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RESTAURI D’ARTE Opere dell’Abruzzo recuperate dopo il sisma
A cura di e
LUCIA ARBACE LAURA BARATIN
Gabbiano editore
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“RESTAURI D’ARTE. OPERE DELL’ABRUZZO RECUPERATE DOPO IL SISMA”
Gli interventi di restauro sono stati condotti dall’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Corso in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali
Sulmona (AQ), Abbazia di Santo Spirito al Morrone 13 settembre - 30 settembre 2012
Coordinatore tecnico organizzativo LAURA BARATIN
L’iniziativa è stata realizzata dalla
Responsabile scientifico BRUNO ZANARDI
SOPRINTENDENZA PER BENI STORICI ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI DELL’ABRUZZO
Alta Sorveglianza LUCIA ARBACE Restauratori ADRIANA ALESCIO, FABIANO FERRUCCI (affresco staccato) CRISTINA CALDI, ARABELLA BERTELLI DE ANGELIS, FRANCESCA MARIANI, MICHELE PAPI (opere lignee) DAPHNE DE LUCA, ANTONIO IACCARINO IDELSON, MICHELE PAPI (dipinti RAFFAELLA MAROTTI (orologio) GRAZIA DE CESARE (progetto di restauro dei dipinti murali)
In collaborazione con
su tela)
Analisi scientifiche MARIA LETIZIA AMADORI, SARA BARCELLI, SABRINA BURATTINI, ELISABETTA FALCIERI, LUCA GIORGI, LUIGIA SABATINI Documentazione grafica LAURA BARATIN, GIOVANNI CHECCUCCI, MONICA GIULIANO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO “CARLO BO” Corso in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali
Documentazione fotografica per la diagnostica STEFANO MARZIALI Allievi restauratori Secondo anno: SARA BALERCIA, ELEONORA BELARDINELLI, VALENTINA DE GREGORIO, LUISA LEMOIGNE, VIOLA MORETTI, GIULIA PAOLI, TOMMASO PAPI, CATERINA PERGOLINI
ANCI-MARCHE
ANCI-ABRUZZO
PROTEZIONE CIVILE DELLA REGIONE MARCHE DIPARTIMENTO POLITICHE INTEGRATE DI SICUREZZA
Terzo anno: PAOLA ALBA, SOFIA ANTINORI, FRANCESCO BERNESCHI, SHEILA CANUTI, LUCIA CARBONI, GIOVANNA CIOTTA, GIANNI COLLANI, FLORINDA D’ARCANGELO, GABRIELLA DE AMICIS, ESTER DI BENEDETTO, FRANCESCA DI LUZIO, ANTONELLA DI REMIGIO, BETTY FERRO, CHIARA FILIPPONE✝, SARA IACOBITTI, MARTINA PIA MARINO, MARIA RAGAZZO, ALICE TORREGGIANI Quarto anno: ELENA ADANTI, GIULIA AGOSTINELLI, MONIA ANTONINI, BEATRICE BALBONI, CHIARA BASAGNI, DANIELE BIONDINO, CAMILLA BRIVIO, ALESSANDRA CANTARINI, GIOVANNA CORRAINE, MARTA COLANGELI, DANIELE COSTANTINI, CINZIA DELL’ONZE, MATTEO GHILARDI, SARA LA TERRA, MARIANGELA LUCIANI, CATERINA LUZI, FRANCESCA MARAMONTI, FRANCESCA MARCONI, VALERIA MENGACCI, ROBERTO MERLO, CLAUDIA NAPOLI, FEDERICA PAOLINELLI, GIULIA PAPINI, CHIARA POZZATI, ISOTTA SCARTOZZI, SERENESSE SCHIFANO, NADIA SENESI, MARGHERITA RUSSO, VALENTINA VITI Quinto anno: IRENE CECCHI, JENNY CICOGNANI, GIORGIA NICOL DELLA ROSA, PAOLA LAUDANDO, AGNESE MALTONI, MICOL MIGANI, DANIELA PESCA, CRISTINA POLIDORI, VALENTINA RASPUGLI, LUCIA SCIENZA, SERENA VELLA Segreteria del Dipartimento di Scienze di Base e Fondamenti ERIKA PIGLIAPOCO, FLAVIA UBALDI
ARTIFEX - COMUNICARE CON L’ARTE Segreteria di Presidenza della Facoltà di Scienze e Tecnologie BENILDE GUERRA, MARIA FILOMENA PIERINI Trasporti Montenovi s.r.l., Roma Compagnia di Assicurazione SAI Fondiaria
Ufficio Relazioni pubbliche TIZIANO V. MANCINI, PAOLO BIANCHI “Natività”, Calascio (AQ) - Opera restaurata grazie al contributo offerto dall’Associazione Insieme per Urbino e dall’Associazione Acli frazione di Ripalta (AN) “L'Immacolata e le anime purganti”, Carapelle Calvisio (AQ) - Opera restaurata grazie al contributo offerto dalla Nobile Accademia Aesina della Pipa Jesi, Ancona
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Catalogo a cura di LUCIA ARBACE LAURA BARATIN Schede storico artistiche a cura della Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo LUCIA ARBACE (coordinamento), SERGIO CARANFA, MARIA ANTONIETTA CIANETTI, ANNA COLANGELO, MAURO CONGEDUTI, ROSELLA ROSA, MARTA VITTORINI con ALESSANDRA GIANCOLA, EMILIA LUDOVICI, GIOVANNI VILLANO Schede di restauro a cura dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” LAURA BARATIN (coordinamento), ADRIANA ALESCIO, CRISTINA CALDI, ARABELLA BERTELLI DE ANGELIS, GRAZIA DE CESARE, DAPHNE DE LUCA, FABIANO FERRUCCI, ANTONIO IACCARINO IDELSON, FRANCESCA MARIANI, RAFFAELLA MAROTTI, MCHELE PAPI Bibliografia MARTA VITTORINI Allestimento della mostra a cura di AURELIO CIOTTI, PANFILO PORZIELLA, MARIO SALOMONE, CLAUDIO TATOLI (SBSAE, ABRUZZO) Verifiche conservative delle opere GIOVANNI BERNARDI, GIUSEPPE DI FEBO, DOMENICO INGRIA Segreteria del Soprintendente GRAZIELLA MUCCIANTE, SOFIA CUCCHIELLA VITTORINI Ufficio stampa e comunicazione PIERO COCCO (SBSAE, ABRUZZO) Archivi della Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo DINA PERSICHETTI, FILOMENA MACERA, JOCELYNE FERON, ROBERTO PEZZOPANE Ufficio catalogo MAURO CONGEDUTI, ELENA GIULIANI, ALFONSINA CENTOFANTI Ufficio fotografico BARBARA DELL’ORSO, PATRIZIA PERNA, GIANNI SANTILLI Alle fasi di allestimento della mostra e alla sua divulgazione didattica ha contribuito il personale della Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo in servizio presso l’Abbazia di Santo Spirito al Morrone ALESSANDRO AMICONE, MICHELE AVOLIO, FRANCA BALASSONE, DIEGO BUCCI, RAIMONDO CARRETTA, PATRIZIA COLONICO, RITA COLONICO, SILVANA D’ALESSANDRO, MARILIA DE DOMINICIS, MARA DEL MONACO, SONIA DI GIAMBATTISTA, PASQUALE DI LORETO, GIUSEPPINA FEDERICO, DOMENICO ELIO FORGIONE, ACHILLE GIOVANNUCCI, ANNA RITA GLISENTI, TONIO IUDICIANI, MARCELLO LA CIVITA, TIZIANA LA PORTA, ORIANA LEONE, ROSALBA MARINUCCI, CLAUDIO PERROTTA, PANFILO PORZIELLA, GIUSEPPE TACCONI, CLAUDIO TATOLI, MARIA RITA VENTRESCA, LUCIA VERNACOTOLA
