Biennale giovani Monza

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Reggia di Monza Serrone della Villa Reale 13 Maggio – 16 Luglio 2017 da martedì a venerdì: 11-13/15-19 sabato, domenica e festivi: 11-19 venerdì apertura serale fino alle 22 chiuso il lunedì INGRESSO LIBERO www.biennalegiovanimonza.it


I con il sostegno di |

enti promotori |

Rotary Club Monza

membri del comitato |

sponsor | coordinamento Gerardo Genghini responsabile scientifico Daniele Astrologo Abadal

rni della pagina

organizzazione Cinzia Ercoli Maria Marconcini Claudia Ratti progetto grafico Fanny Abbà - Monza progetto espositivo Assostudio - Monza allestimento La Moquette & Parquet - Monza ProEvent - Concorezzo

Associazione Amici dei Musei di Monza e Brianza onlus

free press Artribune - Roma

Università Popolare di Monza

progetto grafico Alessandro Naldi

sponsor tecnici |

impianti grafici FDF - Monza Grafica & Stampa 86 - Muggiò Legma Grafiche - Lissone

l coinvolgimento delle Accademie schiude a delle prospettive culturali che si sviluppano in due direzioni, in senso orizzontale e verticale, all’insegna dell’apertura e della profondità. La prima riguarda la molteplicità delle discipline artistiche, non più limitate ai generi consacrati dalle Belle Arti, bensì diversificati e aggiornati sulla scorta degli ultimi derivati tecnologici e sull’onda delle sperimentazioni linguistiche approntate dalle avanguardie. La seconda interessa l’individuo, va alla radice della creatività, per assestarsi in quello stadio di crescita ormai maturo per esprimersi in tutta la propria spregiudicata originalità. Due aspetti che contraddistinguono la Biennale Giovani Monza, ne costituiscono l’anima e la vocazione, quella di offrire un valido banco di prova a chi intende mettere in luce le proprie qualità espressive e allo stesso tempo quella di scoprire i giovani talenti. Pertanto ci si è rivolti a cinque docenti, attivi presso altrettante Accademie italiane, chiamati a selezionare sei artisti per un totale di trenta. Sono insegnanti, formatori con alle spalle un consolidato iter creativo; sono Marcello Maloberti (Nuova Accademia di Belle Arti - N.A.B.A.), Bruno Muzzolini (Accademia di Belle Arti di Brera di Milano), Cesare Viel (Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova), Stefano W. Pasquini (Accademia Albertina di Belle Arti di Torino) e Davide Rivalta (Accademia Clementina di Belle Arti di Bologna). A ciascuno di loro, ovvero ai cosiddetti tutor, sono dedicate due pagine con gli artisti selezionati. Le immagini pubblicate corrispondono alle opere d’arte esposte al Serrone, fatta eccezione per quelle riconducibili ai tutor ai quali è stato chiesto di scegliere un oggetto d’affezione, quella cosa con cui hanno stabilito un legame affettivo e come tale ritenuto prezioso, degno della loro attenzione; un qualcosa che li possa rappresentare, possa testimoniare, almeno in parte, il proprio orizzonte estetico. Il taglio organizzativo, quello formalizzato nella celebre formula di Ermanno Krumm, «30 artisti 5 critici», è rispettato, pur ampliandone le risorse istituzionali. Questa rivista ne è la prova. La presenza di pagine dedicate alle Accademie, alla Reggia e alla Città di Monza con i propri ambiti espositivi testimoniano la presa di coscienza di una rete che intende fare sistema in nome della cultura, da quella riconducibile alla storia a quella prodotta ex novo, nella sua inedita freschezza, come intende fare la Biennale Giovani Monza, osservatorio sull’incipiente contemporaneità.

Associazione Pro Monza IAT

Accademia Albertina di Belle Arti di Torino

amministrazione Studio Corbella - Monza

Accademia di Belle Arti di Brera Milano

giunta tecnico scientifica | Corrado Beretta Laura Brambilla Laura Cesana Giovanna Forlanelli Gerardo Genghini / Coordinatore

Accademia Clementina di Belle Arti Bologna Accademia Ligustica di Belle Arti Genova NABA Nuova Accademia di Belle Arti

media partner |

Roberto Scanagatti SIndaco di Monza Francesca Dell'Aquila, Assessore alle Politiche culturali e di sostenibilità

iunta alla settima edizione, la Biennale Giovani 2017, ha inteso arricchire il target che l’ha connotata da sempre, “30 artisti per 5 critici”, affidando il ruolo di esperti curatori ad artisti che il Comitato Premio d’Arte Città di Monza ritiene più vicini ai giovani artisti nei luoghi della loro formazione: le Accademie di Belle Arti, con la certezza di operare in una dimensione coerente con la propria missione di individuazione e valorizzazione di talenti artistici. La Biennale Giovani ha operato nelle varie edizioni in collaborazione con Enti, Istituzioni ed Associazioni del territorio per creare un evento dedicato alla giovane arte contemporanea che sia nelle aspettative della città. Nello spirito dei Soci Fondatori, il Rotary Club Monza ed il Comune di Monza, ha acquisito in ogni edizione opere d’arte che sono state donate alle Collezioni Civiche Monzesi. Negli anni recenti la Città di Monza ha visto la nascita del Museo Casa degli Umiliati, in cui alcune opere della Biennale sono state esposte nella sezione “Tradizione del Futuro” mentre altre potranno essere esposte a rotazione in mostre temporanee.

comunicazione e ufficio stampa Clarart - Claudia Ratti - Monza trasporti TDE Trasporti Dedicati Espressi - Caponago

a settima edizione della Biennale Giovani Monza ritorna nella sua suggestiva sede originaria, il Serrone della Villa Reale di Monza. La novità di quest'anno consiste nell'incarico assegnato a cinque tutor, insegnanti delle principali Accademie di Belle Arti del nord Italia, di designare ciascuno sei artisti, le cui opere saranno esposte fino al 16 Luglio. Sarà questa l'occasione per tanti giovani artisti di proporsi, per la prima volta, in una sede espositiva di prestigio, sotto la guida dei propri docenti. Come è ormai consuetudine, anche quest'anno ogni tutor presenterà, tra le sue proposte, anche un artista straniero, confermando la tradizione di scambio culturale che caratterizza, da diversi anni, la Biennale Giovani di Monza. Ringraziamo il Comitato per l'impegno profuso nel rinnovamento di questa settima edizione, come pure ringrazio le Accademie coinvolte, i tutor, gli artisti e tutto il personale impegnato nella realizzazione della mostra.

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Daniele Astrologo Abadal Responsabile scientifico

assicurazione INA Assitalia - Agenzia Generale di Monza

in collaborazione con:

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giuria | Piero Addis Luca Massimo Barbero Gerardo Genghini Francesca Minini Dario Porta

Gerardo Genghini Coordinatore

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LE ACCADEMIE Accademia Clementina di Belle Arti di Bologna

illustrazioni di:

Accademia Albertina di Belle arti di Torino

fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento al primitivo corpo della Scuola si affiancava l’idea della creazione di un museo cittadino avvalendosi anche delle opere d’arte già patrimonio dell’istituto. Nella seconda metà dell’Ottocento il ruolo didattico dell’Accademia aveva una parte molto importante con la figura di Tammar Luxoro e la sua Scuola di Paesaggio dal vero in netto contrasto con il conservatorismo accademico. L’istituto rivestiva, nell’ambito cittadino, sino ai primi anni del Novecento, un forte significato, anche sostenendo il ruolo delle attuali Soprintendenze nelle pratiche riguardanti il patrimonio artistico della regione. Il ruolo sia didattico che artistico perse valore dai primi decenni del Novecento: si cominciò ad identificare nell’Accademia il conservatorismo nell’arte e la Ligustica spariva dal dibattito culturale nella città. L’istituto tornava ad acquistare una sua funzione ben precisa iniziando una sostanziale trasformazione dagli anni Settanta: nel 1975 l’Accademia si riapriva alla città istituendo corsi di formazione professionale nel settore del restauro del patrimonio artistico, nel 1979 si legalizzavano i corsi quadriennali di istruzione artistica superiore e nel 1980 si inaugurava la pinacoteca del Museo dell’Accademia: la sua vocazione didattica e culturale riotteneva significato nel contesto della città e della regione. Dagli anni Ottanta le iniziative didattiche e artistiche si sono moltiplicate anche attraverso la corrispondenza con altre realtà culturali presenti nel territorio. In tempi più recenti nell’ambito delle collaborazioni culturali, oltre alle facoltà universitarie (scambi di docenze e studenti con la Facoltà di Architettura, Facoltà di Scienze della Formazione, Facoltà di Lettere e Filosofia, Conservatorio musicale Nicolò Paganini), sono nati proficui rapporti con i musei genovesi per la didattica e la ricerca (Museo d’Arte contemporanea di Villa Croce, Galata - Museo del mare, polo museale di Genova Nervi), i teatri genovesi (attivi scambi anche a livello di stage di formazione, soprattutto per la Scuola di Scenografia, con il teatro Carlo Felice, il teatro Stabile, il teatro della Tosse, il teatro dell’Archivolto, il teatro Cargo).

Presidente prof. Fiorenzo Alfieri Direttore prof. Salvo Bitonti

Accademia di Belle Arti di Brera Presidente Dott.ssa Livia Pomodoro Direttore Prof. Franco Marrocco

Presidente Fabio Roversi Monaco Direttore Enrico Fornaroli Nell’ottobre del 1711 il Papa Clemente XI appose il sigillo agli statuti dell’Accademia che, fondata due anni addietro, in suo onore aveva assunto il nome di Clementina. Strutturata sul modello dell’Académie Royal di Parigi e della romana Accademia di San Luca, l’Istituzione si ispirava anche alle precedenti associazioni artistiche bolognesi, dalla caraccesca Accademia degli Incamminati, a quella degli Ottenebrati, fino ai liberi sodalizi raccoltisi in tempi recenti intorno ad alcuni mecenati della città. Non a caso una nobile idea del sapere artistico fondato sui testi oltre che sull’esercizio del disegno si accompagna alla reverenza per la magnifica arte bolognese del Cinque-Seicento nella concezione della didattica, la cui attività, cominciata nel gennaio del 1710 in palazzo Fava, proseguirà dal 1712 nella sede di palazzo Poggi. All’attività dell’Accademia sia in campo didattico sia nell’ambito della tutela del patrimonio storico contribuirono via via i migliori artisti bolognesi che segnarono gli ultimi anni della Clementina, nel tramonto dopo la soppressione del 1796. Dalle ceneri della vecchia Accademia sorse immediatamente un più moderno organismo, l’Accademia nazionale, istituita nel 1802 nell’ambito della generale riforma degli studi voluta dal regime napoleonico. Se in ambito pittorico continuano a prevalere i modelli della tradizione, altre discipline si affermano grazie alla qualità dei Mastri, come la Scultura di Giacomo De Maria e di Cincinnato Baruzzi, o per la modernità degli obiettivi, come l’Ornato, il cui insegnamento avrà largo seguito anche in virtù della cultura variegata e profonda di Antonio Basoli. Con il mutare delle condizioni politiche cambierà varie volte nel tempo la denominazione dell’Accademia (Reale, Pontificia, Regia), ma resterà pressoché inalterato fino al Novecento il suo assetto didattico-istituzionale, anche se le funzioni di conservazione e restauro passeranno alla Pinacoteca (autonoma dal 1882) e poi alla Soprintendenza. La svolta fondamentale è segnata nel Novecento dalla Riforma Gentile del 1923 che libera le accademie dai compiti formativi inferiori, collocandole al grado più alto dell’istruzione artistica. Nel nuovo ordinamento la Cattedra di Tecniche dell’Incisione andrà a Giorgio Morandi che la terrà per oltre un quarto di secolo, coltivando allievi che poi proseguiranno il suo magistero, quali Paolo Manaresi, e Luciano De Vita. Pressoché nello stesso periodo sulla Cattedra di Pittura ad Augusto Majani succederà Virgilio Guidi, fra i cui allievi Pompilio Mandelli e Ilario Rossi saranno a loro volta docenti in Accademia. Mentre sull’insegnamento della Decorazione si segnala Giovanni Romagnoli, nella Scultura Ercole Drei plasma una generazione di artisti che vede emergere Luciano Minguzzi e Quinto Ghermandi.

