Viva Haiti
Agenzia di informazione Frei Tito per l’America Latina
Presidente: Manfredo Araújo de Oliveira Direttore esecutivo: Ermanno Allegri Coordinamento amministrativo: Conceição Rosa de Lima Reportage a cura di: Adriana Santiago, giornalista brasiliana (testi) Alty Moleon, fotografo haitiano (foto) Ana Paola Vasconcelos, giornalista brasiliana (testi) Benedito Teixeira, giornalista brasiliano (testi) Francisca Stuardo, giornalista cilena (testi e foto) James Alexis, giornalista haitiano (foto) Jonh Smith Sanon, giornalista haitiano (foto) Moranvil Mercidieu, fotografo haitiano (foto) Nélio Joseph, giornalista haitiano (testi) Phares Jerôme, giornalista haitiano (testi e foto) Thalles Gomes, giornalista brasiliano/MST (foto) Wooldy Edson Louidor, giornalista haitiano (testi) Layout: Cristiano Cumer Copertina: Daniele Boscheri e Cristiano Cumer ISBN 978-88-6089-138-9 Copyright © 2014 Casa editrice Il Margine Via Taramelli, 8 - 38122 Trento Tel. e fax 0461 983368 e-mail editrice@il-margine.it Tutti i diritti riservati www.il-margine.it
Stampato per conto della Casa editrice Il Margine S.r.l. presso Grafiche Futura (Trento) nel mese di marzo 2014
Viva Haiti La riconquista dell’indipendenza rubata
a cura di Adriana Santiago
IL MARGINE
Indice
Un popolo tra il dolore e la speranza, di Adolfo Pérez Esquivel Rifondare una nazione libera e sovrana, di Ermanno Allegri Un ideale e un’audacia, di Adriana Santiago
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Capitolo 1
Una storia paradossale, di Wooldy Edson Louidor Cinema: per non morire a braccia conserte, di Francisca Stuardo L’“unga” creolo, di Francisca Stuardo Haiti esiste?, di Frei Betto
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Capitolo 2
Dopo la catastrofe, come stiamo?, di Phares Jerôme Intellettuali haitiani, contributo alla ricostruzione, di Benedito Teixeira Vescovi del mondo in favore di Haiti, di Adriana Santiago Case dalla Finlandia inadeguate al clima, di Adriana Santiago Una lezione di solidarietà, di Wooldy Edson Louidor Scuole per ricostruire Léogâne, di Adriana Santiago Cooperare per salvare vite, di Benedito Teixeira
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Capitolo 3
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia, di Phares Jerôme Caffè creolo: un prodotto conteso, di Adriana Santiago Riso sul ciglio della strada, di Adriana Santiago Kat Je Kontre - A quattr’occhi, di Adriana Santiago
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Capitolo 4
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale, di Phares Jerôme Kasay: casa della farina con una linea di produzione ultraefficiente, di Adriana Santiago Lèt Agogo - La produzione di latte aiuta gli abitanti delle campagne, di Adriana Santiago Paese emergente. Un caso di raggiro? Menzogna, fiducia e società, di Alain Gilles
93 100 111 117
Capitolo 5
La cultura come vetrina, di Nélio Joseph Vudù: cultura e religione, resistenza e solidarietà, di Benedito Teixeira L’artigianato in ferro è cosa da donne, di Adriana Santiago
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Capitolo 6
Costruendo la propria resistenza, di Adriana Santiago, Benedito Teixeira e Paola Vasconcelos 147 152 156 160 166
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Donne che si prendono cura di una città, di Adriana Santiago In vacanza: scuola gratuita per chi non può pagare, di Adriana Santiago Radio comunitarie per l’organizzazione popolare, di Adriana Santiago Automeca, un accampamento di solidarietà, di Adriana Santiago
Prefazione
Un popolo tra il dolore e la speranza
di Adolfo Pérez Esquivel
Adolfo Pérez Esquivel è architetto, scultore e attivista dei diritti umani. Argentino, è stato premiato con il Nobel per la Pace nel 1980. Ha coordinato la fondazione del Servizio pace e giustizia in America Latina (Serpaj-Al), insieme a vescovi, teologi, militanti, leader comunitari e sindacali.
Haiti è un Paese composito, formato da diversi popoli africani vittime di schiavitù, storicamente sottomessi come forza lavoro. Nel periodo della sofferenza e dell’espulsione dalla propria terra, il popolo maturò una forma di resistenza culturale, spirituale e politica per i propri diritti, per la vita e l’identità, riuscendo a preservare le proprie radici originarie. Nel corso del tempo, Haiti è divenuta oggetto di numerose dominazioni e dittature, che hanno portato la popolazione a sperimentare situazioni limite, eppure il popolo haitiano ha sempre avuto la capacità di porsi al di sopra di esse e di generare resistenza, per conquistarsi la costruzione di nuovi spazi di libertà. Nonostante questi sforzi, Haiti ha dovuto sopportare la presenza di eserciti stranieri e sperimentare la dipendenza, essendo il Paese con il più alto indice di povertà estrema del continente; è stato inoltre castigato da catastrofi naturali, come i terremoti e l’epidemia di colera, che hanno compromesso la vita del popolo, anche di recente. È necessario comprendere la gravità della situazione: secondo il rapporto pubblicato dall’Ocha (Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari) del 22 giugno 2012, tra ottobre 2010 e giugno 2012 559.487 persone erano state colpite da questa malattia, e 7.299 sono morte; le previsioni di diffusione della malattia parlavano di 170 mila nuovi casi per l’anno 2012. Il rapporto del segretario generale dell’Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite), pubblicato il 31 agosto 2012, parla di 7.440 morti tra l’ottobre 2010
e il 15 luglio 2012, e di 580.947 casi di contagio durante lo stesso periodo. Al di là della difficile situazione che ha dovuto affrontare, il popolo haitiano è caratterizzato da volontà e capacità di cercare percorsi alternativi per ricostruire spazi sociali, culturali e politici. Allo stesso modo sente chiaramente la necessità di recuperare i beni e le risorse naturali che sono stati devastati per mancanza di politiche di sviluppo e di integrazione, in grado di soddisfare le necessità umane di base quali salute, educazione, lavoro e diritto alla casa. Si tratta di un popolo a cui sono sempre state imposte politiche di speculazione finanziaria, senza cura per lo sviluppo integrale e per la vita. Haiti è un Paese occupato dagli eserciti stranieri della Minustah che, dietro il nome di Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti, si è stabilita nel Paese senza portare alcun progresso significativo per il recupero delle istituzioni statali e per la sicurezza per la popolazione, e senza rafforzare le sue istituzioni; persino l’aiuto internazionale è stato direzionato più all’assistenzialismo che alla realizzazione di programmi di promozione della partecipazione attiva nei settori sociale, educativo e politico, in grado di ricomporre la struttura dello Stato, il potere giudiziario e le istituzioni che realizzano la vita democratica. Alcuni organismi, come l’Onu, l’Unasul e altre istituzioni, hanno contribuito a migliorare la situazione di vita del popolo haitiano, raggiungendo alcuni
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Viva Haiti programmi e apporti concreti e accompagnano la vita della popolazione; come la presenza di gruppi di medici che condividono la vita con gli abitanti dei quartieri in cui operano, insieme ad agronomi e tecnici agricoli, che formano gli agricoltori ad essere responsabili del proprio sviluppo e della propria vita. Ci sono tentativi di promuovere programmi di riforestazione e di recupero della terra, di coltivazioni biologiche e di sviluppo, con una visione di economia regionale e partecipativa. È un lungo cammino da percorrere, e speriamo che la solidarietà e l’appoggio internazionale possano contribuire a dare frutti, per il bene del popolo haitiano. La Francia ha un debito storico con Haiti e ha l’opportunità di aiutare a superare la crisi che oggi la popolazione haitiana vive, la possibilità di restituire il cosiddetto debito estero, che Haiti le ha pagato dopo la sua liberazione, e destinare questi fondi per la ricostruzione del Paese. La ritirata dell’esercito straniero è vitale: è necessario stabilire delle tappe graduali e sostituire questi spazi di sicurezza con personale haitiano. Ci aspettiamo ed esigiamo dai Paesi latinoamericani che non rinnovino il mandato alla Minustah e che ritirino le truppe da Haiti. È il grido e l’esigenza di un popolo, già da un anno. Il Senato ha votato recentemente in favore della ritirata delle truppe. L’Onu e i governi dei Paesi che mantengono le truppe di occupazione in Haiti devono ascoltare l’invocazione del popolo che chiede con forza la ritirata dei contingenti militari nord-americani dal Paese; contingenti che, per ragioni strategiche e geopolitiche, cercano di consolidare la loro presenza nell’area caraibica. Non è possibile accettare la presenza di eserciti stranieri che, con false giustificazioni, vogliono rimanere nel Paese. È necessario cambiare gli orientamenti e gli obiettivi che sono stati imposti ad Haiti e approfondire la cooperazione internazionale e la solidarietà. È necessario sapere che è possibile superare le difficoltà se il protagonista sarà il popolo haitiano, che per la sua vita e il suo sviluppo sociale, culturale, economico e politico potrà ritrovare il proprio cammino, con l’aiuto e il sostegno dei popoli fratelli del continente e del mondo. Buenos Aires, gennaio 2013
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traguardi che sono però insufficienti. È fondamentale trovare percorsi alternativi attraverso la partecipazione di diverse organizzazioni sociali, per superare i problemi e rafforzare i diritti di sovranità e di autodeterminazione. Ad Haiti sono stati realizzati programmi corrosivi, politiche assistenzialiste “per il popolo haitiano”, senza partecipazione delle organizzazioni sociali, rimaste spettatrici e mai protagoniste. Una modalità accettabile sarebbe quella che favorisce la partecipazione attiva e il dialogo “con il popolo”, questi sì indiscutibilmente valori e possibilità reali per superare i problemi esistenti. È urgente implementare programmi efficaci, in termini di raggiungimento della sovranità alimentare e del recupero di risorse naturali: acqua, diritto alla terra e distribuzione dei beni in modo equo, così come delle foreste e delle terre coltivabili. Questo non è possibile senza la partecipazione attiva della popolazione: è necessario risvegliare coscienze e attivare valori e saperi propri del popolo per uno sviluppo che generi integrazione. Il 15 ottobre il segretario generale dell’Onu ha ancora una volta confermato il perpetuarsi dell’occupazione militare da parte della Minustah in Haiti, senza valutare né prendere in considerazione che dopo otto anni di occupazione non sono stati raggiunti risultati per il bene del popolo e delle sue istituzioni. Si torna a insistere sulla sottomissione del popolo, si continua a occupare il suo territorio con eserciti stranieri, violando la sovranità e il diritto popolare, con il pretesto che l’aiuto è necessario. La domanda fondamentale è: cosa è stato raggiunto in questi anni di occupazione del Paese? E attraverso quali aiuti? Quanti milioni di dollari e di euro sono stati spesi per finanziare le forze di occupazione in Haiti, invece di destinarli alla vita e allo sviluppo della popolazione? In diverse occasioni sono state inviate ad Haiti missioni internazionali per valutare e verificare la situazione dei diritti umani, comprese delegazioni delle Nazioni Unite. Senza benefici né risultato alcuno. Un esempio di ciò che segnalo è la zona di forse maggior marginalità e povertà del Paese, “Cité Soleil”, dove la mancanza di acqua potabile, di una rete sanitaria e fognaria e le condizioni di alta densità abitativa alimentano una situazione di violenza sociale e strutturale, portando ad alti indici di malattia e di mortalità infantile. All’interno di questo quadro drammatico dobbiamo trovare percorsi di speranza che ci illuminino, come l’azione delle diverse organizzazioni umanitarie che sostengono il popolo haitiano con
Presentazione
Foto Moranvil Mercidieu
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Viva Haiti
Rifondare una nazione libera e sovrana
Ermanno Allegri è un sacerdote italiano, vive in Brasile da quarant’anni. È stato tra i responsabili della pastorale della Terra e oggi è direttore dell’Agenzia di informazione Frei Tito per l’America Latina - Adital (www.adital.com.br).
lazione di Haiti vive oggi nella miseria, è perché gli haitiani non sono mai arrivati a creare strutture sociali ed economiche proprie. Mano a mano che costruivano la loro vita libera, la repressione arrivava a tagliare loro le gambe. È ciò che i gruppi dominanti hanno fatto sistematicamente anche con i tre pilastri della cultura haitiana: il creolo, il vudù e il lakou. Sono cinquecento anni che Haiti viene visitata e demolita dagli uragani e dai terremoti dei colonizzatori: la Spagna e la Francia, prima, e gli Stati Uniti poi, con i loro marines, e le loro mafie, chiamate “corporazioni”. Sempre contando sulla collaborazione dell’élite locale, venduta e servile. Ma oggi viviamo un tempo nuovo della nostra storia. Vari Paesi dell’America Latina e dei Caraibi stanno recuperando la loro dignità politica e sociale. Per questo l’Adital vuole dare al presente reportage un focus ben preciso: abbiamo selezionato le molteplici iniziative e azioni delle organizzazioni haitiane che stanno indicando al Paese un percorso nuovo di nazione sovrana. Questa è la prima finalità del reportage che avete fra le mani: crediamo che Haiti abbia i suoi strumenti, che abbia un futuro, che gli haitiani abbiano la forza di ricostruire e, come dicono adesso, di rifondare il loro Paese come nazione libera e sovrana. In mezzo a mille difficoltà sta accadendo quel che Toussaint Louverture (precursore dell’indipendenza haitiana) disse nel 1802, quando venne catturato e deportato dai francesi: “Avete abbattuto me, ma avete tagliato solo il tronco della libertà dei neri. Essa germoglierà di nuovo, perché le sue radici sono tante, e profonde”. Fortaleza, gennaio 2013
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di Ermanno Allegri
Il giorno 12 gennaio 2010 segna la storia di Haiti: un terremoto, una “calamità naturale” che ha lasciato più di 300 mila morti. Il Paese ancora stava recuperandosi da quattro uragani che avevano portato morte e distrutto l’isola tra agosto e settembre 2008. Pochi, però, sanno che gli stessi uragani Fay, Gustav, Hanna e Ike avevano imperversato anche sulla vicina isola di Cuba. Là però avevano causato “solo” quattro vittime. Proprio così: le catastrofi mettono a nudo lo stato “reale” delle società. Come ulteriore conferma, a fine ottobre 2012 l’uragano Sandy ha ucciso 11 persone a Cuba. Ad Haiti sono stati registrati 54 morti e 21 scomparsi. Quasi nessuno ha dato la notizia. E pochi sanno che, nel 1970, Haiti produceva il 95% degli alimenti che consumava, mentre oggi sta importando circa il 50% della sua necessità alimentare. Leggendo questo reportage veniamo a conoscenza di più “casi” come questo. E scopriamo, soprattutto, che l’estrema vulnerabilità sociale e fisica di Haiti (e di quanti altri Paesi nel mondo?) è una piaga provocata sistematicamente nel corso della storia. Dei 300 mila morti nel terremoto, quanti avrebbero potuto restare vivi, se… se quel Paese non avesse sofferto la carneficina di tutta la popolazione indigena (gli arawakos e i tainos), il massacro di trecento anni di schiavitù, vari decenni di dittature crudeli e, ultimamente, le leggi assassine del mercato globalizzato. È una lunga storia di violenza e di oppressione che ha negato al Paese la possibilità di costruirsi come nazione autonoma nell’economia, nella vita sociale, nella politica. È necessario fissare in modo chiaro e definito questi elementi basilari della storia haitiana affinché tutti percepiscano che, se più di metà della popo-
Introduzione
Un ideale e un’audacia
di Adriana Santiago
Adriana Santiago è giornalista da ventun’anni, laureata in comunicazione e cultura contemporanea presso l’Università federale della Bahia (Ufba) e docente di giornalismo all’Università di Fortaleza (Unifor) dal 2006. È stata redattore capo di Adital dal 2003 al 2006, e oggi collabora all’interno di progetti speciali.
Questo libro è un reportage e un atto di audacia: scrivere per mostrare una nuova prospettiva a una nazione che non è la propria. Così l’Adital mi ha invitato a organizzare quest’opera, a conoscere Haiti e a scriverne per il mondo. Questo non è un compito che uno straniero può portare a termine da solo. Più che un arduo compito, sarebbe irresponsabile e incoerente se non facessimo un libro su Haiti insieme agli haitiani. È così che, ad Haiti, hanno collaborato alla stesura di questo libro i giornalisti Wooldy Edson Louidor, Nélio Joseph, James Alexis e Phares Jerôme, quest’ultimo con tre capitoli. Oltre agli articolisti Irdèle Lubin, Rochelle Doucet, Alain Gilles, Pierre Clitandre e Marie Frantz Joachim. In Brasile, oltre a me e al direttore di Adital, Ermanno Allegri, il giornalista Benedito Teixeira ha coeditato il materiale e la giornalista Paola Vasconcelos ha fatto da anello di congiunzione con i giornalisti haitiani, oltre a Frei Betto, che ha contribuito con un articolo. La collaborazione assume una dimensione internazionale anche grazie al contributo della giornalista cilena Francisca Stuardo, che ha fotografato e scritto per noi, nelle sue ore libere, a Port-au-Prince. Il lavoro di organizzazione e raccolta dati è iniziato nel settembre 2011, con una serie di riunioni per scegliere il focus ideale per il libro. Nel fare ricerche, assistevamo solo a miseria, dolore e azioni di aiuto umanitario. Chiedevamo dove fossero gli haitiani. Così abbiamo optato per un progetto con testi e foto che richiamasse l’attenzione degli haitiani e della comunità internazionale, affinché percepissero le reali possibilità di un’autogestione del popolo di quel Paese. Un popolo che subisce occupazioni militari e disastri naturali: uragani e terremoti che lasciano
la popolazione senza cibo e senza casa, e il colera che peggiora le condizioni di dipendenza servile alle economie straniere. La nostra prima visita al Paese è avvenuta nel dicembre 2012, quando abbiamo dato il via al progetto ad Haiti, parlando con le leadership dei movimenti sociali che hanno approvato e incentivato le nostre idee. Dopo molte interviste con i leader locali, raccolte nel capitolo sulla democrazia partecipativa, abbiamo quindi individuato sei punti che indicano possibili percorsi per una ricostruzione vera ed effettiva del Paese: storia, ricostruzione, economia solidale, sovranità alimentare, cultura e democrazia partecipativa. Sono sei linee di investigazione, supportate da proposte concrete avanzate dagli stessi haitiani, che indicano vie d’uscita in parte già percorse da alcuni, nella speranza che si trasformino, un giorno, in politiche pubbliche effettive. Nel capitolo sulla storia, Edson Louidor sottolinea la qualità delle radici ancestrali dell’apparente servilismo e dell’eccessivo sfruttamento, e l’origine della forza dell’haitiano. Phares Jerôme tratta, nel capitolo sulla rifondazione, dei processi di ricostruzione e tenta di spiegare l’importanza di una ricostruzione che vada molto al di là dell’edificare pareti fisiche, e che ponga le basi per i muri dell’anima dell’haitiano e della sua autonomia. Nel capitolo sull’economia solidale, Jerôme ribadisce la necessità di un processo di integrazione economica finalizzato all’emancipazione del Paese dagli aiuti internazionali, con sviluppi locali e riforme effettive per la ricostruzione della cittadinanza, principalmente della forza lavoro femminile. Tale soluzione conta innanzitutto sul rinforzo dell’agricoltura, visto che il 65% dei quasi 10 milioni di haitiani vive in zone rurali. Essi si sostentano grazie a minuscole
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Viva Haiti ra è l’unico ambito in cui Haiti è competitiva a livello internazionale, Infine, il capitolo sulla democrazia partecipativa, scritto da me, da Benedito Teixeira e da Paola Vasconcelos, tratta delle questioni politiche che impediscono lo sviluppo del Paese. Speriamo, allora, che apprezziate questo lavoro e che vi uniate a noi nelle conclusioni che proponiamo, affinché possiamo promuovere l’impulso necessario a risollevare questo Paese, con il suo popolo tanto simpatico, forte, intelligente e lavoratore. Fortuna e perseveranza!
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proprietà, nonostante non riescano sempre a trasportare e a vendere i propri prodotti a causa di una viabilità disastrosa e della mancanza di acqua e di energia. Jerôme mostra ancora, in questo capitolo, che l’agricoltura familiare è la soluzione per la sussistenza del Paese e per la ripresa dell’esportazione. Nélio Joseph lavora in ambito culturale ed egli stesso ha proposto il capitolo in cui traccia un panorama generale delle ricchezze culturali del suo Paese. Avalla la tesi che la cultura è la grande vetrina che risolleverà il Paese, nella sua sovranità e autostima, poiché nella musica, nella pittura, nell’artigianato, nella letteratura, la cultu-
Una storia paradossale
Foto Francisca Stuardo
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Capitolo 1
Wooldy Edson Louidor
Una storia paradossale
In principio erano gli indios i principali abitanti dell’isola Hispaniola, tutti massacrati con l’arrivo degli europei. Haiti divenne, allora, un deposito di schiavi portati dall’Africa, i cui discendenti, dopo l’indipendenza del Paese nel 1804, hanno conosciuto ben pochi momenti di vera sovranità economica e politica.
Quanto Cristoforo Colombo arrivò, il 5 dicembre del 1492, sulla prima isola dove si stabilì nel “Nuovo Mondo”, si sentì in un paradiso. Le alte montagne che separavano le vaste pianure e le ampie valli; uccelli di tutte le dimensioni e di tutti i colori, alberi maestosi, fitti boschi… tutt’intorno l’oceano, e vari isolotti che facevano da guardia, come sfingi. È in questi termini che vari testi dell’epoca descrivono l’isola che oggi è divisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana. I primi colonizzatori trovarono l’isola tanto bella che le attribuirono il nome di Hispaniola, ossia di piccola Spagna, in omaggio alla loro terra natale. Eppure gli abitanti originari di quest’isola paradisiaca, gli arawakos e i tainos, apparivano ai colonizzatori spagnoli come esseri strani. Li chiamarono “indiani” per equivoco, perché gli “scopritori” pensavano di essere arrivati nelle Indie Orientali. Gli indiani erano talmente barbari e incapaci che mai si sarebbe potuto immaginare che una tale sordida turpitudine potesse trovar luogo nella figura umana; tanto che gli spagnoli, che per primi li scoprirono, non potevano credere che avessero un’anima razionale, ma a dir molto, un grano in più dei macachi o dei pappagalli, e non avevano nessuno scrupolo ad ingrassare i loro cani con la carne degli aborigeni, trattandoli come meri animali.
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Così scriveva Silvio Zavala, autore di libri sulla colonizzazione spagnola nelle Americhe, descrivendo l’impressione del tutto sgradevole causata agli “scopritori” dall’incontro con gli abitanti originari dell’isola. Gli spagnoli non tardarono ad azionare la macchina della colonizzazione sull’isola, sfruttando le miniere d’oro e ridu-
Una storia paradossale cendo alla schiavitù gli indios, considerati barbari e inferiori. Colonizzazione che andava di pari passo con l’evangelizzazione. La spada e la croce furono le due facce di una stessa medaglia. Così cominciò, nell’isola battezzata Hispaniola dagli stessi spagnoli, l’incontro tra due mondi differenti, che avrebbe dato luogo a una storia di invasione, colonizzazione, dominazione, razzismo e, allo stesso tempo, di resistenza, riflessione e lotta per la libertà. Una storia paradossale… Una storia di invasione e ribellione Di fronte a tanti paradossi si fa necessaria una breve presentazione geografica e socio-demografica di Haiti, prima di abbozzare un panorama storico di questo Paese caraibico che sempre vide contrapposti i differenti momenti di invasione con le rispettive forme di ribellione contro di essi. Haiti è un piccolo grande Paese, con una superficie di 27.500 km quadrati, ed è stata la prima repubblica nera del mondo intero. Si trova nei Caraibi, accanto alla Repubblica Dominicana, Paese a maggioranza bianca di lingua spagnola con il quale condivide l’isola. È abitato per gran parte da persone di razza nera (più del 95% della popolazione totale). Vi si parlano francese e creolo haitiano. Antica colonia della Francia, è diventato indipendente nel 1804, ma conserva diversi elementi culturali dei colonizzatori, quali l’idioma, il sistema scolastico, la religione cattolica, il sistema giuridico e altro. I neri di Haiti sono riusciti tuttavia a conservare la propria eredità africana, che si riflette nella tecnologia, nella vita economica, nell’organizzazione sociale, nella religione, nell’arte, nel folclore, nella lingua. La maggior parte degli antenati dei neri haitiani proviene dal Golfo del Benin, prima chiamato Costa degli Schiavi, e dall’antico regno di Ouidah, comandato dal re del Dahomey, che vendeva ai bianchi i suoi prigionieri di guerra in cambio di prodotti europei: armi, perle, utensili ecc. Di fatto, predomina ad Haiti la tradizione cultural-religiosa fon e yoruba (mahi e nago), originaria delle regioni del Dahomey e del Congo, tradizione conosciuta come “vudù”. Considerato come il Paese più povero dell’emisfero, il 12 gennaio 2010 Haiti è stata colpita da un terribile terremoto che ha devastato gran parte della sua capitale e ha aggravato la situa-
zione umanitaria. Le difficili condizioni di vita, l’instabilità politica e la disperazione della popolazione hanno spinto, durante le ultime decadi, più di un quarto della popolazione (tra mano d’opera a basso costo e intellettuali) a emigrare, principalmente verso la Repubblica Dominicana, alcune isole dei Caraibi, l’America del Nord e, in misura minore, l’Europa e l’America del Sud. La colonizzazione spagnola e la resistenza indigena Quella degli arawakos fu una delle prime etnie aborigene decimate dai colonizzatori spagnoli. Il suo carattere ospitale e pacifico, ammirato sia pur in modo ironico dallo stesso Colombo, facilitò in un primo momento il lavoro dei colonizzatori spagnoli. “Con cinquanta uomini potremmo soggiogarli”, scrisse Colombo nel suo diario. Gli indios furono sorpresi dalla crudeltà degli spagnoli, come riferì lo stesso Colombo. Quando gli indios iniziarono a essere catturati, i villaggi di Hispaniola rimasero vuoti. Nel 1495 venne data la caccia a 1.500 indios, che furono accerchiati dagli spagnoli con l’aiuto dei loro cani e catturati; ne vennero selezionati cinquecento da portare in Spagna, duecento dei quali morirono durante il viaggio, e quelli che arrivarono vennero venduti… Gli spagnoli cominciarono a cacciare gli indios arawakos; molti di loro vennero impiccati e bruciati, e molti altri cominciarono a uccidere i propri figli per liberarli dalla violenza degli spagnoli. In due anni, la metà della popolazione di Hispaniola, calcolata in 250 mila abitanti, è stata assassinata, mutilata o si è suicidata. Quando ci si accorse che non c’era più oro, gli indios vennero presi come schiavi per lavorare nelle grandi fattorie chiamate “encomiendas”. Dovevano lavorare a un ritmo tanto disumano che ne morirono migliaia. Nel 1515 ne restavano circa cinquantamila. Nel 1550 solo cinquecento. Un racconto del 1650 mostra che nessuno degli arawakos o dei loro discendenti era sopravvissuto. Fu la fine dei primi abitanti dell’isola: gli arawakos. Un genocidio praticato in nome della “Santissima Trinità”, tante volte invocata da Cristoforo Colombo nel suo diario e nei suoi “Rapporti alla corte di Madrid”. Quella che poi verrà chiamata scoperta dell’America ha significato per gli arawakos e per altri popoli del “nuovo continente” invasione, colonizzazione, morte, tortura, schiavitù, razzismo, genocidio. In America non avvenne una scoperta, ma un “occul-
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Viva Haiti
Una storia paradossale tamento dell’altro”, come ha detto bene il filosofo argentino-messicano Enrique Dussel. I colonizzatori europei hanno trasformato il continente nel “nuovo mondo” e i suoi abitanti originari in “barbari”: hanno trasformato l’America nell’Altro, per poterla negare come Altro, nasconderla nella sua alterità. L’Altro venne dichiarato barbaro, era necessario evangelizzarlo, ridurlo in schiavitù, assolverlo. L’Altro era considerato un oggetto e non un soggetto. Gli arawakos, un popolo pacifico che non conosceva armi, dovettero organizzarsi rapidamente per resistere alla crudeltà dei colonizzatori. Davanti alla superiorità militare degli spagnoli non si arresero ma lottarono fino alla fine. Utilizzarono varie forme di lotta, come quella chiamata in spagnolo “cimarronería”, che consisteva nel rifugiarsi sulle montagne per attaccare di notte i colonizzatori. Una delle figure emblematiche della resistenza indigena è Caonabó che, a partire dal 1522, fu il leader di un gruppo di indios “cimarrones” fuggiti sulle montagne per organizzare la resistenza contro gli spagnoli. Caonabó fu catturato dagli spagnoli, incarcerato e condannato come criminale dall’autorità spagnola. Le storie narrano che scomparve dalla barca che lo portava in Spagna. I popoli aborigeni si articolarono come un sol uomo, unendo vari capi villaggio e facendo un fronte comune per lottare. La figura di Anacaona, la regina taina della tribù Maguana, è emblematica di questa forma di resistenza organizzata dagli aborigeni. Ebbe un ruolo importante per unire i differenti capi villaggio e stabilire la concordia e la pace tra loro. Nel frattempo, grazie alle imboscate e alla loro brutalità, gli spagnoli erano riusciti a catturare e giustiziare alcuni aborigeni tra cui gli stessi capi, come Caonabó e Anacaona. La storia della ribellione di questi aborigeni non è mai stata scritta. Disgraziatamente, la storia che è arrivata fino a noi è quella narrata dai vincitori. La storia dei vinti tende a sparire. Il genocidio degli indigeni si fonde con lo “storicidio” indigeno.
necessario cercare altri schiavi da utilizzare come mano d’opera per sostenere l’ordine schiavista. La Francia riuscì, nel 1697, a fare in modo che la Spagna le cedesse la parte occidentale dell’isola (oggi Repubblica di Haiti) attraverso la firma del Trattato di Ryswick, nonostante i francesi si fossero già installati in
La colonizzazione francese e la prima repubblica nera Subito dopo il genocidio degli indios, provocato principalmente da un insieme di fattori quali i massacri, i lavori forzati, la fame, lo “shock sanitario” (con l’introduzione di nuove malattie e virus da parte degli europei nel nuovo continente) e i suicidi, era
Anacaona ritratta dall’artista e scrittrice haitiana Alexandra Barbot (immagine contenuta nel suo libro Mamma, raccontami di Haiti).
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Viva Haiti Come ben scrive lo scrittore e antropologo afrocolombiano Manuel Zapata Olivella, “il vudù è una religione africana, originaria dei popoli yoruba del Dahomey, che creò un sincretismo con quella degli indios… Si ispira a una filosofia ontogenica a partire dal legame che unisce i vivi con i loro avi e orixas”. Le cerimonie vudù servivano a radunare gli schiavi e connetterli spiritualmente con i loro avi dell’Africa, che inviavano loro messaggi, generalmente rivoluzionari e di speranza, attraverso i sacerdoti vudù. Per esempio, la cerimonia vudù di Bois-Caïman, presieduta dal sacerdote giamaicano Bouckman, diede inizio alla rivoluzione haitiana. In questa cerimonia Bouckman dichiarò che “un patto era stato sigillato tra gli iniziati di qui e i grandi laos (spiriti) dell’Africa, affinché la guerra iniziasse sotto segni propizi”. E aggiunse: “Il Dio dei bianchi ordina il crimine. I nostri dei ci chiedono vendetta. Essi guideranno le nostre braccia e ci daranno assistenza. Rompiamo l’immagine del Dio dei bianchi, che ha sede nelle nostre lacrime; ascolteremo in noi stessi la chiamata della libertà!”. La lotta definitiva contro la colonizzazione francese fu capitanata dal grande eroe nazionale, Toussaint Louverture, a partire dal 1791. Quando fu catturato dai francesi, nel 1802, e prima di essere portato in Francia, dove morì di polmonite nel 1803 nel carcere di Fort-de-Joux, il precursore dell’indipendenza haitiana dichiarò: “Avete abbattuto me, ma avete tagliato solo il tronco della libertà dei neri. Essa germoglierà di nuovo, perché le sue radici sono tante, e profonde”. Nel 1804, due anni dopo la caduta di Toussaint Louverture, i neri “avevano sconfitto il glorioso esercito di Napoleone Bonaparte, e l’Europa non perdonò mai questa umiliazione”, ha spiegato lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano. Per tutto il secolo XIX l’esempio di Haiti rappresentò una minaccia per la sicurezza dei Paesi che continuavano a praticare lo schiavismo. Già Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti (1801-1809), aveva detto: “Da Haiti proviene la peste della ribellione”. Nella Carolina del Sud, per esempio, la legge permetteva di incarcerare qualsiasi marinaio nero non appena la sua barca entrasse nel porto, per evitare il rischio di contagio della peste antischiavista. E in Brasile questa peste si chiamava “haitianismo”. Effettivamente, il capo di Stato haitiano, Alexandre Pétion, appoggiò Simon Bolivar e Francisco de Miranda con rifornimen-
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Saint-Domingue (nome dato dai francesi alla parte occidentale dell’isola) tra il 1650 e il 1670. L’ambizioso ministro di Luigi XIV, Colbert, aveva cominciato a organizzare la tratta dei neri, principalmente nelle colonie francesi. Solamente nel secolo XVIII, 864 mila schiavi neri erano arrivati dall’Africa a Saint-Domingue, con una media di 8 mila all’anno nel 1720, e di 40 mila nel 1787. La quantità di schiavi era tanto imponente che risultava meno caro per un proprietario di piantagioni francese rinnovare il suo stock di schiavi piuttosto che alimentarli e lasciare che si riproducessero. Gli schiavi neri erano trattati in modo brutale: mal nutriti, mal vestiti e mal alloggiati; qualunque manifestazione di ribellione era passibile di mutilazione corporale o di morte. Di fatto, nel 1788 restavano in Saint-Domingue solo circa 500 mila schiavi neri, dei quali il 60% era nato in Africa. Centinaia di migliaia di schiavi neri morirono anche a causa dei lavori forzati nelle piantagioni di canna da zucchero, della pianta da cui si ricava l’indaco, di cotone, caffè e cacao. Grazie allo sfruttamento della mano d’opera schiavizzata nera Saint-Domingue si trasformò, nel secolo XVIII, nella Perla delle Antille, la colonia più ricca della Francia; era la prima produttrice mondiale di zucchero e di caffè. “A metà di questo secolo Saint-Domingue divenne la colonia più lucrativa del mondo; essa produceva più ricchezza delle tredici colonie che, in seguito, formarono gli Stati Uniti d’America”, spiega il giornalista Kevin Edmonds, in un reportage del 2010 dell’Agenzia latinoamericana di informazione (Alai). Nel frattempo, la ribellione degli schiavi neri di Saint-Domingue non sarebbe tardata. Cominciò con la resistenza dei cosiddetti “cimarrones”, schiavi fuggiti sulle montagne, come Mackandal che, nonostante avesse perso un braccio, utilizzava le sue conoscenze di erbe, di funghi e di foglie per fabbricare veleni e, di notte, assaltava le piantagioni, avvelenava le fonti d’acqua, gli alberi da frutto e i campi dove pascolava il bestiame, incendiava i campi di canna da zucchero e di caffè. Oltre alla “cimarronería”, molto simile alle strategie di guerriglia urbana dei nostri tempi, gli schiavi utilizzavano altre forme di resistenza. Per esempio, di notte, uscivano dalle piantagioni per riunirsi, danzare al suono dei tamburi, celebrare le cerimonie religiose ritmate dal vudù e organizzare la lotta ideologica e armata contro i colonizzatori francesi.
Una storia paradossale Toussaint Louverture ritratto dall’artista Alexandra Barbot (www.mommytellmeabouthaiti.com).
ti di armi, munizioni e uomini nella loro lotta per l’indipendenza sudamericana. In una lettera scritta al presidente haitiano nel 1816, Bolivar ringraziava: “Il mio riconoscimento non ha limiti per l’onore che Sua Eccellenza mi fa […]. Dal fondo del mio cuore affermo che Sua Eccellenza è il primo dei benefattori della terra! Un giorno l’America proclamerà Sua Eccellenza come suo liberatore, sopra tutti quelli che ancora gemono sotto il giogo repubblicano. Accetti in anticipo, signor Presidente, il voto della mia patria!”.
Haiti diventa il simbolo della ribellione contro la schiavitù in tutto il continente, principalmente in America Latina. Le potenze internazionali di Francia, Stati Uniti, Inghilterra e Olanda, lasciando da parte le loro rivalità coloniali, decisero di strangolare questa rivoluzione nella culla tanto che obbligarono Haiti a pagare un indennizzo di 150 milioni di franchi in oro ai proprietari di piantagioni francesi per la perdita delle proprietà. “Haiti pagò alla Francia, per un secolo e mezzo, un indennizzo gigantesco, per espiare la colpa della sua libertà, ma nemmeno questo bastò. Quell’insolenza dei neri continua a far male ai bianchi del mondo”, ha affermato Galeano. “La decisione [di Haiti] di pagare quest’indennizzo, superiore alle rendite disponibili del Paese, equivaleva a stringersi un cappio al collo, un nodo che l’avrebbe strangolata ogni volta che avesse tentato di muoversi”, ha spiegato l’economista haitiano Lesly Péan. Di fatto, le rendite pubbliche di Haiti ammontavano a tre milioni di dollari, mentre il debito contratto ingiustamente per l’indipendenza del Paese era dieci volte maggiore. “Per fare un paragone, il territorio della Louisiana (ovvero, i quindici stati che includevano il medio oriente americano, con un territorio di 2,14 milioni di km quadrati) fu venduto nel 1803 agli Stati Uniti dalla Francia per un prezzo di 15 milioni di dollari americani (80 milioni di franchi), cioè la metà del prezzo pagato da Haiti per sua indipendenza”, prosegue Péan. Il giovane Stato dovette chiedere ai banchieri francesi tre prestiti: 30 milioni (nel 1825), 15 milioni (nel 1874) e 50 milioni di franchi (nel 1875) per poter pagare l’ammontare totale del debito nel 1897 e gli interessi fino al 1913. “Haiti ha pagato un prezzo alto e il debito è lo strumento neocoloniale utilizzato per avere accesso alle molte risorse naturali di questo Paese”, ha scritto Sophie Perchellet, vice presidente del Comitato per la Cancellazione del Debito del Terzo Mondo in Francia. Tutti i capitali di Haiti, derivati dall’esportazione di caffè e di altre risorse naturali, furono trasferiti alla Francia per pagare l’enorme debito dell’indipendenza. Allo stesso tempo, il Paese esportò negli Stati Uniti d’America, in Francia e in altri Paesi europei materie prime, come il legno. Ad esempio Francia e Stati Uniti dissanguarono la ricchezza ecologica del Paese, sfruttando in tutti i modi il legname e le miniere. Per pagare l’indennizzo dell’indipendenza, il Paese dovette contrarre un debito pubblico che lo obbligò ad adottare un’eco-
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Alexandre Pétion appoggia la lotta di Simon Bolivar nell’opera dell’artista haitiana Alexandra Barbot.
L’occupazione americana e la resistenza contadina Nel 1915 gli Stati Uniti occuparono Haiti, approfittando del clima di instabilità politica generato nel Paese caraibico da incessanti conflitti tra fazioni politiche: tra il 1908 e il 1915 alla guida del governo si alternarono nove presidenti. Con il pretesto della stabilizzazione politica, gli Stati Uniti occuparono Haiti per estendere il loro potere imperialista e il loro capitale attraverso l’installazione delle loro corporazioni, che si dedicarono principalmente all’industria dello zucchero e delle banane. L’occupazione americana fu accompagnata da grandi espropriazioni di terre dei contadini e dall’appropriazione delle risorse finanziarie della Banca nazionale della Repubblica di Haiti (Bnrh). “Gli invasori cominciarono ad appropriarsi delle dogane e consegnarono la Banca nazionale alla City Bank di New York. E, già che c’erano, rimasero per diciannove anni”, ha scritto Eduardo Galeano. Gruppi di contadini haitiani chiamati “cacos”, capitanati da Charlemagne Péralte, a cui successe Benoît Batraville dopo l’assassinio del suo predecessore, avvenuto il 31 ottobre del 1919 nella città di Hinche, organizzarono la resistenza armata contro l’invasione americana e combatterono fino alla morte. Anche se disponevano di pochissime armi, i contadini realizzarono varie spedizioni contro i marines, principalmente in Portau-Prince, ma gli occupanti già avevano installato un sistema repressivo nel Paese e creato una guardia nazionale per neutralizzare la reazione contro l’occupazione. Durante l’occupazione americana, che durò dal 1915 al 1934, arrivò ad Haiti il capitale straniero, principalmente capitale statunitense, che continuò con l’“ecocidio” sostituendo alla coltivazione di generi alimentari, centrata su una economia di sussistenza, le colture del sisal, della gomma, della banana e della canna da zucchero per l’esportazione. Tutto questo processo fu accompagnato da espropriazioni brutali delle terre dei contadini, che vivevano coltivando caffè e alberi da frutto, e allevando animali come capre, galline e bovini. La legge del 22 settembre 1922 proclamava per esempio nel suo primo articolo: “Le terre dovranno essere affittate solo a persone o compagnie che possano provare di possedere le capacità finanziarie e le condizioni necessarie per realizzare lo sviluppo del Paese, conformemente alla presente legge”.
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nomia di esportazione (invece che un’economia orientata alla soddisfazione delle necessità di base dei suoi abitanti) e di trasferimento dei suoi capitali e delle sue risorse verso l’ex madre patria. Il giovane Paese non poté lavorare per la propria ricostruzione e il proprio sviluppo. L’indipendenza haitiana, recentemente conquistata, era condannata a fallire.
Una storia paradossale Questa situazione di espropriazione e sfruttamento dei contadini raggiunse il suo apice nel 1946, quando il governo di Élie Lescot proclamò il decreto del 6 gennaio 1945 che permetteva alle corporazioni americane, come la Società haitiano-americana dello sviluppo agricolo (Shada), di distruggere le piantagioni di beni alimentari, prodotti agricoli e alberi da frutto. Alcuni intellettuali denunciarono la situazione, ad esempio Franck Blaise che nel suo libro Le problème agraire à travers l’histoire d’Haïti (La questione agraria nella storia di Haiti) qualificò questa distruzione ecologica come “disastro naturale”. La dittatura di Duvalier e la ribellione popolare
Tela di arte primitivista, comune nelle strade del Paese, che rappresenta il suono dell’inizio delle battaglie della resistenza contro i francesi.
L’occupazione americana terminò nel 1934. Eppure gli Stati Uniti mantennero una rilevante presenza nel Paese attraverso le forze armate haitiane, principalmente la Guardia nazionale che essi stessi avevano creato durante l’occupazione. Il trionfo della rivoluzione socialista cubana nel 1959, capitanata da Fidel Castro, diede agli Stati Uniti il pretesto per appoggiare ad Haiti il regime dittatoriale dei Duvalier. François Duvalier venne eletto presidente ad Haiti nel 1957 con l’appoggio degli Stati Uniti. Questi creò una milizia paramilitare personale chiamata Tonton Macoutes per sostenere il suo potere, reprimendo tutte le ribellioni e i movimenti sociali, arrivando persino ad assassinare alcuni membri dell’élite intellettuale del Paese che avevano osato mettere in discussione il suo dominio. La corruzione fu elemento fondamentale del regime duvalierista. La famiglia Duvalier si arricchì principalmente con il denaro ricevuto dalla mafia statunitense, soprattutto quella newyorkese, e con le risorse del Paese. Oltre che per la repressione e per la corruzione, la presidenza di Jean-Claude Duvalier, figlio di François, si caratterizzò per la “liberalizzazione economica” attraverso l’installazione delle industrie manifatturiere, principalmente tessili e di abbigliamento, votate all’esportazione. Questo modello di manifatture rappresentò, da allora in avanti, il modello di sviluppo per Haiti, e ciò a danno della produzione nazionale (principalmente agricola). Tali imprese multinazionali contribuirono a generare pochissimo impiego (oltre che mal pagato) e non lasciarono quasi nessun capitale nel Paese, visto che non utilizzavano prodotti di Haiti, ma materie prime importate da altre nazioni, principalmente dagli Stati Uniti. Spiega
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bene Sophie Perchellet: “Dal 1970 al 1985 l’industria manifatturiera ha potuto creare solamente tra i 40 mila e 50 mila posti di lavoro, ossia tremila all’anno”. Lo scontento popolare contro Jean-Claude Duvalier aumentò in modo esponenziale quando il dittatore decise di uccidere i maiali creoli nel 1978, sotto pressione di Usa, Canada e Messico. Queste tre nazioni spinsero per sopprimere tutti i maiali creoli del Paese, con il pretesto che la peste suina africana, scoperta nella Repubblica Dominicana nello stesso anno, potesse infettare tutti gli allevamenti di suini dell’isola. Tale mattanza di maiali, che costituivano uno dei pilastri dell’economia haitiana, squilibrò il sistema agricolo di sussistenza contadina e contribuì alla decapitalizzazione delle coltivazioni agricole, all’impoverimento dei contadini, all’insicurezza alimentare e all’esodo dalle zone rurali. Si consideri che i maiali creoli erano il conto in banca dei contadini, che li vendevano per mandare, con il denaro guadagnato, i figli a scuola, per poter andare all’ospedale in caso di malattia e per altre occasioni particolari. La macellazione di circa un milione di maiali creoli, su un totale stimato tra 1,2 e 1,9 milioni di capi presenti nel Paese, fu un disastro socioeconomico principalmente per i contadini, che tentarono di resistere a questa misura deleteria per esempio nascondendo i maiali nei cortili delle case. La compensazione data ai contadini proprietari dei maiali (7,5 milioni di dollari) fu di molto inferiore al valore totale del bestiame, stimato in 60 milioni di dollari. I nuovi maiali importati non si adattarono subito al Paese, al punto da rendere necessario incrociare tre diverse specie per creare una nuova razza. L’incrocio ebbe bisogno di vari anni e avvenne senza l’appoggio degli Stati Uniti. Ma l’allevamento dei suini sarebbe comunque stato diverso con i nuovi maiali, che non si adattarono allo stile di vita dei contadini come i maiali creoli.
Il malcontento, principalmente nelle zone rurali e nei quartieri popolari, cresceva contro il regime repressivo dei Duvalier. I mezzi di comunicazione, l’università pubblica e la Chiesa cattolica, soprattutto le comunità ecclesiali di base (Ti Legliz, in creolo), figurarono tra le prime forze (anche se non le uniche) che canalizzarono e articolarono la protesta sociale contro il regime duvalierista. Un gruppo di sacerdoti cattolici haitiani, vicino alla teologia della liberazione, che proclama l’opzione preferenziale per i poveri, ebbe un ruolo importante nell’attualizzazione del messaggio liberatore di Gesù nella realtà haitiana, invitando il popolo a lottare per trasformare, alla luce della fede, tale realtà, caratterizzata da oppressione politica, miseria, analfabetismo, ingiustizia… A seguito di un grande movimento sociale, il dittatore JeanClaude Duvalier dovette andare in esilio, ponendo fine a una terribile dittatura che era durata circa trent’anni. Il giorno 7 febbraio 1986 segnò una nuova tappa nella storia del Paese: “la seconda indipendenza di Haiti”, come venne battezzata. L’anno seguente una nuova Costituzione, democratica e in accordo con la volontà popolare, fu elaborata e accettata unanimemente dalla popolazione, che la proclamò solennemente per “garantire i suoi diritti inalienabili e imprescrittibili alla vita, alla libertà, conformemente con la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948”, per “costituire una nazione haitiana socialmente giusta, economicamente libera e politicamente indipendente”, per “impiantare la democrazia, con il suo pluralismo ideologico e alternanza politica, e affermare i diritti inviolabili del popolo haitiano”, secondo il preambolo della nuova Magna Charta del Paese. Il popolo haitiano visse dunque, anche se in modo effimero, il sogno di costruire un Paese democratico, sogno che si sarebbe però presto convertito in un incubo ad opera di una serie di
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Francobollo del 1904 in onore di Alexandre Pétion, presidente dal 1806 al 1818, subito dopo la morte di Dessalines.
Francobollo del 1988 in omaggio a Charlemagne Péralte, il leader dei cacos, che lottò contro l’occupazione degli Usa tra il 1915 e il 1919.
Una storia paradossale L’ex presidente Jean-Bertrand Aristide, ex sacerdote salesiano, apostolo della teologia della liberazione e idolo dei quartieri popolari, fu deposto con appoggio degli Usa per tre volte.
“La democrazia haitiana è nata da poco. Nel breve tempo della sua vita questa creatura affamata e ammalata non ha ricevuto altro che schiaffi. Era appena nata nei giorni di festa del 1991, quando venne assassinata dal colpo di Stato del generale Raoul Cédras. Tre anni più tardi resuscitò. Dopo aver innalzato e deposto tanti dittatori militari, gli Usa deposero ripetutamente il presidente Jean-Bertrand Aristide che era stato il primo governante eletto tramite votazione popolare in tutta la storia di Haiti, e che aveva la pazza idea di volere un Paese meno ingiusto”. Dopo il suo ritorno al potere, con il sostegno dell’amministrazione di Bill Clinton, dei marines americani e dei caschi blu dell’Onu, Aristide “non riuscì più a resistere ai cambiamenti imposti dal Fondo monetario internazionale in direzione dell’apertura commerciale e della liberalizzazione finanziaria”, spiega Camille Chalmers, coordinatore della Piattaforma per lo sviluppo alternativo di Haiti (Papda). Per citare Sophie Perchellet:
regimi militari autoritari che avrebbero governato fino al 1994, dopo vari colpi di Stato. Il colpo di Stato militare più ricordato fu quello eseguito dal generale Raoul Cédras contro il presidente Jean-Bertrand Aristide il 30 settembre 1991. Ex sacerdote salesiano, apostolo della teologia della liberazione e idolo dei quartieri popolari, JeanBertrand Aristide venne scelto nelle elezioni del dicembre 1990 come candidato presidenziale delle forze progressiste e del movimento popolare, per esorcizzare la minaccia di un eventuale ritorno al potere del regime duvalierista, simboleggiato dal suo candidato di allora, Roger Lafontant. Il presidente Jean-Bertrand Aristide venne eletto con il 67% dei voti. Dopo appena sette mesi al potere venne sequestrato dalle forze armate di Haiti con la complicità dell’amministrazione americana di George Bush (padre), delle forze duvalieriste, della borghesia nazionale e di gran parte della gerarchia della Chiesa cattolica. La capitale, Port-au-Prince, si trasformò in un fiume di sangue e in un’immensa sala di tortura contro il popolo haitiano che diceva no alla repressione e reclamava il ritorno alla democrazia e all’ordine costituzionale. Ha scritto Eduardo Galeano:
“Fino a che gli Stati Uniti si incaricarono di ‘restaurare la democrazia’, le istituzioni finanziarie dovettero apportare ‘stabilità finanziaria e sviluppo’. Attraverso i piani di aggiustamento strutturale (PAS), la sovranità economica, politica e finanziaria del Paese è abbandonata ai suoi creditori, alle grandi potenze e al dio Mercato.” La lotta dei movimenti anti-neoliberisti Dagli anni ’90 Haiti è progressivamente affondata nella dipendenza economica, finanziaria e militare attraverso i meccanismi di liberalizzazione commerciale e finanziaria, la presenza militare di diverse “missioni di pace” delle Nazioni Unite e il controllo delle sue politiche pubbliche da parte delle istituzioni finanziarie internazionali. Tra il 1986 e il 1987 le autorità haitiane già avevano ridotto le tariffe doganali, il che provocò l’invasione del mercato locale da parte dei prodotti importati. La produzione locale fu molto compromessa da questa misura liberista annunciata dal dittatore Jean-Claude Duvalier. Per esempio nel 1995, dopo un accordo con il Fmi, furono ridotte dal 35% al 3% le tariffe sul riso importato, principalmente da Miami. La produzione di riso haitiano collassò davanti alla competizione sleale del riso americano che diventava infinitamente più
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Viva Haiti economico. Nel 2008 più dell’80% del riso consumato ad Haiti proveniva da Miami. Questa apertura eccessiva del Paese al mercato, attraverso la drastica riduzione delle tariffe sui prodotti importati, compromise la produzione locale e provocò un grande squilibrio tra importazioni ed esportazioni. “Da 653 milioni di dollari nel 1995, il valore delle importazioni aumentò a 2,158 miliardi di dollari nel 2008”, spiega Sophie Perchellet. Così come già avvenuto con i capitali derivati dalle industrie manifatturiere, i capitali delle importazioni si diressero verso l’estero, principalmente verso gli Stati Uniti d’America. Dall’altro lato, le politiche pubbliche ad Haiti, principale strumento per contrastare i problemi più gravi di un Paese, sono
state definite negli ultimi vent’anni, secondo l’organizzazione haitiana Papda, da “specialisti delle istituzioni finanziarie internazionali (Ifi), rappresentati da missioni diplomatiche e organizzazioni internazionali accreditate ad Haiti, accompagnate da alcuni burocrati/tecnocrati, politici haitiani e, presumibilmente, alcuni membri della società civile”. Vennero elaborati – senza partecipazione reale della società civile haitiana – vari documenti a sigillo delle suddette politiche pubbliche, come ad esempio: il Programma di urgenza e riabilitazione economica, dal 1994 al 2004; le Linee guida della cooperazione temporanea, dal 2004 al 2006; il Documento della strategia temporanea per la riduzione della povertà, dal 2006 al
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La Minustah arrivò ad Haiti nel 2004, comandata dal Brasile (foto Ana Nascimento/ABr).
Una storia paradossale 2008; il Documento della strategia nazionale per la crescita e la riduzione della povertà, dal 2008 al 2010; e, recentemente (subito dopo il terremoto del 12 gennaio 2010), il Post Disaster Needs Assessment - Valutazione delle necessità post-calamità (Pdna) e il Piano d’azione per il recupero e lo sviluppo nazionale (Pardn). Tutti questi strumenti di politiche pubbliche, sfavorevoli per il popolo haitiano, sono orientati a intensificare la dipendenza economica e finanziaria del Paese dalle istituzioni finanziarie internazionali, le quali obbligano lo Stato haitiano a ridurre le sue spese sociali, ad accelerare la privatizzazione delle sue imprese e ad aprire totalmente il suo mercato senza nessuna sovvenzione alla produzione locale. Ossia: ad applicare il piano di aggiustamento strutturale. D’altro canto, a causa dell’instabilità politica generata ad Haiti da conflitti tra differenti fazioni, il Paese ha visto arrivare dal 1993 ad oggi cinque missioni di sostegno e manutenzione della pace: la Minuha (Missione delle Nazioni Unite ad Haiti), la Manuh (Missione di appoggio delle Nazioni Unite ad Haiti), la Mitnuh (Missione di transizione delle Nazioni Unite ad Haiti), la Miponuh (Missione di polizia civile delle Nazioni Unite ad Haiti) e dal 2004 la Minustah (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti). Queste diverse missioni di pace sono state accusate di commettere abusi e violazioni ai diritti umani contro i cittadini haitiani. La Minustah, la nuova missione dell’Onu ad Haiti, è stata qualificata come “forza di occupazione” da vari movimenti sociali del Paese. Essa è accusata di reprimere le proteste sociali e perpetrare violazioni dei diritti umani, come abusi sessuali ai danni dei giovani, uomini e donne. È stata ingaggiata una forte lotta contro la presenza della Minustah, per la sua uscita immediata e incondizionata dal Paese, una lotta ingaggiata dagli studenti dell’Università statale di Haiti, principalmente della facoltà di scienze umane. Altri movimenti sociali, come quello degli operai, dei contadini e delle organizzazioni femministe, hanno intensificato le loro proteste contro i caschi blu per chiedere la loro uscita dal Paese. Allo stesso modo, hanno richiesto un risarcimento per le oltre 7 mila vittime haitiane dell’epidemia di colera, provocata da questa missione militare attraverso i caschi blu nepalesi, e anche per le centinaia di persone, tutte giovani, uomini e donne, che hanno sofferto aggressioni sessuali da parte dei caschi blu. Di fronte alla dimensione della protesta, vari Paesi, tra i quali il
La presenza dei militari dell’Onu ha modificato la vita quotidiana degli haitiani (foto Marcello Casa Jr /ABr).
Brasile che detiene il comando militare della Minustah, analizzano la possibilità di ridurre le proprie truppe militari e di polizia in questa missione e di attuare una ritirata progressiva, come ha annunciato la presidentessa brasiliana Dilma Rousseff durante la sua visita ad Haiti il 1° febbraio 2012. Allo stesso modo, gli operai e i gruppi sindacali, appoggiati dai movimenti sociali, stanno intraprendendo una lotta contro la privatizzazione delle imprese pubbliche che ha prodotto come conseguenza il licenziamento di migliaia di lavoratori. Ad esempio, subito dopo che le autorità haitiane hanno venduto, nell’aprile 2010, il 60% delle azioni della compagnia di telefonia pubblica Teleco alla società vietnamita Viettel, gli impiegati di questa ditta che sono stati licenziati hanno organizzato una manifestazione contro la misura di privatizzazione. Un ex-impiegato, Jakson Saintelus ha persino minacciato di suicidarsi se non fossero stati versati a tutti gli ex-impiegati di questa impresa i giusti pagamenti e gli indennizzi dei danni per il licenziamento ingiustificato. In un Paese dove la disoccupazione e il lavoro sottopagato colpiscono più dell’80% della popolazione economicamente attiva, le autorità haitiane mantengono una posizione che incoraggia gli investimenti stranieri privati quale alternativa per generare
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Viva Haiti nel giugno 2009. Il debito è stato rivalutato nel febbraio 2010 in circa 890 milioni di dollari, sui quali la Banca interamericana di sviluppo ha i diritti per il 41% e la Banca Mondiale per il 27%. Subito dopo il terremoto del 2010 vari movimenti sociali haitiani e internazionali hanno richiesto non solo l’annullamento totale e incondizionato del debito estero di Haiti (una sorta di cappio stretto intorno al collo del Paese), ma anche un risarcimento per il debito storico, sociale ed ecologico verso il Paese caraibico. In un comunicato diretto, nel febbraio 2010, all’Unione delle nazioni sudamericane, tali movimenti hanno sollecitato l’appoggio dell’organismo regionale per reclamare questo debito storico, sociale ed ecologico verso Haiti: Haiti destina il 22% del suo bilancio al pagamento del debito estero. Solamente nel 2005 Haiti ha pagato alla Banca Mondiale 52,6 milioni di dollari come servizio del debito, come requisito per ricevere l’aiuto dei prestiti offerti in occasione della Conferenza dei donatori, realizzata a Washington nel luglio 2004, per la quantità di 1,5 milioni di dollari. Nel frattempo, dopo il pagamento realizzato da Haiti, la Banca Mondiale ha concesso un prestito di 46 milioni, l’80%, dei quali era destinato ad accelerare la privatizzazione di cinque imprese pubbliche: acqua potabile, elettricità, telefonia, porti e aeroporti. Questo modello ha promosso l’apertura dei mercati, principalmente a prodotti agricoli che hanno distrutto la produzione nazionale, come nel caso del caffè e del riso. Fino agli anni 1970-1985, Haiti era un Paese autosufficiente nella produzione di cereali, mentre adesso l’82% del mercato nazionale del riso viene rifornito tramite importazione dagli Stati Uniti. Parallelamente è stato dato impulso alle esportazioni di prodotti non tradizionali, attraverso l’espansione di monoculture per l’esportazione che utilizzano le migliori terre, mano d’opera a basso costo e l’uso del “pacchetto verde”, essenzialmente pesticidi, che causano gravi danni alla salute dei lavoratori e all’ambiente. Capitalismo del disastro Nemmeno il terremoto del 2010 è riuscito a fare in modo che le grandi nazioni del Nord e le istituzioni finanziarie internazionali smettessero di invadere, dominare e sfruttare Haiti. Per esempio, immediatamente dopo la tragedia gli Stati Uniti inviarono 20 mila marines ad Haiti per controllare il Paese. D’altro
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posti di lavoro, convertendo questa grande mano d’opera in un “vantaggio competitivo” da offrire al mercato internazionale. Con la consulenza delle istituzioni finanziarie internazionali, i differenti governi hanno firmato una serie di accordi commerciali con gli Usa (attraverso le leggi denominate Hope I e II) e con l’Unione Europea (mediante gli Accordi di collaborazione economica). Entrambi gli accordi hanno l’obiettivo di aprire il Paese al mercato americano ed europeo, senza proteggere la mano d’opera e la produzione nazionale. Ad esempio, la legge Hope (Haitian Hemispheric Opportunity through Partnership Encouragement), prorogata nel 2007, stabilisce l’apertura illimitata dei due Paesi a intercambi commerciali liberi, esonerati dal pagamento dei diritti doganali, principalmente per i prodotti tessili provenienti dalle manifatture. Lontana dal creare i 10 mila posti di lavoro promessi in tre anni, dal 2004 al 2007, la legge Hope I non ha generato più di 3 mila posti di lavoro, principalmente nelle zone franche. Di fatto, questa legge ha favorito solo i capitalisti statunitensi (e, in piccola parte, gli impresari domenicani), che sfruttano la mano d’opera a basso costo (quattro volte più economica che nel loro Paese) e la liberalizzazione commerciale ad Haiti. Gli operai delle manifatture, ampiamente appoggiati dai movimenti sociali, e principalmente dal movimento sindacale Batay Ouvriye, hanno intrapreso nel 2009 una lotta per chiedere l’aumento del minimo salariale e per opporsi a questa forma di schiavitù moderna istituita dalle manifatture con la complicità dei governanti e della borghesia nazionale. Con l’appoggio di alcuni parlamentari sono riusciti a ottenere un aumento di 200 gourdes (la moneta haitiana, 40 gourdes equivalgono a un dollaro americano) e, per il settore manifatturiero, di 125 gourdes, il che rappresenta una vittoria relativamente importante per gli operai. Riguardo agli Accordi di collaborazione economica (Ape), la Papda ha dato inizio a un’importante lotta a partire dal 2007 contro lo strumento della liberalizzazione commerciale, attraverso il quale l’Unione Europea vuole invadere il mercato haitiano con le sue grandi imprese di prestazione di servizi sociali, professionali e finanziari, e con i suoi prodotti agricoli altamente sovvenzionati. Infine, l’imposizione del debito estero su Haiti è un altro meccanismo utilizzato dalle istituzioni finanziarie internazionali per controllare il Paese. Questo debito è stato stimato in 1,9 miliardi di dollari, prima dell’annullamento parziale di 1,2 miliardi
Una storia paradossale
Il monumento Torre della Libertà , voluto da Aristide in omaggio al bicentenario dell’indipendenza di Haiti ma ancora non concluso.