Si ringraziano LUCIANO MARCHETTI, già Vice Commissario Straordinario per l’Aquila FABRIZIO MAGANI, Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo MONS. GIUSEPPE MOLINARI, Arcivescovo Metropolita dell’Aquila MONS. GIOVANNI D’ERCOLE, Vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi dell’Aquila DON ALESSANDRO BENZI, Vicario Episcopale per i Beni Culturali della Arcidiocesi dell’Aquila MONS. ANGELO SPINA, Vescovo di Sulmona/Valva DON MAURIZIO NANNARONE, Vicario Episcopale per i Beni Culturali della Diocesi di Sulmona/Valva e Direttore dell'Ufficio diocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici e per l'edilizia di culto MARIO ANDRENACCI, Presidente ANCI-MARCHE MARCELLO BEDESCHI, Segretario ANCI-MARCHE ANTONIO CENTI, Presidente ANCI-ABRUZZO GIUSEPPE MANGOLINI, Segretario ANCI-ABRUZZO ROBERTO OREFICINI, Direttore PROTEZIONE CIVILE DELLA REGIONE MARCHE ALBERTO CECCONI, Direttore del COM6 di Navelli · PROTEZIONE CIVILE DELLA REGIONE MARCHE GIOVANNI MORELLO, Presidente · Artifex - COMUNICARE CON L’ARTE PAOLO BEDESCHI, Direttore · Artifex - COMUNICARE CON L’ARTE SOPRINTENDENZA PER BENI STORICI ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI DELLE MARCHE COMUNE DI URBINO SETTIMIO LANCIOTTI, Preside, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Urbino STEFANO PAPA, Preside, Facoltà Scienze e Tecnologie, Università di Urbino FLAVIO VETRANO, Direttore, DiSBEF, Università di Urbino LUIGI BOTTEGHI, Direttore Generale, Università di Urbino FABIO MAIORANO, studioso di araldica GIANCATERINO GUALTIERI, sindaco di San Benedetto in Perillis SILVIA CUPPINI, ALICE DE VECCHI per l’allestimento della mostra a Urbino, Sala del Castellare, Piazza Rinascimento ANDREA PARIBENI, Storico dell'Arte medievale, Università di Urbino ANGELO RUBINO, ISIA di Urbino FRANCO BATTISTELLA, architetto CATERINA DALIA, Storico dell’Arte Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo IVANA DI NARDO, Storico dell’Arte Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo ANTONELLA LOPARDI, Storico dell’Arte Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo ERSILIA ENRICHETTA SANTILLI, Storico dell’Arte Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo I sindaci e i parroci dei Comuni di Calascio, Capestrano, Caporciano, Carapelle Calvisio, Castelvecchio Calvisio, Castel del Monte, Collepietro, L’Aquila, Navelli, Ofena, Popoli, San Benedetto in Perillis, Santo Stefano di Sessanio, Villa Santa Lucia degli Abruzzi Il personale tutto dalla Soprintendenza per Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici dell’Abruzzo e dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
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paragone di tante opere – dipinti, sculture, arredi, oreficerie e paramenti sacri – che il terremoto del 6 aprile 2009 ha in vario modo offeso, distrutto totalmente nei casi drammatici di crolli, danneggiato in misura più o meno grave, o soltanto imposto di rimuovere dalla collocazione originaria per motivi precauzionali, temendosi ulteriori e più violente scosse nel perdurare dello sciame sismico, e ricoverate in depositi attrezzati, queste che presentiamo possono considerarsi senza dubbio le più fortunate, assieme a numerose altre sulle quali è stato possibile intervenire o si sta procedendo grazie a risorse pubbliche o a sponsorizzazioni più o meno generose. Si tratta purtroppo di una percentuale ancora modesta sul totale delle opere danneggiate. Le opere pienamente recuperate e tornate al loro posto dopo il sisma sono complessivamente troppo poche rispetto a quanto si vorrebbe o si dovrebbe fare. Accarezzate con lo sguardo da un benefattore del tutto ignaro del loro valore artistico, ma ben consapevole del significato dell’operazione che vede il suo epilogo nella riconsegna e nella stampa di questo catalogo, queste che proponiamo sono state scelte nei diversi comuni dall’arch. Alberto Cecconi, direttore del COM 6. A seguito dell’azione dell’ANCI-Marche che ha raccolto fondi dai Comuni della stessa regione e alla convenzione stipulata con le autorità competenti le opere sono state sottoposte a restauro nei laboratori dell’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino. A essere sinceri, in alcuni casi i danni riscontrati, cui si è posto egregiamente riparo, erano precedenti il sisma che ha colpito L’Aquila, interessando anche vari comuni delle attuali provincie abruzzesi. Ma è pacifico che le ferite si rivelano tanto più profonde proprio quando non si è posto adeguatamente riparo a situazioni di estrema fragilità e dove, con il trascorrere del tempo, il degrado è inesorabilmente avanzato. Debolezze che riguardano non solo le architetture ma anche il patrimonio d’arte mobile, talvolta rimasto collocato al suo posto ma in condizioni di grande precarietà. Ad esempio il terremoto ha fatto peggiorare lo stato di conservazione di dipinti già allentati dai telai, magari attraversati da vecchi strappi o tanto deboli da lasciar cadere strati di colore. Quelli proposti rappresentano naturalmente dei casi limite, perché non va sottaciuta l’azione di tutela portata avanti nel tempo, invero troppo silenziosamente, dagli storici dell’arte e dai tecnici della Soprintendenza nel territorio abruzzese, prevalentemente grazie ai fondi del programma ordinario del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Oggi queste opere, dopo essere state sottoposte agli interventi conservativi presso i laboratori dell’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino grazie al contributo dell’ANCI-Marche, vengono riconsegnate in condizioni di recuperata leggibilità ai legittimi proprietari, la diocesi di Sulmona/Valva - titolare della gran parte - e l’Arcidiocesi dell’Aquila, per ritrovare al più presto la loro collocazione originaria nei contesti di appartenenza, in quasi tutti i casi con una ritrovata identità grazie agli accurati studi condotti per l’occasione. Riflettendo sui piccoli, deliziosi centri dell’Appennino, qui coinvolti, un tempo assai vitali ma a partire dagli Anni Trenta in via di spopolamento, l’augurio è che questa positiva esperienza condivisa con tanti interlocutori diversi, in primis con Laura Baratin, infaticabile coordinatrice dei corsi di restauro, possa rappresentare il viatico per rilanciare l’attenzione delle istituzioni nei confronti di realtà che non possono essere lasciate nell’abbandono e condannate a estinguersi nel giro di qualche decennio. In ultimo un sentito grazie a tutti.