Il Palazzo dove ha sede l’Accademia di Belle Arti deve il suo nome, Brera, al termine di origine germanica “braida” indicante uno spiazzo erboso. Sorto sul luogo di un convento dell›ordine degli Umiliati, il palazzo passò ai Gesuiti (1572) che nel secolo successivo ne affidarono la radicale ristrutturazione a Francesco Maria Richini (dal 1627-28). Soppressa nel 1772 la Compagnia di Gesù, il palazzo ricevette un nuovo assetto istituzionale in cui, accanto all’Osservatorio Astronomico e alla Biblioteca già fondata dai Gesuiti vennero aggiunti nel 1774 l’Orto Botanico e nel 1776 l’Accademia di Belle Arti. Mentre l’architetto Giuseppe Piermarini curava il completamento dell’edificio, l’Accademia iniziava così ad assolvere la sua funzione, secondo i piani dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, di sottrarre l’insegnamento delle Belle Arti ad artigiani e artisti privati sottoponendolo “alla pubblica sorveglianza ed al pubblico giudizio”. Per poter insegnare architettura, pittura, scultura, ornato, la scuola doveva essere provvista di raccolte di opere d’arte (gessi tratti da statue antiche) che servissero da modelli agli studenti. Per stabilire poi un legame tra la formazione artistica ed una più vasta preparazione culturale - secondo quanto era stato auspicato già da Giuseppe Parini - venne istituita la figura del segretario nella cui carica si succedettero l’abate Carlo Bianconi (1778-1802) e Giuseppe Bossi (1802-1807). A quest’ultimo, geniale esempio di letterato artista dell’età neoclassica, si deve un potente impulso nella vita dell’Accademia che, durante il periodo napoleonico, conosce un momento di straordinario vigore vedendo finalmente istituita una propria Biblioteca e la propria Pinacoteca, riattivata la Scuola di Incisione e rinsaldato il legame con il mondo parigino ed europeo grazie alle nomine di soci onorari che nel giro di pochi anni comprendevano David, Benvenuti, Camuccini, Canova, Thorvaldsen e l’archeologo Ennio Quirino Visconti. Durante la Restaurazione, in pittura trionfa il quadro storico grazie al magistero di Francesco Hayez e si istituisce la Scuola di Paesaggio (Giuseppe Bisi) sul modello dei paesaggi storici dipinti da Massimo D’Azeglio, la Cattedra di Estetica prende a trasformarsi in un insegnamento di storia dell’arte vera e propria. A vivere il difficile periodo delle avanguardie, per l’insegnamento di Pittura, è Cesare Tallone, che fu maestro di Carrà e di Funi. Negli anni Venti la Scuola di Scultura è tenuta da Adolfo Wildt (cui succederanno Francesco Messina e Marino Marini) che avrà tra i suoi allievi Lucio Fontana e Fausto Melotti, mentre per Funi sarà istituita la Cattedra di Affresco. Nel secondo dopoguerra l’Accademia riapre i suoi corsi grazie alla direzione di Aldo Carpi: se ne è fatto interprete negli ultimi decenni Guido Ballo, come professore di Storia dell’Arte, e accanto a lui maestri di scultura come Alik Cavaliere e Andrea Cascella e di pittura come Mauro Reggiani, Domenico Cantatore, Pompeo Borra e Domenico Purificato.

Estratto da prof.ssa Fabia Farneti – Fondo Storico Accademia di Belle Arti di Bologna

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Anche se il nome di “Albertina” rimanda a Carlo Alberto di Savoia, a cui si deve la decisiva “rifondazione” dell’Accademia nel 1833, le origini di questa sono molto più remote, tanto che l’Accademia torinese si può considerare una delle più antiche d’Italia. Già nella prima metà del Seicento è attiva a Torino una “Università dei Pittori, Scultori e Architetti”, che diventa nel 1652 “Compagnia di San Luca”, e che assumerà per la prima volta - ma definitivamente - l’appellativo di Accademia nel 1678, quando Maria Giovanna di Savoia -Nemours, vedova di Carlo Emanuele II, fonda l’Accademia dei Pittori, Scultori e Architetti, ispirandosi al modello dell’Académie Royale di Parigi. Dopo altre riforme, sotto Vittorio Amedeo III (1778) e poi durante la dominazione napoleonica, intorno al 1833 si attua una vera e propria “rifondazione” ad opera di Carlo Alberto: alla “Regia Accademia Albertina” viene assegnata una nuova sede nell’edificio tuttora occupato; l’Accademia viene inoltre dotata di una significativa Pinacoteca, dove confluiscono le collezioni del marchese Monsignor Mossi di Morano e i preziosi cartoni gaudenziani già di proprietà sabauda. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Accademia accompagna degnamente il passaggio dal realismo all’arte nuova, nella direzione dell’eclettismo, del Liberty e di un rinnovamento delle tematiche, con la pittura di paesaggio e di genere, che vede come protagonisti Antonio Fontanesi, Giacomo Grosso, Cesare Ferro, e con la scultura di Vincenzo Vela, Odoardo Tabacchi ed Edoardo Rubino. L’Albertina consuma l’ultima svolta a cominciare dall’inizio degli Anni Quaranta, con l’apporto di alcuni significativi rappresentanti della cultura figurativa torinese aggiornati sui modelli dell’avanguardia mitteleuropea e francese: Casorati, Paulucci e successivamente Menzio per la pittura, Cherchi per la scultura, Calandri per l’incisione, Kaneclin per la scenografia, ottimamente coadiuvati da validi assistenti come Galvano, Scroppo, Davico, che documentano gli sviluppi dell’arte nell’immediato dopoguerra. In questi ultimi anni l’Accademia Albertina si è ulteriormente trasformata e rinnovata, promuovendo numerose iniziative didattiche e culturali. Da segnalare, nella fattispecie, la riorganizzazione e la riapertura al pubblico della Pinacoteca, il restauro del palazzo e la razionalizzazione degli spazi interni (tuttora in corso), l’intensa attività di mostre, conferenze, seminari e manifestazioni, la massiccia introduzione dell’informatica nell’Accademia e l’istituzione del nuovo corso sperimentale di Conservazione e Restauro a partire dall’anno scolastico 1997-98.

NABA - Nuova Accademia di Belle Arti Direttore del Dipartimento di Arti Visive Marco Scotini

NABA è un’Accademia privata che nasce a Milano nel 1980 per volontà di Ausonio Zappa, Guido Ballo e Tito Varisco con l’obiettivo di contestare la rigidità della tradizione accademica e di introdurre visioni e linguaggi più vicini alle pratiche artistiche contemporanee e al sistema dell’arte e delle professioni creative. Già nel 1981 viene riconosciuta dal Ministero alla Pubblica Istruzione (oggi MIUR Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca). Intorno ad essa si attiva un nucleo di artisti di fama con forte vocazione alla didattica: fra questi Kengiro Azuma, Emilio Isgrò, Carlo Mo, Emilio Tadini, Gianni Colombo, Lucio Del Pezzo, Franco Grignani, Mario Carieri, Umberto Mariani, Roberto Menghi, Aldo Montù, Walter Valentini, Gino Negri, Hidetoshi Nagasawa. È in particolare Gianni Colombo, artista e progettista e direttore dal 1985 al 1993, a definire la filosofia formativa dell’Accademia. Nel 1984, ai precedenti indirizzi di Pittura, Scultura e Scenografia si aggiunge l’indirizzo di Adevertising-Graphic Design e nell’88 quello di moda. Nel corso degli anni Novanta, l’Accademia inizia il proprio percorso di internazionalizzazione che la porterà ad essere membro dell’ELIA (European League of Institutes of the Arts) ed aprire le proprie porte a studenti stranieri. Fortemente legata al territorio, NABA continua a mantenere stretti legami con le Istituzioni e nel 1995, riceve dal sindaco di Milano l’attestato di Benemerenza Civica: “NABA è cresciuta in prestigio e fama tanto da porsi quale interlocutrice italiana delle Accademie di Belle Arti in Europa e nel Mondo”. Fra il 2003 e il 2004 NABA si insedia nella nuova e prestigiosa sede di via Darwin 20 a Milano. L’offerta formativa continua ad espandersi includendo anche percorsi formativi specialistici (Master e Bienni Specialistici). Dal 21 dicembre 2009 NABA è entrata a far parte di Laureate International Universities, un network internazionale di oltre 70 istituzioni accreditate che offrono corsi di laurea di primo e di secondo livello a più di un milione di studenti in tutto il mondo.

Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova Presidente prof. Giuseppe Pericu Direttore prof. Osvaldo Devoto

Nel 1751 nasceva l’Accademia Ligustica di Belle Arti per volontà dell’aristocrazia illuminata di Genova sensibile alle nuove idee illuministiche che iniziavano a circolare in tutt’Europa e che prefiguravano nuove impostazioni di “metodologia” didattica. Si istituzionalizzavano così i “privati convegni” di giovani artisti gravitanti intorno alla figura di Giovanni Francesco D’Oria, fautore e promotore della nuova fondazione. Tra la

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MARCELLO MALOBERTI

Si ringrazia Mario Brembati

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Il sostantivo non lascia dubbi. Così com’è assume il peso di una dichiarazione perentoria che valica la sfera personale e interessa la condizione umana, come conferma la scritta in stampatello maiuscolo: impersonale, quindi, collettiva. Anche la dimensione plastica delle lettere va in questa direzione. La scultura, la sua collocazione al suolo in un luogo di passaggio, assume un valore pubblico, una sorta di “memento effimero” che suona come un ossimoro. La scritta che richiama alla memoria una certa visione della vita è destinata alla rimozione, all’oblio. Qui non vale il detto scripta manent perché le lettere in ferro non attecchiscono al terreno, sono solo appoggiate. Anche il richiamo al disincanto, in apparenza categorico, ha in se il suo opposto, per ragioni interne alla logica dei contenuti; perché l’incanto, il sogno sopravvive all’immanenza stessa della scultura, scossa dalla sua congenita bellezza. Di qui il senso dell’apparizione, del risveglio improvviso che fa aprire gli occhi e guardare il mondo con disincanto ma nell’attesa, trattenuta nel subconscio, che qualcosa di bello, di sorprendente possa ancora accadere. A Martina Brembati sono bastate poche lettere, una parola, per comporre la sua dichiarazione poetica, un inno alla vita ma con disincanto.

a l’aspetto di una fototessera un po’ sgualcita, con gli angoli piegati dall’usura e la plastica protettiva prossima a scollarsi. Una di quelle cose da tenere sempre appresso, nel portafogli e ogni tanto ritrovarla tra le dita, così, un po’ per caso, e ripiombare nel ricordo della persona cara, riscoprirne gli affetti che per anni ci hanno nutrito. Accade con questo oggetto d’affezione, il ritratto della nonna in formato “santino”, per preservarne il ricordo tangibile. Basta davvero poco, una foto in miniatura, per accedere alla galleria di ricordi e di sensazioni che ruotano attorno

Gabriel Stöckli (Mendrisio 1991) IL TUTOR

Martina Brembati (Monza 1991)

Disincanto, 2017, ferro e vernice micacea, 22x120x1 cm.

Gaia De Megni (Santa Margherita Ligure 1993) Le tavole di marmo bianco riprendono la forma dello schermo nel suo candido splendore, quando non è ancora animato dalle scene del film. L’unica presenza significativa è data dalle scritte incise, frasi ispirate al linguaggio cinematografico e come tale in grado di evocare episodi ricorrenti che accendono l’immaginazione del lettore. Non c’è bisogno di rifarsi a un titolo o alla visione reale, basta quell’insieme di sequenze depositatesi nel corso della vita. Qui conta la somma e la sintesi delle esperienze visive fatte al cinematografo, di fronte al televisore e al tablet; contano le immagini archiviate dalla memoria e che al momento opportuno ritornano a galla, riemergono alla luce della coscienza. Non importa la relazione filologicamente corretta con la fonte, conta quella maturazione ed elaborazione che sfocia nell’immaginazione. La filmografia evocata da Gaia De Megni è quella riconducibile all’immaginario collettivo; quella prodotta dallo spettatore sulla scorta della propria esperienza; è quella immateriale, metafisica, visibile solo agli occhi di chi esercita ancora il potere della fantasia.

Untitled screens 002, 2017, incisione su marmo, 85x60cm, serie di 5

Byron Gago (Santiago de Guayaquil, Ecuador 1994) La colonna è priva di attributi stilistici, fatta eccezione per i movimenti ondulatori simili a scanalature rettilinee che la percorrono in senso verticale. Aspetti insufficienti per stabilire un ordine, un’epoca perché vuole essere la colonna tout court, ma atipica, senza gli attributi del capitello, fatta con una lastra in vetroresina ripiegata su se stessa. Ne viene una trasparenza che mostra la forza invasiva dell’asta di rame. Essa trafigge, come fosse un giavellotto, la colonna, trapassandola da lato a lato. Detto altrimenti, il classicismo evocato dal materiale industriale, venendo a costituire una struttura essenziale, di posata razionalità, contrasta col movimento diagonale della lancia, col gesto arcaico che preserva, tuttavia, l’eleganza della linea aurea. La polis, rappresentata dalla colonna, è messa in crisi dal colpo inferto da una forza sconosciuta, proveniente dal cielo. Di qui l’allusione a un Quarto mandato, a una nuova stagione che vede la verticalità del potere essere messa alla prova dall’ingresso trasversale di forze estranee, mutando così gli equilibri interni al sistema.