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Viva Haiti dente della ricostruzione dopo la catastrofe, la dipendenza, la mancanza di trasparenza nella gestione dei fondi e soprattutto, le espulsioni violente dei baraccati dagli accampamenti. Una storia di vulnerabilità sociale e di resistenza Comprendere Haiti dopo il 12 gennaio 2010 obbliga a retrocedere molto rispetto al disastroso terremoto che ha devastato il Paese caraibico. È importante capire che la tragedia è stata, in gran parte, il risultato di una vulnerabilità sociale prodotta dalla storia. Da qui la necessità di interrogarci sul processo che ha portato alla vulnerabilità sociale di Haiti. Il terremoto è stato un fenomeno naturale che si è convertito in disastro (o catastrofe sociale) perché ha trovato nel Paese condizioni di vulnerabilità a tutti i livelli. Una situazione prodotta dalla storia che ha influito a livello sociale sulla mancanza di capacità di anticipare, di affrontare, resistere e riaversi dall’impatto di un evento naturale estremo. Questa condizione di fronte ai fenomeni naturali ci riporta direttamente alla storia del Paese. La vulnerabilità di Haiti è il risultato di un lungo processo che comincia dalla colonizzazione spagnola e francese per arrivare fino a oggi, passando per l’occupazione statunitense e l’irresponsabilità delle autorità haitiane che non hanno implementato politiche pubbliche destinate a ridurre questa vulnerabilità. Oltre a ciò, il terremoto che ha provocato la maggior tragedia che l’umanità abbia conosciuto nelle ultime decadi aumenta la fragilità sociale di fronte a eventuali fenomeni naturali estremi. Si è intensificato il ciclo di vulnerabilità di Haiti. Impatto del terremoto Il terremoto ha dato origine a un disastro che ha lasciato un bilancio impressionante: circa 300 mila persone hanno perso la vita, circa un milione sono scomparse, 250 mila sono rimaste ferite, 3 milioni di persone coinvolte, più di 30 mila persone hanno subito l’amputazione di un arto, 600 mila sono fuggite dalla capitale Port-au-Prince verso altre regioni del Paese. I danni totali ammontano a più di 7,8 miliardi di dollari americani, l’equivalente di più del 120% del prodotto interno lordo del Paese nel 2009. Secondo il rapporto preliminare preparato dalla Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi
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canto, la tragedia ha rinnovato l’interesse della comunità internazionale per Haiti. Sono state realizzati vari incontri al vertice e altre riunioni internazionali (a Montreal nel gennaio e marzo 2010; a Santo Domingo e New York nel marzo 2010) sul tema della ricostruzione di Haiti. Paesi come gli Usa e le nazioni europee si contendono la leadership della ricostruzione di Haiti, il che probabilmente potrebbe mobilitare più di 9 miliardi di dollari americani per un periodo di dieci anni (secondo le promesse fatte dai donatori in occasione della Conferenza di New York), così come numerosi contratti sostanziosi per le loro imprese. La comunità internazionale, sotto la leadership statunitense, ha creato la Commissione provvisoria per la ricostruzione di Haiti (Cirh), presieduta dall’ex-presidente americano Bill Clinton, per coordinare la gestione dei lavori di ricostruzione. Questa struttura, teoricamente bilaterale (haitiano-internazionale), è stata totalmente controllata dai grandi Paesi e organismi della comunità internazionale, principalmente dagli Stati Uniti. Le analisi realizzate dagli specialisti dell’Haiti Support Group rinforzano le critiche avanzate dalla società civile, fin dalla creazione della Cirh. Questa è stata “mal concepita, non funzionale, poco efficace” e ha costituito “una struttura destinata ad aiutare non Haiti e i suoi haitiani, ma i donatori, che direzionano a proprio favore i contratti di progetti delle multinazionali e delle Ong”, spiega l’Haiti Support Group. Aggiunge poi che “questi progetti sono emanati dalle istituzioni che governano Haiti da sempre: Banca interamericana di sviluppo, Banca Mondiale, Onu, Usaid e i singoli Paesi donatori che avevano promesso denaro sufficiente ad assicurare un posto nel consiglio di amministrazione della Cirh”. “Le persone implicate non sono mai state consultate (dalla Cirh) per conoscere le loro necessità”, spiega questo gruppo solidale con Haiti. “Il fatto che l’unica autorità incaricata della ricostruzione di Haiti dopo il terremoto sia stata deliberatamente mal concepita e dotata di una struttura non adatta è un esempio scioccante del ‘capitalismo del disastro’, un fenomeno ben conosciuto”, conclude l’Haiti Support Group, che ha sede nel Regno Unito. Le organizzazioni dei diritti umani haitiane, dei baraccati e di altri gruppi della società civile organizzata hanno dato avvio a ondate di protesta, principalmente in occasione del secondo anniversario del terremoto del gennaio 2010, per denunciare le difficili condizioni di vita del Paese, il processo lento ed esclu-
Una storia paradossale (Cepal), Valutazione settoriale di danni, perdite e necessità, “la percentuale di haitiani che vive in condizioni di povertà estrema dopo la scossa è vicina ai livelli registrati quasi un decennio fa, quando aveva raggiunto più del 70% della popolazione”. Il terremoto ha colpito e continua a colpire in modo intenso e diretto gli haitiani, che cercano instancabilmente il senso di una situazione che non ha senso, che ha portato alla perdita dei loro cari, del loro modo di vivere, dei loro sogni, dei loro beni e proprietà. L’organizzazione internazionale Medici senza frontiere (Msf) parla di “ferite invisibili”, ossia di conseguenze psicologiche del disastro nei sopravvissuti, che vivono l’assenza dei loro parenti e delle persone più vicine, morte o scomparse, che temono di rivivere l’incubo (specialmente dopo ogni nuova scossa o altro evento naturale), che soffrono di palpitazioni, dolori, problemi di vista e anche di malattie psichiatriche… La crisi umanitaria ad Haiti, aggravata dopo il terremoto del 12 gennaio 2010, è ancora lontana da una soluzione. L’intensificazione dell’insicurezza alimentare, che colpisce 4,5 milioni di haitiani (quasi la metà della popolazione), la recrudescenza dell’epidemia di colera, che è costata la vita a quasi 7 mila persone, e la difficile situazione dei 550 mila baraccati che vivono attualmente in 800 accampamenti, secondo i dati forniti da differenti enti haitiani e internazionali, ci disegnano un quadro generale desolante. La vice-segretaria degli Affari umanitari dell’Onu, Valerie Amos, ha espresso nel settembre 2011 durante una visita di due giorni ad Haiti una “inquietudine” per la situazione delle persone senzatetto che vivono nei campi. “La situazione delle persone colpite che vivono negli accampamenti non sta migliorando, ma aggravandosi”, ha evidenziato, segnalando che l’Onu ha ricevuto solo la metà dei 382 milioni di dollari americani che l’organismo aveva richiesto per mettere in pratica i suoi programmi umanitari ad Haiti. I baraccati continuano ad affrontare seri problemi di accesso al cibo e all’acqua potabile, di igiene e di negazione di altri diritti fondamentali, mentre la violenza contro le donne continua ad aumentare negli accampamenti. La comunità internazionale riconosce che la stessa complessità della crisi, in relazione al dislocamento dei campi nelle zone urbane di Haiti, unitamente alla mancanza di abitazione e alla povertà, rende molto arduo il processo di uscita dei senzatetto dagli accampamenti e la ricerca di soluzioni più durature e dignitose
Due anni dopo il terremoto, nonostante il pericolo di crolli, la vita continua (foto Francisca Stuardo).
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Viva Haiti Cause storiche della vulnerabilità Il terremoto che ha colpito Haiti il 12 gennaio 2010 ha complicato o evidenziato ancor più le già dure condizioni di vita della maggior parte di un popolo che conta poco più di 10 milioni di abitanti. Questo popolo era già vittima di una forte esclusione sociale, figlia della povertà e dell’instabilità politica. Nel 2009 il 55% della popolazione haitiana viveva in situazione di povertà estrema e l’80% era al di sotto della soglia di povertà. Haiti occupava nel 2009 il 142° posto tra i 182 Paesi del mondo, stando al Rapporto mondiale del Pnud sull’Indice di sviluppo umano (Hdi); nel 2011 è passata al 158° posto. La salute e la scuola figurano tra i servizi sociali più carenti ad Haiti. È evidente che Haiti non raggiungerà le mete degli Obiettivi di sviluppo del millennio (Mdg), fissati nel 2010 dai Paesi membri delle Nazioni Unite. Tra gli otto obiettivi che questi Paesi hanno concordato per il 2015 figurano la riduzione della mortalità infantile, il miglioramento della salute materna e l’universalizzazione dell’insegnamento primario. Anche se il governo di Martelly e l’Unicef hanno affermato, all’inizio del 2012, di aver scolarizzato più di 700 mila bambini, molto c’è ancora da fare affinché tutti i bambini e le bambine haitiani completino il ciclo della scuola primaria nel 2015. L’obiettivo è molto ambizioso: il tasso di scolarizzazione ad Haiti è solo del 60%; 375 mila bambini tra i sei e gli undici anni non vanno a scuola (per lo meno prima del 2012); circa il 50% dei giovani e degli adulti con più di quindici anni è analfabeta; solo l’1% circa della popolazione transita per l’università, secondo i dati Unicef. La grande maggioranza dei giovani che termina gli studi superiori non può entrare nell’unica università pubblica esistente nel Paese per mancanza di posti; per esempio, la facoltà di medicina ammette ogni anno solo cento nuovi studenti che vengono selezionati tramite concorso di ammissione. Le famiglie non possono pagare per i figli gli alti costi delle università private che, al di là di questo, non avrebbero comunque la possibilità di far fronte a un’ampia domanda. La crescente domanda e le poche offerte di servizi scolastici disponibili fanno sì che la scuola diventi sempre più cara, soprattutto per le famiglie povere. E la stessa cosa avviene per la sanità: la metà delle donne incinte non ha accesso alle cure prenatali a causa della carenza di infrastrutture e di personale medico; situazione aggravata
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per loro e per le comunità di ritorno. L’obiettivo è mantenere Haiti nell’agenda umanitaria e di sviluppo a livello internazionale, spiegano gli attori internazionali. Inoltre, il Paese è diventato ancora più vulnerabile di fronte ai fenomeni idro-meteorologici che lo minacciano ogni anno, alle eventuali scosse di assestamento delle faglie geologiche e a molte malattie e pandemie. Come se ciò non bastasse, un gruppo di specialisti diretto da Eric Calais dell’università americana di Purdue (Indiana) ha ricordato, nell’ottobre 2010, il fatto che la faglia Enriquillo-Plantain Garden (nella penisola del sud dell’isola di Hispaniola), che conserva ancora una carica di energia accumulata durante secoli, “continua a rappresentare una minaccia sismica importante per Haiti e per Port-au-Prince in particolare”. Haiti deve rompere il ciclo di vulnerabilità che cresce subito dopo ogni disastro naturale, dato che questo erode la sua capacità di prevenire il prossimo disastro e di far fronte ad esso prima e dopo l’avvenimento. Nonostante questa estrema vulnerabilità sociale, storicamente provocata, il popolo haitiano ha mostrato una grande capacità di resistenza che si è evidenziata immediatamente dopo il terremoto del 12 gennaio 2010. Gli haitiani sono stati i primi a salvare, praticamente con le loro mani, chi era rimasto intrappolato sotto le macerie. Si sono organizzati per costruire accampamenti con tende militari, offrendo i primi aiuti ai feriti e alle altre vittime della tragedia e cercando cibo e acqua potabile per i sopravvissuti. Si è innescata una grande solidarietà da parte dei contadini e degli abitanti delle province del Paese che hanno accolto le persone provenienti da Port-au-Prince e le hanno alimentate per varie settimane. Le famiglie contadine che hanno ricevuto i rifugiati “hanno dovuto usare le loro scarse produzioni per nutrire queste persone. E la pressione di queste persone ha gravato sull’agricoltura”, ha spiegato Gérard Mathurin, dirigente della rete degli agricoltori haitiani Kros (Coordinamento regionale delle organizzazione del Sudest). Purtroppo, questa grande solidarietà del popolo non è stata valorizzata affatto dalle autorità haitiane, e ancor meno dalla comunità internazionale e dai grandi mezzi di comunicazione, più interessati a mostrare casi isolati di violenza tra alcuni baraccati che litigavano per gli aiuti umanitari. Vale la pena sottolineare che i suddetti aiuti umanitari sono stati distribuiti senza coordinamento tra le organizzazioni non governative e con poco rispetto per la dignità delle persone.
Una storia paradossale Gli haitiani hanno ancora molta difficoltà a reperire acqua potabile ed energia elettrica (foto Ermanno Allegri).
dalla tragedia del 12 gennaio 2010. In questo senso il tasso di mortalità riscontrato nel 2006 (670 ogni 100 mila nascite) minaccia di aumentare dopo il terremoto. La politica di austerità fiscale applicata dai differenti governi, sotto l’imposizione delle istituzioni finanziarie internazionali, ha contribuito inoltre a ridurre progressivamente la spesa sociale, principalmente in materia di scuola, salute e agricoltura. La spesa sociale per la sanità è diminuita del 7,37% nel 2001-2002 e del 4,84% nel 2008-2009; per l’agricoltura del 2,47% nel 20012002 e dell’1,6% nel 2008-2009. L’investimento dello Stato haitiano nell’università pubblica non ha mai superato l’1,35%. Haiti è anche uno dei quindici Paesi al mondo con maggiori disuguaglianze sociali. Le ricchezze sono estremamente concentrate nelle mani di pochi, mentre la grande maggioranza vive nella povertà. “Haiti è un Paese con disuguaglianze scandalose”, ha scritto l’economista haitiano Marc Bazin nel 2006. L’America Latina ha un coefficiente di Gini (coefficiente che mi-
sura il livello di concentrazione delle ricchezze) di 0,56 in media, ossia dieci volte più alto dei Paesi sviluppati del Sudest asiatico. La media haitiana è di 0,63. “Ad Haiti il 5% dei più ricchi detiene il 50% del reddito nazionale, il che fa di noi il Paese più disuguale dell’America Latina”. La catastrofe generata dal terremoto è stata principalmente sociale, dovuta all’esclusione e alla vulnerabilità sociale del Paese prodotta dalla sua storia, sebbene gran parte delle prime interpretazioni circa tale catastrofe sociale fossero di ordine soprannaturale. È stata accusata la tradizione africana del vudù, considerato “cosa di neri, ignoranza, ritardo, pura superstizione”, di essere la causa principale del disastro, come ha affermato enfaticamente in televisione il pastore pentecostale, avvocato ed ex-candidato alla presidenza della Repubblica degli Stati Uniti Pat Robertson nello spiegare il terremoto del 2010. Ha detto al suo vasto pubblico che i neri haitiani avevano conquistato l’indipendenza dalla
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Viva Haiti Tabella 1 – Indicatori sociali ed economici selezionati di Haiti Popolazione totale (2009)
10.033.000
Popolazione urbana
50 %
Nascite annuali (2009)
274.000
Morti annuali (< 5 anni) (2009)
24.000
Redditi pro capite (2009)
772 $
Speranza di vita alla nascita (anni) (2009)
61
Popolazione sotto la soglia di povertà di 1,25 dollari americani al giorno (1994-2008)
55 %
Denutrizione infantile (< 5 anni) (2002)
17%
Tasso di alfabetizzazione totale di adulti (> 15 anni) (2006)
49 %
Fonti: Banca Mondiale, Fondo monetario internazionale, Unicef, Istituto haitiano di statistica e di informatica (Ihsi)
dinamica economica, provocato un peggioramento delle condizioni di vita di molte famiglie, in particolare nella valle di Artibonite, la principale regione produttrice di riso del Paese”. Inoltre, prosegue il documento, “l’impatto del vento e delle piogge ha causato forti inondazioni e la distruzione delle ferrovie, dei ponti, della rete elettrica, così come di case, ospedali, scuole ed edifici pubblici”. Il terremoto ha trovato un terreno molto fertile di fragilità sociale, che si è formata con il passare di mesi, anni, decenni e anche secoli. Per esempio, il processo storico di degrado ambientale risale al secolo XV, all’epoca del colonialismo selvaggio spagnolo, seguito immediatamente da quello francese e dall’occupazione statunitense. In poche parole, da quando “l’area America Latina e Caraibi si è vista incorporata al processo di formazione del moderno sistema mondiale come dispensatrice di alimenti, materie prime e come riserva di risorse”. Si verifica, già da molto tempo, un sovra-sfruttamento delle nostre terre (o per meglio dire del nostro ecosistema), determinato dall’avidità dei Paesi colonialisti e capitalisti che estraggono e saccheggiano le nostre risorse naturali portandole al Nord. Si può anche parlare di “ecocidio”. I colonizzatori spagnoli avevano saccheggiato le miniere d’oro ed eliminato gli indios che vivevano su Hispaniola. Già nel 1792 il giornalista Vario Sérant, tre secoli dopo la “scoperta” di Cristoforo Colombo, scriveva che non restava molto di quelle foreste incantevoli che c’erano all’arrivo degli europei. “Hispaniola non era più il paradiso che Colombo aveva scoperto”.
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Francia grazie a una cerimonia vudù, invocando l’aiuto del diavolo dal fondo della foresta haitiana. “Il diavolo, che ha concesso loro la libertà, ha inviato il terremoto per chiedere il conto”, ha affermato il pastore statunitense. L’idea che Haiti sia un Paese storicamente maledetto è, tra i miti sul Paese, il più ampiamente diffuso e radicato. Il mito su Haiti come terra del diavolo va e viene costantemente, e appare nei momenti più impensati per interpretare gli avvenimenti storici che si succedono ad Haiti, e soprattutto la realtà sociale, politica ed economica (per esempio la povertà) e la storia del Paese. Non sono bastate le campagne terroriste di “antisuperstizione” (simili a crociate) promosse nel 1845, 1869, 1896, 1915 e 1942 ad Haiti dalla Chiesa cattolica e dai differenti governi haitiani per sradicare il vudù, campagne che hanno contribuito a falsare quel che realmente è e quel che rappresenta per l’identità e la storia degli haitiani. Ripetiamo, comunque, che la tragedia provocata ad Haiti dal terremoto del 12 gennaio 2010 ha cause storiche e non soprannaturali. Sono cause dovute principalmente alla vulnerabilità sociale del Paese, risultato di un processo storico. Per fare un esempio, il Paese non si è ancora ripreso dai quattro uragani (Fay, Gustav, Hanna e Ike) che l’hanno sconvolto tra l’agosto e il settembre 2008, lasciando un bilancio di 793 morti, 548 feriti e 112 mila case distrutte o danneggiate. Secondo il documento ufficiale Rapporto di valutazione delle necessità postcalamità: uragani Fay, Gustav, Hanna e Ike, le perdite raggiungerebbero un totale di 897,39 milioni di dollari. “Hanno indebolito la
Una storia paradossale
Francisca Stuardo
Cinema: per non morire a braccia conserte Il primo segnale che qualcosa andava male gli arrivò letteralmente alla porta di casa. Arnold Antonin aveva sedici o diciassette anni. Poteva averne anche quindici, ricorda, quando vide un uomo morire linciato per mano di un funzionario della dittatura di Papa Doc per aver rubato un recipiente con delle piante. Il giovane Arnold era presente quando il cadavere dell’uomo fu lasciato in mezzo alla strada mentre il suo assassino spingeva i passanti a guardare il corpo. “A partire da quel momento capii molto meglio cosa significa oppressione in un Paese, violenza contro i poveri, contro la popolazione”, ricorda oggi, a sessantasette anni, con una storia che include vent’anni di esilio, studi in quasi tutte le aree delle scienze sociali, circa quaranta documentari, il primo lungometraggio haitiano, premi da tutto il mondo e il ritorno al suo Paese natale. Con quest’idea della dittatura nella mente, entrare nei movimenti di resistenza fu un’ovvietà. Lasciare il suo Paese, su richiesta di sua madre, per studiare economia in Italia, una conseguenza. E dedicarsi al cinema e agli audiovisivi, una necessità. Così è nato il suo primo documentario, nel 1973. Fu un modo per denunciare la dittatura dei Duvalier. Insieme a un gruppo di studenti, Antonin portò il documento di accusa al tribunale di Bertrand Russell per far conoscere alla comunità internazionale le atrocità commesse dalla dittatura. “Era il primo film firmato da haitiani all’estero, impegnati nella lotta contro la dittatura – con l’intervento di un compagno che parlò apertamente contro il regime. Tutto veniva nascosto per mezzo delle rappresaglie. Fu una cosa molto importante, perché valorizzò apertamente le dichiarazioni contro la dittatura”, ricorda, dal suo ufficio, nel Centro Petit Bolivar che si occupa della promozione del dibattito politico a Port-au-Prince.
Questi venticinque minuti di registrazione sul regime Duvalier, negli anni ’70, furono sufficienti ad Antonin per avere la certezza che in una cultura di “oraletteratura” (oralità e letteratura) come quella haitiana era necessario fare cinema. “Era necessario produrre materiale audiovisivo per dare più efficacia alla nostra denuncia contro la dittatura. Io ero un cinefilo, ma ciò che mi spinse a entrare in questo campo fu il bisogno di stimolare una presa di coscienza del fatto che non si poteva continuare a lottare contro la dittatura usando solo testi scritti. Era indispensabile fare cinema”, commenta. E così arrivò il suo primo lungometraggio, Il cammino per la libertà: era un modo di comprendere, a partire da una prospettiva locale – anche se da lontano – la storia che aveva determinato e permesso una dittatura capace di simili aberrazioni contro i suoi cittadini. Fu il modo che lo studente, a quel tempo, trovò per gridare al mondo il complotto contro la memoria storica del suo popolo, come egli stesso chiama la mancanza di incentivi per la cultura popolare. Nello stesso periodo si unì all’Unione degli studenti haitiani all’estero e assunse la funzione di segretario generale. Viaggiò per l’Europa, cercando appoggi per abbattere la dittatura, scrisse editoriali e firmò articoli sui giornali. Utilizzò tutte le sue forze per porre fine all’oppressione e tornare ad Haiti, il suo Paese. Quando infine vi tornò, nel 1986, il terreno su cui tentò di innescare la sua riflessione non era più lo stesso: “La prima impressione era che tutto fosse bello, anche i cattivi odori. Trovare le strade che avevo percorso, i luoghi che si erano fermati nel tempo, dove nessuno aveva mutato molto… Ma c’erano altri luoghi che erano degradati. Quando tornai, dopo vent’anni, il Paese era molto degradato”.
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Arnold Antonin, autore del film Il cammino per la libertĂ sulla dittatura dei Duvalier e le sue aberrazioni contro i cittadini (foto Francisca Stuardo).
Una storia paradossale Questo sovra-sfruttamento della terra si intensificò con la colonizzazione francese. “E il taglio sistematico degli alberi portò a compimento con perfezione quell’impresa di distruzione finalizzata a fare del suolo di Saint-Domingue un’enorme piantagione di canna da zucchero. Il legname era l’unica fonte di energia che si utilizzava a Saint-Domingue per cuocere la canna. Gli schiavi tagliavano alberi dietro ordine dei padroni”, ha spiegato Sérant. “Per tutto il periodo dell’indipendenza, le classi dominanti continuarono a esportare legname e canna da zucchero. Per tutto il secolo XIX venne esportato legname per pagare il debito dell’indipendenza, nonostante il fatto che Haiti fosse il primo Paese a istituire formalmente una riserva forestale”, ha scritto un gruppo di movimenti sociali, tra i quali la Papda. Durante l’occupazione statunitense, che è durata dal 1915 al 1934, solo nel Nordest del Paese 32 mila ettari di bosco furono deforestati per fare spazio a piantagioni di sisal, con l’obiettivo di produrre fibre per l’esportazione. La povertà, radicata nel Paese da varie decadi di politiche neoliberiste e di corruzione, obbligò gli haitiani a tagliare alberi per produrre carbone vegetale, utilizzato dal 70% della popolazione per cucinare. Questa pratica di taglio indiscriminato degli alberi e l’incendio di boschi con lo scopo di ottenere terreno coltivabile, tra altri fattori, contribuì a ridurre al 2% la copertura vegetale del Paese e a distruggere le riserve forestali, con un tasso di sparizione di 15/20 milioni di alberi all’anno. Un paese esposto a fenomeni naturali Al di là della realtà di fragilità sociale di Haiti, il Paese è molto esposto a fenomeni naturali, come uragani e terremoti, a causa della sua posizione geografica, della sua topografia, della sua storia geologica e della complessità della sua struttura geomorfologia. Ad esempio, si trova nell’arco insulare delle Antille, che nasce dall’unione delle zolle dei Caraibi e dell’Atlantico. In passato, le attività tettoniche di tali zolle provocarono terremoti in molte parti del Paese (a Port-au-Prince nel 1770, a Cabo Haitiano nel 1847 e nel 1887) e continuano a rappresentare una minaccia costante per la popolazione. Inoltre, ogni anno, dal 1° giugno al 30 novembre, il Paese è esposto al rischio di una serie di cicloni, uragani, tempeste tropicali, e alle loro conseguenze, quali inondazioni, smottamenti
Il fatto che il Palazzo Nazionale non sia stato ricostruito dopo più di due anni dal terremoto è simbolico della situazione politica del Paese (foto Ermanno Allegri).
del terreno… Eppure, non è stato fatto ciò che era necessario per prevenire o mitigare i disastri naturali. A titolo di esempio, nella metà del mese di settembre 2008 il sismologo e geologo haitiano Claude Preptit aveva avvertito tramite vari mezzi di comunicazione: “Visto che che il Paese ha conosciuto vari terremoti distruttori nel passato, dobbiamo aspettarci che accadano in futuro, in qualsiasi momento, perché ogni secolo porta un terremoto distruttore”. E lo scienziato aggiunse: “Ogni tipo di rischio (legato a un certo fenomeno naturale) ha i suoi focus, le sue specificità, ed esige competenze necessarie e adeguate. È necessario quindi elaborare un piano circostanziato per ogni tipo di rischio ed educare la popolazione perché adotti un comportamento ragionevole di fronte ai fenomeni nel momento in cui accadono”. Ma né le autorità né la popolazione hanno prestato ascolto al geologo, e nemmeno ad altri specialisti che predicano e continuano a predicare nel deserto sui rischi legati all’eventualità dei fenomeni naturali. Ancora molto devono fare i governi haitiani a livello di elaborazione delle politiche pubbliche destinate a prevenire i disastri,
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Una storia di esclusione sociale e di lotta per l’emancipazione La storia di Haiti è stata anche una storia di ribellione contro “l’élite locale” del Paese, descritta come “cinica” dall’articolista di “Le monde diplomatique” Christophe Wargny in un suo libro su Haiti. Secondo Wargny l’élite ha anche contribuito a mantenere la grande massa dei nuovi neri liberi in una situazione di esclusione sociale. Insieme alla storia dell’invasione esterna di Haiti e della produzione di vulnerabilità sociale, e alle rispettive contro-storie di resistenza e resilienza, bisogna parlare anche della storia di esclusione sociale interna e di lotta per l’emancipazione, dalla sua indipendenza, nel 1804, ad oggi. Vale la pena menzionare qui uno dei gruppi sociali più esclusi del Paese, che costituisce la metà della popolazione haitiana. Si tratta dei contadini, che hanno vissuto sempre in una sorta di semiservitù da quando la nazione ha conquistato la sua indipendenza. Per esempio, dopo la redistribuzione delle terre che i coloni bianchi francesi abbandonarono a partire dal 1804,
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ossia “evitare che fenomeni naturali (uragani, eruzioni vulcaniche, terremoti, erosioni delle coste, inondazioni…) si trasformino di nuovo in catastrofi sociali”, come precisa la Papda. È urgente interrompere il processo di produzione di vulnerabilità sociale ad Haiti. Questo è possibile non solo attraverso l’implementazione di politiche pubbliche da parte dei governi haitiani, ma anche attraverso la cancellazione del debito illegittimo che Haiti deve alle istituzioni finanziarie internazionali (Ifi), così come attraverso la restituzione dell’ingiusto debito che la Francia ha preteso da Haiti per la sua indipendenza e, soprattutto, attraverso il compimento – da parte delle nazioni industrializzate e ricche del Nord – del loro dovere morale di ridimensionare e controllare il danno ambientale che producono a detrimento di Haiti e di altri Paesi che emettono pochi gas ad effetto serra. È stato ampiamente provato che “gli effetti dei mutamenti climatici (la cui causa principale è il riscaldamento globale) provocano l’aumento in intensità e frequenza dei disastri, in particolare per quanto riguarda gli eventi idro-meteorologici in America Latina e Caraibi”.
Una storia paradossale
Jean Yves Blot l’intellettuale che è diventato houngan, sacerdote vudù (foto Francisca Stuardo).
Francisca Stuardo
L’“unga” creolo La fine della dittatura Duvalier riportò a casa nel 1988 l’etnologo Jean Yves Blot. A quell’epoca già vantava una laurea in storia e scienze sociali, ottenuta in Messico, e una in teologia e antropologia, ottenuta in Canada. Un profilo d’eccellenza. Molto teorico, molto assente dalla cultura popolare, Blot riconosce di essere pervenuto a una visione critica della storia del suo Paese solo quando già era un’autorità come etnologo. “Quando tornai, cominciai a visitare i templi vudù, a parlare con gli haitiani e a vivere nei templi. Allora mi resi conto che sono due mondi culturali molto differenti”, afferma oggi, ventiquattro anni dopo, già convertito in houngan (sacerdote). Visite, soggiorni, domande, ricerche: Blot percorse più volte le ipotesi che aveva fra le mani per riformulare la sua cosmovisione, per comprendere ciò di cui aveva bisogno e che il popolo haitiano, distante dai centri del potere, chiedeva. “Se le persone non partecipano all’elaborazione di ciò che vogliono e di ciò che possono essere, niente funziona”, aggiunge dalla sua aula nella facoltà di etnologia dell’università di Haiti. In questo cammino, per una strana coincidenza, ha conosciuto colui che sarebbe diventato il suo mentore spirituale. Fu in occasione della partecipazione a una trasmissione televisiva, circa
sei anni dopo l’inizio della sua ricerca, che si trovò faccia a faccia con l’houngan Son Son. Il teorico si incontrò con un uomo iniziato al vudù a tredici anni di età, diventato houngan a diciannove, figlio di un altro houngan e di una mambo (sacerdotessa), oltre a essere nipote di un altro sacerdote conosciuto nell’area della città di Léogâne. Dalla discussione televisiva i due passarono a un’amicizia. Dall’amicizia all’inclusione di Blot nella Sosyete djab andey sale rezon 7 ti lanp (Società dei diavoli di lutto delle 7 lampade). Nel 2000 Son Son divenne il suo papa kanzo, cioè il suo iniziatore. Nello stesso anno concluse la sua formazione: il creolo imparò i canti, le preghiere e si spinse a comprendere l’altro lato della sua cultura. Fece la sua consacrazione durante una cerimonia durata sei giorni, che dovette fare in gruppo per poter dividere le spese dei musicisti che suonavano i tamburi alle cerimonie. La stessa cosa valeva per gli animali sacrificati. Allo stesso tempo, Blot approfondì gli studi della storia haitiana, ma senza concluderli. Fino ad ora, ciò che più lo colpisce è che la versione formulata dai testi di scuola era fatta di “acqua zuccherata”: “Quando ho iniziato a leggere libri sulla lotta contro la schiavitù e contro il colonialismo ho capito che con questa lotta era nata la cultura haitiana, e che era nata per sopravvivere”.
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Viva Haiti Incisione raffigurante la battaglia degli haitiani contro la dominazione francese (Museo Nazionale, foto Francisca Stuardo).
tomissione alla polizia rurale e repressione del vagabondaggio e dell’ozio” (art. 136, 143, 174, 180). Dopo la caduta di Boyer i contadini organizzarono una lotta nel 1843 e nel 1844 per chiedere la concessione delle terre abbandonate di pertinenza dello Stato, e allo stesso tempo rivendicarono l’istruzione primaria per i loro figli. Questa lotta è proseguita fino all’epoca dell’occupazione statunitense (19151934) sotto varie forme. Di fatto, attualmente, la povertà si concentra principalmente nelle zone rurali di Haiti. Più dell’82% dei contadini haitiani vive sotto la soglia di povertà. Una delle conseguenze di questa esclusione dei contadini è l’esodo rurale (principalmente verso la capitale, Port-au-Prince) che è aumentato esponenzialmente a partire dagli anni ’80, subito dopo la mattanza dei maiali creoli del 1978. Attualmente più di 2 su un totale di 10 milioni di abitanti vivono a Port-au-Prince, con tutti i problemi che ciò comporta: povertà, occupazioni illegali di terre, costruzioni di abitazioni precarie, insalubrità, degrado ambientale, ampliamento del mercato e del lavoro nero, mancanza di accesso ai servizi e alle infrastrutture di base, aumento del tasso di delinquenza… Inoltre si intensifica la fragilità sociale di fronte ai fenomeni naturali di cui abbiamo parlato. Dall’indipendenza di Haiti nel 1804 ad oggi i contadini non sono rimasti a braccia conserte. Hanno resistito contro questa
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anno in cui Haiti ha proclamato la sua indipendenza, la grande massa degli antichi schiavi è arrivata a essere libera, ma è rimasta povera e non ha ricevuto terre. La nuova borghesia e i ricchi haitiani si sono appropriati delle grandi proprietà (in virtù del loro sangue francese e della sua “eredità”) e hanno lasciato alle “masse” di neri proprietà di media misura e piccoli appezzamenti situati in campagna. Quando non li hanno costretti a essere affittuari o mezzadri. I primi presidenti haitiani distribuirono le terre lasciate dai francesi a quattro gruppi sociali: 1) i generali dell’esercito haitiano e i grandi funzionari statali; 2) gli ufficiali dell’esercito e i funzionari di grado meno elevato; 3) i soldati che si erano distinti nella lotta per l’indipendenza; 4) i migliori offerenti. Questo vuol dire che la massa degli antichi schiavi non ebbe la possibilità di accedere alla proprietà delle terre né con le prime distribuzioni né con le seguenti riforme agrarie. Le riforme agrarie fatte dai primi presidenti haitiani contribuirono a creare e mantenere questa situazione di esclusione degli antichi schiavi (o nuovi liberi), con eccezione del primo capo di Stato haitiano, Jean-Jacques Dessalines, che ebbe il coraggio di decretare che tutte le proprietà (soprattutto le terre) dei coloni francesi erano di pertinenza dello Stato haitiano, a meno che i loro attuali proprietari (i figli dei francesi e gli altri che si erano appropriati delle terre dei coloni francesi) non potessero comprovare i loro titoli di proprietà. I grandi proprietari di terre si unirono agli alti comandanti dell’esercito della nuova repubblica haitiana per massacrare Dessalines nel 1806, due anni dopo l’indipendenza del Paese. Dopo la morte di Dessalines il presidente Alexandre Pétion divise le terre dell’Est e del Sud e le diede agli ufficiali e ad alcuni soldati. Da parte sua, l’autoproclamatosi “Re del Nord di Haiti”, Henri Christophe, fece lo stesso nel 1819. Ma il peggio non tardò ad arrivare, nel 1821, con l’ascesa di Jean-Pierre Boyer alla presidenza, quando questi creò la guardia agricola campestre, la cui missione era quella di procedere all’espropriazione delle terre dei contadini e di sottomettere questi e i loro figli alla coltivazione delle terre dei grandi proprietari, in cambio di cibo e di altri favori. Secondo il Codice rurale decretato da Boyer, “alle associazioni di contadini è proibito gestire da sé le abitazioni” (art. 30); “ai contadini è proibito abbandonare l’abitazione a meno che non abbiano un permesso” (art. 71); “i figli dei coltivatori continueranno nella condizione dei loro genitori” (art. 178); “sot-
Una storia paradossale esclusione socio-storica, organizzato rivolte, insurrezioni e anche lotte armate, nonostante la gran parte dei loro movimenti abbia fallito. Una delle loro rivendicazioni fondamentali è l’accesso alla proprietà della terra, perché possano produrre per se stessi invece che lavorare per i latifondisti in un regime di semischiavitù. Un’altra delle rivendicazioni principali è la necessità di sovvenzioni per poter sviluppare l’agricoltura. In un contesto nazionale dominato dall’eccessiva apertura commerciale, per l’applicazione cieca di politiche neoliberiste e per il taglio della spesa sociale, le autorità haitiane dedicano sempre meno fondi all’agricoltura. La Papda ha chiesto nel 2012 ai parlamentari haitiani di non ratificare gli accordi internazionali, principalmente quelli firmati con l’Unione Europea, gli Usa, il Fmi e altre istituzioni finanziarie internazionali che inneggiano alla liberalizzazione economica. Secondo quest’organizzazione, “tali accordi rappresentano un pericolo imminente per il consolidamento e lo sviluppo della produzione nazionale e l’accesso della popolazione ai servizi sociali di base”. Ad esempio, gli Accordi di collaborazione economica “esigono una liberalizzazione dell’82% di tutti i settori produttivi del Paese”, il che obbligherà “i nostri produttori agricoli a entrare in competizione diretta con gli agricoltori dell’Unione Europea che dispongono di tecnologie più avanzate e di sovvenzioni crescenti da parte dei loro governi”, spiega il documento. I contadini e i produttori agricoli di Haiti si trovano in un momento storico cruciale, in cui sono costantemente e in modo crescente minacciati dalla liberalizzazione commerciale e dalle grandi imprese multinazionali. Per esempio, più di mille contadini haitiani e contadine haitiane hanno marciato, a metà marzo 2010, contro “il dono avvelenato” di 475 tonnellate di sementi transgeniche che l’impresa Monsanto ha offerto ad Haiti dopo il terremoto. La multinazionale “approfitta del terremoto per entrare nel mercato delle sementi di Haiti”, hanno denunciato i contadini, che considerano tali donazioni un attacco all’agricoltura contadina e alla biodiversità.
ministero haitiano della Condizione femminile e dei diritti delle donne, Haiti è uno dei Paesi dell’area con il tasso più elevato di violenza domestica perpetrata contro le donne. La discriminazione contro la donna si riflette anche nella legislazione interna del Paese, nella sua partecipazione molto limitata alla vita pubblica, nella mancanza di opportunità di lavoro o nel salario molto inferiore a quello degli uomini con uguale lavoro, e nella poca partecipazione alla presa di decisioni in casa, nella vita sociale, nella politica economica. Anche se costituiscono il pilastro della famiglia (il 43% delle famiglie monoparentali è condotto da sole donne) e del Paese, principalmente nei momenti più difficili, le donne sono uno dei gruppi più vulnerabili. Amnesty International ha denunciato, nel suo rapporto pubblicato nel gennaio 2011, che “la violenza sessuale, che era un fenomeno generalizzato ad Haiti prima del gennaio 2010, è stata esacerbata da condizioni di crescente autoritarismo dopo il terremoto. L’assistenza già limitata che veniva prima garantita dalle autorità, è stata smantellata dalla distruzione dei distretti di polizia e dei tribunali, il che rende ancora più difficile denunciare le violenze”. Nonostante abbia perso varie delle sue leader con il terremoto, il movimento femminista ad Haiti continua a lottare contro il sistema patriarcale e la violenza di genere, a favore dell’equità tra uomini e donne e del miglioramento delle condizioni di vita delle donne. Per esempio, immediatamente dopo la tragedia, varie organizzazioni di donne di Haiti, in associazione con altri collettivi in Costa Rica e Repubblica Dominicana, hanno dato il via a un progetto congiunto finalizzato a portare assistenza medica alle donne, strumenti di comunicazione per giornaliste e dati di monitoraggio dei diritti umani delle donne. Le organizzazioni delle donne haitiane, come la Solidarietà per le donne haitiane (Sofa), Enfofanm, Kay Fanm e altre, continuano ad alzare la voce e a lottare giorno dopo giorno contro la violenza di genere, le aggressioni sessuali e tutte le forme di discriminazione delle quali sono vittime le donne in tutte le regioni del Paese.
Donne tra l’esclusione e la lotta Anche le donne costituiscono un gruppo sociale storicamente vittima di esclusione sociale, economica, giuridica e politica. Per esempio, secondo uno studio realizzato nel 2007 dal
Dominazione esterna È possibile rompere con la storia della dominazione esterna, con la produzione di vulnerabilità sociale ed esclusione interna
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Viva Haiti La presenza femminile è importante per la ricostruzione del Paese, dato che le donne non sono emigrate e, molte volte, hanno dovuto crescere i loro figli in situazioni di estrema povertà (foto Francisca Stuardo).
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di Haiti? La contro-storia di Haiti ci racconta che la storia di questo Paese è stata, a sua volta, di invasione e di ribellione, di dominazione esterna e di resistenza, di vulnerabilità sociale e di resilienza, di esclusione sociale e di lotta per l’emancipazione. Che l’invasione non ha mai avuto l’ultima parola. Per evitare che la parola della ribellione venga dimenticata è necessario rompere con la violenza “sistemica”, prodotta da un orientamento teso a giustificare la dipendenza militare, finanziaria e politico-economica di Haiti. Tale discorso veicola una serie di luoghi comuni e stereotipi su Haiti, come “è il Paese più povero dell’emisfero occidentale” (quando il Paese è stato impoverito),“da Haiti non può venire niente di buono”, “è uno Stato fallito”, “non c’è speranza per questo Paese”, “è il Paese del vudù, della magia nera, del diavolo”, “è una società violenta che non ha nessuna storia di democrazia e di diritti”, “non c’è niente da fare con questi neri barbari che non hanno capacità di governare e dirigere”, “la storia di Haiti è la storia della lotta tra i neri e i bianchi creoli (i mulatti) per la conquista del potere”, “questo Paese è una minaccia per la sicurezza dell’area e del continente”… Quindi, luoghi comuni e stereotipi che ci impediscono di accedere alla verità di questo Paese tanto singolare, con una storia paradossale, che è Haiti: la verità sul suo passato e del suo futuro. È chiaro come Haiti continui a essere un Paese sconosciuto nel mondo. La tragedia del gennaio 2010 ha reso visibile mediaticamente la tragica situazione di questa nazione che lotta sin dalla sua indipendenza nel 1804 per sopravvivere, per esistere, per essere. Intanto, solo alcuni mesi più tardi, Haiti sta sparendo dall’agenda dei mezzi di comunicazione e dell’opinione pubblica internazionale. Tutto è tornato a essere come prima. Tutta l’artiglieria degli stereotipi, dei pregiudizi e dei miti su Haiti, sopra menzionata, è tornata in superficie. Qualsiasi discorso che voglia portare qualcosa di nuovo o di differente su Haiti (“anti-discorso”) dovrà affrontare questo insieme di luoghi comuni e stereotipi che hanno contribuito a occultare e oscurare la vera storia del Paese o, per lo meno, la storia degli ultimi, la storia dei Ti Noel. La storia non è solo quella degli invasori, ma anche quella dei ribelli: la storia della ribellione. La storia di Haiti è la genealogia della lotta tra l’ordine schiavista-colonialista-razzista e la ribellione di alcuni schiavi neri che hanno gridato la loro richiesta di libertà, non solo per se stessi
Una storia paradossale ma anche per tutti quelli che erano sottomessi al giogo della schiavitù. Haiti è, d’altro canto, la prima isola sulla quale, il 5 dicembre 1492, approdò Cristoforo Colombo e la prima repubblica nera indipendente. Una storia di invasione e di ribellione Il vuoto da colmare è quello che ripercorre la contro-storia di Haiti nel senso foucaultiano di “introdurre una nuova forma di continuità storica: il diritto alla ribellione”. Per noi, l’elemento chiave per comprendere la storia di Haiti è la ribellione, e non solo l’invasione, la conquista, l’occupazione, la schiavitù… La ribellione permette di raccontare la storia in un altro modo: la storia al contrario, la storia negli interstizi, la storia ai margini. Rende possibile la contro-storia, che riscatta la storia vera, quella di chi sta in basso, quella che non appare nelle storie ufficiali o che appare falsata, truccata, evasa, a misura dei vincitori e degli invasori. La contro-storia lotta contro lo ‘storicidio’ per salvare la memoria e, quindi, il futuro. Un popolo che non è cosciente del suo passato non può costruire il suo futuro. La vera storia di Haiti, come storia di ribellione, è stata snaturata. Vediamo le argomentazioni dello storico uruguaiano Eduardo Galeano su ciò che rappresenta Haiti per la storia: Consulta qualsiasi enciclopedia. Chiedi quale è stato il primo Paese libero in America. Riceverai sempre la stessa risposta: gli Stati Uniti. Ma gli Stati Uniti dichiararono la loro indipendenza quando erano una nazione con 650 mila schiavi, che continuarono a essere schiavi ancora per un secolo, e nella loro prima Costituzione stabilirono che un nero equivaleva a tre quinte parti di una persona. E a qualsiasi enciclopedia chiedi quale fu il primo Paese che abolì la schiavitù, riceverai sempre la stessa risposta: l’Inghilterra. Il primo Paese ad abolire la schiavitù non fu l’Inghilterra, bensì Haiti, che ancora continua a espiare il peccato della sua dignità. Come afferma l’intellettuale statunitense Noam Chomsky, ci hanno raccontato un’altra Haiti e ci sono stati “molteplici inganni in questa storia deliberatamente falsata”. Sembra che le bugie, gli inganni e i miti abbiano trionfato sulla verità. Chiediamoci cosa si sa oggigiorno su Haiti, al di là dei luoghi comuni e degli stereotipi sopra menzionati che hanno falsato la sua storia.
“Poco o niente”, risponde Eduardo Galeano. “Haiti è un Paese invisibile. È emerso dall’ombra solo quando il terremoto del 2010 ha ammazzato più di 300 mila haitiani. La tragedia ha permesso al Paese di occupare, fugacemente, le prime pagine dei mezzi di comunicazione”. Prosegue lo scrittore uruguaiano: Haiti è scomparsa. È stata spenta. Dalla nostra memoria, dalla memoria. Haiti è una realtà per gli haitiani, una reputazione per gli altri, e ancora…Un’immagine, la peggiore, ferite sanguinanti o prurito di miseria. “Haiti è mai esistita?”, si chiede il giornalista francese Christophe Wargny nel suo famoso libro Haïti n’existe pas […]. “Nell’immaginario latino-americano Haiti esiste, è presente, ma come un fantasma. Di fatto, vari cittadini latino-americani non sanno in che continente si trovi Haiti. Alcuni media della zona parlano di Haiti come di un Paese moribondo, che agonizza…”, abbiamo scritto in un articolo di recente pubblicazione. “Haiti non esiste”, “Haiti è invisibile”, “Haiti è un fantasma”… Tante espressioni per nominare lo “storicidio” del quale Haiti è vittima. E, però, la storia di Haiti è stata realmente una storia di ribellione, dalla conquista europea al 1804, quando il Paese è diventato la prima repubblica nera indipendente. Ribellione che continua fino a oggi. È tempo di scrivere questa contro-storia di Haiti davanti alle molteplici espressioni del suo “storicidio”. Ricostruire il passato per costruire un’altra Haiti Dopo il terremoto del 2010 tutti i discorsi su Haiti hanno proclamato la necessità di ricostruire o rifondare il Paese. Non si è insistito sufficientemente sulla necessità di rivedere le basi di questa nuova costruzione o fondazione per poter costruire un’altra Haiti. La grande domanda è: su cosa vogliamo costruire il nuovo Paese, sulla roccia o sulla sabbia?, per riprendere un’immagine biblica (Matteo 7, 24-27). Costruire sulla roccia equivale a rompere il ciclo della vulnerabilità, della storia dell’invasione, della produzione di fragilità e di esclusione sociale, della dipendenza militare, economica, finanziaria e politica. Edificare le basi di questa costruzione di un’altra Haiti sulla roccia equivale a riscattare la storia della ribellione di fronte alle differenti forme storiche di invasione e di esclusione. Riscattare la contro-storia di Haiti permette di costruire un’altra Haiti, che
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Viva Haiti
Il Museo del Pantheon Nazionale è stato preservato dal terremoto (foto Francisca Stuardo).
logici) di queste costruzioni concettuali, che non fanno altro che produrre e riprodurre la violenza sistemica. Nella misura in cui i grandi mezzi di comunicazione internazionali e altri produttori di discorsi egemonici propagano questa violenza sistemica rivestita di nuovi abiti, diventa importante un contro-discorso che faccia sentire e valere la voce della ribellione di Haiti contro l’invasione, l’esclusione sociale e la dipendenza. La voce silenziosa di quelle e di quelli che lottano per sopravvivere quotidianamente, che si organizzano per lavorare creativamente e pazientemente per uno sviluppo alternativo, per una comunicazione popolare alternativa, per la sovranità alimentare, per il rilancio della produzione locale (dell’agricoltura, dell’artigianato, dell’allevamento di animali creoli), per la decentralizzazione, per la protezione ecologica e ambientale; per un maggior accesso ai servizi della salute, dell’educazione, dell’acqua potabile; per i diritti umani, principalmente i diritti dei gruppi vulnerabili, come le donne, i bambini, le persone disabili…; per il diritto a un abitare dignitoso e sicuro, per la partecipazione degli haitiani alla ricostruzione del loro Paese, per la lotta contro il colera, contro l’occupazione… Infine, la voce tutti i gruppi e i movimenti sociali haitiani che rappresentano il futuro del Paese.
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è totalmente sconosciuta: quella che resiste contro i discorsi egemonici che tentano di negare la sua identità, la sua cultura, le sue forme di vita, le sue competenze, e soprattutto la sua vera storia. Haiti che si ribella contro la sua “élite locale”, alleata storica degli invasori, e nemica della grande maggioranza che tiene condannata all’esclusione sociale. La costruzione dell’altra Haiti passa per la ricostruzione dell’altra storia, quella degli ultimi, della ribellione, una storia che è stata falsata. Haiti, tanto nei tempi degli aborigeni quanto in quelli dei neri africani, è stata un simbolo di ribellione contro l’invasione, una “peste” di ribellione per altri Paesi soggiogati. Allo stesso modo, la grande maggioranza degli haitiani neri, storicamente sottomessi dall’“élite locale”, dall’esclusione sociale e dalla dominazione militare, è stata un esempio di ribellione; la loro instancabile lotta è un chiaro segno che un’altra Haiti inclusiva, democratica, sovrana, libera e prospera è possibile. Una Haiti sognata dal popolo haitiano con la Costituzione del 1987. Davanti a meccanismi di soggezione storica, il popolo haitiano ha adottato forme di soggettività, ossia meccanismi per costruirsi come soggetto della propria storia. Poche volte, ad esempio durante l’indipendenza del Paese, la caduta della dittatura duvalierista nel 1986 e l’elezione di Jean-Bertrand Aristide nel 1990, il popolo haitiano ha potuto essere soggetto della propria storia. Purtroppo sono stati momenti effimeri, vanificati dai dirigenti politici del Paese, in complicità con l’élite nazionale e con i Paesi imperialisti e neo-colonialisti. Generalmente, il popolo haitiano ha utilizzato forme creative, anche se silenziose, di resistenza paziente e di costruzione di alternative davanti all’esclusione sociale, alla repressione politica, alla dominazione esterna, alla povertà e a tutte le forme di avversità. Il popolo haitiano è un esempio di resilienza, di pazienza e di creatività. Insieme ai meccanismi di soggezione del popolo haitiano è stata utilizzata contro di esso anche la violenza di sistema; tale forma di violenza è stata esercitata ai tempi del colonialismo dai proprietari terrieri sugli schiavi, affinché questi accettassero la loro condizione di schiavi e si rassegnassero ad essa. E ci viene presentata ancora oggi, sotto la copertura del “nuovo ordine mondiale”, della “democrazia”, della “globalizzazione”, dello “sviluppo”, e persino della “cooperazione internazionale”, degli “aiuti umanitari”… Più che mai è necessario oggi esercitare vigilanza epistemologica di fronte ai differenti usi e abusi (ideo-
Una storia paradossale
Haiti esiste?
I di Frei Betto
Frei Betto Giornalista e scrittore, ha al suo attivo più di cinquanta opere, collabora con i movimenti sociali brasiliani. Testo pubblicato il 29 gennaio 2010 in www.adital.com.br.
nteressati ad esibire in Europa una collezione di animali esotici, all’inizio del secolo XIX due francesi, i fratelli Édouard e Jules Verreaux, intrapresero un viaggio verso l’Africa del Sud. La fotografia non era stata ancora inventata e gli unici modi per saziare la curiosità del pubblico erano allora il disegno, la pittura o la tassidermia (tecnica per la conservazione di animali morti e impagliati); l’altra opzione era portarli vivi negli zoo. Nel museo della famiglia Verreaux i visitatori potevano apprezzare giraffe, elefanti, macachi e rinoceronti. Per loro, non poteva mancare un nero. I fratelli applicarono la tassidermia a un cadavere e lo esposero, in piedi, in una vetrina di Parigi; aveva una lancia in una mano e uno scudo nell’altra. Quando il museo fallì i Verreaux vendettero la collezione. Francesc Darder, veterinario catalano, primo direttore dello zoo di Barcellona, rilevò parte della collezione, incluso l’africano. Nel 1916 aprì un suo museo a Banyoles, in Spagna. Nel 1991 il medico haitiano Alphonse Arcelin visitò il Museo Darder. Il nero riconobbe il nero. Per la prima volta quel morto ebbe diritto a compassione. Indignato, Arcelin denunciò la cosa pubblicamente, alla vigilia dell’apertura dei giochi olimpici di Barcellona. Invitò i Paesi africani a sabotare l’evento. Lo stesso comitato olimpico intervenne affinché il cadavere venisse ritirato dal museo. Terminate le olimpiadi, la popolazione di Banyoles tornò a occuparsi dell’argomento. Molti insistettero nel dire che la città non avrebbe dovuto cedere quel tradizionale pezzo del suo patrimonio culturale. Arcelin mobilitò i governi africani, l’Organizzazione per l’unità africana, persino Kofi Annan, segretario generale dell’Onu. Vistosi senza alternativa, il gover-
no Aznar decise di devolvere il morto alla sua terra di origine. Il nero fu tolto dai cataloghi dei pezzi da museo e, infine, riconosciuto per la sua condizione umana. Ricevette dignitosa sepoltura in Botswana. La rivista “Realtà”, negli anni ’60, scandalizzò il Brasile con il titolo di copertina di un reportage, Il Piauí esiste. Era un modo per richiamare l’attenzione dei brasiliani sul più povero Stato del Brasile, ignorato dal potere e dall’opinione pubblica. Il terremoto che ha distrutto Haiti fa sorgere la domanda: Haiti esiste? Oggi sì, ma…e prima di essere distrutta dal terremoto? Chi si interessava della miseria di quel Paese? Chi si domandava perché il Brasile avesse inviato le sue truppe là, su richiesta dell’Onu? E adesso, sarà che la catastrofe – la più terribile a cui ho assistito nella mia vita – è dovuta solo a una svista della natura? O di Dio, che rimane silenzioso di fronte al dramma di migliaia di morti, di feriti e di senzatetto? Colonizzata dagli spagnoli e dai francesi, Haiti ha conquistato la sua indipendenza nel 1804, cosa che le è costata un duro castigo: gli schiavisti europei e statunitensi l’hanno costretta a un blocco commerciale durato sessant’anni. Nella seconda metà del secolo XIX e all’inizio del XX, Haiti ha avuto venti governanti, sedici dei quali sono stati deposti o assassinati. Dal 1915 al 1934 gli Usa hanno occupato Haiti, nel 1957 il medico François Duvalier, conosciuto come Papa Doc, si autoproclamò presidente e installò una crudele dittatura appoggiata dai Tonton Macoutes (polizia segreta alle strette dipendenze di Duvalier) e dagli Usa. A partire dal 1964, divenne presidente a vita. Alla sua morte, nel 1971, gli succedette il figlio Jean-Claude Duvalier, Baby Doc, che governò fino al 1986, quando si rifugiò in Francia.
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Viva Haiti o nell’Iraq colpito dalle bombe. E nemmeno dopo il passaggio dello tsunami in Indonesia. Oggi Haiti pesa sulla nostra coscienza, ferisce la nostra sensibilità, ci strappa lacrime di compassione, sfida la nostra impotenza. Perché sappiamo che si è distrutta non solo a causa del terremoto, ma soprattutto per la noncuranza della nostra non-solidarietà. Altri Paesi soffrono movimenti sismici e non per questo la distruzione e le vittime raggiungono tali proporzioni. Ad Haiti inviamo “missioni di pace”, truppe di intervento, aiuti umanitari; mai progetti di sviluppo sostenibile. Una volta concluse le azioni d’emergenza, chi dovrà riconoscere Haiti come nazione sovrana, indipendente, con diritto alla propria autodeterminazione? Chi abbraccerà l’esempio della dottoressa Zilda Arns, di insegnare al popolo a essere soggetto moltiplicatore e emancipatore della sua stessa storia?
Foto Francisca Stuardo
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Haiti fu invasa dalla Francia nel 1869; dalla Spagna nel 1871; dall’Inghilterra nel 1877; dagli Usa nel 1914 e nel 1915 e occupata fino al 1934, e di nuovo, sempre dagli Usa, nel 1969. Le prime elezioni democratiche sono state indette nel 1990; venne eletto il sacerdote Jean-Bertrand Aristide, il cui governo fu però deludente. Deposto nel 1991 dai militari, si rifugiò negli Usa. Tornò al potere nel 1994 e, nel 2004, accusato di corruzione e connivenza con Washington, andò in esilio in Sud Africa. Sotto la presidenza di René Préval Haiti venne mantenuta sotto la protezione dell’Onu e attualmente è di fatto occupata dalle truppe statunitensi. Per l’Occidente “civilizzato e cristiano” Haiti è sempre stata un nero inerte in una vetrina, impagliato nella sua stessa miseria. Per questo i media dei bianchi esibiscono, per la prima volta, i corpi mutilati dal terremoto. Nessuno ha visto, in tv o in foto, qualcosa di somigliante nella New Orleans distrutta dall’uragano
Dopo la catastrofe, come stiamo?
Foto Francisca Stuardo
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Capitolo 2
Phares Jerôme
Dopo la catastrofe, come stiamo? Il 12 gennaio 2010, alle ore 16 e 53 minuti, la capitale di Haiti, Port-au-Prince, e le aree vicine sono state devastate da un terremoto di magnitudo 7.3 della scala Richter. L’ipocentro del terremoto era a dieci km di profondità, in prossimità della superficie terrestre, e il suo epicentro era vicino alla città di Léogâne, situata circa diciassette km a sudest di Port-au-Prince. Circa l’80% della città è andato distrutto.
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Stando alle stime ufficiali, presentate dal Post Disaster Needs Assessment (Pdna) - Valutazione delle necessità post-calamità, documento elaborato dall’International Recovery Plataform (Piattaforma internazionale di ricostruzione) che valuta la situazione di necessità al fine di strutturare gli aiuti post-terremoto, sono stati registrati più di 300 mila morti, un numero equivalente di feriti e 1,3 milioni di senzatetto. Circa un milione e mezzo di persone, il 15% della popolazione nazionale, è stato colpito direttamente. I danni materiali sono stati enormi. Circa 105 mila case sono state completamente distrutte e più di 208 mila danneggiate. Più di 1.300 istituzioni scolastiche e più di cinquanta ospedali e centri di salute sono crollati o sono rimasti danneggiati. Il Paese, considerato il più povero dell’Occidente, affronta una situazione apocalittica tra le macerie del terremoto. È stato necessario un aiuto massiccio e rapido della comunità internazionale, compresi i Paesi dell’America Latina, per evitare una catastrofe umanitaria a Port-au-Prince. Acqua potabile, alimenti, kit di igiene e salute, tutto è stato necessario per salvare vite e soccorrere le vittime. Il valore totale dei danni e delle perdite causati dal terremoto del 12 gennaio 2010 è stimato intorno ai 7,804 miliardi di dollari, equivalenti a poco più del Pil del Paese nel 2009. “In verità, in trentacinque anni di applicazione della Valutazione delle perdite e dei danni causati da disastri (metodologia DaLa), è la prima volta che il costo di una catastrofe è relativamente tanto elevato da avere la dimensione
Dopo la catastrofe, come stiamo? dell’economia di un Paese”, afferma il documento Pdna. Il costo dei danni alle proprietà, incluse unità abitative, scuole, ospedali, edifici, strade, ponti, porti e aeroporti, è stato di 4,302 miliardi di dollari, e rappresenta il 55% degli effetti totali del disastro. Più di due anni dopo il terremoto, Haiti non era ancora riuscita a cicatrizzare le ferite del disastro. Più di 500 mila senzatetto vivevano in accampamenti di emergenza, molti in condizioni disumane. Circa 500 mila metri cubi di materiale, dei 10 milioni totali generati dal disastro, rimanevano accumulati sulle strade. Il Palazzo nazionale, gli edifici ministeriali e altri edifici pubblici distrutti dal terremoto erano ancora in rovina molti mesi dopo il terremoto. Le tracce della ricostruzione fisica del Paese sono poco visibili. In sintesi, il processo di ricostruzione, annunciato con grande pompa dopo il terremoto, non ha raggiunto la stessa velocità di “crociera”.
Dopo il terremoto, che ha distrutto la cattedrale, centinaia di haitiani assistono alla messa domenicale sotto i tendoni montati di fianco ai calcinacci della basilica (foto Ermanno Allegri).
Le promesse di New York Il piano di ricostruzione per Haiti del documento Post Disaster Needs Assessment (Pdna) è stato approvato a New York il 31 marzo 2010 durante una conferenza internazionale su Haiti. Il documento, secondo l’ex primo ministro Jean-Max Bellerive, è stato elaborato da un’equipe composta da rappresentati del governo haitiano e da membri della comunità internazionale. Insieme alla valutazione delle necessità, il Pdna contempla un piano di azione per l’identificazione delle necessità di recupero e di ricostruzione del Paese a brevissimo termine (sei mesi), breve termine (diciotto mesi), medio termine (tre anni) e lungo termine (dieci anni). Il valore totale delle risorse necessarie, secondo il Pdna, equivale a 12,2 miliardi di dollari, così suddivisi: il 52% per i settori sociali, il 15% per le infrastrutture, incluse le abitazioni, e l’11% per la gestione ambientale. La somma di 9,9 miliardi di dollari è stata promessa ad Haiti dalla comunità internazionale in occasione della conferenza di New York; di tale somma 5,3 miliardi sono stati pagati al Paese nel corso degli ultimi due anni. Il resto deve essere versato, a medio e lungo termine. “Quattro miliardi sono stati destinati a progetti specifici”, ha affermato Nigel Fisker, vice rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per Haiti, in occasione del secondo anniversario del terremoto nel gennaio 2012.
