La lettura della lettera ai Romani è piena di sorprese. Siamo ora ai capp. 9-11 che saranno non semplici e immediati. Dobbiamo lasciarci coinvolgere dal grido di dolore di P. posto all’inizio e seguire il suo modo di procedere per districarsi da problemi che, a prima vista, gli sembrano insolubili. Per questo bisogna, se lo si vuole, avere la pazienza di seguire il discorrere paolino vedendone i passaggi logici più stringenti senza “perdersi” nelle difficoltà che un simile testo pone. Noi cercheremo di di raccogliere, dall’enorme lavoro compiuto dagli esegeti, le conclusioni che possono interessare la sua comprensione di massima e fornire spunti per la riflessione. La prima annotazione generale è che P. fa un discorso teologico; il suo problema centrale non è il destino di Israele, al quale egli appartiene secondo la carne, e neppure comporre e risolvere i problemi di convivenza pur esistenti nella comunità di Roma tra giudeo-cristiani e gentili. P. non ha neppure un intento sociologico nell’indagare la faticosa unità da creare tra cristiani provenienti dal giudaismo e dal paganesimo. il suo problema è quello di capire il modo di agire di Dio e di come, affermata la centralità assoluta di Gesù e della libertà dello Spirito, si possa ritrovare l’unità del suo piano salvifico. Non perdiamo di vista la “propositio” iniziale che Paolo, con un procedere complesso, vuole dimostrare: la Parola di Dio non è venuta meno (v. 6a). Altra questione preliminare è quella che si sono posti gli esegeti di fronte ad un testo fortemente unitario (capp. 9-11), ma nello stesso tempo “staccato” dal resto della lettera. Alcuni hanno addirittura parlato di un’interpolazione successiva. La conclusione, oggi unanime, è che il testo è ben integrato nello scritto paolino e che entra, anche se non sempre in modo chiaro ed evidente, nel ritmo e nella logica del discorso di P. per giungere alla conclusione finale di 11,32: Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti! Ci fidiamo dell’acquisizione dell’esegesi senza accennare a tutte le ipotesi e le spiegazioni che sono state date per giungervi. P. in 9,1-29 e in 11,1-32 considera la situazione di Israele partendo dalla parola e delle scelte di Dio, mentre in 9,30-10,21 è di scena il con93
trasto tra Israele e le nazioni. Il brano che stiamo esaminando è caratterizzato dalle citazioni bibliche del Primo Testamento; a conti fatti esse costituiscono il 39 % del testo stesso. Per agevolare la lettura le citazioni sono scritte in tondo, con l’indicazione del libro da cui sono tratte; con l’aggiunta di titoletti si è cercato di evidenziare la divisione del brano; seguendola con attenzione si coglie il percorso del pensiero di P. • v. 1. È un vero e proprio giuramento. • v. 3. Si tratta, ovviamente, di un paradosso che aiuta a comprendere lo stato d’animo di P., discepolo di Gesù Cristo di origine ebraica. • v. 4. Elenco di ben 9 prerogative di Israele. • vv. 6b-13. È presentata la storia dei Patriarchi, mostrando l’atteggiamento “selettivo” di Dio per cui c’è una distinzione da fare a proposito di Israele; anche se solo pochi (è questo il problema di Paolo) hanno accolto Gesù come Messia e Salvatore, la Parola di Dio è salda perché un “resto”, di cui lo stesso P. fa parte, lo ha accolto. • vv. 7-13. Dimostrano quello che è appena stato detto seguendo le vicende dei primi tre Patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe). È chiaro che questi versetti tendono a spiegare la tesi espressa in 9,6b (non tutti i discendenti di Israele sono Israele) e quindi P. può ben affermare che Dio non è ingiusto (v. 14). • vv. 14-23. P. procede con affermazioni molte dure che mettono in risalto l’assoluta libertà di Dio nelle sue scelte. È sotteso il problema della libertà umana, ma su questo torneremo nella meditazione. • vv. 24-26. P. opera una “capriola” esegetica; il testo di Osea si riferisce a Israele stesso: qui viene applicato alla vocazione dei pagani. Tutto il ragionamento di P., che trova nel “Resto di Israele” l’unità del piano di Dio non contraddetto dalla non adesione in massa verso Gesù, origina un ulteriore problema. Bisogna spiegare come il “Resto” entri nella storia della salvezza operata ormai esclusivamente da Cristo. Dovremo aspettare il cap. 11 per avere la risposta a questa domanda. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Di fronte ad un brano così complesso procedo mettendo insieme le riflessioni che esso ha suscitato in me. La prima riguarda lo stato d’animo di P.; per lui essere di Gesù è essenziale e decisivo (Non sono 94
più io che vivo, è Cristo che vive in me), eppure enfatizza il suo dolore per la non adesione di Israele al punto da voler essere senza Cristo purché lo abbiano i suoi fratelli secondo la carne. Viene da chiederci se per noi la fede in Gesù ha la stessa importanza. Un male inteso senso di tolleranza può farci ritenere che essere con Cristo o senza di lui non sia così decisivo. La conseguenza è di non considerare triste e problematico che la maggior parte dell’umanità non conosca e non ami Gesù. Non vuol dire che questa parte dell’umanità sia fuori dalla salvezza; ma certo non amare Gesù è una privazione di rilievo. In fondo pensiamo che sia una disgrazia maggiore non avere soldi, non godere dei benefici del progresso oppure non godere buona salute rispetto a non avere fede e amore verso Gesù. Ancora: mi chiedo quale atteggiamento ho verso il popolo eletto da Dio e mai abbandonato da lui. Storicamente si intrecciano sentimenti molto diversi, ma il cristiano deve pensare agli ebrei partendo dal fatto che essi sono la nostra “radice santa”. Il rapporto con il popolo ebraico non è un capitolo trascurabile della nostra fede. Gesù è, secondo la carne, ebreo; così pure Maria, Giuseppe e tutti gli apostoli. Fino al VI/VII secolo è esistita una significativa chiesa giudeo-cristiana; oggi è ridotta al lumicino, ma è un segno storico-religioso importante. Ci sono problemi politici enormi determinati dallo Stato di Israele, ma il popolo ebraico è realtà diversa rispetto allo Stato di Israele; spesso si confondono i piani e non si distingue adeguatamente quello storicopolitico da quello teologico. Inoltre, prima o poi, dovremo pensare anche all’Islam partendo dal comune Padre Abramo. C’è un grande Mistero ancora sigillato nella chiamata di ebrei, cristiani e musulmani a partire dalla comune origine abramitica; ma più di così non so dire. Accenno al problema della libertà. L’immagine del vasaio, che P. prende dal profeta Geremia, spiega bene la libertà di Dio ma lascia in ombra la nostra. Forse P. ha potuto parlare in termini così decisi e duri della libertà insindacabile di Dio proprio perché aveva appena terminato di dettare l’inno della libertà secondo lo Spirito. Io vedo questo problema come la questione delle “domande giuste”. Molto spesso non si trovano le risposte perché sono sbagliate le domande. Molto dell’ateismo contemporaneo, paradossalmente, è nato all’interno della libertà esaltata dal cristianesimo. 95
Se Dio c’è e fa quello che vuole ed io con lui non posso discutere, allora significa che io non sono libero; o io con la mie ragioni, la mia intelligenza, i miei desideri… la mia libertà, o Dio che mi sovrasta con la sua onnipotenza e mi sottomette alla sua obbedienza. Se la domanda nasce da una alternativa, non c’è che la risposta dell’ateismo; la mia libertà è troppo importante perché io ci possa rinunciare per un qualsiasi motivo. Ma la domanda va posta non in alternativa ma sul “fondamento”: dove poggia la mia libertà perché sia garantita e riscattata dai mille limiti che emergono ogni giorno? Paradossalmente è più difficile concepire la libertà dell’essere umano oggi che solo cento anni fa. Oggi conosciamo tali e tanti condizionamenti da far emergere la domanda: Ma la libertà umana non è una illusione? La fede diventa liberante nel momento in cui rivolgiamo questa domanda al vasaio: Tu ci tieni a me, mi difendi, mi lasci anche un piccolo spazio di libertà perché possa andar fiero di me, oppure davvero mi hai fatto come un “giocattolo” nelle tue mani e nelle mani dei milioni di geni che decidono per me? La risposta della Parola è rassicurante e bella: io sono un Vasaio che ti ama; sono felice che tu esista e, anche se ora non senti le mie mani che ti formano, esse ti sosterranno sempre e non ti distruggeranno più. La storia della salvezza è complessa; la vicenda dell’elezione di Israele è solo l’inizio di un lungo cammino che, cristianamente parlando, raggiunge il suo apice nella rivelazione della misericordia incondizionata di Dio, in Gesù. In lui la storia raggiunge il suo apice ma non il suo termine. La misteriosa Sapienza che ha condotto le vicende dell’universo fino a fargli ospitare la storia umana, continua oggi con il dono dello Spirito. Lo scopo è quello di mostrare la bellezza e la grandezza della vita che, pur ancora inserita debole e trepidante nella storia mutevole, dolorosa e incerta, è nella mani di Colui che tutto sa e tutto conosce. Non potrebbe esserci terreno “più solido” su cui la “piccola libertà”, che pur mi rimane, può divertirsi, correre, godere e vivere nella speranza che scaccia ogni paura.
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3.3.17. Il termine della Toràh è Cristo (Rm 9,30-10,21) (a) Il testo Che diremo dunque? Che i pagani, i quali non cercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia, la giustizia però che deriva dalla fede; 31 mentre Israele, il quale cercava una Toràh che gli desse la giustizia, non raggiunse lo scopo della Toràh. 32E perché mai? Perché agiva non mediante la fede, ma mediante le opere. Hanno urtato contro la pietra d’inciampo, 33 come sta scritto: Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e un sasso che fa cadere; ma chi crede in lui non sarà deluso (Is 28,16; 8,14). 10 1Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza. 2Infatti rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. 3Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. 4Ora, il termine della Toràh è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede. 5Mosè descrive così la giustizia che viene dalla Toràh: L’essere umano che la mette in pratica, per mezzo di essa vivrà (Lv 18,5). 6Invece, la giustizia che viene dalla fede parla così: Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? (Dt 30,12) – per farne cioè discendere Cristo –; 7oppure: “Chi scenderà nell’abisso?” (Sal 107,26) – per fare cioè risalire Cristo dai morti. 8Che cosa dice dunque? Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore (Dt 30,14) , cioè la parola della fede che noi predichiamo. 9Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. 10Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. 11Dice infatti la Scrittura: “Chiunque crede in lui non sarà deluso” (Is 28,16). 12Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. 13Infatti: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Gl 3,5). 14Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? 15E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene! (Is 52,7; Na 2,1) 16Ma non tutti hanno obbedito al Vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto dopo averci ascoltato? (Is 53,1). 17Dunque, 30
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la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo. 18Ora io dico: forse non hanno udito? Tutt’altro: “Per tutta la terra è corsa la loro voce, e fino agli estremi confini del mondo le loro parole” (Sal 18,5). 19E dico ancora: forse Israele non ha compreso? Per primo Mosè dice: Io vi renderò gelosi di una nazione che nazione non è; susciterò il vostro sdegno contro una nazione senza intelligenza (Dt 32,21). 20Isaia poi arriva fino a dire: “Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me” (Is 65,1), 21mentre d’Israele dice: Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle! (Is 65,2). (b) Linee di analisi P. inizia questa nuova sezione con un paradosso (artificio retorico per attirare l’attenzione): Come mai i gentili hanno ottenuto la giustizia senza cercarla, mentre Israele, pur cercandola, non l’ha trovata? Risposta: perché Israele si è fidato delle opere della Toràh e non della fede; sbagliata non è la Toràh ma il modo con cui Israele l’ha vissuta (cfr. 9,30-32). Si possono, così, distinguere tre parti: - vv. 9,30-10,4: la giustizia di Dio è slegata dalle opere ed legata alla fede del credente; - vv. 5-13: Cristo è il centro della fede; - vv. 14-21: la Parola del Vangelo è per tutti e ed è annunziata a tutti; anche a Israele, che non ha scuse. • v. 9,32. La pietra di inciampo per l’Israele incredulo è l’evento di Cristo; più precisamente la sua morte in Croce. In questo evento scandaloso gli Israeliti non hanno saputo riconoscere il Messia. • v. 1. C’è la grande sofferenza di P. per gli Israeliti che non hanno accolto Cristo. • v. 2. Lo zelo degli Israeliti per Dio è autentico, ma essi non hanno la consapevolezza che la giustizia arriva solo attraverso la fede in Cristo; lo zelo, che P. riconosce, non ha portato nella giusta direzione. • v. 3. P. spiega le ragioni di questo fatto; stabilire la propria giustizia, cioè seguendo la Toràh senza aprirsi alla fede. • v. 4. Questo versetto conclude l’argomentazione precedente ed apre alla dimostrazione di questa “tesi”: Cristo è il fine (o la fine?) della 98
Toràh. La discussione è sul significato preciso del termine tèlos (= fine, raggiungimento, pienezza) ed anche se la fede in Cristo sia il risultato della Toràh (= la Toràh porta a Cristo), oppure se la fede in Cristo ponga fine alla Toràh. P. non dice che la Toràh è abrogata; in ogni caso, qualunque sia il significato da dare al termine tèlos (il fine o la fine), resta il fatto che Cristo è la via della giustizia per chiunque crede. Questa è la tesi che P. intende dimostrare nei vv. 5-21. vv. 5-13. Le prove addotte a sostegno della giustizia della fede sono tutte tratte dall’A.T. vv. 14-17. È l’aspetto “missionario” della fede espresso in una efficacissima sintesi. vv. 18-21. Israele è senza scuse. P. non commenta neppure i testi citati: si affida alla Scrittura per mettere Israele con le spalle al muro. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Noi capiamo bene il problema di P.: egli da ebreo, convinto che Colui che gli si è manifestato sulla strada di Damasco sia il Messia atteso da Israele, ha impiegato parecchio tempo (almeno tre anni) prima di capire quello che una simile rivelazione ha significato per lui. Il problema non è solo di P., ma anche della Chiesa primitiva che ha in sé una forte componente giudaica. Che cosa resta della parola di Dio? Perché Israele non ha riconosciuto in massa il suo Messia? Può Dio aver abbandonato il suo popolo in favore dei gentili? Esiste ancora una unità nel disegno di Dio? E questo disegno com’è ora, quando Cristo è posto al centro della giustizia di Dio? Non serve più la Toràh? E se ora solo Cristo dona la giustizia, la Toràh esiste ancora? In qualche modo anche noi, donne e uomini del XXI secolo, abbiamo gli stessi problemi, anche se appaiono con sembianze diverse. Le nostre domande potrebbero essere: ma se ho ottenuto giustizia da Dio tramite Gesù, perché sono ancora esposto al peccato? Cosa significa per me la centralità di Cristo? Esistono ancora i comandamenti per me’? E se solo Cristo e la fede in lui portano alla giustizia di Dio, quelli che non lo conoscono o non credono possono essere raggiunti dalla giustizia di Dio? Tutta la lettera ai Romani permette di rispondere a queste domande; ciò è possibile solo ad una condizione: che ci si metta all’ascolto del 99
Vangelo della grazia e si lasci cadere la presunzione di mettere al centro l’impegno umano; occorre lasciar “spadroneggiare” la Grazia. A Paolo questo è costato molto ed è quello che noi chiamiamo “conversione”. Dunque è richiesto il cambiamento del cuore e della mente. Se diamo troppa importanza alla “legge” (comunque intesa: “naturale”/ comandamenti, ecclesiastica, civile, legge dispotica del “comune sentire”, perbenismo…), noi perdiamo il senso del Vangelo e, alla fine, della legge stessa. La giustizia (cioè l’essere santi e salvati) viene da Dio non come ricompensa ma come grazia. Si può vivere realmente di questa giustizia e iniziare a vivere la salvezza, credendo nel giuramento che il Padre ha fatto sulla Croce del Figlio ed ha sigillato con lo Spirito santo. Chiedo a me, innanzitutto, quanto del mio cammino di credente è animato, sostenuto, gioiosamente vissuto in questa prospettiva. Vedo in me (ma anche in molti altri) una prospettiva diversa. Non credo fino in fondo che la mia giustizia nasca dal perdono di Dio; questo non toglie nulla alla mia responsabilità e al mio impegno, ma il perdono di Dio rende efficace e sensata la mia obbedienza verso la Toràh. Senza la misericordia non vado da nessuna parte, perché l’obbedienza alla Toràh non mi rende giusto. Non è facile entrare in questa prospettiva. Mille progetti educativi, mille percorsi formativi, mille “parole” ritenute cristiane non nascono dalla prospettiva radicalmente rovesciata dall’evento della Croce di Gesù, ma sono ancora – di fatto anche se non ammesso – nella prospettiva di Dio che ti fa grazia perché tu glielo chiedi. Il Vangelo (cioè Gesù) porta a compimento il percorso fatto dalla giustizia di Dio nel tempo della Toràh fine a se stessa. La Toràh assume un significato diverso: credo che siano soprattutto i Vangeli a farlo capire; P. incomincerà un poco nei prossimi capitoli della lettera. La Toràh c’è ancora, ma la Toràh è riassunta in Gesù. È cambiato il punto di partenza e il punto di arrivo. La partenza è il perdono della Croce e il punto di arrivo è la santificazione-giustificazione per opera dello Spirito santo. Salva è la Toràh che continua, negli ebrei, il suo significato pedagogico verso Gesù; salvo è il Vangelo della Grazia che è messo a disposizione di tutti e salva è la Chiesa, comunità che ha il compito di vivere 100
seriamente il Vangelo (non la Toràh) per “far ingelosire” (cfr. il prossimo brano) il mondo e portarlo a Gesù. 3.3.18. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti! (Rm 11,1-36) (a) Il testo
Io domando dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. 2Dio non ha ripudiato il suo popolo (1Sam 12,22; Sal 93,14), che egli ha scelto fin da principio. Non sapete ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele? 3 Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno rovesciato i tuoi altari, sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita (1Re 19,10-14). 4Che cosa gli risponde però la voce divina? Mi sono riservato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal (1Re 19,18). 5Così anche nel tempo presente vi è un resto, secondo una scelta fatta per grazia. 6 E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. 7Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, 8come sta scritto: Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire, fino al giorno d’oggi (Dt 29,3; Is 29,10). 9 E Davide dice: Diventi la loro mensa un laccio, un tranello, un inciampo e un giusto castigo! 10Siano accecati i loro occhi in modo che non vedano e fa’ loro curvare la schiena per sempre! (Sal 68,23s). 11 Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti, per suscitare la loro gelosia. 12Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità! 13A voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, 14nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. 15Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti? 16Se le primizie sono sante, lo sarà anche l’impasto; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. 17Se però alcuni rami sono stati 1