LUCIA ARBACE Soprintendente per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici dell’Abruzzo
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l restauro delle opere d’arte abruzzesi rientra nel quadro della formazione nell’ambito della Conservazione e Restauro dei Beni Culturali, problematica quanto mai attuale, visto l’avvio del Corso di laurea quinquennale abilitante alla professione del restauratore. Urbino fa parte di un ambito territoriale dove è tradizionalmente radicata una forte vocazione artistica e culturale. La città è classificata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, il che comporta una maggiore visibilità a livello internazionale, ma anche delle aspettative legate al fatto che in una città d’arte, con la presenza di una storica Università, ci debba essere qualcosa da offrire agli studenti sia nel campo storico-artistico, che nella tutela e riqualificazione del patrimonio culturale. L’operazione di recupero, finanziata dai fondi raccolti dall’ANCI-Marche tra i comuni della nostra Regione, in collaborazione con l’ANCI-Abruzzo, attraverso una convenzione tra istituzioni ha portato al restauro di diverse opere, sculture lignee, dipinti su tela, un orologio meccanico, un affresco e altro. L’attività è stata sviluppata nei due anni accademici 2009-2010 e 2010-2011, con la partecipazione di più di settanta studenti, seguiti da diversi restauratori, con la collaborazione di numerosi colleghi specialisti nelle diverse attività di documentazione e diagnostica collegate agli interventi di restauro e sotto l’Alta Sorveglianza della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Abruzzo. Attraverso questa iniziativa abbiamo voluto esprimere la solidarietà per i paesi terremotati contribuendo al recupero di opere minori, ma di grande significato per la popolazione locale. Abbiamo voluto sottolineare che anche la cultura può essere considerata “un bene di prima necessità” da inserire tra gli impegni di prima assistenza, così come proposto, nel nostro caso, dalla Protezione Civile della Regione Marche. La collaborazione tra istituzioni diverse, inoltre, ha dimostrato che è possibile sviluppare delle azioni concertate “in economia” per tutelare i beni culturali dando la possibilità di salvare anche opere inedite che inevitabilmente avrebbero seguito un destino di degrado e di abbandono. Gli studenti, infine, hanno potuto misurarsi nella didattica con un lavoro professionale esaustivo, dalle prime analisi fino alla sua esposizione finale con tutte le problematiche connesse, dimostrando che anche nella formazione si possono raggiungere risultati eccellenti in “un concerto” di professionalità diverse rispettando la missione che le istituzioni di formazione debbono avere. STEFANO PIVATO Rettore dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
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ra i vari gesti di solidarietà attuati dall’ANCI-Marche nell’ambito delle iniziative di aiuto organizzate dal Dipartimento Nazionale di Protezione Civile della Regione, in occasione della grave e disastrosa crisi sismica che colpì l’aquilano a cominciare dal tremendo terremoto del 6 aprile del 2009, vi è l’iniziativa di recupero conservativo e restauro di opere d’arte popolare: dipinti, sculture policrome lignee, affreschi e persino un orologio di torre civica. Le opere sottoposte al suddetto recupero provengono dai 14 comuni del COM 6 di Navelli (Centro Operativo Misto) affidati alla Regione Marche e appartengono all’Arcidiocesi dell’Aquila e alla Diocesi di Sulmona. L’idea di promuovere tale significativa operazione, a forte valenza culturale, è stata maturata nell’ambito del Direttivo Regionale dell’ANCI-Marche, dopo un confronto avvenuto con il Dipartimento di P.C. della Regione Marche e con l’ANCI-Abruzzo ha permesso di stanziare i contributi versati dai Comuni marchigiani e di sottoscrivere, il 28 giugno 2010, una Convenzione con il Vice Commissario delegato per i Beni Culturali delle zone terremotate, il Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo ed il Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Abruzzo. Le delicate operazioni logistiche sono state svolte con professionalità e apporto gratuito dalla Società “Artifex-Comunicare con l’arte” alla quale rivolgiamo un sentito ringraziamento, mentre tutti i restauri e la messa in sicurezza è stata effettuata dal Corso di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. La collaborazione con i professori e gli studenti che hanno eseguito i restauri è stata molto positiva. Tutte le operazioni conservative sono state eseguite con un apporto veramente encomiabile volto a riportare in luce l’originale splendore delle opere stesse. Questo esperimento di nuova forma di solidarietà è stato molto apprezzato anche dalle comunità che custodiscono le opere che fanno parte di quel ricco patrimonio di arte creata dalla devozione popolare presente in Italia. Questo catalogo sarà il documento che ricorderà quanto fatto dall’ANCI-Marche, ma in particolare testimonierà l’apporto delle Amministrazioni Comunali della nostra Regione. Dopo la Mostra dell’Abbazia di S. Spirito al Morrone di Sulmona, le opere saranno ricollocate nei luoghi d’origine e quindi alla contemplazione dei fedeli che da secoli le custodiscono. Siamo molto felici di essere riusciti a portare a termine