Quarto Mandato, 2017, vetroresina, rame, 100 x 150 x 200 cm.

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a questa figura così importante nella vita e nell’arte di Marcello Maloberti. In questo volto, sospeso in un tempo altro, tra l’incanto dell’istantanea e il taglio neorealista, sono condensati i requisiti relazionali della famiglia che da questo epicentro si allargano a cerchi concentrici, escono dalle mura domestiche per interessare la sfera pubblica, la dimensione urbana, quella marginale che sfugge al controllo del centro e preserva una genuina libertà d’espressione. È qui, nella scorrevole e informe periferia, che attecchiscono i cambi epocali, i mutamenti sociali cui bisogna guardare. Uno sguardo onnicomprensivo che si è nutrito di ogni genere commestibile, dal cinema alla letteratura, dalla musica al design, all’architettura e oltre. Una dieta trasversale, quella suggerita da Maloberti ai suoi studenti del corso di Arti visive alla Nuova Accademia di Belle Arti (NABA), dove fa valere la regola di Socrate: «I maestri non insegnano ma ispirano». Per l’artista «insegnare a fare arte significa soprattutto insegnare a pensare, sviluppare un proprio immaginario e da questo fare scaturire un’estetica personale».

Vi sono luoghi, frequentati negli anni dell’infanzia, che nel tempo tornano, lasciandosi apprezzare per aspetti sfuggiti all’attenzione di allora. È il caso del parco giochi di Bachwiesen (Zurigo) dove Gabriel Stöckli andava a giocare durante le vacanze trascorse dai nonni. Tra le attrazioni del parco c’erano e ci sono le sculture in beton dal titolo Trias (1958-59) dell’artista Elsy Blom, di cui si sono perse le tracce. Queste opere venivano prese d’assalto dai bambini per mettere alla prova il proprio coraggio, la bravura nell’arrampicarsi. Esercizi ludici che trovano sfogo nel campo dell’arte e assieme animano quell’angolo di terra saturo di ricordi e di impressioni, con cui Stöckli ha stabilito un rapporto affettivo. Ragioni valide per farne un luogo di culto e di conseguenza per trasformarsi in un “cultore della materia” che trova ragione nel reperimento di materiale di archivio, come le fotografie dell’epoca, quelle scattate nei primi anni Sessanta, con i bambini arrampicati su Trias (Triade); nella ricerca di notizie sull’artista scomparsa e dimenticata; nella Trias, 2017, stampa su carta blueback, replica fedele, in polistirolo e gesso, di parti di quel200x140cm, serie da 5 le sculture che tanta parte hanno avuto nella propria infanzia. Una volta realizzate l’artista le espone nelle proprie mostre, le rivive in modo diverso rispetto a quello ludico e spensierato del passato, restituendo memoria alla Blom e nuova vita creativa alle sue sculture. Un cultore, Gabriel Stöckli, che scrive appunti in margine alle foto d’epoca e arriva a realizzare una fanzine in cui può pubblicare tutte le informazioni e i documenti fino ad ora raccolti, trasformando il tutto in un’opera d’arte somma.

Jacopo Martinotti (Milano 1995) Il divo, stampa digitale in bianco e nero su carta fotografica, ed. unica, 53,4 x 71 cm.

Edoardo Manzoni (Crema 1993) Il contrasto tra gli elementi non lascia dubbi, emerge in tutta la sua evidenza: da una parte il ramo spoglio di un albero si snoda in tutta la sua plastica eleganza, dall’altro dei congegni meccanici, delle staffe, sostengono dei dispositivi elettronici, dei monitor con immagini fisse di caccia tratte da dei dipinti. Un soggetto naturale che si ricongiunge alla struttura d’insieme, quasi a volere neutralizzare il supporto tecnologico che invece fa sentire la propria presenza, condizionando la natura stessa delle immagini. Le scene di caccia, quella del cane con la preda tra le fauci e quella del branco all’inseguimento di una lepre, non riproducono fedelmente i quadri di riferimento, perché al loro interno avvengono delle eresie, delle azioni illecite che per quanto circoscritte alterano la struttura della composizione pittorica, il suo valore poetico. Così, quello che poteva sembrare un ricongiungimento al ciclo della natura, come indica il titolo riferito, forse, alla stagione della caccia, è in realtà il suo profondo tradimento, consumato tramite la rimodellazione grafica di alcuni dettagli, la renderizzazione della preda o dei predatori, attuata grazie all’uso di moderni software. Questo lavoro di sintesi di naturale-artificiale genera un cortocircuito, uno straniamento che invalida anche la parte genuina dell’installazione, perché in piena era elettronica è lecito mettere in dubbio l’autentica natura delle cose.

Settembre, 2017, ramo, staffa, tablet, immagine digitale, 360 x 180 x 130 cm

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Il gesto è eloquente: tendere ed elevare la pellicola di un film. Un’azione selettiva perché si sofferma su poche sequenze, quelle comprese nell’apertura delle braccia. Il resto scorre ai lati, cade al suolo, lasciandoci immaginare il lungo nastro che si aggroviglia. Un gesto simbolico, per non dire ideale perché chi tende questa porzione di nastro continuo non lo guarda in controluce per leggerne i fotogrammi, lo eleva sopra la testa e basta, lasciandolo iscritto nel campo vuoto, un fondo neutro propizio alla lettura da parte del pubblico. Un’azione in apparenza gratuita che in realtà corrisponde a un’affermazione, a un gesto poetico quale quello di alzare un film al cielo che, secondo la figura retorica della sineddoche, interessa tutto il cinema. D’altro canto, se c’è un luogo degno di accogliere la settima arte, questo è proprio il cielo, anche se il titolo ci riporta, paradossalmente, a terra: Il divo è mondano, è l’attore, il protagonista, colui che compie il gesto e si fa carico di una storia nella storia, del racconto alla seconda e cioè quello della fotografia della performance mentre questa mostra, distende la breve narrazione contenuta nella pellicola. Una sovrapposizione linguistica che trova riscontro anche nello stretto rapporto di parentela che c’è tra la fotografia e il cinema, tra il performer e l’attore, la realtà e la finzione.


Tea Andreoletti (Gromo 1991)

Petra Rocca (Mariano Comense 1993)

L’opera in sé dice poco: un foglietto di carta scritto a mano e incorniciato a dovere. Quasi eccessiva la cornice di legno e il vetro a protezione del biglietto che acquista, suo malgrado, una certa importanza. In effetti colpisce l’originalità del contenuto che non emette un assioma, non pronuncia il solito aforisma, si limita a invitare a pranzo chi si trova lì, a leggere quella breve nota autografa. Non a caso la fotografia che trovate stampata su questa pagina è sfuocata come lo è quella che ho acquisito nel mio computer perché l’unica condizione posta dall’artista per aderire all’invito è quella di visitare la mostra al Serrone, trovarsi fisicamente di fronte all’opera. Una selezione spazio-temporale che premia il comportamento e annulla i potenziali benefici disposti dalla rete. Un’arte esperienziale che inizia al momento della lettura, quando il lettore si accorge di essere invitato a pranzo, e si conclude col consumo effettivo del pasto, in un luogo caro all’artista. Un vero e proprio processo che coinvolge la persona invitata, la mette in relazione con gli altri, rendendola parte costitutiva dell’operazione artistica.

Il paesaggio a camera fissa evidenzia gli spostamenti del protagonista, il suo errare senza meta, perché non c’è un approdo ad attenderlo. In una fissità desolata, a metà strada tra la natura in letargo e gli insediamenti umani, spicca la sua corsa, la libertà di movimento, la fuga da un passato che porta dentro. L’unica compagnia è quella di un cane che si vede a tratti. Il conforto lo trova nel bosco perché tra gli alberi si sente protetto, «a vedere senza essere visto», ma non sembra ci sia qualcun altro. Diversi modi di andarsene, l’indifferenza del paesaggio invernale. La verità è che Tomboy s’è perso, ha lasciato il sentiero e non lo ritrova. È confinato nell’interregno posto tra la natura e i centri urbani e lungo questo crinale si muove come in una realtà sospesa mentre la voce fuori campo ci spiega quello che sta vivendo, le ragioni di una coppia visibile solo in parte, le relazioni difficili, la violenza dietro ai rapporti, il senso di libertà che sembra naufragare nella vastità dei campi che il giovane attraversa. Petra Rocca racconta così una storia presa a distanza, con distacco e sincerità.

Invito a pranzo, luglio 2017, inchiostro su carta di cotone, 32 x 38 x 5 cm.

Tomboy lost, 2017, video hd, 4’, edizione 1/5+2 pda

Monia Ben Hamouda (Milano 1991)

Iva Kontic´ (Belgrado 1982) Maja Maksimovic ´ (Belgrado 1990)

Vi sono luoghi così inospitali e remoti da fare pensare a un mondo alieno. Le estreme condizioni climatiche finiscono col qualificare un paesaggio, renderlo rilevante agli occhi della telecamera che si muove su di esso come un esploratore. Un viaggio sensoriale in una terra sconosciuta il cui mistero è rafforzato dal buio e dal cono di luce che lo rompe per indagarne i contenuti; dall’incontro con altri fari, presenze di vita artificiale, che passano e non si fermano; dai resti di macchine abbandonate, architetture sventrate, segni tangibili di una civiltà scomparsa, ora aggredita dagli agenti atmosferici. La voce fuori campo ci aiuta a comprendere quello che sta accadendo: è in corso la ricerca di qualcuno con cui relazionarsi. È il proprio corpo a reclamarlo perché la solitudine nel deserto è insostenibile. Lo sguardo si attarda sul manto di neve ghiacciata, ne comprende la durezza, l’inospitalità; ne indaga le tracce che lasciano intendere il passaggio di altre presenze e in effetti qualcuno si intravede: sono dei sopravvissuti? Non è possibile identificarli. La notte persiste, la neve è perenne e anche quando affiora la luce del giorno la gamma dei grigi bagna il paesaggio e l’anima di chi parla, divisa tra il corpo e l’esistenza. SHE UNDER THE PLUM TREE Black Thongs Abandoned temples can be destroyed and desecrated (Hari), 2016, film a colori, 20’ 21’’, edizione 1/5+2

Giulia Savorani (Ivrea 1988) La civiltà occidentale ruota attorno ad alcuni cardini che si trovano ben codificati nelle cupole affrescate, nel tempo scandito dalle campane e dagli orologi a muro, nei ritratti di personaggi illustri, nelle grate alle finestre che proteggono dagli intrusi, preservano e allo stesso tempo precludono, impediscono di uscire. Giulia Savorani si muove come in un sogno, saturo di simboli e di suggestioni visive, alla ricerca di qualcosa che scardini i dogmatismi, le convinzioni sociali che fissano una volta per sempre la condizione esistenziale della donna e la relegano alla vita domestica che qui assume l’aspetto di una corte interna. In questo breve spazio può praticare le mansioni per cui è stata educata. L’unico senso di libertà è dato dalla presenza magica di un rapace, dalle acque che scorrono in un fiume con i cani che vanno e vengono o dall’assunzione di fiori commestibili per vedere oltre la propria condizione. Certo, in questo rapporto spontaneo con la natura, la sola a offrirle una soluzione sincera di libertà, si annida l’accusa di eresia, come testimonia la presenza del rapace notturno o la conoscenza (sospetta) delle proprietà nutritive delle erbe. Un’accusa rivolta da quei personaggi illustri immortalati nei dipinti dimenticati alle pareti delle dimore storiche.

Oh, how hot this girl is I wonder if she would give it to me With her, I would do some hanky panky To glimpse at her black thongs The heart beats The heart beats bam, bam I’m not gonna do it alone, right Come on, now, relax Show me the black thongs I’m dying, I’m dying to strip off Your black thongs so nice, so nice Don’t let anyone touch them The black silk would be rugged

She under the plum tree, 2016, serie di 5 fotografie, stampa digitale, 70 x 50 cm. ciascuna, edizione 5+2 pda; 2 libri, formato B5, edizione 10+2 pda; registrazione musicale, mp3 player, 20’, edizione 10+2 pda; performance pubblica.