Cosa funziona dopo la tragedia? Haiti ricorda, ogni 12 gennaio, l’anniversario del terremoto del 2010, considerato il più grande disastro naturale dei tempi moderni. Oltre alle dettagliate relazioni della maggioranza degli attori locali, l’Onu ha curato una valutazione generale sugli aiuti umanitari condotti nei primi due anni. Secondo l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha, nella sigla inglese), si assiste a una decrescita del 65% della popolazione nelle baraccopoli dei senzatetto. Questo significa che il numero di senzatetto è passato da un milione e mezzo dopo il terremoto a 519.164 nel gennaio 2012. Il numero degli accampamenti di rifugiati è passato da 1.555 a 758. La relazione Ocha, divulgata all’inizio di gennaio 2012, informa anche sul fatto che quasi un milione di persone senza alloggio dopo il terremoto è già stato rialloggiato. Anche se non specifica in quali condizioni queste persone sono state rialloggiate,
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Viva Haiti oltre alla concessione di sovvenzioni perché gli abitanti stessi possano costruire le loro case. “Le persone quasi non sanno che è un diritto che va rivendicato. Per questo, il lavoro che stiamo facendo attualmente, utilizzando le radio e tutti i mezzi di comunicazione, è teso ad affermare che avere un luogo in cui abitare in modo dignitoso è un diritto umano. Le autorità statali hanno la responsabilità di garantire questo diritto, prendendo misure per permettere che le differenti categorie sociali abbiano accesso all’abitazione”, ha sottolineato Collete. L’ente suggerisce inoltre la creazione di cooperative per l’edilizia abitativa, perché si possa discutere del problema della terra, principalmente tra coloro che non hanno proprietà e coloro che possiedono immobili, perché il tema dell’abitare non venga considerato come qualsiasi merce sul mercato. “Vogliamo promuovere questa idea, perché è molto difficile avere terra per tutti. Se la riforma verrà fatta in modo cooperativo, non solamente potremo risolvere il problema della casa, ma anche ridurre la speculazione immobiliare e, allo stesso tempo, ridurre i costi”, spiega Collete. Camille Chalmers, della Piattaforma per lo sviluppo alternativo di Haiti (Papda), afferma che, in relazione al denaro internazionale destinato alla ricostruzione, c’è stato un processo di marginalizzazione totale degli attori haitiani, anche di quelli dello stesso Stato. Per esempio, per gli aiuti umanitari sono stati spesi 2,43 miliardi di dollari e, di questi, lo Stato haitiano ha ricevuto venticinque milioni di dollari. Chalmers ribadisce: venticinque milioni su 2,43 miliardi di dollari! La sola Usaid ha speso, per le attività di ricostruzione, 292 milioni di dollari e ha firmato un contratto con un’impresa haitiana per soli 49 mila dollari. Tutto il resto è stato destinato a pagare imprese statunitensi. E il peggio è che i risultati dei supposti investimenti di denaro non sono visibili per le strade. Inoltre, secondo Chalmers, ci sono persone che vivono in condizioni peggiori di quelle precedenti al terremoto. Secondo i conti della Papda, 643 mila persone vivono ancora nelle strade due anni dopo la tragedia, un terzo di quelle che vi abitavano poco dopo il terremoto. La stessa Papda racconta che nell’agosto del 2011 si è verificato un forte vento che, pur non avendo generato un uragano, ha causato ventinove morti, ventitré dei quali vittime del vento perché abitavano in case danneggiate dal terremoto. Per lo meno il 50% dei detriti rimane nelle strade e, delle infrastrutture impor-
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l’agenzia dell’Onu afferma che 100.456 alloggi temporanei sono stati costruiti per i senzatetto e che più di 6 mila sussidi di affitto sono stati concessi ai residenti nei campi. Il disastro ha distrutto circa 70 mila edifici, che hanno generato 10 milioni di metri cubi di macerie. “Cinque milioni di metri cubi di detriti, la metà del totale, sono già stati ritirati”, affermano le Nazioni Unite. I cantieri di rimozione delle macerie hanno permesso la creazione di 400 mila posti di lavoro temporaneo, per un totale di 45 mila giorni di lavoro. Secondo il Gruppo di appoggio ai rifugiati e rimpatriati (Garr), la realtà è molto più crudele di quel che segnalano i numeri dell’Onu. La verità è che molte persone già erano tornate alle proprie case, ma in condizioni molto lontane da quelle ideali. Collete Lespinasse, coordinatrice del Garr, ha rivelato in un’intervista ad Adital che molte persone hanno sgomberato terreni privati o pubblici perché alcune organizzazioni internazionali hanno costruito quel che chiamano ti kay, cioè casine molto, molto piccole, di sedici metri quadrati, molto scomode per le famiglie. “Le famiglie sono grandi ad Haiti, da cinque a sei persone. È per questo che, mentre alcune persone hanno ‘potuto’ lasciare i campi, altre hanno ‘dovuto’ lasciarli, perché esposte alla violenza; c’è stato un tentativo negli ultimi mesi di criminalizzare gli accampamenti, considerando che alcune gang criminali vi si sono intrufolate, appositamente per commettere delitti. La gente ha iniziato a dire che i campi sono covi di criminali, e alcuni sono scappati per la paura, tornando alle proprie case ancora distrutte, nonostante il rischio di crollo”, precisa Collete. Inoltre mette in dubbio le cifre ufficiali. Nell’ultimo rapporto erano 300 mila le persone ancora senza alloggio, poi si è parlato di un milione e mezzo di persone con problemi abitativi. “Ma, in qualche modo, la problematica abitativa è ancora molto forte e già esisteva prima del terremoto. C’erano già persone che dormivano in strada, ma adesso il problema è aumentato molto, e ancora non è stato risolto perché, ad oggi, non esiste un piano reale di ricostruzione nazionale, soprattutto dal punto di vista abitativo, che contempli la questione della proprietà, quella dell’accesso alla terra, e il finanziamento per la costruzione di case proprie”. Il Garr è già arrivato ad avanzare le sue proposte di ricostruzione al governo, anche suggerendo la costruzione di case che possano essere affittate a prezzi più bassi di quelli di mercato,
Dopo la catastrofe, come stiamo?
Benedito Teixeira
Intellettuali haitiani, contributo alla ricostruzione La classe intellettuale haitiana si sta sforzando di contribuire alla ricostruzione del Paese che, più di tre anni dopo, ancora si trova devastato dal terremoto del 2010. Un esempio di questo sforzo è la rivista “Osservatorio della ricostruzione”, che è già alla quarta uscita. Venne lanciata nel maggio 2012 con una tiratura di appena mille esemplari distribuiti gratuitamente, ma con la prospettiva di una diffusione maggiore in futuro. Laënnec Hurbon, sociologo, direttore scientifico del Centro nazionale di ricerca scientifica di Parigi e professore all’Università Kisqueya, afferma in un articolo pubblicato dalla rivista che
l’obiettivo dell’Osservatorio è quello di partire dalla conoscenza della realtà e di ciò che attualmente accade, perché la popolazione capisca e possa partecipare. “Desideriamo conoscere l’economia, la situazione culturale, le architetture impiegate nella costruzione delle case, la situazione finanziaria dello Stato. Abbiamo una serie di dubbi e di critiche su ciò che sta accadendo e, allo stesso tempo, abbiamo molti suggerimenti per correggere gli errori. La rivista offre spazio a quello che l’immaginazione e la competenza possono offrire”, spiega.
L’haitiano Laënnec Hurbon è sociologo, direttore scientifico del Centro nazionale di ricerca scientifica di Parigi e professore all’Università Kisqueya (foto Ermanno Allegri).
La rivista “Osservatorio della ricostruzione” rappresenta uno spazio per discutere del futuro degli haitiani e intraprendere percorsi risolutivi.
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Viva Haiti Secondo la sua valutazione, sarebbe stato opportuno creare un governo di unità nazionale per mettere in campo azioni politiche per far fronte alla catastrofe. In due direzioni: nell’area ambientale e in quella politica. La comunità internazionale ha anche approfittato dell’occasione per strumentalizzare la debolezza, il vuoto, l’assenza dello Stato. Questa stessa comunità internazionale, afferma Hurbon, ha tentato di mettere in pratica quel che lui chiama “mimetismo democratico”, in quanto le decisioni sull’utilizzo di milioni di dollari sono sfuggite dalle mani degli haitiani. Fino ad oggi non si sa cosa sia stato fatto con il denaro. “Tutti i palazzi pubblici sono crollati, sono andate distrutte undici delle tredici facoltà e molte scuole, ma niente è stato ricostruito. Nonostante questo, gli studenti cercano di lavorare grazie ad aiuti palliativi”, sottolinea lo studioso. Egli sostiene la tesi che la ricostruzione dello Stato debba partire da un nuovo sistema di giustizia. Sono stati commessi moltissimi delitti dalle dittature e nessuna azione è stata portata avanti per punire i criminali. Questo lascia il Paese in uno stato di insicurezza permanente, che non permette lo sviluppo economico perché non ci sono investimenti.
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Hurbon racconta che, dai primi giorni dopo il terremoto, molti sono stati i suggerimenti sul modo di affrontare la ricostruzione del Paese. Secondo lui, particolarmente importante è stata l’idea di costruire un centro autonomo per la ricostruzione, che esulasse dagli interessi delle diverse fazioni politiche, ma che includesse la presenza dello Stato, degli emigranti e degli specialisti internazionali. Lo Stato però non ha colto questa possibilità, e ha focalizzato i suoi sforzi sulle elezioni. “Nessuno ha raccolto la nostra proposta. Per questo vari intellettuali hanno deciso, adesso, di partecipare all’iniziativa dell’Osservatorio della ricostruzione”. Questo ha costituito l’embrione della rivista “Osservatorio della ricostruzione”, che si è poi trasformata in uno spazio di discussione concreta sul futuro degli haitiani al fine di intraprendere percorsi risolutivi. “Abbiamo anche una pagina web per permettere a qualsiasi persona di esprimere le sue idee. A poco a poco, stiamo organizzando meglio questa iniziativa, dotandoci delle tecnologie adatte per ampliarla. La rivista viene già distribuita da gruppi, istituzioni, personalità che lavorano in questa direzione”, osserva Hurbon. Per lui il terremoto del 2010 costituisce un’opportunità perché Haiti possa realizzare una nuova fondazione del Paese, visto che l’impatto della tragedia è stato aggravato dalla situazione politica compromessa che Haiti vive da più di cinquant’anni. “Dopo le lunghe dittature, Haiti ha difficoltà a vivere un’esperienza democratica. C’è il problema delle basi su cui poggia lo Stato, uno Stato che non ha nessun orientamento da dare per affrontare qualunque forma di disastro, che sia uragano o terremoto. In occasione del terremoto non è stata emanata alcuna legge per regolamentare l’uso del territorio. Io ero qui, e ho visto che il governo praticamente non esisteva. C’è stato un totale abbandono da parte della politica del Paese, che ha consegnato la situazione nelle mani delle Ong e della comunità internazionale. Non c’era uno Stato, non c’era governo”, denuncia Hurbon. Egli racconta inoltre che quando il governo ha tentato di fare qualcosa, invece di cercare di raggruppare le forze politiche del Paese, ha agito con un’azione strettamente di parte, solo per organizzare le elezioni. C’erano 300 mila persone disperse, morte, senza nome, di cui non si sapeva nulla. “Questo dimostra la banalizzazione del disastro da parte del governo, preoccupato solo di organizzare le elezioni per riappropriarsi del potere che aveva prima”, sottolinea Hurbon.
Dopo la catastrofe, come stiamo? tanti che sono andate distrutte, non è stato ricostruito nulla, né gli ospedali, né le scuole, né le università. “Noi, all’università, abbiamo perso quarantanove edifici, totalmente distrutti. Nella mia facoltà, io insegno sotto un tendone, due anni dopo il sisma, in condizioni terribili. Quando piove bisogna interrompere la lezione, quando è caldo si arriva a una temperatura di 55 gradi, insopportabile per tutti. Due anni dopo, nessuna facoltà statale funziona in condizioni normali. Cosa serve di più per capire che tutto il denaro è stato ‘risucchiato’ dalle imprese straniere, soprattutto dalle Ong?”, denuncia Camille Chalmers. Egli riferisce di una ricerca condotta da un gruppo statunitense su 196 ONG che hanno ricevuto risorse per le vittime del terremoto di Haiti. Delle 196 intervistate, soltanto 38 hanno risposto, e di queste, solamente 8 hanno dimostrato di avere una qualche politica di trasparenza. “Oscurità totale. E sui soldi: il 31 dicembre 2010 avevano speso meno della metà di quel che era stato ricevuto per l’urgenza. Questo denaro ha generato 1,8 milioni di dollari in interessi per le banche. Davvero uno scandalo, al di là di tutta la questione della strumentalizzazione degli aiuti umanitari degli Usa. Perché gli Usa sono arrivati due giorni dopo il terremoto con 23 mila marines, con l’82sima divisione aerotrasportata (corpi speciali statunitensi, gli stessi che hanno invaso Panama, Granada e Santo Domingo nel 1965), con 165 navi ancorate tutto intorno ad Haiti, delle quali una sola era una nave ospedale e 164 erano navi da guerra attrezzate con armi nucleari. E intanto, la gente moriva per strada”, denuncia. Per illustrare questa situazione di caos, Chalmers racconta che un amico di suo figlio, di diciannove anni, con una gamba fratturata, è rimasto per strada sei giorni senza nessuna assistenza, e per questo la gamba ha dovuto poi essere amputata. Quando gli Usa sono arrivati nel Paese, secondo lui, la prima urgenza di cui si sono occupati è stato controllare l’aeroporto ed evacuare gli statunitensi. Hanno chiuso l’aeroporto per salvare i loro cittadini. Hanno bloccato l’aeroporto di Port-au-Prince, anche quando stavano arrivando aerei ospedale dalla Francia, che non hanno potuto atterrare per 48 ore, così come gli aerei da Cuba. “Non si può calcolare quante vite sono state perse per questi atti degli Stati Uniti. Questo è molto grave ed è necessario denunciarlo chiaramente”.
Salute ed educazione in stato di allerta Con un milione e mezzo di persone nelle strade si temeva un altro disastro ad Haiti dopo il terremoto, questa volta in relazione alle problematiche sanitarie. È stato necessario allertare la popolazione degli accampamenti sulla necessità di trattamento dell’acqua, sulle condizioni sanitarie e sulle condizioni igieniche. “Un totale di 1,7 milioni di persone ha avuto risposte alle sue necessità di acqua potabile e di sanità”, informa la relazione dell’Ocha. Più di 11 mila latrine sono state costruite, mentre cinque litri di acqua sono stati distribuiti per persona, ogni giorno, fino alla fine del 2010, agli 1,3 milioni di accampati. Il settore della salute è stato messo in scacco dal terremoto. Il calcolo più preciso riporta 300.572 persone ferite, quando trenta dei quarantanove ospedali sono stati danneggiati o distrutti. Circa 30 mila amputazioni (secondo la Papda) sono state realizzate subito dopo il disastro. In questo delicato momento per la salute della popolazione è poi scoppiata l’epidemia di colera. Si sono contati circa 7 mila morti su un totale di 500 mila casi di infezione registrati fino al dicembre 2011. In risposta all’epidemia, le Nazioni Unite stimano che 3 milioni di persone abbiano ricevuto prodotti di trattamento e sistemi di filtraggio dell’acqua. Sarebbero stati creati, inoltre, più di trecento centri di trattamento del colera, per un totale di circa 12 mila posti letto. Nemmeno il sistema scolastico di Haiti è stato risparmiato dal disastro. Un totale di 3.978 scuole sono state distrutte o danneggiate dal terremoto. Fino al gennaio 2012, secondo l’Ocha, 636 scuole erano state ricostruite o riparate. Allo stesso tempo, la qualità del programma scolastico nazionale era stata migliorata. Prima del terremoto, la rete scolastica raggiungeva 700 mila bambini. Attualmente, questo numero raggiungerebbe un milione e mezzo di alunni. Vale la pena sottolineare che, di questi bambini, uno su tre soffre di denutrizione. Oltre a queste, sono in atto altre azioni a favore dei bambini, quali il monitoraggio del lavoro minorile in agricoltura e la lotta contro la violenza.
Situazione di emergenza umanitaria permanente Nonostante le autorità haitiane e i loro collaboratori internazionali si dichiarino soddisfatti del lavoro fatto negli ultimi due anni, alcuni attori sociali stimano che il Paese ancora si trovi in
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Viva Haiti Le strade di Port-au-Prince necessitano di organizzazione, azioni di bonifica e di igiene.
Di fronte a questo quadro, Ginevra ha accettato di concedere 8 milioni di dollari in favore di Haiti per rispondere alle urgenze nell’anno 2012. “Questo denaro permetterà alle organizzazioni umanitarie di continuare a offrire servizi alle persone colpite che ancora vivono in accampamenti”, informa Emmanuel Schneider, portavoce dell’Ocha per Haiti. Anche se esistono ancora 500 mila persone colpite che devono essere rialloggiate, l’Ocha afferma che le organizzazioni umanitarie, la cui missione è salvare vite, possono vantare un bilancio positivo della loro missione ad Haiti in questi ultimi due anni. Molti movimenti sociali haitiani non sono così soddisfatti
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una situazione di emergenza umanitaria. “Haiti affronta ancora significative necessità umanitarie”, ha sottolineato l’Ocha in occasione di un’istanza promossa per sollecitare nuovi fondi con carattere di urgenza per il Paese nel 2012. Quasi 520 mila persone, calcola l’Ocha, continuano a vivere in accampamenti di baracche. Oltre a ciò, l’epidemia di colera, iniziata nell’ottobre 2010 è già costata la vita a 7 mila persone. L’insicurezza alimentare, che riguarda attualmente il 45% della popolazione, e la elevata vulnerabilità del Paese di fronte alle catastrofi naturali durante le stagioni di pioggia e di uragani, vanno prese in considerazione.
Dopo la catastrofe, come stiamo? Nella speranza di trovare lavoro, distribuzione di alimenti e riparo, attualmente ancora molte persone rimangono nella capitale di Port-au-Prince (foto Francisca Stuardo).
come l’Ocha. Parallelamente all’azione delle Ong internazionali e dei donatori, le organizzazioni sociali haitiane hanno una loro propria valutazione delle azioni sviluppate negli accampamenti negli ultimi due anni. “Per mancanza di volontà politica abbiamo perso la chance di fare qualcosa di nuovo”, lamenta padre Jean Hansen, direttore della Commissione nazionale episcopale giustizia e pace (Jilap). “Dato che molte persone hanno scelto dopo il terremoto di tornare nelle zone di provincia da dove se n’erano andate, ciò avrebbe potuto significare un’opportunità per dare inizio a un processo di decentralizzazione”. Seicentomila persone, secondo i dati del governo haitiano, hanno lasciato la capitale dopo il terremoto. Port-au-Prince, dove tutti i servizi pubblici sono concentrati, aveva una popolazione di 2 milioni di persone al momento del disastro. “Anche così, ci sono oggi certamente più persone nella capitale di prima. Nella spe-
ranza di trovare un impiego, distribuzione di cibo, un riparo ecc., molte persone si spostano nella capitale”, lamenta padre Hansen. Ciò nonostante, la mancanza di servizi pubblici sta diventando sempre più acuta. Per il direttore della Jilap, uno degli aspetti più importanti della ricostruzione deve essere una “ricostruzione della mentalità”. “Eppure, questo è l’aspetto più trascurato”, denuncia. Per Pierre Esperante, direttore della Rete nazionale dei diritti umani (Rnddh), il risultato dell’aiuto internazionale è poco visibile nel Paese. “Nessun grande cantiere della ricostruzione è stato lanciato”, ha detto. Secondo Esperante, le opere realizzate negli ultimi due anni non sono proporzionate alla quantità di denaro speso. “Siamo a favore di una valutazione del denaro già stanziato prima di procedere a un nuovo finanziamento”, ha affermato nell’avanzare dubbi su un’utilizzazione adeguata degli aiuti alle vittime del terremoto.
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Viva Haiti
Adriana Santiago
Vescovi del mondo in favore di Haiti Haiti sono leader improvvisati. Se un musicista o un’altra persona senza esperienza sale al potere, senza adeguata formazione, passeranno almeno circa cinque anni perché impari, e nel frattempo non darà una risposta concreta ai problemi”. Alcuni settori internazionali incentivano questo stato di cose per continuare ad avere più influenza nel Paese, e anche per approfittare della situazione e aumentare la loro ricchezza. Altra cosa da osservare è che molti Paesi, principalmente Repubblica Dominicana e Stati Uniti, in particolare la città di Miami, hanno approfittato del terremoto per guadagnare denaro. “Perché tutte le cose sono state comprate nella Repubblica Dominicana e a Miami. Proprio adesso, alcuni di loro sono già tornati qui per investire il loro denaro e guadagnare ancora di più. Mi spiace molto per lo sforzo che vedo da Brasile, Spagna e Italia, tra gli altri, che danno una risposta diversa perché cercano di fare in modo che la popolazione stessa possa far fronte autonomamente ai propri problemi”, puntualizza. Gli uomini della Minustah non vogliono perdere il lavoro Il vescovo punta il dito anche su una situazione seria che coinvolge le persone, e non solo l’interesse economico dei grandi Paesi. Ha preso come esempio la presenza della Minustah, con i suoi 10 mila militari provenienti da decine di Paesi diversi che ad Haiti guadagnano bene e che quindi non vogliono andarsene. “Dato che stanno ad Haiti da molto tempo, hanno la necessità di rinnovare periodicamente i contratti. In questo periodo c’è molta violenza nelle strade di Haiti e per questo il governo haitiano si vede costretto a continuare con la presenza di queste forze nel Paese”. Secondo lui è facile constatare come gli interessi personali vengano prima degli interessi nazionali. Egli afferma che, nei due anni in cui è vescovo a Port-au-Prince, il denaro che la comunità internazionale ha investito nel Paese avrebbe potuto essere utilizzato per sostenere una polizia locale, per fornire formazione tecnica e possibilità agli haitiani affinché si prendano carico essi stessi della sicurezza del Paese. “E questo non accade per mancanza di volontà. Una semplice ricerca potrebbe mostrare che le possibilità economiche della Minustah sono dieci volte maggiori delle possibilità economiche della polizia nazionale”.
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Dopo quasi tre anni dal terremoto che ha alzato la polvere della sofferenza haitiana, il Sinodo dei vescovi riunitosi nell’ottobre 2012 in Vaticano ha lanciato un appello mondiale in favore di Haiti. I cattolici richiamano l’attenzione sull’epidemia di colera che pone il Paese in uno stato persistente di emergenza umanitaria. All’epoca del terremoto papa Benedetto XVI aveva inoltre messo in moto la Caritas, rete di distribuzione di donazioni della Chiesa, per organizzare gli aiuti ad Haiti. Oggi, dodici Caritas operano ad Haiti secondo Francisco Hernandez Rojas, coordinatore regionale della Caritas in America Latina e Caraibi che coinvolge ventidue organizzazioni. E sono arrivati molti aiuti al Paese in questo senso. Anche se l’arcivescovo di Port-auPrince, monsignor Guire (Guy) Poulard, riconosce, in un’intervista ad Adital, che molto denaro è arrivato attraverso la Caritas haitiana, ancora manca un coordinamento di questo lavoro. E non solo all’interno della Caritas, ma in tutto il campo degli aiuti internazionali. Il vescovo Poulard afferma che, all’inizio, gli aiuti internazionali si sono mossi con azioni mirate all’emergenza. Hanno portato acqua, cibo e beni di prima necessità; adesso però la situazione non è la stessa, è necessario dare alle persone l’opportunità di risollevarsi da sole. Il vescovo lancia anche un avvertimento: le prime organizzazioni già se ne sono andate, molte di loro venute da Paesi che affrontano crisi economiche e molte, secondo lui, sono venute ad Haiti solo per approfittare di questo denaro. “Il denaro va avanti e indietro senza dare una risposta diretta alle necessità delle persone”. Il vescovo invita a un coordinamento reale ed effettivo da parte del governo. Oggi, l’arcidiocesi di Port-au-Prince dà assistenza a 4,1 milioni di persone. Secondo il vescovo ci sono molti sacerdoti, laici e religiosi che nelle strade cercano di verificare com’è realmente la situazione delle persone. Il sisma ha provocato molti danni. Per questo, stanno percorrendo gli accampamenti che fanno parte dell’arcidiocesi. Poulard non crede in un cambiamento immediato e afferma che la situazione potrebbe rimanere così per molto tempo, proprio perché manca un orientamento, un coordinamento. Secondo la sua opinione, il denaro non manca, ma non c’è un orientamento certo per stabilire che cosa fare con questo denaro. Il vescovo di Port-au-Prince cerca di spiegare meglio la situazione: “I politici che stanno governando
Dopo la catastrofe, come stiamo? “Assistiamo a molte parole e pochi fatti”, ha aggiunto il dirigente del Garr, Patrick Camille. Secondo il suo parere, Haiti sta ancora vivendo una situazione provvisoria dopo più di due anni dal terremoto. Egli denuncia che il Paese non dispone di una vera e propria pianificazione per la ricostruzione. Si aggiunge a ciò la questione della terra, che ancora è lontana dall’essere risolta. Davanti a questa situazione, egli domanda quando i poveri godranno di un’abitazione dignitosa. Secondo Patrick Camille, i più abbienti hanno già lasciato gli accampamenti delle vittime del disastro. Egli sostiene la necessità di una strategia mirata a permettere che i più poveri abbiano accesso all’abitazione. La Repubblica delle Ong Molte organizzazioni non governative lavoravano ad Haiti anche prima del violento terremoto. Il disastro del 2010 ha solo contribuito alla moltiplicazione di queste organizzazioni in tutto il Paese. Esse si trovano in quasi tutte le aree relazionate con lo sviluppo e gli aiuti umanitari, inclusi i servizi di base che avrebbero dovuto essere a carico del governo haitiano, come distribuzione di acqua potabile, bonifica delle aree insalubri, gestione degli accampamenti, oltre alla costruzione di strade e di alloggi. Le Ong sono sempre più numerose, al punto che Haiti viene conosciuta come la Repubblica delle Ong. Si stima un totale di 10 mila organizzazioni. È difficile verificare questo numero, dato che quasi tutte le Ong che operano nel Paese non sono debitamente registrate presso il governo haitiano. Questo perché l’Unità di coordinamento delle organizzazioni non governative (Ucaong) del ministero per la Pianificazione e la cooperazione internazionale, ente responsabile per il coordinamento e la supervisione delle Ong in tutto il Paese, ha difficoltà a svolgere il suo ruolo. Nel 2011 Jerry Maxime, responsabile della Ucaong, ha affermato che erano solo 495 le Ong legalmente registrate per operare sul territorio nazionale, delle quali solo ventiquattro registrate dopo il terremoto del 12 gennaio 2010. È evidente che l’Ucanong non ha la capacità di monitorare le Ong che lavorano illegalmente, in chiara violazione del decreto del 14 settembre 1989 che regolamenta il funzionamento delle Ong e le obbliga a consegnare entro il 30 settembre di ogni anno, al più tardi, una relazione sulle proprie attività e sul proprio
appoggio finanziario al governo haitiano. Nell’anno fiscale 20082009, solo 56 Ong hanno inviato la loro relazione al ministero per la Pianificazione. Nell’anno fiscale 2009-2010, solo 19 hanno presentato la relazione. Il fatto è che le Ong sono dotate di migliori finanziamenti rispetto all’istituzione responsabile di controllarle. Queste organizzazioni amministrano la maggior parte degli aiuti concessi al Paese dopo il terremoto, tanto nel campo umanitario quanto in quello dello sviluppo. “Meno del 5% dei fondi stanziati a beneficio del Paese dopo il terremoto del 2010 è gestito dallo Stato haitiano”, ha denunciato pubblicamente Michaelle Jean, ex governatore generale del Canada e corrispondente per l’Unesco ad Haiti. Nella relazione pubblicata nel giugno 2011, relativa all’aiuto finanziario della comunità internazionale ad Haiti, l’inviato speciale aggiunto delle Nazioni Unite per Haiti, Paul Farmer, ha denunciato la marginalizzazione delle istituzioni haitiane nella gestione degli aiuti. Secondo la relazione, la quasi totalità degli aiuti umanitari dopo il terremoto è stata spesa tramite le agenzie di aiuto bilaterale e multilaterale, come la Croce Rossa e le organizzazioni non statali che prestano servizio ad Haiti, incluse Ong e imprese private. “Il fatto che il 99% del finanziamento di emergenza eluda il controllo delle istituzioni pubbliche di Haiti rende la leadership governativa molto complicata”, ha affermato Paul Farmer nella relazione intitolata Cosa è cambiato con gli aiuti? Invii di aiuti ad Haiti prima e dopo il terremoto. Negli ultimi vent’anni Haiti ha sperimentato disastri naturali ripetuti. Gli haitiani ancora si ricordano dei quattro uragani consecutivi che hanno colpito l’isola di Hispaniola nell’estate 2008. Il terremoto del 12 gennaio 2010 ha colpito il Paese in forma tanto forte perché ancora non si era recuperato completamente dagli uragani. È in questo contesto che Haiti è diventata un terreno fertile per le Ong. Queste istituzioni sono frequentemente accusate di frammentare gli aiuti agli haitiani, e di agire come uno Stato dentro lo Stato. Il problema è che è difficile separare il grano dalla zizzania, perché ci sono alcune Ong che fanno un buon lavoro incentivando la partecipazione della società e il protagonismo della popolazione, e altre verso le quali le leadership dei movimenti sociali muovono critiche severe in merito a raggiri o cattivo utilizzo dei fondi.
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La Cirh e l’ordine
Case dalla Finlandia inadeguate al clima Gli aiuti sono arrivati ad Haiti da tutto il mondo. In queste ore la solidarietà parla a voce alta, anche senza sapere bene come vivono quelli che si desidera aiutare. Alcuni aiuti possono definirsi anche inusuali o paradossali. Per esempio, la Chiesa anglicana della Finlandia, un paese del Nord Europa che conta 5,3 milioni di abitanti, la metà della popolazione di Haiti, uno dei Paesi con migliore qualità di vita e minore densità di popolazione del mondo, ha donato case di legno per gli haitiani. La Finlandia è situata nell’estremo nord dell’Europa, in un’area molto fredda per quasi tutto l’anno, e la legna aiuta a scaldarsi. Con i 350 mila dollari americani donati alla parrocchia dalla Chiesa anglicana di Saint Matthieu sono state costruite ottanta case di 3,30 per 3,50 metri, qualcosa come sedici metri quadri per famiglie che arrivano anche a sei persone. Case piccole e troppo calde per un paese caraibico, che registra 35 gradi in estate. Comunque, le case avranno cucine comunitarie e cortili comuni per la convivenza, come gli antichi lakou, proibiti nella dittatura Duvalier. Al di là della dimensione, l’investimento nella direzione di una struttura comunitaria e tribale è già un progresso per l’organizzazione del Paese.
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Adriana Santiago
La Commissione provvisoria per la ricostruzione di Haiti (Cirh) è stata creata tramite decreto presidenziale il 21 aprile 2010, subito dopo il terremoto e, da allora, riceve critiche severe sulle sue modalità di attuazione, che non prevedono alcun intervento da parte dei movimenti sociali haitiani. La commissione è composta da haitiani legati al governo e da stranieri legati all’Onu che coordinano e supervisionano gli sforzi di recupero e ricostruzione. Co-presieduta dall’ex-presidente degli Usa, Bill Clinton, e dal primo ministro di Haiti, essa è responsabile per la pianificazione e il coordinamento delle azioni di ricostruzione e opera, teoricamente, per facilitare l’implementazione di progetti di sviluppo in base a priorità stabilite. Il documento di creazione della Cirh prevede che, prima di concedere l’approvazione, essa svolga un’analisi critica dei progetti e dei programmi finanziati dai donatori bilaterali e multilaterali, dalle Ong e dal settore privato. La commissione facilita anche l’emissione di titoli e autorizzazioni per la costruzione di ospedali, sistemi di generazione di energia, porti e altri progetti di sviluppo economico. Secondo il vice rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per Haiti, Nigel Fisher, poco prima della fine del suo mandato la Cirh ha approvato progetti prioritari per un totale di 2,3 miliardi di dollari americani, per trasporti, infrastrutture, rimozione e gestione dei detriti, sviluppo urbano, istruzione e salute. La critica della Papda è che, pur avendo su di sé grandi responsabilità, la Commissione provvisoria per la ricostruzione di Haiti non ha ancora divulgato i risultati a cui è pervenuta. Il governo haitiano avrebbe delegato le sue funzioni e messo la popolazione nelle mani di un organo inoperante, condannando il Paese a “instabilità e mancanza di dignità”. La Papda denuncia una disputa di potere non finalizzata ad affrontare il processo di ricostruzione, bensì a controllare i milioni di dollari stanziati per pagare le imprese impegnate a lavorare nel Paese. In base alle proprie esigenze, ogni Paese sta tentando di imporre le proprie imprese per approfittare della “ricostruzione di Haiti”. Parallelamente alla Cirh è stato creato anche il Fondo finanziario dei multi-donatori (Mdtf), la cui missione è promuovere l’armonizzazione tra i programmi e i progetti che hanno bisogno delle risorse e dei finanziamenti disponibili. Il fondo dovrebbe fa-
Dopo la catastrofe, come stiamo?
Wooldy Edson Louidor
Una lezione di solidarietà “La solidarietà è la tenerezza dei popoli” “Sono venuto ad Haiti perché volevo manifestare la mia solidarietà al popolo haitiano dopo la tragedia che aveva vissuto”, mi ha detto un volontario della Croce Rossa colombiana, specialista in costruzione di rifugi temporanei, durante un volo di ritorno da Port-au-Prince a Bogotà, a metà del mese di marzo 2011. “Vengo dalla città di Armenia, nella regione colombiana di Quindio. La mia città è stata distrutta da un terremoto nel 1999. Conosco le difficoltà e capisco cosa significa per una persona colpita da un terremoto ricevere una mano tesa e vedere persone che vengono da altri luoghi per aiutarla”, ha proseguito il volontario, un uomo già avanti con l’età, sui settant’anni. Era
molto soddisfatto del dovere compiuto, dopo aver aiutato gli haitiani per un anno a Port-au-Prince. Questa sensazione di “dovere compiuto” può essere estesa a tutto il popolo colombiano, la cui solidarietà con Haiti fin dalle prime ore ha dato a tutti una grande lezione. Il desiderio di “sentirsi vicini all’altro” e di mostrargli che non si trova solo in mezzo a una situazione estrema ha portato il volontario ad Haiti, “senza pensarci due volte”, dopo che anch’egli aveva vissuto una distruzione simile nella propria città. Il 25 gennaio 1999, Armenia, capitale dello stato del Quindio, situata 290 km a est di Bogotà, è stata distrutta da un forte sisma di magnitudo 6,2 della scala Richter. Il nostro volontario ha vissuto l’orrore di una tragedia simile. Il terremoto, che è costato la vita a circa 300 mila haitiani e ha lasciato altri 3 milioni di persone gravemente ferite, ha ricordato al popolo colombiano la triste pagina della storia di Armenia, città di circa 300 mila abitanti, 800 dei quali morirono a causa del disastro naturale. Le immagini della tragedia sono rimaste impresse non solo nelle fotografie, nei film e negli archivi, ma anche nella memoria e nel cuore del popolo colombiano, che ha riversato su Haiti la stessa solidarietà manifestata dal mondo intero durante quell’episodio tristemente celebre della storia colombiana. La solidarietà è contagiosa
La Croce Rossa colombiana è stata la prima ad arrivare ad Haiti dopo il terremoto (foto Croce Rossa colombiana).
Immediatamente dopo aver ricevuto la notizia del terremoto di Haiti i colombiani sono accorsi alle differenti sedi della Croce Rossa per portare alimenti, vestiti, materassi, coperte, acqua, articoli di igiene e altri prodotti di emergenza. Da tutti gli angoli del Paese vari mezzi di comunicazione, così come chiese e templi delle più diverse religioni, associazioni e organizzazioni sociali, sindacati, quartieri, associazioni non governative, organismi statali, scuole, università, imprese hanno lanciato una vasta campagna di solidarietà con il popolo haitiano.
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Viva Haiti
La solidarietà supera tutti gli ostacoli Alcuni giorni dopo la tragedia l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha chiesto alla Colombia l’invio di equipes di salvataggio e di aiuto in situazioni di emergenza ad Haiti. In meno di nove giorni, 1.200 tonnellate di aiuti umanitari sono state raccolte e più di 1,5 miliardi di pesos colombiani accreditati sui conti bancari di emergenza della Croce Rossa colombiana. Già il giorno 23 gennaio 2010 tonnellate di aiuti umanitari, provenienti dalla Colombia, sono state portate ad Haiti in otto voli della forza aerea e sulla nave ARC Cartagena, che funzionava anche come nave ospedale con tredici specialisti nel settore medico. La Croce Rossa colombiana ha avuto un ruolo fondamentale nel raccogliere aiuti e portare volontari che arrivavano da differenti località del Paese. Nel rapporto di gestione presentato dall’istituzione possiamo leggere i dati relativi alla sua operazione ad Haiti dal gennaio 2010 all’aprile 2011: 151.678 famiglie haitiane hanno ricevuto aiuti alimentari per cinque mesi, 168 mila litri di acqua adatta al consumo umano sono stati distribuiti, 2.785 persone sono state formate nel settore della promozione e prevenzione di malattie epidemiologiche, 3.168,48 tonnellate di aiuti alimentari e non alimentari sono state consegnate nell’arco di quindici mesi. Un totale di seicento volontari della Croce Rossa colombiana ha prestato servizio ad Haiti nell’arco di dieci mesi. Venti specialisti in costruzione di alloggi temporanei si sono resi disponibili per
tenere sessioni di formazione tecnica per sei mesi. Altri specialisti colombiani hanno offerto formazione agli haitiani in ambiti diversi, come ricerca e salvataggio, salute e disastri, prevenzione del colera e costruzione di alloggi temporanei. La solidarietà colombiana è stata promossa anche dalla Chiesa cattolica, che ha inviato immediatamente dopo il terremoto un supporto finanziario al popolo haitiano attraverso la Caritas haitiana. In tutte le parrocchie del Paese è stata realizzata, il 24 gennaio 2010, una grande raccolta fondi che ha raggiunto la somma di 2 miliardi di pesos colombiani, inviati poi ad Haiti. Dal 2011 la Chiesa cattolica ha realizzato, attraverso la Caritas, diverse iniziative pastorali per rafforzare la solidarietà con il popolo haitiano. Tali iniziative si focalizzavano sul rendere disponibile accompagnamento e formazione riguardo a temi come “la protezione dell’infanzia, la prevenzione del traffico di esseri umani, la promozione della donna, educazione e attenzione alla salute nelle comunità più emarginate”, così come nel promuovere “processi per la produttività, l’imprenditoria e la formazione umana e cristiana, per la convivenza, la solidarietà e lo sviluppo”. La stampa ha raccontato che “dopo il giorno 12 gennaio 2010, con equipe di salvataggio, tonnellate di donazioni, barche, voli militari e incontri al vertice delle più alte personalità governative, la solidarietà colombiana ha superato tutte le previsioni”. La solidarietà “non finisce mai” Essendo uno dei primi popoli ad aver mostrato solidarietà ad Haiti, la Colombia continua a manifestare la sua tenerezza verso il popolo haitiano. Questa solidarietà è tale, come ha espresso la Croce Rossa colombiana, “da non finire mai”. O, come ha scritto la Caritas colombiana, non è “un’azione puntuale”, ma si estende fino a “rafforzare i lacci della fraternità” tra i due popoli. Anche se è soddisfatta del dovere di solidarietà compiuto durante il periodo post-disastro ad Haiti, la Croce Rossa “continua ad appoggiare gli haitiani tramite programmi di formazione tecnica e tramite la Croce Rossa haitiana, ai fini di rafforzare la loro capacità di risposta ai disastri”. Questo lavoro ha una grande importanza, dato che Haiti continua a essere molto vulnerabile a fenomeni naturali come terremoti e uragani. La Caritas continua inoltre a lavorare in vari progetti focalizzati alla protezione e promozione dell’infanzia haitiana, che dopo il ter-
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Già il 14 gennaio 2010 arrivarono ad Haiti, su due aerei della forza aerea colombiana, i primi aiuti umanitari, consegnati dall’allora ministro degli Interni e della Giustizia della Colombia, Fabio Valencia Cossio, in qualità di coordinatore del Sistema nazionale di prevenzione e assistenza nei disastri. Tra questi primi aiuti umanitari: un ospedale militare da campo, un’unità per la bonifica dell’acqua, un’equipe di salvataggio canina composta da otto cani, 10 mila paia di guanti e altrettante maschere, 500 kit di articoli di igiene, un container di primo soccorso con 100 kg di materiale, un altro con 180 kg di medicine. “La Colombia è arrivata molto rapidamente, prima che la stessa Haiti esprimesse le sue necessità. Sono arrivati con il cuore e la volontà. L’aiuto non è solo una questione di emergenza. Il governo colombiano non ci ha lasciato soli”, così l’allora primo ministro haitiano Jean-Max Bellerive ha ringraziato il governo colombiano.
Dopo la catastrofe, come stiamo? remoto risulta ancora più esposta alle violazioni dei diritti umani e al traffico di esseri umani diretto verso la Repubblica Dominicana e altri Paesi. Attraverso la Fondazione Istituto per la costruzione della pace (Fincopaz), la Caritas colombiana sta contribuendo a promuovere ad Haiti il Movimento di bambini seminatori di pace, con la finalità di “trasformare alcune pratiche culturali in modo da rendere possibile la promozione di una nuova cultura di rispetto per la dignità e per il diritto dei bambini di Haiti, a partire dai valori della dottrina sociale della Chiesa, e dal riconoscimento, dalla valorizzazione e attribuzione di nuovi significati ai diritti dei bambini”. Durante la riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 6 aprile 2011, presieduta dal colombiano Juan Manuel Santos,
questi ha portato il tema del recupero e della ricostruzione di Haiti al centro del dibattito della sessione speciale di alto livello dell’organizzazione internazionale. Egli ha sollecitato il mondo intero a non abbandonare Haiti e ha invitato la comunità internazionale a lasciare il processo di ricostruzione del Paese nelle mani degli stessi haitiani. “Pensiamo a costruire un’Haiti migliore non solo oggi, non solo domani, ma nei prossimi venticinque anni. Dobbiamo immaginare l’Haiti del futuro, e porre le basi perché siano gli stessi haitiani a continuare la loro ricostruzione”, ha dichiarato il presidente colombiano invitando le Nazioni Unite e il loro Consiglio di sicurezza a stare uniti e “impegnati per sollevare Haiti dalla situazione tanto difficile che si trova ad affrontare”.
La Croce Rossa colombiana dal gennaio 2010 all’aprile 2011 ha assistito 151.678 famiglie haitiane, fornendo aiuti alimentari per cinque mesi. Ha inoltre messo a disposizione 168.000 litri di acqua adatta al consumo umano, curato la formazione di 2.785 persone nel settore della promozione e prevenzione delle malattie epidemiologiche e distribuito 3.168,48 tonnellate di aiuti alimentari e non alimentari (foto Croce Rossa colombiana).
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Viva Haiti
Insostenibile permanenza della Cirh La maggioranza delle organizzazioni sociali haitiane si esprime contro il rinnovo del mandato della Cirh. “Nel creare la Cirh la comunità internazionale ha imposto la sua visione di ricostruzione agli haitiani”, ha detto il sacerdote Jean Hansen della Jilap. Nella stessa direzione, la Rete nazionale di difesa dei diritti umani (Rnddh) crede che il piano di ricostruzione sia stato preparato senza la partecipazione degli haitiani stessi. “La Cirh è semplicemente una struttura che indebolisce ancora di più lo Stato haitiano”, denuncia Pierre Esperance, direttore della Rnddh, che ha chiesto al parlamento haitiano di non rinnovare il mandato della commissione. Esperance si è pronunciato, comunque, in difesa di una collaborazione aperta tra Haiti e la comunità internazionale. Il Garr, membro del collettivo delle organizzazioni locali per la difesa del diritto all’abitazione, ha osservato che il governo di Haiti, due anni dopo il terremoto, ancora non si è appropriato del piano di ricostruzione. Il Pdna, sviluppato dopo il terremoto, è stato presentato a New York e nella Repubblica Dominicana, denuncia Patrick Camille del Garr. “Questo piano è stato elaborato con poco dibattito nella società haitiana”, ha affermato Camille. Secondo la sua opinione, la presenza della Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Haiti (Minustah) su suolo haitiano e la creazione della Cirh dopo il terremoto testimoniano di fatto la messa sotto tutela di Haiti. La piattaforma “Je nan Je” raggruppa una decina di organizzazioni e Ong; inclusa Action Aid, anch’essa molto critica nei riguardi della Cirh. “Semplicemente perché non è una struttura haitiana”, aggiunge Marjorie Bertrand, coordinatrice nazionale della piattaforma.
La Cirh è co-presieduta dal primo ministro haitiano e da un’eminente personalità straniera coinvolta negli sforzi di ricostruzione. Questi sforzi sono coadiuvati da un direttore esecutivo incaricato della gestione quotidiana delle operazioni, con la supervisione di un segretariato. La Commissione provvisoria per la ricostruzione di Haiti è fortemente criticata dal movimento sociale haitiano, perché ha come capi l’ex presidente degli Usa Bill Clinton, che è anche inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Haiti, e il primo ministro haitiano, funzione rimasta ufficialmente vacante per tre mesi dopo la rinuncia di Garry Conille, che è stato in carica solo quattro mesi, nel mezzo di una disputa con Martelly sui contratti di ricostruzione post terremoto. Da allora rimane in carica l’ex cancelliere Laurence Lamothe, che il Senato ha confermato in via definitiva nel marzo 2012. Prima della nomina di Conille, otto nomi proposti da Martelly erano stati respinti dal Senato. La Cirh è composta poi da quattro rappresentanti del governo haitiano, un rappresentante del Senato, un rappresentante designato della Camera dei deputati, un rappresentante del movimento sindacale e un rappresentante del settore imprenditoriale. La Cirh include anche un rappresentante di ognuno dei principali donatori che si sono offerti per ricostruire Haiti e che hanno contribuito con almeno 100 milioni di dollari a titolo di donazione per un periodo di due anni o con almeno 200 milioni di dollari a titolo di diminuzione del debito. I Paesi e le istituzioni in questa lista sono: Canada, Brasile, Unione Europea, Francia, Stati Uniti, Venezuela, Bid, Onu e Banca Mondiale. Altri membri della commissione sono un rappresentante della Comunità dei Caraibi (Caricom), un rappresentante degli altri Paesi donatori, un rappresentante dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oea), un rappresentante della comunità delle Ong di Haiti e un rappresentate della diaspora haitiana. Il contributo del movimento sociale alla ricostruzione La maggioranza delle organizzazioni sociali haitiane si è riunita in una piattaforma con l’intenzione di far udire la propria voce nel processo di ricostruzione del Paese. Il nome della piattaforma è, in creolo haitiano, Je nan Je, e si riferisce a un confronto franco e onesto tra due persone, nel quale, attraverso
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cilitare il coordinamento degli aiuti esterni e assicurare la buona gestione dei fondi messi a disposizione per la ricostruzione di Haiti. È gestito dalla Banca Mondiale e ha come modello azioni che sono state sviluppate in Iraq e Afghanistan, fatto sufficiente per creare sfiducia nei movimenti sociali haitiani. La Cirh, creata da una legge di emergenza controversa, approvata dal parlamento, aveva un termine di diciotto mesi per risolvere la situazione di emergenza. È in azione dall’ottobre 2010. Alcuni mesi dopo la scadenza prevista, il governo ancora non ha deciso il futuro dell’istituzione.
Dopo la catastrofe, come stiamo? Padre Jean Hansen, direttore della Commissione nazionale episcopale giustizia e pace (Jilap) denuncia la mancanza della volontà politica di un cambiamento (foto Francisca Stuardo).
un confronto “occhi negli occhi” o, come diremo noi, “faccia a faccia”, uno può facilmente capire se l’altro sta mentendo. La Je nan Je ha cominciato a operare nel contesto della ricostruzione di Haiti nel 2011, a partire dalle organizzazioni e dai movimenti sociali haitiani. Venne lanciata una campagna di mobilitazione sui temi del diritto alla terra e a una casa dignitosa, con un’attenzione particolare alla trasparenza, alla responsabilità e al buon governo. Appoggiata da Action Aid, la campagna prese ufficialmente avvio nell’agosto del 2011 in tutta Haiti per incitare i responsabili statali a fare tutto il possibile per ri-alloggiare dignitosamente gli abitanti degli accampamenti improvvisati costruiti dopo il terremoto. “Denunciamo anche l’inacessibilità alla terra per le persone che hanno lasciato le zone colpite”, sottolinea Marjorie Bertrand, coordinatrice della piattaforma. La Je nan Je, dice lei, lotta anche contro la trasformazione delle terre agricole in spazi abitabili. “I problemi della proprietà della terra non sempre sono presi in considerazione nel contesto della ricostruzione”, lamenta.
Con 800 mila membri appartenenti ai dieci dipartimenti in cui il Paese è amministrativamente suddiviso, la Je nan Je programma riunioni collegiali per l’elaborazione di specifici documenti regionali sul tema della terra. “Questa iniziativa ci permetterà di elaborare anche un documento con indicazioni nazionali”, informa Bertrand. Il processo si concluderà con l’invio di un progetto di legge al parlamento sui problemi fondiari, che si focalizzi sul diritto all’abitazione e sul ritorno all’agricoltura. “La nostra domanda sta ottenendo una buona accoglienza presso i parlamentari”, ricorda lei, che rivendica in questo modo il ritorno a una leadership haitiana nel processo di ricostruzione. È necessaria inoltre, secondo la sua opinione, una rifondazione della nazione haitiana nel contesto stesso della ricostruzione. Un altro movimento che raggruppa diverse organizzazioni sociali, chiamato Collettivo di organizzazioni haitiane per il rispetto del diritto alla casa, è stato creato per difendere il diritto all’abitazione delle vittime del terremoto del 12 gennaio 2010. Questa piattaforma include la Papda, la piattaforma delle organizzazioni haitiane dei diritti umani (Pohdh), il servizio dei gesuiti per i rifugiati e il Garr. Il rafforzamento delle istituzioni haitiane, la decentralizzazione, la necessità di leggi che regolino le relazioni degli haitiani con lo Stato sono, tra le altre, le rivendicazioni del collettivo. “I danni del terremoto sono stati più gravi in seguito alla centralizzazione di tutti i servizi pubblici a Port-au-Prince”, afferma Patrick Camille, uno dei leader della piattaforma e dirigente del Garr. La questione degli sgomberi forzati negli accampamenti preoccupa le organizzazioni che partecipano alla piattaforma. Camille afferma comunque di constatare una tendenza di diminuzione degli sgomberi forzati grazie al lavoro del gruppo di difesa. Per esempio, nel maggio 2011, il prefetto di Delmas, Wilson Jeudy, ha dato avvio a un’operazione per sgomberare centinaia di famiglie che avevano scelto come domicilio le piazze pubbliche della città. Gli accampamenti negli spazi pubblici, ha detto il prefetto, favoriscono l’insicurezza nella città. Il prefetto Jeudy è stato criticato dai membri del Collettivo delle organizzazioni haitiane per il diritto alla casa per la sua decisione, che viene giudicata arbitraria. Per questo, le Ong facenti riferimento al Collettivo, insieme alle famiglie colpite, hanno minacciato di intentare una causa contro la prefettura. Le organizzazioni sociali haitiane non si accontentano di portare avanti le loro cause o di denunciare la lentezza del processo
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Viva Haiti modo le persone arrivano solo con un vestito, sporco o da lavoro. Spesso sono anche affamati e malati. Questo è un lavoro permanente che facciamo perché quasi tutti i giorni ci sono rimpatri dalla Repubblica Dominicana”, racconta la coordinatrice del Garr. Nei luoghi in cui si verifica il passaggio di molte persone, come per esempio nella zona di Belladere, centro di frontiera, il Garr gestisce un centro di accoglienza. L’ente accoglie anche persone vittime del traffico di esseri umani. I trafficanti sono chiamati “buscones”, gente che va a cercare le persone facendo loro promesse, come ad esempio che troveranno un buon lavoro. Le persone vendono tutto quello che hanno per pagare il viaggio, e quando passano la frontiera non sanno dove si trovano, si perdono. Queste persone devono subito tornare. Anche in questo caso i comitati dei diritti umani del Garr le accolgono e le aiutano a tornare alle loro case. Altra attività legata all’azione umanitaria del Garr è il reinserimento sociale. In luoghi dove ci sono molte persone rimpatriate l’ente fa un lavoro di reinserimento socio-economico e culturale con i singoli e anche con la comunità. Sostiene inoltre i rimpatriati a superare il trauma psicologico legato al percorso del rimpatrio, dato che queste persone hanno perso tutto, hanno lasciato i loro amici, la famiglia, a volte i loro figli. A volte accade che, quando tornano, i migranti non si sentano più compresi dalle persone della loro stessa comunità, in quanto avendo lasciato Haiti da molto tempo non parlano più bene il creolo; tutto ciò rende necessario che i programmi di reinserimento siano mirati a coinvolgere sia le comunità che le famiglie. A causa della situazione problematica in cui si trovano molti rimpatriati, i programmi del Garr danno loro anche un aiuto socioeconomico, oltre a fornire appoggio ai bambini perché siano collocati nella scuola. “Lavoriamo con i bambini, ma anche con le scuole, perché li sostengano, in quanto molti di loro non sono nati ad Haiti”. In questi programmi è previsto anche un aiuto per la regolarizzazione dei documenti affinché i bambini abbiano una registrazione anagrafica, oltre alle iniziative dirette a rafforzare l’autostima delle persone perché conoscano i propri diritti e i rischi che corrono. Per esempio nel 2011 il Garr ha lavorato molto sul rischio di colera. C’è poi il rischio della violenza. “Le donne, a volte, soprattutto se sole, attraggono uomini che pensano: ‘queste che vivono nella Repubblica Dominicana sono tutte prostitute’. Allora, pensano di poter fare qualsiasi cosa”.
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di ricostruzione. Centinaia di esse mettono in atto progetti di vario tipo a beneficio dei sopravvissuti al terremoto. È il caso del Garr, che realizza un progetto per il diritto alla casa a Lascahobas, a vantaggio dei senzatetto fuggiti da Port-au-Prince dopo il terremoto. Il progetto ha permesso di ricollocare 40 famiglie, circa 400 persone, in un contesto abitativo dignitoso. Finanziato dal Disasters Emergency Committee (Dec) - Comitato di emergenza per i disastri, questo progetto mira a migliorare le condizioni di vita delle persone colpite dal terremoto per quanto riguarda i rapporti umani e l’ambito economico, sociale e ambientale. È inoltre sul fronte del processo di riscatto della cittadinanza e della sovranità del popolo haitiano che il Garr lotta per promuovere e difendere i diritti dei migranti e delle migranti. Collete Lespinasse, dirigente del Garr, spiega che l’ente lavora con tre gruppi di migranti: persone rimpatriate, rifugiati che si trovano ad Haiti e, dopo il terremoto, con i senzatetto. È principalmente sulla frontiera che si concentra il lavoro, poiché è là che passano i migranti che vanno, per esempio, verso la Repubblica Dominicana, o che vi vengono portati dai trafficanti di esseri umani. Collete evidenzia che nei pressi della frontiera c’è molta mobilità di persone che entrano o escono dal Paese. “C’è una migrazione giornaliera, non permanente; c’è però molto movimento di persone e molti abusi dei diritti umani. Per questo la frontiera è molto importante per noi”, spiega. Il Garr ha quattro ambiti di lavoro: il primo ha una valenza politica, per portare un cambiamento nelle pratiche e nelle leggi sulla migrazione, per prevenire la migrazione forzata e lavorare per una migliore gestione della migrazione. “Questa è una parte molto importante del nostro lavoro, e per questo portiamo avanti una grande azione di comunicazione, di formazione e di presentazione delle proposte davanti alle autorità nazionali, ma anche locali, e a livello internazionale”, osserva Collete. Il secondo ambito è il sostegno ai gruppi che corrono il rischio di vedere violati i loro diritti nel corso del processo migratorio, ossia i possibili soggetti della migrazione, le persone rimpatriate e le persone che vivono in frontiera. Per questo, l’ente offre formazione a differenti gruppi coinvolti in questo processo, in frontiera o altrove. Un altro ambito è quello dell’assistenza umanitaria. “Accogliamo i gruppi di rimpatriati che arrivano. A volte arrivano quasi nudi perché vivono segregati sul luogo di lavoro, in un cantiere in costruzione o in campagna, e poi portati alla frontiera; in questo
Dopo la catastrofe, come stiamo?
Collete Lespinasse, coordinatrice del Gruppo di appoggio ai rifugiati e rimpatriati (Garr) solleva una critica severa nei confronti dell’intervento straniero (foto Ermanno Allegri).
Il Garr presta inoltre assistenza nei casi in cui c’è bisogno di ricorrere alla giustizia, come per esempio per ottenere il documento di identità o altri certificati. Collete ricorda che, su questo fronte di lavoro umanitario con i migranti, il terremoto ha creato una categoria nuova: i senzatetto. Dall’anno passato, il Garr lavora anche negli accampamenti vicini alla frontiera, dato che alcuni senzatetto hanno creato accampamenti in quella zona. I benefici della cooperazione Sud-Sud Haiti è stata soccorsa da Paesi di tutti gli angoli della Terra. I paesi dell’America del Sud e dei Caraibi, fino ad ora, hanno portato un aiuto considerevole al Paese. L’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasul) ha dimostrato una dedizione particolare alla causa di Haiti. Un finanziamento di 300 milioni di dollari è stato promesso ad Haiti dai Paesi dell’Unasul. Parte di questa somma, 100 milioni di dollari, è direttamente a carico degli Stati
membri, mentre i restanti 200 milioni dovrebbero provenire da un prestito della Banca interamericana di sviluppo (Bid). La creazione di un segretariato tecnico e politico è stata annunciata per implementare il piano di azione dell’Unasul per Haiti, che ha incluso progetti di agricoltura, sicurezza alimentare, infrastruttura e riduzione dei rischi in caso di inondazioni. Al di là dell’Unasul, Haiti ha ricevuto l’appoggio dell’Alleanza bolivariana per i popoli d’america (Alba). Nella presentazione dei Paesi dell’Alba, avvenuta nel marzo 2011, il Venezuela si è impegnato ad aumentare gli aiuti ad Haiti. Presente nel cuore di molti haitiani grazie alla passione per il calcio, il Brasile rafforza giorno dopo giorno la propria collaborazione con il popolo haitiano. Dopo le turbolenze politiche del 2004, il Brasile sta incrementando sostanziosamente il suo aiuto ad Haiti, nonostante la presenza dell’esercito brasiliano nella Minustah, che solleva forti critiche da parte dei movimenti sociali. L’associazione Solidarietà verso le donne haitiane (Sofa) ha infatti lanciato un appello all’allora presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva perché faccia da intermediario nella ritirata delle truppe dal Paese. Il Brasile è responsabile, dal 2004, del comando della Minustah. I presidenti Lula e Dilma Rousseff hanno già fatto alcune visite ad Haiti, oltre alle missioni ufficiali a Port-au-Prince. Nel 2004 è stato organizzato un viaggio per un gruppo di celebrità del mondo del calcio brasiliano per giocare un’amichevole con una selezione haitiana. L’elezione dell’attuale presidentessa della Repubblica, Dilma Rousseff, non ha modificato la cooperazione tra Haiti e Brasile. Dilma Rousseff ha fatto la sua prima visita ufficiale ad Haiti nel febbraio 2012. In quell’occasione ella ha rinnovato la volontà di impegno del suo Paese nella ricostruzione di Haiti. In occasione della conferenza internazionale dei donatori, tenutasi a New York, il Brasile ha promesso un finanziamento di 172 milioni di dollari per la ricostruzione di Haiti. Viva Rio contro la violenza Nel 2004 Ruben César, un antropologo brasiliano, ha lavorato come consulente della Minustah ad Haiti. Il Paese stava affrontando, all’epoca, un clima di violenza senza precedenti. Casi di sequestro e di assassinio in piena luce del giorno erano cosa
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Viva Haiti
La Ong brasiliana Viva Rio è presente dal 2007 ad Haiti e concentra le sue attività nell’area della salute, dell’ambiente, dell’arte, dello sport, dell’educazione e della sicurezza della comunità (foto Ermanno Allegri).
borse di studio per i bambini dei quartieri dove la violenza è bassa. “Vogliamo aprire la nostra scuola per ricevere un numero maggiore di bambini”, dice il responsabile della comunicazione dell’organizzazione. Viva Rio si occupa inoltre della promozione del turismo sostenibile ad Haiti. “Insegniamo alle persone che lavorano nel settore”, dice Minne. Per lui, il “Viva Rio” è una Ong più haitiana che brasiliana. Questo perché, con una forza lavoro di 750 funzionari, solo tra sette e dieci sono brasiliani. I funzionari di “Viva Rio” erano tra gli invitati all’incontro con la presidentessa Dilma Rousseff durante la sua visita ad Haiti nel 2012. “È un segnale di riconoscimento della rilevanza del nostro lavoro”, ricorda Minne, rinnovando l’impegno dell’organizzazione a condividere la sua esperienza con il popolo haitiano. “È il nostro modo di contribuire alla ricostruzione di Haiti”, dice. Non tutto è negativo Sta di fatto che ancora molto deve essere fatto per sollevare il Paese dal suo stato di abbandono dopo più di quattro anni dal terremoto del 12 gennaio 2010. Ma è anche necessario precisare che i problemi che si affrontano oggi non hanno la loro origine
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comune. È stato così che César ha deciso di creare il gruppo “Viva Rio in Haiti”, un braccio dell’organizzazione che opera da vari anni a Rio de Janeiro. L’ente ha iniziato le sue operazioni nel 2007 a Bel-Air, una favela di Port-au-Prince. “Al contrario delle altre Ong, il Viva Rio non ha una struttura gerarchica”, spiega Jente Minne, ufficiale delle comunicazioni dell’organizzazione. “La nostra filosofia è vivere nelle favelas con le persone”. L’obiettivo di “Viva Rio” è quello di ridurre la violenza e promuovere lo sviluppo locale. Dopo il terremoto del 12 gennaio, la Ong brasiliana ha dovuto mutare la strategia, per impegnarsi in missioni umanitarie e decentralizzare le sue attività in altre aree del Paese. “Adesso siamo presenti in quattro aree”, ha detto Minne. Il “Viva Rio” sta concentrando le sue attività nei settori della salute, dell’ambiente, dell’arte, dello sport, dell’educazione e della sicurezza della comunità. L’organizzazione, le cui attività sono finanziate, soprattutto, dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Pnud) e dal Canada, informa che riesce a rimuovere circa 120 tonnellate di detriti solidi al giorno. Inoltre sta piantando ogni anno circa 100 mila piantine per la riabilitazione dell’ambiente. Mette poi a disposizione un centro che offre una formazione rapida a centinaia di persone che aspirano a lavorare come elettricisti, muratori, fabbri ecc. “È una scuola per la ricostruzione di Haiti”, dice Charles Sadraque, responsabile dell’ente per le relazioni con i media. Il “Viva Rio” ha inoltre istituito una scuola di calcio per condividere l’esperienza del Brasile in questo campo con la gioventù haitiana. Oltre agli sport veri e propri, il “Viva Rio” propone ai bambini anche lezioni di danza, nell’ottica di offrire un programma quanto più possibile ampio e integrato. Nel quartiere di Bel-Air, dove il “Viva Rio” ha dato avvio alle operazioni, l’organizzazione può contare anche sull’appoggio dei rappresentanti della Minustah, della polizia nazionale e delle autorità dell’area per garantire il clima della sicurezza. “Gli accordi di pace vengono firmati tra le parti interessate, per promuovere la pace nella regione”, dice Jente Minne. Per lui, gli sforzi del “Viva Rio” non sono vani. “Da una zona di sicurezza rossa, Bel-Air è passata a essere una zona arancione. Il nostro sogno è trasformare Bel-Air in una zona verde”, spiega. Per promuovere la pace in questa favela di più di 100 mila abitanti, che assomiglia alle favelas brasiliane, il “Viva Rio” offre
Dopo la catastrofe, come stiamo?