il nostro progetto e anche di avere consolidato ulteriormente una collaborazione partita più di dieci anni fa con l’ANCI Abruzzo, nell’ambito delle iniziative di protezione civile “Codice Rosso”. Questa collaborazione, inoltre, ci ha permesso di sperimentare le competenze e gli apporti professionali del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile, delle Soprintendenze per i Beni Culturali e Paesaggistici nonché per i Beni storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Abruzzo ed infine di tutte le persone che hanno operato presso il Corso di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Ad Urbino abbiamo scoperto un mondo di giovani che amano l’arte e che svolgono le loro attività con una grande passione che mette in luce un’indole ed un amore che non indietreggerà di fronte a tragedie come quella del terremoto dell’Aquila. MARIO ANDRENACCI Presidente Anci-Marche MARCELLO BEDESCHI Segretario Anci-Marche
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uando, a tre giorni dalla terribile scossa del 6 aprile 2009, il Capo del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile mi chiese di prendermi la responsabilità di coordinare il COM 6 di Navelli, provai due sentimenti contrapposti: da un lato la soddisfazione del riconoscimento di una professionalità; dall’altro, il timore di assumermi la grandissima responsabilità di dover “pensare” alla sicurezza e di accompagnare poi al ritorno alle normali condizioni di vita, di circa 24.000 persone dei comuni del COM. Dopo due ore accettavo la sfida e per me iniziava una grande e significativa esperienza professionale che avrà fine quando avrò concluso questo ultimo progetto: la restituzione delle opere raffigurate in questo catalogo alle comunità locali abruzzesi. Per chi non è avvezzo al vocabolario della Protezione Civile, è opportuno ricordare che il COM è una “struttura sovracomunale” che durante una calamità affianca le autorità locali e le assiste, molto raramente le sostituisce, per gestire l’emergenza e aiutarle a ritornare alle normali condizioni di vita. In un primo momento ho affiancato i Sindaci nel costruire tendopoli, gestire cucine da campo, distribuire coperte, scavare fogne, consigliandoli, sostenendo uffici tecnici, ed altro ma, quando, con il passare del tempo, dei mesi, queste esigenze primarie ed emergenziali erano man mano soddisfatte, mi sono chiesto cosa potessi proporre e fare per aiutare le persone a non sradicarsi dal loro territorio devastato, come consolidare il loro senso di appartenenza e farle sentire di nuovo a casa loro. Stavo smontando tende convincendo le persone a tornare nelle loro case agibili, facevo il possibile anche per far riaprire i bar dei paesi, far funzionare l’ufficio postale, e le scuole, cioè avevo finito di gestire la fase emergenziale e cominciavo a programmare il ritorno alla “normalità”, quando mi ha telefonato il Direttore dell’ANCI-Marche e mi chiese se avevo un’idea di un’iniziativa significativa da estendere all’intero COM affidato alle Marche perché avevano raccolto un po’ di soldi. Al momento non avevo una risposta pronta ma proprio quel pomeriggio mi trovavo nel meraviglioso centro storico di Castelvecchio Calvisio, nella zona rossa dove non ci doveva essere nessuno, invece vidi una donna anziana che spingeva la porta di una chiesa, per entrare. La porta non si aprì ed io ebbi il tempo di dire alla anziana signora che lì non poteva stare, che lì era molto pericoloso; questa mi guardò e mi disse in dialetto: “ qui c’è la statua del nostro Santo, noi dobbiamo pregare, quando la riaprite la nostra chiesa?” Tornando verso il COM riflettevo su quanto dovesse essere importante quella statua per quella anziana signora e la sera stessa telefonai al Direttore e gli proposi di utilizzare il denaro raccolto dai comuni marchigiani per restaurare un’opera d’arte, “un simbolo”, di ciascuna comunità del COM: non era importante che fosse una fontana, un quadro, un orologio, o che appartenesse al Comune o alla Chiesa, purché fosse significativo per la comunità che lo possedeva. L’idea mi è venuta dunque per caso, ma in questo periodo, passata l’emergenza, ho avuto la conferma dell’importanza di restituire alle comunità colpite da calamità simboli, oggetti che fanno parte della loro identità, della loro cultura, che li aiuta a ricominciare, a risorgere, a non sentirsi alienati da una calamità ben più grande di loro. Il salvataggio e la conservazione dei beni storici artistici pur non essendo il primo obiettivo di un COM, è indubbiamente uno di quelli molto importanti. Nella esperienza che abbiamo vissuto in Abruzzo, ci siamo riusciti e, grazie alla collaborazione con l’ANCI è diventata una realtà concreta che probabilmente farà scuola all’interno del sistema nazionale di Protezione Civile. In questo caso il COM 6 di Navelli, è riuscito a far collaborare Corpi ed Amministrazione dello Stato, Enti Locali, Istituzioni Religiose, Università, liberi professionisti, Esperti di Protezione Civile, rendendo possibile il recupero, la messa in sicurezza ed infine il restauro di simboli significativi delle comunità locali. Credo con questo di aver reso un buon servizio alla gente Abruzzese, alla quale io rimarrò sempre affettivamente legato. Oggi con la riconsegna di queste opere, considero definitivamente concluso il mio compito in Abruzzo.