Marco Secondin (Vicenza 1986)

(Zijo Bajric, Black Thongs, 2008)

BRUNO MUZZOLINI

L’

uso improprio di uno strumento può dare grandi soddisfazioni. La sola condizione richiesta è di una mente sgombra da pregiudizi, libera di vivere e di abusare delle cose con quella ingenuità tipica del genio creativo dei bambini. È il caso di Muzzolini, con questo oggetto d’affezione, un accordatore di timpani avuto in regalo da un timpanista attivo nelle maggiori rassegne musicali del tempo. Il giovane Muzzolini ha riscattato il mezzo, convertendolo a sua volta in uno strumento musicale, un fischietto da suonare. In fondo rientra nei principi dell’accordatore, quello di suonare per trovare la giusta tensione tra le cose, in nome di un’armonia d’insieme. In fondo ogni artista si comporta alla stregua di un accordatore, ha a disposizione una scala di note che se suonate correttamente legano cose diverse tra loro. Per arrivare a tanto è richiesta una profondità che si accompagna alla superficie. Il loro distacco comporterebbe la perdita della realtà e

Tutto ruota attorno al corpo, alla sua capacità performativa che trova nell’interpretazione di brani musicali la massima resa fisica e simbolica della propria condizione di vita. Una musica che già di suo parla di sé e del suo mondo di appartenenza. Il genere pop-folk, molto diffuso in Serbia e nelle nazioni confinanti, si caratterizza per la sua visione maschile della donna, relegata a una dimensione fisica, a un oggetto da apprezzare, a un bene di consumo. Ne deriva un’inevitabile sottomissione culturale che relega la donna serba a un ruolo subordinato nelle relazioni sociali. Un repertorio musicale che si attesta su dei cliché consolidati e delinea sia i tratti dell’uomo che della donna, accomunati da comportamenti volgari, trasgressivi, trash, tutti aspetti che vanno ad orientare anche il loro rapporto. Iva Kontic´ e Maja Maksimovic´ non sono interessate alla relazione tra l’uomo e la donna nella società serba ma alla rappresentazione dell’universo femminile, di come si è adattato e trasformato pur di assecondare le aspettative maschili. Le due artiste hanno incarnato quei prototipi femminili ispirati ai testi delle canzoni pop-folk e impersonandoli nelle loro performance ne enfatizzano il carattere, riducendolo ai suoi modelli stereotipati. Tanta ostentazione ha qualcosa di irriverente, rende consapevoli di un certo malessere, sviluppa un senso critico che sa di denuncia.

IL TUTOR

Bruno Muzzolini, docente di digital video all’Accademia di Belle Arti di Brera, non perde mai di vista il referente, garantito dal suo approccio speculare che nella presa diretta trova lo spunto visivo per la bellezza dotata di senso. Le sue fotografie e i suoi video hanno la capacità di rivelare, provocare quello scarto mentale che muta la visione del mondo, la sua lettura. Esiti estetici talvolta sublimi raggiunti con una particolare disponibilità, quella «a mettersi in una posizione aperta all’ascolto e al rischio», la stessa messa in campo nell’insegnamento per «aprire territori di riflessione che formulano domande addentrandosi in spazi inediti, cercando di evitare le paludi “Accademiche”».

È notoria la capacità di astrazione della fotografia, quella di ridurre la profondità di campo o i volumi degli oggetti all’essenziale piattezza del piano. Una vocazione alla bidimensionalità che Marco Secondin accentua con interventi sul referente: la parete d’arrampicata ha perso i suoi rilievi perché ogni aspetto concavo e convesso è stato colmato, quindi appianato con del pongo policromo. S’è persa la simulazione orografica della parete rocciosa per sostituirla con una superficie pittoresca. Si scorgono solo i bulloni che tengono le prese i cui colori accesi hanno orientato lo spettro cromatico di copertura della parete. Secondin manipola la realtà, la trasfigura e la fotografa conferendole un’altra identità, autonoma rispetto a quello che è, perché la fotografia è un oggetto a se stante, un’opera astratta non più riconducibile a un referente mondano come annuncia lo stesso titolo Strikkitrikki Palomalamù. In queste parole non vi è un significato recondito, si sente solo la forza evocativa dei suoni che richiamano a forme spigolose e dure la prima, a quelle curvilinee e morbide la seconda. Anche nel titolo, quindi, si preserva una dimensione autoreferenziale che ha nella fotografia la propria stampa di accertamento, la verifica di una relazione di simpatia tra la superficie pittorica e il suono che sprigiona.

Strikkitrikki Palomalamù (palestra 7a, Valdagno Vicenza), 2014, fotografia digitale su carta cotone, 90 x 60 cm.

TreeCloakBell, 2015, video hd, 11’ 59’’, edizione 1/3+2 pda

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Béatrice Boily

(Repentigny, Québec, Canada 1994) Quando la stampa fotografica non è appesa al chiodo, rinuncia alla condizione ideale offerta dalla sospensione che smaterializza il supporto a favore dell’immagine. Qui la fotografia, incorniciata per l’occasione, è pensata per stare al suolo, per essere appoggiata al muro, assumendo così un rilievo scultoreo. Si tratta di un oggetto tridimensionale e come tale coinvolge lo spazio circostante secondo un pragmatismo di tipo ambientale, presente nell’oggetto e nel soggetto: un campo d’erba intrecciata. Un intervento effimero da inscrivere nell’ambito della Land art, opportunamente documentata dalla fotografia che immortala il lavoro svolto dall’artista. Una performance in cui Béatrice Boily si cimenta nell’arte dell’intreccio dove mostra una certa abilità manuale, una sensibilità femminile anche nel modo di approcciarsi alla French Braided Earth, 2016, inject print fine art su carta natura, non senza ironia. L’interesse per il corpo Hahnemühle Photo Rag Ultra Smooth 305 gr montata umano, quello afferente a una specifica acconsu Dibond, 180x120 cm., edizione 2/2 ciatura, viene traslato a un anonimo campo d’erba. French Braided Earth è un saggio di Land art ispirato a un tipo di capigliatura con una specifica soluzione stilistica da applicare non più ai capelli ma ai fili d’erba. Un’opera complessa che attraversa i generi dalla Land art alla Body art, dalla fotografia alla scultura, tutti inseriti nello stesso ambito processuale che poggia sulla potenzialità espressiva dell’erba intrecciata, sulla resa grafica della foto in bianco e nero, a metà strada tra creatività e documentazione.

Ilaria Boccia (Torino 1990)

Clelia Rainone (Foggia 1989)

Nell’invito rivolto allo spettatore, quello in cui gli si chiede di raccontare la sua prima volta, si cela un atteggiamento mentale, un modo di pensare tipico della nostra cultura che rende quasi inequivocabile il senso del quesito. In pochi dubitano a che tipo di esperienza si allude anche se da un punto di vista semantico non viene esplicitato. Un detto-non detto che apre a possibili vie di fuga per chi non se la sente di confessare e approfitta della polisemia contenuta nella richiesta per inoltrarsi in altre e comunque nuove esperienze di vita. Resta certa la forza di seduzione esercitata dalla richiesta che spinge a rivelare il proprio ingresso nel mondo degli adulti. Del rito d’iniziazione, di ancestrale memoria, s’è persa la struttura d’insieme e quello che una volta era sottoposto al severo controllo della società secondo precisi schemi di comportamento, è ora lasciato al libero arbitrio dei protagonisti, alla loro sensibilità esistenziale e al caso dagli esiti imprevedibili. Con Buonalaprima Ilaria Boccia mette in luce un patrimonio collettivo destinato all’oblio; registra una messe di racconti inediti, tanti monologhi che assieme hanno il respiro di una confessione corale. Un’opera in divenire, votata ad interagire col pubblico e sempre aperta a nuove storie che andranno a segnare le stagioni dei tempi futuri.

Già dal titolo, tratto da una poesia del poeta scozzese Robin Roberthson, si coglie il taglio dello sguardo che nel descrivere suggerisce, nell’inquadrare evoca, nel fissare va oltre l’istantanea che non chiude la realtà antistante all’obiettivo ma la apre a possibilità di racconto dai molteplici sviluppi. L’intreccio poggia su particolari prosaici che per loro natura sfuggono all’attenzione del passante ma non a quella del fotografo che vi coglie un alone di mistero: un uomo anziano col bastone appoggiato alla ringhiera mentre un taxi gli si ferma davanti; la giacca lasciata in un pub; una singolare cabina del telefono sono cose, situazioni che parlano di sé e d’altro, come fossero i pezzi di un puzzle. Per comporlo è necessario passare e ripassare per quelle strade ricche di segni e di polisemie che danno luogo a più intrecci perché non c’è fine alle possibilità di relazione tra le immagini. Con Kitemaster Clelia Rainone riscopre la realtà di ogni giorno, come fosse depositaria di significati riposti e stratificati che solo lo sguardo fotografico è in grado di riportare alla luce.

Ottavia Plazza (Alessandria 1992)

Buonalaprima, 2014-2017, video installazione, dimensioni ambientali, lunghezza variabile, edizione unica

Elena Hamerski (Forlì 1989) Non si dà vita senza la morte, eppure quando le troviamo accostate, risulta evidente la distanza con cui le teniamo separate. Un atteggiamento mentale tipico della cultura occidentale che fatica ad accettare con la stessa disponibilità i due volti della natura. Elena Hamerski si rivolge proprio ad essa quando ricorre alla flora e alle sue proprietà benefiche e nocive, di vita e di morte che si trovano in ogni esemplare di pianta. Un dualismo congenito che l’artista rintraccia in numerosi esemplari, 271 in tutto, esaurientemente trascritti in un libro d’artista, una sorta di archivio scientifico che della scienza ha perso il segno, i tratti analitici di precisione ed esattezza. In queste pagine, come nelle carte di grandi dimensioni appese alle pareti in cui trovano sviluppo le singole piante, domina una trasbordante creatività pittorica fatta di colori e colature. Qui gli olî e i pigmenti si amalgamano direttamente sulla carta, fanno pittura a sé, dilagano ben oltre i confini del disegno per affermare i propri valori espressivi. Ancora una volta la certezza scientifica perde terreno e cede alla creatività dell’artista, per ribadire il connaturato e inscindibile dualismo inscritto in ogni elemento della natura, l’essere umano compreso.

Squash, 2016, olio su tela, serie di 9 opere, 40 x 30 cm. ciascuna

STEFANO W. PASQUINI

Il polittico articola, mette in relazione le parti della composizione, dà respiro al colore, anche quando si assesta sulla monocromia. Il dominio dei gialli è indiscusso, mentre il verde acido si ritaglia il proprio campo d’azione, senza compromettere l’armonia d’insieme. Colori ispirati alla natura, quella spremuta nella sua essenza per dare vita alla sostanza pittorica con qualche incursione formale così informe da non pervenire a un oggetto circoscritto, riconoscibile. Non vi è descrizione o intento mimetico, la rappresentazione è subordinata alla forza espressiva, all’intensità del colore, al segno lasciato dalla pennellata. Ce lo suggerisce il titolo, Squash, dove la spremitura si applica agli agrumi, ai limoni, quelli un tempo custoditi nelle serre della Villa Reale, la limonaia appunto. Un omaggio, quello offerto da Ottavia Plazza, senza cadute nell’aneddoto o nei richiami paesaggistici o architettonici. Quest’ultimo sopravvive nella struttura del polittico in quanto vetrata suddivisa in riquadri che si affacciano su un mondo di limoni, quelli spremuti, ridotti nella loro essenza, in materia pittorica da spalmare sulle tele.

IL TUTOR

L’

oggetto d’affezione scelto da Stefano W. Pasquini, titolare del corso di Tecniche Grafiche Speciali all’Accademia Albertina di Torino, è già di suo carico di significati simbolici. La macchina fotografica Canon FTB, acquistata all’età di 15 anni, incarna il dominio della “memoria analogica”, che per sua natura ricorre ai principi ottici della camera oscura, alle leggi della chimica applicate al regno del fotosensibile e quindi al rapporto fisico dato dall’impronta lasciata dalla luce. Un apparecchio non proprio leggero ma maneggevole, da portare a tracolla; uno strumento transitivo, versatile e pertanto relazionale. Qualità che si riflettono nell’approccio creativo di Pasquini, pronto all’appropriazione tramite manipolazione così come è stata codificata dai Dadaisti con la formula del ready-made e nei vertiginosi slittamenti mentali dei Concettuali, senza per questo rinunciare al manufatto, alle mani sporche di pittura, al coinvolgimento del corpo in performance maturate nel solco della tradizione Fluxus e della cultura punk. Un insieme di filoni poetici aggiornati e potenziati che danno luogo a una capacità

The Kitemaster, 2016, stampa a getto d’inchiostro su carta cotone, 4 fotografie ognuna 50 x 32,5 cm, edizione 1/3

Elisa Bertaglia (Rovigo 1983) L’espressione Out of the blue marca il segno temporale del risveglio della coscienza quando ci appare l’immagine di un sogno; è il sottile diaframma che separa il sonno dalla veglia. In questa soglia, nella penombra del dormiveglia, matura l’arte di Elisa Bertaglia. La sua iconografia, minuta e fragile, da apparire inafferrabile, si ispira alla propria esperienza onirica che in questa occasione prende corpo in figure sospese come le bimbe vestite da tuffatrici, mezze immerse in un fogliame fitto e diramato. Difficile stabilire un centro di gravità che detti legge su queste creature, incerte tra l’ascesa e la discesa. In questo paesaggio astratto a tratti fantastico nell’evocare mondi surreali, dove il blu incanta con le sue profondità di campo, permane una latenza che non emerge alla luce della veglia. C’è qualcosa che non si lascia leggere. Resta il dubbio che l’atmosfera d’incanto celi un maleficio che tormenta queste tuffatrici senza volto, condannate a muoversi, disorientate, tra il fogliame. La bellezza del paesaggio, le suggestioni visive celano forse un circolo vizioso degno di un incubo da cui si esce solo col risveglio.