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tagliati e tu, che sei un olivo selvatico, sei stato innestato fra loro, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, 18non vantarti contro i rami! Se ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. 19 Dirai certamente: i rami sono stati tagliati perché io vi fossi innestato! 20Bene; essi però sono stati tagliati per mancanza di fede, mentre tu rimani innestato grazie alla fede. Tu non insuperbirti, ma abbi timore! 21 Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te! 22 Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità verso quelli che sono caduti; verso di te invece la bontà di Dio, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai tagliato via. 23Anch’essi, se non persevereranno nell’incredulità, saranno innestati; Dio infatti ha il potere di innestarli di nuovo! 24Se tu, infatti, dall’olivo selvatico, che eri secondo la tua natura, sei stato tagliato via e, contro natura, sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo! 25 Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. 26Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: “Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. 27Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati” (Is 59,20ss). 28 Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, 29infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! 30Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, 31così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. 32Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti! 33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! 34 Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? 35O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne 102
il contraccambio? 36Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen. (a) Linee di analisi L’intero capitolo è diviso in tre parti che seguono (come del resto in tutta la lettera, anche se non sempre l’abbiamo sottolineato) precise regole della retorica classica. Qui c’è una “propositio” (v. 11,1a: Dio non ha ripudiato il suo popolo) a cui segue una “probatio” (vv. 1b-25): cioè una dimostrazione di quanto detto per concludere con una “peroratio” finale vv. 25-36 sotto forma di lode che riassume e conclude il Mistero divino che prevede la salvezza finale di tutto Israele. Dopo aver messo il suo popolo “con le spalle al muro”, P. subito si pone il problema della sorte dei giudei che hanno rifiutato Cristo; da questo intento nasce questo capitolo che affronta il tema del rapporto tra Israele e i gentili con l’aiuto (come vedremo) di una metafora ardita. • vv. 1-2. Dio ha rifiutato il suo popolo? Assolutamente no! E la prima prova è l’esperienza stessa di P. giudeo rigorosamente osservante che è diventato discepolo di Gesù Cristo. • vv. 5-6. La teoria del “Resto” permette una prima risposta alla domanda iniziale. Ma ne sorge subito un’altra: Ma quelli che sono rimasti increduli quale fine faranno? • v. 7. È vero: gli altri si sono induriti. Ciò non meraviglia assolutamente, giacché anche questo fa parte del piano di Dio come dicono le Scritture (v. 8). • v. 11. Il problema si fa acuto: hanno inciampato, ma sono caduti per sempre? Prima di rispondere a questa domanda P. fa una digressione. La “caduta” di Israele ha favorito il passaggio dei gentili al Vangelo. Il rifiuto di Israele ha aperto la strada verso l’universalità. Questo permette a P. di pensare che il rifiuto non sia definitivo; tant’è vero che con la sua predicazione spera di far ingelosire il suo popolo (v. 14). La logica di P. è chiara: se dal rifiuto di Israele è venuto un bene così grande, la sua riammissione porterà a qualcosa di ancora più grande paragonabile solo a una resurrezione (v. 15) • v. 16. P. non aggiunge nulla di nuovo: ricorre a due paragoni per illustrare meglio il suo pensiero e la sua speranza per Israele. Il primo 103
paragone è quelle delle primizie: si offre una parte del raccolto (“resto”) ma per significare che tutto il raccolto appartiene a Dio. Il secondo paragone è quello dei due ulivi. È un bel paragone …anche se botanicamente sbagliato. Infatti, in botanica, è la radice che è selvatica ed è l’innesto che è l’ulivo migliore. Alcuni rami sono stati tagliati (= gli israeliti che non credono) e al loro posto sono stati innestati i rami selvatici (= gentili). La radice li ha resi buoni e quindi non si devono insuperbire perché potrebbero essere tagliati anche loro (vv. 20-21). • vv. 23-24. Contro ogni procedimento corretto di innesto Dio può fare ciò che all’essere umano appare impossibile. Il paradosso contiene tutta la speranza di P. per la salvezza di Israele. • v. 25. A questo punto viene svelato il Mistero della misericordia riassunto in modo chiaro e preciso nel v. 32. • vv. 33-36. Lode della grandezza della misericordia di Dio che, attraverso le complessità della storia, raggiunge il compimento del suo disegno di salvezza universale. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi La riflessione di P. non fa una grinza, piuttosto pone a noi, che cerchiamo di essere cristiani, qualche problema: non ci fa bene, infatti, sentirci paragonati all’ulivo selvatico. Sembra quasi che Gesù voglia bene a tutti ma a qualcuno ne voglia in modo peculiare. Fosse anche così, dovrei stare tranquillo… purché Gesù ami anche me. In realtà il discorso di P. è teologico generale, anche se, secondo me, è innegabile che egli abbia un “occhio particolare” per Israele. Dobbiamo pensare che, al di là di qualche accento pur rintracciabile nel discorso di P. (cfr. v. 24), noi non siamo stati innestati come “ripiego” per rimpiazzare i rami tagliati. La Grazia è un dono per tutti ed è uguale per tutti… anche se possiamo concedere che gli ebrei stiano in prima fila (ma Gesù dirà che i primi saranno gli ultimi e viceversa). Resta che Israele è il popolo eletto da Dio e che i doni di Dio non decadono mai. Il punto è che anche noi, ulivo selvatico, siamo il popolo eletto da Dio. Ecco il grande Mistero: il popolo scelto da Dio per iniziare il suo cammino pedagogico in vista di Gesù, in realtà serve per introdurre 104
tutta l’umanità nella rivelazione dell’amore gratuito di Dio. Si avvera la profezia contenuta nel libro di Giona: forse che Dio può non aver misericordia di donne, uomini e animali? Per Grazia siamo tutti salvati e per Grazia saranno salvati tutti quelli che, a tutt’oggi, non sono innestati nell’ulivo buono. C’è da dire che il “vero ulivo” è Gesù perché in lui siamo innestati e siamo diventati popolo. Lui è la vite e noi i tralci. Ma qui viene il punto: dobbiamo stare attenti che non avvenga per noi quello che è avvenuto per una parte di Israele (v. 22). La nostra chiamata è frutto della misericordia e anche se eravamo il popolo “senza Toràh”, ora siamo il popolo con Gesù (che “è” la Toràh) e quindi siamo, tutti insieme, popolo di Dio. Abbiamo perciò la stessa missione: annunciare la misericordia che toglie il peccato e non solo lo perdona. Il piano di Dio è uno solo. P. si è “spaventato” quando ha fatto esperienza di Gesù; avrà detto a se stesso: ma ora cosa faccio? Resto fariseo? Divento cristiano? E quale tipo di cristiano? La trasformazione della Chiesa è solo all’inizio. Se non mi rendo conto che tutti siamo disobbedienti, difficilmente troveremo misericordia. Tu “credente e praticante”, non sei più meritevole di un “mal credente” e di un “non praticante”. Anche la presenza di Dio nella tua vita è solo Grazia. Pertanto non potrai dire di essere amato di più e, se sei umile, non pretendere nemmeno di poter dire che ami di più. La Toràh, che esiste ancora ed è ben salda (lo vedremo presto), è diventata il frutto della misericordia e non la condizione per ottenerla; se pensi che la misericordia di Dio sia la risposta alla tua obbedienza alla Toràh, resterai senza misericordia perché rendi inutile la Croce di Gesù. Questo vale all’interno della Chiesa ed anche della Chiesa verso l’esterno, Islam compreso. Nel Mistero svelato da Dio attraverso l’esperienza di Israele e di P. c’è un posto anche per i discendenti di Abramo nati dalla schiava. Dio è il Signore della Storia e i credenti in Gesù Cristo, come P., piegano le ginocchia di fronte al grande Mistero, non per difendere il privilegio della chiamata alla fede ma per prepararsi all’ingresso di quelli di fuori. Anche se pochi credono in Gesù, la salvezza, testi biblici alla mano, passa per tutti dalla sua Croce; brandire la Croce contro qualcuno è il modo più tragico di tradire la Croce. 105
È chiaro, allora, che la missione cristiana è molto impegnativa; tanto impegnativa da far dire che è scaduto il tempo di un cristianesimo senza Grazia e di una Chiesa senza misericordia. Vivere il cristianesimo come è stato vissuto negli ultimi secoli non basta più. Ogni epoca ha la sua esigenza: ora il mondo occidentale vuole la radicalità del Vangelo e il mondo orientale, con il Sud del pianeta, vuole che sia fatta misericordia per tutti e che la libertà dello Spirito porti luce e coraggio dove c’è paura e buio. 3.3.19. Rinnovate il vostro modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio (Rm 12,1-2) (a) Il testo Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il culto logico che vi compete. 2Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando la vostra mentalità, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. 1
(b) Linee di analisi Le prime parole di P., “Vi esorto dunque, fratelli”, indicano con chiarezza che è iniziata una parte nuova della lettera, quella che comunemente gli esegeti chiamano “parenetica” (esortativa). Vengono tirate le conseguenze etiche di quanto detto finora. P. ha appena glorificato Dio per l’universalità della salvezza. Israele deve sapere che finché penserà che la salvezza gli sarà attribuita per la sua obbedienza alla Toràh e non per la fede, non l’otterrà. I gentili (cioè tutti gli altri non ebrei) devono sapere che anche per loro non contano le opere per avere la giustizia, ma solo la fede nella misericordia di Dio. Allora: che fare? P. non si sottrae alla domanda e indica quali sono le esigenze che nascono dall’essere un cosa sola con Cristo. Il primato dell’amore del Padre in Cristo Gesù è assoluto, il sigillo dello Spirito per la conferma dell’unione con Gesù è essenziale, da qui nasce il comportamento della nuova creatura: è l’inizio del regno di Dio sulla terra che, con la fatica e la lotta di poter fare ancora peccati, 106
si compirà nel futuro escatologico in cui l’Amore sarà in tutte le cose (cfr. Rm 8). I primi versetti del cap. 12 sono programmatici: se è chiaro l’evangelo appena annunciato, la salvezza che viene dalla fede chiede al credente di “offrire” il suo corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. • v. 1. Stando al significato “pieno” più volte attestato il verbo usato da P. andrebbe così tradotto: “Vi esorto, vi avviso, vi prego e vi incoraggio”. Per la misericordia di Dio = in forza della tenerezza intensamente misericordiosa di Dio che io vi ho appena annunciato. Il termine “corpo” qui usato va inteso in tutta la sua pregnanza; esso significa l’intera realtà dell’uomo: fisica, affettiva, intellettuale, pratica; insomma tutta la vita. Santo: non va inteso in senso statico, ma dinamico; santità è la continua e progressiva fedeltà alla giustizia di Dio. Sacrificio spirituale. Il termine usato da P. (loghikòs) è stato tradotto spesso in modo molto inadeguato (anche nella C.E.I. 2008). Si dovrebbe tradurre forse con intelligente, ossia logico nel senso di pienamente in sintonia con la Grazia ricevuta e con l’essere una cosa sola con Cristo Gesù. • v. 2. Questa offerta logica è decisiva ed esprime il mutamento radicale operato dalla fede. Potremmo tradurre così: non lasciatevi più trasformare dal modo di vivere del tempo presente. Lasciatevi, invece, trasformare profondamente, rinnovando continuamente e radicalmente la vostra mentalità. • v. 2b. Indica la modalità di questa quotidiana trasformazione: il continuo discernimento della volontà di Dio, cioè la scoperta in tutte le cose di come si esprime e cosa chiede la misericordia divina. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Ogni cristiano dovrebbe avere la sua “regola di vita” e all’inizio dei propri intendimenti e propositi dovrebbe scrivere questi due versetti. In essi sono contenuti lo stile e l’essenziale della vita del discepolo di Gesù. Si vede subito che c’è una profonda sintonia con l’offerta eucaristica. Il termine stesso è usato da P. e tradotto così: gradito a Dio (v. 1). Se tutto prende inizio dalla fede nell’amore di Dio (non nel cercare di raggiungerlo, di suscitarlo e di meritarlo), è chiaro che la prima cosa da fare è ringraziare. 107
Questo ringraziamento non può essere solo a parole e con qualche preghiera, ma deve diventare la vita stessa. Nella prospettiva della misericordia ricevuta ogni atto umano, ogni respiro, ogni componente dell’essere umano, ogni movimento della mente e del cuore non possono che diventare un “grazie alla Grazia”. È questo il motivo dell’intramontabile e indistruttibile “ottimismo” cristiano. Se persino il peccato di Israele ha avuto il “vantaggio” della conversione dei gentili, a maggior ragione anche il nostro peccato è trasformato dalla misericordia di Dio a nostro vantaggio. Dio accoglie il nostro peccato e non solo lo elimina, ma da esso trae, se così si può dire, amore e tenerezza ancora maggiori per noi. A questo punto dopo il grazie non può che esserci l’offerta di sé. Sacrificio non vuol dire dolore, sangue, negatività, ma significa abbandono semplice, filiale, totale. Questo in molti casi implica una distacco e magari anche la sofferenza; in altri casi richiede l’accettazione di un passaggio incomprensibile; in altri casi ancora la gioia di un abbandono che consola e rafforza. Di fede in fede, cioè di fiducia in fiducia, di offerta in offerta si entra nella “logica” cristiana. Non esiste una strada diversa. Ne vengono almeno due conseguenze importanti. La prima è già contenuta in questi versetti, la seconda diventerà chiara più avanti. Parliamo, per ora, della prima: si tratta della “cultura cristiana”. È un termine non usato da P. e che anche noi dobbiamo maneggiare con una certa cura. Se la cultura è la stessa cosa della mentalità (cioè della visione complessiva della vita), quando essa viene espressa in ragionamenti, usi, costumi e pratiche quotidiane, si vede subito che la fede non è estranea alla cultura, cioè al modo normale di vivere e di esprimersi. Nello stesso tempo si vede subito che la fede stessa si può esprimere in modo non solo diversissimo, ma che essa stessa ci giunge testimoniata da una cultura. Il modo di vivere di P. era diversissimo dal nostro, ma il “suo” Vangelo ci ha fatto scoprire il Vangelo di Gesù e, con l’intelligenza della fede e l’aiuto delle sorelle e dei fratelli (Chiesa) esso è diventato il “nostro” Vangelo. Esso è infallibilmente identico a quello proclamato nella vicenda storica e nella Pasqua di Gesù nazareno ed insieme può essere vitalmente espresso nelle nostre abitudini, nella nostra lingua, nel nostro gusto, nelle nostre soluzioni dei problemi, cioè nella nostra vita di oggi. 108
Questo “corpo”, che è ciascun essere umano, è in “stato di offerta”, oggi come al tempo di P, e, oggi come al tempo di P., fa esperienza della misericordia. Se apparisse oggi P. nelle nostre strade, probabilmente non capirebbe nulla; se entrasse in una chiesa non so se si renderebbe consapevole di dove si trova (c’è una cultura diversa). Se sentisse parlare di Gesù, se vedesse la gente pregare e celebrare l’Eucaristia, soprattutto se vedesse l’amore tra fratelli e sorelle nel nome di Gesù, capirebbe che, con le differenze storico-culturali di quasi venti secoli, stiamo vivendo della stessa misericordia e dello stesso Signore. Tutto è cambiato perché nulla è cambiato: questo è la forza dell’evangelo sempre vivo e sempre in grado di offrire ragioni per vivere. 3.3.20. Non stimatevi sapienti da voi stessi (Rm 12,3-16) (a) Il testo Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. 4Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, 5così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri. 6Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; 7chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all’insegnamento; 8 chi esorta si dedichi all’esortazione. Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia. 9L’amore non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; 10 amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. 11Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. 12Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. 13Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità. 14Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 15Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. 16Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso 3
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gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi. (b) Linee di analisi Dopo l’invito-supplica che abbiamo visto, P. usa ancora una espressione solenne per indicare l’importanza di ciò che sta per dire. P. ha davanti una comunità che al proprio interno contiene differenze da vario genere capaci di generare anche tensioni. Ogni invito etico suppone una base previa per essere ben compreso; qui, parlando alla comunità dei cristiani di Roma, P. parte dal presupposto di ciò che è importante per la vita comunitaria. All’invito iniziale (v. 3) fanno seguito due criteri importanti per la vita della comunità: quello della misura, e quello dell’accoglienza della diversità. Su questa base si possono fondare comportamenti quotidiani edificanti per l’esistenza della comunità stessa. (vv. 9-16), primo fra tutti l’umiltà. • v. 3. P. si mette in prima persona e, basandosi sulla sua autorità apostolica, indica ciò che è importante per la vita della comunità: l’equilibrio. I termini usati chiedono di non sopravvalutarsi più di quanto sia conveniente. Il dominio di sé non si riferisce tanto al tenere a freno i propri istinti, quanto piuttosto a valutare con attenzione il proprio posto e ruolo nella comunità. Si tratta di controllare la propria autostima in rapporto agli altri cristiani. Il v. 3b usa una espressione interessante anche se di non facile interpretazione. Qual è il criterio per applicare con correttezza questa autostima? Risposta: la misura (mètron) della fede. Che cosa significa? Da varie interpretazioni ho ricavato questa conclusione: la misura della fede viene conosciuta nell’intimo del rapporto tra l’essere umano e Dio. Se si affida la vita a Dio, proprio in questo affidamento si scopre il senso della responsabilità che la giustizia di Dio affida. In altre parole è la fede, cioè il dono di Dio, che giudica e fonda l’equilibrio che si deve vivere nella comunità. Affidarsi alla fede vuol dire spogliarsi di ogni autosufficienza e saper valutare se stessi alla luce del dono ricevuto. • vv. 4-5. questi versetti sottolineano la dialettica ecclesiale tra unità e molteplicità; P. usa una immagine che ha già usato altrove e che gli è cara (cfr.1 Cor 12). 110
• vv. 6-8. Partendo da questa visione pluralistica vengono visti nel dettaglio alcuni misteri e il modo con cui debbono essere esercitati. • v. 9. È forte e introduce (vv. 9-13) il tema dell’amore vicendevole all’interno della comunità. Si richiama la necessità di un amore profondamente sincero, lontano da ogni ipocrisia16 . • vv. 10-16. Questa sezione è costituita da una lunga serie (circa venti) di esortazioni brevi, a cascata, e accumulate in poche righe17. Su esse si è molto indagato sia per la loro formulazione (quasi tutte con verbi al participio presente, plurale, maschile), sia per chiedersi la fonte e l’origine (biblica? Extrabiblica? Da una fonte pre-evangelica?). (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Per un attimo chiudo gli occhi e mi immagino che cosa mi aspetterei, in base alla mia formazione e alla mia esperienza cristiana, come inizio solenne e importante di una trattazione morale. Non ho dubbi: mi vengono in mente i comandamenti e poi il mio personale comportamento: pensieri, parole, opere; preghiera, sacramenti, fedeltà… Penso che a nessuno verrebbe in mente di metter al centro della morale che nasce dalla giustizia la cura dei rapporti ecclesiali. Se non vengono in mente a un prete figurarsi a un laico che si sente parte della Chiesa, ma pensa – per secoli lo si è educato in questa prospettiva – di non aver nessuna responsabilità diretta nel farla nascere e tanto meno nel farla crescere. P., invece, parte dalla responsabilità nei confronti della comunità. Questo inizio è sorprendente: si deve dimostrare la santità e la misura della fede che si sono ricevute davanti alla propria comunità prima che Commentando il v. 9b Lutero scrive: «Quando con tutta sicurezza e dedizione amiamo una persona siamo disposti con ogni sforzo a sostenerla e a difenderla, qualsiasi cosa essa pensi; non ci diamo da fare per vedere come riconoscere il bene ed il male [in lei], ma cerchiamo soltanto di far sì che siffatta persona non sembri avere in sé il male o il bene. Perciò è un costitutivo essenziale dell›amore simulato odiare il bene e aderire al male» (La lettera ai Romani, pp. 660-661). 17 Interpretando il v. 11b Lutero si esprime così: «Colui che agisce in modo tiepido, è necessariamente fervoroso nella carne. Perciò è necessario che «distrugga le sue opere», quelle cioè che egli fa mediante il fervore della carne. È come il caso d’un cuoco pigro che, mentre sta preparando una portata, si comporta in modo tale da lasciar raffreddare il cibo nel versarlo nei piatti. Chi non odierebbe a buon diritto quest’uomo?» (La lettera ai Romani, p. 664). 16