ARCH. ALBERTO CECCONI Direttore del COM 6 di Navelli Protezione Civile della Regione Marche · Dipartimento Politiche Integrate di Sicurezza
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Sommario 12
Novità e spigolature dopo il restauro LUCIA ARBACE
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Note su un territorio MARTA VITTORINI
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Il terremoto dell’Aquila. Un’opportunità per riflettere su Giovanni Urbani e sulla crisi della teoria estetica del restauro BRUNO ZANARDI
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Schede delle opere restaurate
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La documentazione prima del restauro: una problematica aperta LAURA BARATIN
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La documentazione diagnostica. Una riflessione sul rapporto tra la fotografia e il restauro STEFANO MARZIALI
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Il contributo delle indagini micro-invasive alla caratterizzazione stratigrafica delle opere abruzzesi MARIA LETIZIA AMADORI, SARA BARCELLI
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Aspetti strutturali della conservazione dei dipinti su tela ANTONIO IACCARINO IDELSON
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Bibliografia
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Novità e spigolature dopo il restauro LUCIA ARBACE
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Tav. I. Santo Stefano di Sessanio (AQ) (m 1251 s.l.m.), 2007 Tav. II. Caporciano (AQ) interno dell’Oratorio di San Pellegrino a Bominaco
elezionate come testimonianze altamente simboliche per le comunità di appartenenza, prescindendo dal valore storico artistico, le opere che sono state oggetto di restauro erano quasi tutte totalmente sconosciute agli studi, ignorate persino dai più attenti ricercatori locali. Naturalmente prima dell’intervento conservativo una piena valutazione dell’opera era compromessa dallo stato di conservazione, in alcuni casi assai precario. Nondimeno è stato deciso di dedicare a ogni singolo reperto la massima attenzione possibile, avviando ricerche nelle biblioteche e negli archivi per reperire riferimenti storici e documentari che potessero far piena luce sulle committenze, sugli autori, sulle datazioni, sulla diffusione dei culti in un territorio oggi in larga parte appartenente alla Diocesi di Sulmona-Valva. Una squadra di storici dell’arte, funzionari di Soprintendenza e giovani studiosi, si è messa al lavoro producendo risultati di tutto rispetto. A rileggerle tutte di fila queste schede, si percepisce pienamente il grande impegno profuso dagli autori nel seguire la principale indicazione data, ossia aprire le prospettive di ricerca a trecentosessanta gradi senza tralasciare nessuna possibile traccia, da quelle fornite da un’attenta lettura iconografica alla realtà economica e sociale della località di appartenenza. Anche l’opera giudicata a prima vista rozza e modesta è stata quindi oggetto di una capillare verifica, analizzata nell’ambito del contesto generale e senza preconcetti. Sicché persino la tela raffigurante L’educazione della Vergine (cat. 15), dipinta su un lenzuolo – che certo è tutt’altro che un capolavoro, anzi è caratterizzata da quella semplificazione istintiva che generalmente connota l’arte popolare - a seguito di una riflessione supplementare ha ritrovato il suo intrinseco valore smarrito, come testimonianza del processo di alfabetizzazione avviato in Abruzzo nel corso dell’Ottocento, probabilmente auspicato da qualche devoto o da qualche religioso in quella realtà allora assai prospera grazie ai commerci dei prodotti locali. Quale migliore manifesto ‘promozionale’, per una comunità che doveva trovare nell’istruzione una leva per la propria crescita economica, di una pala d’altare dai tratti ingenui in cui la giovane allieva è proprio la Madonna, in queste valli amatissima e principale icona di fede da tanti secoli? Ad esempio, in Abruzzo un culto mariano molto diffuso è rivolto alla Madonna delle Grazie, raffigurata nella tela di San Benedetto in Perillis (cat. 3) mentre apre magnanimamente il proprio mantello per accogliere i membri di un arciconfraternita, “trepidanti in preghiera”, assieme ai santi Celestino V e Benedetto. Questo gesto di protezione e di condivisione trasmette in maniera eloquente l’appello alla Vergine Maria affinché elargisca grazie legate soprattutto alla salute, come titolare di una profonda devozione che rafforzava i benefici dell’annesso ospedale, non a caso edificato appena dopo la cruenta discesa, lungo la via degli Abruzzi verso Roma, delle truppe pontificie e imperiali, le quali seminarono ovunque devastazione e terrore. Lo studio attento di Marta Vittorini ha messo in rapporto questa tela inedita di cui s’ignora l’originaria collocazione - un tempo ancorata al soffitto in maniera del tutto precaria - all’attività di un maestro ben noto, attivo tra Roma e Napoli nei primi decenni del Seicento: Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, di cui la stessa autrice s’è occupata in occasione del restauro dello straordinario dipinto raffigurante L’apparizione dell’Immacolata a San Francesco, della chiesa parrocchiale di Luco dei Marsi. Purtroppo lo stato di conservazione attuale, sebbene di gran lunga migliore in termini di leggibilità rispetto alle condizioni ante restauro, non permette di dissipare qualche residuo dubbio a favore di una piena autografia, sicché si è preferito proporla prudentemente come opera realizzata all’interno della bottega. Un culto strettamente legato alle infermità è anche quello ben noto e di antica origine per Sant’Antonio Abate, se gli Ospedalieri si erano specializzati nella cura dell’Herpes zoster, il cosiddetto Fuoco di Sant’Antonio, utilizzando proprio il lardo del maiale. Generalmente allevato in casa in ogni comunità contadina per la varietà dei possibili utilizzi dell’intera bestia, dalle carni al crine, il porco accompagna appunto il santo eremita proveniente dall’Egitto. Nella lunga scheda a doppia firma dedicata della scultura di Calascio ancora di impianto tardo rinascimentale (cat. 4), è narrato tra l’altro il rito purificatore, propiziatorio per il raccolto, il quale consiste nell’accensione delle farchie che segue la tradizionale benedizione dei maiali in molti centri montani non solo abruzzesi nella ricorrenza del 19 gennaio. Un’altra interessante scultura è il San Francesco che riceve le stigmate della parrocchiale di Castelvecchio Calvisio (cat. 10) che grazie alla foto rintracciata negli archivi della Soprintendenza è possibile proporre nella sua originaria collocazione, quando era posizionata contro una parete rivestita da una roccia naturale e il santo già non era più in compagnia del frate Leone – andato disperso – che “assisteva ammirato” al miracoloso evento, come chiosa la Gabbrielli, unica studiosa a citare quest’insieme eccentrico e raro fino alla dettagliata scheda di Emilia Ludovici che proponiamo in questa sede. La diffusione del francescanesimo negli antichi Abruzzi è cosa ben nota e non sorprende quindi di trovare