a sinistra: Out of the blue, 2016, olio, carboncino, grafite su carta acid-free incollata su tela, 159,5x105,5 cm. Courtesy Galleria Officine dell’Immagine, Milano

d’azione ad angolo giro: dalla grafica alla curatela di mostre, dalla conduzione di programmi radiofonici alla stesura di articoli d’arte contemporanea per finire con la direzione di un programma in podcast. Attività intellettuali tangenti alla sfera estetica che lo sensibilizzano alla creatività emergente in tutta la diversità espressiva. Anche se gli artisti selezionati ricorrono a tecniche eterogenee, il risultato finale è di un’inattesa coerenza poiché tutti e sei si confrontano con la natura, tanto da fare identificare quest’isola curatoriale con una «Nuova Arcadia».

in basso: particolare

Piante medicinali e velenose della flora italiana, 2015-2017, polittico + libro d’artista, olio di lino, pastelli acquerellabili e carbone su carta, dimensioni variabili

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1. IL SERRONE

4. IL TEATRINO DI CORTE

Progettato dall’architetto Piermarini nel 1790 per ospitare agrumi e piante esotiche, o

Progettato nel 1806 dall’architetto Luigi Canonica, allievo prediletto di Piermarini, per volere del Viceré Eugenio di Beauharnais e di sua moglie Augusta di Baviera. L’edificio è di piccole dimensioni (solo 120 posti) con un palcoscenico in legno, leggermente inclinato verso gli spettatori, e un fondale di scena con soggetto mitologico realizzato dall’Appiani. Il soffitto della platea è interamente affrescato da Giovanni Perego con motivi floreali, strumenti musicali e maschere dai colori vivacissimi, mentre il soffitto del palcoscenico ha la volta in cotto dipinta. Due grossi pilastri affrescati delimitano il boccascena e terminano con un’arcata. Sul lato opposto al palcoscenico si trovano il palchetto Reale e la balconata. Le pareti e il palchetto Reale sono interamente affrescati con motivi di stile neoclassico. Il primo articolo di cronaca che documenta gli spettacoli del teatrino realizzati dalla Compagnia del Teatro Carcano di Milano è datato 3 agosto 1808.

rare, il Serrone è accessibile dal cortile d’onore della Villa Reale, attraverso il roseto. L’edificio, lungo 100 metri, largo 6 e alto 7, è in laterizio intonacato e conserva le capriate lignee, mentre il pavimento in cotto ha sostituito l’originario selciato naturale. Venne inaugurato con l’adiacente Rotonda affrescata da Andrea Appiani, in occasione del ventesimo anniversario di matrimonio di Ferdinando d’Asburgo con Maria Beatrice Ricciarda d’Este. Grazie a un generale intervento di recupero, avviato nel 1985, ospita rassegne d’arte moderna e contemporanea.

2. LA ROTONDA DELL’APPIANI Costruita nel 1790 da Piermarini dopo 13 anni dalla realizzazione del progetto iniziale della Villa Reale, la Rotonda è l’unico elemento architettonico di forma circolare in questa struttura rigidamente lineare e squadrata. L’Architetto la concepì come una

5. LA CAPPELLA REALE

specie di dépendance scenografica dove l’Arciduca potesse intrattenere gli ospiti e

La cappella a croce greca è inserita in un perimetro esterno di forma quadrata, e dedicata all’Immacolata. Piermarini dispose la sua collocazione all’esterno della Villa, nel punto di snodo tra l’ala sinistra del corpo centrale e lo sviluppo delle ali basse verso settentrione. L’interno della chiesa è molto scenografico e ricco di stucchi, fregi e rosoni attribuiti a Giocondo Albertolli. Una serie di colonne e lesene corinzie scandiscono gli altari e le nicchie. L’altare maggiore, sopra il quale è collocata una pala raffigurante la Vergine Immacolata, è inserito in un tempietto formato da colonne corinzie sormontate da un timpano forgiato da ovoli e listelli. Le nicchie sono occupate da statue di santi.

stupirli, mostrando porte che sparivano o fontane che zampillavano a suon di musica o camini girevoli azionati da meccanismi di ingegneria meccanica. Il pavimento

VILLA REALE

è in marmo bianco di Carrara; il soffitto, a volta, ha un medaglione centrale e quattro vele in corrispondenza delle porte. La Rotonda fu ultimata in tutto il suo splendore

IL CONSORZIO VILLA REALE E PARCO DI MONZA

nel 1791, per celebrare il ventennale di nozze degli Arciduchi d’Asburgo. In questa occasione venne affrescata da Andrea Appiani, il quale affrontò il tema mitologico

Il Consorzio Villa Reale e Parco di Monza è stato costituito il 20 luglio 2009 per valorizzare la Reggia di Monza, con la sua Villa Reale, i Giardini di pertinenza ed il Parco recintato più esteso d’Europa con i suoi 730 ettari, realizzandone il restauro e garantendone la conservazione programmata, in vista di un miglioramento della fruizione pubblica. Esso è formato dalle istituzioni proprietarie della Villa e del Parco: il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Turismo, la Regione Lombardia, il Comune di Monza e il Comune di Milano. Pur non avendo proprietà all’interno del complesso monumentale, ha aderito fin dalle sue origini la Provincia di Monza e della Brianza e la Camera di Commercio di Monza e della Brianza; nel 2014 ha fatto il suo ingresso nella governance del Consorzio anche Confidustria Monza e Brianza ora Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza.

di Amore e Psiche narrato nell’Asino d’oro di Lucio Apuleio.

3. IL ROSETO

6. LICEO ARTISTICO STATALE “NANNI VALENTINI”

Progettato dagli architetti Francesco Clerici e Vittorio Faglia laddove era presente

La scuola ha sede nell’ala sud della Villa Reale, originariamente destinata alle antiche scuderie e in seguito, dagli anni Venti, all’Università delle Arti Decorative poi convogliata nell’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA), realtà didattica legata alla storia delle Biennali e delle Triennali di Monza e di Milano. L’edificio, caratterizzato anche da un ampio cortile, è stato restaurato e ristrutturato compatibilmente con le esigenze didattiche e di conservazione.

uno dei giardini formali attigui alla residenza arciducale, il roseto fu creato nel 1964 per volontà di Niso Fumagalli, industriale e Presidente della Candy, nonché grande appassionato di floricoltura, con una predilezione per le rose. Il giardino presenta un laghetto e incantevoli percorsi tra gli esemplari della collezione. Ospita inoltre il Concorso Internazionale della rosa, con un premio particolare per la più profumata.

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Foto di Mario Donadoni - Archivio Consorzio Villa Reale e Parco di Monza 2015

Costruita per volontà dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria tra il 1777 e il 1780 come residenza estiva per il suo quarto figlio, l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, suo rappresentante in Lombardia, l’edificio venne progettato da Giuseppe Piermarini, in stile neoclassico. La Villa si impone sul territorio per le sue dimensioni maestose, attuate secondo il razionale rigore costruttivo, la chiara funzionalità, l’aulica e sobria eleganza, che caratterizzano le molte architetture milanesi piermariniane. Razionale è l’impianto planimetrico complessivo della Villa, che riprende lo schema a corte aperta di ascendenza sei-settecentesca delle ville di delizia lombarde, organizzandone la visione lungo un asse di perfetta simmetria. Dopo lunghi e accurati lavori di restauro, conclusosi nell’estate del 2014, la Villa è sede di eventi espositivi di respiro internazionale. È presente anche un percorso museale all’interno degli Appartamenti Reali, con arredi delle stanze personali degli ultimi sovrani residenti: Umberto I e sua moglie la Margherita di Savoia, la “prima Regina d’Italia” L’ultimo piano, il cosiddetto Belvedere per la magnifica veduta sui Giardini Reali e sul Parco, ospita la sezione di design della Triennale di Milano che nacque proprio nella Reggia di Monza negli anni venti. Il progetto di allestimento è di Michele De Lucchi, autore anche del restauro degli spazi. Sono esposti oltre 200 pezzi iconici provenienti dalla Collezione Permanente del Triennale Design Museum, testimonianza delle innovazioni, delle sperimentazioni e dell’eterogeneità della storia del design italiano.

L’ENTE DI GESTIONE


DAVIDE RIVALTA

Barbara Baroncini (Bologna 1989)

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È l’immagine che ho dentro, 2016, tempera su carta, 14 x 21 cm. ciascuno (16 pezzi); Per non essere banali, 2015, incisione su lastra di zinco, 10,5 x 15 cm. ciascuno (8 pezzi); Ricordo, 2016, video proiezione, 10’, edizione 1/3

Irene Fenara (Bologna 1990) Scrivere con la luce implica una relazione stringente, per non dire inseparabile, tra lo spazio e il tempo e la fotografia ha colto nell’istantanea l’equilibrio ideale tra queste due dimensioni, divenendo di fatto un codice di comportamento accettato da chiunque si cimenti in questa pratica. Difficile metterlo in discussione o alterarne la relazione tra le parti, pena la rinuncia al principio dello scatto. Irene Fenara lo ha fatto. Ha acquistato un pacchetto di polaroid trovate al mercato dell’usato. Una serie di scatti datati, consegnati alla storia della fotografia anonima che l’artista ha fatto propria tramite un’accorta manipolazione. Il suo intervento non richiede un’immersione spaziotemporale perché agisce sull’oggetto fotografico e di conseguenza sulla sua immagine. L’uso improprio dello scanner, con la polaroid in movimento sul vetro protettivo mentre il sensore ottico è in funzione, consente sì l’acquisizione dell’immagine, ma con gravi conseguenze sulla sua integrità visiva. L’oggetto sottoposto a questo tipo di scansione vede schiudersi al suo interno una finestra temporale, una durata eversiva che si fa spazio e destruttura il corpo acquisito. Una violazione in parte temperata dalla conversione dall’analogico al digitale che con la sua capacità di elaborare la realtà secondo un sistema numerico genera nuove sintesi in cui spazio, tempo, movimento sono intesi su un altro piano di lettura, un quinto orizzonte, una dimensione altra in cui le storie si sovrappongono e scorrono all’unisono. Quinto orizzonte, 2016, stampa digitale su laminato e plexiglass / immagine da scanner (serie fotografica) 29,1 x 40 cm. ciascuna

erti ritrovamenti hanno la portata di uno svelamento che fa prendere coscienza della realtà vissuta e di conseguenza di quella presente perché il passato getta luce sull’avvenire. Accade a Davide Rivalta con la scultura che lo ritrae, qui immortalata in una fotografia sfuocata che rende bene il senso della memoria, la sua emersione dal profondo per arrivare al ricordo di quegli anni quando era ancora impegnato con gli studi accademici. Quest’opera segna il limite che divide il giovane studente dall’artista consapevole; l’epoca contrassegnata dagli esercizi di anatomia umana da quella della rappresentazione plastica del regno animale. Uno scarto significativo non tanto per la predilezione di un soggetto rispetto a un altro, ma per le conseguenze sull’approccio fruitivo. La visione di certi animali in luoghi estranei al loro habitat naturale assume il carattere dello svelamento, dell’apparizione inaspettata che fissa in modo indelebile l’incontro con il passato, col proprio presente, con l’altro da sé. Trovarsi di fronte a queste creature monumentali, quali gorilla o rinoceronti, sposta il baricentro delle convinzioni fondate sull’abitudine e obbliga a ripensare se stessi in relazione con un mondo fino ad ora relegato alla sfera esotica e pertanto a vivere per la prima volta l’incontro ravvicinato con la forza magnetica della vita. Esperienze che portano a riscoprire la propria infanzia, a rileggerla nel presente in vista del futuro. Rapporto esistenziale ribadito in ambito didattico perché Rivalta, titolare della Cattedra di Scultura all’Accademia Clementina di Bologna, crede che l’impulso a creare «fa oltrepassare il muro della contemporaneità, in cui tutti siamo immersi per scagliare lo sguardo verso la comprensione di ciò che sarà».