Adriana Santiago
Scuole per ricostruire Léogâne L’ipocentro del terremoto è stato molto vicino alla superficie della Terra, solamente a 10 km di profondità, e l’epicentro è stato vicinissimo alla città di Léogâne, circa 17 km a sudest della capitale Port-au-Prince. L’80% della città è andato distrutto, incluse le scuole e tutti gli edifici pubblici. Il Centro di ricerche sociali e di formazione allo sviluppo (Cresfed), un’organizzazione della società civile formata da professori che hanno beneficiato dell’amnistia dopo la dittatura Duvalier, ha realizzato nel distretto un lavoro di educazione civica e di accompagnamento all’avvio di alcune attività economiche, come la macinatura del grano, associazioni composte da donne, la coltivazione di frutta, soprattutto attraverso un lavoro di educazione e formazione dei contadini per la piena cittadinanza. Quando con il terremoto tutto è andato distrutto, il Cresfed ha ritarato il focus del suo lavoro e ha dato priorità alla ricostruzione delle scuole locali. Susi Castor, direttrice del Cresfed, spiega come il lavoro si sia modificato subito dopo il sisma: “Ci siamo dedicati, allora, a un progetto di ricostruzione; una grande sfida, soprattutto in campa-
Modello di scuola, appoggiata dal Cresfed, nella città di Léogâne (foto Ermanno Allegri).
gna, nelle zone rurali colpite dal terremoto”. Nella regione di Léogâne esistono due esperienze: una è dedicata alla zona rurale, dove sono state ristrutturate tre scuole e presto ne sarà costruita una quarta, secondo un progetto di scuola-modello, affinché la struttura possa essere sfruttata tutto il giorno dalla comunità. “La nostra idea è che queste scuole diventino parte integrante del processo di ricostruzione. Per noi, la ricostruzione non è soltanto quella degli edifici, è qualcosa che va molto al di là. Essa abbraccia molte attività per arrivare a una concezione globale di rifondazione del Paese. Per noi, ricostruire una scuola non è solo alzare muri, dare riparo, ma garantire formazione, partecipazione di tutta la famiglia e lavorare per la costituzione di una comunità scolare”, aggiunge. Castor spiega che il Cresfed lavora inoltre sulla formazione dei professori e dei direttori di scuola perché nelle zone rurali, generalmente, le scuole sono davvero in cattive condizioni e ci sono molti diritti da rivendicare; per questo, l’organizzazione sociale entra in campo per restituire lo status di cittadini agli abitanti della città e della campagna. “Si tratta di restituire dignità alla concezione stessa di scuola”, spiega. Questo si realizza attraverso l’Associazione di paese, per cui la scuola stessa è convertita in edificio di molteplice uso comunitario. Di mattina è scuola per i bambini e nel pomeriggio è luogo di riunione per i genitori e per la comunità. Questi spazi sono di grande importanza, considerata la situazione di disorganizzazione delle zone rurali haitiane. Così come in Brasile, le scuole possono essere usate come luoghi di riferimento per le vaccinazioni, le riunioni di quartiere e anche per il culto. “È questo il progetto a cui stiamo lavorando nella zona rurale”. Nella zona di Léogâne il Cresfed favorisce collaborazioni tra le prefetture haitiane e diverse realtà di Canada, Francia e Olanda, in particolare nella regione chiamata Le Palme, che comprende quattro comunità, in ognuna delle quali si sta costruendo una scuola. “Stiamo definendo uno schema di lavoro con i prefetti, coinvolgendoli soprattutto in quanto comunità, e non a titolo individuale. La scuola deve essere il cuore di una comunità”, afferma Castor. Alla guida del progetto “Scuole per Léo-
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Viva Haiti I bambini potranno avere la scuola gratuita in locali migliori rispetto alle baracche di legno (foto Ermanno Allegri).
della popolazione su come lo spazio possa essere utilizzato per la costruzione della cittadinanza e di una identità comunitaria. Per muoversi in questa direzione, le scuole ricostruite dal Cresfed dovranno essere pubbliche e gratuite, pratica non comune ad Haiti. Secondo Castor nel 1804, al momento dell’indipendenza, la prima Costituzione parlava di una scuola obbligatoria e gratuita, ma tutt’oggi sembra ancora difficile guardare alla scuola come a una questione prioritaria per il Paese. Susi Castor ricorda lo slogan della campagna dell’attuale presidente Martelly: scuola gratuita per tutti. “Io, personalmente, ho applaudito a questo slogan: se un governo realizzasse questo, darebbe finalmente un impulso al Paese, dopo due secoli”, commenta. Eppure, sa che sarà impossibile, perché “per prima cosa, un’evoluzione di questo tipo non si stabilisce per decreto, si prepara; e non si prepara in linea retta, ci sono aspetti molto diversificati a cui bisogna prestare attenzione. Non è qualcosa di istantaneo”. Ella crede che la scuola gratuita sarà possibile solo se, concretamente, il governo riterrà un impegno fondamentale per il Paese cominciare a preparare professori e scuole. Inoltre, bisognerà mettere a punto contenuti per i programmi, una linea pedagogica ecc. “È come una guerra. Bisogna essere molto preparati, su posizioni ben ponderate, con compiti diversi, perché è una cosa grande, non è facile, ma non è impossibile. Con volontà, con una visione comune, con preparazione… Molti dicono di no, ma io penso che sarà possibile, sì. Se però si continua come si sta facendo, tutto si perderà”, sentenzia.
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gâne” è Marco Bordignon, un volontario italiano dell’associazione Progetto mondo-Mlal. Parallelamente prosegue il lavoro di formazione per la gestione di piccole attività economiche che possono generare autosostenibilità per la comunità locale. Per le tre scuole ricostruite il progetto ha conservato la loro struttura originale, scavando però profondi pozzi che permettono alla comunità di attingere liberamente acqua: si tratta di una comunità di 35 mila persone, in un’area di 34,5 km quadrati. La scuola che si vuole costruire implica un investimento sulla formazione degli insegnanti e su un’attività di stimolo all’autonomia della comunità; la parte architettonica riguarda invece un edificio scolastico che è in fase di costruzione presso la parrocchia di Saint Matthieu, della chiesa anglicana, finanziato dalla chiesa finlandese, e che sarà una scuola privata. Otto classi, dotate di una bio-latrina e della possibilità di utilizzare gas propano per la cucina, oltre a sale ventilate e orti comunitari. Nel mezzo, un grande salone per le riunioni. L’accoglienza della proposta da parte dei prefetti è stata la migliore possibile, secondo Susi Castor, perché, al di là delle scuole, essa costruisce una “intercomunitarietà” che rafforza politicamente le prefetture. È prevista inoltre la costruzione di nove infrastrutture e l’appoggio tecnico del Cresfed. “È un progetto bello, soprattutto perché nasce in una zona molto colpita, ed è un progetto pilota”, spiega Castor nel sottolineare che il progetto sviluppa non solo una nuova concezione architettonica delle scuole, ma anche un processo di presa di coscienza da parte
Dopo la catastrofe, come stiamo? esclusivamente nel disastro. Il terremoto ha semplicemente aggravato la situazione. Nonostante la valutazione negativa di molti attori rispetto al processo della ricostruzione, alcuni credono che non tutto sia negativo. “Più bambini vanno a scuola quest’anno rispetto a prima del terremoto”, dice il rappresentante aggiunto del segretariato generale dell’Onu, Nigel Fisher, nel suo bilancio in occasione del secondo anniversario del terremoto. Nove mesi dopo il terremoto, Haiti è stata colpita da un’epidemia di colera che ha causato migliaia di morti. Le Nazioni Unite sono state accusate di aver introdotto la malattia per mezzo di un contingente nepalese della Minustah, contaminando le acque del fiume Artibonite, il più grande di Haiti. Accuse che l’Onu continua a rigettare, nonostante vari studi scientifici indipendenti le confermino. Le organizzazioni haitiane per la difesa dei diritti umani hanno presentato all’Onu una richiesta di indennizzo per le vittime della malattia. Non è stato deciso ancora nulla. Eppure, il rappresentante speciale aggiunto del segretariato generale dell’Onu esalta l’implementazione di un sistema nazionale di allerta al colera, condotto dal ministero della Salute pubblica e della popolazione (Mspp). Un piano di contingenza nazionale e dieci piani dipartimentali – uno per ogni dipartimento – sono stati sviluppati per gestire i possibili disastri naturali. Centinaia di migliaia di haitiani, afferma Nigel Fisher, hanno trovato un impiego attraverso i programmi intensivi di mano d’opera, lavoro e investimenti iniziali in economia, che hanno prodotto un aumento dell’offerta di lavoro e della produttività nazionale. Anche la portavoce dell’Ocha, Emmanuelle Schneider, non concorda con le voci di chi pone in dubbio il lavoro fatto ad Haiti negli ultimi due anni. “È un mito quello che niente sia stato fatto per la ricostruzione”, risponde lei, citando la costruzione di una stazione di trattamento delle acque reflue in Morne Cabri, l’avvio dei lavori di costruzione del parco industriale di Caracol, nel dipartimento del Nordest e la proposta 16/6, di trasferimento dei senzatetto. Il progetto 16/6 mira a facilitare il ritorno degli sfollati nei sei accampamenti che hanno ospitato 5.239 famiglie – circa 30 mila persone – nel distretto di origine, a partire da sedici quartieri sparsi per Port-au-Prince e dintorni. Vari luoghi pubblici dell’area metropolitana della capitale haitiana sono stati evacuati dai loro
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Viva Haiti
I bambini studiano, soprattutto in scuole private, anche se vivono in accampamenti (foto Ermanno Allegri).
Più partecipazione Per il direttore della Commissione nazionale episcopale giustizia e pace (Jilap), padre Jean Hansen, la più importante lezione tratta dalla ricostruzione non sono le realizzazioni delle Ong o del governo, ma la volontà del popolo haitiano di continuare a proteggere il suo passato, ciò che il popolo già possedeva. Il
settore informale, secondo lui, ha subito ripreso le sue attività dopo il terremoto. “Le persone sono riuscite a fare alcune cose da sole”, afferma. Ha elogiato il valore degli aiuti umanitari, che hanno fornito ai sopravvissuti del terremoto acqua potabile e alimenti immediatamente dopo il disastro. Non avendo l’esperienza di una catastrofe di tale entità, padre Hansen ha detto che non ci sono termini di confronto chiari per valutare se il processo di ricostruzione sia lento oppure no. Considerando l’estensione dei danni del terremoto del 12 gennaio 2010 nessuno potrebbe aspettarsi che il Paese si recuperi totalmente nel giro di tre anni, specialmente perché la maggioranza dei mali che affliggono il Paese datano a prima del disastro. Ma, considerando le promesse fatte dalla comunità internazionale, gli haitiani hanno molte ragioni per sognare un’Haiti migliore in un futuro molto vicino. Più di ventiquattro mesi dopo la catastrofe, i risultati della ricostruzione del Paese sono timidi, anche se le Ong si dichiarano soddisfatte del lavoro fatto a livello umanitario. Ciò che più turba in tutto questo è la mancanza di uno sguardo haitiano sulla ricostruzione.
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occupanti per mezzo di questo progetto. La proposta dei sedici distretti per sei accampamenti, approvata dalla Cirh il 16 agosto 2011, per un costo totale di 78 milioni di dollari, è stata finanziata per 30 milioni di dollari dal Fondo per la ricostruzione di Haiti (Hrf). Il centro di trattamento delle acque di Morne Cabri, non molto lontano da Port-au-Prince, è il primo disponibile nel Paese ed è stato costruito dal governo haitiano con il sostegno finanziario della comunità internazionale. Finanziato per il valore di 2,6 milioni di dollari americani, il centro ha la capacità di lavorare 500 metri cubi di residui liquidi al giorno, l’equivalente dei residui prodotti da 500 mila persone.
Dopo la catastrofe, come stiamo?
Benedito Teixeira
Cooperare per salvare vite Cooperazione è la parola che muove la Brigada médica cubana ad Haiti da circa tredici anni, da quando il primo gruppo di cento medici è arrivato nel Paese devastato dall’uragano George, nel 1998. L’allora presidente René Preval, approfittando del momento di ripresa delle relazioni diplomatiche con il Paese vicino – rotte subito dopo la rivoluzione capitanata da Fidel Castro nel 1959, e riprese durante il governo di Jean-Bertrand Aristide, eletto democraticamente nel 1991 –, ha chiesto aiuti ed è stato prontamente ascoltato. Avviata in un batter d’occhio, l’azione di solidarietà cubana con il popolo haitiano nell’area della salute è stata ininterrotta, come ci tiene a sottolineare in un’intervista ad Adital il capo della Brigada médica cubana in Haiti, Lorenzo Somarriba López. Il più grande paradosso è che Haiti è stato uno dei primi Paesi a rompere le relazioni diplomatiche con Cuba, subito dopo la vittoria della rivoluzione comunista che depose Fulgenzio Batista e che interruppe i rapporti di Cuba con gli Stati Uniti. Haiti, vicina dei nuovi comunisti, viveva l’apice della dittatura dei Duvalier che consegnò il Paese al capitalismo statunitense. Nonostante i conflitti politici, gli interventi stranieri, gli altri tipi di catastrofi naturali, l’aiuto è stato mantenuto. Perché? López risponde: perché Cuba ha rispetto per i principi del popolo haitiano. “Haiti è degli haitiani. Cuba accompagna il Paese con programmi iniziati come aiuti umanitari, ma che subito si sono trasformati in programmi di cooperazione, due cose ben differenti”, afferma il medico. E spiega che l’aiuto umanitario è caratterizzato da brevi permanenze oppure dalla logica: “io ti aiuto e vado via, ciò che succede dopo è problema tuo”. Ma Cuba ha preferito fare in modo diverso e ha optato per un programma di cooperazione. Per López, ciò che principalmente contraddistingue questo programma non è la presenza di Cuba ad Haiti, ma la formazione di risorse umane; il governo cubano crede infatti che, affinché un programma di cooperazione sia sostenibile, è neces-
sario formare persone. “Tu puoi venire qui, dare soldi ad Haiti per seminare riso, ma è necessario formare ingegneri agronomi, tecnici in agronomia, specialisti sanitari. Cuba può venire e dare assistenza medica, fondare istituzioni, ma se non forma gli haitiani, non c’è sostenibilità”, spiega. Nell’area della salute il governo cubano è già riuscito a formare 1.747 medici haitiani e attualmente ha più di trecento studenti di medicina a Cuba, molti in formazione come specialisti. Il problema è che non tutti rimangono a lavorare nel sistema di salute haitiano. “I Paesi ricchi li captano perché sono professionisti di talento, danno loro una borsa di studio e, se hanno un buon rendimento, offrono loro altri corsi, facendo in modo che rimangano fuori dal Paese”, lamenta López. Racconta poi un episodio particolare, quando qualcuno gli ha chiesto se i medici haitiani formati a Cuba abbiano valore per Haiti. “Non mi è piaciuta questa domanda. Ho suggerito di chiedere a canadesi, spagnoli, francesi, statunitensi, se i medici che essi mandano all’estero siano utili oppure no. Evidentemente sono medici validi, altrimenti non li manderebbero all’estero”, afferma in modo tassativo. Salute dove non c’era nulla Lorenzo Sommariba López ha presentato le iniziative del governo di Cuba ad Haiti, per mezzo dei suoi medici, negli ultimi tredici anni. Subito dopo il passaggio dell’uragano George, i primi cento medici cubani che sono arrivati ad Haiti hanno iniziato ad andare in luoghi dove mai era arrivata assistenza sanitaria, “per terra, per mare o per aria”. Sono luoghi difficili da raggiungere, ma loro hanno portato l’equipaggiamento sulle spalle e sono andati dove potevano essere utili. I cubani sono passati a vivere nelle case degli haitiani e hanno cominciato a insegnare alla popolazione misure di igiene e di
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Viva Haiti Lorenzo Sommariba López è il responsabile della Brigada médica cubana ad Haiti (foto Ermanno Allegri).
dove i medici hanno montato un ospedale da campo sotto una pianta di mango. La notte seguente è piovuto molto e tutto è stato inondato. “Volevamo andarcene dalla città, ma la popolazione ha bloccato le uscite. Un magistrato ha aperto una casa che era della famiglia Duvalier, e là ci siamo installati provvisoriamente, abbiamo adeguato la casa a centro di salute e fino ad oggi i cubani stanno ancora lavorando”. Il miracolo della cooperazione Lorenzo López sottolinea che Cuba lavora molto per mezzo di quella che chiama “triangolazione di cooperazione”. “Cuba è un Paese povero, ma ha risorse umane, e questo è il nostro forte”, evidenzia, mostrando l’immagine di un ospedale norvegese nella città di Gonaives, capitale del dipartimento di Artibonite, dove lavorano principalmente medici cubani. “I norvegesi hanno molto denaro, ma è difficile che i loro medici vengano a lavorare qui. Essi hanno montato l’ospedale e i cubani vi lavorano”. Il medico osserva che molti haitiani che frequentano l’ultimo anno di medicina a Cuba tornano al loro Paese per terminare gli studi come professori e anche per fare tirocinio in merito alla
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prevenzione delle malattie. Hanno prestato assistenza medica e distribuito farmaci gratuitamente. Queste prime comunità hanno poi fornito il primo gruppo di 132 giovani, con conoscenze della lingua spagnola, che sono andati a studiare medicina a Cuba. Hanno ottenuto l’attestato propedeutico al corso di medicina e hanno fatto esami di integrazione per riuscire a entrare nella facoltà di medicina già con alcune conoscenze. “Perché per studiare medicina è necessario conoscere la matematica, la chimica. Per esempio un biostatistico è un professionista con buone conoscenze in matematica, fa proiezioni, pronostici e ciò è parte della sua formazione come medico”, spiega López. Altro punto di interesse, sottolineato dal medico per mostrare che Cuba ha lavorato per superare le logiche dell’assistenzialismo, è rappresentato dalla caratteristica e dal focus scientifico delle azioni di aiuto. Tutti gli anni sono stati realizzati incontri scientifici a cui hanno partecipato cubani e haitiani, per un totale di circa centocinquanta delegati. I lavori vengono pubblicati in riviste, libri, e le conoscenze acquisite vengono trasmesse tra i medici. Il secondo passo dell’azione cubana, dopo l’azione umanitaria conseguente all’uragano George, ha riguardato l’assistenza medica secondaria negli ospedali dipartimentali haitiani. A queste strutture Cuba ha inviato chirurghi, radiologi, anestesisti, pediatri, ostetriche, specialisti in medicina intensiva… Nonostante le conquiste e i risultati, López si mostra, in alcuni momenti, un po’ deluso. Ci mostra l’immagine di un edificio abbandonato, in rovina: era una facoltà creata da Aristide per la formazione dei medici. Dopo il colpo di Stato, nel 2004, è stata chiusa e trasformata in una prigione. Dall’altro lato, altri fatti incoraggiano invece il medico. La Brigada sta diventando, ogni giorno, sempre più parte della vita del popolo haitiano. Tanto che, secondo ciò che racconta López, dopo il terremoto del 2010 molta gente colpita si è diretta nei quartieri dove vivevano i cubani, anche se là non c’erano unità di salute, in cerca di cure mediche. È stato necessario improvvisare strutture per poter effettuare operazioni chirurgiche. Già nel 2006 la Brigada médica cubana era presente in 102 dei 140 comuni in cui Haiti è suddivisa dal punto di vista politicoamministrativo. Un altro episodio riportato da López è riferito alla località di Carrefour, situata 7 km a ovest del centro di Port-au-Prince,
Dopo la catastrofe, come stiamo? Oltre all’assistenza medica, il governo cubano ha operato in progetti di infrastrutture per la salute (foto Brigada médica cubana).
cura di patologie presenti nel loro popolo. “Il medico haitiano, a Cuba, apprende a trattare il morbillo su un libro, qui egli apprende ad agire con i pazienti stessi. Si verificano ancora molti incidenti vascolari encefalici per causa di ipertensione e diabeti mal curati. Ossia, il Paese diventa uno scenario pratico per il termine degli studi”, aggiunge. Operazione Miracolo Il programma di cooperazione tra Cuba e Venezuela, chiamato Operazione Miracolo, merita un’attenzione particolare. Creato alla fine del 2005, il programma mira a eliminare la cecità nel continente sudamericano. La causa principale di cecità nella popolazione povera è la cataratta. López spiega come si sia iniziato con operazioni eseguite a Cuba per le persone più povere, e subito dopo si sia proseguito ad Haiti, dove è stato creato il primo centro oftalmologico dei Carabi. Le operazioni chirurgiche vengono eseguite gratuitamente, da personale altamente specializzato. Oltre al lavoro dei centri permanenti, vi sono medici che eseguono le operazioni spostandosi nelle varie comunità. Il risultato è che più di 54 mila haitiani sono già stati operati. “Anche i domenicani vengono qui per essere operati. Haitiani che vivono negli Stati Uniti vengono anche loro qui, solo per essere operati. Sono persone che non
possono pagare questa operazione negli Stati Uniti. Là ogni cittadino è responsabile per le cure mediche di cui ha bisogno. Chi non è cittadino, non ha diritto a nulla”, osserva. La collaborazione col Venezuela ha generato anche altri progetti nell’area della salute. Uno di questi riguarda l’installazione di ospedali di alto livello nelle comunità. La costruzione dei primi dieci è iniziata nel 2008. Nel dicembre 2009 cinque erano già conclusi, in luoghi dove prima non c’era nulla per assistere la popolazione. Gli altri sono stati completati in seguito, ma il terremoto del 12 gennaio 2010 ha paralizzato il progetto. López racconta che il primo ospedale da campo di Haiti è stato montato dai cubani. Salvare vite prima di tutto Subito dopo il sisma il governo cubano ha inviato una Brigada di medici e paramedici specializzati in assistenza in situazioni di catastrofe naturale ed epidemie, la Brigada Henry Reeve. López riferisce che al gruppo, durante il passaggio dell’uragano Katrina per il sud degli Stati Uniti, venne proibito di prestare aiuto al popolo statunitense dall’allora presidente Gorge W. Bush figlio. “Egli non ha permesso che cinquecento cubani andassero ad aiutare la popolazione, per la maggioranza nera, che vive nel sud degli Stati Uniti. Questa Brigada ha già prestato aiuto in
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giovani di ventisei Paesi. Il giorno 8 marzo 2010, la Brigada è arrivata a contare 1.712 collaboratori. Secondo quanto racconta il responsabile del gruppo, si è formato anche un gruppo di cinquantasei medici specialisti contro le epidemie. È arrivata inoltre quella che lui chiama “Brigada artística cubana”. Artisti famosi di Cuba si sono trasferiti ad Haiti per lavorare con i bambini orfani a seguito del terremoto, condividendo anche la vita nelle baracche. La fase di emergenza del terremoto è durata dal 12 gennaio al 30 aprile 2010. I cubani hanno curato quasi 350 mila pazienti in questo periodo; sono state fatte più di 8 mila operazioni chirurgiche; più di mille parti; 421 cesarei; e più di 70 mila pazienti sono stati curati dal servizio di riabilitazione. Anche le molte persone amputate hanno potuto avere protesi prodotte a Cuba. Oggi il progetto è portato avanti in collaborazione con Brasile e Venezuela. “La Brigada lavora con tutti quelli che desiderano collaborare, senza distinzione, non politicizziamo la cooperazione perché la popolazione non ha pregiudizi”, afferma il medico. Egli evidenzia che, dopo essersi occupato di assistenza medica, il governo cubano è passato a operare anche in progetti di infrastrutture nel settore della salute. In cooperazione con altri
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molte catastrofi nel mondo. Per esempio, si è resa presente in occasione del terremoto in Paksitan”, sottolinea il medico. Lo stesso giorno 12 gennaio i cubani cominciarono a montare sei nuovi ospedali da campo, climatizzati, con sale operatorie, terapia intensiva, dotati di farmaci e di personale formato in tutte le specialità. I cubani sono poi passati a lavorare negli ospedali haitiani, pur essendo privati, perché “era il momento di salvare delle vite”. Con un discorso caratterizzato da molti riferimenti all’ex presidente cubano Fidel Castro, il capo del gruppo medico ha dato rilievo all’iniziativa del suo governo che ha inviato giovani laureati alla Scuola latinoamericana di medicina, Elam, a lavorare ad Haiti dopo il terremoto. La Elam è stata inaugurata in occasione della Conferenza ibero-americana nel 1999, con l’obiettivo di formare medici nei Paesi poveri dell’America Latina. Inizialmente si trattava solo di giovani latinoamericani, ma poi furono inclusi africani e anche statunitensi. López informa che la Brigada cubana conta, attualmente, su due medici statunitensi, ma che ce ne sono già stati altri nei momenti più duri della catastrofe. Il giorno del sisma, 331 professionisti inviati da Cuba si trovavano in suolo haitiano, nessuno è morto, e due soli hanno riportato ferite lievi. Tra loro, c’erano
Dopo la catastrofe, come stiamo?
Paesi, ha iniziato la costruzione di trenta ospedali in tutto il territorio haitiano. Di questi, già diciassette sono conclusi, anche tramite ampliamento di piccole strutture pre-esistenti. Tredici piccoli centri di salute sono stati già costruiti. Questo programma è stato discusso e approvato, insieme al Venezuela e ai Paesi dell’Alba (Alianza bolivariana para América Latina y el Caribe), a Caracas. Durante la Conferenza mondiale per Haiti, realizzata nel 2010 a Santo Domingo, si sono uniti al progetto altri Paesi, come il Brasile, la Norvegia, la Namibia e l’Australia. Il progetto prevede anche il montaggio di trenta cliniche di riabilitazione integrale. Subito dopo il sisma, i medici cubani hanno montato cinque cliniche a Port-au-Prince, ma c’erano persone in stato di necessità in tutto il Paese. La soluzione allora fu di ampliare il numero di cliniche fino a trenta, che stanno tutt’ora funzionando. Già sono stati riabilitati 27 mila pazienti. Un’altra azione di eccellenza della Brigada cubana è rappresentata dalla creazione di una rete di vigilanza epidemiologica. È stato per mezzo di questa rete che gli scienziati cubani hanno scoperto che c’era il colera ad Haiti, il giorno 15 ottobre 2010, a Mirebalais, circa 60 km a nordest di Port-au-Prince.
La fatalità del colera Il giorno 18 ottobre 2010 il laboratorio haitiano ha analizzato il rapporto di Cuba che rilevava la presenza del colera. Sei giorni dopo il presidente Préval ha confermato al mondo che ad Haiti c’era il colera. “Questo merita approvazione. La maggior parte delle volte non si dà conferma ufficiale tanto rapidamente di un’epidemia in un Paese per la necessità di controllare gli eventuali effetti negativi di un simile annuncio, ma Haiti non aveva niente da perdere. Ritardare l’annuncio avrebbe potuto compromettere la situazione ancora di più”, osserva López. Secondo il suo racconto, dopo la scoperta i cubani si sono attrezzati rapidamente in merito al trattamento del colera, e hanno cominciato a montare strutture per curare i malati. Il personale della penisola e del Nordest del Paese, luoghi che non hanno presentato casi di colera, fu chiamato a rinforzare le unità del Centronord. Con l’arrivo dell’uragano Thomaz, Haiti è stata inondata ed è accaduto quel che tutti temevano, la diffusione della malattia nel Paese. Il colera è diventato allora un problema di sicurezza nazionale e Cuba ha inviato nuovamente personale specializzato in
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Viva Haiti ci sono luoghi difficili da raggiungere. È un Paese montagnoso, molto popolato, senza unità di salute nelle zone rurali, ma il colera arrivava in tutte le zone e le persone potevano morire per mancanza di assistenza. Allora, prendemmo la decisione, proposta dal nostro comandante in capo [Fidel Castro], di creare i gruppi di ricerca”, ricorda López. Erano gruppi formati da cinque/sei persone, con un capo e un medico haitiano, un medico della Brigada cubana, un’infermiera, oltre a zaini, alimenti per la sopravvivenza e farmaci. Secondo il suo racconto, tutto il territorio del Paese è stato percorso. Questi gruppi insegnavano inoltre alle persone come prevenire la malattia. Finché Haiti sarà nel bisogno Ci sono ancora molti ostacoli che la Brigada cubana deve superare ad Haiti. A causa del terremoto erano rimasti pochi depositi di provviste nel Paese. È stato necessario costruire una rete di magazzini per rifornire le unità del programma cubano. “E dato che tutte queste unità hanno equipaggiamenti medici, abbiamo creato un laboratorio di elettromedicina per fare la manutenzione delle apparecchiature. Adesso, Cuba ha trenta ingegneri biomedici che lavorano ad Haiti, in quanto il Paese dispone di un solo ingegnere biomedico. Ma stiamo formando trentuno giovani haitiani come ingegneri biomedici, qui nella stessa Haiti”. Il bilancio delle attività della Brigada medica cubana ad Haiti, presentato da Lorenzo Sommariba López, è sorprendente. In più di tredici anni, nel Paese sono stati realizzati 18 milioni di interventi sanitari; più di 138 mila parti; più di 320 mila interventi chirurgici; circa 55 mila haitiani sono stati operati agli occhi. “Abbiamo salvato 312 mila vite umane, una cifra molto vicina a quella delle vite perse nel terremoto”. “Quanto Cuba rimarrà ad Haiti? Bene, credo di aver già risposto. Il presidente di Cuba, generale Raúl Castro, assicura che la collaborazione cubana è uno sforzo modesto, e rimarrà ad Haiti il tempo che sarà necessario, se il governo di questo Paese lo desidera. Per Cuba, un Paese stretto dall’embargo, non ci sono risorse che avanzano. Là manca di tutto, ma siamo disposti a condividere la nostra povertà con chi ha meno, e in primo luogo, oggi, con chi più ha bisogno nel continente”, ha concluso il capo della Brigada.
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situazione di catastrofi e di epidemie. La sottosegretaria agli aiuti umanitari dell’Onu, Valerie Amos, in quell’occasione ha fatto appello alla comunità mondiale perché il Paese aveva bisogno di 350 medici e infermieri. La Brigada è stata così rinforzata da un contingente di 350 medici, infermieri e altri professionisti. In quel momento c’erano ad Haiti più di 1.200 professionisti cubani della salute. “Siamo arrivati ad avere 1.349 collaboratori, dei quali 134 giovani di 22 paesi, per combattere il colera. Essi sono venuti da Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, El Salvador, Stati Uniti, Guatemala, Guinea-Bissau, Honduras, Messico, Nicaragua, Paraguay, Panama, Perù, Repubblica Dominicana, Arabia Saudita, Mali, Nigeria, Brasile, Uruguay e Repubblica Democratica del Congo”, enfatizza López. La Brigada ha montato 44 unità di cura del colera (Utc) e 34 centri di cura del colera (Ctc) in varie zone del Paese. L’equipe medica cubana è riuscita a curare 77.354 casi di colera fino ad aprile 2012. Il ministero della Salute ha registrato più di mezzo milione di casi, con una mortalità di 1,36 casi per mille abitanti. La mortalità nei casi trattati dalla Brigada, secondo López, è di quattro volte inferiore. Oltre alle unità di trattamento fisse, sono stati creati gruppi di ricerca che curavano casi in tutte le aree del Paese. “Ad Haiti
SovranitĂ alimentare: un territorio agricolo in agonia
Foto Ermanno Allegri
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Capitolo 3
Phares Jerôme
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia Nonostante la debolezza del territorio agricolo haitiano, l’agricoltura rappresenta approssimativamente il 25% del Pil e il 50% degli occupati. In tutto il Paese si contano 85 mila ettari irrigati su un potenziale di 150 mila, secondo il Pdna (Post Disaster Needs Assessment Valutazione delle necessità post-calamità); prima del sisma del 12 gennaio 2010 Haiti già era uno dei Paesi delle Americhe più colpito dalla denutrizione e dalla fame. Nonostante gli aiuti internazionali, circa 3,8 milioni di persone, ossia il 40% delle famiglie, vivevano nella miseria. Questo si traduce nell’incapacità di garantire il necessario per un’alimentazione di base. Il 30% dei bambini soffre di denutrizione cronica, il che rappresenta, secondo i calcoli, un costo economico di almeno 1,2 miliardi di dollari, ovvero il 30% del Pil.
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La fame e la denutrizione che colpiscono buona parte della popolazione sono conseguenze della mancanza di programmazione, su larga scala, in relazione all’accesso al cibo e alla sicurezza alimentare. Gli organi pubblici responsabili di questo settore faticano a realizzare il loro compito. “L’insicurezza alimentare, insieme alla diminuzione del potere di acquisto, alle insufficienze del settore produttivo e alla precarietà delle fonti di reddito, aumentano la vulnerabilità delle famiglie in relazione agli shock economici e sociali”, dice il Pdna. I programmi Aba grangou e Ti manman cheri, lanciati dal presidente Michel Martelly, non stanno ancora dando i risultati sperati. La catastrofe del gennaio 2010 non ha risparmiato il settore agricolo. Secondo il quadro presentato dal Pdna relativo a questo settore, i danni e gli smottamenti di terra hanno distrutto i sistemi di irrigazione che coprivano una superficie di 3.500 ettari, così come i centri di stoccaggio-conservazione e lavorazione nelle zone colpite. Anche gli zuccherifici di Darbonne e i palazzi amministrativi e tecnici del ministero dell’Agricoltura sono stati distrutti. Inoltre, quasi un terzo delle famiglie ha perso le provviste conservate per la propria sussistenza, valutate 12 milioni di dollari. In tutto, 600 mila persone hanno abbandonato le zone colpite dalla catastrofe.
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia rente, e, oltre a questa instabilità politica, la problematicità dell’accesso alle risorse finanziarie. Per quanto riguarda il settore pubblico, poche risorse sono state dedicate al rinforzo della capacità produttiva economica negli ultimi decenni. Nel settore privato le risorse finanziarie, attraverso il credito distribuito dal sistema bancario, sono state essenzialmente concesse per attività commerciali a danno dei settori produttivi, tra i quali quello dell’agricoltura. Problemi strutturali
I circa 10 milioni di abitanti di Haiti vivono in condizioni di autosostenibilità, come è già accaduto in passato, tramite l’agricoltura di sussistenza. Nella foto, ST-Naré Philefranp, portavoce del Movimento de camponenses Papaye (Mpp), supervisiona un vivaio di verdura (foto Phares Jerôme).
Non c’è dubbio che la tragedia abbia aggravato i problemi strutturali che il settore agricolo affronta e abbia ridotto ancora di più la capacità del governo di affrontarli. L’incapacità di risolvere i problemi relativi alle necessità alimentari, in quantità e qualità, colpisce particolarmente e in modo inquietante le donne incinte, quelle che allattano e i bambini più piccoli. In alcuni manuali scolastici si parla di Haiti come di un Paese essenzialmente agricolo. Considerando la situazione attuale del settore agricolo, alcuni arrivano a pensare di togliere questa frase dai testi di geografia, dato che il Paese non riesce più a nutrire la sua popolazione. Già nel 2007, secondo il Coordinamento nazionale di sicurezza alimentare (Cnsa), il 52% dell’alimentazione disponibile ad Haiti veniva importato. Eppure, nel passato, Haiti era un Paese autosufficiente in materia alimentare. “L’economia del Paese si basava sull’esportazione di prodotti alimentari agricoli, come il caffè, il cacao, lo zucchero. La produzione di questi alimenti ha avuto un declino drastico durante gli anni ’80”, dice Chavannes Jean-Batiste, leader del movimento Peasant Papaye (Mpp), una delle più importanti organizzazioni di agricoltori del Paese. I fattori che contrastano lo sviluppo dell’economia ad Haiti sono la mancanza di investimenti nel settore, la crisi politica ricor-
L’assenza di credito, la mancanza di investimenti pubblici, la concorrenza sleale dei prodotti stranieri sono alcuni dei problemi che il settore agricolo deve affrontare. Dopo decenni di autosufficienza, Haiti è oggi un Paese dipendente dall’estero nel settore alimentare. Questi problemi esistevano anche prima del sisma del 12 gennaio 2010. Con circa 10 milioni di abitanti, Haiti costituisce un grande mercato per i suoi vicini, tra i quali la Repubblica Dominicana. “Le importazioni corrispondevano al 48% della domanda globale nel 2011”, afferma l’economista Frédéric Gérald Chéry, nel suo libro del 2008 L’economia e i suoi fondamenti cognitivi ad Haiti. Egli afferma che la domanda di riso ad Haiti arricchisce il contadino dell’Asia o quello americano; la domanda di tessili arricchisce l’operaio cinese; e quella di uova i fazendeiros domenicani. Secondo i risultati dell’Inchiesta nazionale sulla sicurezza alimentare, realizzata dalla Cnsa, l’80% del consumo nazionale di prodotti come riso, uova e pollame è importato, così come il 65% dei prodotti derivati dal latte. Eppure, nel 1981, l’importazione di prodotti alimentari non raggiungeva il 19%. Non ci sono dubbi che il problema si è aggravato con il passare degli anni. “Più di 400 mila tonnellate di riso, valutate 240 milioni di dollari, sono importate dagli haitiani ogni anno”, denuncia il presidente della Federazione nazionale dei produttori di riso di Haiti (Fenaprih), Pierre Richard Santard. Questo fa di Haiti il terzo importatore di riso, dopo Messico e Giappone. La liberalizzazione del mercato, a partire dal 1986, ne è la principale causa. Tuttavia, nonostante la necessità di incentivare i piccoli agricoltori, uno studio della Cnsa evidenzia una questione persino imbarazzante in relazione alla ripresa dell’agricoltura haitiana: la piccola dimensione dei terreni. Questi terreni di piccole dimensioni, secondo il Consiglio di sicurezza alimentare, restringono
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Viva Haiti
Haiti è un Paese costituito dal 75% di montagne e dove la copertura forestale è attualmente meno del 2%. Si tratta di un Paese in via di desertificazione accelerata. Nella foto, parte della strada che porta a Fond-Conchon, in Grand’Anse (foto Phares Jerôme).
stipulano accordi per lavorare come mezzadri, cioè per lavorare i terreni di proprietà altrui, rinunciando alla metà del raccolto. Chavannes Jean-Baptiste afferma che non esiste una politica di produzione agricola da parte dello Stato. “L’agricoltura beneficia di circa il 4% del reddito nazionale, sufficiente a pagare solo il suo funzionamento”, denuncia. “Non c’è praticamente nessun investimento nel settore agricolo. I contadini sono abbandonati alla loro sorte”. Il degrado ambientale è un altro fattore che contribuisce alla diminuzione della produzione agricola. Il suolo, secondo il leader del Mpp, viene distrutto dall’erosione che porta con sé milioni di tonnellate di terreno arabile, che a sua volta danneggia l’ambiente marino, complicando la situazione dei piccoli pescatori. “La situazione è sempre più catastrofica, se si pensa che Haiti è un Paese costituito dal 75% di montagne e che la copertura forestale è attualmente di meno del 2%. Si tratta di un Paese in via di desertificazione accelerata”, denuncia. Chavannes Jean-Baptiste enumera altri ostacoli allo sviluppo del settore agricolo, come il problema delle terre disabitate, caratterizzate dall’assenza di titoli di proprietà e di registrazioni catastali. “Molti contadini non hanno nemmeno accesso alla terra. Quelli che hanno accesso a un pezzo di terra nella grande maggioranza dei casi sono costretti a vivere nell’insicurezza: sanno che possono essere sloggiati in qualsiasi momento”, afferma indignato. A questo si devono aggiungere l’assenza di credito agricolo e di assistenza tecnica, la debolezza delle infrastrutture agricole, l’insicurezza dei prezzi e la drastica riduzione della produttività. Il disboscamento è un altro grande problema che affligge il settore agricolo. Secondo uno studio del ministero dell’Economia e delle finanze, circa 30 milioni di alberi vengono abbattuti nel Paese ogni anno. Questo rende il Paese molto vulnerabile alle catastrofi naturali. E, a ogni catastrofe, enormi danni vengono registrati nel settore agricolo. Parallelamente, le terre disponibili per l’agricoltura si riducono sempre più. Altra conseguenza del disboscamento è la diminuzione della quantità d’acqua disponibile per l’irrigazione. Finora non esiste nessuna politica di rimboschimento, e nessuna politica in materia di energia mirata alla riduzione del consumo di carbone da legna, che garantisce intorno al 75% del fabbisogno di energia usata nella preparazione di alimenti in
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le possibilità di sostituzione della mano d’opera con equipaggiamenti meccanici e portano a un basso livello di produttività per mano d’opera unitaria. Secondo la Cnsa gli appezzamenti coltivati dovrebbero essere costituiti in media da 2,35 di questi piccoli terreni che misurano più o meno 0,62 ettari, ovvero da 1,46 ettari per appezzamento, cosa che metterebbe in crisi l’agricoltura familiare. “La piccola dimensione dei terreni costituisce una delle imbarazzanti questioni dell’agricoltura haitiana, nella misura in cui essa restringe le possibilità di sostituzione della mano d’opera con equipaggiamenti meccanici. Questo la costringe a un basso livello di produttività per unità di mano d’opera e, di conseguenza, a una bassa rendita familiare”, evidenzia la relazione; che allo stesso tempo lamenta il fatto che le grandi proprietà appartengono, frequentemente, a famiglie ricche che abitano nelle grandi città del Paese o all’estero. Il problema è che, nel frattempo, niente è stato fatto. Molti contadini, per sopravvivere,
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia
Adriana Santiago
Caffè creolo: un prodotto conteso L’inaugurazione delle nuove installazioni dell’Istituto nazionale del caffè di Haiti (Incah), il 12 ottobre 2012, è stata un segnale del valore che il governo haitiano ha attribuito ai suoi produttori di caffè. È ancora poco rispetto a quello di cui hanno bisogno, ma è un inizio. Questo ha rappresentato un ulteriore passo nel cammino intrapreso nel novembre del 2011, a Kenskoff, con la prima Conferenza internazionale Cafè Haiti, per discutere forme di promozione e sviluppo dell’industria del caffè all’estero. L’Incah è un organismo politico indipendente, senza fini di lucro, creato da differenti operatori del settore, principalmente dai produttori delle associazioni e organizzazioni non governative, che lavorano per la crescita del settore del caffè ad Haiti, sotto la supervisione del ministero dell’Agricoltura, delle risorse naturali e dello sviluppo rurale. L’Istituto ha l’obiettivo di contribuire allo sviluppo dell’industria del caffè, garantendo un miglioramento delle condizioni di vita delle persone coinvolte. Il ministro Thomas Jacques, nel discorso di inaugurazione della nuova sede, ha riconosciuto che il settore può migliorare e potrà diventare ancora più competitivo, dalla produzione alla commercializzazione. Il coordinatore esecutivo dell’Incah, Jobert C. Angrand, crede in un successo dei produttori di caffè, dato che il settore si auto-organizza dagli anni ’90, ed è la prima volta nella storia che il governo promuove azioni combinate di protezione dell’ambiente e di incentivi economici ai fini di promuovere azioni congiunte nel settore del caffè. Recocarno è eccellenza Tra le varie cooperative quella che si distingue, principalmente per il volume delle esportazioni, è la Rete di cooperative del Nord (Recocarno), che ha sede nella città di Cabo Haitia-
no, situata a 250 km a nord di Port-au-Prince. Nelle regioni del Nord e Nordest del Paese sono sparsi 6.500 produttori che non arrivano a due ettari. Gli organizzatori, come il presidente della Recocarno, Aurèle Décimus, lamentano l’impossibilità di aumentare la produzione individuale a causa delle dimensioni delle proprietà. Comparato ai colleghi, egli è però quasi un “latifondista”, con sette ettari di terra sulla frontiera con la Repubblica Dominicana, dove lavora con i suoi dieci figli. Décimus è un po’ un’eccezione, ma non si può parlare ancora di una vera e propria industria agricola. Da un altro punto di vista, però, non si può dimenticare che la piccola dimensione delle terre rappresenta un incentivo naturale all’agricoltura familiare, indicata dalla Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) come una soluzione nella prospettiva della sovranità alimentare. Il caffè è esportato in larga scala attraverso la Recocarno Trading Company Twin, che lavora per incentivare la produzione di caffè, per il marketing, per rafforzare l’organizzazione e per la diversificazione dei prodotti, dato che ogni regione ha una diversa varietà di caffè, aumentando così il valore dell’offerta. Solo l’Inghilterra ne importa fino a otto container all’anno, a un prezzo che varia in accordo con l’andamento del mercato internazionale, ma anche il Canada e la Francia sono buoni acquirenti. Negli Usa, uno dei principali Paesi importatori, l’Alltech Café Citadelle, un caffè arabico raccolto manualmente, biologico, coltivato all’ombra nelle terre intorno alla fortezza Citadelle Laferriére e che ha ottenuto la certificazione internazionale (Fair-Trade CertifiedTM), è venduto a 12 dollari al kg (12 oz). In Brasile un caffè comune costa fino a 2 dollari. La Recocarno, fondata nel 1997, è la cooperativa di caffè più antica di Haiti e dal 1998, con aiuto dell’Ong Oxfam, ha ottenuto anche la certificazione di commer-
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Il caffé creolo dai chicchi arabici è piantato all’ombra e prodotto in modo completamente artigianale (foto Phares Jerôme).
Standard internazionale Per conservare alti standard internazionali è necessario l’aiuto delle Ong straniere nella preparazione dei vivai e nella distribuzione delle sementi migliori. Sono 5 milioni di bottigliette che vanno e vengono, piene di sementi selezionate, sotto forma di prestito. Così, la Recocarno supervisiona tutto il ciclo produttivo, per mantenere lo standard e non perdere la certificazione. Il controllo viene realizzato attraverso otto cooperative in sei comuni, nei due distretti Nord e Nordest, da circa cinquanta funzionari della stessa rete di cooperative. Grazie alla specificità di ogni regione, il sapore del caffè cambia in base alla sua provenienza. Ci sono differenze tra i caffè piantati a Dondon, Plaisance o Mont-Organisé. Persino il trasporto incide sull’aroma, per questo tutto il processo è molto
curato, dal momento in cui il caffè viene separato da una macchina, fermentato, lavato e seccato al sole. Nessun chicco che non sia perfetto può entrare nei lotti per l’esportazione. Il “chicco imperfetto” però è venduto nel commercio locale a prezzi ancora molto competitivi. La cura nella coltivazione di caffè, inoltre, porta un beneficio importante al Paese, che subisce un forte disboscamento e, di conseguenza, è esposto ad erosioni. Il caffè generalmente cresce sotto gli alberi e così la coltivazione di caffè nel Nord e nel Nordest ha combattuto il disboscamento, anche grazie alla reintroduzione di un albero che gli haitiani chiamano Sament, che protegge il suolo dall’erosione e garantisce ombra al caffè. “È grazie alla presenza dei nostri affiliati in differenti municipi dei dipartimenti del Nord e del Nordest che alcuni alberi ancora esistono in queste zone”, ha ricordato il presidente della Recocarno, Aurèle Décimus, in un’intervista a “Le Nouvelliste”, il principale e più antico quotidiano di Haiti. Per questi e altri aspetti, come il rafforzamento economico delle donne, la Recocarno è stata premiata nel 2003 con il premio René Dumont, che valorizza i contributi allo sviluppo rurale dei Paesi del Sud.
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cio equo della Flo (Fairtrade Labelling Organization), un’impresa indipendente di certificazione internazionale. Questo aumenta molto il valore del caffè, ma per mantenere questa qualità sono necessarie infinite cure.
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia città. Oggi, anche nelle stesse zone rurali, la legna per cucinare è sempre più rara. L’agricoltura è diventata così un’attività estremamente vulnerabile. Nella stagione secca gli agricoltori affrontano la siccità, e nella stagione piovosa le inondazioni. I problemi del settore agricolo haitiano sono quasi gli stessi in tutte le regioni del Paese.
Le montagne disboscate nei secoli subiscono una forte erosione (foto Ermanno Allegri).
Léogâne ha nostalgia della sua canna da zucchero Le pianure della comunità di Léogâne, situata a quasi 53 km da Port-au-Prince, stanno subendo un processo di urbanizzazione a danno della produzione agricola. Questo fenomeno, iniziato già da alcuni anni, ha provocato la sparizione di un buon numero di piantagioni di canna da zucchero. “Per vent’anni, Chatuley (una zona di Léogâne) è stata ricoperta da una vasta piantagione di canna da zucchero. Si circolava con difficoltà per gli stretti corridoi dei campi della piantagione. Oggi questa località è tanto popolata che si sta trasformando in una favela”, constata Civil Melour, presidente del Movimento degli agricoltori di Léogâne. Nella comunità di Léogâne rimane uno dei rari, se non l’unico, zuccherificio. Costruito nel 1983, lo zuccherificio è rimasto chiuso per un certo periodo, prima di essere rimesso in funzione dall’allora presidente René Préval nel corso del suo primo mandato (1997-2001). All’inizio Léogâne produceva canna da zucchero sufficiente per rifornire lo zuccherificio. Centinaia di distillerie erano attive nella produzione di alcool, in quantità tale da rifornire il mercato di Léogâne e quelli di altre città della provincia. Cosa che oggi non accade più. “La fabbrica funziona lentamente dopo la sua riapertura”, segnala l’agronomo Martenot-Nels Narcius, capo del servizio industriale della fabbrica. Il terremoto del 12 gennaio 2010 ha inferto un colpo mortale a quel che resta del settore agricolo di Léogâne. Le piantagioni di canna da zucchero, quasi 70 ettari di terra, a Santo e Sarbousse sono state devastate dopo il terremoto. “Le piantagioni sono state bruciate dalla popolazione in cerca di rifugio dopo la catastrofe”, spiega l’agronomo. Secondo Narcius, le terre di proprietà dello zuccherificio di Darbonne erano essenzialmente riservate alla coltura della canna da zucchero e alla produzione di nuove varietà di canna in sostituzione delle prime che, dopo dodici anni, erano diventate meno redditizie. Attualmente questi 70 ettari di terra sono stati
divisi in lotti e urbanizzati, riducendo considerevolmente la produzione di canna per far funzionare lo zuccherificio. Rifugi provvisori, disseminati qui e là o organizzati in piccoli agglomerati urbani, vi sono stati costruiti dalle Ong per le vittime del sisma. “Lo zuccherificio funziona in modo incostante per mancanza di materia prima”, lamenta Martenot-Nels Narcius. Come molti degli abitanti di Léogâne, il responsabile del servizio industriale dello zuccherificio di Darbonne teme che le terre destinate alla produzione di canna, la base economica di Léogâne, vengano completamente occupate da costruzioni nel giro di alcuni anni. Afferma che la canna da zucchero è una coltura redditizia perché non necessita di molte cure. “Distruggere la produzione di canna è rovinare l’economia della comunità”. Si constata, purtroppo, che niente è stato fatto per recuperare le terre occupate dalle vittime del sisma del 2010. La comunità di Léogâne, conosciuta per la sua coltivazione di canna da zucchero, la sua produzione di zucchero e il suo liquore Clarin, è divisa in tredici sezioni amministrative comunitarie, delle quali tre sono localizzate nelle pianure e dieci nelle terre montane. Fino agli anni ’80 Léogâne era una zona essenzialmente agricola.
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In difesa del riso nazionale Artibonite, il secondo dipartimento del Paese per popolazione, è il primo produttore nazionale di cereali, in particolare di riso. Più di tre quarti della produzione nazionale di riso, ossia
La varietà delle coltivazioni, principalmente nel settore della frutticoltura, è la scommessa della maggior parte dei programmi che investono sulla sostenibilità per Haiti (foto Ermanno Allegri).
l’80%, proviene dalle vaste pianure di questo dipartimento. Molti affermano che il dipartimento di Artibonite potrebbe da solo produrre le 400 mila tonnellate di riso che la popolazione haitiana consuma ogni anno. Come nel resto del Paese, gli agricoltori di Artibonite si sono confrontati con molti problemi, principalmente la concorrenza con i prodotti importati, la liberalizzazione del mercato, i rischi di inondazione, le perdite del raccolto nelle zone di produzione e la diminuzione degli spazi coltivabili. “Non c’è investimento sufficiente da parte dello Stato per appoggiare la produzione di riso di Artibonite”, lamenta Maria Melisena Robert, responsabile del Movimento di aiuto alle donne di Liancourt Payen (Maflpv). Robert sollecita più investimenti alle infrastrutture agricole. Isnard Louis, responsabile dell’Associazione dei piantatori per lo sviluppo dell’agricoltura ad Artibonite (Apdal), conferma che gli agricoltori sono stati abbandonati alla propria sorte.
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La fama di questa zona risale ai tempi della colonia di Santo Domingo, quando Haiti era il territorio francese più prospero. Oltre alla canna da zucchero e alla banana, Léogâne era conosciuta per la coltivazione di altri alimenti. Vi si coltivavano cereali e legumi (riso, miglio, fagioli), radici, tuberi (manioca, patata dolce) e frutta (mango, avocado). Ciò rendeva la comunità una delle più produttive del Paese. “La comunità produceva con abbondanza per nutrire bene la sua popolazione”, ricorda Jean Edward Théagène, segretario generale dell’Organizzazione dei cittadini uniti per la ricostruzione di Léogâne (Curl). “Oggi la produzione agricola si sta riducendo considerevolmente”, lamenta Théagène. “Léogâne, come il resto del Paese, dipende dall’estero”. Per i responsabili di alcune organizzazioni e istituzioni che lavorano nell’agricoltura a Léogâne l’assenza di un piano nazionale di urbanizzazione e l’irresponsabilità dello Stato nella gestione del settore agricolo sono le maggiori cause della “discesa agli inferi” in questo settore. Jean Edward Théagène dichiara: “Gli agricoltori sono stati consegnati alla propria sorte”. Anch’egli conferma ciò che sta diventando un tema ricorrente. E, per una ragione ben conosciuta, i contadini abbandonano le proprie abitazioni per approfittare dei vantaggi delle città, dove i servizi di base (salute, educazione e svago) sono disponibili. Nel 2010 la comunità di Léogâne, terribilmente colpita dal sisma, si è trasformata in luogo di arrivo delle Ong internazionali. Questo ha contribuito a fare in modo che i giovani delle zone rurali fossero sempre più attratti dalle città. Il prefetto aggiunto di Léogâne, Wilson Saint, denuncia che diverse costruzioni continuano a essere realizzate in modo anarchico nella comunità, e che l’espansione della città viene fatta su terre fertili. Egli afferma che è indispensabile un piano di urbanizzazione nazionale, che identifichi le terre agricole, gli spazi riservati, le proprietà dello Stato e le zone residenziali, come possibile soluzione per attenuare il problema. Saint denuncia la mancanza di coesione e di coordinamento tra le azioni dello Stato e quelle dei Comuni, che devono essere un prolungamento dello Stato nelle comunità.
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia “Abbiamo ricevuto aiuto solo dall’Oxfam”, dice. Egli crede che Artibonite potrebbe produrre molto più riso se le terre venissero irrigate regolarmente o se gli agricoltori avessero a disposizione i necessari equipaggiamenti agricoli. Nonostante i problemi, gli agricoltori di Artibonite non si scoraggiano. Hanno creato, nel 2001, la Rete delle associazioni cooperative per la commercializzazione e la produzione agricola della Bassa Artibonite (Racpaba), prima di strutturare nel 2012 la Federazione nazionale dei produttori di riso di Haiti (Fenaprih) per difendere i loro diritti. È importante anche notare che Artibonite è uno dei pochi dipartimenti geografici del Paese a disporre di un proprio organismo di sviluppo rurale, l’Organismo di sviluppo della valle di Artibonite (Odva). “È un peccato che questa istituzione non svolga il suo ruolo di reclutamento di piantatori”, chiarisce Isnard Louis. Da dieci anni i produttori di riso di Artibonite ricevono il tutoraggio dell’organizzazione internazionale Oxfam, che investe in tecnologia agricola, ed è questo soprattutto che qui manca ai produttori. “Durante gli ultimi quattro anni ci sono stati molti investimenti, pubblici e non, nella produzione di riso”, dice Yolette Etienne, direttrice del programma Oxfam ad Haiti. E prosegue: “La sola Oxfam ha investito sei milioni di dollari in tre anni per la ripresa del settore agricolo, dei quali tre in riso. Questo ha permesso, in pratica, di raddoppiare la produzione di riso a livello del dipartimento”, informa soddisfatta. “La produttività, in alcune zone, è passata da 2,5 a 4,5 tonnellate”. Tra le misure che hanno portato all’aumento della produzione di riso ad Artibonite risalta la sovvenzione di concimi, iniziata nel dicembre 2008, da parte dello Stato haitiano. “Il livello fisso della sovvenzione dello Stato è importante, nell’ordine dell’80%. In conseguenza, il consumo di concimi è aumentato da 15 mila tonnellate, nel 2008, a 45 mila nel 2010”, secondo le informazioni della Cnsa. Entro la fine di agosto 2011 il governo haitiano aveva distribuito 17.400 tonnellate di concimi contro le 32 mila tonnellate nello stesso periodo del 2010. Eppure alcuni responsabili delle organizzazioni di contadini pensano che l’elevato prezzo del concime sia uno dei maggiori problemi che gli agricoltori affrontano. “Lo Stato deve mettere il concime a disposizione degli agricoltori”, afferma Dessous Carnine, responsabile dell’Organizzazione per la crescita delle donne haitiane che sta guadagnando forza politica nel dipartimento di Artibonite. Questo perché, spesso, il concime sovvenzionato
Piantagioni di riso nella regione di Artibonite (foto Ermanno Allegri).
dal governo viene raccolto dai grandi commercianti o dai politici per essere venduto a prezzo elevato sul mercato. L’Oxfam interviene a differenti livelli della catena agricola, nella produzione, nella coltivazione e nella commercializzazione. Il tutto avviene, secondo Yolette Etienne, di comune accordo col governo, tanto a livello nazionale quanto a livello locale. A Dubuisson, una località di Artibonite, gli agricoltori hanno potuto, dopo cinque anni difficili, ottenere dei buoni risultati dalla coltivazione dei campi. Il sistema di irrigazione della località, che misura circa 9 mila metri e irriga approssimativamente cento ettari, è stato rimesso in funzione grazie a un finanziamento dell’Oxfam. “Questo ha permesso un aumento della produzione di riso e di altre colture nella località”, informa, contento, Cebé Augustin, coordinatore della Oad (Organizasyon ayisyèn pou developman - Organizzazione haitiana dello sviluppo), aggiungendo che “anche i canali secondari sono stati puliti”. Grazie a un programma di appoggio alla produzione e alla commercializzazione di riso nella valle di Artibonite, l’Unione Eu-
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Riso sul ciglio della strada
Il riso creolo, posto a seccare ai lati della strada, viene venduto a un prezzo molto alto perché è diventato una leccornia rara nel Paese (foto Ermanno Allegri).
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Il riso haitiano è caro. In qualsiasi luogo del mondo, e soprattutto ad Haiti. Un bene raro sulla tavola della gente comune del Paese. Grazie agli innumerevoli sussidi, il riso statunitense riesce ad arrivare a Port-au-Prince a prezzi persino più bassi del costo di produzione. Così, la coltivazione e la commercializzazione del riso hanno smesso di essere una delle fonti di reddito da esportazione del Paese, per trasformarsi in un articolo di lusso per il commercio locale. Il piatto tipico, il labì, è riso con yon yon (una specie di fungo), servito con aragosta, e costa una piccola fortuna per gli standard locali. E non a causa dell’aragosta, che sarebbe un articolo caro in qualsiasi luogo del mondo. Il riso stesso è caro, a volte, anche più dell’aragosta. Così come il pollo locale, il riso haitiano può arrivare a costare il doppio di quello importato. Il pollo fritto per uno straniero è tutto uguale, ma agli haitiani piace mangiarlo (ed è una specialità locale) con contorno di “banane con la buccia” tagliate a rondelle e fritte, come se fossero patate. È proprio una delizia. È impossibile non notare con stupore sul ciglio della strada, tornando da Cabo Haitiano, tutto quel riso che si secca al sole su un telo sottile. Ci fermiamo, ovviamente. “Lo vendete?”, chiediamo. “Certo, è in vendita”, risponde allegramente la commerciante. Ci spiega che il riso è piantato nelle vicinanze della città dalle famiglie dei contadini e venduto a quelli che passano in auto per strada. Buoni affari, sempre. Sì, il prezzo è il doppio del riso importato. È facile dedurre che, se venisse incentivata questa produzione, il riso risolleverebbe facilmente l’economia del Paese che si base sull’agricoltura familiare. Perché è saporito, come l’équipe dell’Adital ha potuto comprovare in occasione di un delizioso pranzo servito a casa del nostro amico e interprete, Robenson de Lafortune.