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davanti alla propria coscienza. Ma non è una esagerazione? Sembrerebbe di no. Se mettiamo al centro la giustizia di Dio (ormai sappiamo che cosa significhi questa espressione) ne viene per noi la necessità di scoprire una nuova antropologia e cioè una antropologia fondamentalmente di relazione e di comunione. Il primo impegno è far bella la Chiesa, curando i rapporti tra i membri della comunità ecclesiale. Dobbiamo riconoscere che P. prospetta una situazione che è lontana anni luce dalle preoccupazioni quotidiane di chi, per es., frequenta regolarmente le assemblee eucaristiche e i culti domenicali. Come nel cammino di fede abbiamo scoperto la necessità di una “inversione” per entrare in un’altra “logica” che è quella della fede come risposta e non come impegno, così la giustizia donata chiede di mettere al primo posto la visione comunitaria della vita. La libertà si scopre come legame stretto con le sorelle e i fratelli: questo è il presupposto di ogni discorso morale che accoglie la novità dell’evangelo. È come se Dio mi dicesse: non trattenere per te neppure per un istante la Grazia che ti è stata donata: basta poco e non c’è più. Vivila nel dono, mostra la tua santità, ama e la giustizia non si allontanerà mai da te. Il discorso è grande e tremendo: la “misura della fede” sta nella responsabilità con cui si vivono le relazioni ecclesiali, qualunque sia il compito che si svolge. Questo punto di partenza è importante più di quanto si creda. Le indicazioni, infatti, che seguono possono benissimo essere rintracciate nei grandi classici greci, nello stoicismo, nel buon senso comune… Qui, invece, si sta parlando della responsabilità ecclesiale. Fuori da questa prospettiva la morale cristiana non esiste più. Diventa un moralismo che fa ricadere inesorabilmente nell’ingiustizia (“ce l’ho fatta/non c’è l’ho fatta”). La Grazia muore e il volontarismo uccide la fede oltre che infelicitare la vita, propria e altrui. Quanti pensano alla vita cristiana come alla gara per stabilire chi è più cristiano. Intere esperienze cristiane si consumano, senza capire la misura della loro fede, nello sforzo di migliorare se stesse e si dannano l’anima per sgomitare anche all’interno della Chiesa. Avendo perso il senso autentico dell’essere Chiesa (= Corpo sponsale di Cristo Gesù), siamo in seria difficoltà nel capire il pensiero di Paolo e rischiamo di leggerlo ancora senza la fondamentale dimensione del 112
“popolo”. Tutte le bellissime raccomandazioni che abbiamo di fronte non sono altrettanti “buoni esercizi” da fare a tempo perso per diventare “più buoni” ma sono, semplicemente, la nostra vita perché non abbiamo più la vita di prima da quando siamo stati giustificati. Il giusto vive per gli altri perché questo gli dice la fede. In altre parole: la dimensione “sociale” della fede è intrinseca alla fede stessa; solo un errore di prospettiva ha permesso di ridurre la fede ad un rapporto personale con Dio che si regola con le proprie preghiere, i personali propositi, i propri atti di culto, la custodia della tradizione che piace… con l’aiuto della Chiesa (leggi clero e consimili). Ultima annotazione: concretamente come è possibile recuperare il senso vero della Chiesa? Per quello che io capisco non vedo che una risposta: con l’umiltà e la semplicità del cuore, che sa accogliere con amore e riconoscenza il dono ricevuto. 3.3.21. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene (Rm 12,17-13,7) (a) Il testo Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli esseri umani. 18Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. 19Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo, dice il Signore. 20Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. 21Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene. 13 1Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. 2Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna. 3I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, 4poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male. 5Perciò è necessario stare sottomessi, 17
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non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. 6 Per questo infatti voi pagate anche le tasse: quelli che svolgono questo compito sono a servizio di Dio. 7Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto. (b) Linee di analisi Il testo è chiaramente divisibile in due brevi sezioni epistolari. P. allarga l’orizzonte a tutti gli esseri umani e quindi non si occupa più delle relazioni interne alla comunità, ma del rapporto dei discepoli del Nazareno crocifisso e risuscitato nei confronti di tutti gli altri. Nella prima parte propone il deciso superamento della legge del taglione con due inviti perentori e generici al v. 17 e alla chiusa del v. 21. La seconda parte (13,1-7) è più complessa ed ha ricevuto nel corso della storia dell’esegesi tante interpretazioni; sembra così slegata dal contesto che molti parlano di un vero e proprio “masso erratico” con interpolazioni successive. In realtà questo giudizio drastico dipende dal non aver preso in seria considerazione il rapporto di questo brano con tutto il contesto e con la specifica situazione della comunità cristiana di Roma. A questo proposito dobbiamo renderci conto che P. si rivolge ad una comunità nata da poco e costituita da non più di un centinaio di persone in mezzo alla capitale dell’impero romano. La nostra “fantasia” rischia di immaginare che questa lettera arrivi… via internet solo pochi giorni dopo essere stata scritta e ad una comunità che è ben nota e diffusa a tutti i livelli della società, sostanzialmente come oggi. In realtà P., con grande realismo, cerca di dare indicazioni pratiche ad una comunità che, nei limiti del possibile, non deve “urtare” contro le strutture amministrative dell’impero romano. P. sta parlando della dimensione “politica” dell’ethos cristiano e lo sviluppa attorno al tema, centrale per quei tempi, della “onorabilità pubblica” (cfr. v. 3). È come se dicesse: state tranquilli e sottomessi (che non vuol dire divinizzare lo Stato, anzi) perché avete visto quello che è successo con l’imperatore Tiberio (19 d.C.) e Claudio (49 d. C.). Purtroppo ciò non è servito perché di lì a poco (64 d.C.) l’imperatore Nerone accuserà i cristiani dell’incendio di Roma. 114
• v. 17a. Principio generale • v. 17b. Ripete in termini positivi quanto appena detto. • v. 18. È realistico: si tratta di fare dei tentativi. • v. 19. Nessuna rappresaglia. Bisogna lasciare a Dio la punizione, nel caso che ci dovesse essere (ma sappiamo che la giustizia evangelica non funziona così). • v. 21. Grande conclusione! • vv. 13,1-5. L’idea che l’autorità venga da Dio è tradizionale. Ci sono due temi evidenti: rapporto subordinato rispetto all’autorità e, alla fine, un tema specifico: pagare le tasse. • v. 5. Compendio di quanto detto nei vv. 1-4. Ci si chiede: chi sono le “autorità” di cui parla P.? Sono state date tante risposte. La più probabile è che P. indichi in genere i vari funzionari statali, sia giudiziari che amministrativi. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Il nostro testo appare chiaro, fin troppo chiaro. Vale, perciò, la pena di fare una precisazione importante. Quando si legge la Scrittura bisogna fare molta attenzione e mettersi per davvero in ascolto del testo e di quello che dice. Questo vale sempre ma in modo particolare con testi di questo genere, che nascono in riferimento a situazioni storiche ben precise. I termini usati vanno letti non in base alla nostra concezione moderna, ma secondo quanto la Scrittura intendeva con quei termini. Qui si coglie l’importanza del lavoro esegetico che aiuta a non far dire al testo cose che il testo non vuol dire. Dopo aver compreso, senza pretese di esaustività, il significato del testo, è necessario, nella preghiera, nella meditazione e nell’obbedienza della fede, per così dire “rivestirlo” con parole nostre capaci di rendere comprensibile, ai credenti cristiani e al mondo che lo aspettano, il Vangelo di Gesù. Come si vede il “lavoro” da fare è impegnativo, ma fruttuoso e indispensabile per la fede dei cristiani e per la salvezza dell’umanità. Dopo questa premessa torniamo brevemente al nostro testo per fare due osservazioni. La prima riguarda la fiducia nel bene: vincere il male con il bene. È un richiamo forte e molto controcorrente sia a livello personale che comunitario, sia dentro la Chiesa che nella comunità civile. 115
Dobbiamo stare in guardia perché “l’uomo vecchio” (non quello che fa “cose brutte”, ma l’individuo che pensa di essere giusto per le opere oneste che ha compiuto) è molto agguerrito, fino a renderci insensibili al perdono. C’è uno strabismo che impressiona tra la libertà, che si riconosce a livelli individuali (chiamando “diritti civili” dei banali capricci), e la crudeltà nella morale pubblica che riguarda le “cose” (sarebbe meglio dire “la roba”). Si pensa che togliere in modo punitivo la libertà a una persona possa diventare un bene; si sta cercando di vincere il male con un altro male. Quello che sta diventando (davvero?) chiaro nella coscienza comune circa la pena di morte, è ben lontano dall’essere preso in considerazione e studiato circa il togliere la libertà (massimo insulto alla persona, chiunque essa sia) per punire o prevenire un male. Mi rendo conto che il problema è complesso e irto di difficoltà. Quello che voglio dire riguarda l’atteggiamento generale, che non si chiede neppure se e come fare per proporre una visione di giustizia che abbia la massima fiducia nel bene, proprio quando un essere umano compie una grave ingiustizia (da non guardare con indifferenza ma neppure con spirito vendicativo). La legge del taglione è stata una grande conquista di equità (“se mi cavi un occhio, te lo cavo anch’io: non ti taglio la testa”) e di ragionevolezza. L’evangelo chiede di andare oltre e non si può bypassare la richiesta dicendo che è un problema di fede individuale. I cristiani vivono l’evangelo semplicemente …conducendo la loro vita e il loro pensiero ormai trasformati nel profondo dalla fede. Sarebbe bello che chi ha le competenze e le capacità si incamminasse, con il sostegno, la stima e la fiducia di tutta la comunità, verso l’elaborazione di proposte serie, praticabili e abbastanza funzionanti verso un tipo di convivenza dove, nella Chiesa e al di fuori di essa, il criterio del bene incontri stima e fiducia più di quello del male. Se è cristiano saper soffrire non soltanto a favore della Chiesa, ma anche per il dolore inflitto dalla Chiesa, ciò non toglie che in essa (e intendo tutti gli ambienti ad essa collegati: oratori, parrocchie, movimenti, confraternite, associazioni, scuole, università, seminari; tutti gli stati di vita e incarichi e ministeri) dovrebbe essere chiaramente visibile lo stile del perdono. Nessuno dovrebbe lasciarsi condizionare dalla paura dell’opinione pubblica né dall’onorabilità delle “istituzioni” che, nel caso della Chiesa, altro non dovrebbe essere che la capacità di amore, misericordia e perdono discendenti, in ultima analisi, dalla Croce. Insomma: il 116
Vangelo spinge ad avere una tale fiducia nel bene da pensare che, anche nella sua povertà (il bene è sempre disarmato e a mani nude), il bene è più forte del male, perché è immagine dell’agire di Dio che ha rivelato in Gesù la sua giustizia salvifica. La seconda osservazione riguarderebbe la politica. Ci vuole un impegno maggiore per comportamenti “onorevoli”. Oggi il clima politico lo rende ancora più difficile di qualche anno fa. Parte tutto dalla testa e dal pensiero; manca un vero pensiero politico che diventi un “sogno” programmatico. La politica oggi “accarezza la piazza” e la “piazza” si lascia accarezzare dalla politica. È un miscuglio terribile perché è enfatizzato (e “de-enfatizzato”) dai mezzi di comunicazione di massa. Per il cristiano fare politica – evangelicamente – significa preparazione, preparazione, preparazione: la politica non è roba da “dilettanti allo sbaraglio”… e poi è d’obbligo il “voto di povertà” (non è una battuta di spirito). 3.3.22. L’amore non fa alcun male al prossimo: pienezza della Toràh infatti è l’amore (Rm 13, 8-14) (a) Il testo
Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Toràh. 9Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 10L’amore non fa alcun male al prossimo: pienezza della Toràh infatti è l’amore. 11E questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. 12La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. 13Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. 14Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne. 8
(b) Linee di analisi Possiamo dividere questo piccolo brano in due parti ben distinte. La prima (vv. 8-10) in modo solenne enuncia il precetto generale dell’etica 117
cristiana: l’amore compie tutta la Toràh. La seconda parte (vv. 11-14) in modo più colloquiale e diretto esorta i cristiani a cogliere il significato del tempo che vivono; perché si possa comprendere il senso del tempo (cioè della vita) bisogna “rivestirsi di Cristo” (v. 14). • v. 8b. L’altro: è il prossimo di ciascuno. L’uso generico del pronome altro (per niente usuale in P.: utilizza più spesso fratello) indica l’apertura radicale del discepolo di Cristo che è perennemente spinto “fuori di sé”, oltre la cerchia delle sorelle e dei fratelli di fede. • v. 9. Intuizione forte di P. che riduce a unità la molteplicità dei precetti della Toràh. • v. 10. Il termine pléroma ha molteplici sfumature: indica insieme compimento e “riempimento”. L’amore dà senso alla Toràh; ne diventa la sostanza. Senza amore la Toràh è come una “bottiglia” vuota. • vv. 11-14. In primo piano sta una prospettiva futura ed escatologica. P., tuttavia, non parla né di giudizio né di futuro finale. Il senso complessivo da dare è allora quello di un presente che si evolve verso il futuro; si può usare qui la formula nota e fortunata: “di già e non ancora”. • v. 11a. Cercate di comprendere il tempo (“kairòs”) presente. La traduzione Consapevoli del momento non rende bene il significato del testo. “kairòs” indica il tempo soggettivo, cioè il tempo non nel suo scorrere inarrestabile (cronologico), ma come opportunità per la persona. • v. 11b. Fa da legame con la parte finale del versetto. Non si riferisce né al sonno, né al sogno, e neppure alla morte; ha un significato più sfumato. È come se P. dicesse: Svegliatevi: non siate pigri perché c’è da vivere una grande cosa che ora vi dirò. • v. 11c. C’è da vivere (presente) la salvezza ricevuta (passato) ma non ancora compiuta (futuro). • v. 12b. L’esortazione usa delle metafore che si rifanno a quelle precedenti: sonno/tenebra, giorno/luce. L’antitesi tenebre/luce è ricorrente nelle lettere di P. • v. 13a. Camminare è metafora usuale per indicare il compimento dell’essere umano verso l’obbedienza della fede e la perfezione morale. • v. 13b. È un piccolo catalogo dei vizi non seguito, questa volta, da un catalogo delle virtù. Sono i vizi più in voga all’epoca (solo allora?): esuberanza alimentare, comportamento sessuale sfrenato, divisioni nella comunità. 118
• v. 14. C’è un salto sorprendente e molto significativo. P. non sprona alla virtù ma indica la figura di Cristo con una espressione rara e moto bella. Fa diventare vestito una persona: Rivestitevi di Cristo. Molti vi hanno colto una reminiscenza battesimale. Il termine “vestirsi di Cristo” indica una chiara prospettiva mistica. Indossare Cristo è un lungo processo che non conosce soste. Ilcristiano non è l’individuo che vive e difende una morale astratta fatta di “valori”, ma il suo procedere verso la perfezione della vita umana (cioè verso una morale della libertà) è una cosa sola con il suo progressivo sottomettersi alla signoria gloriosa e gioiosa del Signore Gesù Cristo. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi La riflessione etica di P. ci costringe ad un lavoro di essenzialità. Il principio regolatore di tutto è l’amore (= agàpe) verso il prossimo ed è fondata nell’unione con Gesù. Il principio “personalistico” è fondamentale perché è in grado di salvare e saldare insieme sia il soggetto individuale che l’esperienza della relazione comunitaria. L’adempimento della Toràh deve essere carico di amore, cioè di dedizione per il bene dell’altro; se si potesse usare una battuta (senza cadere in nessun equivoco) si potrebbe dire che il cristiano non è tanto un uomo di sani principi, ma di un’intensa tensione amorosa. I principi possono anche far dimenticare le persone, ma l’amore non fa mai dimenticare il volto dell’altro. La morale cristiana è la morale “del volto”, in primis del volto di Gesù. L’amore riempie di sé la Toràh e la rende umana e vera; ma l’amore stesso, divenuto Toràh, allarga gli orizzonti praticamente… all’infinito. I comandamenti sono un esempio: perché possano resistere e avere un senso cristiano debbono essere messi in positivo (Non dovrai mai uccidere, diventa: cerca di far vivere gli altri meglio di te; non dirai mai falsa testimonianza diventa: testimonia la verità fino al martirio della vita e così via…)18. Basta guardare alle “Beatitudini” per capire quale dono la giustizia di Dio reca ai credenti e su quale strada li incammina. Per una lettura globale dei cosiddetti dieci comandamenti si veda, per es., E. Borghi (a cura di), Donne e uomini, Effatà, Cantalupa (TO) 2014, pp. 75-99. 18
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Certo le preoccupazioni morali di P. sono molto legate alla condizione contingente della piccola comunità dei cristiani di Roma; ma, sorprendentemente, le parole di P. hanno una grande forza anche per l’oggi. Comprendere il tempo presente è una operazione urgente e necessaria; mi sembra che P., in particolare, sproni ad abbandonare ogni pigrizia. Sveglia! Il richiamo risuona da più parti; per lo più in senso polemico e negativo, anche da qualche decennio a questa parte (si pensi, per es., alla “crociata”, in Italia, negli ultimi vent’anni, in difesa dei “valori non negoziabili”). I discepoli di Gesù Cristo dormono; si devono far sentire, devono organizzarsi e farsi valere; bisogna difendere con forza i “valori cristiani”. C’è del vero; ma è necessario comprendere più a fondo il pensiero di P. Il suo richiamo si riferisce alla comprensione della salvezza che i cristiani già vivono e alla tensione verso il suo compimento. I cristiani devono “svegliarsi” circa il fatto che la riforma della loro vita deve partire dalla novità della misericordia divina che è rivelata e attuata nella Croce di Gesù. L’urgenza del tempo presente non è l’urlo ma il silenzio, non il moltiplicarsi delle opere ma il rinnovamento interiore che parta dalla preghiera; non è la difesa della Chiesa, ma la sua offerta di sacrificio esistenziale nel martirio quotidiano della fede. L’urgenza del tempo presente è scoprire che la Chiesa è la Sposa di Gesù e non un “corpo sociale”; significa far rivivere la Chiesa nei cuori dei credenti. Il cristiano deve esprimere la vicinanza ai “volti umani” e non alle foto dei telefonini (non è la stucchevole e banale retorica contro la realtà virtuale, ma il richiamo al primato del Vangelo che, in un secondo momento, deciderà se e come usare dei vari mezzi). Inviterei anche a non sottovalutare il richiamo a rivestirsi di Gesù; è l’esperienza della comunione d’amore con Lui. C’è un gran pudore a parlare di Gesù; questo, secondo me, è più un bene che un male. Spesso però questo “pudore” si spinge anche a “far finta di niente”: come Pietro che rinnega Gesù con le parole: “Io non lo conosco”. Questo discorso vale per ogni stato di vita a cominciare da quello dei presbiteri. Non è indispensabile parlare di Gesù: qualche volta è inutile, altre volte è controproducente, spesso è prudente tacere. Ma far capire da che parte si viene, se si cerca di essere cristiani, dovrebbe essere un motivo di orgoglio. Se si è veramente innamorati, per rispetto all’amore, non lo si sbandiera ai quattro venti; ma non si può nascondere che si è innamorati 120