IL TUTOR

Barbara Baroncini ricorre all’installazione multimediale, la soluzione ideale per declinare la propria sensibilità visiva, la propria affezione per la natura. L’opera è composta da una serie di tavole dipinte (È l’immagine che ho dentro, 2016), da una video proiezione (Ricordo, 2016) e da alcune lastre incise (Per non essere banali, 2015). Tre formule espressive calibrate sul piccolo formato, sull’attenzione per il dettaglio senza perdere di vista l’insieme. La prima raffigura dei fili d’erba che si intrecciano in un gioco di variazioni sul tema. È questa l’immagine della natura che l’artista ha in sé e preserva in tutta la sua ingenua freschezza. La seconda lascia il campo dell’immaginazione per accedere alla realtà: un bosco di faggi è ripreso da una camera fissa che ne coglie il tempo intrinseco, il respiro delle fronde. La terza si affida al linguaggio verbale inciso su lastre di zinco. Sono messaggi ricorrenti, quali i saluti rivolti a qualcuno di indefinito o le esperienze fatte in un luogo imprecisato. Frasi da cartolina, che essendo scritte al contrario, come avviene nelle matrici calcografiche, mantengono un ermetico fascino calligrafico. Tre filoni linguistici che uniti riflettono sul dettaglio e sull’insieme, sulla interiorità dell’uomo e sul mondo esterno in un equilibrismo tra le parti senza fine.

Gemis Luciani (Arbon, Svizzera 1983) Un’invisibile manualità opera in questa serie di lavori fatti di gesti discreti quali taglio, piega, sovrapposizione, atti a comporre secondo precisi criteri estetici. Il loro orizzonte sconfina il genere univoco perché comprende pittura, collage, bassorilievo e scultura. Una struttura complessa, dagli esiti formali improntati sul senso dell’ordine. Ne viene una pulizia astratta, equilibrata nelle parti e raffinata nelle scansioni a scalare, che mettono in luce rilievi e stratificazioni. Nessuna sbavatura negli interventi manuali, semmai rigore e precisione per selezionare al meglio, tra le pieghe delle pagine estratte dalle riviste, quella soglia di carta in quanto forma e colore utili alla composizione d’insieme. Un’iconografia marginale, per citare il titolo dell’opera, dove si sottolinea l’importanza data a una rappresentazione di periferia, alle zone di passaggio e di confine che meglio di altre si prestano alla manipolazione dell’autore. Sono proprio questi luoghi marginali in cui Gemis Luciani scopre una nuova sintassi visiva tutta da scrivere nella sua forza plastica. Della rivista, dei suoi contenuti, non resta nulla o meglio sopravvive proprio quel nulla apparente con cui è possibile elaborare un costrutto estetico, un linguaggio altro, non invischiato nella cronaca mondana, ma libero di esprimere una bellezza inedita, quella fondata sul valore del margine.

Iconografia marginale, dalla serie Marginal composition, 2016, 5 collage, 50 x 40 x 5 cm. ciascuno

Wang Hao (provincia dello ShanDong, Cina 1989) L’arte di Wang Hao si ispira alla vita di ogni giorno, a quella prosaica che passa, non lascia traccia e va dimenticata. Non vi è nulla di eclatante nei suoi quadri. Sono opere che richiedono tempo per essere comprese, anche nella lettura del soggetto, il cui silenzio richiede una maggiore capacità di ascolto. Nel caso di Senza titolo, due fanciulle giocano in un ambiente naturale e nonostante la semplicità dei loro gesti, l’apparente quiete, c’è qualcosa che non emerge, resta latente. La figura rannicchiata, posta di spalle, è attratta dall’acqua. È forse in pericolo? La ragazza in piedi fissa un punto al di qua della tela. Anche per lei non ci è dato sapere cosa magnetizzi la sua attenzione. Resta evidente il senso di isolamento e di incomunicabilità, accentuato dalla vicinanza fisica dei corpi. Si tratta di un fenomeno tipico delle società industriali, che si manifesta in modo più radicale nei paesi emergenti, come ad esempio la Cina. Non a caso Wang Hao ha scelto un parco pubblico, ultima oasi nel deserto delle metropoli in espansione; ultimo rifugio per gli esseri umani che intendono preservare e riscoprire la propria natura, mettendone in luce le discrepanze, gli umori ben espressi dal particolare uso dei colori, in cui è racchiuso lo stato d’animo di questa umanità un po’ persa, alla ricerca di se stessa. Senza titolo, 2016, olio su tela, 80 x 120 cm.

Giulia Poppi (Modena 1992)

Lisa Dalfino (Como 1987) / Sacha Kanah (Milano 1981)

In un’era in cui le distanze si annullano nel cerchio della globalizzazione e le relazioni umane sono mediate dai dispositivi elettronici, sorge l’esigenza del contatto fisico, del confronto diretto con la realtà non più sublimata dal processo di sintesi ma accolta nella sua integrale fattezza. Solo in questo modo è possibile riscoprire tutto il campionario delle risorse umane. Giulia Poppi ha avvertito questa esigenza e ha cercato qualcosa che la ancorasse al terreno della vita primaria, che risvegliasse in lei un sentire non più corretto o anestetizzato dalle discipline tecnologiche. Per raggiungere questa condizione ha rivolto l’obbiettivo verso il regno animale, quello oscuro e vitale delle interiora e, fatto lo scatto, lo ha stampato su una superficie plastica votata alla fotogenia, come conferma il suo uso in ambito pubblicitario. Questo raso sintetico rende piacevole la carnosità luccicante e morbida dei tessuti che riconosciuti per quello che sono non possono che provocare un certo ribrezzo. L’attrazione per la bellezza esercitata dalla seleziona fotografica degli organi, dall’icasticità dei colori e dalla suggestione delle forme si accompagna alla repulsione per le carni macellate di fresco, così vive da odorare ancora. Un grande telo in PVC da appendere a un gancio e lasciato cadere per rivelare, tra le sue pieghe, un’orgia di ancestrale memoria.

sopra: Senza titolo, 2017, stampa digitale su PVC back light, 500 x 300 cm. a sinistra: L'opera installata

La rotonda eretta da Giuseppe Piermarini con gli affreschi di Andrea Appiani rappresenta il luogo ideale in cui prende corpo quel senso di armonia racchiuso nella «nobile semplicità e quieta grandezza» teorizzata dall’archeologo Johann Winckelmann. È anche il luogo ideale per l’installazione scultorea di Dalfino-Kanah che già dal titolo lasciano intendere una complessità linguistica, un coacervo verbale in netto contrasto con l’ars oratoria degli antichi. Non ci potrebbero essere mondi più distanti, eppure la circolarità della rotonda smussa gli spigoli della differenza e accoglie nel suo ventre questa creatura proteiforme dal nome impronunciabile e dalle fattezze indefinite. Il suo polimaterismo va a pari passo con le sinestesie che sprigiona, così abbondanti da disorientare i codici di lettura del visitatore: difficile conciliare la favola di Amore e Psiche tratta dall’Asino d’Oro di Lucio Apuleio con questa protostoria ammucchiata al centro in cui convivono e si mescolano tutte le lingue del mondo, in una Babele di forme e di colori inestricabili. Forse, per trovare una relazione con la celebre favola bisogna rifarsi al concetto di metamorfosi, in quanto continuum fabulatorio senza inizio e senza fine, condizione indispensabile per celebrare la vita tout court, quella ancora racchiusa nel brodo primordiale.

hasabdaippipiugñdagņaeryṡbambaotye ̶؎iῡ, 2017,

tecnica mista, installazione scultorea site-specific

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Carlos Lalvay Estrada (La Maná, Cotopaxi, Ecuador 1985)

Alessandro Bartolena (Genova 1993)

I rapporti umani si intrecciano, tendono un filo che tiene in relazione due persone e se il filo si snoda può unirne più di due, anche un’intera comunità. In questo modo il disegno forma una costellazione di relazioni e di amicizie. Carlos Lalvay Estrada ha sentito il bisogno di raffigurare la sua Constelación, quella che si è costituita negli ultimi quindici anni di vita, quelli trascorsi in Italia. In realtà il suo intento non si limita alla rappresentazione grafica dei rapporti umani in generale ma a quelli che gli hanno saputo dare qualcosa, che hanno lasciato un segno, anche se impercettibile, o che invece hanno contribuito alla sua crescita, alla sua formazione. L’artista sostiene che «Siamo il riflesso di quello che ci circonda» e pertanto in ciascuno di noi vive una costellazione, solo che la sua tiene conto anche del passato, obbligandolo a ripercorrere i ricordi, a passare in rassegna le persone conosciute e selezionare quelle che meritano un filo annodato. Triangolazioni, quadrilateri comunque geometrie dell’esistenza colta nel suo candore, nella purezza del filo cotone bianco sulla carta cotone dello stesso colore. Una monocromia che schiude a certi esercizi spirituali, obbliga a un lavoro di scavo interiore senza per questo rinunciare al conforto delle linee cartesiane.

Il sangue, fluido vitale, è denso e invischia le lastre di vetro che si impilano, pressando e spandendo il liquido rossastro che una volta asciutto funge da collante. Singolare comunione quella che vede la fredda trasparenza cristallina a stretto contatto con la calda opacità sanguigna. Assieme costituiscono un blocco compatto, squadrato anche se al suo interno, tra gli interstizi dei fogli, la vita è scorsa al di fuori di ogni schema geometrico. Detto altrimenti, vi è un fluido interno che contraddice e intacca la statica compostezza del monolite composto da 30 lastre. Lo stesso titolo, Bite, suggerisce l’idea di morso che correlata al contesto dell’opera provoca un cortocircuito psicofisico. Anche la parte sonora va in questa direzione, associabile al rumore di un tessuto organico in tensione, una sorta di «canto ancestrale» che anima il lato più riposto del blocco vitreo, dove in realtà si nasconde la vita nella sua soluzione più informe e primordiale. Un processo latente nel byte che non si rivela, una contraddizione interna che inquieta il fruitore, libera il suo lato istintivo, non più costretto tra gli argini della razionalità.

Constelación, 2016-2017, pastello inciso bianco, filo cotone bianco su carta cotone 300 gr, 60 x 70 cm. (particolare)

Bite, 2016, installazione ambientale (lastre di vetro, sangue dell’artista, sonoro: lettore multimediale, cuffie), 120 x 120 cm.

Cocis Ferrari (Genova 1985) Paola Pietronave (Chiavari 1986) Fortezza01 si rifà alla memoria storica, quella recente legata ai drammatici eventi del G8 avvenuti nel 2001 a Genova, città fortificata per l’occasione, con zone protette e inaccessibili. Memoria che non commemora, non assume la dignità del monumento perché qui il monere non intende ammonire, né rifarsi alla retorica della celebrazione, al contrario si mostra nella sua forma simbolica che l’artista individua nella mappa della città e nella bandiera. Se la prima mette in evidenza “lo stato d’assedio” contrassegnato dalle zone in rosso e in giallo, col profilo riconoscibile della urbe sul mare, la seconda rilegge in chiave politica la pianta della città, che diviene così il vessillo di una certa condizione critica. Un memento che scongiura l’oblio e delizia i sensi con i colori accesi e la morbidezza del tessuto realizzato da una sarta. Un intrattenimento estetico che cozza con i contenuti, ben mascherati dall’impianto decorativo dell’opera. Una crisi sottaciuta, latente, ma visibile, per chi sa leggere, nel segno dei confini imposti al centro di Genova.

Fotezza 01, 2016-2017, installazione tessile, 110 x 195 cm

Il trittico declina lo spazio della rappresentazione fotografica, lo indaga in termini analitici perché lo sguardo si focalizza sul dettaglio, sul taglio dall’inquadratura. Dalle porzioni di paesaggio non viene nessun aiuto. Non vi sono geometrie o linee rette di riferimento per orientare il rettangolo iscritto nel mirino. Qui non vi sono parallele o perpendicolari da prendere in considerazione, al contrario vi è una folta e indistinta vegetazione che confonde le idee perché non offre un appiglio visivo da tenere in conto. La verità è che siamo troppo assuefatti al paesaggio urbano, alla sua segnaletica e ora, di fronte a queste immagini di natura vergine, non intaccata dall’uomo, siamo in difficoltà. C’è bisogno di tempo; è necessario esercitare l’occhio e cogliere quei borders indicati nel titolo, quelle zone di confine e di passaggio che in quanto tali tendono a sfuggire alla nostra attenzione. In realtà proprio questo loro essere “invisibili” li rende interessanti, perché sfuggiti agli interessi antropocentrici. Sono zone ambigue, d’ingresso e d’uscita, di luci e di ombre, di pieni e di vuoti; ambivalenze che non permettono risposte univoche, non consentono la definizione dello spazio che si schiude invece all’introspezione nel rispetto dei segreti riposti nella natura. Chi entra nel bosco evocato nelle foto di Cocis Ferrari rinuncia al dominio sullo spazio, al controllo sulla vita e riscopre se stesso come parte del tutto.