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia ropea e l’Oxfam, insieme, hanno dotato di attrezzature la comunità di Petite Rivière, ad Artibonite, rendendo così possibile la lavorazione del riso in modo da aggiungere valore commerciale al cereale. La comunità ha ricevuto generatori, motocoltivatori, macchinari per la selezione e altri materiali che favoriscono una miglior presentazione del prodotto finale. Per dare impulso al loro lavoro, alcuni produttori ricevono dei crediti attraverso le organizzazioni locali collaboratrici dell’Oxfam, cosa che permette loro di coltivare i campi anche se non hanno i fondi necessari per la preparazione e la manutenzione. “È quello che si potrebbe definire credito in un sistema di scambio, che dà la possibilità di ricevere il necessario, sementi, fertilizzanti, insetticidi, così come mano d’opera. Dopo il raccolto il credito verrà rimborsato allo stesso modo, ossia restituendo ciò che è stato ricevuto prima del raccolto”, spiega l’agronomo Willard Xavier, coordinatore del Programma di mezzi di sussistenza dell’Oxfam ad Artibonite. Per mezzo di queste azioni l’Oxfam e i suoi collaboratori mirano a rafforzare la produzione agricola e, allo stesso tempo, migliorare le condizioni di vita della popolazione contadina. È necessario anche fare in modo che il mercato locale sia pronto a consumare il prodotto haitiano, il che è ancora complicato, se consideriamo la libera circolazione dei prodotti importati nel Paese. Per Yolette Etienne non è sufficiente investire in infrastrutture agricole e reclutare piantatori. “È necessario anche porre fine alla competizione sleale dei prodotti importati”. Gli sforzi dell’Oxfam per difendere la produzione locale si focalizzano dunque anche su quelle politiche e pratiche nocive che la penalizzano, e la sua prima lotta è per l’applicazione di tasse doganali sul riso importato. “Gli Stati Uniti, che ci hanno invaso con il loro riso sovvenzionato, sono l’oggetto primario di questa campagna”, spiega Etienne, che difende l’accesso al credito da parte dei contadini, così come la creazione di una commissione nazionale per il riso. Un granaio abbandonato Il dipartimento di Grand’Anse si trova tra il dipartimento Sud e il dipartimento Nippes, misura 1.871 km quadrati e conta su una popolazione di più o meno 500 mila abitanti. È situato a 289 km da Port-au-Prince. Il settore agricolo di questo dipartimento, una delle zone più produttive del Paese, sta attraversando un periodo di riduzione
Saintilus Herman, direttore di un vivaio a Papaye, mostra le piantine che sta coltivando, in collaborazione con l’Mpp, per incentivare l’agricoltura locale (foto Phares Jerôme).
dell’attività già da tempo. La mancanza di investimenti e il degrado ambientale sono le principali cause di questa situazione. Nonostante tutto, la produzione agricola di Grand’Anse oltrepassa, e di molto, la necessità di consumo della popolazione locale. “Produciamo alimenti sufficienti a tutta la popolazione di Grand’Anse, e potremmo nutrire anche la popolazione di altri dipartimenti se avessimo le infrastrutture necessarie”, dice Nicossa Paulémont, coordinatore esecutivo del Konbit Peyizan Grandans (Kpga), un raggruppamento di organizzazioni contadine. Il dipartimento di Grand’Anse è famoso per la sua produzione diversificata di prodotti alimentari. Vi si trovano castagni, banane, igname, patate dolci, cocco, arance, limoni, frutti della passione, avocado, papaia, cirimoia, cavoli, fagioli, cacao, peperoni ecc. Alcune zone possiedono grandi piantagioni di caffè, cacao e canna da zucchero. L’agroecologia applicata alle terre del Grand’Anse permette una produzione di frutti diversificata e una buona protezione per il suolo, il che facilita la prosperità delle coltivazioni. La coltivazione di alberi da frutto rappresenta un investimento agricolo duraturo, per il fatto che protegge l’ambiente e, allo stesso tempo, produce la materia prima per la ripresa del settore secondario. Essa potrebbe rappresentare un’alternativa per la coltivazione di
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Nonostante i lavori di ristrutturazione sulla Strada 7 che collega Jérèmie a Les Cayes, una via importante per la produzione agricola, il percorso è ancora molto pericoloso e di difficile accesso (foto Phares Jerôme).
messo in pratica dal governo haitiano nel quadro delle iniziative contro la fame. Essi difendono un programma agricolo autenticamente regionale, invece di quello governativo, già in atto in nove delle dodici comunità del dipartimento, poiché valutano che ce ne sia necessità. Le organizzazioni di Grand’Anse ritengono questo programma un ostacolo allo sviluppo della produzione nazionale. Esse ritengono che le autorità dovrebbero trovare un mezzo più adatto, che permetta a chi aderisce al programma di comprare la produzione locale invece di distribuire prodotti importati. “Altrimenti la produzione agricola potrà uscire da questa situazione solo con aiuti esterni”, dicono le organizzazioni contrarie, tra le quali la Kpga e la Racpaba. I responsabili di queste organizzazioni denunciano anche che alcune Ong spingono i contadini ad abbandonare l’agricoltura a beneficio dei programmi Food for Work. Il dipartimento di Grand’Anse si trova in una delle regioni con maggiore presenza di foreste nel Paese. Questo è senza dubbio dovuto alla sua posizione geografica. Il fenomeno del
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terre impoverite dall’erosione, che distrugge l’ambiente, e favorire lo sviluppo dei mercati locali e internazionali. La frutticoltura affronta però grandi problemi che influenzano negativamente la quantità e la qualità della produzione. Tra gli altri, quello di piantagioni ormai vecchie, portatrici di malattie crittogamiche che compromettono le specie fruttifere, oltre alla mancanza di cure adatte a questi alberi. Anche perché la produzione fruttifera non è realizzata in modo razionale e i frutti, particolarmente i manghi e gli avocadi, vengono rovinati dai topi in maniera massiccia. Il dipartimento di Grand’Anse, come il resto del Paese, affronta un grande problema di infrastrutture stradali. La maggior parte dei suoi comuni è di difficile accesso, il che complica il trasporto dei prodotti agricoli per l’estero e anche per le stesse zone interne del dipartimento. È questa la principale causa di spreco di buona parte dei prodotti agricoli. Inoltre esistono poche fabbriche di lavorazione. “Assistiamo a uno spreco che arriva ogni anno fino al 35% dei prodotti alimentari in tutto il dipartimento”, avverte Nicossa Paulémont. “Le strade che collegano la maggior parte dei vari luoghi delle comunità sono in pessimo stato”, spiega Pierre Elius, un agricoltore di quarant’anni. È a piedi o a cavallo che i contadini, venendo da lontano, possono trasportare i loro prodotti, senza la garanzia di raggiungere la città di Jérèmie. Da lì è un poco più facile accedere ai trasporti, ad esempio per Port-au-Prince o verso altri luoghi per via marittima. È un lungo tragitto che, spesso, scoraggia gli agricoltori. “È molto pericoloso trasportare i prodotti via terra, a causa del lungo tragitto e delle cattive condizioni delle strade”, lamenta, a sua volta, Daryl Pierre, responsabile dell’Organizzazione di recupero della comunità di Roseauz (Orcro). Fortunatamente la strada di Jérèmie è in costruzione, a cura dell’impresa brasiliana Oas. I primi lavori hanno già permesso la riduzione dei tempi di trasporto da dodici a otto ore. Grand’Anse è comunque lontano dall’insicurezza alimentare. Una fiera agricola organizzata dall’Orcro, nella località chiamata Fond-Cochon nell’agosto 2012, ha permesso di constatare l’immensa ricchezza della regione che, a causa della mancanza di infrastrutture, non è sufficientemente valorizzata e coltivata. Nel luglio 2012 le organizzazioni e i raggruppamenti di organizzazioni di produttori di Grand’Anse si sono riuniti per denunciare il programma di distribuzione di alimenti Aba Grangou
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia disboscamento cresce però in maniera preoccupante in alcune comunità. “All’interno delle sezioni amministrative comunitarie emerge una situazione ambientale allarmante”, constata Jean Marc-Antoine Guilloux, di radio Xaragua. Secondo lui, le difficili condizioni economiche, l’indifferenza delle autorità locali, insieme all’assenza di operatori agricoli o forestali, incoraggiano i contadini a praticare il taglio degli alberi, dato che la vendita di carbone, di legna per la costruzione e fabbricazione di tavolati è più redditizia dell’agricoltura. “Ci sono altre terre a Grand’Anse utilizzabili per l’agricoltura, ma non c’è un sistema di irrigazione che aiuti gli agricoltori ad affrontare i problemi della siccità e dell’erosione, molto frequenti nella regione”, spiega Denis Dieuvilhome, responsabile della Direzione dipartimentale agricola di Grand’Anse. “Affrontiamo molti problemi a Grand’Anse, ma per fortuna non c’è fame”, afferma un altro responsabile, sottolineando che l’assenza di supporto dello Stato ai produttori è la radice del problema. La valorizzazione della produzione contadina, un piano di ricostruzione delle strade di campagna, un centro di ricerca sulla cultura contadina, più protezione commerciale e garanzie sui prezzi dei prodotti importanti, la creazione di reti di imprese di coltivazione e conservazione dei prodotti del dipartimento: queste, tra le altre, sono le soluzioni immaginate dalle organizzazioni contadine di fronte ai problemi del settore agricolo. L’Mpp all’avanguardia Papaye è una piccola comunità a 4 km a nordest della città di Hinche, capoluogo del dipartimento del Centro, dove si trova la sede centrale del movimento Paysan de Papaye (Mpp). Fondato nel marzo del 1973, l’Mpp ha fatto uscire Papaye dall’anonimato. La nascita dell’organizzazione è legata alla fondazione del Centro di iniziazione alla catechesi e all’agricoltura di Papaye (Cicap) da parte di un padre missionario belga di nome Jos Berghmans, della congregazione dei Padri di Scheut. Il padre nel luglio 1972 ha assunto Chavannes Jean-Baptiste in qualità di responsabile per la sezione agricola. “Avevo deciso di fare una ricerca per conoscere la situazione delle famiglie contadine prima di organizzare una formazione di sei mesi”, ricorda Chavannes. “Era chiaro per i contadini che la produzione agricola era in diminuzione, perché le terre producevano molto meno. Ma l’idea
era che questa fosse la conseguenza dei loro peccati. Se non pioveva, se il raccolto era poco, questa era la punizione di Dio. Inoltre, credevano che esistessero persone mal intenzionate che avevano la capacità magica di monopolizzare il raccolto”. Questo fu il risultato dell’inchiesta realizzata da Chavannes a Papaye. Oltre a ciò, Chavannes aveva identificato altri problemi, ad esempio il fatalismo. “Tutto è legato al destino. Non si può fare niente contro il destino. Se nasciamo per essere poveri, saremo poveri, implacabilmente. Se nasciamo per essere ricchi, saremo ricchi”. “Un altro problema cruciale che avevo identificato era la divisione esistente in seno alle famiglie e alle comunità” aggiunge il fondatore del Mpp. Questo fenomeno, afferma, era la conseguenza dei problemi storici legati alla tradizione, alla cultura e alla superstizione. “I conflitti erano provocati anche dal gioco d’azzardo, dalla poligamia, dagli abusi di autorità, dallo sfruttamento in generale”. “Davanti a questa constatazione arrivai alla conclusione che il lavoro prioritario da fare con i contadini non aveva niente a che vedere con un’assistenza tecnica, bensì con l’educazione popolare”, spiega l’agronomo Chavannes Jean-Baptiste, quarant’anni dopo. È in questo contesto che l’Mpp è stato creato. Oggi l’organizzazione dei contadini poveri conta su circa 4 mila gruppi, per un totale di 60 mila membri, dei quali 10 mila giovani e bambini, 20 mila donne e 30 mila uomini. Tenendo come punto fermo la missione della difesa dei contadini impoveriti, l’Mpp lavora nel campo dell’educazione e dell’organizzazione popolare, dell’agricoltura contadina, della riabilitazione e protezione dell’ambiente, e sviluppa programmi di conservazione del suolo, di gestione integrale dell’acqua, di coltivazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, dell’allevamento di bestiame e di produzione di energie alternative o rinnovabili. Dopo quarant’anni, i risultati del lavoro dell’Mpp sono incoraggianti. Papaye è una zona verde con diverse attività legate al settore agricolo, che sviluppa programmi di formazione nel settore dell’educazione e dell’organizzazione contadina per sensibilizzare gli agricoltori. L’organizzazione lega l’agricoltura alla protezione dell’ambiente. “Abbiamo già piantato quasi 25 milioni di alberi ad Haiti”, evidenza Chavannes, il che vuol dire promuovere un’agricoltura che rispetta l’ambiente, utilizzando sementi, concimi e pesticidi naturali.
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Viva Haiti
Kat Je Kontre A quattr’occhi Le organizzazioni contadine sono relativamente forti in relazione ad altri movimenti sociali del Paese, e possono contare sui movimenti contadini Tet Kole Ti (Teste unite), Mouvman Peyisan Papay (Mpp), sul Coordinamento regionale delle organizzazioni del Sudest (Kros - Kòdinasyon Rejyonal Òganizasyon Sidès) e sul Congresso nazionale del movimento contadino di Papaye (Mpnkp). Inoltre, dal 2009, contano sull’appoggio importante di Via campesina [movimento internazionale che raggruppa organizzazioni contadine e di lavoratori agricoli di svariate parti del mondo, e che ha come obiettivo principale la lotta per politiche agricole ed alimentari giuste, solidali e sostenibili] e della sua Brigada Dessalines, che ha creato un movimento locale formato da tutte queste forze, chiamato Kat Je Kontre (A quattr’occhi). Nel video che narra i primi tre anni della Brigada Dessalines, il cui nome è ispirato a Jean-Jacques Dessalines, uno degli eroi della rivoluzione che ha portato il Paese all’indipendenza nel 1804, emerge una frase di Fidel Castro: “Solidarietà non è dare quello che avanza, ma è dividere quello che abbiamo”. Hanno transitato dal movimento più di quaranta militanti, soprattutto brasiliani, attraverso la mediazione del Movimento dei lavoratori rurali senza terra (Mst). Oggi, il numero si è abbassato e si è ridotto a dieci militanti, perché sempre di più gli haitiani si incaricano di portare avanti le azioni del movimento. Nel 2011, 76 giovani haitiani hanno trascorso in Brasile un periodo di formazione alla Scuola nazionale Florestan Fernandes e hanno avuto modo di conoscere varie esperienze nel Paese. La maggioranza è tornata con entusiasmo, con l’intenzione di applicare le esperienze apprese ad Haiti. Adesso sembra che sia più facile per gli haitiani capire quello che quei bianchi, blan, come sono chiamati gli stranieri di qualsiasi colore nel Paese, hanno costruito spalla a spalla con loro, sotto il sole cocente con la vanga in mano. La Brigata dà la priorità a due fronti di lavoro: la posa di 1.500 cisterne di raccolta dell’acqua piovana (donate dal governo di Bahia) e la produzione di sementi ecologiche per grano e verdure.
All’inizio di quest’anno erano già sei i centri di produzione di sementi che coinvolgevano approssimativamente centocinquanta famiglie contadine. Nel 2011 è stato costruito il Centro nazionale di formazione e di agroecologia del movimento dei contadini Tet Kole, con l’appoggio dell’arcidiocesi di Belo Horizonte (città dello stato brasiliano di Minas Gerais), destinato alla realizzazione di vivai e all’allevamento di capretti, oltre alla formazione politica. Il Centro vuole creare un Programma nazionale di produzione delle sementi, dato che il governo haitiano non dà alcun incentivo ai piccoli produttori. Fino ad allora, il 100% delle sementi era importato dagli Stati Uniti e le sementi di grano non erano di buona qualità. Oggi, il Kat Je Kontre ha già costruito tre centri di produzione di sementi di grano e altri tre di sementi orticole. Sono inoltre in costruzione alcuni vivai con piantine destinate al rimboschimento nelle città di Verret, Desalin, Tu Riviy e Semak. Questo perché solamente il 3% del Paese ha una copertura boschiva a causa della forte attività di produzione di carbone, la maggiore fonte di energia ad Haiti. All’infuori della capitale Port-au-Prince, anch’essa carente di energia, non esiste energia elettrica o sistemi fognari di base. Le zone rurali ospitano il 65% della popolazione complessiva (circa 10 milioni di persone). I componenti della Brigada evidenziano che un punto forte dell’agricoltura haitiana è rappresentato dalla ricchezza di varietà delle piantagioni, che mantiene la fertilità del suolo, diminuisce la presenza di calamità e di malattie, e non richiede l’uso di insetticidi. Nelle zone di montagna si producono riso, canna da zucchero, banana, manioca e fagioli, però con scarsa attenzione alla conservazione del suolo, e questo crea problemi di erosioni e di ostruzioni di fiumi. Primo maggio 2010, marcia dei contadini di Gwomòn: “Le organizzazioni contadine sono l’agricoltura del Paese” recita il cartello scritto a mano che traduce il sentimento dei produttori rurali (foto Thalles Gomes/Mst).
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Adriana Santiago
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia
Chavanne Jean-Baptiste è il leader del Mpp dagli anni ‘70 ed è stato il promotore di grandi conquiste per il Paese (foto Phares Jerôme).
L’Mpp coltiva miglio, canna da zucchero, manioca, arachidi. Produce un rum bianco, con certificazione biologica, che viene esportato in Francia. Trasforma la frutta in gelatine e dolci. Sta sviluppando un’esperienza di essiccazione della frutta, principalmente mango. Inoltre coordina attività come l’avicoltura, la pescicoltura, l’apicoltura e la cunicoltura, oltre a incentivare l’allevamento caprino e bovino su piccola scala. Il movimento popolare e il suo leader, Chavannes JeanBaptiste, sono all’avanguardia nello sviluppo del settore agricolo nel dipartimento del Centro. Papaye è oggi una delle zone più ricche di alberi della regione. Questo accade grazie agli sforzi dell’Mpp, che ha creato un vivaio per la produzione di piantine. L’insicurezza alimentare è causa di preoccupazione È difficile dissociare sicurezza alimentare e stato del settore agricolo. Secondo la Cnsa, la sicurezza alimentare ad Haiti ha come fondamento il settore agricolo, che è il principale fornitore di beni alimentari della popolazione. Esso fornisce meno del 50% dell’offerta alimentare del Paese e buona parte della popolazione si trova in situazione di insicurezza alimentare.
Secondo le statistiche citate nella relazione della Cnsa, nel 2001 un haitiano su due viveva in estrema povertà (con meno di un dollaro al giorno); la metà della popolazione non aveva accesso alla razione alimentare minima stabilita dalla Fao in 225 kg di cereali all’anno per abitante; l’80% delle famiglie sarebbero incapaci di soddisfare adeguatamente le loro necessità alimentari. Uno studio recente della stessa istituzione mostra che l’estrema povertà ad Haiti è principalmente un fenomeno rurale (58% contro il 20% nella regione metropolitana). Più di tre quarti dei più poveri vivono in zone rurali, con un tasso di povertà dell’88% contro il 45% a Port-au-Prince e il 76% negli altri centri urbani. Nel giugno 2010 il 39% delle famiglie delle zone rurali si trovava in situazione di insicurezza alimentare (contro il 70% del febbraio 2010). Nello stesso periodo, nelle comunità composte essenzialmente da contadini il 49% delle famiglie era in situazione di insicurezza alimentare (contro il 67% del febbraio 2010). Il presidente Michel Martelly ha promesso, durante la campagna elettorale, di combattere questa situazione. Dal momento della sua nomina a presidente della Repubblica, nel maggio 2011, ha preso alcune iniziative, poche e criticabili, mirate a far uscire gli strati più poveri da una situazione di fame. Innanzitutto ha creato un ministero incaricato della lotta contro l’estrema povertà. Il governo ha poi lanciato programmi di carattere sociale, come il Ti manman cheri e l’Aba grangou, che sono amministrati dalla moglie del presidente della Repubblica, Sophia Martelly. Questi programmi consistono nella distribuzione di denaro tramite cellulare o di kit alimentari per le famiglie povere del Paese. “In nessun modo questi programmi contribuiranno a garantire la sicurezza alimentare”, osservano molte personalità haitiane, tra cui alcuni parlamentari. “Il governo farebbe meglio a dare lavoro ai piantatori in difficoltà di tutto il Paese invece di implementare questi programmi, il cui impatto è ancora poco visibile”, considera Mario, un piantatore di Torbeck, comunità del sud del Paese. Richardson, agronomo, concorda con l’opinione di questo agricoltore. Secondo lui, non si può parlare di sicurezza alimentare nell’attribuire cinquecento gourdes al mese (un dollaro è equivalente a quarantadue gourdes) a una donna che ha due bambini da mantenere. “Il governo utilizza questi programmi per fare propaganda politica, per tentare di mostrare che fa qualcosa, ma in realtà niente viene fatto davvero per migliorare le condizioni di vita delle persone che vivono nella miseria”, denuncia l’agronomo.
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Viva Haiti
Prospettive per il settore Il ministro dell’Agricoltura, delle risorse naturali e dello sviluppo rurale (Marndr), Thomas Jacques, ha annunciato una revisione delle strategie in materia di investimenti nel settore agricolo. In una lunga intervista concessa al quotidiano “Le Nouvelliste”, il ministro ha difeso l’aumento del fondo accordato al settore Una contadina espone la sua produzione agricola durante la fiera dei prodotti da agricoltura biologica tenutasi a Fond Chochon, a Grand’Anse, nell’agosto 2012 (foto John Smith Sanon).
agricolo nel bilancio nazionale, che varia generalmente tra il 4 e il 6% del totale. Anche se il Paese disponesse del denaro necessario alla ripresa agricola, questa non potrebbe avvenire da un giorno all’altro. Il ministro Thomas Jacques lo sa. E infatti sta sperando di attirare investimenti privati o pubblici nel settore. Intanto opta per azioni puntuali. Il ministro Jacques ha informato che è stato elaborato un piano di azioni per la realizzazione di progetti di infrastrutture di irrigazione, di strade secondarie, di pulizia dei letti dei fiumi e di creazione di posti di lavoro in previsione dell’epoca dei cicloni. Tale piano prevede la collaborazione tra istituzioni pubbliche, tra le quali il ministero dell’Economia e delle finanze, quello della Pianificazione e cooperazione internazionale, quello degli Affari esteri e religiosi e quello della Promozione contadina e della lotta contro l’estrema povertà. Egli ha spiegato che il piano ruota attorno al problema dell’insicurezza alimentare con la quale la popolazione haitiana si confronta in modo continuativo. Le azioni da intraprendere per modernizzare il settore agricolo, a lunga scadenza, sono definite in due documenti. Si tratta del Documento di orientamento 2010-2015, che presenta il quadro globale di riferimento della politica agricola per il periodo indicato, e del Piano nazionale di investimento agricolo, che riporta le azioni concrete di sviluppo agricolo da intraprendere durante il periodo 2010-2016. Questi due documenti valgono per i collaboratori internazionali del ministero dell’Agricoltura, tra i quali il Programma mondiale dell’agricoltura e della sicurezza alimentare, la Banca Mondiale e la Banca interamericana di sviluppo (Bid). Le azioni definite in questi due documenti di orientamento riguardano, soprattutto, il trasferimento di tecnologie ai contadini e il rinforzo dei servizi pubblici agricoli. La ripresa del settore agricolo haitiano, dopo il terremoto del 12 gennaio 2010, rimane una pia speranza per alcuni. “Il settore agricolo non entra nel suddetto piano di ricostruzione, che mira solamente a vendere il Paese alle multinazionali, a realizzare zone franche, megaprogetti turistici e alla produzione di agrocombustibile”, denuncia Chavannes Jean-Baptiste, che è stato uno dei leader del movimento di protesta contro la prospettata introduzione dei prodotti Monsanto nell’agricoltura haitiana dopo il sisma. In seguito alle manifestazioni pacifiche, organizzate in tutto il Paese, il governo ha dovuto smentire le
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Questi programmi non portano ancora i risultati sperati e ci sono già state manifestazioni in vari dipartimenti del Paese contro il degrado delle condizioni di vita della popolazione. Scoppiano in tutti i luoghi denunce sull’aumento dell’inflazione. “Il prezzo dei prodotti di prima necessità non cessa di aumentare”, denuncia Madeleine, vent’anni, che si prende cura di una sorella minore e di una figlia di sette mesi. Gli oppositori del presidente Michel Martelly sfruttano questa situazione per chiedere le sue dimissioni. Durante le manifestazioni le persone espongono cartelli con slogan che accusano il governo attuale di non fare nulla per migliorare le condizioni di vita dei più poveri.
Sovranità alimentare: un territorio agricolo in agonia informazioni che lasciavano credere che la Monsanto, una delle più grandi imprese di agrotossici del mondo, avrebbe fatto una donazione di sementi ad Haiti. Catastrofi e mancanza di fiducia Il Coordinamento nazionale di sicurezza alimentare (Cnsa) evidenzia che tutti gli eventuali cambiamenti sul mercato internazionale si ripercuoterebbero enormemente sulla sicurezza alimentare e nutrizionale delle famiglie haitiane. Nell’aprile del 2008 l’aumento dei prezzi al consumo ha raggiunto il 17% sul paniere. Ossia, un aumento di quasi il 70% in quattro mesi. Come conseguenza, 800 mila persone si sono trovate in situazione di insicurezza alimentare. La situazione poteva aggravarsi con i quattro cicloni del 2008, che hanno provocato perdite valutate approssimativamente in 230 milioni di dollari nel solo settore agricolo, e una caduta del Pil stimata al 15%. Oltre alla distruzione, la catastrofe del 12 gennaio 2010 ha portato secondo il Consiglio di sicurezza alimentare più di 1,5 milioni di persone a una transitoria insicurezza alimentare. “Da 1,8 milioni di persone in situazione
Gli agricoltori, come questa donna di Jérèmie, attraverso tortuose strade di terra impiegano vari giorni per arrivare a una fiera dove vendere o scambiare i loro prodotti (foto Phares Jerôme).
di insicurezza alimentare alla vigilia del terremoto siamo passati a 3,3 milioni di persone il giorno 13 gennaio. È stato necessario intervenire il prima possibile per evitare una crisi alimentare”. Tutti gli sforzi fatti per la ripresa dell’agricoltura in questi ultimi anni sono stati minati dal terremoto del 12 gennaio (che ha portato perdite nell’ordine di 7,804 miliardi di dollari), ovvero un ammontare di poco maggiore a quello del Pil del 2009. Dai 3,3 miliardi del 2007 il Pil è calato del 5,1% nel 2010. Inoltre, l’esistenza di un vero fenomeno di razionamento del credito è confermata dal fatto che Haiti presentava un tasso medio di interesse del 26,04% tra il 1995 e il 2004, il più alto dell’America Latina. “Si può affermare, senza rischio di sbagliare, che il tasso di interesse in questa economia sia tra i più alti del mondo, dato che il costo medio del credito in America Latina è già molto alto in relazione a quello dell’Asia, del Pacifico e dell’Europa Centrale, che presentano un tasso medio di interesse inferiore al 10%”, afferma la relazione annuale dell’Fmi del 2004. Il rialzo dei prezzi delle derrate alimentari e dei derivati del petrolio sul mercato internazionale è tra le conseguenze delle catastrofi naturali, come il terremoto del 12 gennaio 2010, gli uragani devastanti del 2008 e il ciclone Thomaz nel 2009. Le catastrofi di questi ultimi tre anni hanno colpito profondamente la popolazione haitiana. La disponibilità alimentare Gli interventi massicci (umanitari e non solo) realizzati per opporsi agli effetti dello shock (rialzo dei prezzi, cicloni del 2008, terremoto del 2010 e, in qualche modo, il colera) negli strati di popolazione più vulnerabile hanno permesso di ottenere risultati a volte incoraggianti. È necessario, però, riconoscere che la dimensione cronica o strutturale dell’insicurezza alimentare è preoccupante. I risultati dell’ultima ricerca della Cnsa indicano che, a livello nazionale, solo il 17% delle famiglie, in zone urbane o rurali, si trova in una situazione di consumo alimentare carente, ai limiti dell’accettabile. Il resto è miserabile. L’analisi dei dati riferiti al consumo alimentare, secondo i differenti livelli di stratificazione geografica considerati, mostra però un piccolo miglioramento generale, in questa fascia di consumo alimentare, tra il 2007 e il 2011. Nelle zone rurali, tuttavia, la percentuale di consumo alimentare carente, nei limiti dell’accettabile, è scesa dal 25% nel 2007
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Viva Haiti
Inchiesta nazionale sulla sicurezza alimentare (Ensa) L’analisi per dipartimento mostra che nel Sud, come a Grand’Anse, e nel Sudovest le famiglie coltivano soprattutto cereali, tuberi e banane. Un gran numero di famiglie coltiva queste specie nelle zone agro-pastorali semiumide e, nelle zone secche, pratica l’agricoltura e la pesca. Frutta e legumi, nel corso di tutto l’anno, olii essenziali, fiori e piante ornamentali: tutto germoglia in questo paradiso vegetale in modo molto naturale. E questo non è un dato creato dagli haitiani, sono informazioni citate dalla rivista “Paris Match International”. L’agricoltura rimane il principale settore di impiego. Essa occupa quasi il 46% dei lavoratori haitiani. Con un terzo del suo territorio di pianure coltivabili, il potenziale è pertanto immenso. Le principali produzioni agricole del Paese rimangono il miglio, i fagioli, il riso e il mango.
Il punto forte di questa agricoltura è rappresentato dal fatto che non ha ancora introdotto l’uso di prodotti chimici nocivi, quali fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi prodotti e utilizzati nei Paesi industrializzati. La forte tendenza ai prodotti “bio” farà fiorire la domanda dei prodotti haitiani, tanto da parte della numerosa comunità haitiana che vive all’estero, quanto in generale. Le marce collettive del 2010, promosse dai contadini, hanno denunciato il tentativo della multinazionale Monsanto di distribuire sementi transgeniche con il conseguente apparato di macchinari e di agrotossici, investimento che non è andato in porto grazie alla reazione dei contadini haitiani e delle stesse condizioni dei terreni locali, di piccole dimensioni e senza condizioni di utilizzo di grandi macchine agricole. Destinato all’esportazione Haiti è uno dei primi produttori di mango dei Caraibi e dell’America Centrale. Il caffè, il cacao, gli olii essenziali, i manghi Madame Francique (prelibati manghi originari della zona, molto apprezzati per l’esportazione) sono i prodotti principe dell’esportazione haitiana. Questi manghi sono molto apprezzati per il loro gusto, per la consistenza e per l’aroma. Milioni di casse vengono esportate negli Stati Uniti, il maggiore acquirente. Anche il Canada rappresenta un mercato attraente, dato che i canadesi apprezzano molto i prodotti naturali. In ragione della varietà del suo clima, Haiti può sviluppare la produzione in serre e aumentare nelle zone a clima temperato la produzione di verdure considerate fuori stagione dal mercato: cetriolo, lattuga, zucchina, pomodori, fagioli, carote, cavolo, carciofi ecc. Il clima temperato delle sue numerose montagne (due terzi del territorio) favorisce la coltivazione di una varietà di fiori ornamentali. I fiori ornamentali di Haiti (rose, orchidee, gladioli ecc.) competono tanto in bellezza quanto nel prezzo con i fiori della Giamaica, della Colombia o dell’Olanda. La Florida ha sempre più difficoltà a sostenere le sue piantagioni mentre, ad Haiti, sono disponibili vaste zone coltivabili per arance e pompelmi, fuori stagione. È necessario continuare a sviluppare le serre come si fa per i manghi della pregiata qualità Madame Francique e il caffè di tipo arabico, da cui si ottiene l’eccellente “Haiti Bleu”, esportato in tutto il mondo, soprattutto in Europa, Usa e Giappone.
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al 20% nel 2011. Nelle aree direttamente colpite dal terremoto si osserva, allo stesso modo, una chiara tendenza alla riduzione di queste cifre tra febbraio 2010 e maggio 2011. Dal 30% del febbraio 2010, la percentuale delle famiglie il cui consumo alimentare è carente entro i limiti dell’accettabile è passata al 13% nel maggio 2011. E si sta facendo poco. La riduzione è ancor più accentuata negli accampamenti: il numero delle famiglie il cui consumo alimentare è deficitario si è ridotto dal 42% del febbraio 2010 al 27% nel giugno 2010, e al 19% nel maggio 2011. Allo stesso modo si nota una riduzione significativa che può essere percepita nei dipartimenti del Nordovest, del Nord e del Nordest, che hanno visto passare le percentuali di famiglie il cui consumo alimentare è carente entro i limiti dell’accettabile dal 42%, 38% e 35% nel 2007, a percentuali del 36% e 17% nel 2011. Dall’altro lato, la percentuale di famiglie il cui consumo alimentare carente rimane entro i limiti dell’accettabile è aumentata, tra il 2007 e il 2011, nei dipartimenti del Centro (dal 18% al 22%), di Nippes (dall’11% al 18%) e del Sud (dal 16% al 20%). A livello nazionale i tuberi, le banane e i cereali costituiscono le colture più diffuse. Di fatto, tre famiglie su quattro (75%) coltivano tuberi, poco più dei due terzi coltivano banane (67,88%) e circa sei famiglie su dieci coltivano cereali. La coltivazione di ortaggi e verdure (44,21%), che non deve essere dimenticata, è praticata in differenti zone e dipartimenti (circa quattro famiglie su dieci).
Foto Francisca Stuardo
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Capitolo 4
Phares Jerôme
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale Una socioeconomia solidale è presente nei testi della Costituzione haitiana del 1987. Niente di più simbolico per questo Paese che, in mezzo a una situazione di grande povertà, mostra che è possibile sopravvivere a partire da esempi semplici di economia solidale e cooperativismo, distribuiti sulle differenti regioni come alternativa allo sfruttamento internazionale.
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Già in declino, l’economia haitiana è stata devastata dal terremoto del 12 gennaio 2010. Secondo il Post Disaster Needs Assessment - Valutazione delle necessità post calamità (Pdna), il valore totale dei danni causati dalla catastrofe è stimato in 7,804 miliardi di dollari, l’equivalente del 120% del Pil del Paese nel 2009. Il settore privato ha pagato il tributo più pesante in danni e perdite: 5,722 miliardi di dollari, ovvero il 70% del totale, mentre la partecipazione del settore pubblico è stata di 2,081 miliardi di dollari, equivalenti al 30%. Gli specialisti haitiani e stranieri che hanno partecipato all’elaborazione del documento hanno constatato variazioni nei flussi economici (perdite di produzione, volume di affari ridotto, perdita di posti di lavoro e di salari, costi di produzione crescenti ecc.) che hanno raggiunto i 3,561 miliardi di dollari, ovvero il 45% del totale dei danni. I settori più colpiti sono stati il commercio, i trasporti, le telecomunicazioni e l’industria. Secondo le stime fatte subito dopo il terremoto, Haiti ha bisogno di 11,5 miliardi di dollari americani per un periodo di tre anni per recuperarsi dalla catastrofe. Una somma di cui il Paese non dispone. Le autorità haitiane hanno dovuto ricorrere alla comunità internazionale in occasione della Conferenza internazionale su Haiti, il 31 marzo 2010, che ha promesso un ammontare di 9,9 miliardi di dollari per il Paese, suddivisi in diversi momenti per un periodo di più di dieci anni. Più di due anni dopo il disastro Haiti presenta l’immagine di uno Stato che fa fatica a uscire da una violenta guerra. Nessuno degli edifici pubblici distrutti
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale dal terremoto è ancora stato ricostruito. È necessario ammettere, comunque, che grandi sforzi sono stati fatti dalle autorità haitiane e dai collaboratori della comunità internazionale per permettere che molte persone senzatetto tornassero a casa, e per liberare i quartieri dalle tonnellate di detriti generati dalla distruzione degli edifici nel terremoto. La nazione haitiana è lontana dai grandi progetti di ricostruzione prefigurati nel Pdna. I grandi cantieri di ricostruzione procedono sempre più lentamente. Forse i fondi promessi in donazioni dalla comunità internazionale non sono ancora arrivati, o non arrivano al ritmo sperato. Ad ogni modo, questa è la sensazione di molti haitiani e persino di alcune autorità di alto livello dello Stato. Non c’è, nel Pdna, nessuna menzione del fatto che Haiti mobiliterà risorse proprie come parte della ricostruzione. Eppure, alcuni specialisti credono che Haiti, a partire dall’economia sociale o solidale, sia capace di mobilitare risorse locali per la ricostruzione. Un’alternativa all’aiuto internazionale che non sempre arriva nel momento desiderato. Repubblica cooperativista? La Costituzione haitiana del 1987, nel suo articolo primo, definisce Haiti come una “Repubblica cooperativista”. Questo potrebbe spiegare perché il concetto di economia solidale dovrebbe occupare un posto di spicco nelle politiche pubbliche del Paese. Secondo Lionel Fleuristin, direttore esecutivo del Consiglio nazionale per il finanziamento popolare (Knfp), l’economia sociale e solidale ha una lunga storia ad Haiti. Risale a prima dell’indipendenza del Paese, nel 1804, con gli schiavi. Le grandi squadre, o “escouades”, sono le antenate dell’economia sociale ad Haiti. Secondo Fleuristin questa forma di economia, che non mira al lucro, permette che la creazione di ricchezza non avvenga a scapito della persona umana e dell’ambiente. Essa si oppone direttamente all’attuale economia di mercato neoliberista installata nel Paese, che mira solo al guadagno. Di norma i contadini haitiani sono piccoli agricoltori senza sussidi governativi, proprietari della terra o affittuari. In alcuni casi essi lavorano la terra di un latifondista, in forma libera o in condizioni che ricordano la servitù della gleba, indipendentemente e secondo le proprie risorse finanziarie e tecniche. Raramente lavorano
per le multinazionali dell’agricoltura, o per le grandi fazendas agricole, ma possono offrire i loro servizi agli agricoltori vicini, volontariamente e sperando reciprocità. È quel che si chiama “squadra”. Questa pratica nell’attività contadina, che quasi non esiste più, ha permesso a ogni membro della comunità di lavorare nei suoi lotti di terra con meno difficoltà. Oggi, in alcune aree rurali, gli agricoltori lamentano la sparizione della vita associativa. I contadini molto poveri preferiscono vendere il loro giorno di lavoro a un agricoltore in situazione un poco più “favorevole”. Per Carole Pierre-Paul Jacob, coordinatrice dell’ufficio esecutivo della Solidarietà per le donne haitiane (Sofa), Haiti ha da sempre sviluppato un’economia solidale. I lakous e le squadre, afferma, rappresentano quel che di più solidale è insito nell’economia di Haiti. Per molti specialisti e professionisti in economia solidale c’è una mancanza di riconoscimento di questo settore da parte dello Stato haitiano. “Parliamo di investimenti stranieri come se nel Paese non ci fosse niente da incentivare”, lamenta Lionel Fleuristin, che constata il declino di alcune forme di economia
Il mercato dei fiori è una delle aree più conosciute di Port-au-Prince (foto Francisca Stuardo).
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Viva Haiti
Qualsiasi parete diventa vetrina per le strade della capitale haitiana (foto Francisca Stuardo).
sociazioni, 4 dipartimenti o filiali di banche commerciali, più di 75 cooperative e unioni di cooperative e 3 mila strutture di finanziamento di base (banche comunitarie o di mutua solidarietà). È un numero significativo per non attirare l’attenzione da parte del governo haitiano. Per intendere lo scenario economico Prima di presentare un panorama sull’economia solidale ad Haiti, è necessario conoscere e intendere alcuni fatti e riflessioni sul suo scenario economico degli ultimi anni, il quale ha molto a che fare con la presenza degli Usa, che detengono la leadership dello sfruttamento politico ed economico del Paese. Negli anni ’80 e ’90 Haiti è diventata un grande importatore di generi alimentari e di altri prodotti dagli Usa. Attualmente è il terzo importatore mondiale di riso, principalmente dagli Usa, quando le sue terre sono assai propizie a rendere autosostenibile la produzione. Ce lo conferma la qualità del riso locale, che la nostra équipe di reportage ha trovato in vendita lungo le strade, molto più caro di quello proveniente dagli Usa.
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comunitaria ad Haiti. Dall’altro lato, nota però che le cooperative di risparmio e di credito sono più valorizzate rispetto alle altre istituzioni di economia solidale, come le cooperative di produzione. Le banche comunitarie, i gruppi di mutuo-aiuto solidale e le cooperative finanziarie e non finanziarie, sono le principali istituzioni di economia solidale attualmente identificabili nel Paese. Sono istituzioni che, generalmente, si raggruppano in associazioni. Come prima cosa, esistono le cooperative di risparmio e di credito. Tra le associazioni più conosciute del settore c’è l’Associazione nazionale di cooperative di credito di Haiti (Anacaph), creata il 21 giugno 1998, che conta quarantasei cooperative di credito. Essa si presenta come una rete di cooperative di depositi e crediti che incentiva lo sviluppo del finanziamento decentralizzato. C’è anche la Le Levier, una federazione di cooperative di depositi e crediti, fondata il 30 giugno 2007. Essa include ventuno cooperative di credito in tutto il Paese. Alcune cooperative di risparmio e credito funzionano sotto la supervisione del Consiglio nazionale delle cooperative (Cnc), della Banca centrale haitiana (Brh) e del ministero della Pianificazione e della cooperazione internazionale (Mpce). Ci sono, inoltre, cooperative di produzione e servizi. In questo settore, c’è la Rete di associazioni cooperative per la commercializzazione e produzione agricola del Basso Artibonite (Racpaba), che è una struttura di sette cooperative creata nel luglio 2001, con circa 2.350 membri. La Racpaba si è specializzata, in particolare, nella produzione e commercializzazione di riso, la principale produzione del dipartimento di Artibonite. Il caffè è una delle principali produzioni di Haiti. Varie associazioni di produttori di caffè sono state identificate in tutto il Paese, come la Federazione delle associazioni locali di caffè, che raggruppa le associazioni dei produttori dei dipartimenti Sudest e Grand’Anse, e le Cooperative di caffè del Nord (Recocarno), con le cooperative che operano nel Nordest, Nord e Nordovest. Nell’ambito di finanziamento e appoggio tecnico opera il Consiglio nazionale del finanziamento popolare (Knfp), creato nel 1998 a partire dall’unione delle tre principali istituzioni di microcredito. Questa rete include, attualmente, nove associazioni che dedicano il loro lavoro al finanziamento delle attività economiche del mondo rurale haitiano. Secondo un documento dell’Anacaph esistono sparse nel Paese circa 175 cooperative di credito, 20 Ong/fondazioni/as-
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale Gli haitiani caricano le merci più svariate in fagotti che portano sulla testa (foto Francisca Stuardo).
Solo per avere un’idea di quanto il dominio economico statunitense si perpetui e cresca ad Haiti, in questo momento sono in costruzione più di cinque parchi industriali per l’esportazione di prodotti di vestiario e tessuti per gli Usa. Secondo il coordinatore della Piattaforma haitiana per uno sviluppo alternativo (Papda), Camille Chalmers, le cosidette “zone franche” esistono dal 1969. Adesso ci sono cinque parchi in più, con un impatto molto distruttivo che non considera i fattori ambientali e nemmeno i fattori sociali. Egli racconta che la Papda ha lavorato presso il parco industriale di Codevi, sulla frontiera con la Repubblica Dominicana. Là, il 70% delle donne riceve un salario per otto ore, ma ne lavora dodici. I padroni non pagano la durata del lavoro, ma il numero di vestiti prodotti. O meglio, il numero di vestiti imposti per giornata, che non può essere prodotto in otto ore, tanto che le donne impiegano tre o quattro ore in più, “un supersfruttamento terribile e sanguinario, per salari da 125 gourdes a 200 gourdes al giorno. Abbiamo tutto documentato”, denuncia. Camille Chalmers cita i pochi casi isolati di rottura con la struttura di dominazione economica. È il caso della cooperativa di latte Lèt Agogo, che riesce a distinguersi perché uno dei suoi fondatori appartiene ai piani alti del ministero dell’Agricoltura. Eppure, la visione dominante dello Stato è quella di eliminare i piccoli contadini per installare grandi aree di esportazione di prodotti agricoli. Per le élite, il ritardo di Haiti è rappresentato dal mondo delle piccole coltivazioni, visione coerente con quella dell’Agenzia nordamericana per lo sviluppo internazionale (Usaid), che sta investendo milioni di dollari nel programma Winner per stimolare la produzione di agrocombustibile. L’idea è quella di convertire il 25% del territorio haitiano in produzione di alcool e biodiesel. Sono pianificate ancora molte acquisizioni di terre dei contadini per installare più zone franche, progetti di turismo e di agribusiness. Uno degli effetti dell’aiuto strutturale degli Usa è stato il rincaro del credito. Ad Haiti le banche private utilizzano solamente il 25% del guadagno realizzato per finanziare il credito. Inoltre, è un credito concentrato a Port-au-Prince, dato che il 92% del totale viene prestato a persone della capitale, principalmente per attività di consumo, mai per finanziare attività produttive. “Per questo abbiamo un’economia violenta, un’economia di speculazione. Mai avremo un’economia produttiva, con investitori
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Viva Haiti Tutto è venduto per le strade. Le farmacie ambulanti sono il tipo di commercio che causa più stupore nei turisti (foto Francisca Stuardo).
“Ci hanno imposto una divisione regionale del lavoro a beneficio delle imprese statunitensi, al fine di avere mano d’opera a basso costo. In meno di quindici anni, 300 mila lavoratori haitiani sono partiti per Cuba, una migrazione di massa. E questo è stato possibile perché l’economia agricola ed alimentare era controllata dai contadini, cosa che ha reso possibile una crescita demografica importante”, racconta Chalmers. La popolazione di Haiti è passata da 400 mila persone, dopo la rivoluzione del 1804, a più di 5 milioni nel 1970, con un’autosufficienza quasi completa. Fino al 1972 Haiti era autosufficiente per il 98% del suo consumo, un successo impressionante dell’economia contadina. Oltre a garantire l’autosufficienza alimentare, Haiti produceva caffè, che veniva esportato e rappresentava la fonte principale di reddito dello Stato. Questo vuol dire che lo Stato è vissuto per duecento anni solamente grazie alle imposte sull’esportazione del caffè. Situazione poi deterioratasi per l’atteggiamento di sottomissione verso gli Usa e gli organismi finanziari internazionali.
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che sfruttano situazioni commerciali”, commenta il coordinatore della Papda. Per esempio, il gruppo che controlla il commercio di importazione ed esportazione ha sempre mantenuto livelli di guadagno molto alti, approfittando della differenza di prezzo tra il mercato internazionale e quello nazionale, con la presunta complicità dello Stato. “Siamo di fronte a una vera e propria situazione di oligarchia economica che non investe il suo denaro ad Haiti, ma nella Repubblica Dominicana, a Miami, o in altri Paesi. Si tratta di una fuga di capitali enorme. Tutto il denaro che entra, esce rapidamente per finanziare le attività di questa oligarchia là fuori”, spiega Chalmers. A peggiorare questa relazione di dominazione, un grande numero di haitiani è migrato negli Usa. Sono circa 2 milioni gli haitiani che vivono in suolo statunitense, con il risultato che approssimativamente il 30% del Pil haitiano è formato dal trasferimento di valuta estera. Sono 1,8 miliardi di dollari all’anno che entrano nel Paese, inviati dagli haitiani che vivono all’estero, soprattutto negli Usa. È la più alta percentuale sul Pil di trasferimenti di denaro dall’estero in America Centrale e Caraibi. Chalmers evidenzia che è molto interessante discutere questa questione perché anche all’inizio del secolo ventesimo c’era stato un interesse da parte degli Usa a stabilire imprese di agro-esportazione ad Haiti. Il modello scelto fu invece quello dell’agro-importazione, cominciata con le banane dall’America Centrale, modello che crollò rapidamente perché i contadini avevano ancora viva la memoria della lotta contro i tre imperi: Spagna, Francia e Portogallo. Si verificò una grande sollevazione: un esercito di 15 mila contadini armati contro gli Usa. Il secondo elemento, di interesse per l’economista, è che si è instaurata un’economia caraibica incentrata su Cuba e sulla Repubblica Dominicana che, storicamente, avevano mantenuto legami con Spagna, Portogallo e Francia, perché i due Paesi conservavano tutte le infrastrutture logistiche, quali ferrovie, strade e porti. Investire ad Haiti risultava quindi molto più caro perché, oltre a costruire l’impresa, era necessario investire in infrastrutture per il trasporto dei beni. La strategia utilizzata dagli Usa fu quindi quella di lasciare da parte Haiti, andando a investire a Cuba e nella Repubblica Dominicana, con il risultato di una sorta di migrazione forzata dei lavoratori da Haiti verso i Paesi vicini.
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale
La vendita di generi alimentari avviene nei mercati e sui marciapiedi (foto Francisca Stuardo).
Produzione locale sottofinanziata Ad Haiti la produzione locale è in caduta libera da decenni. Secondo il ministero dell’Agricoltura, risorse e sviluppo comunitario, tra il 2003 e il 2005 la produzione nazionale ha contributo con una media del 43% al rifornimento di alimenti, mentre le importazioni si sono mantenute in rialzo intorno al 51%, e l’aiuto alimentare ha raggiunto il 6%. Eppure, nel 1981, la partecipazione delle importazioni alla disponibilità di alimenti haitiana non arrivava al 19%! Come si è arrivati a questo punto? “L’economia agricola locale è stata messa in secondo piano a favore dell’esportazione”, risponde l’economista Camille Chalmers della Papda. Come prova di questa politica Chalmers denuncia che il governo hai-
tiano ha scelto di promuovere fabbriche che sottopagavano gli operai e sfruttavano le terre fertili a danno di migliaia di contadini. “Le cooperative di risparmio e credito hanno garanzie di sicurezza maggiori rispetto a quelle di produzione”, constata Lionel Fleuristin. Le organizzazioni di produttori e gli altri gruppi che si impegnano a portare avanti il compito di promuovere la produzione nazionale, afferma, non ricevono alcuna assistenza dopo la loro iscrizione al ministero degli Affari sociali. Questa è, ai suoi occhi, un’anomalia. “Quando si abbandona la produzione locale, l’economia è a servizio dell’importazione”, conclude il coordinatore della Knfp, aggiungendo che attualmente non ci sono politiche pubbliche che favoriscano lo sviluppo dell’economia solidale o della produzione locale.
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Viva Haiti prosegue, che colleghi le questioni economiche con quelle sociali, può anche influire sulle problematiche ambientali di alcune comunità. Esperienze di economia solidale Quando si pensa ad esperienze di economia solidale di successo ad Haiti, non si può non parlare di Lèt Agogo, un programma di appoggio allo sviluppo della produzione di latte. È anche il nome commerciale di una serie di prodotti lattiero-caseari disponibili sul mercato, come “Yawout”, yogurt naturale con frutta fresca, e “Lèt-Bèf”, latte intero sterilizzato aromatizzato al cioccolato o alla vaniglia e limone. Questo programma è realizzato dalla Veterimed, un’organizzazione non governativa creata nel 1991 da un gruppo di veterinari haitiani al fine di contribuire allo sviluppo nazionale per mezzo di attività produttive nelle aree rurali. Essa si è specializzata in salute e produzione animale. Il programma Lèt Agogo è stato lanciato nel 2001. Oggi esistono diciotto piccole latterie funzionanti nel Paese. Nell’aprile 2012 altre cinque latterie erano in costruzione e sette si stavano preparando a lanciare la loro attività. Le latterie lavorano in rete e hanno un costo iniziale di circa 200 mila dollari l’una. “Le piccole latterie sono proprietà di associazioni di produttori che utilizzano l’etichetta Veterimed”, dice Rosanie Moise Germani, direttrice dell’Ong. I produttori firmano un contratto con la Veterimed con cui si impegnano a rispettare alcuni standard di igiene, gestione, contabilità, mirando a mantenere un modello di produzione e lavorazione del latte. La Veterimed dà loro appoggio tecnico a livello di organizzazione, gestione degli affari e commercializzazione, spiega. La rete Lèt Agogo include circa 2 mila produttori di latte e impiega 108 persone a tempo pieno, circa 60 a tempo parziale, e alimenta decine di migliaia di posti di lavoro indiretti. Prima dell’inaugurazione del Lèt Agogo, il settore del latte si confrontava con tutti i tipi di difficoltà, in particolare con un serio problema di commercializzazione. Consegnati a se stessi, i produttori si arrangiavano come potevano. Poche persone compravano latte locale, perché i produttori molte volte lo mescolavano con acqua. Inoltre, il latte veniva venduto in scarse condizioni igieniche. È stato a Limonade, una città del dipartimento del Nord, che la Veterimed ha lanciato il suo progetto Lèt Agogo. “Abbiamo
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Per un certo periodo il campo del microcredito ha registrato una crescita ad Haiti, come ha sottolineato François Lhermitte, attuale primo ministro e all’epoca ex presidente e direttore generale del Gruppo di gestione strategica (Smg) nella sua relazione sull’evoluzione del settore in occasione di un simposio nel settembre 2010. Se dal 1946 al 1982 la pratica di credito per i piccoli investitori è stata un’esclusiva delle cooperative di depositi e crediti, più comunemente chiamate “cooperative popolari”, la realtà da trent’anni a questa parte è mutata. Dagli anni ’90, informa Lhermitte, la microfinanza è presentata come un’opportunità commerciale per chi si occupa di servizi finanziari, in particolare di microcredito. “Il 30 settembre 2008 il mercato della microfinanza ha raggiunto l’ammontare di 6,3 miliardi di gourdes in termini di attivo, 4 miliardi di gourdes in termini di portafoglio e 2,6 miliardi di gourdes in termini di depositi”, sottolineò François. Il numero di mutuatari del settore è stato di 245 mila, mentre il numero di risparmiatori ammonterebbe a 799.455. Non è una sorpresa che il numero di debitori, nel 2012, abbia toccato la soglia di un milione. Per il professor Camille Chalmers il microcredito è semplicemente una circolazione di moneta. Egli ritiene che il settore della microfinanza rappresenti per i capitalisti un modo per penetrare con ancora più vantaggi nel mercato haitiano. È semplicemente manipolazione. Carole Pierre-Paul Jacob concorda: “Il microcredito è il capitalismo dei poveri, dà l’illusione alle persone di essere imprenditori ma, nella realtà, esse sono commercianti”, dice la responsabile della Sofa. Secondo Lionel Fleuristin il microcredito è a servizio dell’importazione, cosa che lascia il Paese in una svantaggiosa situazione di dipendenza. Il responsabile del Knfp descrive il settore del microcredito come una “perversione delle cooperative popolari”. “L’economia solidale rappresenta un’alternativa all’economia liberale, che non mira che al profitto. Molte volte penso che il capitalismo non sia un mezzo per creare ricchezza. Questo è falso”, dice Camille Chalmers, che evidenzia come l’economia solidale sia altra cosa. “La microfinanza basata sull’economia solidale può favorire una sinergia tra l’economia e il sociale conducendo allo sviluppo sostenibile”, avvisa François Lermithe. Per lui, questo presuppone sinergie, alleanze e presa di coscienza delle realtà haitiane, anche di quelle culturali. Un processo di finanziamento solidale,
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Adriana Santiago
Kasay: casa della farina con una linea di produzione ultraefficiente Passare per le strade di Haiti significa anche assistere a scene strane. È stato questo che è abbiamo pensato quando abbiamo visto una tapioca gigantesca che veniva preparata su una piastra di dimensioni ugualmente enormi. Vista dall’esterno, una vera linea di produzione. Gente che arrivava con la manioca appena raccolta, altri che la sbucciavano, la grattugiavano, la pestavano nel mortaio, ne spremevano il succo e infine, preparavano i beiju, una sorta di pane azzimo molto sottile, cotto su una piastra circolare, a base di tapioca, tipico nel nordest del Brasile, dove si consuma con ripieno dolce o salato. Questo processo coinvolgeva almeno cinquanta persone. Il nome del beiju haitiano è un altro, incomprensibile per uno straniero non esperto di creolo haitiano. Un metro di diametro, è venduto a pezzi nelle strade di Port-au-Prince da una persona che si occupa di commerciarlo. Un uomo di cui nessuno si dà la pena di ricordare il nome. Ma chi comanda la produzione sono due donne: Dieu Dodonne, quattro figli, e Metler François,
dieci figli. Ridendo senza sosta, forse con una punta di orgoglio, dichiarano che non c’è bisogno di marito per comandare lo stabilimento. Esse sono marchandas, ossia affittuarie del terreno. Questo vuol dire che il proprietario riceve una percentuale significativa del lucro, non ci hanno detto quanto, forse per paura di trovarsi di fronte a dei funzionari, ma, stando alle esperienze di sfruttamento in tutto il mondo, potrebbe essere il 50%, secondo una modalità simile alla mezzadria. Di buon umore, François dice che deve lavorare duro sempre, dato che ha dieci figli da sposare. Sì, da sposare, proprio lei che non ha bisogno di marito. Allegra, con un sorrisone a trentadue denti, spiega che la casa della farina, kasay, è fonte di reddito per lei, per i figli e per molti vicini e amici, sia grazie all’impiego diretto di ventiquattro persone nella produzione dei “super-beiju”, sia per il conseguente movimento della produzione agricola nella regione. Quel giorno, ancora non erano arrivate tutte le persone coinvolte. “Ci sono giorni in cui c’è molta, molta gente”, dice la marchand.
Domenica pomeriggio, un gran numero di persone porta la manioca raccolta al kasay (foto Ermanno Allegri).
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La manioca di Plaisance viene sbucciata, tagliata, tritata, filtrata, setacciata e poi stesa su grandi piastre rotonde in acciaio per cuocere il kasay, una specie di piadina gigante venduta per le strade della capitale. Con questo commercio Dieu Dodonne e Metler Franรงois sostentano i figli e le vicine (foto Ermanno Allegri).
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale
Il disboscamento e la produzione di carbone vegetale sono crimini ambientali che da secoli si intrecciano con la crisi energetica. Ad Haiti è facile assistere alla vendita di carbone per le strade (foto Francisca Stuardo).
iniziato così, a lavorare per rimuovere le restrizioni al consumo di latte”, racconta Moise Germain. La prima latteria è stata creata in collaborazione con l’Associazione di produttori di latte di Limonade. All’arrivo della Veterimed a Limonade non esisteva alcuna organizzazione di agricoltori o produttori. Si praticava l’allevamento libero. E la zona affrontava un periodo di sei mesi di siccità ogni anno, una situazione che provocava la morte di molti animali. L’implementazione di questo progetto non è avvenuta senza difficoltà. “Quando siamo arrivati a Limonade, gli agricoltori e i produttori erano molto ostili”, ricorda Moise Germain. “Pensavano che fossimo venuti a portare via il poco che avevano”. Solo dieci produttori di latte, dopo molta riluttanza, accettarono di collaborare con l’equipe di Veterimed. Undici anni dopo, i rapporti tra Veterimed, i produttori di latte e la popolazione sono ottimi. “Esiste oggi, a Limonade, un’organizzazione di agenti veterinari, un’organizzazione di produttori di latte
con più di 300 membri, un’associazione di donne molto attiva”, spiega la direttrice di Veterimed. Limonade non è più in una regione in cui il bestiame muore nelle stagioni con scarsità di pioggia. “Abbiamo piantato giardini, con erbe che riescono a resistere a lunghi periodi di secca. In seguito, abbiamo organizzato una banca dei semi per la coltivazione”, ha spiegato Moise Germain. Grazie a tutto questo, Limonade gode ora della reputazione di essere una zona attiva nella produzione di latte vaccino. E non solo, il lavoro della rinomata Associazione dei produttori di latte di Limonade (Apwolim) oltrepassa le frontiere dell’area. Lèt Agogo nelle scuole Lo yogurt, il latte sterilizzato e il formaggio sono i principali prodotti della rete Lèt Agogo. Il latte sterilizzato continua, intan-
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La Racpaba per la ripresa della produzione di riso La Rete di associazioni cooperative per la commercializzazione e produzione agricola della Bassa Artibonite (Racpaba) è stata fondata il 25 giugno 2001 per lavorare nella ripresa della produzione di riso del Paese e difendere i diritti dei produttori. Come già è stato detto, Haiti è, dopo il Giappone e il Messico, il terzo Paese importatore di riso del mondo. Secondo le statistiche, 400 mila tonnellate di riso, per un valore di 240 milioni di dollari, vengono importate annualmente dagli haitiani. La concorrenza con il riso importato e sovvenzionato dai Paesi produttori (Usa per esempio), la liberalizzazione del mercato
Piantagione di riso vicino alla città di Cabo Haitiano (foto Ermanno Allegri).
dei prodotti agricoli, il rischio di inondazioni e perdita di raccolto in aree di produzione (effetti delle alterazioni climatiche), i problemi legati alla proprietà della terra, la diminuzione delle aree coltivabili a favore dei terreni edificabili, la promozione attraverso i mezzi di comunicazione dello Stato dei prodotti importati a danno della produzione nazionale, sono alcune delle cause di declino della produzione di riso ad Haiti. In trent’anni, Haiti è passata da essere un Paese autosufficiente in produzione di riso, a un Paese dipendente dal mercato internazionale. Dalla sua creazione nel 2001, la Racpaba, che conta circa 2.350 membri, mira a rovesciare la situazione e migliorare le condizioni di vita degli agricoltori. La Racpaba, che è un’associazione di sette cooperative agricole, dispone di un deposito di conservazione delle sementi che può immagazzinare cinquecento sacchi di riso di ottanta libbre, di un laboratorio per la sperimentazione, così come di un parco di macchine agricole. Secondo il presidente della rete di cooperative, Bien-Aimé Dieula, l’istituzione aiuta inoltre i suoi membri ad accedere al credito e fornisce appoggio tecnico nella produzione e commercializzazione del riso. La produzione di riso locale interessa solo il 15%-20% del totale di riso sul mercato haitiano. Bien-
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to, a essere il suo principale prodotto. “Il 70% dei nostri prodotti è fatto di latte sterilizzato, distribuito principalmente nelle scuole, nell’ambito del Programma nazionale di alimentazione scolare (Pncs)”, illustra Moise Germain della Veterimed, che conosce bene la problematica del settore agricolo. La collaborazione tra Pncs e Veterimed rappresenta un modello di valorizzazione della produzione locale e dell’economia solidale. Il Manman bèf è l’altro punto della strategia di lavoro che la Veterimed mette in atto per produrre ricchezza nelle comunità. Un donatore volontario, spesso un haitiano della “diaspora” (haitiani che abitano all’estero), compra una vacca e la affida a un agricoltore per il tempo sufficiente almeno a tre gravidanze. I primi due vitelli appartengono alla persona a cui la vacca è stata affidata, mentre il terzo al proprietario. Alla fine della terza gravidanza, si può decidere se rinnovare il contratto o se vendere la vacca. Cinquecento vacche, secondo la direttrice della Veterimed, già sono state distribuite attraverso il programma lanciato nel 2004. Il Collettivo haitiano in Francia è il gruppo più attivo in questo programma. Di 500 animali, 340 appartengono a loro. “Questa è una cosa differente dall’aiuto umanitario”, distingue Moise Germain. Come molte altre istituzioni del Paese, la Veterimed e la sua rete di “microlatterie” sono state colpite dal terremoto del 12 gennaio 2010. Due latterie sono state parzialmente danneggiate. Inoltre, con la chiusura delle scuole, causata dai danni del terremoto, la maggioranza delle latterie ha faticato a vendere i suoi prodotti. I danni più importanti sono stati registrati alla Centrale di commercializzazione e approvvigionamento, che fornisce i latticini e confeziona i suoi prodotti.
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale Aimé Dieula ha sollecitato il governo ad abbattere le restrizioni di produzione, come la mancanza di un credito appropriato per il settore agricolo. “Le cooperative di credito non concedono facilmente credito, a causa dei grandi rischi che riguardano gli investimenti nel settore agricolo”. C’è anche la concorrenza sleale del riso importato, che scoraggia i produttori. Grazie alla presenza della Racpaba e della Federazione nazionale di produttori di riso (Fenaprih), creata nell’aprile 2011, Bien-Aimé Dieula è ottimista per quanto riguarda la produzione di riso nei prossimi anni. I 240 milioni di dollari investiti annualmente nell’importazione di riso verranno così iniettati nell’economia nazionale. Cooperative di depositi e crediti Le Levier è un gruppo di ventitré cooperative di credito confederate, riconosciute tra le migliori del Paese. L’Assemblea costituente della confederazione si è tenuta il 30 giugno del 2007, dopo vari anni di processo di implementazione. Secondo Jocelyn Saint-Jean, direttore generale della Le Levier, le cooperative hanno un ruolo importante da svolgere nello sviluppo del Paese, specialmente perché Haiti è costituzionalmente presentata come una Repubblica cooperativista. Secondo Saint-Jean, l’esperienza haitiana delle casse popolari mostra che il Paese può contare sulle proprie risorse per realizzare alcuni progetti. “Le cooperative di credito mostrano che c’è denaro sufficiente in alcune aree per fare molte cose”, afferma. Anche lui crede che, con le cooperative di credito, il risparmio servirà allo sviluppo locale. “Questa è la differenza tra le cooperative e le banche, nelle quali il denaro locale serve ai più ricchi”, puntualizza. Il direttore de Le Levier crede che, attraverso l’economia solidale, Haiti possa sviluppare un mercato in grado di rispondere alle necessità della sua popolazione. Per esempio, egli considera che, nel campo dell’abitazione, si possano realizzare programmi di costruzione progressiva. Questo è molto differente da quello che fanno le strutture capitaliste. Inoltre invita lo Stato haitiano ad accompagnare le cooperative perché esse possano concedere crediti a un pubblico sempre più ampio. Il Consiglio nazionale di finanziamento popolare (Knfp), uno strumento per il finanziamento agricolo fondato nel 1998, è
un’associazione che riunisce attualmente nove membri. Esso lavora per la promozione e l’aumento del finanziamento pubblico ad Haiti, con una forte presenza nelle aree rurali. “Oggi, ci sono settori che comprendono meglio l’importanza dell’economia sociale”, afferma Lionel Fleuristin, direttore esecutivo del Knfp. Le tre principali aree di lavoro del Knfp riguardano: la formazione degli attori del finanziamento rurale (membri della commissione dei gruppi di base, professionisti del finanziamento decentralizzato) attraverso l’Istituto mobile di formazione (Imofor), la difesa e promozione del finanziamento rurale, la miglioria dei servizi finanziari prestati nel Paese in generale e nelle aree rurali in particolare. Un tavolo decisionale sull’economia solidale, che riunisce politici locali e attori dell’area, è in fase sperimentale in una delle province di Haiti. Specializzato in credito agricolo, il Knfp è riconosciuto come un organismo di utilità pubblica dal 2008. “È una specie di riconoscimento del nostro lavoro”, dice Fleuristin. Nel 2005, i nove membri del Knfp riunivano, per proprio conto, più di 3 mila strutture di finanziamento di base (banche comunitarie o di mutua solidarietà - BC/Muso), circa 70 mila capifamiglia da tutto il Paese. Il Knfp è membro fondatore del forum latino-americano e dei Caraibi sul finanziamento rurale (ForoLacFr), dell’Associazione internazionale di investitori di economia sociale (Inaise), e della Coordinazione Europa-Haiti (CoE-H) della piattaforma delle Ong haitiane ed europee. La Sofa per dare autonomia alle donne La Solidarietà per le donne haitiane (Sofa) è un’organizzazione femminista, fondata nel 1986, che lotta per la garanzia e la salvaguardia dei diritti delle donne. Fin dai suoi inizi, l’organizzazione svolge un lavoro di avvocatura con i poteri pubblici perché tengano in considerazione i diritti delle donne e dei gruppi vulnerabili. La Sofa opera su varie linee di intervento a favore delle donne, come il diritto alla salute, la lotta contro la violenza, la promozione dell’autonomia e della partecipazione agli spazi decisionali. “Stiamo sviluppando l’economia solidale per raggiungere questo ultimo obiettivo”, spiega Carole Jacob, coordinatrice della Sofa. Quattro mulini agricoli, racconta, sono stati instal-
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lati nel dipartimento di Artibonite, regione produttrice di riso, a beneficio delle donne che si dedicano all’agricoltura. “Questo progetto segue un obiettivo comunitario”, dice la responsabile della Sofa, aggiungendo che i terreni vengono ceduti alle donne seguite dal progetto. Circa 2 mila donne beneficiano dei progetti della Sofa, che permettono loro di lanciarsi nell’imprenditoria e di rendersi protagoniste delle proprie vite. Con il contributo dei beneficiari, la Sofa concede crediti ai suoi membri. “Noi non facciamo parte dei sistemi di microcredito. Il nostro approccio è differente da quello delle organizzazioni di microcredito, perché non cerchiamo lucro”, spiega Carole Jacob. Secondo lei, i mulini della Sofa fanno una grande differenza nella vita delle donne delle aree in cui vengono installati. “I beneficiari capiscono che non hanno più bisogno di aspettare a braccia conserte l’intervento delle autorità per risolvere i loro problemi”, ricorda lei, elogiando l’economia solidale. Carole Pierre-Paul Jacob crede fermamente che, con la crisi del capitalismo, Haiti debba ricorrere all’economia sociale e solidale.