e, prima o poi, tutti se ne accorgono. Questa condizione non c’è: manca un linguaggio adatto. E così la fede usa troppo spesso un linguaggio pubblico stereotipato e clericale. Non si fa così a rivestirsi di Gesù. 3.3.23. Chi sei tu, che giudichi un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone (Rm 14,1-13) (a) Il testo Accogliete chi è debole nella fede, senza discuterne le opinioni. 2Uno crede di poter mangiare di tutto; l’altro, che invece è debole, mangia solo legumi. 3Colui che mangia, non disprezzi chi non mangia; colui che non mangia, non giudichi chi mangia: infatti Dio ha accolto anche lui. 4 Chi sei tu, che giudichi un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone. Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di tenerlo in piedi. 5 C’è chi distingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali; ciascuno però sia fermo nella propria convinzione. 6Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio. 7Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, 8perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. 9Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. 10 Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, 11perché sta scritto: Io vivo, dice il Signore: ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio (Is 49,18; 45,23). 12Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio. 13D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello. 1
(b) Linee di analisi Inizia, qui, un percorso per noi assolutamente inatteso rispetto al quale dobbiamo fare tre cose: capire, fin dove è possibile, di che si tratta; 121
cogliere il pensiero centrale e il punto risolutivo del problema; cercare di applicare il “metodo” appreso alla nostra attuale realtà. P. si riferisce alla situazione della comunità di Roma e vuole richiamare, in concreto, senza entrare troppo nei particolari di una comunità che non ha fondato e non conosce (cfr. lo stile diverso con cui interviene a Corinto su tematiche analoghe), il principio fondamentale dell’agàpe che è il fulcro della vita morale del cristiano. Il riferimento non è tanto a condizioni sociali (ricchi/poveri, potenti/umili), ma ad abitudini alimentari e di celebrazioni di feste nel calendario. L’intero brano, che si conclude in 15,6 è divisibile in tre sezioni che esprimono il ragionamento di P.: non bisogna giudicarsi a vicenda (14,1-13); nulla è impuro di per sé e bisogna accogliersi con benevolenza perché l’unità della comunità vale più dei giudizi di purità cultuale (14,14-23); tutto va fatto a imitazione di Cristo (15,1-6). • v. 1. L’inizio è improvviso e non viene specificato, se non nel discorrere successivo, il riferimento alla situazione. Segno che era ben nota ai destinatari. P. si rivolge, di fatto, ai “forti nella fede”, i quali debbono accogliere i “deboli nella fede”. Molto si è scritto sulle categorie socio-religiose di appartenenza dei “deboli” e dei “forti”; in realtà sono categorie trasversali che riguardano, pur con usi diversi, sia i giudeocristiani che i cristiani provenienti dal paganesimo. Accogliete: il verbo usato ha il significato di “assumere, prendere con sé, associare a sé”. Senza discutere: il senso è esattamente il negativo rispetto al positivo appena espresso. • v. 2. Chiarisce l’oggetto della contesa. Ce ne saranno altri due: circa il calendario (v. 5) e il bere vino (v. 21). Per P. l’ascetismo in se stesso è inteso come una “fede debole”. • v. 4. L’intervento è chiaro e forte. Notare che il termine usato da P. e qui tradotto con “servo” significa propriamente “domestico” e non servo o schiavo, quindi uno che, in qualche modo, fa parte della casa. Attutisce ogni riferimento che potrebbe essere umiliante. • v. 6. Le differenze che dividono la comunità si appianano solo se viste in riferimento al Signore. Si può forse vedere anche un piccolo accenno all’Eucaristia nel “rendere grazie a Dio” (il verbo è lo stesso). • vv. 7-9. Si staccano dal tema concreto in questione e, in termini molti belli e profondi, tracciano la fisionomia del cristiano come comple122
tamente innestata su Gesù. Ne nasce un’antropologia che ha alla base l’amore fraterno. • vv. 10-12. Ritorna al tema partendo proprio dall’unica signoria di Cristo proposta nel versetto precedente. Non devi giudicare tuo fratello perché insieme sarete giudicati dal Signore. • v. 13. È la conclusione finale che chiude chiaramente il primo “passo” del ragionamento di P. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Il testo di P. non è facile, non tanto perché non si comprende il suo significato, quanto perché proprio questo significato a noi dice ben poco. Discutere di cibi, di bevande o di feste del calendario non ci sembra siano temi importanti. Eppure esattamente su questo è bene fermarsi un attimo: oggi di che cosa potremmo parlare? Non certo di vegetariani, vegani ed altre scelte simili, non perché non siano interessanti, ma perché ci sembrano aspetti del tutto secondari e non riguardanti la fede. Ci sono, però, tante cose che non ci sembrerebbero così “strane” e di cui non si parla comunque: novene, celebrazioni di feste patronali, pratiche di culto popolare, venerazioni di apparizioni mariane, di usanze legate ai digiuni. Alcuni, dando rilievo a elementi di questo genere, si ritengono “forti nella fede” perché sono seguaci di una spiritualità speciale, magari con un fondatore o una fondatrice illustre. Altri, rifiutando ciò in parte o del tutto, non hanno contatti con fratelli che giudicano “troppo conservatori” o “troppo progressisti”. L’elenco è interminabile; ma così il tessuto ecclesiale è spaccato e rissoso forse ancora di più che ai tempi di P. Non ci sono luoghi veri di confronto: ognuno fa per conto suo e, al più, si alimenta il pettegolezzo. Ma la Parola di Dio è perentoria: non giudichiamoci più gli uni gli altri. P. ha davanti a sé la giustizia di Dio in Cristo Gesù, per cui non conta più il mangiare questo o quello, bere o non bere vino perché il problema è un altro: nessuna di queste pratiche, anche quelle giuste, hanno la possibilità di far diventare giusti. Non si deve dire chi è il migliore (tanto meno lo si può dire di se stessi), ma si deve sapere che la prima cosa da fare non è giudicare la “purezza teologica” del pensiero di un fratello, 123
ma riconoscerlo come tale e vivere con lui l’amore fraterno che ha dato a tutti la pienezza di vita, ossia la salvezza. Siamo onesti: non siamo stati educati a vivere in questo modo la vita cristiana e in particolare la vita ecclesiale. Magari questi giudizi non riguardano direttamente la fede, ma con la fede hanno un legame perché creano nella comunità malumori, diffidenze, delazioni, pettegolezzi, favoritismi, condanne, esclusioni. Faccio solo un esempio e neppure il più importante. Un cristiano politicamente “di destra” non sopporta un fratello di sinistra e fa di tutto per eliminarlo e viceversa. Succede, ed è “banale” come parlare di cibi e bevande, che sia la politica (marginale rispetto alla giustizia di Dio) a giudicare della fede e non la fede a giudicare della politica. Non parliamo, poi, del modo di porsi dei membri di parrocchie o movimenti che ritengono di essere gli interpreti del “vero cristianesimo” rispetto ad altri all’interno delle medesime comunità o della Chiesa universale. Qui si pone un problema che io mi aspettavo di trovare in P. e che egli non si pone neppure. È quello del comportamento di chi ha ragione rispetto a colui che ha torto. Se io so che è sbagliato osservare il “calendario” perché è segno di una fede “debole” (penso a centinaia di pratiche ascetiche), non devo dir niente? Non posso fare di tutto per far cambiare idea? Oppure non posso semplicemente dire che io ho ragione e che tu sbagli? Penso che P. non voglia togliere la distinzione tra giusto e ingiusto circa la fede, ma che voglia dire che ognuno va rispettato e accolto nel suo percorso anche quando non è condivisibile. Il primato non è della verità, ma è dell’amore. Per me questo discorso è duro e faccio fatica ad accettarlo, ma mi rendo sempre più conto che debbo cambiare atteggiamento. Nel mio modo di fare devo invertire le priorità: prima l’amore, cioè le persone e poi le idee ed anche la teologia. Mi sembra che P. indichi un criterio assoluto che non toglie nulla alla necessità di una fede “forte”, ma proprio la “fortezza della fede” è misurabile nella capacità di “far entrare i deboli” nella comunità. L’amore non è più tale se, da inclusivo, diventa esclusivo. Molto complicato ai tempi di P.; ancora più complicato oggi rispetto ad allora…
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3.3.24. Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo (Rm 14,14-15,6) Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. 15Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo amore. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! 16Non divenga motivo di rimprovero il bene di cui godete! 17Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: 18chi si fa servitore di Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli esseri umani. 19 Cerchiamo dunque ciò che porta alla pace e alla edificazione vicendevole. 20Non distruggere l’opera di Dio per una questione di cibo! Tutte le cose sono pure; ma è male per un essere umano mangiare dando scandalo. 21Perciò è bene non mangiare carne né bere vino né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi. 22 La convinzione che tu hai, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non condanna se stesso a causa di ciò che approva. 23Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza; tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato. 15 1Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. 2Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. 3Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me (Sal 68,10). 4Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. 5 E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri lo stesso orientamento interiore, sull’esempio di Cristo Gesù, 6perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. 14
(a) Linee di analisi Siamo al secondo e terzo passaggio del ragionamento di P. circa il rapporto tra forti e deboli nella fede. La dichiarazioni iniziale è chiara (sono convinto nel Signore): P. è un “forte nella fede” per cui il suo inse125
gnamento, in un certo senso, vale ancora di più. Non esiste alcunché di impuro in se stesso; sta parlando di cibi e bevande ed anche di usanze di feste. Siamo in un campo diverso rispetto alla morale e quindi alla distinzione tra bene e male. La sua preoccupazione essenziale riguarda l’amore tra i credenti e la pace nella piccola comunità cristiana. La giustificazione di questo comportamento va cercato nell’esempio di Gesù che non cercò di piacere a se stesso. L’essere una “creatura nuova” mette al centro la figura di Gesù, il suo esempio, e la gratitudine verso il Padre. Lo “stile della comunità” deve, perciò, essere connotato dalla gioia di un animo solo e una voce sola che rendono gloria al Padre. • v. 14. È la tesi che P. espone con certezza. L’impurità viene qui relativizzata e ricondotta all’ambito soggettivo; è impuro ciò che uno ritiene tale. • v. 15. Subito “l’impennata” dell’apostolo e del pastore. Notare il passaggio di tono: “tuo fratello” dice la priorità assoluta nell’affrontare i problemi della comunità; viene prima la fraternità. “Resta turbato” andrebbe tradotto più propriamente con “rattristato”. È un termine confidenziale ed intimo; subito dopo si dice “manda in rovina”. È il paradosso della carità: ancora una volta ciò che prova tuo fratello viene prima della verità. • v. 17. È la prima volta che P. usa il termine “regno di Dio” (che è classico nei sinottici). Bellissima sintesi! Sono così le nostre comunità? Un po’ sì e un po’ no: c’è ancora tanto lavoro dinanzi a noi. • v. 18. Viene riaffermata la dimensione cristologica dell’etica cristiana. • v. 19. È la logica conclusione di quanto appena affermato. • v. 22a. Si invita il cristiano a tener sempre conto di un criterio superiore. Da notare che il termine usato da P. è pìstis: fede, qui intesa in senso generale di coscienza certa. “Tu, in quanto alla fede che hai, mantienila in te stesso, davanti a Dio”. • v. 23. Ritorna due volte il termine “ek pìsteos”, cioè “dalla fede”; la C.E.I. 2008 traduce con il termine coscienza. Il significato dell’allocuzione è variamente inteso, ma il significato complessivo è chiaro. • v. 1. Viene prima il dovere dei forti rispetto all’impegno dei deboli. Anzi il sostegno dei forti motiva e sprona l’impegno dei deboli. Guarire e non giudicare. 126
• v. 4. Dalla citazione P. prende spunto per esprimere molto bene il significato della Scrittura: essa è per noi ed è fonte di perseveranza e speranza. • vv. 5-6. Perfetta sintesi conclusiva di tutta la sezione sui rapporti all’interno di una comunità variegata e in cammino. (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Le parole di P. possono essere la trama di un profondo esame di coscienza comunitario. Dovremmo rispondere insieme a questa domanda: è più importante e viene prima l’ortodossia o l’ortoprassi? In parole semplici: vien prima la verità o l’amore? P. ci indica la strada quando, in un’altra lettera, ci dice che il cristiano “fa la verità nella carità”. Ho trovato questo pensiero di Pascal che precisa bene questo concetto: «Ci si può fare un idolo persino della verità, perché la verità scissa dalla carità, non è Dio: ne è soltanto una immagine, un idolo che non dobbiamo né amare nè adorare (e tanto meno dobbiamo adorare il suo contrario, ossia la menzogna)»19. Potremmo dire che l’amore è la verità di ogni cosa; questo linguaggio può andar bene, ma è necessario sottrarlo all’ambiguità che il termine amore purtroppo ha raccolto su di sé. Bisogna declinare questo principio difficile nel concreto della vita quotidiana. Noi, non riuscendo ad amare con tutto il cuore e con tutta l’anima chiunque, troviamo tra le sorelle e i fratelli, ci rifugiamo nelle idee e nei principi. Io chiamo questo atteggiamento l’atteggiamento della manzoniana donna Prassede, che di idee ne aveva poche, in compenso vi era molto affezionata. Il cristianesimo rischia di diventare una “bella idea” e, in line di principio, sarebbe giusto, ma… peccato che come “bella idea” è impraticabile senza avere nel cuore l’amore dello Spirito. L’amore fa sì che la fede sia viva e operosa. Le “opere delle fede” passano necessariamente attraverso l’amore, quello ovviamente del Dio di Gesù Cristo. Qui bisognerebbe leggere ciò che proprio P. ci ha consegnato circa l’amore e cioè lo splendido inno di 1Cor 13. Suggerisco, per chi ne avesse voglia, un duplice esercizio: leggere il brano citato di 1Corinzi 19
B. Pascal, Pensieri, 541.
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sostituendo alla parola amore il nome di Gesù; diventa tutto più chiaro. C’è, poi, la lettura che papa Francesco fa di questo stesso passo paolino nell’esort. apostolica Amoris Laetitia (cfr. nn. 89-118); è un bell’esempio di come si può applicare una trattazione generale ad un fatto concreto (in questo caso il matrimonio). Vorrei fare altre due considerazioni: una sulla fede e una seconda sui rapporti “forti/deboli”. • Qui si parla delle sorelle e dei fratelli nella fede; e la debolezza si riferisce non alla condizione sociale, economica, intellettuale, bensì alla debolezza della fede. P. non connota in senso negativo e morale la debolezza, ma indica il percorso della fede che qualcuno, in una comunità nata da poco, ha appena iniziato. La fede, dunque, appare sempre di più come un percorso graduale e mai ultimato. Se la fede fosse una idea, l’alternativa sarebbe secca: o c’è o non c’è. Ma se la fede è il rapporto personale-mistico con Gesù, questo rapporto conosce cambiamenti, progressi, stasi, fermate, paure ed entusiasmi, come avviene in ogni rapporto vivo e vitale. Impressiona quanto poco ci occupiamo della fede degli altri non tanto con invettive, richiami, “prediche”, ma nel senso appena detto: rispettare il percorso della fede di ciascuno. Rispettare la fede degli altri: ecco un punto molto disatteso. Va da sé che nessuno può vantarsi di avere una fede “più forte” di quella di un altro. Anzi: sempre P. dice di considerare gli altri superiori a se stessi. Questo vale anche nella Chiesa e riguarda tutti perché quella di P. non è una “esortazione” ad essere migliori, ma è la rivelazione della realtà in cui siamo messi dal dono di Dio. Non esiste la possibilità di “misurare” la fede di un altro, e forse non si può misurare neppure la propria. Il parlare cristiano non è, come prima cosa, un richiamo “morale”, ma è l’annuncio che invita a prendere in considerazione l’evento pasquale di Gesù come possibilità di salvezza per l’essere umano. La posta in gioco della fede è molto alta; credo che il primo compito nostro sia quello di tenere alto l’appello alla fede. Non si chiede di aderire a un gruppo e neppure di rispettare alcune regole che garantiscono un buon nome; si tratta di ascoltare l’annuncio sorprendente, inatteso e inusuale del messaggio di trasformazione e di salvezza portato dal Nazareno crocifisso e risuscitato. Si parla tanto di dialogo ed è cosa buona, ma spesso ci si dimentica che, previamente, ci deve essere un contenuto su 128
cui dialogare. Il cristiano tiene “alto il contenuto” perché esso è la salvezza. Senza chiarire che il dialogo più radicale è sulla salvezza, questa possibilità di dialogo sfuma; meglio “scendere di livello” (assolutamente non in senso negativo) e parlare di gentilezza, non-violenza, ascolto, confronto, rispetto reciproco, convergenze utili, servizio all’umanità, pratica della giustizia… ma propriamente non può iniziare un dialogo teologico-antropologico cristiano di fondo. • P. parla ai deboli e ai forti non per dire chi ha ragione, ma per invitare entrambi a correggere il proprio atteggiamento: i deboli non devono disprezzare i forti e viceversa. Senza usare questo linguaggio è indubbio che nella nostre comunità la reciproca accoglienza non è così usuale come ci si aspetterebbe. Mi riferisco, in particolare, ai “colti” e a coloro che “hanno studiato”. C’è un diffuso atteggiamento di superiorità rispetto a coloro che non hanno proprietà di linguaggio. Senza contare che molti inventano un loro linguaggio particolare (per una certa parte questo è inevitabile) per marcare la propria differenza. Si parla spesso ai “deboli nella fede” per dire loro che devono cambiare dal momento che sbagliano; non dovrebbe essere solo così. Non trovo di meglio per spiegare bene quello che voglio dire che usare le parole di un intelligente e fine teologo ed esegeta. Bruno Maggioni commenta così questo passo della lettera ai Romani: «Alla coscienza del cristiano non basta sapere che una cosa è lecita e vera: deve anche badare alla coscienza dell’altro, alle ripercussioni che il suo parlare e il suo agire ha sull’altro. Può sembrano sconcertante ma è verissimo. E personalmente sono convinto che questo fa parte della grande novità cristiana: la verità è importante, ma la persona viene prima. Cristo è morto per le persone, Dio ama le persone. Dio vuole certamente che le persone si “aprano” alla verità, ma non vuole far trionfare la verità – fosse pure una verità di Dio! – passando sopra le persone»20.