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Tav. III. Popoli (PE) particolare della Facciata della Chiesa di San Francesco
nell’ambito di questo ristretto gruppo di opere sottratte al degrado, oltre alle due sculture appena citate, ulteriori testimonianze legate a complessi monumentali di assoluto rilievo, eretti dai diversi rami della grande famiglia monastica. Una delle più interessanti facciate di monumenti francescani nella regione è senz’altro quella della Chiesa di San Francesco a Popoli, soprattutto per l’apparato scultoreo del registro inferiore tardo gotico. L’impatto è veramente mozzafiato soprattutto per il magnifico rosone rinascimentale in cui campeggia al centro lo stemma Carafa-Cantelmo limitato da sei comparti divisi da balaustrini che limitano originalissime cornucopie con capitelli a fogliami, mentre la tripla cornice esterna ingloba quattro rosoni più piccoli con i simboli degli evangelisti a rilievo. Da questa chiesa, che purtroppo ha perso le sue suppellettili più preziose, provengono ben due opere. Il Trittico con la pietà tra i Santi Sebastiano e Cristoforo (cat. 9) è un’ opera che oggi suscita commozione. Probabilmente danneggiatisi i dipinti quattrocenteschi (?) raffigurati nel comparto centrale cuspidato e nelle due valve laterali richiudibili, la struttura lignea è stata riutilizzata e nuovamente dipinta. In occasione dell’intervento conservativo è stato deciso di rispettare la redazione più tarda, vicina a Domenico Gizzonio secondo Sergio Caranfa, che peraltro propone icone di culto caratterizzate da accenti popolari, ormai divenute assai care alla comunità. Ben più rilevante è il Compianto di Popoli (cat. 2), un singolare gruppo in legno scolpito e dipinto in policromia strettamente collegato a quell’eccentricità di visione che ispira e lega le esperienze artistiche lungo le due sponde dell’Adriatico negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Come ha messo bene in luce Mauro Congeduti, l’Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova (cat. 7) è legata ai ripetuti eventi sismici che hanno funestato la storia dell’Aquila. Nel corso dei violenti fenomeni tellurici che atterrirono la popolazione tra il marzo e il giugno 1646, si registra infatti un improvviso revival del culto di Sant’Antonio da Padova, che trabocca clamorosamente al di fuori dei suoi tradizionali centri di diffusione, costituiti dalle principali fondazioni francescane della città, divenendo il quinto protettore della città, amatissimo anche a causa dei prodigi, operati attraverso una sua “divina figura” dipinta da Francesco Bedeschini, nell’oratorio dei Signori Cavalieri de Nardis, poi traslata in una nuova chiesa eretta per l’occasione edificio sacro e oggetto di repliche da parte dello stesso autore, tra le quali si colloca questa in esame che era stata depositata presso la Chiesa del Suffragio, prima di essere trasferita in San Flaviano. Tra i principali santi oggetto di devozione in Abruzzo è San Giovanni da Capestrano, il grande predicatore carismatico dell’Osservanza francescana che diffuse la lezione di San Bernardino da Siena fondando numerosi monasteri in tutta la regione. A giudicare dagli altari a lui dedicati e alle opere d’arte che lo raffigurano, il santo aveva guadagnato cultori per l’intero Seicento venendo tra l’altro effigiato dai principali artisti di vaglia attivi nel Regno di Napoli, come ad esempio dal celebre Luca Giordano. L’enfasi che ispira il dipinto proveniente dal convento di Capestrano, intitolato al santo nella città natale, la Visione di San Giovanni da Capestrano (cat. 5), traduce in termini semplificati una lezione più colta, che non sembra estranea all’intensa attività dei Bedeschini, tanto è vero che sembrerebbe plausibile pensare si tratti di una replica di bottega da un originale perduto. Avvalora questa possibilità la complessa tessitura iconografica, la quale rimanda alla fervida attività esercitata da San Giovanni da Capestrano nella lontana Belgrado, al pari dei cicli affrescati dedicati al santo in altri conventi dell’aquilano. Un’analoga riflessione sollecita anche la Strage degli Innocenti (cat. 7) appartenente alla chiesa di san Sebastiano di Navelli, per la concitazione della scena di gusto ancora manierista che evoca analoghe composizioni sviluppate da Giulio Cesare Bedeschini e da meno noti maestri locali che, non di rado aiutandosi con stampe e disegni, riproponevano i modelli di successo ideati dai più celebrati artisti. C’è il sospetto che l’autore abbia fatto ricorso a invenzioni altrui anche nel caso di almeno le prime due delle tre tele ancora in cerca d’autore: la Natività, datata 1741 della chiesa di San Nicola di Bari a Calascio (cat. 11), e i due dipinti provenienti da Carapelle Calvisio, raffiguranti l’Immacolata con le anime purganti (cat.13) e San Carlo Borrromeo, San Filippo Neri, San Michele Arcangelo e la Trinità (cat.8). Per quest’ultima, di qualità più sostenuta, le ricerche di Anna Colangelo hanno prodotto un eccellente risultato: addirittura la scoperta dell’anno dell’intitolazione dell’altare, che fornisce un appiglio cronologico importante per l’opera stessa, sicuramente realizzata dopo quella data. Se questi ultimi tre dipinti sono rimasti anonimi, le ricerche sono approdate a risultati più gratificanti in altre circostanze. La Madonna che presenta l’effigie di San Domenico (cat. 12), è stata correttamente assegnata a Teresa Palomba (notizie 1748-1773) da Giovanni Villano. E l’autore del San Michele Arcangelo, Santa Lucia e Sant’Anna (cat. 14), dopo che la pulitura ha rimesso in luce la data 1808 e la firma, ha ora una precisa identità. Si tratta di quel Vincenzo Conti, vissuto per un mezzo secolo negli anni a cavallo tra Otto e Novecento, assai attivo in numerose località dell’Abruzzo, come ci racconta Alessandra Giancola. L’antologia di opere qui proposte ha svariati motivi d’interesse, oltre a quelli più specificamente connessi al restauro. Si scopre così la fortuna del culto per Santa Filomena - una santa poi espulsa dal calendario – a seguito degli eventi miracolosi nel 1831. Tale data illumina sull’epoca della realizzazione della interessante scultura lignea di Bussi sul Tirino (cat. 16) che conserva intatta una vivacissima policromia e l’incarnato di