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Donne haitiane in cerca di autonomia sociale ed economica con l’appoggio della Sofa (foto Francisca Stuardo).
Stando ai dati divulgati dal Pdna, prima del terremoto il tasso di disoccupazione ad Haiti era stimato in circa il 30% in tutto il Paese (45% nelle aree metropolitane), con il 32% riguardante le donne e il 62% la popolazione tra i 15 e i 19 anni. Tutti gli indicatori di sviluppo sono in rosso. Secondo il Pdna, nel 2001 il 76% della popolazione di Haiti viveva sotto la soglia della povertà, con meno di 2 dollari al giorno, e il 56% sotto la soglia di povertà estrema, con meno di 1 dollaro al giorno. Si stima che, nel corso degli ultimi dieci anni, la percentuale di persone povere ed estremamente povere sia scesa di più dell’8% in tutto il Paese, eccetto nell’area metropolitana, che ha visto la sua povertà aumentare di quasi il 13% durante lo stesso periodo. La situazione di Haiti, secondo diversi specialisti, come il professor Camille Chalmers della Papda, è una conseguenza della politica neoliberista applicata dalle autorità haitiane. Chalmers evidenzia che Haiti è in una fase di de-industrializzazione. Dagli anni ’80, Haiti è diventata un mercato di vendita per i prodotti capitalisti. Questa situazione è iniziata con la mattanza dei maiali creoli, che costituivano un importante pilastro dell’economia nazionale. I maiali sono stati annientati negli anni ’70 e ’80 dal governo haitiano, su pressione delle autorità statunitensi. Stando alle informazioni ufficiali, i maiali creoli sono stati uccisi per evitare la diffusione del virus della peste suina africana, che si era diramato a partire dalla Spagna attraverso la Repubblica Dominicana e Haiti, e poi attraverso il fiume Artibonite. Una spiegazione rifiutata dagli haitiani, che credono invece in un piano finalizzato a distruggere la loro economia. Il settore delle ditte di assemblaggio, altro pilastro dell’economia haitiana in passato, è andato deteriorandosi nel corso degli anni. Dall’ottobre 1990 al giugno 1991, Haiti ha perso 8.200 posti di lavoro dei 40 mila che aveva. Nel 1994, alla fine dell’embargo imposto dalla comunità internazionale contro Haiti dopo il colpo di Stato del 1991, c’erano meno di 11 mila posti di lavoro nell’industria metallurgica. Negli anni ’80 c’erano circa 150 mila persone impiegate nell’area della terziarizzazione. Dopo le crisi politiche ricorrenti vissute dal Paese, alcune fabbriche sono state dislocate e riaperte in altri Paesi dell’area, come Giamaica, Repubblica Dominicana e Porto Rico. Davanti a questo fenomeno, le autorità haitiane
I commercianti occupano le strade, mescolando tutti i tipi di merce (foto Francisca Stuardo).
hanno cercato di rilanciare la terziarizzazione dei servizi, con la creazione di zone franche, definite su base di porzioni di territorio chiaramente delimitate. L’azione, che promuove lo sfruttamento di mano d’opera a basso costo in regime di semischiavitù, viene supervisionata dall’Amministrazione generale delle dogane (Agd), un regime doganale e fiscale speciale. “Il recupero dell’area tessile sarebbe molto vantaggioso in termini di creazione di posti di lavoro”, ritiene l’economista Alix Labossière. Eppure, il recupero del settore tessile non deve essere considerato il miracolo sperato per l’economia haitiana. “Esso aiuterebbe in modo sostanziale nella creazione di posti
di lavoro, ma non è un motore di sviluppo economico, come lo sono il turismo, l’agricoltura ecc.”, ha precisato Labossière. Il Congresso statunitense nel 2006 ha votato, a beneficio di Haiti, una legge denominata Hope I, presentata come una “opportunità per Haiti di incentivare la collaborazione nel suo emisfero”. Il principale obiettivo di Hope I era garantire il libero accesso al mercato statunitense per determinati prodotti fabbricati ad Haiti, quali vestiti e cavi elettrici, quindi con esenzione dei diritti doganali. La legge Hope II, una nuova versione della prima, venne adottata nel 2008. Queste iniziative avrebbero dovuto contribuire a rivitalizzare il settore terziario, ma non è quel
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Viva Haiti dei Caraibi, e può essere un catalizzatore, una locomotiva per lo sviluppo del Paese”, ha affermato il ministro durante una conferenza stampa nel maggio 2012. In realtà, a lato delle promesse sulle migliaia di posti di lavoro che il parco industriale di Caracol può creare, anche senza entrare nel dettaglio delle condizioni di lavoro che esso offrirà, gli economisti non hanno tralasciato di menzionare gli impatti ambientali negativi che esso ha sull’economia agricola, dato che viene costruito su terreni fertili. “Il parco industriale di Caracol sta entrando in concorrenza con l’economia agricola. Avrebbe potuto essere costruito in una zona arida e non in un’area propizia all’agricoltura. Questo distruggerà le organizzazioni di agricoltori. Le persone guadagnano infinitamente meno nel settore industriale rispetto a quello agricolo”, lamenta Lionel Fleuristin, del Knfp. Per il professor Camille Chalmers, la legge Hope non porta vantaggi. “Si tratta delle stesse condizioni di liberalizzazione e privatizzazione che vengono imposte al Paese da decenni e che hanno indebolito l’economia nazionale, e con essa le condizioni socioeconomiche della popolazione”, afferma. I cittadini tardano a vedere i risultati delle iniziative intraprese negli ultimi anni per riattivare l’economia haitiana. Il terremoto del 12 gennaio 2010, senza dubbio, ha minato gli sforzi delle autorità haitiane e dei collaboratori internazionali per togliere il Paese dalla situazione attuale, ma anche prima del terremoto il bilancio nazionale veniva finanziato per più del 60% dalla comunità internazionale. Il Paese è diventato insolvente agli occhi dei donatori internazionali di fondi. Haiti non può più proporsi per prestiti, ma solo per donazioni. Vive di investimenti internazionali, non sempre etici e solidali. La produzione agricola haitiana è in declino. Un rapporto del Centro di esportazioni e di investimenti della Repubblica Dominicana (Cei-RD) riporta che Haiti ha importato dalla Repubblica Dominicana tra il 2004 e il 2010 merce per il valore di 872,7 milioni di dollari. I principali prodotti importati sono tessuti di cotone, capi di abbigliamento realizzati in fibre sintetiche, barre di acciaio da costruzione, commestibili vari, polvere di cemento, farmaci antidiarroici, farina di grano, combustibili, baracche, cotone, galline, banane, pasta, sacchi di plastica, lastre di zinco, olio di soja, cocco grattugiato, fagioli neri, abiti usati, salumi e zucchero
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che è accaduto. Avendo voluto mantenere la mano d’opera a costi estremamente bassi, l’economia haitiana ha finito per non avere il ritorno sperato da queste leggi. Nonostante ciò, l’attuale governo attribuisce grande importanza allo sviluppo industriale e manifatturiero. Il parco industriale di Caracol, la cui prima pietra è stata posata il 28 novembre 2011, è attualmente in costruzione su 250 ettari nella pianura di Caracol, che si trova a 260 km a nordest di Port-au-Prince, nella città di Trou du Nord. Il parco è un progetto che il presidente Martelly sta prendendo sul serio. I progettisti parlano di circa 20 mila posti di lavoro che saranno creati durante la “fase 1”. Saranno circa 100 mila posti di impiego diretto e indiretto nel corso dei prossimi anni. Quel che il presidente non dice è che saranno quasi esclusivamente lavori nella manifattura, con salari da miseria. C’è un grande interesse internazionale su questo parco, probabilmente per la possibilità di sfruttamento di mano d’opera a basso costo. Mentre la Banca interamericana di sviluppo (Bid) ha destinato 55 milioni di dollari alla fase iniziale della costruzione del parco industriale, l’impresa sud-coreana Sae-A Co Ltda, la principale locataria della nascente infrastruttura, conta su investimenti di 78 milioni di dollari per lo sviluppo delle operazioni. Il governo degli Usa, a sua volta, si è impegnato a trasferire un minimo di 124 milioni di dollari in fondi per la fornitura di almeno 25 megawatt di elettricità, per la miglioria delle strutture mediche della regione e per la costruzione di circa 5 mila unità abitative intorno al parco industriale nel Nord. Questo parco, con investimenti totali previsti in 257 milioni di dollari, ha la pretesa di essere il più grande e il più moderno dei Caraibi, e anche il maggior investimento estero ad Haiti. Durante l’inaugurazione, nel novembre 2011, Martelly ha dichiarato che il parco industriale rappresenta un modello di investimento che verrà ripetuto in altri dipartimenti, e che questo può aiutare a cambiare il Paese. Per lui, si tratterebbe di un modello di “sviluppo sostenibile reale”. È chiaro quindi che l’idea di repubblica cooperativista del presidente haitiano non include la partecipazione popolare, se non per quel che riguarda la disponibilità a essere sfruttati dalle grandi organizzazioni internazionali. Anche il ministro dell’Industria e del commercio, Wilson Laleau, è ottimista riguardo alla costruzione di questo parco. “È un progetto aperto, che fornisce una base e degli strumenti per favorire gli investitori. È il maggior parco industriale del Paese e
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale grezzo di canna. Il rapporto non indica l’ammontare delle esportazioni da Haiti per la Repubblica Dominicana. Esperti nella questione agricola attivi all’interno del movimento dei lavoratori rurali haitiani, i brasiliani del Movimento dei lavoratori rurali senza terra (Mst), l’ingegnera agronoma Dayana Mezzonato e il professore di storia José Luis Rodrigues (Patrola), che fanno parte anche della Via Campesina, considerano la situazione di Haiti molto complicata, e individuano la maggior sfida per il Paese nella possibilità di svincolarsi dalla presenza attiva degli Usa. “Qualunque passo fuori da questa politica può portare conseguenze dure. La rottura con questo sistema di dominazione, ancorato sugli interessi dell’élite nazionale, è una delle maggiori sfide per la società haitiana, se vuole sviluppare un effettivo processo di democrazia partecipativa”, sottolinea. Nella valutazione del Mst e di Via Campesina, l’incentivo al settore agricolo sarebbe, senza dubbio, uno dei percorsi per rompere con la dominazione economica, considerando il fatto che il 65% della popolazione haitiana ancora vive nei campi. È un lungo processo. “È fondamentale la realizzazione di una seria riforma agraria e di un programma per l’agricoltura, con investimenti sulla ricerca e sulla formazione professionale. L’equazione è semplice: l’agricoltura impiegherebbe mano d’opera e promuoverebbe l’aumento di reddito della popolazione contadina, il che movimenterebbe l’economia locale. E, dall’altro lato, l’agricoltura nazionale potrebbe provvedere all’approvvigionamento di una serie di prodotti che oggigiorno vengono importati, come uova, pollo, riso, zucchero e altri lavorati, come polpa di pomodoro, conservati, latte e derivati, ecc.”, spiegano loro. Il Paese è situato su un’isola con scarse risorse naturali, con il 75% del territorio composto da montagne, e per questo sono necessarie molta forza di volontà politica e una buona gestione delle risorse per trasformare l’agricoltura haitiana in un settore che riesca a contribuire effettivamente a risollevare l’economia del Paese. È ovvio che i problemi di ordine “naturale” sono fondamentali nel determinare la mancanza di produzione di ricchezza di cui gli haitiani hanno bisogno. Lo scambio di prodotti tra nazioni non è di per sé qualcosa di negativo, affermano Mezzonato e Patrola. “Il problema è lo sfruttamento che viene realizzato all’interno degli scambi commerciali secondo la logica capitalista. E Haiti è in una condizione di sovrasfruttamento”, concludono.
Come uscire dal ginepraio? Ad Haiti vengono prodotte molte ricchezze, tutti i giorni. Sono approssimativamente 10 milioni di persone che si alimentano ogni giorno e il 50% di questo cibo è prodotto dal Paese stesso, anche se le condizioni di realizzazione di questa produzione sono molto precarie: gran parte dei contadini non possiede terre sufficienti, esistono problemi di credito e di assistenza tecnica, non c’è nessuna entità di ricerca agricola e zootecnica ed esiste solo una facoltà universitaria di agronomia pubblica nel Paese. A causa dell’assenza di servizi di base, come acqua, elettricità, fognature e strade, anche il settore delle costruzioni civili avrebbe ampio spazio per svilupparsi e generare impiego nella valutazione del Mst e di Via Campesina. Jean Garry, analista haitiano dell’ente brasiliano Centro di strategia, analisi e relazioni internazionali (Ceiri), crede che la possibile alternativa per la produzione di ricchezza sia rappresentata dallo sviluppo di azioni capaci di combattere la povertà e promuovere leadership politiche in grado di comprendere le vere sfide della globalizzazione. Anch’egli ritiene che l’agricoltura possa dare un forte apporto all’economia, ma che sia necessario andare molto oltre la semplice agricoltura familiare. “L’agricoltura ha bisogno di migliorare la produttività e rafforzare il suo orientamento al biologico, per poter creare un’eccellenza sui mercati esteri”. L’altro settore che, nell’opinione di Garry, potrebbe sostenere in parte l’economia haitiana è il turismo. Haiti è stata leader di questo settore negli anni ’60. Col tempo, però, la dittatura Duvalier e l’instabilità politica hanno frenato il suo sviluppo e relegato il Paese all’ultimo posto nell’area. Non è un segreto che gli aiuti internazionali ad Haiti abbiano fallito. La situazione socioeconomica del Paese ne è la prova. In ogni periodo di crisi politica o in ogni momento di disastro, la comunità internazionale promette milioni, anche miliardi al Paese. Questo è stato il caso del 2004, dopo l’uscita di scena dell’ex presidente Jean-Bertrand Aristide, come anche dopo il terremoto del 12 gennaio 2010. Tre anni dopo la catastrofe del 2010 tutti concordano sul fatto che le promesse non siano state mantenute. Tutti concordano sul fatto che i fondi non sono stati concessi al ritmo desiderato. I sopravvissuti al terremoto stanno cominciando a mostrare segnali di impazienza. Alcuni iniziano anche a esprimere sfiducia
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Viva Haiti
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A dispetto delle norme igieniche gli haitiani espongono a terra gli alimenti messi in vendita (foto Francisca Stuardo).
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale nella comunità internazionale. “Haiti non si ricostruirà a partire dagli aiuti internazionali, poiché questi Paesi sono in crisi”, dice Rosanie Moise Germain della Veterimed. Per Lionel Fleuristin è nella produzione locale che le autorità haitiane devono investire, se desiderano salvare il Paese dalla situazione economica disastrosa in cui si trova. “Se abbandoniamo la produzione locale, il risparmio verrà usato per servire l’esportazione”, ha affermato, mostrandosi pessimista sulle promesse della comunità internazionale. Anch’egli denuncia la politica pubblica, che privilegia l’importazione di riso a danno della produzione locale. Con un altro focus, come è stato dimostrato dalla costruzione della zona franca di Caracol, il governo ha annunciato un piano di trasformazione di Haiti in Paese emergente entro il 2030. Il nuovo capo del governo haitiano, Laurent Lamothe, nella sua dichiarazione politica in parlamento non menziona la promozione dell’economia solidale. Nel frattempo, per raggiungere questo obiettivo, i principali settori individuati dal suo programma di sviluppo sono il turismo, l’agricoltura, il tessile, le infrastrutture (telecomunicazioni, elettricità, strade, porti e aeroporti), e la co-
struzione civile, con enfasi particolare sugli edifici dell’amministrazione pubblica e sull’accesso all’abitazione. “Incentiveremo lo sviluppo di nuovi meccanismi di appoggio alle piccole e medie imprese. Stiamo pensando, con carattere di emergenza, alla creazione di un fondo di solidarietà per le donne e i contadini, alla riforma del codice di investimento, della legge sulle zone franche e del regime fiscale in vigore, al rinnovamento in ambito commerciale, al rafforzamento del settore della sicurezza attraverso una regolamentazione adeguata, all’intensificazione della lotta alla corruzione e al contrabbando, al rafforzamento della lotta all’evasione, all’aumento significativo delle rendite fiscali, al potenziamento del Centro di facilitazione di investimenti (Cfi)”. Le misure specifiche annunciate dal primo ministro Lamothe fino al 2030 possono essere considerate misure sicuramente importanti, ma sono emblematiche anche per dimostrare come il potere pubblico e la popolazione marcino su strade parallele, o a volte contrarie. Eppure si spera che, grazie alla volontà politica e all’organizzazione popolare, sia possibile che il cammino, un giorno, diventi uno solo.
Anche prodotti deperibili, come il latte, vengono venduti sulle strade o nei mercati (foto Francisca Stuardo).
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Viva Haiti
Adriana Santiago
Lèt Agogo - La produzione di latte aiuta gli abitanti delle campagne Idea semplice ed efficace, che ha portato benefici a varie comunità ad Haiti. Gente semplice, che riesce così a trarre il sostentamento per sé e per la famiglia. Questa è una delle poche esperienze di organizzazioni sociali ben funzionanti, forse perché uno dei fondatori della Veterimed, organizzazione di agronomi responsabile dell’idea, è il segretario di Stato per la produzione animale di Haiti, Michel Chancy, che ha firmato un accordo con la Fao e, grazie agli aiuti del Brasile, ha distribuito i prodotti Lèt Agogo come merenda per migliaia di bambini nelle scuole pubbliche haitiane. Se tutti i programmi di emergenza che ricevono risorse internazionali investissero su queste idee semplici, forse Haiti non avrebbe bisogno, ancora oggi, di tanti aiuti stranieri che molti già definiscono come forme di dominazione.
Alla latteria di Lemonade arrivano incessantemente nuovi carichi di latte (foto Ermanno Allegri).
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Di mattina presto iniziano ad arrivare alla latteria i bidoncini bianchi, legati alle biciclette e alle moto, o portati sulla testa e disposti su panni arrotolati per alleviarne il peso. Persone di tutte le età arrivano silenziosamente e consegnano la loro produzione diaria alla latteria comunitaria per la lavorazione. Il latte viene pesato, controllato per verificare che non sia stato allungato con acqua, e solo dopo che è stato completato il controllo di qualità viene accettato e registrato in modo chiaro. Il latte viene lavorato, pastorizzato, trasformato in yogurt e formaggio di eccellente qualità. Alla fine del mese, quando i fornitori pagano, tutto viene diviso proporzionalmente all’interno della comunità partecipante, perché la latteria è gestita con un sistema cooperativo, e l’amministrazione riceve una parte del ricavato per reinvestirlo.
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale
L’agronomo Cimé Jean Shilet è il coordinatore tecnico della Ong haitiana Veterimed (foto Ermanno Allegri).
Formare veterinari La Veterimed è un’organizzazione non governativa che ha iniziato a lavorare sulla formazione nel 1989, inviando professionisti in Brasile per apprendere tecniche di coltivazione sostenibile della terra, o formando veterinari a Cuba. Il focus era quello della salute degli animali, della formazione dei tecnici ausiliari, oltre alla promozione di campagne di vaccinazione, principalmente contro l’antrace, tutte attività finanziate da donazioni o dall’Ong internazionale “Veterinari senza frontiere”. A quell’epoca l’idea del ministero dell’Agricoltura era che ogni sessione comunitaria, similmente ai distretti brasiliani, avesse tre tecnici veterinari. Ma nel 1990 esistevano solo dieci veterinari in tutta Haiti. Si iniziò allora il lavoro a partire dalle situazioni di urgenza e formazione di medici veterinari in convenzione tra Cuba e Haiti. Nel 2000, dieci anni dopo, venne raggiunta la meta di tre veterinari per sessione. Fatto questo, si iniziò a lavorare sul fronte della salute, con produzione e ricerche che studiassero le possibili leve per lo sviluppo del Paese, come la produzione di latte, l’allevamento di bovini, capre e conigli. “Un mutamento radicale della strategia”, come ci ha spiegato in modo chiaro e paziente il sorridente Cimé Jean Shilet, coordinatore tecnico dell’organizzazione. Ed è nata Lèt Agogo L’organizzazione ha iniziato così a cercare idee e donatori fuori da Haiti e a investire nel Nordest del Paese, regione con la mag-
giore produzione di latte. Oggi la Veterimed garantisce consulenza tecnica in ciascuna delle latterie che, insieme, già producono tra i 300 e i 400 litri di latte al giorno. È poco quando si pensa all’importazione dei 40 milioni di litri di latte al mese per rifornire il mercato interno, ma è una produzione considerata eccellente per le venti latterie e le 6 mila famiglie rurali coinvolte nel lavoro, in un Paese dove più dell’80% della popolazione è disoccupata. Nelle latterie vengono lavorati quattro prodotti: latte pastorizzato, da consumare in 7-10 giorni, latte a lunga conservazione, da consumare in 9-10 mesi, yogurt, e un meraviglioso formaggio cheddar. Il formaggio è tanto buono che in meno di un’ora di intervista quattro addetti del nostro reportage, accompagnati da Cimé, ne hanno divorato una forma di quasi due chili. Anche lo yogurt li ha ugualmente deliziati due giorni dopo, a Limonade, quando l’equipe è andata a visitare una latteria vicina a Cabo Haitiano. Il problema che la Veterimed affronta attualmente riguarda il modo di abbassare i prezzi e ampliare la produzione di Lèt Agogo. Oggi tutto l’equipaggiamento per la lavorazione del latte a lunga conservazione, che dura più tempo, viene dall’estero: la macchina per chiudere le bottiglie, l’autoclave per la sterilizzazione a cento gradi centigradi, tutto è importato dagli Usa. I tappi vengono da un altro Paese, e le bottiglie da 350 ml, adatte alle porzioni individuali per le merende scolastiche, sono acquistate in Guatemala. A parte il latte e la mano d’opera, niente viene fatto ad Haiti. La Veterimed incentiva le latterie a investire sulla commercializzazione, andando oltre la merenda scolastica, ed è possibile trovare i prodotti di Lèt Agogo nei supermercati di Portau-Prince e Limonade. Sono pochi prodotti in relazione a quelli delle marche importate, ma rappresentano un passo avanti. Il mercato per il formaggio è rappresentato da alberghi e ristoranti, che possono offrire un prodotto originario di Haiti ai loro clienti. Per Cimé, però, la cosa rilevante è che la cooperazione brasiliana, attraverso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), abbia reso possibile l’ingresso dei prodotti haitiani nelle agende delle Ong internazionali, promuovendo una grande domanda di latticini locali prodotti in modo cooperativo per ospedali e scuole pubbliche. Una parte consistente del lavoro è finalizzata al recupero e riutilizzo degli imballaggi di vetro. Una bottiglietta costa 0,50 dollari, a cui bisogna aggiungere il costo del trasporto dal Guatemala. Si spera di riuscire ad avere fondi disponibili per comprare 1 milione di bot-
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Lâ&#x20AC;&#x2122;agronomo Djilouf François spiega come la Veterimed aiuta i produttori familiari di Limonade in fase di formazione, lavorazione e negoziazione dei contratti (foto Ermanno Allegri).
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale tigliette in un’unica soluzione, per diminuire i costi. Sul mercato, oggi, già circolano 1,2 milioni di bottigliette riciclabili. Produzione e politica Grazie al successo dell’idea, con il progetto Lèt Agogo la Ong Veterimed ha vinto in Cile il primo posto nell’edizione 20042005 del Concorso “Esperienze nell’innovazione sociale”, organizzato dalla Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal), con appoggio della Fondazione W.K. Kellogg, per il quale erano in gara 1.600 progetti di innovazione sociale. Questo ha fornito l’appoggio necessario per nuove conquiste, come l’acquisizione dei prodotti da parte delle Ong commerciali. Uno dei rari prodotti haitiani nella lista dei generi di aiuto umanitario. La giuria del concorso ha valutato che il programma, oltre a contribuire alla sicurezza alimentare e nutrizionale di Haiti, abbia una profonda ripercussione sulle modalità di sfruttamento delle risorse agricole e zootecniche, dato che le utilizza per la produzione locale di prodotti tanto nutrienti come yogurt e latte. I risultati sul piano pratico hanno ripercussioni anche su quello politico, poiché a partire dalle venti cooperative di latte del Nord è stata fondata la Federazione nazionale del latte haitiano (Fenaprola, nella sua sigla francese), che si occupa di organizzare tutto il settore. Cimé spiega che il sistema agrario attuale non permette grandi allevamenti di animali. In questo modo, la Fenaprola garantisce una maggiore conformità, ma è necessario un approfondito dibattito per un cambiamento nazionale, poiché poco a poco i produttori di latte aumentano i loro allevamenti e vogliono negoziare con lo Stato per poter disporre di terre. Il conflitto è nelle mani di Michel Chancy, che è stato il direttore e uno dei creatori della Veterimed e del Lèt Agogo, ed è segretario di Stato per l’allevamento di animali, funzione importante nel ministero dell’Agricoltura del governo del presidente René Préval. Il ministero dovrebbe incentivare iniziative simili, basate su quel che ha già dato buoni risultati. Il terremoto ha ritardato il piano di espansione Con il terremoto del 12 gennaio 2010 tutto è cambiato. La sede della Veterimed è andata distrutta, molte delle ricerche sono tornate al punto zero, lavoratori preziosi sono morti o fug-
Ogni produttore riceve recipienti per la raccolta numerati e igienizzati. Dopo la consegna, viene controllata la qualità, l’igiene e la purezza del latte, che viene pastorizzato (foto Ermanno Allegri).
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Viva Haiti
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Le bottiglie riutilizzabili di latte vengono igienizzate e sterilizzate dagli operatori della latteria comunitaria, cosÏ come i recipienti consegnati dai produttori. Il latte a lunga conservazione può durare fino a nove mesi, per la merenda scolastica (foto Ermanno Allegri).
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale giti negli Usa, molti hanno perso la documentazione ed è stato necessario rimettere in moto il lavoro quasi da zero. Uno degli edifici distrutti ospitava il centro di stagionatura del formaggio, con un apposito dispositivo importato dall’Ecuador, la cui perdita ha ritardato la produzione e le analisi. Nonostante ciò, le latterie delle zone interne hanno continuato a funzionare, e il governo ha fatto pressione sulla Fao per includere il latte negli aiuti internazionali. Tra marzo 2010 e marzo 2011 il fatturato totale della Lèt Agogo era tra i 20 e i 22 milioni di gourdes, dei quali il 40% è stato destinato ai produttori, e il 60% all’amministrazione e al reinvestimento delle cooperative, che non smettono di crescere. E tutto il prodotto è di eccellente qualità, verificata costantemente dalla vigilanza sanitaria del programma della Fao. L’obiettivo è arrivare a 85 latterie sparse per tutta Haiti, strutturate come organizzazioni produttrici cooperative, che si occupino di lavorazione di latte, formaggio e yogurt per rifornire tutto il territorio nazionale. Rimane da superare l’ostacolo dell’imballaggio, per il quale si sta tentando di sviluppare un materiale simile al tetrapak, costruire latterie più moderne che riescano a soddisfare la domanda di consumo di latte del mercato interno, principalmente nei mesi da maggio a giugno quando, per le tante piogge, la produzione quasi cessa. È quindi necessario disporre di maggiori risorse tecnologiche per poter stoccare l’eccesso e garantire la produzione, sfruttando il periodo da agosto a settembre, quando il volume del latte aumenta. Nelle campagne c’era l’usanza di commercializzare tutto per strada, adesso esiste un luogo per concentrare la produzione, facilitando il lavoro, garantendo più possibilità di impiego, nonché sicurezza alimentare dentro e fuori casa, perché i bambini della scuola pubblica stanno bevendo latte locale, intero e di buona qualità. C’è anche un progetto della Bid per garantire finanziamenti, con lo scopo di arricchire il latte di vitamine in modo artigianale. La latteria modello La latteria di Limonade, a Cabo Haitiano, è stata la prima a essere impiantata. Là abbiamo incontrato l’agronomo Djilouf François, che ci ha informato sulla produzione locale, che varia tra i 180 e i 200 litri al giorno. Oggi sono quattro le associazioni, in maggioranza composte da donne, che garantiscono la produzio-
ne: Pawolim, Aflidepia, Mcad e Intervet. Nomi di cui nemmeno lui conosce esattamente il significato, ma che sono stati creati dalle stesse famiglie del municipio. Oggi solo la Pawolin e la Aflidepia impiegano 400 persone ciascuna, e le minori, Mcad e Intervet, 80 e 65 persone rispettivamente. Questa esperienza, oltre a garantire la vendita totale della produzione, ha per lui un valore maggiore di quello di mercato. “Prima non sapevamo che fare con il latte, a volte lo conservavamo per i bambini, ma andava a male, o tentavamo di venderlo in città. Adesso la vendita di latte puro è garantita dalla latteria”, ricorda Elise Elbeu, che ha perso nel 1999 tutti gli animali, per fame o per sete, ma ha imparato, con la Veterimed, nuove tecniche di cura e di allevamento animale. Siamo rimasti davanti alla latteria quindici minuti assistendo a un grande movimento. I produttori arrivavano con due, cinque, sette bidoncini di latte, ognuno contraddistinto da un numero abbinato al suo proprietario. Consegnavano il latte al bancone, dove uno dei dieci operatori della latteria eseguiva il test di qualità, dato che non è consentito consegnare la mistura di acqua e latte tradizionalmente venduta per le strade della città. Passato il controllo della densità, 1,025 di densità limite, viene fatto il controllo con alcool per verificare il livello di batteri e microbi, così come si verifica che non ci siano tracce di amido o di sabbia, e si passa poi al controllo dell’acidità. I produttori devono essere formati per mungere il latte nel miglior modo possibile, il controllo è severo. Quando il latte viene finalmente accettato, viene aggiornato il conto del produttore-socio, e viene avviato alla lavorazione. Per diventare latte pastorizzato passa alla bollitura a 95° per 5-10 minuti; per diventare yogurt, la temperatura è di 45°; per diventare latte a lunga conservazione viene bollito a 75° e passa poi in un’autoclave a 121° per altri 15-20 minuti, per affrontare i nove mesi di garanzia. Le bottigliette inviate alle scuole vengono aromatizzate con vaniglia o cioccolato, e inserite dalla Fao nella merenda scolastica di Limonade. Le bottigliette tornano tutte indietro, per essere riutilizzate. Nella latteria vengono poi lavate e sterilizzate, e tappate con un semplice dispositivo. Il deposito è pieno e sta aspettando la domanda. La produzione non cessa. Lo yogurt e il formaggio, quando non sono destinati alle scuole, arrivano sugli scaffali dei supermercati di Limonade. “La stessa cooperativa che gestisce la latteria è responsabile dei contratti con il mercato locale”, garantisce l’agronomo.
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Viva Haiti
Paese emergente. Un caso di raggiro? Menzogna, fiducia e società
Alain Gilles Phd in sociologia all’Università della Colombia, membro del Centro di studi sullo sviluppo delle culture e società (Cederci), e professore dell’Università di Quisqueya, Port-au-Prince, Haiti.
grandi, le cui risorse naturali sono misurate in valori assoluti, in termini di volume e di quantità. Ma il Sudafrica non può far parte di questo gruppo, perché la sua popolazione è di soli cinquanta milioni di abitanti. Pertanto anche il fattore demografico rientra tra i criteri per essere classificato come un “Paese emergente”, poiché, secondo O’Neill, tale definizione racchiude la possibilità che un Paese ha di produrre un impatto globale. Presentiamo nella pagina seguente una tabella, con alcune caratteristiche di base di Haiti, dei Bric e degli N-11. Nel 2011 la popolazione di Haiti rappresentava il 7,1% della popolazione della Russia, che è la meno popolosa dei Bric, e il 20,3% della popolazione della Corea del Sud, la meno popolosa degli N-11. Secondo il Centro di studi prospettici e di informazioni internazionali, i Paesi emergenti si definiscono per “un livello di ricchezza, una partecipazione crescente agli scambi internazionali di prodotti manifatturieri e l’attrazione che esercitano sui flussi internazionali di capitali”. In termini relativi, cioè in percentuale rispetto al suo Pil, Haiti importa molto più della maggior parte dei Bric o degli N-11. Nell’importazione, Haiti è superata solo dalla Corea del Sud e dal Vietnam, cosa che mostra la grande dipendenza del Paese. Tuttavia, in valore assoluto, l’importazione haitiana è irrisoria, davanti alla debolezza della sua economia. Gli investimenti stranieri diretti al Paese sono insufficienti: nel
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di Alain Gilles
È ufficiale. Haiti, alla fine della sua ricostruzione nel 2030, sarà un “Paese emergente”. È quanto ha affermato l’attuale primo ministro: “Quanto al programma economico e sociale, il mio governo seguirà le raccomandazioni del ministro della Pianificazione e cooperazione esterna, che ha proposto un Piano strategico di sviluppo di Haiti (Psdh) che mira a fare di Haiti un Paese emergente nel 2030”. Lemothe (Laurent Lemothe) ha sostituito Gary Conille, che è rimasto al governo solo sei mesi. Anche se i due appartengono allo stesso partito, il primo ministro Lemothe ha più affinità con il governo di Préval-Bellerive, il che giustifica la sua preferenza per il Psdh, dato che questo piano è stato creato nel 2010 durante il governo Bellerive, il secondo governo del nuovo presidente. Sarà vero che, nel giro di vent’anni, saremo al fianco dei grandi Paesi emergenti come Brasile, Russia, India e Cina? Non vogliamo andare così lontano. Questo gruppo è stato chiamato Bric dall’economista Jim O’Neil della Goldman Sachs, una sigla che contiene le iniziali dei nomi di questi Paesi. Questo economista propone anche i prossimi undici paesi, i “Next Eleven”, o N-11, come candidati da aggiungere ai Bric. Gli undici candidati sono: Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Corea del Sud, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia e Vietnam. Come si vede, Haiti non è tra loro. Alcuni già appartengono al gruppo chiamato Npi (Nuovi Paesi industrializzati). Si tratta di Paesi relativamente
Unâ&#x20AC;&#x2122;alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale
paese
superficie
(1000 km2)
popolazione
(milioni, 2011)
crescita annuale del pil
(%)
investimento straniero diretto (milioni
$)
importazioni in
% sul pil
esportazioni in
% sul pil $
valore del pil in milioni
2007
2008
2007
2008
2007
2008
2007
2008
Haiti
27,75
10,12
3,3
0,8
74,5
29,8
39
44
13 5.971
13 6.408
Brasile
8.514,88
196,66
6,1
5,2
34.584,9
45.058,2
12
13
13 1.365.983
14 1.652.818
Russia
17.098,24
141,93
8,5
5,2
55.073,2
75.002,4
22
22
30 1.299.706
31 1.660.846
India
3.287,26
1.241,49
9,8
3,9
25.482,7
43.406,3
24
29
20 1.238.700
24 1.224.097
Cina
9.600,00
1.344,13
14,2
9,6
160.051,8
175.147,7
30
27
38 3.494.056
35 4.521.827
Bangladesh
144
150,49
6,4
6,2
652,8
1.009,6
27
29
20 68.415
20 79.554
Egitto
1.001,45
82,54
7,1
7,2
11.578,1
9.494,6
35
39
30 130.478
33 162.818
Indonesia
1.904,57
242,23
6,3
6,0
6.928,5
9.318,5
25
29
29 432.217
30 510.245
Iran
-
-
7,8
2,3
1.669,6
1.615,4
22
-
32 286.058
338.187
Corea del Sud
99,9
49,78
5,1
2,3
1.784,4
3.310,7
40
54
42 1.049.236
53 931.402
Messico
1.964,38
114,79
3,3
1,2
31.313,4
26.888,5
30
30
28 1.035.930
28 1.094.480
Nigeria
923,77
146,95
6,4
6,0
6.035,0
8.196,6
26
29
41 165.921
42 207.118
Pachistan
796,1
164,45
5,7
1,6
5.590,0
5.438,0
21
24
14 143.171
13 163.892
Filippine
300
94,85
6,6
4,2
2.916
1.544
43
39
43 149.360
37 173.603
Turchia
783,56
72,75
4,7
0,7
22.047,0
19.504,0
27
28
22 647.155
24 730.337
Vietnam
331,05
87,84
8,5
6,3
6.700,0
9.579,0
93
93
77 71.016
78 91.094
Fonte: Banca Mondiale
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Viva Haiti Michael Porter è professore di strategia di impresa all’Università di Harvard (Usa), uno studioso di reputazione mondiale. Le sue opere classiche Competitive Strategy (1980) e Competitive Advantage (1985) trattano questioni relative alle “strutture industriali”. Egli si è interessato, più tardi, della competitività tra nazioni. Nel capitolo ottavo della sua opera The Competitive Advantage of Nations (1990), intitolato “Emerging Nations in the 1970s and 1980s”, Michael Porter presenta il caso del Giappone, dell’Italia e della Corea. Niente di quello che scrive fa riferimento alle analisi sui Paesi emergenti ispirate agli scritti di Jim O’Neill, il quale anzi non lo cita nemmeno una volta in The Growth Map del 2011. Perché, allora, trattare con tanta imprudenza una questione così importante per il futuro di tutto il Paese? In verità, si trova questa stessa logica quando una scuola di gestione professionale è classificata come università, quando un campus universitario è sprovvisto di una sala di lettura, o quando il capo di Stato di un regime autoritario simula di organizzare un referendum. Siamo in un Paese dove dovrebbero essere collocate tra virgolette le parole: “polizia”, “elezioni”, “parlamento”, “università”, “professore”, “impresario”… Si tratta di un insieme di attitudini e di comportamenti che fanno parte di quel che chiamiamo “cultura del raggiro” (cfr. “Osservatorio della ricostruzione”, n. 2, giugno 2012). La ricerca di una consonanza con la nostra rappresentazione ci porta a utilizzare discorsi, formule, un modello istituzionale, senza la minima attenzione circa la nostra responsabilità nella scelta di una parola o di un modello per esprimere i nostri concetti. Come è possibile che l’espressione “Paese emergente”, uno strumento di analisi elaborato per indicare l’evoluzione di un’economia mondiale, possa essere presa e collocata nel Psdh con tanta irresponsabilità? Perché rischiare di non essere presi sul serio? Deturpare un concetto è spogliarsi della propria capacità di analisi. È utilizzarlo per fini differenti da quelli per i quali è stato prodotto. Per produrre un effetto di annuncio? Per assumersi un rischio previsto? Chi si ricorda delle “dichiarazioni di politica generale”? Le dichiarazioni sulla politica generale sono state dimenticate dai primi ministri subito dopo averle lette al Senato e alla Camera dei deputati. Questo rappresenta una logica chiamata da Bertrand Badie di “Stato importato. Non si trova nessuna delle
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2007 questi investimenti ammontavano a 74,5 milioni di dollari e nel 2008 a 29,8 milioni di dollari. Mentre il più debole investimento straniero registrato per il Bangladesh, uno degli N-11, era di 652,8 milioni di dollari nel 2007 e di 1 miliardo di dollari nel 2008. La bilancia commerciale haitiana è sistematicamente negativa. Nell’articolo La ragione di vivere di rendita (“Encontro”, gennaio 2012) abbiamo evidenziato che l’economia haitiana è basata sulla speculazione finanziaria e sul commercio di prodotti importati, oltre che su traffici illeciti. L’uso di sub-contrattare è chiaramente caratterizzato da una debole produttività. Come già detto, produttività e demografia sono due fattori che determinano l’entrata nel gruppo dei Paesi emergenti. La nostra economia non crea valore. Dobbiamo uscire dalla logica di vivere di rendita, perché altrimenti i guadagni non vengono determinati da investimenti, da fattori interni alla nostra economia. Nel 1998 Madeleine Albright, allora segretaria di Stato degli Usa, identificava quattro categorie di Paesi in base alla loro capacità di integrarsi all’interno del sistema internazionale. Secondo lei ci sono: 1) Paesi che sono parte integrante di questo sistema; 2) Paesi in via di transizione, alla ricerca di una partecipazione più incisiva nel quadro del sistema internazionale; 3) Paesi immersi in una spirale di conflitti, molto poveri, troppo deboli per riuscire a partecipare in modo significativo; e 4) Paesi che rigettano i valori e le regole su cui il sistema mondiale è fondato. Indicativamente, Albright pone Haiti nella terza categoria. Da quando le cose sono mutate radicalmente? Il giorno 23 luglio 2012, Jean Michel Cadet (consulente francese) ha ricordato, in un articolo il cui titolo è Investire su Haiti, una questione di immagine, i continui ostacoli agli investimenti nel Paese: tra gli altri, l’instabilità politica e i vincoli imposti per l’insediamento di un’impresa. Infine, si crede che i responsabili per il nostro Paese, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, si siano pronunciati con apparente imprudenza. Vediamo. La dichiarazione di Michael Porter sulla politica generale è ispirata al Psdh, piano strategico prodotto nel contesto post 12 gennaio 2010, quando iniziava la ricostruzione del Paese. Nella versione del Psdh disponibile sul sito web del ministero, scorrendo l’indice troviamo al punto quattro la “nozione di emergenza”, che di fatto è però assente dal documento. In alto, alla pagina 12 del Psdh si legge “Modello di Michael Porter”, ma non viene presentato nessun riferimento bibliografico.
Un’alternativa praticabile di sviluppo economico e sociale dichiarazioni di politica generale presentate dai primi ministri in alcuna istituzione incaricata della conservazione della memoria istituzionale. Nel Centro di ricerca e documentazione del governo (Credoc), in occasione di una ricerca, furono trovate solo sette di queste dichiarazioni: Cherestal, marzo 2001 (44 pagine); Yvon Neptune, marzo 2002 (14 pagine); Jacques-Édouard Alexis, giugno 2006 (38 pagine); Smarck Michel, senza data, (32 pagine); una versione numerica delle dichiarazioni di Gary Conille e dell’attuale primo ministro. Ma la dichiarazione di M. Jean-Marc Bellerive e quella della signora Michelle Pierre-Louis non sono state trovate. Nella Biblioteca nazionale non si trova nessuna dichiarazione. E il sito web del governo è, in pratica, il sito web del primo ministro in carica. Non si può immaginare che un primo ministro, che spera di ottenere il voto di fiducia della Camera e del Senato, possa aver detto: “In ogni modo, tutto già è risolto” e “io mi accontento di parlare francese”. Egli non avrebbe mobilitato un gruppo di experts per produrre poco più di quaranta pagine, nel caso di Cherestal, che leggerebbe, con gesti ed eloquenza, semplicemente per parlare francese! La sua dichiarazione verrà anche dimenticata, una volta che abbia integrato la cultura politica al campo istituzionale del Paese. Il primo ministro attuale lo sa? Ecco una domanda da fare, vista la libertà che ci si prende di fare promesse. Ma questo non riguarda solo i responsabili politici. Si possono distinguere le strutture sociologiche per le caratteristiche delle menzogne che permeano la società. In primo luogo, la menzogna minaccia molto meno l’esistenza del gruppo in società semplici piuttosto che in società molto complesse. L’uomo primitivo, vivendo in un circolo ristretto, provvedendo alle sue necessità grazie alla propria produzione personale o alla cooperazione dei vicini, controlla la materia della sua esistenza più facilmente e più completamente di colui che appartiene a una civilizzazione superiore. Diversamente, nelle culture più ricche e più ampie, la vita è condizionata da varie situazioni preliminari, che l’individuo non può studiare né verificare nel loro fondamento, ma che deve accettare con fiducia. La nostra esistenza moderna – dall’economia fino alle attività scientifiche – si fonda sulla fiducia nell’onestà degli altri. Questo accade in forma più ampia di quello di cui abitualmente ci rendiamo conto. Si deve tenere in considerazione il pensiero di Simmel come strumento di comprensione. Ci sono società nelle quali la men-
zogna e l’assenza di fiducia sono meno dannose che in altre. Sono società che funzionano in rete, in circoli ristretti, in cui la concessione di un credito, per esempio, è limitata e dipende da “chi sei tu” e da “chi ti conosce”, o dalla tua rete di contatti. Nel caso del discorso, abbellito da termini presi a prestito da esperienze di altre società sviluppate e democratiche, la menzogna non è rivelata se non dall’analisi che la oggettiva. Nel campo politico haitiano la menzogna scompare con il tempo. Si sta perdendo nella memoria. I suoi primi effetti saranno sufficienti. E altri discorsi seguiranno. Di fatto, le élite politiche, economiche e “universitarie” del nostro Paese non hanno mai pensato che sarebbe stato necessario valutare il grado di fiducia che gli haitiani pongono in loro e nelle differenti istituzioni del Paese: nella scuola, nella polizia, nelle imprese commerciali, nelle Ong? Immaginano loro che, per una “società di fiducia”, come dice Alain Peyrefitte, sia necessaria la costruzione di democrazia, e che il buon funzionamento di un’economia di scambio si fonda sulla mutua fiducia? Sono domande che si pongono quando si vuole rompere con la tradizione, quando la ricostruzione si incontra con la democrazia e lo sviluppo della giustizia sociale. “Paese emergente”: cosa c’è in questo insieme di parole? L’espressione “Paese emergente” è un termine operativo che rimanda all’“impatto globale” che un Paese può esercitare. Per questo si deve tenere in considerazione il suo potenziale demografico ed economico, dato che il potenziale economico è definito in termini di capacità di assorbire il capitale straniero. Jim O’Neill, che ha inventato la sigla Bric, lo afferma in modo chiaro. Il livello di sviluppo economico e la qualità di vita di un Paese non sono sufficienti perché sia considerato come un Paese potenzialmente “emergente”. I Paesi emergenti, segnala Degans, “hanno come caratteristica comune, oltre ad avere varie differenze, di essere Paesi-continenti, in cui l’importanza della popolazione è una carta in più nel gioco degli scacchi mondiale”. Non esiste, da nessuna parte, una certezza sul futuro dei Paesi emergenti. Senza andare tanto lontano, come dice nel suo libro del 2007 La grande menzogna cinese Thierry Wolton, c’è anche, tuttavia, un luogo per riflettere su quel che ci dice Martin Bulard nel suo editoriale sulla Cina in “Le monde diplomatique” (giugnoluglio 2012): “Il modello è alla sua fine: molto diseguale social-
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Viva Haiti Indirizzo originale del testo: http://www.reconstruction-haiti. org/IMG/pdf/revista_ observatorio_3_okey.pdf. Pubblicato dalla rivista “L’Observatoire de la reconstruction”, n. 3.
Foto Francisca Stuardo
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mente, molto costoso ecologicamente, molto teso alle esportazioni, molto corrotto, e saldamente nelle mani dei mandarini di un partito onnipotente. I nostri dirigenti hanno compreso questo? Essi lo comprenderanno solo il giorno in cui desidereranno che siano ricordate le loro “dichiarazioni sulla politica generale”. Questa dovrebbe essere la storia del tempo della ricostruzione.
Foto Francisca Stuardo
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Capitolo 5
Nélio Joseph
La cultura come vetrina
Haiti ha un passato politico glorioso: è stata la prima repubblica nera del mondo a sconfiggere il forte esercito francese di Napoleone Bonaparte per conquistare, a prezzo di molto sangue, la sua indipendenza il 1° gennaio 1804. Oggi è la cultura lo spazio privilegiato che dimostra la forza di Haiti, uno dei pochi settori che ancora attrae lo sguardo positivo della comunità straniera.
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Nella musica, nella pittura, nell’artigianato e nella letteratura, nella cultura in generale, come afferma il più letto scrittore haitiano, Gary Victor, Haiti è ancora competitiva sul piano internazionale. Nel gennaio 2012, il romanzo Le sang et la mer (Il sangue e il mare), dello stesso Gary Victor, ha vinto il premio Casa delle Americhe, uno dei più prestigiosi premi letterari del continente americano. Lo scrittore Lyonel Trouillot ha vinto, nell’aprile 2012, il primo premio letterario alla Fiera internazionale del libro e dell’impresa di Ginevra, ed è arrivato alla semifinale dell’ugualmente importante premio Goncourt nel 2011 con il suo romanzo La belle amour humaine (Il bell’amore umano). Dani Laferrière, romanziere haitiano-canadese, ha ottenuto il premio Médicis 2009 per il suo romanzo L’enigme du retour (L’enigma del ritorno), che racconta il suo ritorno al Paese natale dopo il terremoto del 12 gennaio. La letteratura haitiana si afferma come una delle più ribollenti e visibili dei Caraibi. Solo nell’anno 2009 gli scrittori haitiani hanno fatto un eccellente “raccolto” di premi letterari internazionali: undici premi conquistati secondo il giornale del Salone nazionale del libro (“Le Nouvelliste”, 25 aprile 2012). La pittura gode di un grande prestigio e attrae la curiosità dei grandi musei del mondo. Il pittore André Pierre, conosciuto per le sue tele di ispirazione vudù, è considerato internazionalmente come una delle figure emblematiche della pittura degli ultimi cinquant’anni. Il movimento artistico Saint-Soleil, di cui Jean-Claude Garoute (Tiga) è il leader, è oggetto di un lungo capitolo di uno dei più noti testi di arte moderna, intitola-
La cultura come vetrina
Max Beauvoir, capo supremo del vudù ad Haiti, posa per una foto con una turista in visita al suo tempio.
to L’Intemporel, dell’eminente scrittore, critico d’arte e ministro della cultura francese André Malraux. L’artigianato haitiano è presente nelle grandi boutiques internazionali di oggetti decorativi. La tradizionale musica folclorica e “delle radici”, espressione di rivendicazioni popolari e di affermazione culturale, ha sempre più successo tra i giovani. Il vudù, fonte di ricchezza Questa vitalità culturale è la risultante di un ricchezza, di una diversità di espressioni artistiche e di tradizioni che, a volte, trova la sua fonte nel vudù haitiano. Max Beauvoir, capo supremo del vudù ad Haiti, spiega che il vudù è una tradizione culturale e religiosa haitiana che risulta da una contaminazione di conoscenze e pratiche ancestrali degli africani (Congo, Dahomey), arrivati a Hispaniola con gli europei, e degli indios (arawakos e tainos), abitanti originari dell’isola. Il vudù ha avuto un’importanza fondamentale nella vita della popolazione e, in quanto tradizione culturale, permea di sé tutte le espressioni artistiche autenticamente haitiane: i canti tradizionali, la musica, la pittura, la danza
ecc. Tutte le produzioni artistiche del Paese, sottolinea Max Beauvoir, prendono forma da questa caratteristica profondamente haitiana. Anche le espressioni profane, il modo di sedere, di mangiare, di ridere, sono foggiate su questo modello. Come religione – continua – il vudù è la relazione che il vuduista stabilisce con il suo dio. Nel vudù haitiano, Dio è una donna: Yèhwe. Tutte le loas sono espressione di questa dea. Il vudù è la relazione che un uomo stabilisce con Dio, nel quale egli riconosce tutta la potenza e a cui decide di sottomettersi. L’antropologo haitiano Laënnec Hurbon lo definisce come “la coerenza di una religione, di una cultura propria di un popolo cosciente di condividere una stessa storia” (Dieu dans le vodou haïtien, p. 74). Luogo di rifugio di una buona parte della popolazione proveniente dalle classi sfavorite delle zone rurali, il vudù non ha mai goduto di un rispetto proporzionale alla sua diffusione popolare. È stato osteggiato da tutti i governanti alternatisi al potere dopo l’indipendenza e dal clero cattolico, che arrivarono a orchestrare, all’inizio degli anni ’40, una campagna contro questa fede, definendola il credo dei “respinti”. Poco tempo fa, nel 2010, circa quaranta capi vudù sono stati linciati o bruciati dalla popolazione del dipartimento di Grand’Anse, nel sud del Paese, accusati di aver creato una polvere magica che avrebbe propagato il colera nella regione. Casi simili sono avvenuti in tutto il Paese, dove più del 70% della popolazione rispetta questa tradizione, anche in concomitanza con altre religioni. Il culto viene praticato in templi vudù (hounfo) e nelle aree comuni delle comunità rurali (lakou). Max Beauvoir definisce i lakou come una derivazione di tre parole indigene: zak, lak, kou. È un centro di incontro, di vicinanza tra membri di una stessa famiglia che fa offerte, a partire dai culti religiosi, agli spiriti, loas. È anche un luogo di comunicazione fraterna. Tutta la geografia haitiana è fondata sui lakous. Le città si sono costituite a partire da un gruppo di comunità, e le comunità intorno a un gruppo di lakou. “Il lakou è l’anima del Paese” ha affermato l’“aggregato” Fernand Bien-Aimé, responsabile del lakou Souvenance – situato su cinque ettari di terra a Mapour, a pochi km dalla città di Gonaives, nel dipartimento di Artibonite – che accoglie tre dei più conosciuti lakou di Haiti. Il vecchio lakou Souvenance, datato a più di mezzo secolo, è uno degli alti luoghi mistici e storici di Haiti, e accoglie, ogni anno, migliaia di visitatori oltre a ricercatori
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Viva Haiti che si spera di ristabilire ad Haiti è questa triade che ha sofferto tante persecuzioni (il lakou, il vudù e il kreòle), perché divenga, realmente, il fondamento di un’identità culturale del Paese. Eddy Prophète, musicista haitiano molto conosciuto, afferma, in una sua canzone, “creoli siamo tutti noi” (se kreyòl nou ye). Il creolo haitiano cessa quindi di essere solamente una lingua, per demarcare l’identità degli stessi haitiani. Indigenismo e identità
haitiani e stranieri. Esso ospita alcune residenze familiari intorno a un’area comune (peristilio) e alcune volte, un mercato. Fernand Bien-Aimé sogna di costruire un orto medicinale e un centro di salute per i frequentatori: “In media, l’80% degli adepti del vudù che viene a consultarci a Souvenance per le cerimonie di cura soffre di malattie e dovrebbe essere ospedalizzato”. Questi rituali sono organizzati durante la Pasqua, la festa dei Morti, nei giorni 2 e 3 novembre, e in altre date importanti della storia tradizionale o religiosa haitiana. Nel lakou le cerimonie sono organizzate in creolo haitiano, la lingua materna accanto al francese. Il francese è la lingua imposta dal gruppo dominante e dagli antichi coloni, consacrata come ufficiale dalla costituzione haitiana nel 1987, durante la dittatura Duvalier che ha soffocato i tre pilastri della cultura haitiana: il lakou, il vudù e il kreòle (creolo haitiano). Il creolo è la lingua più parlata dagli haitiani, e il francese è la lingua dell’élite che dovrebbe avere un livello di studio elevato. Ossia, il creolo haitiano, che è nato come lo strumento linguistico degli schiavi per organizzarsi e sfuggire al giogo dei francesi, è strettamente legato alla storia del popolo più semplice, e non raramente la lingua creola è associata con gli strati meno favoriti della società. Comunque, in questo processo di rifondazione del Paese dopo il terremoto ciò
Nascondersi per sopravvivere In modo più ampio, l’identità haitiana dà forma alla visione del mondo e delle cose, ad atteggiamenti e temperamenti, ai modi di vita di questa popolazione, dice Max Beauvoir. “Per esempio, noi abbiamo un modo di parlare alle persone senza guardarle
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Nei lakou le cerimonie si svolgono in creolo haitiano, la lingua materna accanto al francese.
L’identità culturale haitiana, secondo lo scrittore, pittore e giornalista Pierre Clitandre, ha le sue direttrici teoriche a partire dal movimento indigenista durante gli anni ’40. Il libro di Jean Price Mars, Ainsi parla l’Oncle (Così parlò lo zio), pone la problematica dell’identità a partire dallo sguardo della cultura contadina (fatta soprattutto di vudù, credenze immateriali, pratiche agricole) nell’epoca in cui l’élite haitiana aveva optato per collocarsi tra la cultura francese e quella americana. “Adesso che le strutture contadine sono implose per una congiuntura di fallimenti, esodo, rovina e penetrazione del protestantesimo, che colpevolizza le tradizioni secolari, l’identità si deve ridefinire all’interno di una modernità teorica. Devono essere poste in questione le influenze tecnologiche statunitensi sugli atteggiamenti, la cultura e le teorie nei contesti urbani”. Questo significa che le credenze religiose tradizionali vengono scientificamente riabilitate da alcuni specialisti. Le ricchezze del suolo, ancora non totalmente sfruttate, sarebbero direttamente legate alla capacità inventiva degli haitiani. L’identità sarebbe anch’essa capacità di resistenza storica popolare che mira a proteggere i guadagni fisici e culturali nonostante la distruzione provocata da diverse circostanze. “L’identità culturale haitiana è un nuovo modo di progettare un mondo dominato dal materialismo in tutte le sue forme”, afferma Pierre Clitandre.
La cultura come vetrina
Benedito Teixeira
Vudù: cultura e religione, resistenza e solidarietà La cultura haitiana trova nella pratica religiosa del vudù uno dei suoi pilastri di resistenza. Perseguitato dai tempi coloniali, il vudù resiste fieramente in tutti gli angoli di Haiti e non solo tra gli strati considerati “meno civilizzati” dalla borghesia. Il silenzio a cui è stato costretto per lungo tempo non è stato capace di spegnere la religione che può essere considerata genuinamente haitiana. Nelle parole del sociologo Kawas François, direttore del Centro di ricerca, riflessione, formazione e azione sociale (Cerfas) e coordinatore della pastorale dei Gesuiti di Haiti, essa fa parte dell’immaginario haitiano, è elemento fondamentale nella cultura del suo popolo. Riassumendo, “è difficile capire l’haitiano senza conoscere il vudù”.
Kawas François è direttore del Centro di ricerca, riflessione, formazione e azione sociale (Cerfas) e coordinatore della pastorale dei gesuiti di Haiti (foto Alty Moleon).
Studioso di vudù, François afferma che tutti gli strati sociali praticano il vudù ad Haiti. Esso è presente in vari settori della classe media, nei settori della borghesia e del mondo politico. “E dato che storicamente è stato marginalizzato e identificato come cosa di gente non civilizzata, ancora oggi i settori più ‘civilizzati’ (se così si può dire), quelli occidentalizzati, hanno paura di esprimere pubblicamente la loro appartenenza al vudù”, aggiunge, ricordando che le barriere culturali in relazione alla religione ebbero un grande impatto sul riconoscimento ufficiale del vudù, decretato il 4 aprile 2004, dal presidente Jean-Bertrand Aristide. “Il decreto ha rinforzato la presenza del vudù nello spazio pubblico. Molta gente però, politici e parte della borghesia
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I templi vudù non sono facili da identificare. Uno di questi, gestito dall’houngan Merisier Jerome, si trova nel municipio di Croix-des-Bouquets, vicino a Portau-Prince (foto Ermanno Allegri).
Condividere quel che c’è Uno di questo templi è diretto dall’houngan Merisier Jerome, che vive insieme alla moglie e alla madre nello stesso lakou dove si trova il suo tempio, nel municipio di Croix-des-Bouquets, vicino a Port-au-Prince. In un’intervista ad Adital, egli spiega come funzionano le attività nel tempio, dove la solidarietà pare rappresentare il principale servizio offerto alle persone. “Quotidianamente, in base alle nostre possibilità, cerchiamo di programmare la giornata in modo da ricevere le persone e condividere quel che abbiamo con loro. Di mattina, mia madre prepara il caffè in
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che segue questa pratica, lo fa ancora in modo nascosto”. Differentemente dalle chiese cattoliche e protestanti, per esempio, un tempio vudù non è qualcosa che si identifica facilmente a prima vista. Sono case comuni, e, secondo il rilevamento fatto dallo stesso François nel 2000, superano di molto la quantità dei luoghi cattolici ad Haiti. “Si rimane sbalorditi dal numero di hounfo, di templi vudù che esistono nella capitale Port-au-Prince: nelle tre grandi aree di Delmas, Carrefour e Zona Sud, che ospitano più di 800 mila abitanti, esistevano nel 2000 419 templi vudù con 419 houngan (sacerdoti), e 14 parrocchie della Chiesa cattolica, con circa 25 preti in attività”, afferma il sociologo.