Silvia Giuseppone (Genova 1988)

Annalisa Pisoni Cimelli (Genova 1981) Il rapporto con la natura non ha bisogno di parole. È richiesta solitudine, silenzio verbale, una vita trascorsa al di fuori del consorzio umano, quella estranea alla convivenza sociale e per questo tacciata di misantropia. Giudizi negativi che risentono di una visione antropocentrica, ancorata alla dimensione totalizzante dell’uomo, insensibile a quel tutto cui appartiene. Bisogna rompere il cerchio dell’antroposfera per riscoprirsi parte del tutto e Annalisa Pisoni Cimelli c’è riuscita. Nel suo video si coglie questa immersione nella natura, nel suo principale elemento, l’acqua. Non a caso Nerti, parola che probabilmente affonda le proprie radici nella lingua indoeuropea, significa «immergersi», «immersione» e le acque del fiume sono il luogo propizio dove perdersi per ritrovarsi, ascoltarsi per la prima volta. Il respiro dell’essere umano, lo scorrere del sangue si uniscono a quelli dei fiumi Nemunas e Neris che qui si incontrano e si fondono in nome del primo. Un luogo emblematico, saturo di energia vitale che alimenta questo angolo di terra bagnato dalla confluenza dei fiumi, che nutre e ispira la poetica dell’artista, il suo agire in consonanza a quel tutto cui sente di appartenere.

Nerti, 2015, video digitale hd 16:9, 3‘02“, edizione 3/3

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CESARE VIEL

IL TUTOR

C

erte frasi hanno fatto la storia, l’hanno segnata in modo così profondo da restare impresse nel tempo. Vale ad esempio per quelle dette e scritte nel ’68 e adottate dagli artisti come «Object cache toi» oppure come «Che fare?»; vale a livello personale e quindi esistenziale per questo frammento verbale, «… che accade…», trascritto sul tappeto. Il corsivo è d’obbligo, in netto contrasto con lo stampatello dattiloscritto, impersonale e il supporto non deve trarre in inganno perché il suo umile pragmatismo riflette in realtà un impegno civile, una sensibilità umana: il tappeto è stato fatto realizzare in India, in un villaggio nel Rajasthan dove tessono tappeti con pura lana himalayana, senza sfruttamento di persone né inquinamento ambientale e con il ricavato del progetto ci vive l’intero villaggio per circa un anno. Ecco l’oggetto d’affezione eletto da Cesare Viel, degna sintesi della sua poetica legata al corpo della scrittura con una particolare attenzione per le questioni politiche e relazionali. Della frase ha fotografato un frammento già di suo significativo perché costituisce lo snodo verbale, quello dell’azione che si compie al presente non senza il sostegno della congiunzione

Borders, 2016, stampa digitale fine art su Hahnemühle photo rag pearl, montata su AluDibond, 124x252x4 cm., edizione 1/7

che unendo le parti della frase articola l’azione stessa. Una sensibilità performativa contenuta nel gesto della scrittura manuale che declina il corpo con la mente e si esplicita in tutta la sua razionalità nel pensiero. Non a caso, l’artista insegna Tecniche performative per le arti visive all’Accademia Ligustica di Genova e qui trova sviluppo la dimensione relazionale e formativa, l’apertura e il confronto, il sapersi mettere alla prova e la capacità d’ascolto, il tutto compreso in una dinamica di riflessioni e reazioni che, metabolizzate, confluiranno nell’opera d’arte.

La pagina Facebook Te lo regalo se vieni a prenderlo raccoglie fotografie di oggetti dei quali gli utenti iscritti intendono liberarsi. Le immagini sono pubblicate online e corredate da una breve descrizione affinché gli interessati possano commentare il post ed essere poi contattati dall’offerente. L’interazione apre un involontario spaccato sulla vita degli utenti, che si trovano a fotografare spazi privati o ad includere accidentalmente dettagli personali nell’inquadratura. Le immagini sono state realizzate nel contesto della fotografia vernacolare, tuttavia possono essere prelevate dalla destinazione social e sottoposte a una fruizione estetica. I fotografi devono infatti confrontarsi con le difficoltà formali tipiche della still life, misurandosi con i problemi di composizione, illuminazione e taglio che richiederebbero una preparazione tecnica specifica e un’attrezzatura appropriata. L’interesse delle soluzioni adottate consiste nel rapporto fra quattro elementi. La strumentazione è la fotocamera integrata. La costruzione di un set riproduce stilemi acquisiti dalla fotografia pubblicitaria. L’unità della location è ribadita dalla circoscritta identità territoriale, poiché la pagina facebook è riservata alla regione Liguria. Il risultato dell’operazione (lo scambio effettivo dell’oggetto) non viene inficiato dalla qualità dell’immagine. Catalogo a cura di Samuele Fioravanti e Valentina De Sario Bittigheis [‘bɪtɪ geɪz], 2017, 6 poster, 35x50, stampa digitale; catalogo, 2017, stampa digitale formato A4, prototipo.

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scultura video grafica

UN BILANCIO ATTRAVERSO I NUMERI Gli VII artisti e le artiste che hanno nelle espositiva, sette edizioni, 2005 alsufficiente 2017. per Giunti alla edizione si può contare su due esposto lustri di attività specchiodal temporale raccogliere alcuni dati degni di attenzione: per quanto circoscritti all’iniziativa briantea costituiscono un valido spaccato del panorama artistico italiano. 25

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127 15 127 10 127 I15 critici e le critiche che hanno partecipato alle sette edizioni, dal 2005 al 2017. 10 127 10 5 218 1055 11218 5 26 218 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 5 218 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 37 I critici e le critiche hanno partecipato alle edizioni, dal 2005 al 2017. 2005 2007 che 2009 2011 2013 2015 sette 2017 tot. 30 tot. 30hanno tot. 31 tot. 31 tot. 31 sette tot.edizioni, 31 I criticitot.e34le critiche che partecipato alle dal 2005 al 2017. LE ACQUISIZIONI I critici e le critiche che hanno partecipato alle sette edizioni, dal 2005 al 2017. Gli hannocon esposto nelle sette edizioni, 2017. 5artisti Gli artistieeleleartiste artisteche premiati l’acquisizione delle operedal 2005 al 11 I critici e le critiche che hanno partecipato alle sette edizioni, dal 2005 al 2017. 5 11 26 nelle sei edizioni, dal 2005 al 2015. 55 20

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2005 2007 2009 2011 2013 2015 15LE ACQUISIZIONI LE ACQUISIZIONI Gli artisti e le artiste premiati con l’acquisizione delle opere LE GliACQUISIZIONI artisti e le artiste con l’acquisizione delle opere nelle sei edizioni, dalpremiati 2005 al 2015. 10Gli artisti e le artiste premiati con l’acquisizione delle opere nelle sei edizioni, dal 2005 al 2015. LE ACQUISIZIONI nelle sei edizioni, dal 2005 al 2015. 5 artisti e le artiste premiati con l’acquisizione delle opere Gli 55 nelle sei edizioni, dal 2005 al 2015.

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34 34 183 52 52 34 2007 2009 2011 2013 2015 52 29 34 29 52 16 10 29 16 5 52 16 29 5 52 Basta un colpo d’occhio alla prima “torta” per riconoscere il dominio dell’azzurro e del viola, della fotografia e della pittura, sulle altre arti. 5 52 Uno scarto evidente che può avere più spiegazioni. Se la pittura, nonostante la difficoltà di rinnovare il proprio linguaggio, gode di un 16 certo favore grazie al prestigio della sua storia, alle innumerevoli applicazioni tecniche, al fascino estetico e ai riconoscimenti di mercato; 5 52 la fotografia, per quanto giovane, è ormai stata ampiamente consacrata dalle principali istituzioni museali e dalle più importanti rassegne 183 LE ACQUISIZIONI internazionali. tecnici che la vincolano2013 a un rapporto privilegiato col tempo in cui avviene lo scatto e col comporta2005 Possiede 2007dei requisiti 2009 2011 2015 183 in piena mento degli utenti e dei soggetti coinvolti, senza contare sulla sua versatilità linguistica (dalla macchina a bancoal ottico al telefonino), I generi delle opere acquisite nelle sei edizioni, dal 2005 2015. 2005con la tradizione 2007 e con2009 2011 2015 nei canali di comunicazione approntati 183 sintonia le più innovative tecnologie2013 digitali che trovano dalla rete, i social 2007 sviluppo. 2009 2011 al momento 2013 delle2015 in 2005 primis, il suo massimo Qualità confermate acquisizioni che la vedono al primo posto, in ampio vantaggio 183 sulle arte. Colpisce, 10 sue inseguitrici, mentre la pittura perde terreno, ritrovandosi a ridosso del gruppo costituito dalla scultura e dalla video 15 10 2005 10 10

2005 2007 dalla2009 2011alla sua contenuta 2013 partecipazione, 2015 invece, il favore ottenuto grafica, che rispetto ha ottenuto, in proporzione, un riconoscimento assai maggiore rispetto alle altre “compagne di strada”. Il supporto cartaceo dimostra una capacità di adattamento alle nuove esigenze estetiche del contemporaneo, ovvero quelle di coniugare l’intensiva leggerezza concettuale del segno con i valori visivi desunti dalla tradizione pittorica, senza trascurare la spinta esercitata da quella fetta di mercato riconducibile al fenomeno della wopart.

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LE ACQUISIZIONI ACQUISIZIONI ILE generi delle opere acquisite nelle sei edizioni, dal 2005 al 2015. 8 LE ACQUISIZIONI I generi delle opere acquisite nelle sei edizioni, dal 2005 al 2015. I generi delle opere acquisite nelle sei edizioni, dal 2005 al 2015. LE ACQUISIZIONI 10 34 2005 2007 2009 2011 2013 2015 10 I generi delle opere acquisite nelle sei edizioni, dal 2005 al 2015. 10 15

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Gli 25 artisti e le artiste che hanno esposto nelle sette edizioni, dal 2005 al 2017.

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Gli artisti e le artiste che hanno esposto nelle sette edizioni, dal 2005 al 2017. 127 Gli artisti e le artiste che hanno esposto nelle sette edizioni, dal 2005 al 2017. Gli 10 artisti e le artiste che hanno esposto nelle sette edizioni, dal 2005 al 2017.

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Un primo distinguo va rivolto ai generi dati in natura, quelli che distinguono gli uomini dalle donne nell’ambito degli artisti. In questo contesto si registra un progressivo aumento delle artiste anche se la somma totale delle presenze vede ancora gli artisti in vantaggio. Diversa sorte spetta al reparto delle acquisizioni, il massimo riconoscimento 15 previsto dalla Biennale con la formula del premio-acquisto, dove le quote rosa sono in vantaggio di due punti.

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MUSEI CIVICI MONZA CASA DEGLI UMILATI via Teodolinda, 4 www.museicivicimonza.it

Monza e la sua storia in un ritrovato museo. Nel complesso architettonico che fu Casa degli Umiliati, tornano alla luce, dopo trent’anni di depositi, centoquaranta capolavori della collezione civica monzese. Opere sorprendenti che raccontano le vicende della città, dall’antichità fino ai giorni nostri, attraverso un viaggio ideale di rimandi tra arte e territorio. Negli ultimi anni il patrimonio museale si è arricchito con i pezzi d’arte provenienti dalla Biennale Giovani: oltre 80 opere premiate e acquisite dal museo, una selezione delle quali è riproposta nella sezione - La Tradizione del Futuro - in apertura del percorso di visita. Nella foto opere di Fabio Viale, Elena Modorati, Carla Mattii, Fabrizio Musa, Caterina Pecchioli, Sandro Palmieri, Simone Pellegrini. (Foto di Elio Villa)

MOSTRE IN CITTÀ DONNE DI CARTA. Da Goya a Picasso opere dalla collezione grafica di Federica Galli Galleria Civica, via Camperio 1 Fino al 25 giugno 2017 Orari: da martedì a venerdì 15-19, sabato domenica e festivi 10-13/15-19 Ingresso libero Info: 039.366381 - mostre@comune.monza.it CITY OF GUITAR. La chitarra come stile di vita Arengario, Piazza Roma Fino al 2 luglio Orari: da martedì a domenica 11-13/16-20, giovedì fino alle 23 Ingresso:8/5€ Info: 039.366381 - mostre@comune.monza.it MOSÈ BIANCHI. Ritorno a Monza Musei Civici Monza Casa degli Umiliati, via Teodolinda 4 Fino al 3 settembre Orari: (maggio) mercoledì 10-13/15-18, giovedì 15-18, venerdì-sabato-domenica 10-13/15-18 (da giugno a settembre) mercoledì 15-18, giovedì 15-18/20-23, venerdì-sabato-domenica 10-13/15-18 Ingresso : 6/4 € Info: 039.2307126 - info@museicivicimonza.it

MONZA, EMOZIONE VERA Città longobarda, medievale, asburgica e napoleonica. Meta turistica fin dai tempi antichi e scelta dalle sovrane del passato, - dalla regina Teodolinda alla imperatrice Maria Teresa d’Austria alla regina Margherita di Savoia - , come residenza estiva, Monza è un’elegante città d’arte da vivere e da scoprire. È famosa nel mondo per il suo circuito motoristico che ogni anno ospita il Formula 1 Gran Premio d’Italia, per il Duomo e il suo Tesoro, la Villa Reale con i Giardini e il Parco di Monza. Ma offre molto di più. Piazze e vie eleganti, chiese e conventi, musei ricchi di opere e moltissime aree verdi da fruire. Dal 2016 Monza è anche una “Cult City in Lombardia”, capitale d’arte tra 11 eccellenze lombarde, valorizzata durante l’Anno del Turismo Lombardo dal Comune di Monza, Regione Lombardia ed Unioncamere Lombardia con il coordinamento di Explora Scpa.