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porcellana. E ancora dell’esistenza di un complesso orologio a Villa Santa Maria (cat. 17) e di un Oratorio ancora in attesa di un adeguato intervento conservativo, che potrebbe peraltro riportare in luce dipinti murali di non secondario interesse (cat. 18). Certo che a girare per l’Abruzzo le sorprese non mancano: una tra tutte è provocata dallo stupefacente interno dell’Oratorio di San Pellegrino a Bominaco, adorno tra l’altro di un raro calendario e di affreschi del tutto in linea con quelli della Chiesa dei Quattro Santi Coronati a Roma. Proprio da questo gioiello d’arte proviene il piccolo affresco con l’Ecce Homo (cat. 1), staccato in occasione dei restauri degli Anni Trenta, che apre il nostro catalogo, scaturito da una serie d’atti d’amore. LUCIA ARBACE
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Note su un territorio MARTA VITTORINI
L
Tav. IV. Veduta di Castel del Monte (AQ) (m 1346 s.l.m.), 1992 Tav. V. Facciata della chiesa del Monastero di San Benedetto in Perillis (AQ), 2012
e opere esposte nella mostra Restauri d’arte: opere dell’Abruzzo recuperate dopo il sisma sono piccoli e frammentari tasselli di un territorio, testimonianze figurative di un mondo variegato e allo stesso tempo omogeneo. Vicende storiche e condizioni attuali disegnano i comuni contorni dei paesi dell’Altopiano di Navelli, di Campo Imperatore, della Valle del Tirino: oggi borghi suggestivi, tappe di un itinerario turistico ricercato, compromesso in gran parte dal terremoto del 2009; un tempo centri di una fervida attività economica agro-pastorale, posti lungo vie di comunicazione vitali, i tratturi. La civiltà della transumanza rappresenta il comune tratto identitario di questi luoghi: il movimento delle greggi verso la Puglia, lo scambio delle merci nelle fiere, l’incontro di culture e devozioni dipingono un mondo economico e sociale fatto di grandi masserie e di semplici pastori, di rapporti familiari che si allentano nel periodo passato nel Tavoliere, di rassicurazioni offerte da una devozione genuina che trova la sua rappresentazione nei numerosi santuari che costellano le vie verso la Puglia1. Dietro il grande movimento delle greggi è l’attività dei centri monastici, dai benedettini ai Camaldolesi di San Nicola a Corno ai cistercensi di Santa Maria del Monte al nuovo ordine dei celestini; dei feudatari, che avevano in concessione ampie porzioni di territorio, e delle grandi famiglie armentizie. Le abbazie, nate tra l’VIII e il X secolo per iniziativa dell’imperatore o dei signori locali, si fanno promotrici di una vivace attività di messa a coltura e di allevamento, riuscendo nel corso del tempo a moltiplicare le loro dipendenze e ad acquisire pertinenze in luoghi strategici nei percorsi viari della transumanza. La presenza di celle e di curtes dei grandi monasteri di Montecassino, Farfa e San Vincenzo al Volturno favorisce la ripresa dell’economia, che acquista nuovo vigore dopo la parentesi longobarda, quando la dominazione normanna favorisce la riunificazione della regione in precedenza divisa tra i Ducati di Spoleto e di Benevento2. Le abbazie benedettine erano proprietarie di vaste estensioni di terreni, esercitando un vero e proprio potere sul territorio in antagonismo con i feudatari. I possedimenti di San Pietro ad Oratorium, la cui esistenza è attestata già nel 752 (anno a cui risale la conferma di Stefano II ai Volturnensi), si estendevano in Capestrano, Ofena, nella Valle di Bussi, Castel del Monte. Il monastero di San Benedetto in Perillis, secondo quanto attestato in un breve di Clemente III del 1118, aveva pertinenze a Popoli, Bussi, Collepietro, Navelli, Caporciano, Acciano, Molina, Civitaretenga. In una bolla del 1264 viene nominato tra le chiese soggette a Santa Maria di Bominaco, per poi essere incorporato al Monastero di Collemaggio, diventando in tal modo una grancia dei Celestini. Ma furono i Camaldolesi di San Nicola a Corno, seguiti dai Cistercensi di Santa Maria di Casanova, a svolgere, a partire dalla seconda metà del XII secolo, una pionieristica attività pastorale sul Gran Sasso. Entrambi i centri monastici non limitavano i loro possessi al territorio abruzzese, estendendoli lungo le vie della transumanza, segno di un coinvolgimento nella florida attività armentizia che avrebbe costituito il motore economico principale per oltre cinque secoli. San Nicola a Corno, in un documento del 1255, rivendica possessi a Guglionesi e Termoli, insieme all’esenzione del diritto di dogana e di pedaggio. Santa Maria di Casanova fu dotata di vasti possedimenti dai suoi fondatori, il conte Berardo e la contessa Margherita, confermati da Federico II con un diploma nel 1222 in cui si fa elenco di tutte le grance che dipendevano dal monastero medesimo, disegnando la mappatura di una vera e propria “azienda” organizzata su un ampio territorio, che comprende in terra abruzzese Santa Maria del Monte Paganica, dove ancora oggi si possono osservare i recinti murati di stazzi per il bestiame, e lungo il percorso tratturale la Badia di Santa Maria nelle isole Tremiti (avvicendandosi ai Benedettini nel 1263) e il monastero di Santa Maria dell’Incoronata (nel 1218)3. Protagonisti altrettanto solerti nella florida economia pastorale erano i Celestini: che l’ordine fondato da Pietro del Morrone fosse dedito all’attività della transumanza è evidente da un diploma di Carlo II, indirizzato agli officiales del regno, in cui ordinava che ai frati del Monastero di Santo Spirito del Morrone fosse concessa la libertà di condurre gli armenti fuori dal regno senza essere soggetti a balzelli4. Sul tratturo L’Aquila - Foggia si collocano numerosi monasteri celestini, tra cui Santa Maria di Collemaggio, in cui si raccoglievano i pastori del territorio aquilano e reatino al momento della partenza per il Tavoliere, l’Abbazia di Santo Spirito al Morrone, Santo Spirito di Lanciano, Santa Maria e San Benedetto di Trivento5. Altra grande realtà che disegna le dinamiche politico-economiche del territorio è quella dei potentati locali che, a partire dall’istituto del gastaldato, verranno a configurarsi come feudi in antagonismo al potere centrale e a quello abbaziale, per poi acquisire, nel XV secolo, sotto il dominio aragonese e poi sotto quello spagnolo, la fisionomia di aristocrazia fondiaria e di unità amministrative dello Stato. La Baronia di Carapelle, costituita dai suffeudi di Carapelle, Castelvecchio Calvisio, Santo Stefano di Sessanio e Calascio e dal marchesato di Capestrano vedono avvicendarsi la dominazione degli Acquaviva nel XIV secolo e poi dei conti dei Marsi, con Pietro Berardo, per essere acquisiti, nel 1478, da Antonio Todeschini Piccolomini, conte di Celano. Nel 1579 sono venduti da Costanza, duchessa di Amalfi, a Ottavio Cattaneo e poi a Francesco