La cultura come vetrina
Immagini di santi cattolici si confondono con le credenze vudù (foto Ermanno Allegri).
quantità, per ricevere i loas (gli spiriti) e tutte le persone che ci visitano; poi iniziamo a ricevere gente con differenti problemi”, racconta Jerome. Nel quartiere di Kafoj, dove vivono, il suo tempio è considerato il punto di riferimento per la cura delle persone con problemi psichici. Jerome ha spiegato ad Adital alcune pratiche del vudù, per molti aspetti somiglianti ai riti della Chiesa cattolica, inclusi i riferimenti a figure di santi. Per esempio, ogni tempio ha un suo nome specifico; il suo si chiama Sen Jak Majè (San Giacomo). Anche le immagini sono significative. Secondo Jerome, ogni immagine ha un significato e uno spirito dentro; Legba, per esempio, rappresenta il santo cattolico Lazzaro, ed è il capo di tutti i templi vudù di Haiti. Nell’immagine ha due cani ai piedi, uno è
responsabile di prendere decisioni e l’altro di cercare gli spiriti in caso di situazioni difficili. Ogou o Sen Jak Majè (San Giorgio) è rappresentato da un uomo a cavallo, Sant’Anna corrisponde a Èzili Freda, Mosè corrisponde a Simbi Andezo, la Vergine Immacolata a Èzili Dantò, ed è uomo di notte e donna di mattina, San Giovanni Battista corrisponde a Ti Jan Petro, Dio che porta la croce si chiama Kadjabosou, Dambala (San Camillo) e Kafou accompagnano le persone in ospedale, per fare alcuni esempi. Lo studioso Kawas François spiega queste coincidenze tra le religioni sottolineando che il vudù ha le sue liturgie, come tutte le religioni, i suoi riti e pratiche cultuali proprie. A volte queste feste coincidono con il calendario cattolico, poiché quando il vudù è stato proibito durante il periodo coloniale, esso ha utilizzato segnali, simboli e lo stesso calendario cattolico per nascondere, di fronte ai bianchi, le proprie pratiche. Per questo, ci sono molti santi cattolici che hanno i nomi degli “Iwa”, degli spiriti, ma hanno significati differenti. Era un modo per ingannare i colonizzatori e i missionari. “Anche le feste: all’inizio di gennaio c’è una festa vudù che coincide con la festa dei Re Magi. La festa dei santi e dei morti in novembre è la festa dei ‘gede’. C’è un lungo calendario ben strutturato, ci sono grandi cerimonie di iniziazione: come nella Chiesa cattolica abbiamo il noviziato, il seminario come fase introduttiva, e istituzioni per preparare le persone ad accedere al clero”, osserva François. Aggiunge che un gesuita haitiano, chiamato Fritzen Wolf, ha fatto un lavoro di dottorato studiando il parallelismo tra il rito di iniziazione del vudù e la celebrazione dell’eucarestia cristiana. Demistificare il vudù Durante l’intervista, François ha tentato di fare una sintesi del funzionamento reale della pratica vudù, che per essere demistificata ha bisogno di essere conosciuta. Da un punto di vista antropologico, come altre religioni, il vudù tenta di offrire risposte alle grandi questioni fondamentali ed esistenziali, come l’esistenza e l’identità di Dio, l’origine della vita, il senso della sofferenza, la vita dopo la morte. La teologia del vudù afferma l’esistenza di un Dio che non ha le stesse caratteristiche del Dio cattolico. Egli esiste, è potente,
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Viva Haiti ma non si mescola con la storia del mondo, ossia non si mette nelle cose quotidiane dell’umanità. Questo compito è destinato agli spiriti, i loas, che sono vicini perché sono inseriti nelle cose, giorno per giorno. Su questo punto, il Dio vudù è molto diverso dal Dio cristiano, che è più storico, personale, materializzato attraverso Gesù Cristo. Il vudù crede anche in una vita dopo la morte. François spiega che lo spirito dell’uomo non sparisce dopo la morte: non andrà in paradiso o all’inferno come per la Chiesa cattolica, ma esiste un’esistenza spirituale dopo la morte. “E c’è anche un’etica, un’etica di solidarietà. C’è chi pensa che il vudù sia la morte, no. Nel vudù, come in tutte le religioni, ci sono esagerazioni, deviazioni in direzione della magia, e dato che il tratto distintivo sociologico del vudù è segnato dall’ignoranza e dall’analfabetismo, la deviazione verso la magia ha un potere molto forte, ma non costituisce l’essenza di questa religione”, sottolinea. Religione, cultura e ricostruzione
Su un altare vudù è possibile trovare foto di santi, anfore, e anche simboli dei pirati.
questo non si può parlare di un vero sforzo di rifondazione nazionale, che chiami tutte le religioni e le persone di cultura a un lavoro di ristrutturazione del Paese” afferma il sociologo. Nella visione di Kawas François, le religioni hanno grande forza nella formazione culturale dei popoli, in particolare il vudù per gli haitiani, e sono un fatto chiaramente culturale, che nasce insieme a ogni persona. “Tu fai un’opzione matura, da adulto, per la fede cristiana, perché sei nato in Italia; per esempio, un ragazzo che è nato in India e che non ha mai visto una chiesa cattolica è hindu, o uno che nasce nella foresta africana, che non ha mai visto un missionario, segue la sua religione tradizionale; è logico. Questa è la vita. Così, la religione è un elemento culturale perché essa cerca di dare le risposte alle grandi domande della vita. Sono problematiche comuni a tutti gli uomini della Terra”.
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Come non potrebbe essere altrimenti, la pratica del vudù continua a mantenere un ruolo importante nella costruzione e, dopo il terremoto del 2010, nella ricostruzione del Paese. Sfortunatamente, secondo François, il processo di rifondazione di Haiti non conta ufficialmente sulla partecipazione di tutti i gruppi religiosi che fanno parte della cultura del popolo. Ci si basa su un concetto di rifondazione, che nella pratica non funziona. “Come missione personale, ho proposto al governo di convocare una specie di conferenza nazionale con la partecipazione di tutti i settori, per elaborare un piano di rifondazione del Paese. Questo, però, non è stato fatto. Ci sono alcuni piccoli progetti per l’edilizia abitativa, con l’aiuto di alcune entità internazionali, ma non c’è stato un processo partecipativo per includere tutti i settori. Lo sforzo maggiore ha riguardato il livello umanitario di molte agenzie, delle Nazioni Unite, delle Chiese. Anche il governo ha fatto un piccolo passo, senza però riuscire a coordinare una vera azione in direzione della ricostruzione”, lamenta François. Egli riconosce che c’è stata generosità, ma racconta anche che molte Ong hanno approfittato della situazione per guadagnare denaro e portarlo alle loro istituzioni, e che ci sono settori ufficiali del governo che hanno approfittato per arricchirsi. “Per
La cultura come vetrina direttamente. È un segno di rispetto verso i più anziani, difeso dai valori collegati al vudù. Queste espressioni sono legate all’educazione che abbiamo ricevuto dai nostri familiari o nonni, tramite racconti e storie”, spiega. Ci sono altre interpretazioni di questa caratteristica degli haitiani, come quella del professore ed economista Camille Chalmers, direttore della Piattaforma haitiana per uno sviluppo alternativo (Papda), che si richiama al processo di sopravvivenza del popolo haitiano. Secondo Chalmers è ancora viva quella che lui definisce la strategia del “nascondersi per sopravvivere”. Questo comportamento ha origine all’epoca dell’invasione spagnola, con la resistenza degli indigeni. Essi furono tutti massacrati e uccisi. Rimasero gli schiavi portati dall’Africa, che impararono a nascondersi per aver salve le loro vite. Chalmers racconta che, per due secoli, gli schiavi costruirono comunità simili ai quilombo brasiliani (comunità formate da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni), con una loro strategia di resistenza contro lo Stato. Era necessario nascondersi e sciogliere tutti i legami con la società ufficiale. “È una strategia fondamentale per intendere la cultura haitiana e la resistenza”. Egli osserva che, senza tutto ciò, non sarebbe possibile spiegare come il vudù abbia ancora oggi tanta forza, una religione che è stata perseguitata in tutti i momenti storici con violenza, “ma adesso è rintracciabile in canti e cerimonie, anche tra ragazzi di quindici e sedici anni”. Per il coordinatore della Papda questa resistenza è stata possibile solo utilizzando come punto strategico e fondamentale l’occultamento della propria personalità. Affermare una cosa nascondendo ciò che si pensa. E l’apparenza di sottomissione che gli haitiani hanno di fronte al mondo intero è molto legata a questo. Far credere all’altro che si è totalmente sottomessi e non dargli piste per intuire quando la nostra vera forza può rivelarsi. Il problema, per Chalmers, è che questa attitudine a dissimulare, al di là dell’efficacia che aveva all’epoca della dominazione straniera, rende molto difficile oggi costruire alternative interne alla società. “Per esempio, in seno al popolo funziona, ma tende a creare molta frammentazione. È una delle cause di difficoltà per i movimenti, che non riescono ad ampliarsi perché c’è molta sfiducia tra i gruppi e molta sfiducia tra le regioni del Paese. Abbiamo bisogno di perdere un poco di questa tendenza”, dice. “Per passare all’offensiva, è necessario anche rom-
pere con questa tradizione. È una strategia molto efficiente per difendersi, ma non per conquistare spazio”. Una cultura non globalizzata È sempre più facile constatare la passione degli stranieri per la cultura haitiana. Questa curiosità è legata al fatto che essa presenta ancora alcuni tratti forti, che non si sono adeguati all’inquadramento della globalizzazione culturale di stampo occidentale. Questi tratti si ritrovano nella cultura popolare. La rara è un’espressione di questa cultura; spesso confusa con il carnevale, si tratta di una festa che avviene in tempo di Quaresima, tra il Mercoledì delle Ceneri e la Pasqua, e che ha forti legami con il vudù. Le persone sfilano nelle strade con strumenti tradizionali: tamburo, tromba di bambù e tcha-tcha (una specie di maracas) e intonano canti popolari, a volte sessisti, tratti dalla musica folclorica haitiana. I ballerini, o “bande” di rara, percorrono le strade realizzando cerimonie religiose come parte dei loro ringraziamenti rituali per i loas, che sono gli spiriti vudù di Haiti. Guéde è la famiglia degli spiriti associati alla morte e alla sessualità e, generalmente, entra in “possesso” di un houngan (sacerdote di sesso maschile) o di una mambo (sacerdotessa di sesso femminile), affinché benedica i partecipanti prima che la “banda” cominci la sua processione e auguri loro un cammino sicuro nei percorsi notturni. Secondo l’artista Luc Bonaventure, “la rara è un fenomeno culturale che mira a creare distrazione, intrattenimento, principalmente in zone rurali”. Ma, con il fenomeno migratorio della seconda metà del secolo ventesimo, che ha visto i campi svuotarsi di un buon numero dei loro abitanti in cerca di vita migliore nei centri urbani, la rara si è sparsa per le città del Paese, come Port-au-Prince. “Da un lato alcuni municipi e le loro regioni vicine, come Léogâne, danno a questa tradizione molta importanza e risalto e attraggono molti visitatori di altre città, dall’altro la rara si è diffusa di città in città e nei quartieri, diventando un evento sociale partecipato per trasformarsi infine, a inizio del secolo ventunesimo, in una pratica largamente generalizzata”, ha scritto Anathalie Durant nel suo articolo Rara delle città e delle campagne sul quotidiano “Le Nouvelliste” del 27 aprile 2011. La rara è di origine africana. Gli africani di Santo Domingo sono riusciti a conservare i loro canti, danze e ritmi tradizionali.
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Viva Haiti balo, gong e altri venuti da fuori, come il sassofono, il trombone, il corno, e l’helicon. “La rara non si è mai proiettata fuori dal suo aspetto religioso” dice Bonaventure. Subito dopo che la banda di rara esce, si svolgono le cerimonie di “eliminazione” e di “bagno” al fine di lavare via i mali. Questi rituali variano di regione in regione e mirano a proteggere la banda da tutti i tentativi di avvicinamento degli spiriti cattivi che potrebbero venire dai loro avversari. Le cerimonie sono organizzate sia dagli houngan (sacerdoti) sia dagli housin (iniziati). La festa di febbraio
Era permesso agli schiavi, secondo i racconti dell’antropologo Emmanuel C. Paul, uno dei maggiori specialisti di musica haitiana, cantare e danzare alla fine della settimana dopo il Carnevale dei loro padroni e negli ultimi tre giorni della Settimana Santa. La rara ha conosciuto, con il passar del tempo, un’evoluzione. Inizialmente era chiamata chayopye. I piedi e la bocca erano gli strumenti sonori utilizzati per creare la giusta atmosfera. In seguito, si integrarono strumenti tradizionali come tamburo, cem-
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Le “bande” di rara percorrono le strade durante la quaresima, come parte degli obblighi rituali per i “loas”, gli spiriti del vudù di Haiti, suonando uno strumento di bambu (foto Alfonso Lomba).
Tra gli eventi culturali di carattere popolare, su scala nazionale, il Carnevale assume un particolare rilievo. Festa tradizionale haitiana, manifestazione di rinnovamento popolare per eccellenza, il Carnevale è arrivato ad Haiti durante la colonizzazione, attraverso gli schiavi. Secondo l’antropologo Jean Coulanges è stato, in seguito, trasformato e “creolizzato”. Anche elementi di sincretismo africano vi sono stati integrati. Oggi si parla di Martedì Grasso e di Mercoledì delle Ceneri, quando la Chiesa cattolica brucia tutto ciò che ricorda questo tempo profano, consacrato alle orgie e alla pazzia. La tradizione si esprime in canti, danze, travestimenti, nelle vesti sontuose di bande mascherate che sfilano durante i giorni “grassi”, nelle maschere che sono un linguaggio, un sistema di segni, portatrici di realtà socioculturale e che danno un’idea dello stato della politica haitiana e dei rapporti sociali. In questo periodo di feste nel mese di febbraio, soprattutto le strade della capitale Port-au-Prince e di Jacmel (città turistica situata 85 km a sud della capitale) sono aperte al canto, alla danza e ai piaceri mondani. È il momento in cui non valgono proibizioni e barriere sociali: ricchi e poveri, neri e mulatti si uniscono sui carri allegorici, negli stand, nelle strade per celebrare “la carne”. Il Carnevale genera redditi significativi a Port-au-Prince e a Jacmel, dove esiste una buona organizzazione ufficiale. La nostalgica “diaspora haitiana” approfitta di quest’epoca per ricaricarsi. Turisti locali e haitiani viaggiano in numero considerevole per osservare, divertirsi, comprare prodotti artigianali (cappelli e maschere). Cayes è un’altra città turistica situata a 195 km a sud di Port-au-Prince, e qui è stato trasferito il Carnevale
La cultura come vetrina
Il marionettista Paul Junior Casimir Lintho presenta le sue marionette in strada durante il carnevale e offre laboratori di burattini nel suo atelier, chiamato Komedi lakay.
ufficiale del Paese. Nel 2010, a causa del terremoto, i turisti locali e stranieri sono arrivati su barche da crociera per aggirare le difficoltà legate agli enormi problemi di viabilità ed evitare gli ingorghi di traffico; fu questo espediente che diede origine a un afflusso massiccio di visitatori per questo nuovo nucleo carnevalesco. Gli artisti e artigiani approfittano dell’evento per vendere le loro opere. Il marionettista Paul Junior Casimir Lintho, da alcuni anni, frequenta questo luogo di grande assembramento popolare. Lintho approfitta della visibilità su grande scala che il Carnevale offre non solo per guadagnare un po’ più di denaro, ma per far conoscere il suo atelier, Komedi lakay, e creare occasioni di riflessione per le persone. “Nel Carnevale 2011 ho rappresentato il personaggio del colera, con tutto ciò che il colera ha per noi di simbolico”, spiega Lintho. Nel momento in cui questa epidemia affligge il Paese, sarebbe necessario dire alle persone che dovrebbero applicare regole di igiene per non essere facile preda di questa malattia che ha già fatto molte vittime ad Haiti. “L’arte ha il vantaggio di educare le persone e nello stesso tempo farle divertire”, afferma.
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Viva Haiti La musica commerciale di Haiti è una somma di influenze e stili che si combinano per creare un suono che proviene da molti luoghi (Europa, Africa, America Latina) e formare qualcosa di interamente originale. Il figlio più famoso della musica haitiana all’estero è Wyclef Jean, co-fondatore del gruppo The Fugees e solista di successo, che vive negli Usa dall’età di nove anni e ha tentato di essere, senza esito, uno dei tantissimi candidati alla presidenza della Repubblica di Haiti nel 2010. La musica di Haiti si esprime attraverso molti generi distinti, dal jazz più tradizionale, come quello dell’Orchestre Septentrional d’Haiti (Orchestra Settentrionale di Haiti) in When the Drum is Beating (Quando batte il tamburo), all’hip hop con misto di vudù, Compa e mizik rasin (haitian roots music). Ritorno alle radici Proprio perché trae la sua essenza dal vudù la musica detta “delle radici” è il genere in cui l’identità culturale haitiana trova la sua espressione privilegiata. Questa corrente musicale ebbe origine alla fine degli anni ’70 e inizio degli anni ’80, un momento in cui il duvalierismo e la dittatura echeggiavano ancora. Louis Lesly Marcelin (Sanba Zao), uno dei pionieri di questo genere musicale, invita a scoprire un pezzo di storia importante attraverso la sua vita e il suo percorso di musicista. Nato nel 1954, Sanba Zao iniziò la sua carriera nel 1972 nel filone della musica occidentale, imitando i vip della musica pop statunitense. Ma, nel 1978, mostrò la sua originalità. Fondò, insieme ad alcuni amici come Théodore Beaubrun, altro musicista molto conosciuto ad Haiti all’inizio degli anni ’80, il movimento Sanba, che si affermerà come una lotta per la rivalorizzazione delle espressioni culturali legate alla tradizione popolare – e che divenne noto per la sua “musica delle radici”. Il movimento ha avuto origine quando spadroneggiavano i Tonton Macoutes, milizia repressiva a servizio del presidente dittatore François Duvalier. “In quest’epoca era necessario essere coraggioso per essere un sanba, perché avresti potuto essere perseguitato dai Tonton Macoutes”, ricorda il musicista. Zao ha contribuito a diffondere la musica delle radici ad Haiti dopo aver frequentato lakou e templi vudù. Ha inoltre fondato con i suoi amici il Foula Jazz, che ha lasciato più tardi per creare un suo proprio gruppo, il Sanba yo.
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Figura di spicco in quest’area artistica di Haiti, Lintho si è formato alla Scuola di comunicazione Poli-Artes (Coparts), prima di allestire, a Carrefour-Feuilles, quartiere popolare di Portau-Prince, il suo atelier che è stato poi distrutto dal terremoto del 12 gennaio. Le marionette multidimensionali di Lintho sono testimoni di un vero pezzo di storia. La sua arte è uno sguardo disincantato sulla realtà sociopolitica haitiana. Egli pensa che l’arte debba essere a servizio dell’ideologia. I suoi spettacoli fustigano la nozione di restavèk, fenomeno frequente ad Haiti, che è la pratica delle famiglie povere di dare i loro bambini ai parenti o ai conoscenti più ricchi. Nell’idioma creolo, il termine è originato dalle parole francesi “rester avec”, ossia “restare con”. “Le nostre marionette parlano con le persone dicendo loro che anche i restavek sono esseri umani e meritano di essere trattati come tali”, spiega. L’arte deve fare da mezzo di trasmissione di conoscenze e di formazione delle persone. “Insegniamo ai bambini l’arte di riciclare le marionette. Essi apprendono a servirsi di rifiuti che inquinano l’ambiente per creare opere d’arte, usando bottiglie vuote, ad esempio, per fabbricare burattini e altri personaggi fantastici”. Il Carnevale è una messa in scena di diverse espressioni tradizionali haitiane: la musica, la danza, l’artigianato ecc. La musica ha un ruolo importante nella vita degli haitiani. Serve a esprimere la sua vivacità, la sua allegria, la sua pena, la sua miseria, la sua angoscia celestiale, la sua visione del mondo. Tutto gira intorno alla musica. Anche la coumbite – festa che celebra gli agricoltori nel loro lavoro di coltivazione della terra – è eseguita con il sottofondo della musica folclorica. L’agricoltore nel campo canta e danza per rallegrare la sua fatica. La musica folclorica ingloba canti sacri e profani, legati alla tradizione haitiana. La musica popolare haitiana comprende diverse correnti: quella folclorica, quella detta “delle radici”, molto forte all’interno del vudù, e ultimamente il rap, genere musicale importato che registra un’importante audience giovanile. Tutte queste tendenze della scena musicale generale si trovano e si affrontano nel Carnevale. La compa (konpa), musica da ballo creata nel 1995 dal maestro Nemours Jean-Baptiste, predomina per il suo carattere commerciale. Moltissimi festival ad Haiti e nelle zone della “diaspora haitiana” si organizzano intorno alla compa. I suoi cantanti Carimi, T-Vice, Djakout, Tabou Combo, Mizik Mizik, Zenglen, sono invitati a dar spettacoli in tutti i Caraibi e negli Usa.
La cultura come vetrina Il movimento Sanba ha avuto una certa espansione ad Haiti, e Zao si è affermato come uno dei grandi precursori della musica delle radici. “Questa tendenza mi ha trasformato. Mi ha insegnato a essere haitiano e a conservare con cura il mio carattere di uomo”, ha detto. Padre di sei figli, Zao vive della sua professione come artista e come professore di percussioni alla Scuola nazionale delle arti. “Io non sono di quei musicisti che emigrano all’estero e che si distanziano progressivamente dalle loro radici, dalla loro origine. Ho viaggiato molto, ma sono tornato alla fonte per portare avanti il discorso per il quale sono stato chiamato”, ha specificato. Zao ha contribuito a formare vari giovani come insegnante di tamburi a Port-au-Prince e nelle province. Fondatore e leader del gruppo Djakata, Zao è il capo di una famiglia di artisti. Sua moglie e i figli cantano, danzano e suonano le percussioni nel gruppo Djakata. Tutti si occupano di musica “delle radici”, la musique racine. “È importante che l’haitiano abbia un ritmo che lo identifichi. Questo permette lo scambio con gli stranieri. Quando lavoro all’estero, rimango straordinariamente sorpreso dall’accoglienza degli stranieri. Suono in molti Paesi e luoghi turistici, come il luogo dove è morto il precursore della nostra indipendenza, Toussaint Louverture, a Forte de Joux, in Francia”. Sul fronte sociale l’artista è impegnato ad aiutare le persone più povere del suo Paese. Con il suo modesto salario Zao ha fondato una scuola comunitaria a Morne de l’Hôpital, quartiere popolare di Port-au-Prince, per insegnare ai bambini poveri a leggere e a scrivere. “Ho vergogna di vedere compatrioti incapaci di scrivere il proprio nome”, afferma. Questa scuola venne fondata nel 1998, dopo una tournée che l’artista aveva realizzato in Francia. “Ho capito fino a che punto l’analfabetismo disumanizza i nostri fratelli. Haiti è un Paese dove l’analfabetismo presenta proporzioni allarmanti”, ha detto. I professori sono pagati con fondi privati e lui contribuisce meglio che può. “Accade frequentemente di dover ricorrere ai tribunali per ottenere un certificato di nascita per i bambini, perché ad Haiti molte persone non hanno identità”. Oltre alla formazione scolastica, i bambini sono iniziati ad attività di arte e di informatica. Di fronte alle difficoltà economiche che Zao affronta, gli insegnamenti di informatica della scuola sono stati però sospesi temporaneamente. “Purtroppo abbiamo constatato, negli ultimi anni, una invasione di Ong internazionali, ma la situazione socioeconomica si deteriora sempre di più. Ed
è in questa situazione che l’artista si rivela. La mia musica è una voce impegnata che denuncia l’inaccettabile e il politicamente scorretto”, ha concluso Sanba Zao. Voce di spicco della musica delle radici ad Haiti, il gruppo Chay Nanm, creato nel marzo 2006, mescola il vudù e il jazz con l’obiettivo di porre il proprio stile musicale all’attenzione della scena mondiale. “Ai nostri giorni molte persone rinunciano alla loro origine. Esiste una diversità ritmica nella nostra produzione, con base nel vudù”, ha detto Georges Muller Régis, capo del gruppo. In questo momento in cui l’identità culturale è messa alla prova, in cui l’hip hop invade gli spazi culturali haitiani, Chay Nanm è una delle voci che ricorda agli haitiani le loro origini africane. “Non sono stato allevato in una famiglia di vuduisti, ma ho deciso di tornare alla fonte, alla nostra radice, quando le persone danzano a piedi nudi. Non critico quelli che si rivolgono all’hip hop, ma che nessuno dimentichi l’importanza del ruolo che il vudù ha avuto nell’indipendenza di Haiti. È la nostra anima. È per questo che il gruppo è chiamato Chay Nanm, che tradotto letteralmente significa una grande quantità di anime che liberano energia”, spiega. Georges Muller Régis e la sua banda non vivono totalmente della loro arte. I musicisti danno lezioni nella scuola classica e vendono la loro forza lavoro alle Ong. A volte, l’artista diventa autista di mototaxi. “Essere musicista delle radici ad Haiti è una scelta da portare avanti, contro venti e maree. Spesso organizziamo spettacoli per acquistare visibilità. Eppure, quello che cerchiamo non è il successo. La nostra cultura è la nostra anima. Se sparirà un giorno, noi ce ne andremo con lei”, afferma. Le ricchezze dell’artigianato A fianco della musica popolare l’artigianato è uno dei campi in cui l’anima di Haiti si esprime con grande vivacità. Esso è presente in tutti i luoghi. Nel Carnevale, nelle feste campestri, nelle gallerie di oggetti decorativi, nei mercatini sui marciapiedi. La ricchezza della sua varietà lo rende affascinante: ferro intagliato, ricami, argilla, legna, pietra, cartapesta, ceramica, porcellana ecc. È un settore di attività prospero e creativo. Molte attività economiche e promozionali sono organizzate intorno all’artigianato. Il Carnevale è certamente il suo ambito di visibilità su larga scala. La vivacità dei colori delle maschere di Jacmel, i perso-
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Louis Lesly Marcelin (Sanba Zao) è uno dei pionieri della musica haitiana delle radici, con forte influenza vudù. All’inizio degli anni ’80, ha fondato il Movimento Sanba che si è affermato come lotta per la rivalorizzazone della cultura haitaina. Ha creato il Foula Jazz, che ha lasciato più tardi per fondare il suo gruppo familiare, Sanba yo (foto Nelio Joseph).
La cultura come vetrina naggi tipici del folclore, le marionette giganti imprimono una forte personalità al Carnevale haitiano, che ammalia i turisti del carnevale, locali e stranieri. Oltre al Carnevale, durante l’anno esistono diversi momenti di espressione. “Artigianato in festa”, un evento organizzato annualmente da “Le Nouvelliste”, il più antico quotidiano di Haiti, e dall’Istituto di ricerca e di promozione di arte haitiana (Irpah), è un evento che mostra una varietà impressionante di prodotti artigianali, come gioielli, bigiotteria, borse, scarpe, oltre a pezzi in corno, legno e osso, ricamati, dipinti, realizzati a uncinetto, o ancora porcellana, tessuto, pittura, pietra intagliata, ecc. Il Parco storico della canna da zucchero, a Tabarro, nella zona ovest di Port-au-Prince, si trasforma in palcoscenico, tutti gli anni, dell’esposizione di centinaia di sculture di tutte le categorie e dimensioni, venute da differenti regioni del Paese, per migliaia di visitatori che apprezzano le installazioni e il talento dei loro creatori. Questi spazi costituiscono un mercato importante per la vendita di prodotti o per stabilire contatti con potenziali compratori (haitiani e stranieri). Gli artigiani, distribuiti in tutte
Il Parco storico della canna da zucchero a Tabarro tutti gli anni si trasforma in palcoscenico per l’esposizione di centinaia di sculture come quest’opera di Lionel Saint-Eloi (foto Nelio Joseph).
Lionel Saint-Eloi è uno scultore di ispirazione vudù (foto Nelio Joseph).
le regioni del Paese, sono in maggioranza originari della classe più sfavorita, e fanno della loro arte un modo per guadagnare il pane, in un Paese dove la disoccupazione è stimata sopra il 70%. Alcuni riescono a vivere dignitosamente e a imporsi nel mercato grazie al loro coraggio, devozione, talento e capacità di farsi conoscere. Ronald Laratte è un artigiano della pietra intagliata. La sua gamba sinistra è stata amputata a seguito di un incidente automobilistico. Fa parte di quel gruppo di artigiani che rappresenta un modello di successo, impegno e coraggio, esempio per la nuova generazione di artisti quanto ad abilità professionale e orgoglio identitario. Lo scultore, quarantasei anni, che ha ereditato
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Viva Haiti il talento di suo padre, ha iniziato a scolpire a dodici anni, convinto già allora della nobiltà di questo lavoro. “Già da molto giovane ho lavorato scolpendo la pietra per mostrare l’altra faccia di Haiti fuori dal Paese”. Fedele all’artigianato, ha alle spalle una carriera solida e dinamica, che è stata riconosciuta dall’omaggio del presidente della Repubblica di Haiti, Michel Martelly. Dotato di un talento straordinario, Laratte fa della sua professione un’arte di vivere, di affermare la sua esistenza e di captare la realtà. “La mia vita è la mia fonte di ispirazione inesauribile”, riassume l’instancabile lavoratore, che si unisce al coro delle critiche sulla mancanza di sviluppo nel settore privato haitiano. “Il settore dell’artigianato non può vivere di occasioni. È necessario un investimento a lunga scadenza, consistente, per ottenere credito per i nostri artigiani”, osserva. Il settore dell’artigianato non è stato risparmiato dalla catastrofe del 12 gennaio, dato che gli atelier degli artigiani sono andati distrutti. Ronald Laratte, le cui opere sono esposte in fiere internazionali, sollecita i settori pubblico e privato a un reale supporto e accompagnamento dell’artigianato, perché diventi a tutti gli effetti una professione viva, una finestra aperta al mondo. Con la voce rotta dall’emozione, l’artigiano ricorda l’incidente che ha causato l’amputazione della sua gamba sinistra, circa
otto mesi fa. “Guidavo una motocicletta quando l’automobile del fratello dell’allora senatore Edwin Zenny mi ha colpito. Sono sopravvissuto, ma sono rimasto con una gamba sola”. Eppure, l’incidente non ha ne indebolito la determinazione e la passione. La sua dichiarazione ne è una prova: “Due mesi dopo l’incidente, ho ripreso a lavorare con la stessa intensità”. Su un altro fronte, Smith Mackendy, chiamato “uomo-sandalo” dal giornalista Roberson Alphonse. Si è specializzato nella fabbricazione di sandali in macramé di pelle di agnello, a tessitura manuale. Esporta i suoi prodotti nella Repubblica Dominicana e a Miami. Il responsabile dell’atelier Mak pa nou (I nostri lavori) ha creato una sua impresa che impiega più di trenta collaboratori, dieci dei quali in forma permanente. Smith Mackendy, che si considera un artista nato, lavora con un’abilità in grado di competere con le migliori marche di sandali importate sul mercato haitiano. In questa ricchezza di offerta, ogni municipio ha trovato la sua specialità nel settore artigianale: la pietra intagliata a Léogâne, la cartapesta a Jacmel, il ferro intagliato a Croix-des-Bouquets ecc. La comunità di Nouailles, modesto quartiere di Croix-des-Bouquets, è un’attrazione turistica. Decine di atelier dotati della loro struttura di esposizione permanente accolgono quotidianamente
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Opere di Ronald Laratte, artigiano della pietra intagliata, uno degli esempi di successo del Paese (foto Divulgazione/negroartist.com).
La cultura come vetrina
Adriana Santiago
L’artigianato in ferro è cosa da donne Gli haitiani sono artisti a tutto tondo. A Croix-des-Bouquets, un quartiere della periferia di Port-au-Prince, è facile incontrare l’artigiana Mitha Balan. È l’unica donna dei dintorni che lavora il ferro. È diventata un’attrazione turistica e un’eccellente vetrina per tutti gli altri artigiani della via, che vendono di più grazie alle visite di turisti da tutto il mondo. Sì, Haiti non è un paese turistico, ma ospita molte organizzazioni di aiuti internazionali e sempre più stranieri arrivano nel Paese. Nelle loro ore libere, sono turisti. Chinata, mentre lucida un’opera di ferro con la sabbia, l’artigiana non rende giustizia alla sua fama. Dicono che è forte, determinata, e che non teme il lavoro duro. A prima vista, è una signora piccola, che fa con amore quel servizio impolverato. L’artigiana, quarantatré anni, segue la sua strada. Lavora col ferro per eredità. Ha imparato guardando il padre e i fratelli lavorare, ma le era proibito fare un’attività maschile secondo i modelli patriarcali haitiani. Finché Mitha non è rimasta incinta. E sola. Il fratello la aiutava, di nascosto dal padre, a realizzare i primi pezzi, che lei andava in fretta a vendere in città, fino a trovare il modo di uscire di casa prima che la pancia apparisse. Ancora non era una vera professione. La pancia si rivelò presto, mentre i conflitti e le difficoltà durarono ancora dieci anni. Mitha adora gli alberi, che forse per questo motivo hanno dato anima ai suoi primi lavori da professionista. L’albero di Mitha ha incantato un cliente che gliene ha commissionati duecento in una sola volta: con molto sforzo e con l’aiuto di un fratello, Mitha è così riuscita a lasciare la casa paterna con un po’ di denaro in tasca, a crescere i suoi tre figli, e vivere di artigianato. Oggi mantiene i suoi cinque figli (venticinque, ventitré, venti, undici e sette anni), un nipote (due anni), e una casa propria. I suoi primi alberi hanno ancora successo e vengono venduti sempre dallo stesso intermediario di Miami, a cento gourdes, ma ci sono pezzi più elaborati e unici che arrivano a cinquecento gourdes. Una scultura di donna con uccelli, di misura media,
Mitha Balan è un’artigiana che lavora il ferro da più di vent’anni a Croixdes-Bouquets (foto Ermanno Allegri).
costa solo dieci dollari. E la casa di Mitha è piena di sculture alle pareti, perché è anche il suo atelier e il suo negozio. I disegni esotici, ispirati all’estetica vudù, escono dalla mente di Mitha ma vengono elaborati dal fratello, più versato nel disegno. Lei preferisce gli alberi, non solo perché li fa da sola, ma perché l’avvicinano alla natura. Nella produzione sono impegnati i cinque figli, e l’artigiana garantisce che nemmeno il terremoto ha creato problemi al suo giro d’affari. Da quando ha iniziato il suo lavoro, Mitha ha avuto un unico rimpianto: aver vinto il primo premio a una fiera internazionale di Miami e non averlo potuto ritirare, perché le negarono il visto. Lei vorrebbe solo passeggiare nelle terre dei gringos, non vuole lasciare Haiti,
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Viva Haiti si sente soddisfatta di quello che fa e dove abita è felice perché, in dieci anni di attività, ha già venduto migliaia di pezzi all’estero. Quello di cui Mitha e i suoi colleghi della “Strada dei ferri”, come viene chiamato quell’angolo di artigianato, avrebbero bisogno è di un incentivo per la commercializzazione dei prodotti.
Oppure di una migliore organizzazione del settore dell’esportazione, e di un centro dedicato all’artigianato per ricevere i turisti. Lì, a venti km dal centro di Port-au-Prince, in una città senza alcuna struttura turistica, la commercializzazione è lasciata agli intermediari e ai pochi turisti che si avventurano fin là.
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L’arte del ferro di Mitha Balan ha una forte ispirazione mistica, con sirene e dee vudù (foto Ermanno Allegri).
La cultura come vetrina
Gli artigiani disegnano su piastre di ferro, poi intagliate con uno scalpello rudimentale. Per la lucidatura viene usata la sabbia della strada (foto Ermanno Allegri).
visitatori stranieri e locali in cerca di opere artigianali da acquistare. Al di là della pratica artistica, il ferro è una “devozione collettiva”, per citare le parole del giornalista Gary Cyprien. Giovani e vecchi intagliano il ferro per dare forma e vita a esseri straordinari, e guadagnarsi il pane. Tutti i visitatori di Nouailles devono visitare gli atelier e il museo Georges Liautaud, che prende il nome dall’artigiano pioniere di questa grande avventura a Croix-des-Bouquets. Liautaud divenne membro illustre del Centro d’arte all’inizio degli anni ’70, grazie al suo incontro con l’allora direttore Pierre Mondosier.
Dopo questa passeggiata, il turista ha l’impressione di aver scoperto un mondo fantasmagorico, dove l’immaginazione è potenziata all’inverosimile. La varietà di tendenze della scultura su metallo è un’attrattiva accattivante. Ogni artista ha il suo stile, le sue conoscenze, il suo savoir-faire: è questo che fa di Croix-desBouquets un destino. L’arte genera turismo e si impone come biglietto da visita della zona. Nel visitare il lavoro quotidiano dei lavoratori del ferro di Nouailles siamo colpiti dal talento e dalle conoscenze di Serge Joli-
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Viva Haiti
meau. L’agguerrito sessantenne è una figura di spicco a Nouailles, luogo dove è cresciuto e si è formato nell’arte del ferro intagliato come apprendista dei fratelli Louis Juste, discepoli di Georges Liautaud. Questo lavoratore del ferro, aperto e appassionato, ha costruito in più di trent’anni un’opera singolare e profonda, nella quale mescola abilmente il sincretismo cattolico e vudù. Padre di due bambini e di una bambina, Serge Jolimeau, a seguito di difficoltà economiche, ha abbandonato le scuole superiori per consacrarsi all’arte del ferro, facendo di questa attività la sua
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La varietà di forme e dimensioni richiama i visitatori (foto Ermanno Allegri).
principale fonte di risorse. È appassionatamente legato al suo oggetto-feticcio, il ferro, che lavora senza sosta nell’atelier in cui sono esposte le sue opere e le produzioni di alcuni dei suoi allievi. Serge Jolimeau ha trovato grazie al suo lavoro instancabile e alla sua determinazione il coraggio per mandare a scuola i suoi figli e i suoi otto fratelli, e aiutare i deboli, umili e diseredati della sua regione. La sua disciplina, anch’essa di ferro, lo priva di alcuni piaceri. Da mattina a sera, egli taglia e assottiglia il ferro per dare vita a esseri animati. “L’arte del ferro è la mia vita. La porto nell’anima. Vivo di questo lavoro. Non potrei lasciarlo ad altri. Mi sento molto a mio agio nel praticarlo. Fortunatamente, ho appreso questa professione molto giovane. È necessario stare al mio posto, vivere con me, per comprendere ciò che mi motiva, come questa attività orienti la mia visione della vita, migliori la mia relazione con i miei simili, con i miei amici”, afferma Jolimeau. L’artigianato ha lasciato l’ambiente delle fiere e dei luoghi specializzati per spostarsi nelle strade. Marciapiedi enormi diventano oggi grandi boutiques di oggetti decorativi a cielo aperto, in cui esporre tele, sculture, gioielli e bigiotteria. Sguardi umani e forme estetiche si contendono spazi larghi o esigui, spesso non appropriati, il che mostra agli stranieri che Haiti è un Paese di artisti. La vita quotidiana gira intorno agli oggetti d’arte. Le apecar o tap-tap, che assicurano il trasporto pubblico in alcune vie della capitale e delle città della provincia, sono costruzioni artigianali. Gli artigiani conservano la base, lo scheletro principale del veicolo o del camion, e sostituiscono il cassone originale con uno artigianale in legno dotato di sedili in grado di accogliere più passeggeri. Il cassone viene dipinto con colori vivaci, immagini ed espressioni proverbiali tratti dalla mitologia haitiana, che danno a questa estrosa trovata su ruote una nuova identità, iscritta in un contesto tutto haitiano. I saloni di bellezza, i ristoranti-barche, i muri di residenze private e i palazzi pubblici sono opere in piena strada. L’artigianato haitiano guadagna oggi visibilità internazionale grazie al talento dei suoi artigiani e alla determinazione di alcuni promotori haitiani e stranieri. In quest’ultima categoria risuona il nome di Donna Karan, personalità internazionale che lotta per l’artigianato haitiano, e lo guida attraverso una nuova rotta: il mercato internazionale, come ha scritto Franz Duval, redattore capo del quotidiano “Le Nouvelliste” e coordinatore della fiera “Artigianato in festa”. Questa filantropa nordamericana è presidente della fondazione Urban Zen e ha visitato alcune volte Hai-
La cultura come vetrina ti, portando materiale al suo negozio di New York, conosciuto a livello internazionale per i prodotti artigianali importati da Haiti e da altri Paesi poveri. Nel settembre 2011 Donna Karan ha partecipato al programma televisivo di Pears Morgan, della Cnn, a fianco del presidente haitiano Michel Martelly e del presidente del Ruanda, Paul Kagamé, per far conoscere i lavori di artigianato dei due Paesi. In quell’occasione è emerso il talento dell’artista haitiano Philippe Dodard, alla cui opera la Karan ha ispirato la sua collezione invernale di moda 2011, causando molta polemica nel mondo per le foto della modella brasiliana Adriana Lima che posa per il fotografo James Russel accanto a bambini haitiani in evidenti condizioni di povertà. Il primodernismo L’artigianato è incontestabilmente una delle migliori vetrine di Haiti. Attualmente non si può parlare di cultura haitiana senza riferirsi alla sua pittura che, nella metà del secolo ventesimo, ha suscitato l’ammirazione degli osservatori haitiani e stranieri e
La pubblicità della griffe Donna Karan con la modella brasiliana Adriana Lima che divulga l’artigianato dell’haitiano Philippe Dodard ha suscitato non poche polemiche per l’uso di immagini di haitiani in evidenti condizioni di povertà (foto James Russel/Divulgazione).
ha posto Haiti all’attenzione della scena culturale internazionale. La sua storia trova origine, secondo gli storici dell’arte, all’inizio del secolo diciannovesimo, dopo l’indipendenza del Paese. L’espressione di questa pittura è il risultato di una combinazione di arte africana, cultura francese e di quel misto di convulsioni sociali causate dalla “creolizzazione”. Ma, dopo la seconda guerra mondiale, negli anni ’40 la pittura haitiana ha cominciato a costruirsi un’identità propria e a imporsi sulle scenario internazionale grazie a Dewitt Peters, un professore statunitense affascinato dalla pittura naïf haitiana. Nel 1994 egli fondò il Centro di arti a Port-au-Prince, che si è trasformato in un vivaio di pittori naïf: Hector Hyppolite, Philomé Obin, Benoît Rigaud, Préfète Duffaut, Wilson Bigaud, Bazile Castera, Adam Leontus, Gabriel Levêque, conosciuti oggi nel mondo intero. La pittura naïf haitiana, che ritrae soggetti vudù e momenti di vita quotidiana del Paese, ha incuriosito i grandi musei del mondo. Sull’onda del successo di questa corrente pittorica si sono formati differenti movimenti e scuole, tra cui il movimento Saint-Soleil, fondato nella comunità di Soissons-la-Montagne nel 1970 da Jean-Claude Garroute, conosciuto come Tiga, e da Maud Robart, e celebrato dall’eminente scrittore e ministro francese della cultura André Malraux nella sua opera L’Intemporel. Levoy Exil, personaggio rinomato di questo movimento che vive sulle colline di Thomassin, un quartiere periferico di Port-auPrince, e la cui prima opera ha illustrato L’Intemporel di Maulraux, ricorda, “come se fosse oggi”, il suo incontro con il misterioso Tiga. “Lo incontrai per chiedergli un lavoro perché, all’epoca, lavoravo a Soisson-la-Montagne (una comunità contadina nella città di Kensoff, dieci km a sud di Port-au-Prince). Vedendo la mia opera, Tiga mi chiese se anch’io fossi un artista. Io gli risposi che non ero un pittore, ed egli allora mi domandò se ero interessato alla pittura. Risposi positivamente. Mi chiese anche se avevo già avuto contatti con un’opera d’arte. Sì, risposi, all’Hotel Danballah. Egli partì, ponendo fine alla nostra conversazione, e tornò dopo tre settimane, portandomi tre pennelli. Ma dov’è il colore? chiesi. Egli mi rispose: noi abbiamo imparato a dipingere senza colori importati, usa i pigmenti naturali. Allora mescolai carota, barbabietola, argilla nera, polvere grigia di manioca, amido… da questa strana mistura nacque una composizione multicolore forte. Fu il mio primo lavoro artistico, che illustrò l’opera di André Malraux, teorico del movimento. Un’esperienza indimenticabile”.
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Viva Haiti
Sopra, la riproduzione di un’opera di André Pierre. A lato, la riproduzione di un’opera di Jean-Claude Garroute, conosciuto come Tiga.
mia arte per affermare la mia visione del mondo e imporre i miei sogni”, afferma il giovane artista figurativo, aggiungendo che l’arte ha contribuito enormemente a mutare la sua vita. Secondo Domerçant, l’arte può aiutare a far uscire Haiti dal pantano in cui il Paese è immerso, nella misura in cui le autorità mettono in pratica una vera politica culturale focalizzata all’educazione dei giovani, rinforzando valori identitari, civici e di cittadinanza, che valorizzino la professione degli artisti e tengano in considerazione il loro contributo allo sviluppo economico e sociale del Paese. Egli sottolinea inoltre l’importanza di decentralizzare e democratizzare i servizi culturali nelle diverse città haitiane, mirando a conservare alcune pratiche tradizionali autentiche del Paese che sono in procinto di sparire. Il giovane pittore, grazie al suo progetto di esposizione della pittura haitiana nelle università del mondo, continua a sensibilizzare i giovani all’arte. Attualmente sono però gli scrittori haitiani a vivere un momento di spicco a livello nazionale e internazionale, proprio come in passato accadde per i pittori. “Haiti è sulla cresta dell’onda grazie ai suoi scrittori”, afferma Max Chauvet, direttore del quotidiano “Le Nouvelliste” e coordinatore della più grande
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Nato il 7 dicembre 1944, Levoy Exil, insignito con la Medaglia del Millennio nel 2000 dal Salone di arti figurative di La Rochelle, continua a vivere della sua arte. Le sue opere, ispirate al vudù, sono esposte nei grandi musei del mondo. Oggi non è più l’epoca della pittura naïf. I pittori hanno cambiato tema. Ma la pittura haitiana contemporanea, meno esplosiva e meno visibile che in altre epoche, conserva ancora la sua forza espressiva. Il “primodernismo”, come l’ha qualificato Tiga, è un misto di primitivismo classico e di modernismo. I giovani pittori, formatisi per la maggior parte nella Scuola nazionale delle arti (Enarts), raddoppiano i loro sforzi per conservare vivo un patrimonio che ha contraddistinto per molto tempo la storia culturale haitiana. Dominique Domerçant, pittore del movimento Loray e diplomato all’Enarts, ha esposto le sue opere ad Haiti e in altri Paesi. È stato selezionato nel 2009 come vincitore nazionale nella categoria pittura per rappresentare Haiti ai Giochi di Francofonia, in Libano, e per esporre il suo lavoro in università francesi e statunitensi. “L’arte rappresenta per me una moneta di scambio, uno strumento di rivolta, uno spazio di condivisione, un pretesto per comunicare, una finestra aperta sul mondo invisibile. Uso la
La cultura come vetrina fiera di libri del Paese, “Libri in festa”. La letteratura è un qualcosa di elitario in un Paese dove il tasso di analfabetismo è stimato a circa il 40%. È un paradosso per gli osservatori esterni che la letteratura haitiana ancora fiorisca. Gli autori haitiani brillano in qualità e quantità sulla scena letteraria francofona. Frank Etienne, autore di opere immense e profonde, fondatore dello “spiralismo”, è diventato una leggenda vivente nei Caraibi. Le opere di Jacques Roumain, un classico della letteratura haitiana, sono tradotte in diverse lingue.
Altre aree artistiche, che si confrontano con enormi difficoltà, hanno un pubblico molto limitato. Il cinema, dopo aver conosciuto un boom cinque anni fa, attraversa ora un periodo difficile della sua storia a causa dell’eccessiva pirateria, che ha portato alla chiusura di diverse sale di proiezione nel Paese. Il cineasta Arnold Antonin, un’icona del settore, non perde un’opportunità per dare un segnale di allerta e richiamare le autorità pubbliche ad assumersi le loro responsabilità. Allo stesso modo, il teatro haitiano, nonostante gli sforzi di alcune compagnie per soste-
La pittura naïf haitiana presenta temi vudù e momenti di vita quotidiana del Paese (foto Ermanno Allegri).
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Viva Haiti frequentemente un semplice spettatore. Le iniziative che hanno mantenuto vivo il settore culturale ad Haiti sono scaturite da associazioni nate dagli artisti stessi, da centri culturali privati, ambasciate, istituti culturali stranieri. Il mecenatismo è quasi inesistente. Le strutture destinate ad eventi culturali, già precarie prima, sono state messe a dura prova dal terremoto. Il Centro d’arte, testimone dei periodi di gloria della pittura haitiana, è stato raso al suolo. La biblioteca Soleil, dello scrittore, pittore e giornalista Pierre Clitandre, è stata gravemente colpita ed egli fatica a ricostruirla. La biblioteca dell’eminente storico Georges Corvington è crollata. Gli edifici dei musei e della Galleria d’arte Nader, che custodiscono il patrimonio pittorico haitiano, sono stati duramente colpiti. Gli operatori culturali sono stanchi. Gli artisti, con la loro funzione creativa, sono abbandonati alla loro sorte e sperano nelle rare sovvenzioni delle istituzioni esistenti, come la Fondazione per la conoscenza e la libertà (Focal), per esempio, i cui fondi provengono da un filantropo statunitense.
Citadelle Laferrière, monumento storico, la maggior fortezza dei Caraibi, è considerata patrimonio culturale dell’umanità dall’Unesco dal 1982 (foto Humanandnatural.com).
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nere e conservare viva una vecchia tradizione, si scontra con una dura realtà: la mancanza di infrastrutture culturali nel Paese. Il Teatro nazionale, costruito nel bicentenario di Port-au-Prince, ancora porta i segni del terremoto del 12 gennaio 2010. La danza folclorica haitiana, delle cerimonie vudù e dei lakou, racconta storie legate al passato coloniale. Essa traduce gli stati dell’anima, l’allegria, la sofferenza e le angustie esistenziali di questo popolo. La danza folclorica è ricca di espressività e permette di apprezzare una varietà di ritmi. È una fonte di ispirazione per la musica contemporanea, anche se pochissime attività culturali su grande scala sono organizzate intorno alla danza, nemmeno un festival, come invece accade per la musica, il teatro o il cinema. Come parlare di ricchezza culturale ad Haiti senza citare i suoi luoghi storici, meta di peregrinazioni e di visite per i turisti locali e internazionali? Citadelle Laferrière, senza dubbio, è il luogo più conosciuto. È un monumento storico situato sulle pendici rocciose e scoscese del Picco Laferrière, a 900 metri di altezza, che si trova a circa 27 km a sud di Cabo Haitiano e a 8 km a nord della città di Milot, entrambe nel Nord, a circa 250 km dalla capitale di Port-au-Prince. La Citadelle è l’espressione della creatività dell’architettura haitiana e simbolo vivo di forza culturale del Paese. Questa importante fortezza, la più grande dei Caraibi, costruita dopo la guerra di indipendenza da Henry Christophe per fronteggiare gli invasori europei, è considerata patrimonio culturale dell’umanità dall’Unesco dal 1982. Ma anche altri siti, Le Palais Sans-souci, Ramiers, L’Ilê-de la-tortue, o Môle-Saint Nicolas, o i forti Jacques e Libertà, e Labadee, sono centri di attrazione turistica. Il clima ameno e le spiagge assolate di Haiti sono una meraviglia. Il sole ha sempre rappresentato un’attrattiva per gli stranieri nei migliori anni del turismo haitiano. Oggi, gli specialisti pensano che la luminosità del sole possa servire a produrre energia elettrica sufficiente a tutto il territorio. Minato da un’instabilità politica cronica e da dispute interne, Haiti, chiamato in altri momenti la “Perla delle Antille”, non ha attualmente grande successo sul piano del turismo internazionale, che esige più sicurezza, più infrastrutture di accoglienza, oltre a una migliore condizione di vita nel Paese. Al di là di questo fervore culturale e di questo impressionante livello di creatività, pochi artisti e artigiani arrivano a vivere della loro arte, e questo per mancanza di politiche culturali. Lo Stato, sempre impantanato nelle sue urgenze sociali, si rivela
Foto James Alexis
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Capitolo 6
Adriana Santiago, Benedito Teixeira e Paola Vasconcelos
Costruendo la propria resistenza Quasi mai il popolo haitiano ha sperimentato cosa voglia dire vivere libero dalla necessità di difendersi dallo straniero: gli haitiani hanno nella loro stessa essenza l’ideale di resistenza. In una situazione di grave vulnerabilità, la sovranità è di fatto addormentata nella volontà di una popolazione che, prima di tutto, deve garantire la propria sopravvivenza. Le esperienze delle organizzazioni nazionali e (perché no?) straniere mostrano che è necessaria un po’ più di organizzazione e di solidarietà internazionale, perché Haiti ricostruisca la propria storia.
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Un popolo sofferente, sfiduciato, distrutto, con tutte le ragioni per desistere dal conservare un minimo di dignità. In più di due secoli dalla sua indipendenza dalla Francia gli haitiani hanno conosciuto per pochissimo tempo quel che significa essere una nazione sovrana. Oggi il popolo vive sotto il giogo di circa venticinque Paesi, per mezzo di migliaia di organizzazioni non governative (Ong) e forze di occupazione che abitano le terre haitiane, alcune con motivi dichiarati anche, per così dire, “nobili”, altre nella pratica non tanto. Anche così, per mezzo di piccole azioni, quel che si percepisce è che ancora esiste una forza latente e, cosa più incredibile, che questa forza emerge in un contesto di ipersfruttamento ai più vari livelli – politico, economico, culturale, sociale, ambientale. “I contadini vivono in condizioni difficilissime di salute, abitazione ed educazione. Se in queste condizioni essi alimentano la metà del Paese, immagina come potrebbe essere la produzione agricola di Haiti se il settore agricolo venisse considerato con un minimo di serietà”. La dichiarazione è dei brasiliani del Movimento dei lavoratori rurali senza terra (Mst), nelle persone dell’agronoma Dayana Mezzonato e del professore di storia José Luis Rodrigues (Patrola). La prima sta lavorando nella Brigada Dessaline del Mst ad Haiti dal 2011, e Patrola lavora nella Brigada da quando è stata creata, nel 2009. L’Mst e la Via Campesina sono presenti dal gennaio 2009 ad Haiti con il compito di dare vita a un programma di solidarietà tra le organizzazioni contadine.
Costruendo la propria resistenza Dopo un anno di diagnosi della realtà rurale, Mezzonato e Patrola spiegano che vari enti hanno strutturato, insieme alle organizzazioni contadine, un programma di scambio e di mutuo aiuto, con il supporto di una “brigata di solidarietà”. Questa brigata, composta da vari membri, cerca di rafforzare le organizzazioni di contadini attraverso un appoggio tecnico, con installazione di cisterne, allevamenti di caprini, azioni di riforestamento, costruzione di un centro nazionale di sperimentazione e di agroecologia, così come organizzando viaggi di giovani haitiani per conoscere le esperienze del Mst e di Via Campesina in Brasile. “Abbiamo già inviato più di settanta giovani e stiamo organizzando i prossimi gruppi”, informano i tecnici del Mst. Quel che è più importante in questo lavoro è che la missione solidale della brigata mantenga una relazione orizzontale e condivisa con i movimenti contadini. Niente viene fatto al di fuori di questa relazione articolata e coordinata. “In questo modo non abbiamo imposto la nostra visione. Al contrario, siamo partiti da quello di cui le organizzazioni hanno bisogno o desiderano fare, e insieme a loro abbiamo sviluppato i diversi ambiti di lavoro”, sottolineano Mezzonato e Patrola. Un’altra organizzazione che opera per incentivare la strutturazione di forme associate dei lavoratori rurali in difesa dei loro diritti è la Batay Ouvriye (in creolo Lotta dei lavoratori). I suoi rappresentanti parlano delle difficoltà e anche delle potenzialità dell’agricoltura. La portavoce della Batay Ouvriye, Yannick Etienne, spiega che il blocco socioeconomico ad Haiti è un ostacolo allo sviluppo del Paese. “Questo chiarisce perché il sistema non abbia la capacità di produrre molti posti di lavoro. Il sistema feudale nel Paese sta quasi terminando. Prendiamo come esempio la problematica dei contadini: essi stanno combattendo, ma non sono nelle condizioni di poter produrre materiali che facilitino il lavoro e non hanno modo di esportare. Siamo in una situazione in cui il sistema economico è focalizzato sull’agricoltura, che però ha scarsissime possibilità di aumentare la produzione. Questo richiede un’altra strategia e investimenti importanti, perché ci sia una qualche possibilità economica per mutare orientamento”, precisa Etienne, in un’intervista ad Adital. Anche Batay Ouvriye sta lavorando con le organizzazioni contadine, mirando a modelli unitari rivolti ai lavoratori agricoli, attraverso un codice di procedure, quale opportunità di un’arti-
Camille Chalmers è il coordinatore generale della Piattaforma hatiana per uno sviluppo alternativo (foto Ermanno Allegri).
colazione più ampia, dell’intera classe contadina. “In ogni località abbiamo organizzazioni sindacali contadine e, se non sono vicine, noi le mettiamo in contatto sotto uno stesso coordinamento. In alcuni momenti, poi, unifichiamo questa coordinazione. Questo facilita la possibilità di lavorare in gruppo, e ci rende più forti”, enfatizza Etienne. Prima di tutto, il coraggio Per illustrare la forza che il popolo haitiano ancora coltiva, anche fra tanti inconvenienti di ordine naturale, sociale e politico, Camille Chalmers, della Piattaforma haitiana per uno sviluppo alternativo (Papda), racconta ciò che è accaduto dopo il terremoto del 2010. “Il popolo haitiano ha dato una risposta meravigliosa, ha manifestato una solidarietà straordinaria a partire dalle reti interne ad Haiti; e non solo il popolo di Port-au-Prince, che ha dovuto organizzare la vita in situazioni estreme ed è riuscito a salvare più di 1 milione e 500 mila persone per strada e a condividere tutto quello che aveva come riserva. Io ho mangiato quattro giorni in strada senza pagare un gourde”, ricorda.
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Viva Haiti
Il contributo femminile Il futuro di Haiti in quanto Paese democraticamente partecipativo si deve in gran parte alla lotta delle donne. Lenta, ma persistente. Basandosi su quelli che definisce “punti strategici comunitari”, la Solidarietà per le donne haitiane (Sofa), che riunisce circa 10 mila donne in sette dei dieci dipartimenti del Paese, lavora, da venticinque anni, a livello politico, sociale, economico e culturale, secondo quanto spiegato da Carole Pierre Paul-Jacob, dirigente dell’organizzazione. “Lotta contro la femminizzazione della povertà”, “salute per le donne”, e “lotta contro la violenza sulle donne” formano un triplo pilastro che tenta di garantire la dignità di quelle che, in assenza dei mariti uccisi dalla catastrofe naturale o dalla violenza, oppure emigrati
dal Paese in cerca di migliori condizioni di vita, sostentano i figli e nel contempo si formano politicamente ed economicamente, progettando un’Haiti sovrana. Nella misura in cui denuncia la realtà di sfruttamento capitalista, la Sofa tenta di fornire alle donne strumenti che le rendano indipendenti economicamente, soprattutto in campo alimentare. Uno dei progetti più importanti è quello che rende disponibili per le donne macchine di trasformazione del grano, in collaborazione con la Papda, che fornisce l’apporto dei suoi agronomi, tecnici e ingegneri per seguire tutto il processo. Nel dipartimento di Plaisance, nella località di Peroed, la Sofa assiste circa cinquecento donne. A Chinot, sono più di seicento le beneficiarie del programma. “Con questo programma, i gruppi diventano più solidi, e le donne hanno più forza per portare avanti la lotta nella loro zona di appartenenza, costruendo una rete più estesa, e contribuendo a dare più forza alla Sofa”, afferma Carole Pierre-Paul Jacob. La macchina per il granturco mette in moto tutto un processo di superamento della dipendenza e della povertà. Le donne stesse si sono organizzate per l’utilizzo delle macchine, formando una cooperativa. Così riescono a raccogliere denaro e usarlo per fare un prestito ad altre persone per l’acquisto di materiali diversi. Schivando le difficoltà imposte dal sistema capitalista di ipersfruttamento presente ad Haiti, le cui banche non prestano denaro ai più poveri, le beneficiarie del programma riescono a liberarsi da questo giogo. In un Paese dove i poveri vivono con meno di un dollaro al giorno, avere l’opportunità di partecipare a un programma che rende possibile l’autoproduzione significa migliorare la vita. Si arriva, secondo Carole, a ottenere cento dollari in prestito per avviare un’attività. Il miglioramento della condizione economica libera di conseguenza la donna dalla sottomissione al sistema patriarcale. Oltre a dare sostegno nella parte tecnica, l’ente lavora sulla formazione all’economia rurale e sociale, valorizzando la partecipazione popolare alla realizzazione dei progetti. La Sofa afferma di limitare il suo lavoro all’orientamento. “La cosa più importante è che nel momento in cui la comunità prende una decisione o un’iniziativa possa condurre essa stessa le sue attività, in modo indipendente”, spiega Carole. Forniamo strumenti formativi anche per quel che riguarda i modelli di gestione, di
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Anche i contadini si sono mobilitati per inviare cibo, frutta, denaro, perché il sistema era tutto paralizzato. E, per Chalmers, la cosa più straordinaria è stato l’esodo da Port-au-Prince di 684 mila persone che hanno lasciato la città in meno di una settimana, fuggendo dal terremoto, e sono state accolte, ospitate, nutrite e curate affettivamente dopo lo shock e il trauma del terremoto. “In nessun luogo sono state rifiutate le persone che arrivavano. C’era gente che vagava nel disorientamento totale, perché molti giovani nati a Port-au-Prince non avevano mai visitato le campagne, e non avevano parenti lì; eppure sono stati accolti, in modo straordinario”. Chalmers cita l’esempio di una città chiamata Papaye, al centro del Paese, che prima del terremoto aveva 8 mila abitanti, e una settimana dopo 18 mila. “E tutti ospitati, nutriti e curati. Ma questo è passato nel totale silenzio, non appare sui giornali, non appare in televisione, i media vogliono passare solo un’immagine negativa, sempre la stessa, di Haiti”, lamenta. La Papda ha messo per iscritto vari rapporti contenenti esperienze alternative del post-terremoto, ma questa solidarietà e le esperienze del popolo haitiano sono state totalmente marginalizzate, silenziate, dimenticate, “probabilmente per dare risalto alla pesante macchina degli aiuti umanitari e delle agenzie internazionali che, dove è possibile, stanno approfittando del momento di crisi per portare a cambiamenti sostanziali a vantaggio di interessi transnazionali e delle grandi potenze economiche mondiali. Questo è molto evidente”, dice Camille Chalmers.
Costruendo la propria resistenza
Carole Pierre-Paul è coordinatrice della Solidarietà per le donne haitiane (Sofa) (foto Francisca Stuardo).
marketing e di contabilità. Vengono promosse attività economiche anche nelle favelas di Port-au-Prince, come a Martisan. È un programma per fabbricare materiali per il vestiario, con le stesse persone della favela. La Batay Ouvriye investe sul potenziale femminile per incentivare il lavoro. Esiste un progetto nella città di Ouanaminthe, nella zona franca vicina alla Repubblica Dominicana, che permette a un gruppo di donne di produrre tovaglie. La portavoce, Yannick Etienne, spiega che non sono tovaglie comuni, di uso quotidiano, ma articoli artigianali pregiati. Questi prodotti sono fabbricati con i piccoli pezzi di tessuto che vengono gettati via dalle industrie della zona franca, che le donne assemblano per cucire le tovaglie, tecnica conosciuta con il nome di patchwork. Etienne sottolinea che questi prodotti vengono venduti con facilità sulla frontiera. “Questo è interessante perché aiuta sul fronte economico. Aiuta le donne non solo a creare gruppo, ma anche a generare reddito, a realizzare aggregazione psico-sociale nelle comunità per costruire emancipazione, spirito di gruppo. In questa località, l’unica attività sociale, ricreativa, è la Chiesa”, lamenta.