DUOMO DI MONZA Piazza Duomo, Monza www.museoduomomonza.it Dedicato a S. Giovanni Battista, il Duomo di Monza è un’istituzione di rilievo internazionale in cui i più grandi artisti europei hanno lasciato meravigliose opere d’arte. Le origini dell’edificio risalgono a Teodolinda, regina dei Longobardi, che fece erigere alla fine del VI secolo una cappella accanto alla residenza estiva. Nel 1300 il Duomo subisce una radicale e ambiziosa trasformazione ad opera di Matteo da Campione e sotto l’egida dei Visconti. Gli interventi strutturali e decorativi nei secoli successivi consegnano alla città testimonianze uniche grazie ad artisti come Borgino dal Pozzo, la famiglia Zavattari, Giuseppe Arcimboldi, Sebastiano Ricci e Carlo Innocenzo Carloni.

CAPPELLA DI TEODOLINDA e CORONA FERREA La cappella è il capolavoro del Gotico internazionale realizzato dalla famiglia Zavattari a partire dal 1444 e sulle sue pareti, 500 mq interamente ricoperti dal ciclo pittorico, sono raccontate le Storie di Teodolinda: la regina che grazie ad una lungimirante visione di cultura di pace, ha lasciato un segno indelebile dal Medioevo fino ai giorni nostri. Il ciclo, 45 scene su fondi oro a rilievo e 800 personaggi in un ambiente fortemente cortese, costituisce un unicum all’interno di un edificio sacro. Ad amplificare la solennità del luogo, nella cappella è custodita la Corona Ferrea: il simbolo, tra fede e mito, più importante dell’Occidente cristiano che ha incoronato i re d’Italia. La forza e l’incanto sono tutt’oggi percepibili.

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www.museoduomomonza.it

DA MONET A BACON. Capolavori della Johannesburg Art Gallery Villa Reale, viale Brianza 1 Fino al 2 luglio Orari: da martedì a domenica: 10-19 venerdì 10-22 - chiuso lunedì Ingresso 12/10€ Info: 039.5783427 - info@villarealedimonza.it

Un museo per un inestimabile tesoro, tra capolavori dall’eredità di Teodolinda all’arte contemporanea. I quattordici secoli d’arte e di storia custoditi in un ambiente architettonico suggestivo, in cui l’elemento luce è il filo conduttore della nuova museologia, contribuiscono a rendere l’istituzione uno dei più importanti musei a livello europeo

LA STORIA DELL’ARTE RACCONTATA AI BAMBINI Villa Reale, viale Brianza 1 Fino al 2 luglio Orari: da martedì a domenica: 10-19 venerdì 10-22 - chiuso lunedì Ingresso 8/6€ Info: 039.5783427 - info@villarealedimonza.it

MUSEO E TESORO DEL DUOMO DI MONZA

ARENGARIO

Piazza Roma, Monza www.turismo.monza.it Nel cuore della città svetta l’Arengario di Monza, l’antico palazzo comunale medievale, sotto i cui portici si danno appuntamento i monzesi. La struttura è quella tipica dei broletti lombardi, con portico spartito da pilastri al piano inferiore e un grande salone per le adunanze al piano superiore. Completano l’edificio una torre campanaria a merlatura ghibellina e un balconcino a loggetta denominato “parlera”, dalla quale venivano letti i proclami. Attualmente l’Arengario è una sede espositiva dove vengono allestite le mostre della città.

AUTODROMO NAZIONALE MONZA Via Vedano 5 Parco di Monza Porta di Vedano www.monzanet.it È un circuito leggendario, tra i più antichi e veloci al mondo, noto come il Tempio della Velocità. Dal 1922 ospita il Formula 1 Gran Premio d’Italia, regalando ogni anno ai tifosi di motorsport emozioni adrenaliniche. Qui hanno gareggiato le leggende dell’automobilismo e qui nel 2004 è stato raggiunto il record di velocità da JuanPablo Montoya, allora pilota Williams-BMW, che durante le prove del Gran Premio segnò un tempo di 1’19”525 alla media di 262,220 km/h.

in alto: Monza - Arengario - foto Giovanni Tagini

Durante l’anno propone un ricco calendario di avvenimenti sportivi e motoristici, ma anche eventi musicali,

nella pagina a fianco dall’alto verso il basso: Musei civici di Monza, ingresso. Foto di Elio Villa

fiere ed esposizioni. Da non perdere l’opportunità di

Bottega degli Zavattari, Leggenda di Teodolinda, scena 32 © Museo e Tesoro del Duomo di Monza / foto Piero Pozzi

100 anni di storia attraverso i tour guidati o prenotando

Monza - via Vittorio Emanuele - foto Giovanni Tagini

conoscere tutti i suoi segreti e vivere l’emozione dei suoi un corso di guida sportiva.

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Reggia di Monza Serrone della Villa Reale dal 13 Maggio al 16 Luglio da martedì a venerdì: 11-13/15-19 sabato, domenica e festivi: 11-19 venerdì apertura serale fino alle 22 chiuso il lunedì INGRESSO LIBERO www.biennalegiovanimonza.it SEGUICI SU /BiennaleGiovaniMonza

ASSOLOMBARDA CONFINDUSTRIA MILANO MONZA E BRIANZA Assolombarda – Confindustria Milano Monza e Brianza è orgogliosa di rinnovare il sostegno a Biennale Giovani, parte integrante della vita culturale monzese. Per noi, che rappresentiamo il tessuto economico della città, si tratta di un legame forte, consolidato quest’anno con l’introduzione del nostro Premio Acquisto, che consentirà di accrescere il numero di opere donate al Comune. La rassegna è uno specchio fedele della realtà e mette in evidenza analogie forse sorprendenti ma effettive fra creatività, sapere, impresa. Vedremo opere di giovani artisti - non solo italiani ma provenienti anche da Canada, Cina, Ecuador, Serbia, Svizzera - che possiamo definire start upper, impegnati a tentare la loro strada nel mondo dell’arte. Lo stesso avviene per altri giovani, start upper che tentano la loro strada mettendo a frutto la stessa creatività e lo stesso coraggio nel mondo della tecnologia. Con le nostre partnership e con i nostri servizi diamo sostegno ad entrambi, lati essenziali dell’agire umano. Massimo Manelli Direttore Presidio Territoriale Assolombarda – Confindustria Milano Monza e Brianza

FONDAZIONE MONZA BRIANZA È con grande entusiasmo che la Fondazione della Comunità di Monza e Brianza Onlus partecipa anche quest’anno alla realizzazione di Biennale Giovani, considerando l’importanza assunta da questo evento nel panorama culturale della nostra Provincia. La Fondazione opera dal 2000 per aiutare la Comunità a sviluppare progetti concreti, mettendo in relazione chi vuole investire nella crescita del territorio e chi si impegna nella realizzazione di iniziative sociali e culturali di valore, come la Biennale Giovani. La Fondazione aiuta i cittadini a realizzare con semplicità ciò che di bello desiderano per la loro Comunità. Sedici anni intensi di relazioni con le istituzioni, le organizzazioni no profit e numerosi donatori hanno già consentito la realizzazione di oltre 1.850 progetti. Le iniziative sono consultabili sul sito www.fondazionemonzabrianza.org.

NEXTAM PARTNERS È una partnership indipendente di professionisti attivi sia nella gestione di patrimoni, fondi comuni, sicav e fondi alternativi, che nella consulenza finanziaria rivolta a istituzioni e high net worth individuals attaverso le tre società operative Nextam Partners SGR, Nextam Partners SIM e Nextam Partners Ltd. Il Gruppo, con sede a Milano, Firenze e Londra è stato fondato nel 2001 da tre partners che, uniti da una ventennale esperienza in comune come gestori, tuttora mantengono immutate responsabilità di investimento in completa autonomia dal sistema bancario ed assicurativo. L’unione del proprio nome con eventi legati al mondo dell’arte è stata una costante negli anni, non solo per promuovere artisti già affermati, ma soprattutto, per sostenere giovani talenti.

PREMIO SPECIALE ROTTAPHARM BIOTECH: prosegue l’impegno nella diffusione e valorizzazione della cultura e dell’arte Valorizzare e sostenere i giovani artisti: l’arte, proprio come la ricerca, parte sempre da un’intuizione, da un’idea che si sviluppa poi attraverso la tecnica, lo studio, il talento; il desiderio di innovazione, il coraggio della sperimentazione, la volontà di esplorare sempre nuove vie sono i valori che accomunano ricerca artistica e ricerca scientifica. Questo lo spirito con cui viene riconfermato il Premio Speciale Rottapharm Biotech. L’opera vincitrice, scelta da una giuria composta da Giovanna Forlanelli Rovati, Direttore Generale Rottapharm Biotech e Luca Massimo Barbero, Curatore Associato Peggy Guggenheim Collection, sarà donata alla Città di Monza e andrà ad arricchire la collezione permanente presso il Museo civico degli Umiliati. Rottapharm Biotech, società di ricerca biofarmaceutica, nasce nel marzo 2014 come spin-off del gruppo farmaceutico RottapharmMadaus, fondato dalla famiglia Rovati che ne ha acquisito interamente le risorse, le infrastrutture e gli innovativi programmi di ricerca e sviluppo. Grazie a più di 50 anni di attività, Rottapharm Biotech ha sviluppato grande competenza in varie aree scientifiche e in particolare nella Reumatologia.

GRUPPO CREVAL Il Gruppo Credito Valtellinese sostiene per il secondo anno il Premio d’Arte Città di Monza, confermando così sostegno e continuità ad un’iniziativa che si conferma essere radicata nel territorio, in linea con la nostra policy che ci porta da essere da sempre attenti ai bisogni delle comunità locali in cui operiamo. Promuoviamo il progresso culturale, morale, scientifico e sociale attraverso donazioni e sponsorizzazioni di cui hanno beneficiato numerose realtà no-profit. Siamo certi che anche questa edizione della Biennale Giovani Monza 2017 porterà in città, e non solo, quella vivacità e ricchezza culturale propria dei grandi eventi.

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GLI APPUNTAMENTI DELLA BIENNALE GIOVANI Per restare sempre aggiornato sulla Biennale Giovani scarica la nostra APP Biennale MB

sabato 13 maggio ore 11:00 Inaugurazione della Biennale Giovani 2017. Presentazione degli artisti e delle opere esposte nella VII edizione A cura del Comitato Premio d’Arte Città di Monza Ingresso libero venerdì 26 maggio e sabato 27 maggio ore 21:30 I notturni al Roseto. Variazioni eroiche. Uno spettacolo di arte performativa dove tutto accade contemporaneamente: musica, danza, video, concerti e molto altro. Ingresso al Roseto a pagamento domenica 11 giugno ore 11:00 Focus BGM2017 Visita guidata alla mostra a cura del Responsabile Scientifico Daniele Astrologo Abadal. A cura del Comitato Premio d’Arte Città di Monza Ingresso libero venerdì 16 Giugno ore 21:00 Focus BGM2017 Visita guidata alla mostra a cura del Responsabile Scientifico Daniele Astrologo Abadal. A cura del Comitato Premio d’Arte Città di Monza Ingresso libero sabato 24 giugno ore 11.00 Premiazione artisti Biennale Giovani 2017. Luca Zuccala, vicedirettore di ArtsLife, intervista gli artisti vincitori della settima edizione della Biennale Giovani Monza. Ingresso libero

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Marcello Maloberti

Bruno Muzzolini

Stefano W. Pasquini

Martina Brembati Gaia De Megni Byron Gago Edoardo Manzoni Gabriel Stöckli Jacopo Martinotti

Tea Andreoletti Monia Ben Hamouda Giulia Savorani Petra Rocca Iva Kontic´ / Maja Maksimovic´ Marco Secondin

Béatrice Boily Ilaria Boccia Elena Hamerski Clelia Rainone Ottavia Plazza Elisa Bertaglia

Davide Rivalta

Cesare Viel

Barbara Baroncini Irene Fenara Giulia Poppi Gemis Luciani Wang Hao Lisa Dalfino / Sacha Kanah

Carlos Lalvay Estrada Paola Pietronave Annalisa Pisoni Cimelli Alessandro Bartolena Cocis Ferrari Silvia Giuseppone


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