Chiaro, no?!
B. Maggioni, Lettera ai Romani, in Lettere di Paolo, a cura di B. Maggioni-F. Manzi, Cittadella, Assisi (PG) 2005, p. 151. 20
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3.3.25. Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi (Rm 15,7-13) (a) II testo Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. 8Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; 9 le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: “Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome” (Sal 17,50). 10 E ancora: Esultate, o nazioni, insieme al suo popolo (Dt 32,43). 11 E di nuovo: Genti tutte, lodate il Signore; i popoli tutti lo esaltino (Sal 117,1). 12E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni: in lui le nazioni spereranno (Is 11,10). 13 Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo. 7
(b) Linee di analisi Questo breve brano ha il valore di conclusione non solo della sezione che lo precede ma dell’intera parte morale. Come tale lo accogliamo e le teniamo stretto come “lascito” pratico della lettera i Romani. • v. 7. L’invito riprende quanto appena detto con l’aggiunta di una motivazione cristologica forte. Si può dare un significato non solo imitativo (= fate come Gesù), ma credo che contenga anche la certezza della presenza di Gesù in quello che si fa: a motivo di Gesù in voi. A gloria di Dio: si può riferire sia all’atteggiamento di Cristo che ha agito a gloria di Dio, sia riferito al credente che rende gloria a Dio nell’offerta di sé. • vv. 8-12. P. ripete il concetto fondamentale dell’agire di Cristo e lo conferma attraverso quattro citazioni primo-testamentarie. • v. 13. L’augurio solenne di P. conclude la lettera. Da notare la struttura trinitaria: il Padre è colui che agisce e conduce a compimento il Mistero; Gesù (v. 7) dalla Croce lo svela agli esseri umani; lo Spirito lo attua nella storia, tenendo viva la speranza che il Mistero si compia nella redenzione del corpo.
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(c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Stiamo per giungere al termine del nostro cammino e, significativamente, ci vengono offerte quattro parole che ci sostengono nel vivere l’amore. Esse sono: fede, speranza, gioia e pace. Dobbiamo chiederci se davvero nel nostro cuore, cioè nella vita normale di tutti i giorni, noi avvertiamo la presenza della giustizia ricevuta in dono per mezzo della fede in Gesù. La bellezza del cristianesimo consiste in questo: donare un rilievo speciale alla vita senza nulla togliere o aggiungere alla quotidianità. È un messaggio e una scoperta importante venire a sapere che il cristianesimo è il mio umanesimo (e non solo mio), cioè il mio modo concreto di essere donna o uomo. Il Vangelo non toglie nulla di ciò che serve per essere sempre più “umani”; infatti non chiede di rinunciare a nulla che non sia il peccato, cioè la schiavitù dell’egoismo fine a se stesso. Per questo la giustizia che viene dalla fede dona gioia e pace. La fede, nel disegno rivelato da Dio nella vicenda storica di Gesù il Nazareno, porta agli esseri umani di ogni tempo e latitudine la pienezza di vita, ossia la salvezza. L’intera storia del popolo dell’Alleanza era finalizzata a questa rivelazione: secondo le origini cristiane, ciò che è stato tenuto segreto per secoli, è stato svelato. P. ha visto questo svelamento ed è rimasto sconvolto: doveva affidarsi a Qualcuno (in cui non aveva creduto e che ha anche osteggiato) piuttosto che alla Toràh a cui aveva dedicato tutta la vita. Nella lettura della lettera ai Romani abbiamo assistito al travaglio dottrinale, sentimentale e morale della “conversione” di P.; ma abbiamo anche visto che questa “conversione” – che, da Damasco in poi, non rinnega le radici della propria identità, ma sceglie un nuovo punto di riferimento essenziale nella propria vita – deve essere anche la nostra. Ciò è possibile, anzi necessario, attraverso l’affidamento della mente e del cuore all’evangelo svelato. Non è un Vangelo “facile” che si imponga con la forza dell’evidenza. L’evidenza degli eventi è contorta come e più dei tempi di P.; il dolore, simile a quello del parto, continua per gli esseri umani e per l’Universo. Ma ora sappiamo cosa sta succedendo e qual è il principio unitario di tutto ciò: Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In 131
esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: “Il giusto per fede vivrà” (Rm 1,16-17). Questo Vangelo straordinario cambia radicalmente la vita perché, con il dono dello Spirito, viene donata una nuova logica di vita, quella dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesù e che ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte (Rm 8,2). Il cambiamento operato dalla giustizia di Dio è duplice: crea una unità mistica con Gesù, rendendo partecipi come figli adottati, della sua stessa eredità nella gloria; e poi trasforma la vita quotidiana in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il culto logicamente conseguente all’inserimento nel Mistero (cfr. Rm 12,1-2). La morale, cioè la pratica quotidiana che questo comporta, è la dedizione incondizionata al prossimo perché l’agàpe è il compimento di tutta la Toràh: Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio (Rm 15,7). Gesù visse accogliendo. Così nasce l’atteggiamento dell’esistenza nuova: uscire da sé per accogliere gli altri. 3.3.26. Giungendo presso di voi, ci verrò con la pienezza della benedizione di Cristo (Rm 15,14 - 16,27) (a) Il testo Fratelli miei, sono anch’io convinto, per quel che vi riguarda, che voi pure siete pieni di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di correggervi l’un l’altro. 15Tuttavia, su alcuni punti, vi ho scritto con un po’ di audacia, come per ricordarvi quello che già sapete, a motivo della grazia che mi è stata data da Dio 16per essere ministro di Cristo Gesù tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo. 17 Questo dunque è il mio vanto in Gesù Cristo nelle cose che riguardano Dio. 18Non oserei infatti dire nulla se non di quello che Cristo ha operato per mezzo mio per condurre le genti all’obbedienza, con parole e opere, 19 con la potenza di segni e di prodigi, con la forza dello Spirito. Così da Gerusalemme e in tutte le direzioni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. 20Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunciare il Vangelo dove era già conosciuto il nome di 14
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Cristo, per non costruire su un fondamento altrui, 21ma, come sta scritto: “Coloro ai quali non era stato annunciato, lo vedranno, e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno” (Is 52,15). 22Appunto per questo fui impedito più volte di venire da voi. 23Ora però, non trovando più un campo d’azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, 24spero di vedervi, di passaggio, quando andrò in Spagna, e di essere da voi aiutato a recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza. 25Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio ai santi di quella comunità; 26la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto realizzare una forma di comunione con i poveri tra i santi che sono a Gerusalemme. 27L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti le genti, avendo partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere loro un servizio sacro anche nelle loro necessità materiali. 28Quando avrò fatto questo e avrò consegnato sotto garanzia quello che è stato raccolto, partirò per la Spagna passando da voi. 29So che, giungendo presso di voi, ci verrò con la pienezza della benedizione di Cristo. 30Perciò, fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e l’amore dello Spirito, vi raccomando: lottate con me nelle preghiere che rivolgete a Dio, 31perché io sia liberato dagli infedeli della Giudea e il mio servizio a Gerusalemme sia bene accetto ai santi. 32Così, se Dio lo vuole, verrò da voi pieno di gioia per riposarmi in mezzo a voi. 33Il Dio della pace sia con tutti voi. Amen. 16 1Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della Chiesa di Cencre: 2accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso. 3Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù. 4Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano. 5Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa. Salutate il mio amatissimo Epèneto, che è stato il primo a credere in Cristo nella provincia dell’Asia. 6Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. 7Salutate Andrònico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me. 8Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore. 9Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi. 10Salutate Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli della casa di Aristòbulo. 11Salutate Erodione, mio parente. 133
Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. 12Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside, che ha tanto faticato per il Signore. 13Salutate Rufo, prescelto nel Signore, e sua madre, che è una madre anche per me. 14Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. 15Salutate Filòlogo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro. 16Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo. 17Vi raccomando poi, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro l’insegnamento che avete appreso: tenetevi lontani da loro. 18Costoro, infatti, non servono Cristo nostro Signore, ma il proprio ventre e, con belle parole e discorsi affascinanti, ingannano il cuore dei semplici. 19La fama della vostra obbedienza è giunta a tutti: mentre dunque mi rallegro di voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male. 20Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi. La grazia del Signore nostro Gesù sia con voi. 21Vi saluta Timòteo mio collaboratore, e con lui Lucio, Giasone, Sosípatro, miei parenti. 22Anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera, vi saluto nel Signore. 23Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità. Vi salutano Erasto, tesoriere della città, e il fratello Quarto. [ 24] 25A colui che ha il potere di confermarvi nel mio Vangelo, che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, 26ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, 27a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen. (b) Linee di analisi Il lungo brano non esige una particolare esegesi non perché non contenga punti meritevoli di interesse, ma perché ormai siamo in grado di cogliere bene il pensiero di P. Nella prima parte P. dà notizie di sé e dei suoi progetti di visitare presto la comunità di Roma dopo aver compiuto una visita a Gerusalemme (che lo preoccupa un po’ - cfr. Rm 15,31) per portare i frutti della colletta per i poveri di quella Chiesa che è la matrice di tutte le Chiese, ed essere passato per la Spagna. Il testo è ricco di informazioni “biografiche” che P. dà di se stesso e del suo impegno missionario. 134
Seguono i saluti finali: belli, interessanti; per tutti c’è un annotazione in questo scambio di saluti tra comunità. Anche Terzo che ha scritto materialmente la lettera aggiunge i suoi saluti (v. 22). (c) Dalla lettura del testo alla vita di oggi Una riflessione conclusiva sulla lettera ai Romani non è qui possibile. Mi limito a qualche breve accenno, tenendo presente il testo che abbiamo sotto mano. P. ha piena coscienza del compito che gli è stato affidato ed è evidente la sua totale consegna al Vangelo di cui è “sacerdote” (15,16). Ora noi sappiamo che, con ministeri (servizi) diversi, ogni battezzato porta in sé l’intera missione della Chiesa. È proprio la riflessione sulla Chiesa, su cosa significa essere Chiesa, che dovrà concludere la riflessione teologica e spirituale della lettera ai Romani. Forse dovremmo, a questo punto, riprendere in mano la lettera agli Efesini per cogliere la pienezza del mistero ecclesiale. Certo è che, se abbiamo colto l’essenziale del Vangelo, dobbiamo rivedere e vivere in pienezza la dimensione ecclesiale della nostra fede. La Chiesa deve rinascere nel cuore dei credenti, che sono Chiesa e non solo “affiliati” a un gruppo di appartenenza che è “secondario e conseguenziale” alla fede. Essere Chiesa è il modo quotidiano e normale di essere del credente, neppure lontanamente paragonabile a quello che si intende quando si dice di essere cittadini di uno Stato. Il cristiano è sempre Chiesa, qualunque cosa faccia e dovunque si trovi; ciascuno è Chiesa a modo suo, secondo il dono ricevuto, ma è totalmente Chiesa; questo è il Mistero che vive in noi per la misericordia di Dio. Qui si vedono bene i passaggi (anche teorici) che dobbiamo vivere (e che ovviamente sperimentiamo tutti i giorni come credenti): • riconoscere e ringraziare la Grazia misericordiosa pensata dal Padre, meritata dal Figlio, abitante nel cuore per mezzo dello Spirito; • godere della libertà dei figli di Dio e della dignità ecclesiale offrendo i propri corpi (cioè l’intera vita, peccati compresi) in sacrificio coerente con l’amore vissuto da Gesù Cristo; • vivere l’amore e quindi amare la Chiesa. Tutto questo si “storicizza” in ciò che conosciamo bene: silenzio, ascolto della Parola, preghiera, celebrazione della Liturgia e della grazia matrimoniale (per chi è sposato), 135
comunione ecclesiale, aiuto fraterno, sollecitudine per la diffusione del Vangelo, “bella e gentile umanità” da testimoniare a “quelli di fuori” fino a dare la vita se è necessario. È commovente leggere i nomi e i saluti reciproci ed è bello vedere la semplicità con cui si parla di tutti come di “santi”: è il nome più bello che compete ai credenti in Gesù. Lo so che è una utopia pensare di usare anche oggi questo linguaggio, ma almeno ragionare in questi termini è un dovere. Diversamente non si ha pienamente il senso della Chiesa, che è santa e peccatrice, perché è fatta da santi che fanno peccati di tutti i tipi e da peccatori che si convertono ogni giorno. 3.4. Selezione bibliografica • E. Borghi, La lettera ai Romani, in Id., Scrivere al cuore dell’essere umano. Le lettere del Nuovo Testamento tra esegesi antica ed ermeneutica contemporanea, LAS, Roma 2011, pp. 169-209. • F.F. Bruce, La lettera di Paolo ai Romani, tr. it., Edizioni G.B.U., Roma 1997. • C.E.B. Cranfield, La lettera di Paolo ai Romani, tr. it., I-II, Claudiana, Torino 1998-2000. • J.-A. Fitzmyer, Romani, tr. it., Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999. • S. Légasse, L’epistola di Paolo ai Romani, tr. it., Queriniana, Brescia 2004. • M. Orsatti, Il capolavoro di Paolo. La lettera ai Romani, EDB, Bologna 2002. • R. Osculati, Lettera ai Romani, IPL, Milano 1996. • R. Penna, Lettera ai Romani, EDB, Bologna 2010. • A. Pitta, La lettera ai Romani, Paoline, Milano 2001. • G. Pulcinelli, Lettera ai Romani, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014. • H. Schlier, La lettera ai Romani, tr. it., Paideia, Brescia 1982. • *A. Sacchi, La lettera ai Romani, Città Nuova, Roma 2000.