Dato che sono donne che lavorano molto, che passano le giornate tentando di vendere quel che è possibile sul mercato informale, il progetto di patchwork promuove altre esperienze, non solo creative, ma di condivisione e convivenza con altre donne. “Genera altri significati e altre possibilità nella realtà di questa gente. Per ora, stiamo trovando le risorse in noi stesse. Dato che non abbiamo risorse economiche, abbiamo chiesto ai lavoratori della zona franca di facilitare l’accesso ai tessuti e distribuirli tra noi donne. Non esiste denaro alla base della realizzazione di questo progetto. Il denaro viene dalla vendita dei prodotti. Noi dell’organizzazione Batay Ouvriye non crediamo molto in un progetto, se questo non si muove in direzione delle battaglie sociali. Sono le cause sociali la nostra principale attività”, aggiunge Etienne. Per Pierre-Paul Jacob, della Sofa, la situazione è difficile, ma c’è speranza. Ella ritiene che una salvezza per Haiti sia rappresentata dall’urgente introduzione di una nuova classe politica, libera dai legami imposti dagli Usa. Si parla di una classe politica “progressista, che possa portare un’altra visione economica, sociale e politica al Paese”. Chi sta sul proprio trono, continuando a mantenere il potere, perpetua anche uno scenario di vendita della patria, con gli occhi appena sopra il proprio ombelico. “Con questo regime che apre Haiti alle ingerenze straniere non ci sarà cambiamento. Questo fa crescere la povertà dei contadini, della classe popolare. Essi saranno sempre più poveri. Dobbiamo introdurre un cambiamento, un cambiamento nella visione politica del Paese, ma questo sarà difficile, quindi è urgente che la coscienza popolare risponda all’essenza del cambiamento”. Ad Haiti, secondo la dirigente della Sofa, il potere visibile non è un potere che porta benefici al popolo. Il vero potere ad Haiti è un potere economico, di quelli che hanno il denaro in mano, gli stessi che si oppongono alle decisioni politiche del Paese e che rifiutano in tutti i modi l’idea che si crei un potere a sinistra. La classe dominante non si apre alle nuove idee, al cambiamento, al progresso, ai programmi politici sostenuti da enti come la Sofa e la Papda. Anche se il clima oppressore della dittatura Duvalier sembra essere passato, ora Carole prevede un pericolo maggiore. “Adesso abbiamo un governo presentabile, ma questo non vuol dire che il regime politico sia mutato. Al contrario, questo regime sembra ancora più pericoloso, perché ci presenta di nuovo l’antico sistema, che era sparito da venticinque anni”. Il
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La maggioranza della popolazione haitiana vive del commercio informale (foto Francisca Stuardo).
governo. “All’interno di questo governo ci sono molte persone che hanno fatto parte dell’antico regime Duvalier – membri della milizia Tonton Macoutes ad esempio – che mettono in pratica una democrazia apparente, ma che hanno l’obiettivo di ripristinare la repressione nel Paese. Stanno già accadendo alcune cose. Sequestri, omicidi nelle strade, e non c’è una soluzione a questo. Anche la Minustah contribuisce a questa situazione, perché picchia noi giovani. Siamo in un clima ‘potenzialmente volatile’. Siamo preoccupati di quello che accadrà da qui in avanti”, osserva Yannick Etienne. Camille Chalmers attribuisce a Michel Martelly il soprannome di “made in Usa”, anche come personaggio. E spiega il processo che ha portato alla sua elezione. Sapendo che la popolazione nutriva molta rabbia verso il governo precedente e verso la Minustah, tutta la campagna di Martelly è stata congegnata per mostrare una persona molto lontana dal governo, molto lontana dal potere. Poi però, conclude la Papda, non si è dimostrato affatto diverso da un candidato di estrema destra e
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regime dell’attuale presidente, Michel Martelly, sta mostrando il suo obiettivo di resuscitare l’estrema destra, “che pensavamo essere sparita dal Paese. Il regime dei Duvalier si rinnova, ancora una volta. Questo crea la necessità anche adesso di metterci insieme e di guadagnare più forza, per poter andare avanti”. Anche nell’ambito della relazione con i lavoratori, Yannick Etienne di Batay Ouvriye osserva le chiusure dell’attuale governo, principalmente perché non ha dimostrato nessuna apertura al dialogo. “Con il governo attuale non abbiamo nessuna relazione perché non favorisce l’operato dei sindacati. Avevamo intrapreso un’esperienza di dialogo con il presidente Préval, ma la sua intenzione era quella di iniettare dentro i sindacati un sistema di corrotti, i cosiddetti “pelegos”. Quel governo ha offerto denaro e molti altri vantaggi ai “pelegos”. E noi abbiamo preso le distanze da questa pratica. Con questo governo ancora non c’è stata una possibilità di apertura”. Inoltre, la Batay Ouvriye sente che la repressione contro i movimenti sociali e dei lavoratori sta crescendo sotto questo
Costruendo la propria resistenza
Adriana Santiago
Donne che si prendono cura di una città Ad Ennery, città che si trova a circa 180 km a nord della capitale Port-au-Prince, chi comanda sono solo le donne. Nella piccola città agricola è presente una redditizia cooperativa di donne della Sofa (Solidarietà per le donne haitiane o, in creolo, Solidarite Fanm Ayisyen). Esse coltivano grano, lo vendono, producono reddito e fanno anche prestiti agli altri membri della comunità, dato che il sistema bancario non finanzia i piccoli commercianti e non concede crediti personali. Violenne St. Pierre è la coordinatrice della Sofa di Ennery e afferma che tutto ciò che sono riusciti a ottenere, terreno, installazioni, edificazioni e equipaggiamento, è venuto dal loro lavoro di coltivazione, principalmente di granoturco. Quando hanno iniziato a ottenere un guadagno, hanno creato una linea di microcredito e si sono affermate come forza politica nella città. All’epoca delle inondazioni, delle altre catastrofi naturali e dello stesso terremoto, la
A Ennery, città situata a circa 180 km a nord della capitale Port-au-Prince, chi comanda sono le donne (foto Ermanno Allegri).
loro attività non è stata colpita direttamente. Sono riuscite così a rendersi disponibili per coordinare i lavori di solidarietà. Carole Pierre-Paul Jacob, direttrice nazionale della Sofa, ricorda queste piccole vittorie contro il sistema patriarcale, conquistate in venticinque anni di esistenza dell’ente. Le macchine per la lavorazione del granoturco permettono un riscatto economico per le donne. Attualmente, la Sofa ha circa trecento donne che partecipano a questo programma. “Esse stesse si organizzano con le macchine che abbiamo fornito, pagano quel che devono, si riuniscono in cooperative e il denaro che avanza viene prestato ad altri, per essere investito nel commercio, per dare forza allo sviluppo locale”. La direttrice spiega che, spesso, le cooperative fanno affari o vendono quantità iniziali minime, come cinquanta gourdes. Afferma ancora che il sistema capitalista è tanto impenetrabi-
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Tutto quello che le donne di Ennery sono riuscite a ottenere, come il terreno, gli impianti, le strutture e l’equipaggiamento è venuto dalla coltivazione e dalla lavorazione delle sementi, principalmente del granoturco.
Stanno ancora tentando di risolvere il problema della mancanza di scuole per bambini e bambine e cercando di gestire l’abitudine, diffusa nel Paese, di vendere i figli nella Repubblica Dominicana. Quest’autostima ritrovata porta beneficio a tutti, anche agli uomini; lo dimostrano l’organizzazione delle scuole serali di alfabetizzazione e i momenti di festa popolare, come il Giorno delle madri e il Natale. È questo a cui la Sofa mira con il suo lavoro sociale al femminile. “Questo progetto rende più facile per le donne abbandonare la posizione di dipendenza, perché il potere economico rende loro possibile difendersi”, dice Pierre-Paul Jacob. Spiega inoltre le due linee di lavoro: la prima, contro il sistema patriarcale, e la seconda rivolta a una trasformazione globale. E tutto questo sembra ora possibile a Ennery. La Sofa è un’organizzazione che conta circa 10 mila membri sul territorio nazionale, presenti in sette dipartimenti (sui dieci in cui è suddivisa Haiti), ma ha obiettivi ancora più grandi. Insieme alla Papda sta sviluppando, da tre anni, un progetto che coinvolge agronomi, tecnici e ingegneri per promuovere addestramento e formazione nei settori dell’economia rurale e dell’economia sociale per le donne. Propone inoltre formazione sui modelli di gestione, marketing e contabilità. Una ricchezza ottenuta senza incentivi da parte del governo.
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le ad Haiti che la popolazione povera non ha diritto a nessun prestito bancario. “L’aspetto positivo di questo programma sta nell’essere in grado di produrre, senza sentire il peso del sistema capitalista sulle spalle”. Con il microcredito, che le donne attuano tra loro, esse hanno il potere di comprare per fare i loro affari. Attualmente, con l’accesso che hanno al credito solidale, equivalente a cento dollari, il tenore di vita delle donne aumenta. In questo modo anche il sistema patriarcale perde il suo peso, perché sono le donne stesse adesso ad avere più potere. “Per fare un esempio concreto del livello economico che questi programmi riescono a generare, le donne hanno la possibilità di ottenere, tramite i nostri programmi, fino a cento dollari al giorno, un tenore molto elevato se consideriamo che i poveri qui vivono con meno di un dollaro al giorno. Questa donna avrà la possibilità di essere più indipendente.” Violenne St. Pierre concorda, perché è stata testimone di profondi mutamenti ad Ennery dopo la creazione della cooperativa, e non solo riguardo al miglioramento economico della vita delle donne e ai prestiti, ma anche al miglioramento dell’autostima femminile locale. Sono le donne stesse, adesso, che risolvono i problemi di violenza domestica, sessuale, i casi di prostituzione e i casi di Aids, attraverso i loro punti di ascolto e conciliazione.
Costruendo la propria resistenza ha mostrato di avere molte relazioni con gli antichi duvalieristi. Chalmers racconta che molta gente lo vedeva in opposizione alla dittatura Duvalier, mentre appare ora una sorta di revanche, di ritorno al potere delle élite della classe media legata alla dittatura. Dall’altro lato, Martelly può anche essere un elemento di catalizzazione, di ricomposizione delle forze popolari democratiche, un movimento che già era cominciato anche prima di lui. Laboratorio di dominazione? La Papda, l’ente che oggi rappresenta forse con più forza il popolo haitiano nella sua lotta per guadagnare uno spazio nelle decisioni politiche ed economiche che possono dare una direzione al Paese, ci ha dato un’importante chiave di lettura storica per comprendere Haiti. Il suo coordinatore, Camille Chalmers, è molto fermo nell’affermare che gli haitiani e la comunità internazionale hanno, attualmente, una grande difficoltà ad accettare Haiti come Paese. Tutti vivono in un contesto di dominazione imperialista e, a quanto pare, il Paese si è trasformato in una sorta di capro espiatorio. Per sostenere l’ideologia imperialista di uno Stato che è sul punto di fallire, Haiti viene utilizzata come esempio per giustificare la presenza, l’occupazione militare e l’occupazione economica. Pur essendo un puntino nell’immenso scenario mondiale, il piccolo Paese secondo Chalmers assume importanza perché è utilizzato come un laboratorio per la sperimentazione di nuove forme di occupazione militare e di ricolonizzazione, con un controllo quasi totale da parte delle istituzioni finanziarie internazionali, delle Nazioni Unite e delle grandi Ong legate agli interessi di base del capitale transnazionale. Si leggano: la Minustah, la Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh), la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, la Banca interamericana di sviluppo (Bic), tra le altre istituzioni. Si fa, secondo lui, una lettura totalmente travisata, distorta, della realtà haitiana per approfittare dell’immagine di un Paese caotico, senza nessuna organizzazione, senza nessuna esperienza politica, che nega tutta la sua storia, tutto il suo bagaglio di esperienze, con l’obiettivo di giustificare l’occupazione militare e il processo di colonizzazione. Chalmers avvisa: questo modello potrebbe essere utilizzato in altri Paesi, laddove siano presenti tentativi di minare alla base gli interessi dell’imperialismo e delle forze dominanti.
I cappi al collo vengono dall’estero Nonostante la lotta agguerrita del popolo haitiano per mantenersi vivo in mezzo a una realtà tanto difficile, aggravata dal terremoto del 2010, i rappresentati della Brigata del Mst e di Via Campesina osservano che l’instaurarsi di una democrazia veramente partecipativa ad Haiti è ancora un sogno lontano. Sono molteplici i fattori che spiegano perché Haiti sia arrivata al punto di sfacelo della sua sovranità nazionale, pur essendo uno dei primi Paesi dell’America Latina e dei Caraibi a rendersi indipendente dalle colonie europee, pertanto pioniere nel rompere con lo sfruttamento. Nell’attuale situazione, lo Stato haitiano è molto indebolito e immerso in interminabili crisi politiche; per questa ragione tutti gli attori sociali pagano caro il prezzo dell’assenza di politiche pubbliche, in tutti i settori, affermano Mezzonato e Patrola, tecnici del Mst. Sulla scorta dell’esperienza del movimento dei lavoratori, Yannick Etienne, di Batay Ouvriye, considera anche che Haiti sarà sottomessa sempre più ad altri Paesi. “Ogni giorno siamo più dipendenti dall’estero in settori come la produzione di cibo. Importiamo sempre di più: riso per esempio, lo importiamo quasi tutto. L’importazione non fa che aumentare”, ha detto. Per lei, il denaro arrivato per la ricostruzione del Paese dopo il terremoto dovrebbe rappresentare l’opportunità per prendere un orientamento differente, costruire altri modi di sviluppare l’economia del Paese, stabilire priorità di natura molto diversa. “Non riusciamo a incidere su queste decisioni. Stiamo conservando sempre le stesse pratiche. Siamo molto dipendenti e non possiamo fare nulla. Non possiamo fare elezioni, decidere sulla ricostruzione, non possiamo intervenire nel processo culturale del Paese; tutto questo viene fatto da organizzazioni e imprese straniere. Non abbiamo potere sulla costruzione di scuole primarie, secondarie, professionali e universitarie, e le scuole funzionano sotto le tende. Sentiamo che il Paese non si sta orientando per la formazione dei giovani in vista del futuro. Sentiamo che i professionisti, sempre di più, stanno lasciando il Paese”, denuncia la dirigente dell’organizzazione sociale. L’haitiano Jean Garry, analista del Centro strategico di relazioni internazionali (Ceiri) con sede in Brasile, riconosce la forza del suo popolo che riesce a sopravvivere in una situazione che si può definire “disperata”, ma è realista, e afferma che uscire
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Buona parte della popolazione vive ancora in baracche, senza infrastrutture (foto Francisca Stuardo).
Negli ultimi anni, lo Stato haitiano viene diretto da un’élite che ha abbandonato lo sviluppo nazionale dell’economia a tutti i livelli. In questo senso, la partecipazione degli attori sociali avviene solo nelle deboli e, a volte, fraudolente elezioni che si ripetono spesso. E anche in queste è evidente una tremenda stanchezza della popolazione davanti al perpetuarsi delle solite dinamiche. Per avere un’idea della mancanza di credibilità dell’attuale classe politica, basti osservare che in occasione delle ultime elezioni per il presidente della Repubblica, su un totale di quattro milioni di elettori, il numero dei votanti non ha raggiunto il milione. “A parte ciò, il basso livello di partecipazione della società haitiana è proporzionale alla scarsa ricezione dei servizi pubblici, come educazione, trasporto, salute, casa, alimentazione e altri. Per fare un esempio, il Paese non ha nemmeno una stazione degli autobus. Durante il periodo di alta espansione del colera, solo il 10% dei casi sono stati trattati in presidi dello Stato, il resto è rimasto a carico delle Ong o di altri Stati cooperanti”, raccontano i tecnici del Mst e di Via Campesina.
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da questa situazione è un processo che richiede tempo e molte altre iniziative, principalmente di ordine politico. Egli spiega che la presenza internazionale non è solamente quella militare, ma che è ancora più forte in tutti gli aspetti della vita sociale, economica e politica con l’invasione delle Ong, il che rafforza la situazione di dipendenza. Oltre a ciò, il Paese si trova in una condizione di povertà estrema, con più dell’80% della popolazione sotto la soglia della povertà. Per questo la partecipazione del popolo haitiano alle decisioni pubbliche viene molto limitata da una comunità internazionale diversificata, che non è concorde riguardo al modo di apportare il suo contributo al Paese, e che vuole sostituire gli haitiani nelle decisioni che li riguardano. “È importante dire che la comunità internazionale si approfitta di questa povertà per sviluppare un assistenzialismo improduttivo, che riduce la capacità del popolo haitiano di partecipare qualitativamente alle decisioni dello Stato”, denuncia l’analista.
Costruendo la propria resistenza
Adriana Santiago
In vacanza: scuola gratuita per chi non può pagare La Piattaforma haitiana per lo sviluppo alternativo (Papda) lavora su tematiche a livello di intervento globale, di vigilanza degli accordi, di documentazione, di investigazione, di pressione sullo Stato, organizzando conferenze, forum nazionali e accompagnando da vicino tutto quello che sta accadendo, al fianco delle organizzazioni di base e delle organizzazioni contadine. Gode di stima a livello nazionale, non solo per quel che dicono e scrivono i suoi leader, ma per azioni semplici, come quella di Marie Roseline Féenelus Sintelus, una delle cinque
Marie Roseline Fénelus Sintelus è una delle cinque professoresse volontarie della città di Plaisance che insegnano gratuitamente a bambini e bambine a leggere e scrivere durante le vacanze, in mancanza di una scuola pubblica (foto Ermanno Allegri).
professoresse volontarie della città di Plaisance che insegnano gratuitamente a leggere e scrivere ai bambini durante le vacanze in mancanza di una scuola pubblica durante l’anno scolastico. Azioni semplici che si fondono con azioni “macro” come quelle di integrazione economica, e un lavoro intenso di vigilanza su tutti gli accordi firmati da Haiti, come quelli con gli Usa e con l’Alca, la legge Hope (firmata nel 2006, che stabilisce che tutti i prodotti tessili fatti ad Haiti entrino negli Usa a condizioni di favore), e una grossa mobilitazione sull’Epas (accordo con l’Unione Europea). La Papda si occupa di vigilare, denunciare e quindi lanciare proposte alternative. La maggior attenzione è rivolta agli accordi con gli Usa, l’Unione Europea, l’Omc e Caricom. Ma non dimentica o svalorizza le azioni di base, come quella delle professoresse di Plaisance. Le lezioni durante le vacanze vengono fatte sotto gli alberi, a casa delle insegnanti o nelle aule prese in prestito dalle scuole nel fine settimana. Insegnano anche a fare prodotti artigianali o semplici canaline per il riutilizzo dell’acqua che cade dalle tegole in periodo di pioggia: l’importante è non lasciare i bambini in ozio, soprattutto dopo il terremoto. “Vediamo i bambini che vanno a piedi verso la Repubblica Dominicana, che fuggono, scalzi, senza speranza”, commenta Roseline. Azioni semplici che fanno parte del lavoro della Papda, la quale agisce su più fronti: sovranità alimentare, integrazione economica e democrazia partecipativa. Sull’esempio di Roseline e delle altre professoresse volontarie che hanno assistito 180 bambini e bambine nel 2010, la Papda sviluppa un lavoro di accompagnamento nel sudest del Paese, ad Artibonite. Opera inoltre nella zona del riso e sulle montagne, in zone remote, che necessitano di otto ore di cammino per essere raggiunte, in tutta la parte nord (nordest e nordovest). In queste regioni vengono organizzati gruppi di base già da venti, trent’anni, che si occupano di migliorare la produttività nel settore dell’allevamento di bovini, vacche, ca-
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La maggioranza delle scuole ad Haiti è privata, come la scuola della Chiesa anglicana di Saint Matthieu, a Léogâne. I genitori, senza lavoro fisso, fanno uno sforzo sovraumano per mandare i figli a scuola (foto Ermanno Allegri).
offre consulenza economica per la produzione collettiva, oltre che per l’organizzazione dei produttori. Per esempio, da più di dieci anni la Papda lavora con i produttori di caffè, intorno alla Recocarno, e lavora perché si associno altri gruppi di produttori, come quelli di latte, di trasformati, principalmente formati da donne, che fanno farina di granoturco, marmellata ecc. Fornisce inoltre appoggio tecnico ai lavoratori che usano sistemi agroecologici, con la produzione di fertilizzanti naturali, lombricultura ecc. In questo settore è attivo un programma con Cuba, della durata di tre mesi, di apprendistato nel settore contadino, con scambio di conoscenze nel campo dell’agroecologia e delle strategie di produzione.
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pre e galline. Lavorano a un miglioramento della nutrizione, con strategie locali e prodotti coltivati ad Haiti. Nel sudest è attivo un progetto di miscela di grani locali e farina di grano per fare pane e altri prodotti di panetteria, oltre a una catena di produzione con igname e manioca locali. Numerose anche le esperienze di arte e coscientizzazione, con gruppi di giovani che si formano attraverso il teatro popolare, affrontando i temi della produzione di alimenti e della sovranità alimentare. Anche Cuba collabora formando giovani haitiani coinvolti nei lavori comunitari della Papda, come medici, economisti, animatori di educazione popolare. Nel nord accompagna un gruppo che occupa alcune terre improduttive, il Tet’Kole, e
Costruendo la propria resistenza La società haitiana, con dieci milioni di abitanti che vivono su un territorio di 27.750 km quadrati, è stata letteralmente abbandonata. Non si può contare sulla partecipazione di un popolo alle decisioni del suo Paese, se esso non riceve il minimo necessario dallo Stato. Il miglior modo per un popolo di partecipare alla vita sociale da protagonista è avere accesso a servizi di qualità, lavoro e reddito, tanto nelle zone urbane quanto in quelle rurali. Nonostante tutte le ragioni per desistere, la realtà dei fatti è che la società haitiana continua a sentire fortemente la sua tradizione culturale di partecipazione. Il problema è che le élite che hanno assunto il potere negli ultimi anni si sono sottomesse a una serie di regole della “comunità internazionale”, organizzando la società in accordo con interessi estranei alle reali necessità del popolo: questa è la valutazione dei tecnici del Mst e di Via Campesina. Il sogno della democrazia Non sorprende pertanto lo scoraggiamento generale che pervade la società haitiana di fronte alle attuali direzioni della politica e dell’economia. E il peggio, secondo Mezzonato e Patrola del Mst, è che questo scoraggiamento non si riveste di una prospettiva di mutamento, nemmeno a medio termine. La formula attuale di organizzazione di questo Stato non risolverà i problemi strutturali della società, né le attuali forme di organizzazione della società civile rendono possibile, fino a questo momento, un chiaro percorso di cambiamento. Jean Garry, del Ceiri, concorda sul fatto che una vera democrazia debba avere caratteristiche di partecipazione ed inclusione, cosa che aiuta a mantenere la stabilità politica necessaria alla creazione e distribuzione egualitaria delle ricchezze. Il consolidamento della democrazia partecipativa, però, passa per il recupero della sovranità nazionale, quando finalmente il popolo haitiano potrà farsi carico del proprio destino, e per la riduzione della povertà estrema, che diminuirà la vulnerabilità del popolo nei processi politici e di formazione del potere. Camille Chalmers, della Papda, sostiene con forza che il popolo di Haiti ha sempre lottato per la democrazia, e che ancora, ogni volta che lotta per democratizzare questo sistema, per aprire spazi di partecipazione politica, si trova ad affrontare direttamente il sistema imperialista. Possiamo dire che il periodo di lotta per la democrazia sia finito con Aristide, dopo il colpo di
Stato contro il presidente eletto con il 62% dei voti. In seguito si è scatenata una crisi di credibilità del sistema politico. Le persone non hanno più fiducia, i candidati alle elezioni sono visti come persone che vogliono derubare lo Stato o favorire le loro famiglie, per questo il popolo non si mobilita più. Si è mobilitato per votare Jean-Bertrand Aristide, nel 1990, e René Garcia Préval nel 2006. “È molto importante capire il significato politico di questo voto, che era un ‘no’ all’occupazione straniera, perché, per la gente, Préval rappresentava Aristide. Per il popolo, era un modo per rispondere all’invasione militare, avere un governo di fatto, ma si sbagliarono perché anche Préval rapidamente si alleò con il progetto di dominazione. Il popolo aveva speso molte energie, e dopo la delusione ricevuta, non ha più vissuto momenti di mobilitazione elettorale. Nelle ultime elezioni la partecipazione è stata di meno del 25% dell’elettorato”, evidenzia Chalmers. Ripercorrendo il processo storico che Haiti ha percorso per arrivare al punto di degrado politico ed economico in cui si trova oggi, Camille Chalmers torna al 1986, dopo la caduta della dittatura dei Duvalier, periodo di forte mobilitazione e di grande unità all’interno dei movimenti popolari. “Il periodo dal 1986 al 1991 è stato dominato da un dinamismo incredibile dei movimenti sociali, che stavano animando il processo di lotta con l’obiettivo di portare cambiamenti strutturali sostanziali alla società, come la riforma agraria, la riforma politica, il dibattito sugli investimenti di credito strutturali; questo dinamismo è stato però cancellato dalla violenza del colpo di Stato del 1991”. Chalmers afferma che il principale obiettivo del colpo di Stato del 30 settembre 1991 era eliminare il popolo in quanto attore politico. E, dato che il movimento era molto forte, venne messo in atto un processo strutturato di aggressione al movimento popolare, che contemplava omicidi – furono uccise circa 5 mila persone –, persecuzioni contro dirigenti, distruzione delle strutture delle organizzazioni che avevano passato venti-trent’anni a costruire cooperative. Scuole di formazione, dormitori, aule, tutto venne distrutto dalle forze armate. Da quel momento venne messa in atto una strategia di divisione interna del movimento popolare attraverso la corruzione e la creazione di programmi molteplici e diversificati. Questo ha portato alla frammentazione della società e alla corruzione. “Abbiamo comunità che svolgono quattro o cinque attività tutte intorno al tema della salute, con 7 mila persone, e queste atti-
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Viva Haiti
L’accampamento installato nel Champ de Mars, di fronte al Palazzo del governo, distrutto dal terremoto (foto Francisca Stuardo).
e degli attori coinvolti, per capire le contraddizioni di cui questi quattro momenti distinti sono portatori”. La Papda sostiene che è necessario comprendere i nuclei di incoerenza nelle decisioni prese da Aristide. Per esempio, egli ha ceduto un poco sulla privatizzazione di alcune imprese-chiave, come quelle della telefonia, ma allo stesso tempo non ha dato spazio ai cambiamenti imposti dall’Fmi. La liberalizzazione finanziaria e l’apertura commerciale hanno portato a una catastrofe sociale enorme, con una polarizzazione incredibile delle ricchezze e un impoverimento accelerato, specialmente dei contadini. “Il partito di Aristide afferma che egli abbia resistito davanti alle privatizzazioni e noi diciamo che egli ha accettato il piano di aggiustamento nella sua dimensione finanziaria e commerciale. Per questo è molto difficile fare un bilancio equilibrato”, afferma Chalmers. In questo modo Aristide avrebbe rappresentato, in molti di questi periodi, un elemento decisivo nel processo che ha spinto alla frammentazione del movimento sociale. Solo adesso i movimenti popolari haitiani starebbero iniziando a superare questa frammentazione, questa polarizzazione politica. Dettaglio importante: Haiti non è sempre stato un Paese povero. Chalmers spiega che la fama che viene diffusa sul Paese nasconde aspetti fondamentali per comprendere la realtà. Non si può prescindere da una comprensione di quel che è accaduto
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vità non comunicano tra loro. Tutti hanno il loro ‘donatore’ a cui inviare relazioni, ma tra loro non comunicano. Questa è la frammentazione del movimento sociale, che si è consolidata con il tempo”, spiega Chalmers. Egli tenta inoltre di fare un bilancio dei mandati governativi di Jean-Bertrand Aristide, la cui figura era per il popolo haitiano l’emblema di una nuova liberazione. È un bilancio difficile da fare perché, secondo Chalmers, è necessario contemplare momenti differenti e ogni momento porta con sé condizioni sociali diverse. Sono quattro momenti distinti nella stessa persona di Aristide. Nel 1991, era molto legato alle classi popolari, senza però alcun progetto sistematico. Segue poi il periodo dell’Aristide rientrato dagli Usa (1995), con i militari statunitensi. Il terzo momento è quello della ripresa del potere nel 2001; e, più recentemente, l’Aristide tornato dal Sudafrica nel 2011. “Il concetto tradizionale di leadership è dato da una dinamica che tiene in considerazione la persona in carica e il momento storico in cui ricopre quella carica: le quattro fasi di presidenza di Aristide hanno caratteristiche molto diverse, e non è facile leggere con linearità tutti gli avvenimenti a lui legati: vengono letti quindi con discontinuità, e ogni fase è da valutare autonomamente, sia nei suoi aspetti positivi sia in quelli negativi”, ha spiegato Chalmers, sottolineando che, dietro a ognuna di queste fasi, c’è sempre stata l’ombra degli Usa. Per fare un esempio, racconta che nel settembre 1991, alcuni giorni prima del colpo di Stato, Aristide aveva indetto una riunione al Palazzo nazionale per presentare una proposta fatta dal Fondo monetario internazionale (Fmi) in merito ad un piano di aggiustamento. Egli aveva chiesto ai suoi ministri di spiegare a tutte le persone invitate la proposta dell’Fmi. L’incontro, a cui erano presenti ottocento organizzazioni, tutte ospitate nel Palazzo nazionale, fu trasmesso dalla tv e da tutte le radio, con un dibattito che durò quasi dodici ore. Alcuni giorni dopo avvenne il colpo di Stato. Quando Aristide tornò al potere, firmò un accordo di aggiustamento strutturale con il Fmi, questa volta passando tutto sotto silenzio, nessuno sapeva. Il risultato è stato la distruzione nel 1995 di gran parte dei movimenti popolari e rivendicativi, minati alla base della loro capacità di intervento politico. “C’è molta differenza tra una fase e l’altra dei governi Aristide, ma molte persone ne fanno un’interpretazione morale, condannando e accusando. Quel che è importante fare è un’analisi di tutte le fasi dei processi politici
Costruendo la propria resistenza
Adriana Santiago
Radio comunitarie per l’organizzazione popolare Sony Estéus è direttore esecutivo della Saks (Sosyete animasyon kominikasyon sosyal), l’unica organizzazione che lavora con radio popolari ad Haiti (foto Ermanno Allegri).
Plaisance si trova a duecento km da Port-au-Prince, nel nord di Haiti. È un dipartimento dove l’agricoltura è un settore forte, e qui si trova una delle fattorie più prospere della cooperativa Recocarno. Ma quando ci siamo fermati a Plaisance non è stato per parlare di agricoltura, bensì di radio comunitarie. Ne esistono due. Una legata al movimento sociale contadino, al momento ferma in seguito al furto del generatore di energia, e l’altra che funziona a pieno regime, condotta da giovani e finanziata da capitale estero. Molte contraddizioni, in una città tanto piccola. Ma una cosa in comune: la radio rappresenta l’opportunità per dare voce al popolo. Sony Estéus è direttore esecutivo della Saks (Sosyete animasyon kominikasyon sosyal), l’unica organizzazione che lavora con radio popolari per costruire competenze nelle comunità rurali tramite diffusione di notizie e programmazione sociale. Ci spiega il valore di questo servizio per Haiti. La Saks, della quale Estéus è stato uno dei fondatori diciannove anni fa, aiuta le organizzazioni rurali e di base a creare stazioni radio nelle comunità dove non esistono mezzi di comunicazione e di trasmissione delle notizie. Ci sono però altre iniziative isolate, come l’iniziativa privata, le Ong e la Chiesa cattolica che investe anche sulle radio. “Ci sono altre radio della Saks, tra le quaranta e le quarantacinque, delle quali circa trentacinque hanno caratteristiche comunitarie e le altre più locali”, spiega. Si stima di raggiungere tramite una radio tra le 5 e le 10 mila persone, ma questo numero si differenzia molto da una radio all’altra. Senza dubbio, il mezzo di maggiore diffusione delle notizie ad Haiti è la radio. È il più popolare. “Anche la situazione di analfabetismo contribuisce a fare della radio, veicolo orale, un mezzo di comunicazione molto utilizzato dalla popolazione”, spiega Estéus. Per questo è un mezzo efficace per l’educazione popolare dei cittadini, principalmente di quelli che vivono più isolati.
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Viva Haiti grammi educativi, di informazione, musicali, e accompagnando le comunità nell’area della comunicazione e del diritto. “La nostra filosofia è che esiste un diritto alla comunicazione, come il diritto al cibo, alla salute ecc.”. La Saks collabora anche con radio private locali per la diffusione di programmi educativi. “Abbiamo uno studio in cui registriamo programmi su temi come ambiente, salute, diritti umani, donne, oltre a programmi di informazione. Inviamo questi programmi per cd alle radio, e alcune radio private locali sono interessate a diffonderli”, spiega. Per questo il direttore della Saks valuta come positivo il lavoro realizzato dal 1992. “Prima della nascita delle radio comunitarie la maggioranza della popolazione non riusciva a parlare tramite i mezzi di comunicazione. Dato che la società haitiana è una società non inclusiva, replicava le stesse dinamiche anche nell’area della comunicazione. Solamente i politici e le persone dell’alta società civile potevano parlare alle radio. Con le radio comunitarie, settori come quello agricolo o quello femminile hanno la loro propria voce, il proprio mezzo di comunicare, di esprimersi. Questa è una grande differenza nell’ambito del diritto alla comunicazione, della libertà di espressione e anche dei diritti umani”, commenta con orgoglio. E questo, aggiunge, è anche un efficiente mezzo di organizzazione sociale. “Con le radio è possibile parlare come cittadini, usarle per rivendicare il diritto alla salute e all’istruzione”, per la popolazione è possibile organizzarsi e mediare conflitti sociali. Difficoltà di espansione Nel 1995 è arrivato ad Haiti l’internet commerciale, ma finora non c’è molto accesso alla rete per le persone più povere e delle campagne. La Saks da tre anni ha un progetto per connettere le radio ad internet, ma è molto complicato implementarlo a causa delle difficoltà di connessione e anche del prezzo, ancora molto caro. Un computer costa circa ottanta dollari al mese e la nuova compagnia telefonica, privatizzata, sbarra ancora di più il progetto; la comunicazione non arriva alle aree più distanti, non è economicamente redditizia. Un altro problema è che le leggi haitiane non riconoscono i mezzi di comunicazione comunitari. La Saks lotta per conseguire l’approvazione in parlamento della legalizzazione delle radio
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“Uno dei nostri criteri, per appoggiare un progetto di radio, è che sia elaborato da un’organizzazione. Per noi la radio deve rafforzare l’organizzazione sociale e promuovere altre forme organizzative all’interno della comunità, per aiutare le persone a mutare la loro situazione” aggiunge. Il servizio della radio è molto versatile. Per esempio, in una famiglia in cui il marito commetta violenza sulla moglie, lei può andare alla radio a denunciarlo. Nel caso dei conflitti tra fratelli, tra persone della comunità, il microfono della radio funziona come giudice. E serve per convocare riunioni. “Prima era necessario inviare una lettera, a causa della distanza. Adesso con uno spot di trenta secondi centinaia di persone vengono informate”. Estéus racconta che la Saks ha cominciato la sua attività nel 1992, epoca in cui molte organizzazioni popolari si ristrutturavano, nonché epoca del colpo di stato militare. “Non c’era libertà di espressione, i mezzi di comunicazione non potevano essere usati, quindi erano le organizzazioni a far circolare le informazioni”. Davanti all’oppressione, cominciarono a diffondersi informazioni per mezzo di volantini, cassette registrate, e tutte le forme di comunicazione possibili all’epoca. Da lì a constatare la necessità di sviluppare mezzi di comunicazione locali il passo fu breve: radio, giornali e piccole pubblicazioni promossi dalle organizzazioni sociali. Così Sony, che è giornalista ed educatore, ha cominciato a organizzare incontri di formazione per gruppi di base, come contadini, donne, giovani, su comunicazione, giornalismo, interviste, reportage. E di conseguenza è nato il movimento delle radio comunitarie. Attualmente le circa quaranta radio locali comunitarie organizzate dalla Saks si trovano nelle aree più isolate e distanti del Paese, dirette dalle stesse organizzazioni delle comunità. La Saks non ha intenzione di controllare o mantenere le radio, ma solo fare formazione ai conduttori, e fornire alcuni programmi, e il finanziamento e la maggioranza della programmazione sono affidati all’organizzazione sociale responsabile della radio. L’obiettivo è quindi quello di dare appoggio a livello di formazione di competenze, ma anche di sostenere le organizzazioni nella ricerca di percorsi di finanziamento. La Saks non desidera quindi diventare un’agenzia di impulso del settore, quanto fare da ponte per alcune agenzie che sono interessate ad appoggiare progetti di radio. Dopo la fase di formazione, l’organizzazione di Estéus mantiene i rapporti con le radio fornendo alcuni pro-
Costruendo la propria resistenza L’associazione di giovani per lo sviluppo di Plaisance cura la programmazione della Radio VWA PEP LA FM Stereo (foto Ermanno Allegri).
comunitarie e, di conseguenza, l’accesso al sostegno finanziario dello Stato, arrivando così a persone che possano usare la radio come mezzo di diffusione di annunci. Oggi le radio funzionano con molte difficoltà, soprattutto a causa dei problemi di energia. Funzionano con batterie e generatori, perché non c’è energia pubblica. “Ogni radio ha il proprio sistema, energia solare, batterie, o anche generatori. È molto difficile comprare benzina. Nelle grandi città, come Cabo Haitiano, Jeremie, esiste una fornitura pubblica di energia, ma in altri luoghi non esiste”, spiega. Tutta questa difficoltà di dialogo con il governo non impedisce che le autorità pubbliche riconoscano l’importanza delle radio comunitarie, perché nella campagna contro l’epidemia di colera, che ha ucciso 7 mila persone nel Paese tra il 2010 e il 2011, il governo ha chiesto alla Saks di diffondere messaggi educativi. “Riconosce, ma non appoggia”, denuncia Sony Estéus, e per questo stanno lottando per un riconoscimento legale e per l’obbligatorietà di aiuti finanziari.
Due radio molto diverse a Plaisance La Radio VWA PEP LA FM Stereo, si trova in via Dessalines numero 103, molto vicina al centro della città. L’orario di programmazione è ripartito all’interno della comunità, ma chi domina la maggior parte del tempo è l’Associazione dei giovani per lo sviluppo di Plaisance (Ajod, nella sua sigla francese). Nel pomeriggio incontriamo Jean Wildet-Myrtch, venticinque anni, e Casséus Fanel, ventiquattro anni, intorno a un computer e a un elenco di canzoni per i programmi musicali. Non hanno alcuna programmazione educativa prevista, né si occupano di questioni locali, ma hanno la funzione di far passare messaggi tra gli abitanti. Però questo è raro. I ragazzi non conoscevano la Saks e si trovavano chiaramente ancora in una fase di apprendistato. Il problema è che la Radio comunitaria di Plaisance trasmette su onde corte; potrebbe però porsi a servizio, oltre a proporre intrattenimento musicale, di un’organizzazione e dell’educazione del popolo. Prendiamo appuntamento per incontrare nel centro di Plaisance i rappresentanti della radio di organizzazione contadina Tet Kole Ti Peyizan Ayisyen, indicataci da Sony Estéus, direttore della Saks. La radio funziona dal 1996, grazie alle consulenze organizzative e formative della Saks e con il finanziamento del movimento contadino. La nostra speranza è di trovare una radio in grado di accompagnare i percorsi più ardui, e di portare una proposta avanzata di educazione popolare e di organizzazione sociale e cittadina alle comunità più isolate dell’interno. È grande però la delusione quando i leader contadini Luiu Origene e Luc Wilson Charles ci informano che da più di sei mesi la radio è ferma a causa del furto del generatore di energia. Se l’energia elettrica è un problema serio nelle città principali, si aggrava oltremodo nell’interno, dove il servizio della radio sarebbe tanto più importante. Dopo quattordici anni di appoggio all’organizzazione contadina, la radio di Tet Kole ha smesso di essere la principale tribuna popolare, e il popolo è rimasto senza accesso alle informazioni che accorciavano le distanze. Adesso convocare qualsiasi piccola assemblea diventa un problema. “Ci stiamo organizzando per comprare un nuovo generatore, ma dobbiamo trovare un altro luogo, più sicuro, forse vicino alla città”, ha commentato visibilmente infastidito Origene. Per lui, quanto più vicino alla città, tanto più distante dai contadini che vuole raggiungere. Fastidio a cui si aggiunge poi la necessità di procurarsi un’antenna più potente.
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Viva Haiti sicura il processo di accumulo delle élite. È questo un elemento chiaro dell’attuale situazione di sbarramento, che spiega lo sviluppo dell’attuale conformazione sociale. L’arrivo degli Usa ha peggiorato moltissimo la situazione. “Gli Usa hanno mantenuto lo stesso sistema, controllando la classe politica e le forze armate direttamente da Washington”. La ricerca di un’emancipazione di fatto A partire da questo momento, gli Usa hanno preso la leadership dello sfruttamento politico ed economico di Haiti. Nelle decadi degli anni ’80 e ’90 Haiti è diventata (o meglio è stata obbligata a diventare) una grande importatrice di generi alimentari e di altri prodotti dagli Usa. Attualmente il Paese, che possiede terre propizie alla produzione autosostenibile di riso, è il terzo importatore mondiale di riso statunitense. La dominazione economica non è stata sufficiente per gli Usa, era necessario intervenire politicamente nel Paese per completare il ciclo del supersfruttamento. Già nel 1915, 20 mila marines occuparono il Paese per diciannove anni. Tra il 1957 e il 1986 la dittatura Duvalier (François Duvalier e il figlio JeanClaude) è stata sostenuta, fondamentalmente, dall’appoggio statunitense. Dal 1991, anno in cui gli haitiani hanno vissuto un momento di speranza con l’elezione di Jean-Bertrand Aristide al ruolo di presidente, fino ad oggi gli Usa hanno patrocinato né più né meno che due colpi di Stato e tre occupazioni militari nel Paese. La più recente è avvenuta in occasione del terremoto, quando più di 23 mila marines sono sbarcati ad Haiti. Mezzonato e Patrola, del Mst e di Via Campesina, concludono che, con questa ingente presenza nel Paese, è difficile svincolarsi dal grande oppressore. Qualunque passo fuori da questa politica può essere punito severamente. La rottura con questo sistema di dominazione, ancorato agli interessi di un’élite nazionale, è una delle maggiori sfide per la società haitiana, se essa desidera dar vita a un effettivo processo di democrazia partecipativa. La Papda sostiene che ci sono due cose da fare affinché il popolo haitiano riprenda le redini del suo Paese: ricostruire il movimento sociale e rilanciare le varie lotte per i diritti fondamentali, come la riforma agraria, la riforma del sistema scolastico, i progetti di rimboschimento, la costruzione di un sistema di salute pubblica ecc. Per questo, la Papda propone la costruzione di
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quando sono stati firmati i piani di aggiustamento con l’Fmi, a partire dalla firma del primo accordo da parte di Jean-Claude Duvalier (figlio, il Baby Doc) nel novembre 1984. Da quel momento è stato dato il via a tutta una linea di politiche che hanno distrutto gran parte della capacità di produzione nazionale, della capacità economica. Si è creata una massa di operai con salari molto bassi, al servizio delle imprese di esportazione. Nella sua analisi, Chalmers osserva che, nel corso della formazione sociale di Haiti, dopo la rivoluzione del 1804 ci fu un tentativo di strutturare un progetto nazionale che permettesse la distribuzione di terre e la riforma agraria in difesa dell’interesse delle masse. Il tentativo è stato operato da Jean Jacques Dessalines, che per questo è stato ucciso. È seguito un periodo di transizione e, a partire dal 1805, l’installazione di uno Stato neocoloniale, che ha fatto in modo di stringere i lacci della dipendenza con il capitalismo mondiale. È stata adottata, allora, un’economia di importazione ed esportazione. Uno Stato che è passato ad agire contro l’interesse nazionale, il cui primo compito è stato quello di distruggere quelli che erano i suoi pilastri fondamentali. Tre erano i pilastri che si andavano costruendo in quel momento. Il creolo haitiano è stato proibito. “Ricordo che quando ero bambino chi parlava creolo a scuola veniva addirittura castigato. Di improvviso parlare creolo, l’idioma di tutti, era diventato un’anomalia!”, racconta Chalmers. Il vudù, religiosità popolare – che per gli haitiani è molto più di una religione, è una relazione con il cosmo – è stato duramente perseguitato. Il governo ha comandato di uccidere tutti gli houngan (sacerdoti vudù) e di bruciare tutti i templi: uno stato di persecuzione permanente. E da ultimo, racconta il coordinatore della Papda, c’è stata la distruzione di quel che si chiama il lakou pe izan, lo spazio di autoproduzione di alimenti centrato sulle necessità della comunità. Il lakou pe izan ha luogo in una parte comune delle abitazioni che rimane nascosta, fuori dal mercato. Il risultato di tanta repressione è una società bloccata, in cui non si sviluppa lo Stato e, tanto meno, la nazione. Nazione senza identità. “È la lotta armata permanente di uno Stato neocoloniale, che mira a imitare la Francia, con un popolo totalmente diverso”, denuncia Chalmers. E aggiunge a questo elenco la proibizione imposta agli agricoltori familiari di coltivare le terre più fertili, perché le terre migliori devono essere dedicate all’esportazione di prodotti come la canna da zucchero, il caffè, il cacao ecc. Nella visione neoliberale è lo sfruttamento che as-
Costruendo la propria resistenza un’Assemblea permanente dei movimenti sociali, che si riunirà ogni tre mesi e che sarà lo spazio in cui si potranno realmente costruire strategie comuni e locali da convertire qualitativamente in proposte nazionali. L’altra azione sarà la costruzione di nuovi partiti politici. Partiti realmente radicati nei movimenti haitiani, che porteranno avanti progetti politici di qualità, progetti di nazione, progetti di sovranità, che permettano al Paese di uscire dalla situazione attuale. Quando l’aiuto non aiuta Ai fini di una ripresa del controllo sulla nazione si rende necessaria un’ampia riflessione sulla ricostruzione. La situazione sociale caotica di Haiti è anche un riflesso degli aiuti umanitari che hanno trasformato il Paese in una delle principali fonti di risorse delle migliaia di Ong che lavorano da decenni ad Haiti, senza produrre risultati che riescano, di fatto, a migliorare in modo sostenibile la vita del popolo. Molte Ong, nella grande maggioranza straniere, lavorano senza nessun tipo di coordinazione tra loro, il denaro di cui dispongono è mal utilizzato, le loro azioni sono di tipo assistenzialistico, e non esiste nessuna modalità di interferenza del popolo haitiano, neanche dello Stato, sull’utilizzo delle risorse. Si parla approssimativamente di 10 mila Ong. Proprio così, 10 mila organizzazioni non governative che operano ad Haiti. L’ammontare delle risorse che circola nei progetti di questi enti è altissimo, e la maggioranza di loro è presente nel Paese da molti anni. Nel frattempo, la situazione di povertà e i problemi strutturali continuano a essere gravi. Quel che il Mst e Via Campesina percepiscono è che gran parte delle Ong utilizza l’attuale situazione di miseria per continuare a esistere come istituzione. Alcuni dati mostrano che una grande percentuale delle risorse finisce nel pagamento del quadro tecnico delle istituzioni, e questi tecnici sono di Paesi esteri, ossia la risorsa finisce per tornare allo stesso Paese da cui è venuta. Solamente il 5% passa per lo Stato haitiano. Sono progetti dei più diversi tipi: casa, educazione, alimentazione, sradicamento della violenza, tra i tanti, ma non c’è nessuna connessione tra loro. Sono puntuali e frammentati e, in generale, non prevedono la partecipazione della società civile organizzata alla costruzione di iniziative. L’analista del Ceiri, Jean Garry, concorda sul fatto che Haiti è uno dei Paesi con più Ong nel mondo. Egli è tassativo nell’affer-
mare che non si può favorire lo sviluppo di un Paese con Ong e programmi assistenziali. “Un Paese si sviluppa con un processo di creazione e distribuzione equa delle ricchezze. Considero le Ong come impresarie della miseria, che apportano, come valore aggiunto, una povertà durevole e sostenibile”, afferma. Carole Pierre-Paul Jacob, della Sofa, definisce catastrofica l’“invasione delle Ong” ad Haiti dopo il terremoto del 2010. Secondo lei, queste organizzazioni internazionali di urgenza, molte volte, vogliono collocarsi al di sopra delle Ong di base, che sono da molto più tempo nel Paese. “Per noi, questa si chiama occupazione. È all’interno di questa situazione che stiamo vivendo quotidianamente, ma non senza lottare contro l’occupazione neocolonialista che esse vogliono realizzare qui. Anche se questa situazione esisteva già prima, dopo il terremoto è peggiorata molto”. La “battaglia” contro la Minustah è un esempio della resistenza che i movimenti come la Sofa stanno intraprendendo. Pierre Paul Jacob racconta che, durante un incontro alla Marcia mondiale delle donne in Congo (Africa), la Sofa ha approfittato per denunciare la Minustah e tutte le forze multinazionali che contribuiscono a rafforzare il progetto di dominazione su Haiti. Nel 2010, in Brasile, la Sofa ha chiesto all’allora presidente Luiz Inácio Lula da Silva di intercedere per la ritirata delle Forze armate brasiliane della Minustah. Per la Sofa, la Minustah non è altro che il braccio armato della colonizzazione. È questo sistema neoliberale che sta uccidendo il Paese dal 1980, con la Minustah come braccio armato della forza dominante internazionale. “Siamo perfettamente coscienti di questo”, afferma Carole Jacob. Anche nell’attuale situazione, Mezzonato e Patrola, dell’Mst e di Via Campesina, insistono sul fatto che non è compito delle Ong sostituire il funzionamento dello Stato. Aspetti come scuola, infrastrutture di base (strade, fognature, elettricità, acqua), salute e agricoltura devono essere coordinati dalla stessa società haitiana a partire dall’organizzazione del suo Stato. Nel frattempo, dato che non c’è Stato, le Ong continuano a fare il loro “rendiconto”, vendendo un’immagine di miseria per continuare a guadagnare soldi. E i problemi non finiscono qui. Tre anni e più dopo il terremoto, la maggior parte del Paese si trova ancora sotto le macerie. E questa letargia può essere spiegata da fattori che vanno ben al di là della catastrofe naturale. Prima del terremoto Haiti ave-
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Viva Haiti va già seri problemi politici, sociali ed economici. Il terremoto è venuto ad aggravare questa situazione di difficoltà. Gran parte dell’appoggio finanziario internazionale annunciato non è stato realizzato. Oltre a questo vi sono problemi politici interni tra il potere esecutivo e quello legislativo, che rendono difficile un andamento regolare dei processi amministrativi del Paese, ovvero le piccole iniziative sono molto rallentate dall’instabilità politica. Nonostante noti che alcune organizzazioni non governative stiano già lasciando Haiti, Camille Chalmers afferma che le grandi realtà non si allontaneranno da Haiti tanto presto, perché c’è ancora molto denaro che deve arrivare. L’analista Jean Garry, del Ceiri, elenca i principali motivi secondo i quali la maggioranza dei progetti di ricostruzione di Haiti dopo il terremoto ancora rimangono sulla carta: 1) la mancanza di consenso tra i diversi attori a livello della comunità internazionale, poiché ognuno di essi ha obiettivi e metodi propri; 2) il processo di indebolimento istituzionale promosso dalla comunità internazionale a danno
della società haitiana; 3) la volontà della comunità internazionale di privilegiare i propri interessi, poiché su ogni cento dollari spesi nel processo di ricostruzione, meno del 10% produce beneficio per l’economia haitiana; 4) l’isolamento degli haitiani rispetto alle decisioni strategiche che li riguardano, dato che viene privilegiata la presenza straniera, anche per i lavori più elementari; 5) vengono privilegiate le Ong che realizzano azioni umanitarie di poco impatto, rispetto ai grandi progetti strategici. Eppure, anche di fronte a questo quadro scoraggiante, le ultime parole dell’haitiano Jean Garry definiscono l’essenza della lotta del suo popolo: esiste un insieme di movimenti di donne, contadini, universitari ecc. del territorio che, con le proprie azioni e il giusto sostegno da parte dello Stato e grazie all’importante aiuto umanitario internazionale, può rafforzare le iniziative di democrazia partecipativa. Chalmers, della Papda, mette in rilievo che le sfide sono molte, ma che c’è anche molta forza. Una forza culturale tutta haitiana.
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Un battaglione dello Sri Lanka si occupa della sicurezza presso un punto di distribuzione di alimenti a Léogâne (foto UN Photo/Sophia Paris).
Costruendo la propria resistenza
Adriana Santiago
Automeca, un accampamento di solidarietà
Occhi curiosi e nastri di tutti i colori nei capelli. Piccole uniformi stirate e impeccabilmente pulite. Nelle viuzze impolverate, una treccia ben fatta adorna una chioma arruffata. Meches azzurre, unghie rosse. Le haitiane sono vanitose fin da piccole, e per questo in tutto il Paese è facile trovare saloni di bellezza, quasi ad ogni angolo. La situazione non è diversa in uno dei 758 accampamenti che attualmente servono da casa a 519 mila persone senzatetto. Automeca era il più grande accampamento all’epoca del terremoto ed è arrivato a ospitare 15 mila persone nelle sue baracche di tela. Attualmente, però, sono “solo” mille le famiglie che lo abitano. Qualcosa intorno a 4.500 persone. Il numero è diminuito perché i senzatetto si erano accampati su due terreni di proprietà privata, uno di lato all’altro, e uno dei proprietari, munito di piccole indennizzazioni e di una grossa dose di minacce, è riuscito a fare in modo che tutta quella popolazione malvestita e sporca abbandonasse il sito e si mettesse nuovamente in cerca di altri accampamenti. Spesso per ottenere una vita ancora più insalubre. Ancora quando Automeca era gigantesco e pericoloso, perché vi si nascondevano molti criminali di Cité Soleil, il quartiere più violento di Port-au-Prince, vi lavoravano alcune Ong e istituzioni, come la Croce Rossa internazionale e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), oltre ad altri servizi delle Nazioni Unite. Il leader degli accampati, Dominique Kene, ha lamentato che la modalità operativa di questi aiuti internazionali, che non conoscevano le reali necessità della popolazione, al di là della situazione di emergenza, era inefficace. Tale attitudine ha provocato molta sofferenza agli haitiani. Eppure, sottolinea, esistono organizzazioni non governative (Ong) che conoscono un po’ di più il campo e che fanno un lavoro vicino alla realtà haitiana. Senza scuola e senza lavoro
Automeca è stato in passato il più grande accampamento di Haiti, ma oggi ci sono meno di 5 mila persone che lo abitano (foto Ermanno Allegri).
Dicono che anche i giovani si stanno organizzando in comitati, con progetti sulla formazione professionale e la scolarizzazione, eppure non ci sono scuole per tutti, e, quando esistono, sono distanti e/o private. Ad Automeca, però, come è già stato detto, è possibile vedere bambini e bambine perfettamente vestiti per andare a scuola, con i tradizionali nastrini nei capelli.
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Viva Haiti
Nel ritmo dell’attesa Quel che trapela dal discorso di queste leadership è l’attesa, attesa di una parola dello Stato o delle grandi Ong. Si dicono pronti e organizzati per il commercio o per altri tipi di attività, ma ammettono di essere carenti nella formazione. Ne è un esempio il progetto per il ritiro delle macerie e dei resti accumulati nelle vicinanze, che non riceve alcun incentivo. La proposta svilupperebbe lavoro per buona parte degli haitiani accampati in vari punti della città. Automeca, per lo meno la parte che ne è rimasta, fa parte di un’organizzazione più ampia, con più di sette accampamenti: Parkolofica, Henfraza, Palaiss L’Ar, Houtgeorges, Basgeorges e Emmanuelbanfil. L’idea è che insieme abbiano più forza. Negli accampamenti le donne vengono sollecitate a mantenere un’organizzazione forte, per creare azioni di imprenditorialità e di microcredito. I discorsi dei leader sembrano molto lontani dalla realtà. Ciò che si osserva a prima vista è però molto diverso, quel che si vede è molta gente oziosa, e un microcommercio dove c’è di tutto un poco, in particolare carbone. Le donne, quando le abbiamo cercate, hanno affermato di aver ricevuto formazione in laboratori di artigianato o altro, che però hanno funzionato solo come azione terapeutica, più che come promozione di una vera economia solidale. Quel che si percepisce è che da parte dei
leader ci sia la necessità di mostrare organizzazione, ma che in realtà si tratti di un agglomerato che si autoprotegge. Quando iniziamo a fare domande sulla sofferenza femminile, dato che le donne sono considerate da molte organizzazioni sociali locali come le fondamenta del Paese, un circolo di donne si forma intorno a noi. Confessano che l’unica cosa che fanno è aspettare e sperare. Emerge subito che aspettare è un’azione ricorrente in quel popolo sofferente. Con gli occhi bassi, una di loro si giustifica: “Abbiamo forza lavoro, ma non abbiamo la possibilità di uscire da questa situazione da sole”. Spiegano che la maggioranza è senza marito, e che sono sole a lottare per mantenere i loro figli. “Qui è un inferno. Quando c’è pioggia, cade acqua nelle tende e molte devono rimanere con i bambini in braccio tutta la notte per proteggerli dall’acqua, e quando c’è caldo, è un altro problema”. La salute è precaria, con molti casi di febbre, diarrea, anemia. Ma non c’è come curarli, la sanità non è pubblica. Quel che ancora salva sono i centri medici (ospedali da campo, anch’essi sotto le tende) degli aiuti internazionali negli accampamenti vicini. Gran parte della salute gratuita è mantenuta dai Medici senza frontiere e dalla Brigada cubana. Sono passati due anni dal terremoto e nessun ospedale di mattoni è stato costruito. Senza speranza di aiuto esterno La presidentessa del consiglio delle donne di Automeca, Luisimon Marie Nesline, è una donna forte, di parvenza guerriera, ma con uno sguardo evidente di poca fiducia nel nostro reportage, o in qualunque aiuto che venga dall’esterno. Lo sguardo di sfida e di sfiducia nei risultati della conversazione contraddice però le parole. Luisimon ci ha detto di avere prospettiva e forza, ma che mancano i mezzi e un’organizzazione stabile per portare avanti azioni efficaci. “Abbiamo già perso una buona parte delle donne che si organizzavano ad Automeca, perché sono andate in altri accampamenti”. Le azioni di incentivo al commercio e al microcredito promosse dal leader Dominique sono state classificate da Louisimon come palliativi, attività psicosociali, iniziative che non contribuiscono effettivamente a un autosostentamento. Più di 2 mila giovani e adulti in età produttiva ancora rimangono ad Automeca. La grande maggioranza senza lavoro, condividono tutto quel che c’è, perché l’aiuto internazionale ufficiale è cessato il 31 marzo 2010. Quel che è visibile nelle viuzze è la vendita in-
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Una bella contraddizione che mostra la forza degli haitiani, che anche senza lavoro si sforzano per pagare una scuola dignitosa ai loro figli. È sorprendente vedere bambini rigorosamente in uniforme che appaiono tra le baracche di tela vecchia e strappata, claustrofobiche, accatastate una sull’altra. I piccoli camminano cercando di non pestare il fango con le loro scarpe lucide; sono scene che angustiano, ma che danno speranza. Le scuole pubbliche che ancora esistono sono molto lontane, e dato che tutti sono molto poveri non hanno i mezzi per pagare la scuola e nemmeno il trasporto. I leader dicono che, nell’accampamento, ci sono professori e maestri. Anche se, a prima vista, non si intravede nessuna struttura improvvisata per funzionare come scuola o come laboratorio professionale. Dominique, a sua volta, insiste a dire che i giovani sono stati formati dalle Ong ad assumere funzioni diverse, ma che la disoccupazione impera ad Automeca, e in una giornata di metà settimana, in dicembre, le viuzze straripano di giovani disoccupati.
formale di un po’ di tutto, principalmente di cibo (senza qualsiasi precauzione igienica) e di carbone, tagliato e venduto in sacchi di plastica. Dato che il problema dell’energia è grande, il carbone serve per le lampade, per cucinare e per scaldarsi di notte. Una delle azioni più interessanti nell’accampamento è il progetto “Elettricità senza frontiere”, che organizza punti di illuminazione tramite energia solare negli accampamenti, principalmente vicini ai bagni chimici, per evitare violenze sessuali durante la notte. È possibile vedere questi punti di illuminazione non solo ad Automeca, ma in innumerevoli accampamenti sparsi per la città. Per garantire la sicurezza, gli abitanti hanno creato un comitato di coordinamento che organizza l’accampamento e, all’interno di esso, una commissione di sicurezza, di formazione e di viabilità economica. Ci raccontano che nella commissione di sicurezza ci siano delle donne che si fanno carico di una situazione specificamente femminile, come quella della violenza sessuale. Quando, interrogati, gli uomini hanno negato con forza che esista violenza in quell’accampamento, contraddicendo tutte le notizie e le relazioni che indicano Automeca come uno dei luoghi con maggior indice di stupri. Le donne tacciono, ma non negano. Il sistema patriarcale ci appare forte e opprimente nei loro confronti. Ciononostante, esse hanno occupato sempre più i posti di comando. Il governo non dà nemmeno l’acqua Nell’addentrarsi in quel mare di tende, la vista di un’immensa cisterna ci riempie gli occhi. È facile per noi ricordare la tecnologia delle cisterne di metallo, diffuse dalla politica del governo brasiliano per le zone desertiche semiaride del nordest brasiliano, con il programma “Un milione di cisterne”. Le cisterne, che raccolgono acqua piovana da consumare durante la stagione secca, forniscono acqua a famiglie di cinque persone. Acqua pulita, gratuita e di buona qualità per quelle famiglie? Soave inganno. Era una cisterna costruita dagli aiuti internazionali sì, ma adesso è rifornita e commercializzata da un’impresa che porta acqua con un camion-cisterna da La Plaine du Cul de Sac, che si trova a sud del Paese, a circa venti km da Port-auPrince. Non è disponibile alcun trattamento per l’acqua, o test per verificarne la potabilità. La gestione dell’acqua è in mano alla commissione organizzatrice, che ne detiene la chiave. E tutti pagano un po’ per l’acqua. Chi ha di più dà di più e chi ha meno
Il leader degli accampati di Automeca è Dominique Kene (foto Francisca Stuardo).
a volte nemmeno contribuisce. Ma questo è uno strumento di micropotere efficace e, dato che non esistono assemblee degli abitanti, può culminare in una relazione di potere e di oppressione. La solidarietà senza interesse è presente nell’ora della pressione, dell’emergenza, ma dopo quasi tre anni è impossibile non incappare in situazioni di micropotere, come direbbe il filosofo francese Michel Foucault. Quel che si vede nei vicoli di Automeca è gente oziosa, che gioca a domino, ma non si vede gente che beve o si droga. Fortunatamente, ma sono comunque presenti situazioni di criminalità nell’accampamento perché diversi criminali di Cité Soleil e di altri quartieri considerati pericolosi a Port-au-Prince vi si sono stabiliti. Sembra che la pratica di nascondersi in accampamenti giganteschi sia frequente per i criminali, e Automeca non fa eccezione. Le tende sono ancora praticamente tutte donazioni arrivate tramite aiuti internazionali, sono visibili i logotipi di Usaid, Unicef, Onu ecc. Dopo quasi tre anni le tende si strappano, vengono rammendate, riorganizzate con strutture di legno per migliorare la circolazione dell’aria, ma non sono adeguate a famiglie di cinque o sei persone che ci vivono ancora oggi. In luoghi insalubri, senza privacy, senza igiene, migliaia di persone vivono come animali. Fino a quando?
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