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4. Per leggere la lettera ai Romani secondo Lutero 1
di Martin Lutero In questa epistola cogliamo il pensiero centrale del Nuovo Testamento, il Vangelo nella sua espressione più pura. Sarebbe bene che un cristiano non imparasse soltanto l’epistola a memoria, parola per parola, ma che la meditasse continuamente come pane quotidiano dell’anima. L’epistola non può mai venire letta e meditata con sufficiente attenzione. Più la si legge, più la riteniamo preziosa e più la si gusta. Perciò anch’io voglio renderle un servizio, per quanto Dio mi concede, e con questa prefazione introdurne la lettura, in modo che ognuno la possa intendere bene. Fino ad oggi questa lettera è stata molto oscura con commenti e ogni genere di chiacchiere, mentre essa stessa è una luce capace di illuminare tutta la Sacra Scrittura. Anzitutto dobbiamo conoscere la lingua usata nell’epistola, dobbiamo sapere che cosa san Paolo intenda con parole come legge, peccato, grazia, fede, giustizia, carne, spirito e simili, altrimenti si legge l’epistola senza trarne vantaggio. La parola legge non va intesa qui in senso umano, quasi che nell’epistola venisse insegnato quali opere si debbano o non si debbano fare, come avviene nelle leggi umane, secondo le quali si cerca di adempiere la legge con opere, senza parteciparvi col cuore. Dio giudica secondo i sentimenti del cuore. Perciò la sua legge esige la dedizione del Questa è una traduzione dal tedesco (cfr. M. Lutero, Prefazioni alla Bibbia, a cura di M. Vannini, Marietti, Genova 1987, pp. 146-158) della prefazione alla lettera ai Romani pubblicata da Lutero nel 1522 e inserita nella sua traduzione della Bibbia (cfr. WADB [= Weimarer Ausgabe Deutsche Bibel] 7,2ss). Il testo riportato in queste pagine è tratto da: www.luthergrewp.it Questo è un sito evangelico luterano italiano indipendente, attivo dal 1996 e curato da Giorgio Ruffa. Corsivi e grassetti sono opera del curatore di questo numero di «Parola&parole - Monografie». 1
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cuore e non si appaga delle opere, e condanna le opere compiute senza dedizione del cuore, come ipocrisia e menzogna. Nel Salmo 116 tutti gli uomini sono detti bugiardi perché nessuno osserva né può osservare la legge col cuore. Infatti nessuno trova piacere nel bene, il cuore non è attaccato alla legge di Dio; in esso certamente signoreggiano il peccato e la meritata ira di Dio, anche se apparentemente vi sono molte opere buone e la condotta sembra onesta. Perciò san Paolo al cap. 2 (vv.12.13) giunge alla conclusione che i Giudei sono tutti peccatori, e dice che soltanto quelli che osservano la legge sono giusti dinanzi a Dio. Con ciò intende che nessuno con opere può osservare la legge, ma piuttosto dice ai Giudei: «Tu che insegni che non si deve commettere adulterio, commetti adulterio» (Rm 2,22). Così giudicando un altro, condanni te stesso, perché tu che giudichi, agisci allo stesso modo. È come se volesse dire: Tu che vivi esteriormente in modo onesto nelle opere della legge, e giudichi quelli che non vivono così, e sai ammaestrare ognuno, vedi la scheggia nell’occhio dell’altro, ma non scopri la trave nell’occhio tuo (cfr. Mt 7,4-7). Anche quando osservi esteriormente la legge con opere per paura di punizione o per desiderio di ricompensa, fai ogni cosa senza vero piacere e senza amore per la legge, ma piuttosto di malavoglia e per costrizione, e preferiresti agire diversamente, se non vi fosse la legge. Ciò significa che tu sei in fondo al cuore nemico della legge. Che cosa importa che insegni agli altri a non rubare, se poi nel cuore sei un ladro, e lo saresti volentieri apertamente, se tu lo potessi? Sebbene poi anche l’opera esterna non si farà attendere a lungo in simili ipocriti. Così dunque ammaestri gli altri, ma tu stesso non sai quello che insegni e neppure hai rettamente inteso la legge, perché essa accresce il peccato, come dice san Paolo al cap. 5 (v. 20). Esigendo essa ciò che l’uomo non è in grado di compiere, lo rende maggiormente nemico della legge. Perciò egli dice al cap. 7: «La legge è spirituale» (v. 14). Che cosa significa? Se fosse carnale sarebbe soddisfatta con le opere. Ma è spirituale, e nessuno la adempie se non compie ogni cosa con tutto il cuore. Nessuno, possiede un simile cuore, soltanto lo spirito di Dio può crearlo. Esso rende l’uomo conforme alla legge, in modo che ami la legge e quindi faccia ogni cosa non più per paura o costrizione, ma con tutto il cuore. Dunque la legge è spirituale: vuole che la si ami e la si adempia con 138
un cuore conforme allo Spirito ed esige uno spirito siffatto. Se esso non è nel cuore, rimangono peccato, disgusto, inimicizia contro la legge, che pure è buona e santa. Abituati ora al pensiero che sono due cose diverse compiere le opere della legge e adempiere la legge. L’opera della legge è tutto ciò che l’uomo fa o può fare per la legge con la sua libera volontà e con le sue proprie forze. Ma siccome con tali opere rimangono nel cuore disgusto e costrizione alla legge, quelle opere sono nel loro insieme perdute e inutili. Questo intende san Paolo quando al capitolo 3 (v. 20) dice: «Mediante l’opera della legge nessun uomo diviene giusto dinanzi a Dio». Ora tu vedi che vi sono dei disputatori scolastici e dei sofisti seduttori che insegnano a prepararsi alla grazia con opere. Come può prepararsi al bene con opere chi non fa alcuna opera senza disgusto e malavoglia nel cuore? Come potrebbe piacere a Dio l’opera che viene da un cuore disgustato e svogliato? Compiere la legge significa fare le opere da essa richieste Con piacere e amore, e liberamente, vivere con pietà e bontà senza la costrizione della legge, come se non vi fosse alcuna legge né pena. Tale buona disposizione ad amare liberamente è suscitata dallo Spirito Santo nel cuore, come dice l’apostolo Paolo al cap. 5 (v. 15). Ma lo Spirito Santo non è dato se non con la fede, per mezzo della fede e nella fede in Gesù Cristo, come dice l’apostolo nell’introduzione alla sua epistola. La fede viene soltanto per mezzo della parola di Dio, ossia del Vangelo che annunzia Cristo, com’egli sia Figlio di Dio e uomo, morto e risuscitato per noi, come dice san Paolo nei capp. 3 (v. 25), 4 (v. 25), e 10 (v. 9). Perciò soltanto la fede giustifica, e adempie la legge. Infatti porta lo Spirito per il merito di Cristo. Lo Spirito rende il cuore volonteroso e libero, come lo vuole la legge, per cui dalla stessa fede nascono le buone opere. Questo intende l’apostolo al cap. 3 (v. 31) dopo aver respinto le opere della legge, quasi volesse sopprimere la legge per mezzo della fede. Ma no, egli dice, noi stabiliamo la legge mediante la fede, cioè l’adempiamo mediante la fede. Peccato nella Sacra Scrittura non significa soltanto l’opera esteriore che si compie nella vita terrena, ma tutto ciò che a un tempo si agita e spinge all’opera esteriore, il fondo del cuore con tutte le sue forze, così che la parola fare qui significa che tutto l’uomo cade e precipita nel peccato. La Sacra Scrittura riguarda specialmente al 139
cuore e alla radice e sorgente principale di ogni peccato che è l’incredulità nell’intimo del cuore. Come la fede soltanto rende giusti e conferisce lo spirito e la volontà per le opere buone esteriori, così pure pecca soltanto l’incredulità. Essa eccita la carne e suscita il desiderio di opere malvagie esteriori, come accadde ad Adamo e a Eva nel paradiso (Genesi 3). Perciò Cristo chiama peccato soltanto l’incredulità, quando dice in Giovanni: «Lo Spirito condannerà il mondo a causa del peccato, perché non crede in me» (Gv 16,8.9). Perciò prima che si facciano delle opere buone o cattive, dei frutti buoni o cattivi, vi dev’essere nel cuore fede o incredulità, quale radice, linfa e principale forza di ogni peccato, che nella Scrittura viene chiamata anche testa del serpente o testa del drago antico... Grazia e dono sono distinti, perché grazia significa propriamente favore o benevolenza di Dio, che egli ci concede e per cui è disposto a infondere in noi Cristo e lo Spirito con tutti i suoi doni, come appare evidente nel cap. 5 (v. 15) ove è detto della grazia e del dono in Cristo ecc. Sebbene i doni e lo Spirito crescano in noi quotidianamente e non siano ancora perfetti, cosicché rimangono in noi ancora cattivi desideri e peccato, che combattono contro lo Spirito, come l’apostolo dice in Romani 7 (vv. 14ss.23) e Galati, 5 (v. 17), e come in Genesi, 3 (v. 15) viene annunziato l’odio fra il seme della donna e il seme del serpente, tuttavia la grazia opera tanto che noi veniamo considerati interamente e pienamente giusti dinanzi a Dio, perché la sua grazia non si divide né si spezzetta, come si fa con i doni, ma ci prende tutti completamente nel suo favore per Cristo, nostro intercessore e mediatore, e perché i doni hanno cominciato a essere manifestati in noi. Cosi si comprende il cap. 7 (v. 8), in cui san Paolo si biasima come peccatore, mentre nel cap. 8 (v. 1) dice: «Non v’è alcuna condanna per quelli che sono in Cristo», a causa dei doni (ancora) imperfetti e dello Spirito. A causa della carne non mortificata siamo ancora peccatori. Ma perché crediamo in Cristo e lo Spirito ha cominciato l’opera sua in noi, Dio è a noi tanto favorevole e pieno di grazia da non volere considerare né giudicare tale peccato, ma ci vuole trattare secondo la fede in Cristo, affinché il peccato sia distrutto. Fede non è quell’umana illusione e quel sogno che alcuni pensano essere fede. E se vedono che non ne deriva alcun miglioramento della vita né opere buone, sebbene odano parlare, 140
e molto parlino essi stessi, di fede, cadono in errore e dicono che la fede è insufficiente, ma è necessario fare opere, divenire pii e santi. Di conseguenza se odono il Vangelo formulano qualche proprio pensiero nel cuore e dicono: “Io credo”. Stimano che questo sia vera fede; ma siccome si tratta soltanto di un pensiero umano che l’intimo del cuore non conosce, non ha efficacia e quindi non ne deriva miglioramento alcuno. La fede è invece un’opera divina in noi che ci trasforma e ci fa nascere di nuovo da Dio (Gv 1,13). Essa uccide il vecchio Adamo, trasforma noi uomini completamente nel cuore, nell’animo, nel sentire e in tutte le energie, e reca con sé lo Spirito Santo. Oh la fede è cosa viva, attiva, operante, potente, per cui è impossibile che non operi continuamente il bene. Non chiede neppure se ci siano opere buone da compiere; prima che si chiedano essa le ha già fatte, ed è sempre in azione. Ma chi non compie tali opere è uomo senza fede, va a tastoni e cerca intorno a sé la fede e le opere, e non sa che cosa siano né fede né opere buone, eppure chiacchiera molto intorno alla fede e alle opere buone. Fede è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio… E una tale fiducia e conoscenza della grazia divina rende lieti, baldanzosi, e giocondi dinanzi a Dio e a tutte le creature per l’opera dello Spirito Santo nella fede. Perciò l’uomo diviene volonteroso, senza costrizione, e lieto nel fare del bene a ognuno, nel servire ognuno, nel sopportare ogni cosa, nell’amore e nella lode di Dio che ha manifestato in lui tale grazia. È quindi impossibile separare le opere dalla fede, come è impossibile separare dal fuoco calore e splendore. Perciò guardati dai tuoi falsi pensieri e dalle chiacchiere vane, che vogliono essere intelligenti, dare giudizi sulla fede e le opere buone mentre sono sommamente stolti. Chiedi a Dio che operi la fede in te, altrimenti qualunque cosa tu voglia o possa immaginare e fare, rimarrai eternamente senza fede. Giustizia è soltanto questa fede e si chiama giustizia di Dio, ossia giustizia che vale dinanzi a Dio, perché Dio la dona e la mette in conto di giustizia per amor di Cristo nostro Mediatore, e spinge l’uomo a dare a ciascuno ciò che gli deve. Mediante la fede l’uomo è purificato dal peccato e trova piacere nei comandamenti di Dio. In tal modo dà gloria a Dio e gli rende quello che gli deve. Serve volonterosamente agli uomini in quello che può, e così 141
rende anche a ciascuno il dovuto. Natura, libera volontà e le nostre forze non possono attuare questa giustizia. Poiché come nessuno può dare a se stesso la fede, così neppure può togliere l’incredulità. Come potrebbe egli togliere un solo piccolissimo peccato? Perciò è falsa ipocrisia e peccato tutto ciò che avviene all’infuori della fede o nell’incredulità (Rm 14,23), sia pur splendido quanto si voglia. Non devi intendere carne e spirito come se carne fosse soltanto impudicizia, e spirito ciò che si riferisce all’intimo del cuore. San Paolo chiama carne, come Cristo in Giovanni 3 (v. 6), ciò che è nato dalla carne: tutto l’uomo col corpo e con l’anima, con la ragione e tutti i sensi, perché tutto in lui ricerca ciò ch’è carnale. Sappi dunque chiamare carnale colui che senza grazia pensa, insegna e ciancia intorno a cose spirituali, come tu puoi apprendere dalle opere della carne (Gal 5,20), ove san Paolo menziona anche eresie e odio come opere carnali. E in Romani 8 (v. 3) egli dice che per mezzo della carne la legge è resa debole, non intendendo con ciò impudicizia, ma tutti i peccati, e specialmente l’incredulità che è il vizio più spirituale di tutti. D’altro lato tu chiami spirituale anche colui che compie le opere più materiali, come Cristo che lavò i piedi ai discepoli, e come Pietro che andava in barca e pescava. Dunque carne è un uomo che vive e opera interiormente ed esteriormente ciò che giova alla carne e alla vita terrena, spirito è, invece, l’uomo che vive e opera interiormente ed esteriormente ciò che serve allo spirito e alla vita avvenire. Se non intendi in tal modo queste parole, tu non capirai mai questa epistola di san Paolo, né alcun altro libro della Sacra Scrittura. Perciò guardati da tutti i maestri, chiunque essi siano – e fossero pure Origene, Ambrogio, Agostino, Girolamo e altri loro pari – che usano queste parole diversamente. E ora prendiamo l’epistola. Un predicatore evangelico deve anzitutto, mediante la rivelazione della legge e del peccato, riprendere tutto ciò che non vive per lo Spirito e la fede in Cristo, affinché gli uomini siano condotti a conoscere se stessi e la propria miseria, e divengano umili e desiderino aiuto. Così fa pure san Paolo cominciando nel cap. 1 a riprendere i peccati grossolani e l’incredulità, manifesti, come lo erano i peccati dei pagani, e ancora lo sono i peccati di coloro che vivono senza la grazia di Dio, e dice: mediante il Vangelo viene manifestata dal ciclo l’ira di Dio su tutti gli uomini, a causa della loro empietà e ingiustizia. 142
Infatti anche se sanno, e ogni giorno riconoscono, che c’è un Dio, pure la natura in sé, senza la grazia, è tanto malvagia che non lo ringrazia né lo onora, ma acceca se stessa e cade continuamente in mali maggiori, finché commette idolatrie e i più vergognosi peccati con tutti i vizi, e, sfacciata, li lascia impuniti anche negli altri. Nel cap. 2 l’apostolo estende la condanna anche a quelli che esteriormente sembrano pii o peccano in occulto, come erano i Giudei, e sono ancora tutti gli ipocriti, che vivono senza gioia e senza amore, e nel cuore sono nemici della legge di Dio, eppure ben volentieri condannano gli altri, secondo la natura degli ipocriti che ritengono se stessi puri, mentre sono pieni di avarizia, di odio, di orgoglio, e di ogni lordura (Mt 23,25). Costoro disprezzano la bontà di Dio, e per la loro durezza di cuore ne attirano l’ira su di sé. Perciò san Paolo, come un buon interprete della legge, non lascia nessuno senza peccato, ma annunzia l’ira di Dio a tutti quelli che vogliono vivere bene secondo la propria natura o libera volontà, e non li fa migliori dei peccatori manifesti, anzi dice che sono ostinati e impenitenti. Nel cap. 3 l’apostolo li mette tutti insieme, e dice: gli uni e gli altri siete tutti peccatori dinanzi a Dio. I Giudei hanno avuto la parola di Dio, ma non l’hanno creduta. Tuttavia la fede in Dio e la verità non sono venute meno. L’apostolo cita una parola del Salmo 51 (v. 6), che Dio è riconosciuto giusto nelle sue parole. Poi ritorna all’argomento e dimostra, anche mediante la Scrittura, che tutti sono peccatori e nessuno diventa giusto con le opere della legge, poiché la legge è data soltanto per fare conoscere il peccato. Poi comincia a insegnare la via vera per giungere alla pietà ed essere salvati. Dice: sono tutti peccatori e mancano della gloria di Dio, ma devono essere giustificati senza merito alcuno, per la fede in Cristo che ha meritato questo per noi mediante il suo sangue, ed egli è stato fatto per noi un trono di grazia da Dio che ci perdona tutti i peccati trascorsi. Così prova che soltanto la sua giustizia, comunicataci nella fede, ci può salvare. Essa è ora rivelata mediante il Vangelo, mentre nel passato era attestata dalla legge e dai profeti. Dunque la legge viene stabilita mediante la fede, anche se così viene abbandonata la legge con tutta la sua gloria. Dopo avere manifestato nei primi tre capitoli il peccato, per insegnare la via della fede, comincia nel cap. 4 ad affrontare alcune obiezioni 143
e pretese. In primo luogo risponde alla obiezione che fanno per lo più tutti quelli che sentono come la fede giustifichi senza le opere e dicono: Non si deve fare alcuna opera buona? Così tiene dinanzi a sé la figura di Abramo e si chiede: Che cosa ha fatto Abramo con le sue opere? È stato tutto invano? Non avevano alcuna utilità le sue opere? E conclude che Abramo, senza opera alcuna, è stato giustificato soltanto mediante la fede, cosicché, anche prima dell’opera della sua circoncisione, viene celebrato dalla Scrittura come uomo giustificato soltanto per la sua fede (Gen 15,6). Se dunque l’opera della circoncisione non ha contribuito alla sua giustizia, che pure era indicata nel comandamento di Dio come buona opera di obbedienza, non potrà certamente nessun’altra opera buona contribuire alla giustizia. Ma, come la circoncisione di Abramo era un segno esteriore per dimostrare la sua giustizia nella fede, così tutte le opere buone sono segni esteriori che derivano dalla fede e provano, come frutti buoni, che l’uomo è già interiormente giusto dinanzi a Dio. Così san Paolo conferma, con un bell’esempio tratto dalla Scrittura, il suo insegnamento intorno alla fede, esposto nel cap. 3. E cita ancora un testimone, Davide nel Salmo 32, che pure afferma che l’uomo viene giustificato senza le opere, sebbene non rimanga senza opere, quando è giustificato. Poi estende il suo esempio a tutte le opere della legge, dicendo che i Giudei non possono essere eredi di Abramo, semplicemente a causa del sangue, e tanto meno a causa delle opere della legge, ma devono ereditare la fede di Abramo, se vogliono essere gli eredi di Abramo, poiché egli è stato giustificato per fede prima della legge di Mosè e della circoncisione, ed è chiamato padre di tutti i credenti. Inoltre la legge ha suscitato molto più ira che grazia, poiché nessuno la compie con amore e con gioia. Dall’opera della legge viene molto più sdegno che grazia, perciò soltanto la fede può ottenere la grazia promessa ad Abramo. Tali esempi sono scritti per noi, affinchè anche noi crediamo. Nel cap. 5 si parla dei frutti e delle opere della fede. Essi sono pace, allegrezza, amore per Dio e per il prossimo, inoltre certezza, costanza, serenità, coraggio e speranza nelle tribolazioni e nelle sofferenze. Infatti tutti questi frutti maturano dove la fede è genuina, a causa della sovrabbondante benignità manifestataci da Dio in Cristo, che egli ha lasciato morire per noi, prima che noi potessimo supplicarlo, perché eravamo an144
cora nemici. Dunque abbiamo provato che la fede giustifica senza opera alcuna, ma non ne consegue che si debba fare nessuna opera buona, anzi non devono mancare le opere giuste, delle quali nulla sanno gli ipocriti che inventano opere proprie in cui non v’è pace, né gioia, né certezza, né amore, né speranza, né costanza, né alcun carattere di una genuina opera cristiana e della fede. Poi l’apostolo fa una interessante divagazione narrando quale sia l’origine del peccato e della giustizia, della morte e della vita, e contrappone bene Adamo a Cristo. Intende dunque dire perché doveva venire Cristo, quale secondo Adamo, per trasmettere a noi la sua giustizia mediante una nuova nascita spirituale nella fede, come il primo Adamo ci ha trasmesso il peccato mediante la vecchia nascita dalla carne. Così sarà manifesto e confermato che nessuno può da solo, mediante le opere, liberarsi dal peccato e pervenire alla giustizia, come è vero che egli non può da solo generarsi corporalmente. Con ciò sarà anche provato che la legge divina, che dovrebbe essere di aiuto, se in qualcosa potesse giovare in vista della giustizia, non soltanto è venuta senza recare aiuto, ma ha piuttosto accresciuto il peccato, perché la natura peccaminosa le diviene tanto più nemica e vuole soddisfare il proprio piacere, quanto più la legge glielo vieta. Dunque la legge rende Cristo ancora più necessario ed esige maggiore grazia per venire in aiuto alla natura umana. E ci insegna che mediante la fede non siamo liberati a tal punto dal peccato da potercene rimanere oziosi, pigri e sicuri di noi stessi, come se non vi fosse più alcun peccato. Il peccato c’è, ma non viene più imputato a condanna, a causa della fede che lo combatte. Perciò abbiamo abbastanza da lottare con noi medesimi durante tutta la vita, per tenere il nostro corpo in soggezione, e mortificare i suoi piaceri e costringere le sue membra, affinché siano obbedienti allo Spirito e non alle proprie concupiscenze. Così diveniamo simili a Cristo nella sua morte e nella sua risurrezione e rendiamo compiuto il nostro battesimo (che significa pure la morte al peccato e una nuova vita nella grazia), finché noi, puri dal peccato anche corporalmente, risorgiamo con Cristo e abbiamo la vita eterna. Noi possiamo fare questo, egli dice, perché non stiamo sotto la legge, ma sotto la grazia; e spiega che essere senza la legge non è lo stesso che non avere alcuna legge e fare ciascuno quello che gli piace. Ma essere sotto 145
la legge significa praticare le opere della legge senza la grazia, per cui il peccato signoreggia certamente mediante la legge, poiché nessuno ama per natura la legge. E questo è un grande peccato. Ma la grazia ci rende la legge amabile, e allora non c’è più alcun peccato, e la legge non è più contro di noi, ma una sola cosa con noi. La stessa cosa vale per la libertà dal peccato e dalla legge che l’apostolo descrive fino alla fine di questo capitolo. Si tratta di una libertà per operare bene con piacere e per vivere onestamente senza la costrizione della legge. Perciò questa libertà è una libertà spirituale, che non sopprime la legge, ma da quello che la legge esige, cioè piacere e amore per appagare la legge, sì che questa non abbia più alcunché da sollecitare ed esigere. È come se tu fossi debitore a un feudatario e non sapessi come pagare. Potresti liberarti dal debito in due modi. Primo: che egli non prenda nulla da te e strappi il suo registro; secondo: che un uomo pio paghi per te e ti dia quanto ti occorre per soddisfare il tuo creditore. A questo modo Cristo ci ha affrancati dalla legge. Non si tratta quindi di una sfrenata libertà carnale, che non vuole fare nulla, ma di una libertà che compie molte opere e di ogni genere, però è esente da quanto la legge esige e alla legge si deve. Con un esempio tratto dalla vita coniugale, l’apostolo conferma queste cose nel cap. 7. Se il marito muore, la moglie è libera, e i due sono completamente sciolti l’uno dall’altro. Alla moglie non è punto vietato di prendere un altro marito, anzi essa è del tutto libera di sposare un altro, mentre non poteva farlo prima di essere sciolta da quel marito. Così la nostra coscienza è vincolata alla legge sotto il vecchio uomo peccaminoso. Se questi però viene ucciso dallo Spirito, la coscienza è libera, e i due sono completamente sciolti l’uno dall’altro. Ciò non vuol dire che la coscienza non debba fare nulla, ma proprio ora essa deve dipendere da Cristo, dall’altro uomo, e portare i frutti della vita. Poi l’apostolo continua a dipingere la natura del peccato e della legge, come mediante la legge il peccato prende vita e diviene vigoroso. Infatti l’uomo vecchio diviene sempre più ostile alla legge, perché non può pagare quello che la legge esige. Peccato è la sua natura, e per se stesso non può fare diversamente, perciò la legge è la sua morte e ogni Suo tormento. Non già che la legge sia cattiva, ma la natura malvagia non può tollerare il bene, non può tollerare che la legge esiga da essa 146
il bene. Come un inalato non può soffrire che si esiga da lui di correre e saltare e di compiere altre azioni da persona sana. Perciò san Paolo conclude che quando si conosce bene la legge e la si intende nel modo migliore, essa non fa altro che ricordarci il nostro peccato e ucciderci per mezzo di esso, rendendoci meritevoli dell’ira eterna, come ben si apprende e si sperimenta nella coscienza, giustamente colpita dalla legge. Dunque per rendere l’uomo pio e salvo bisogna avere qualcosa di diverso e di più della legge. Ma coloro che non conoscono bene la legge, sono ciechi, presuntuosi, pensano di soddisfarla abbastanza con le opere, perché non sanno quanto la legge esige, cioè un cuore libero, volonteroso, lieto. Non vedono bene Mosè con gli occhi; il velo che l’occulta rimane disteso dinanzi ai loro occhi (allusione a 2Cor 3,12-16). Quindi l’apostolo mostra come lo spirito e la carne siano in conflitto fra loro in una stessa persona. E pone se stesso come esempio, affinché impariamo a conoscere bene l’opera (uccidere il peccato in noi stessi). Chiama lo spirito e la carne una legge che, come la legge divina, stimola ed esige. Così anche la carne stimola ed esige e infuria contro lo spirito, e vuole soddisfare il suo desiderio. Dall’altro lato lo spirito stimola e fa valere le sue esigenze contro la carne e vuole soddisfare il suo desiderio. Questo conflitto permane in noi finché viviamo, nell’uno di più, nell’altro di meno, a seconda che è più forte lo spirito o la carne. Infatti tutto l’uomo è spirito e carne, ed è in conflitto con sé stesso, finché non divenga tutto spirituale. Nel cap. 8 l’apostolo consola questi combattenti, affinché questa carne non li condanni, e inoltre mostra quale sia la natura della carne e dello spirito, e come lo spirito venga da Cristo, che ci ha dato lo Spirito Santo, affinché ci renda spirituali e reprima la carne. E ci assicura che siamo figli di Dio, per quanto il peccato possa infuriare in noi, finché seguiamo lo Spirito e resistiamo al peccato per ucciderlo. Poiché nulla è tanto utile a stordire la carne quanto la croce e la sofferenza, ci consola nella sofferenza assistendoci con lo Spirito, l’amore e tutte le creature, perché lo Spirito sospira in noi e la creazione brama con noi che siamo liberati dalla carne e dal peccato. Così vediamo che questi tre capp. 6, 7, 8 ci incitano a compiere l’unica opera della fede, cioè mortificare il vecchio Adamo e sottomettere la carne. 147
Nei capp. 9, 10 e 11 l’apostolo insegna l’eterna predestinazione di Dio, dalla quale ha la sua prima origine chi deve o non deve credere, chi può o non può essere affrancato dal peccato, affinché la nostra giustificazione sia tolta dalle nostre mani e posta soltanto nella mano di Dio. Ciò è anche estremamente necessario, perché siamo tanto deboli e incerti che, se dipendesse da noi, non un sol uomo si salverebbe. Il diavolo certamente li vincerebbe tutti. Ma poiché Dio è certo che la sua predestinazione non verrà meno e che nessuno gliela potrà impedire, possiamo ancora sperare contro il peccato. Ma qui bisogna una buona volta colpire gli spiriti insolenti e orgogliosi, che anzitutto in questo punto vogliono fare valere la loro intelligenza e cominciano a investigare l’abisso della divina predestinazione e invano si preoccupano di sapere se sono predestinati. Essi devono rovinare se stessi, perché o vengono meno nell’animo o mettono a repentaglio la loro vita. Ma tu segui questa epistola nel suo ordine. Preoccupati anzitutto di Cristo e del suo Vangelo, in modo da conoscere il tuo peccato e la sua grazia. Poi combatti contro il peccato come insegnano i capp. 1.2. 3.4.5.6.7.8. Poi, quando sei giunto al cap. 8, sotto la croce e nella sofferenza, allora imparerai bene quanto sia consolante la predestinazione nei capp. 9.10.11. Infatti senza sofferenza, croce e distretta mortale non si può trattare della predestinazione senza danno e celata ira contro Dio. Il vecchio Adamo dev’essere ben morto prima che tolleri queste cose e beva il vino forte. Perciò bada bene di non bere del vino, finché sei un lattante. Ogni dottrina ha la sua misura, il suo tempo e la sua età. Nel cap. 12 l’apostolo insegna il vero culto e fa tutti i cristiani sacerdoti, affinché offrano non denaro né animali, come vuole la legge, ma i loro propri corpi con la mortificazione della concupiscenza. Quindi descrive la condotta esteriore dei cristiani nella sfera spirituale, come devono insegnare, predicare, governare, servire, dare, soffrire, amare e operare verso amici, nemici e verso ogni persona. Sono opere che fa un cristiano, perché, come ho detto, la fede non rimane oziosa. Nel cap. 13 l’apostolo insegna a onorare l’autorità civile e a esserle obbedienti. Essa è stata istituita, anche se non rende la gente pia davanti a Dio, affinché per mezzo suo i giusti possano godere pace esteriore e protezione, e i malvagi non facciano liberamente il male, senza paura e 148
in tutta tranquillità. Perciò la devono onorare pure le persone pie, anche se esse non ne avrebbero bisogno. Infine comprende tutto nell’amore e conclude con l’esempio di Cristo, affinchè come egli ha agito verso di noi, anche noi agiamo similmente e lo seguiamo. Nel cap. 14 insegna a condurre bene nella fede le coscienze deboli e ad avere riguardo per esse, a non usare la libertà cristiana a detrimento dei deboli, ma in modo da aiutarli. Infatti dove non si fa questo, sorgono contese, con il conseguente disprezzo per il Vangelo, e tutte le difficoltà. È meglio cedere in qualche cosa ai deboli, finché siano divenuti forti, piuttosto che perdere interamente la dottrina del Vangelo. Questa è un’opera speciale dell’amore, che anche adesso è necessaria, perché col mangiare carne e altre libertà si diviene sfacciati e rozzi, si offendono, senza necessità, le coscienze deboli prima che siano pervenute alla conoscenza della libertà. Nel cap. 15 presenta Cristo come esempio, affinchè noi pure sopportiamo i deboli che facilmente cadono in peccati manifesti o hanno cattivi costumi. Non li dobbiamo respingere, affinchè anch’essi possano migliorare. Infatti Cristo ha fatto così con noi, e ancora fa così ogni giorno, tanto che porta molti nostri vizi e cattivi costumi, oltre a ogni genere di imperfezioni, e ci aiuta continuamente. Infine l’apostolo prega per i cristiani di Roma, li loda e li raccomanda a Dio. E mostra il suo ministero e la sua predicazione e chiede loro con delicatezza un’offerta per i poveri di Gerusalemme, ed è puro amore ciò ch’egli dice e tratta. L’ultimo capitolo è un capitolo di saluti; ma vi inserisce una nobile esortazione a guardarsi dalle dottrine umane che si insinuano nella dottrina evangelica e provocano scandalo. Proprio come se avesse previsto con certezza che da Roma e per mezzo dei Romani sarebbero venuti i Canoni e le Decretali che traggono in errore e tutta la farragine di leggi e di comandamenti umani che oggi sommergono il mondo intero, e hanno soppresso questa epistola e tutta la Sacra Scrittura insieme allo Spirito e alla fede, sì che nulla ne è rimasto all’infuori dell’idolo, il ventre, i cui servitori san Paolo qui riprende. Dio ci liberi da loro. Amen. In questa epistola troviamo dunque in misura ricchissima ciò che un cristiano deve sapere, cioè che cosa sia legge, Vangelo, peccato, pena, grazia, fede, giustizia, Cristo, Dio, buone opere, amore, speranza, croce. E ci viene detto come dobbiamo condurci verso ognuno, sia pio che pec149
catore, forte o debole, amico o nemico, e verso noi medesimi. Inoltre tutto è motivato con le Scritture, provato con esempi di sé (Paolo) stesso e dei profeti, sì che non si può desiderare di più. Sembra che san Paolo abbia voluto riassumere in questa epistola tutto l’insegnamento cristiano ed evangelico e dare una introduzione a tutto l’Antico Testamento. Infatti non v’è dubbio che colui, il quale ritiene in cuore questa epistola, ha per sé la luce e la forza dell’Antico Testamento. Perciò ogni cristiano abbia familiarità con essa e continuamente la mediti. Dio ci conceda a tal fine la sua grazia. Amen2.
Per approfondire l’interpretazione di Lutero in ordine alla lettera ai Romani si vedano, per es., oltre a M. Lutero, La lettera ai Romani (1515-1516), a cura di F. Buzzi, anche M. Lutero, Lezioni sulla lettera ai Romani, a cura di G. Pani, Marietti, Genova 1991. 2
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Associazione Biblica della Svizzera Italiana Presentazione L’absi (= Associazione Biblica della Svizzera Italiana) è un sodalizio culturale ecumenico, che ha, quale suo fine, di favorire la lettura e lo studio della Bibbia nel territorio della Svizzera a maggioranza italofona e anche al di fuori di essa. Varie iniziative di formazione biblica sono organizzate anche in Italia, in base a sinergie con istituzioni culturali italiane. L’absi è stata fondata a Lugano il 15 gennaio 2003. Il comitato dell’associazione è composto, secondo l’art. 5 dello statuto, da membri eletti dai socî o designati da istituzioni ecclesiali e culturali operanti nel territorio della Svizzera Italiana e in Italia anche sul fronte della formazione biblica. Possono essere membri dell’absi sia persone fisiche che enti, gruppi, associazioni culturali e comunità religiose. Attualmente i soci sono 405 (295 in Svizzera, 110 in Italia). Presidente absi è Ernesto Borghi, vice-presidente Paola Quadri Cardani. Dalla fondazione sono state organizzate oltre 290 iniziative (seminari, conferenze, incontri) nel campo della formazione biblica, interreligiosa ed interculturale. Pubblicazioni varie L’organo d’informazione dell’associazione è la brochure quadrimestrale “Parola&parole”. La rivista, che ha numeri eterogenei e monografici contiene articoli di approfondimento e riflessione esegeticoermeneutica, informazioni bibliografiche e notizie circa le varie iniziative di formazione biblica e storico-religiosa organizzate nel territorio della Svizzera italiana e altrove. 153
Ecco l’elenco cronologico e tematico dei numeri di “Parola&parole” sinora pubblicati, compresi i numeri monografici, tutti testi che possono essere richiesti a € 5 la copia (spese postali incluse): • 1/2003 Per vivere e far vivere da esseri umani (di Ernesto Borghi) La lettura della Bibbia nella cultura e nella Chiesa (di Rinaldo Fabris) • 2/2003 Per un’autentica formazione umana (di Ernesto Borghi) La pianura: perdersi ed incontrare Dio. Una lettura di Ezechiele 37,1-14 (di Tobias Ulbrich) La lettera di Paolo a Filemone: per scoprire e costruire un futuro diverso (di Renzo Petraglio) • 3/2004 Perché leggere la Bibbia oggi? (di Callisto Caldelari) Un itinerario per leggere la Bibbia a molti livelli (di Ernesto Borghi) L’importanza dell’Antico Testamento per il Nuovo Testamento (di Paolo De Benedetti) • 4/2004 Parola - parole - silenzio (di Daria Pezzoli-Olgiati) Il Canto d’amore di Dodì e Rahjatì. Riflessione sul Cantico dei Cantici (di Alessandro Faggian) Chi ha condannato a morte Gesù di Nazareth? (intervista di Italo Molinaro a Giuseppe Barbaglio) • 5/2005 Il “Cielo” lontano e lo Spirito Consolatore (di Tobias Ulbrich) Il pane vero. Teoria del Logos e simbolismo biblico (di Renato Giovannoli) Da “Il futuro è la Parola” (di Silvano Fausti con Luca Crippa) • 1/2005 - Monografie Per leggere il Discorso della montagna (di Ernesto Borghi - edizione italiana: Il Discorso della montagna, Claudiana, Torino 2007, 20112, pp. 120) • 6/2005 Una bussola per non smarrirsi (di Carlo Silini) Le rappresentazioni artistiche della risurrezione. Breve presentazione del loro sviluppo storico (di Jean-Claude Lechner) Lo Spirito di fuoco (di Giuseppe E. Laiso) 154
• 7/2006 Religione, Bibbia e giovani (di Rolando Leo) La TILC ha trent’anni di vita (di Otto Rauch) Maria di Nazareth, donna della gioia responsabile? Dal Magnificat alla vita di oggi (di Pierluigi Cavallini) • 2/2006 - Monografie Bibbia e Corano (di Giuseppe La Torre - edizione italiana: Bibbia e Corano. Due mondi sotto un unico cielo, Claudiana, Torino 2008, pp. 140) • 8/2006 La Bibbia è un cartellone pubblicitario? (di Italo Molinaro) Come sono giunti a noi i vangeli? Una riflessione a partire dal codice Vaticano greco 1209 (di Carlo Maria Martini) «Voi chi dite che io sia?» (Mc 8,29). Sull’etica di Albert Schweitzer (di Enrico Colombo) • 3/2007 - Monografie Per entrare nel libro dell’Esodo (di Michael Fieger - Alberto Soggin - Ernesto Borghi - Renzo Petraglio - Giorgio Paximadi - Adrian Schenker) • 9/2007 La libertà dell’ermeneutica, l’intelligenza della generosità (di Ernesto Borghi) Paolo di Tarso: la figura e l’opera (cenni generali e lettura di testi) (di Giuseppe Barbaglio) To ears of flesh and blood. Note sul rapporto tra Shakespeare e la Bibbia (di Alessandro Perduca) • 10/2007 Bibbia e politica (di Piero Stefani) Noè, parabola dell’umano (di Raniero Fontana) La prima lettera ai Tessalonicesi: cenni generali e lettura di testi (di Francesco Mosetto) • 4/2008 - Monografie Gli apocrifi del Nuovo Testamento e le origini cristiane: possibilità, difficoltà, chiarificazioni (di Enrico Norelli - Claudio Gianotto - Flavio G. Nuvolone - Eric Noffke; edizione italiana: Gli apocrifi del Nuovo Testamento. Per leggerli oggi, EMP, Padova 2013, pp. 125) • 5/2008 - Monografie Dio soffre con noi? Dalla Bibbia alla cultura contemporanea (di Sandro Vitalini edizione italiana: Dio soffre con noi? Il mistero del male nel mondo, la meridiana, Molfetta [BA] 2010, pp. 120) • 11/2008 Una pecora che non vuole essere gregge (di Ernesto Borghi) Dal comandamento di amare un cammino per l’umano (di Renato Fadini) Bach e la Bibbia: tre questioni (di Raffaele Mellace) 155
• 12/2008 Parola&parole…& web (di Italo Molinaro) La tentazione della ricchezza: la lettura di Lc 12,16-21 e Mt 19,16-22 secondo Basilio di Cesarea (di Damian Spataru) Della saggezza di Salomone e l’abbandono (di Leopoldo Lonati) • 6/2008 - Monografie Che cosa è la vita? Le lettere di Paolo rispondono (di Ernesto Borghi con Renzo Petraglio) • 7/2009 - Monografie Dalle parole di Gesù alla redazione dei vangeli. Punti fermi e ipotesi di lavoro per la cultura di tutti (a cura di Ernesto Borghi - contributi di Enrico Colombo - Albert Schweitzer - Sergio Ronchi - Rinaldo Fabris - Adriana Destro - Mauro Pesce - Ernesto Borghi) • 13/2009 Una lettura che sazia (di Cleto Rizzi) Tempi moderni, anzi ultimi. La Bibbia nelle canzoni di Bob Dylan (di Renato Giovannoli) Cafarnao e Cesarea di Filippo: luoghi archeologici e teologici (di Cinzia Randazzo) • 14/2009 Dogma o storia? (di Enrico Colombo) Terza Lamentazione: dalla paura alla speranza (di Cristiana Nicolet) Giovanni Calvino, esegeta della Scrittura (di Sergio Ronchi) • 8/2009 - Monografie I numeri della Bibbia (di Alessandro Faggian) • 15/2010 Editoriale (di Gianpiero Vassallo) Soffrire per amare. Una lettura di Marco 14,32-42 (di Angela Arcamone) Ambrogio e le metafore legate all’udito (di Roberta Ricci) • 16/2010 Sono simile al pellicano del deserto (di Renzo Petraglio) “Chi è il mio prossimo?” Intersezioni tra esegesi ed etica sociale (di Markus Krienke) Tra metafora e similitudine: l’officina poetica del Cantico dei Cantici (di Luciano Zappella) • 9/2010 - Monografie Dal Vangelo di Gesù di Nazareth: parole, testi, riflessioni (a cura di Ernesto Borghi – contributi di Marinella Perroni, Jean-Claude Verrecchia, Renzo Petraglio, Emilio Pasquini, Lidia Maggi) 156
• 10/2011 - Monografie Per conoscere Maria di Nazareth: dal Nuovo Testamento alla fede contemporanea (di Ernesto Borghi - edizione italiana: Per conoscere Maria, madre di Gesù, Cittadella, Assisi [PG] 2011, pp. 46) • 17/2011 Essere umani e la Bibbia (di Gherardo Colombo) La preghiera degli uomini comuni nei Vangeli (di Americo Miranda) Il tema del perdono alle origini del cristianesimo: letture specifiche e riflessioni globali (di Cinzia Randazzo) • 18/2011 All’inizio di tutto (di Erri De Luca) Donna e Discepolato. La formazione del lettore attraverso i caratteri femminili nel vangelo secondo Marco (di Nicoletta Gatti) Dal Qoèlet (di Elena Loustalot) • 11/2011 - Monografie Per vivere le relazioni familiari e sociali secondo la Bibbia (di Ernesto Borghi in collaborazione con Noemi Sollima) • 12/2012 - Monografie Dall’incontro alla tavola. Il vangelo secondo Marco, la fede cristiana e l’eucaristia (di Ernesto Borghi in collaborazione con Renzo Petraglio; II edizione: ottobre 2014) • 19/2012 Le chiavi di casa (di Annamaria Corallo) Per leggere Genesi 12,1-4a (di Elena Lea Bartolini De Angeli) Il regno per i bambini (di Fabrizio Filiberti) • 20/2012 Carlo Maria Martini, la Bibbia per la vita di tutti Paolo, servo di Cristo Gesù. Ecco come ti racconto una esperienza di Dio (di Stefania De Vito) Pregi e limiti delle letture “attualizzanti-volgari” dell’Apocalisse (di Pasquale Arciprete) Come sono giunti a noi i vangeli? Una riflessione a partire dal codice Vaticano greco 1209 (di Carlo Maria Martini) • 13/2013 - Monografie Dalla libertà alla liberazione. Il vangelo secondo Luca, il perdono e la riconciliazione (di Ernesto Borghi in collaborazione con Renzo Petraglio; edizione italiana: dal Vangelo secondo Luca. Misericordia, perdono e riconciliazione, Cittadella, Assisi [PG] 2015, pp. 131) 157
• 21/2013 Andrea Gallo, vivere il Vangelo per il bene di tutti Gesù di Nazareth, maestro di relazioni (di Annamaria Corallo) Il concetto della Gloria nel vangelo secondo Giovanni. Brevi riflessioni teologiche (di Cinzia Randazzo) • 14/2013 - Monografie Per leggere il Cantico dei Cantici. Analisi e interpretazioni (di Pierluigi Galli Stampino - Elena Lea Bartolini De Angeli - a cura di Ernesto Borghi) • 15/2014 - Monografie Per iniziare a leggere la Bibbia (di Ernesto Borghi; edizione italiana: Iniziare a leggere la Bibbia, Cittadella, Assisi [PG] 2014. 20162, pp. 96) • 16/2014 - Monografie Credere fa vivere. Il vangelo secondo Matteo e la fede quotidiana per tutti (di Ernesto Borghi in collaborazione con Renzo Petraglio; edizione italiana: Credere fa essere umani? Dal Vangelo secondo Matteo alla fede quotidiana per tutti, Elledici, Torino 2016, pp. 206) • 22/2014 Diventare cristiani interreligiosamente? (di Silvano Bert) L’icona dell’Anastasis e le sue fonti bibliche (di Renato Giovannoli) Preghiera e salvezza: un percorso biblico nel Purgatorio di Dante (di Giuseppe La Gala) Bibbia e vita, Nord e Sud del mondo. Il Centro Giovani Kamenge, Bujumbura (Burundi) SUBLIMAR: per far convivere meglio le differenze culturali e religiose • 17/2014 - Monografie Patriarchi e matriarche nel Primo Testamento. Analisi, riflessioni ed interpretazioni interculturali (di Nicoletta Crosti - Elena Lea Bartolini De Angeli - Luigi Nason - a cura di Ernesto Borghi) • 18/2015 - Monografie Leggere Bibbia e Corano per vivere insieme (di Renzo Petraglio - con il contributo di Ernesto Borghi - postfazione di Giuseppe La Torre) • 23/2015 Una vita per leggere la Bibbia con gli altri: Rinaldo Fabris (di Ernesto Borghi) La lettura della Bibbia nella cultura e nella Chiesa (di Rinaldo Fabris) Le parole di Gesù: criteri di storicità, prospettive di fede (di Rinaldo Fabris) Il timore di Dio in Cristo e nel mondo secondo Giovanni (di Cinzia Randazzo) Lc 7,36-50: Il perdono in lacrime. Una lettura in chiave comunicativa (di Stefania De Vito) Lutero imprevedibile e “cattolico”? (di Giuseppe Nespeca - Teresa Gerolami) 158
• 24/2015 L’incanto di una Chiesa unita (di Giovanni Cereti) La parola di Dio come luogo di incontro delle diverse confessioni cristiane (di Lidia Maggi) “Tu sei Pietro”. Lettura di Matteo 16,13-28 (di Alberto Maggi) Per un ecumenismo del cuore e della mente: radici bibliche e riflessioni contemporanee (di Paola Zanardi Landi) Verso l’unità per il bene di tutti (interventi di Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola Valdese - papa Francesco, vescovo di Roma) • 25/2016 Per leggere i Salmi. Un’introduzione (di Angelo Reginato) Una Chiesa “in uscita”. Per leggere gli Atti degli Apostoli (di Francesco Mosetto) La giustizia dell’amore solidale. Per interpretare Mt 25,31-46 oggi (di Filomena Sicignano) L’Apocalisse e la nostra storia. Una lettura dell’apertura dei 7 sigilli (Ap 6,1-8,1) (di Renato Fadini) • 26/2016 Il paradosso dei testi sacri dove i violenti cercano legittimazione (di Principe Hassan di Giordania - Ed Kassler) Per leggere ed interpretare il silenzio delle donne in Marco 16,1-8 (di Vanda Giuliani Zanoni) La Parola che scuote: per leggere Isaia 6,1-13 nella vita di oggi (di Fernando Russo) Sul commento di Origene al vangelo secondo Luca (di Cinzia Randazzo)
Oltre alla rivista absi mette a disposizione di chiunque le desideri sia la monografia Laicità e libertà dalla Bibbia alla vita contemporanea (pp. 47 - marzo 2013 - € 5) sia alcune pubblicazioni di maggiore estensione e spessore culturale: • Leggere la Bibbia oggi, Àncora, Milano 2001, pp. 184, € 11/CHF 15 (spese postali incluse): si tratta di un volume collettaneo, che contiene saggi su passi biblici del Primo e del Nuovo Testamento scritti da Gianfranco Ravasi, Elia Richetti, Daniele Garrone e altri studiosi di caratura internazionale. Lo scopo è di evidenziare l’importanza della Bibbia come punto di riferimento della formazione culturale di tutti; 159
• E. Borghi, Di’ soltanto una parola. Linee introduttive alla lettura della Bibbia, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 20102, pp. 284, € 10/CHF 17 (spese postali incluse): un saggio utile all’approccio globale verso la Bibbia dal punto di vista metodologico, storico-letterario ed esegetico-ermeneutico, adatto sia a tutti coloro che si avvicinano per la prima volta ai testi scritturistici sia a chi abbia già nozioni significative in proposito; • E. Borghi - R. Petraglio (edd.), La fede attraverso l’amore. Introduzione alla lettura del Nuovo Testamento, Borla, Roma 2006, pp. 478, € 30/CHF 37 (spese postali incluse): un percorso analitico di introduzione al confronto esegetico-ermeneutico con il Nuovo Testamento, frutto della competenza tecnica e della passione culturale di esegeti di varia età, ispirazione cristiana e formazione accademica; • E. Borghi, Il tesoro della Parola. Cenni storici e metodologici per leggere la Bibbia nella cultura di tutti, Borla, Roma 2008, pp. 135, € 15/CHF 20 (spese postali incluse): un saggio utile alla considerazione sintetica dei metodi di lettura della Bibbia e dell’importanza della Bibbia stessa nella storia della cultura euro-occidentale; • E. Borghi - R. Petraglio (edd.), La Scrittura che libera. Introduzione alla lettura dell’Antico Testamento, Borla, Roma 2008, pp. 514, € 30/CHF 37 (spese postali incluse): è un percorso di letture globali ed analitiche relative ai libri del Primo Testamento, condotto con ampiezza ancora maggiore rispetto a quanto avvenuto nella precedente introduzione alla lettura del Nuovo Testamento; • E. Borghi, Il mistero appassionato. Lettura esegetico-ermeneutica del vangelo secondo Marco, in collaborazione con R. Petraglio e N. Gatti, EMP, Padova 2011, pp. 413, € 20/CHF 30 (spese postali incluse): è una lettura complessiva di questa versione evangelica pensata per credenti e non credenti; • E. Borghi, Gesù è nato a Betlemme? I vangeli dell’infanzia tra storia, fede, testimonianza, Cittadella, Assisi 2011, pp. 254, € 15/CHF 22 (spese postali incluse); 160
• E. Borghi, La gioia del perdono. Lettura esegetico-ermeneutica del vangelo secondo Luca, in collaborazione con R. Petraglio e N. Gatti, EMP, Padova 2012, pp. 512, € 20/CHF 30 (spese postali incluse): è una lettura complessiva di questa versione evangelica pensata per credenti e non credenti; • E.L. Bartolini De Angeli - E. Borghi - P. Branca - R. Petraglio, Credere per vivere. Prospettive giudaiche, cristiane e islamiche a confronto, Edizioni Terrasanta, Milano 2012, pp. 208, € 15/CHF 20 (spese postali incluse): è una lettura della nozione di fede nelle tre religioni abramitiche, a confronto con la cultura di oggi; • E. Borghi, La giustizia della vita. Lettura esegetico-ermeneutica del vangelo secondo Matteo, in collaborazione con R. Petraglio e E.L. Bartolini De Angeli, EMP, Padova 2013, pp. 465, € 20/CHF 30 (spese postali incluse): è una lettura complessiva di questa versione evangelica pensata per credenti e non credenti; • E. Borghi, Dio fa preferenze? Lettura esegetico-ermeneutica degli Atti degli Apostoli, in collaborazione con R. Petraglio e E.L. Bartolini De Angeli, Edizioni Terra Santa, Milano 2014, pp. 281, € 15/ CHF 23 (spese postali incluse): è una lettura complessiva di questo libro neo-testamentario in prospettiva inter-culturale ampia; • Cantoria di Giubiasco - Gruppo Larius - absi - ABEM, Forte come la morte è l’amore. Oratorio sul Cantico dei Cantici, CD+libro (pp. 60), Rugginenti editore, Milano 2014, € 15/CHF 18 (spese postali incluse): un’opera musicale e letteraria ad un tempo, che consente di entrare in rapporto con questo libro biblico così importante nella cultura universale; • E. Borghi (a cura di), Donne e uomini. Prospettive di umanità dalla Bibbia alla vita di oggi, con Gaia De Vecchi-Noemi Sollima-Luigi Cuonzo, Effatà, Cantalupa (TO) 2014, pp. 285, € 15/CHF 18 (spese postali incluse): un volume di introduzione ai temi delle relazioni familiari e sociali a partire da testi del Primo e del Nuovo Testamento; 161
• E. Borghi (a cura di), Per leggere la Bibbia nella vita di oggi. 1. Per leggere la Toràh/il Pentateuco, CD con Lidia Maggi - Angelo Reginato - Elena Lea Bartolini De Angeli - Claudia Milani, € 15/CHF 20 (spese postali incluse): un CD MP3 che contempla la registrazione di otto conversazioni introduttive alla lettura della Bibbia in generale e a quella dei primi cinque libri biblici in particolare; • E. Borghi (a cura di), Per leggere la Bibbia nella vita di oggi. 2. Per leggere i libri storici, CD con Lidia Maggi - Angelo Reginato - Renzo Petraglio - Claudia Milani, € 15/CHF 20 (spese postali incluse): un CD MP3 che contempla la registrazione di otto conversazioni introduttive alla lettura dei libri storici del Primo Testamento, da Giosuè ai libri dei Maccabei; • E. Borghi (a cura di), Per leggere la Bibbia nella vita di oggi. 3. Per leggere i libri sapienziali, CD con Lidia Maggi - Angelo Reginato - Renzo Petraglio - Claudia Milani, € 15/CHF 20 (spese postali incluse): un CD MP3 che contempla la registrazione di dieci conversazioni introduttive alla lettura dei libri sapienziali del Primo Testamento, da Giobbe al libro della Sapienza; • E. Borghi (a cura di), Per leggere la Bibbia nella vita di oggi. 4. Per leggere i libri profetici, CD con Lidia Maggi - Angelo Reginato - Renzo Petraglio - Claudia Milani - Elena Lea Bartolini De Angeli - Eric Noffke, € 20/CHF 22 (spese postali incluse): due CD MP3 che contemplano la registrazione di diciannove conversazioni introduttive alla lettura di molti libri profetici primo-testamentari e del mondo degli apocrifi primo-testamentari; • E. Borghi (a cura di), Il cammino dell’amore Lettura del vangelo secondo Giovanni, in collaborazione con R. Petraglio e G. Rouiller, Edizioni Terra Santa, Milano 2016, pp. 305, € 20 / CHF 25 (spese postali incluse): è una lettura complessiva di questo libro neo-testamentario in rapporto con le altre versioni evangeliche e l’evangelizzazione contemporanea ad ampio raggio;
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• E. Borghi (a cura di), Per leggere la Bibbia nella vita di oggi. 5. Per leggere i vangeli e gli Atti degli Apostoli, CD con Lidia Maggi Claudia Milani - Angelo Reginato, € 15/CHF 20 (spese postali incluse): un CD MP3 che contempla la registrazione di dodici conversazioni introduttive alla lettura del Nuovo Testamento (in generale), dei quattro vangeli canonici, dei vangeli apocrifi e degli Atti degli Apostoli.
Multimedialità Il sito internet dell’associazione (www.absi.ch) è il punto di riferimento informativo e formativo più rapido e tempestivo che la nostra associazione abbia per conseguire le sue finalità istituzionali sul fronte della formazione e informazione bibliche. Il canale youtube Associazione Biblica della Svizzera Italiana” (visitato da oltre 41000 persone dal febbraio 2011 e contenente 206 registrazioni di incontri, seminari, conferenze di lettura biblica che concernono l’introduzione generale alla Bibbia, libri del Primo Testamento, del Nuovo Testamento, argomenti di carattere sociale, etico, antropologico, artistico, musicale, dai testi e valori biblici alla vita di oggi). Per rendersi conto direttamente dei temi affrontati nel corso delle numerosissime iniziative proposte, si visiti il canale cercando il link “video”. Le pagina Facebook “Associazione Biblica della Svizzera italiana” e “I volti della Bibbia” sono due altri importanti strumenti di formazione/informazione biblica.
Per associarsi ad absi Associarsi ad absi implica anzitutto ricevere tutte le pubblicazioni edite nel corso dell’anno di associazione e avere facilitazioni nella partecipazione agli eventi formativi organizzati da absi. La sede absi è in via Cantonale 2a - cp 5286 - 6901 - Lugano - tel. 079 53 36 194 091 993 32 59 - e-mail: info@absi.ch (per comunicare telefonicamente con absi in Italia: tel. 348 03 18 169). 163
Le quote sociali sono le seguenti: Singoli Famiglie Istituzioni
Soci ordinari
CHF 50 (€ 40) CHF 75 (€ 60) CHF 160 (€ 120)
Soci sostenitori
da CHF 100 (da € 80) da CHF 150 (da € 120) da CHF 320 (da € 240)
La quota sociale entro i 25 anni è di CHF 30.- (€ 25.-) Le differenze significative tra le quote in franchi e le quote in euro sono legate al diverso livello economico di vita medio tra Svizzera e Italia. Le quote vanno versate di norma, per coloro che abitano in Svizzera, sul c/c postale n. 65-134890-5 (per i bonifici bancari: Post Finance - codice IBAN: CH 18 0900 0000 6513 4890 5) intestato a Associazione Biblica della Svizzera italiana. Per chi abita nei Paesi dell’area euro, Italia compresa, le quote sociali possono essere inviate con bonifico bancario sul conto Post Finance SA, CH-3030 Berna - codice IBAN: CH 67 0900 0000 9136 3796 3 sempre intestato a Associazione Biblica della Svizzera Italiana BIC (Swift Code): POFICHBEXXX, Solo chi è in Italia può inviare la sua quota in busta chiusa, a: absi cp 3 - via Labeone 16 - 20133 - Milano.
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