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Tav. VI. Navelli, (AQ) particolare, 1987
dei Medici nel 1595, insieme a Castel del Monte e Ofena, acquisendo la denominazione di Principato6. A Popoli dominano i Cantelmo, venuti al seguito di Carlo d’Angiò. Restaino, nel 1377, acquisisce il Castello di Bussi, che rimane sotto i Cantelmo fino al 1579, quando viene venduto da Ottavio a Pietro Pietropaoli, barone di Navelli, che, a sua volta, nel 1599, lo cede al Gran Duca di Toscana7. Questa breve e parziale presentazione mostra come il territorio in esame, se osservato dal punto di vista delle vaste concentrazioni di possedimenti che facevano capo ai centri religiosi monastici e dei potentati che andavano a riunire sotto un unico feudatario ampi territori, si presenti meno frammentato e meno irriducibile a coordinate unitarie di quanto possa sembrare a chi ne conosca la condizione attuale. La realtà di abbandono e impoverimento, che caratterizza per lo più gli ultimi due secoli, non corrisponde alla realtà territoriale che produce le opere che oggi vengono presentate in mostra come specchio di un territorio. La dialettica tra ordini monastici e grande feudalità disegna un territorio dalla vivace economia agricolo-pastorale, da cui emergono, svincolandosi dalla condizione di asservimento del periodo longobardo-carolingio, famiglie di proprietari e mercanti, dediti ad un’attività che si configura, nel XV secolo, come imprenditoriale, e una scala gerarchica di figure che va dai massari, che gestiscono l’“azienda” per conto del padrone, ai vergari, responsabili del movimento delle greggi transumanti. Accanto all’attività economica svolta da benedettini, camaldolesi, cistercensi e celestini, non è da considerare trascurabile la presenza di ordini religiosi che, se non sono direttamente coinvolti nell’economia pastorale e nelle dinamiche politico-territoriali, certamente svolgono un ruolo propulsore dei centri in cui sorgono i loro conventi. E dominante a partire dal XV secolo è il proliferare di quel movimento religioso che nasce in seno al francescanesimo con intento riformatore, l’Osservanza8. Il convento di San Francesco a Capestrano e quello di Santa Maria delle Grazie a Calascio, insieme a San Francesco a Carapelle Calvisio sono esempi della presenza francescana osservante e conventuale nel territorio, che fanno seguito alle importanti fondazioni aquilane di San Giuliano e di San Bernardino. Gli Osservanti sono a latere di un mondo economico ormai vitale, rappresentato da un ceto mercantile con vocazione imprenditoriale, che sostiene l’ordine e le sue fabbriche e trova nella predicazione dei nuovi francescani un sostegno e una difesa all’attività economica mercantile. Il convento di San Francesco a Capestrano trae grande lustro dalla fama del suo fondatore, predicatore dal respiro internazionale, al servizio della Santa Sede. E partecipa del mondo economico circostante, se non con l’attività armentizia, come anello che di quella si nutre, istallando un lanificio al proprio interno. Una feudalità che detiene il dominio su un territorio per generazioni, ricche famiglie armentizie, un solido ceto mercantile, ordini religiosi attivi nell’economia territoriale, universitates eredi dei castelli di fondazione medievale rendono la committenza artistica variegata. Il Principato dei Medici (oltre alla parentela con la famiglia Bedeschini) promuove l’attività di Bernardino Monaldi a Carapelle e a Castel del Monte e altre commissioni in Abruzzo, mentre più generalmente la presenza di ricche famiglie armentizie dà ragione della commissione di opere di alta qualità per ornare altari e cappelle9. A questo proposito occorre menzionare il ruolo delle confraternite, nel cui inventario di beni figurano spesso armenti, a riprova del potere economico che detenevano nel contesto dell’economia pastorale e della capacità di finanziare ristrutturazioni e opere d’arte. A Castel del Monte esistevano anticamente due confraternite, quella del SS. Sacramento e quella della Concezione, poi scomparse; nel 1685 fu fondata la “Compagnia delle Anime del Suffragio di Castel del Monte”, trasformata in Congregazione nel 1825, e nel 1791, ad iniziativa dei pastori, la confraternita di Santa Maria Annunziata di Picciano, nella chiesa di Santa Caterina Martire10. A Calascio, all’inizio del 1700, la confraternita della cappella del Rosario possedeva armenti praticando la transumanza con cospicui utili11. Confraternite del Suffragio vengono istituite nel XVII secolo, oltre che a Castel del Monte, a Capestrano, Ofena, Castelvecchio Calvisio, Carapelle, Santo Stefano di Sessanio. Alla presenza di queste associazioni laicali è legato il prevalere nelle committenze artistiche di contenuti e tendenze stilistiche di stampo controriformista e la presenza di soggetti legati alle finalità delle confraternite, come la salvezza delle anime attraverso i sacramenti e le preghiere. Nelle sacre immagini troviamo personaggi incappucciati accanto a figure in adorazione, evidente allusione alla confraternita che, a scopo devozionale o catechetico, e per proprio lustro, ha commissionato l’opera. Non stupisce allora di vedere, in una tela in deposito a Santa Maria delle Grazie in San Benedetto in Perillis, la Madonna che accoglie sotto il suo mantello Celestino V e San Benedetto, insieme ai membri della confraternita che aveva commissionato l’opera, celebrando i due ordini monastici che si erano avvicendati nel monastero dedicato a San Benedetto, e lasciando traccia di sé e della devozione alla Madonna delle Grazie, che dal 1530 era venerata ed esercitava la propria protezione in quei luoghi, rappresentata nella veste iconografia della Madonna della Misericordia.
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Note: 1 - Sul fenomeno della transumanza vedi: CAPEZZALI 1982; PAOLINI, in L’Abruzzo 2002, pp. 41-54. Sulle fiere vedi MILLEMACI, in L’Abruzzo 2002, pp. 55-74. 2 - CLEMENTI, in Celestino V 1988, pp. 240-242; ID., in La civiltà 1999, pp. 429-432. 3 - Santa Maria del Monte di Paganica era una grancia di Santo Spirito d’Ocre, monastero fondato nel 1222 dal Beato Placido da Roio su un terreno donato da Bernardo, conte di Ocre, e passato all’osservanza cistercense alla morte del fondatore. Dal cenobio di Ocre dipendeva anche San Benedetto alle Cafasse (l’attuale convento francescano di San Nicola ad Arischia). Vedi CLEMENTI, in Civiltà medioevale 1990, pp. 241-250. Sui Camaldolesi vedi SIMARI, in Omaggio 1975, p. 281; GIUSTIZIA 2005, pp. 260-273. Sui Cistercensi vedi CLEMENTI, in Celestino V 1988, pp. 244-248; ID. 1991, pp. 111-118; ID., in La civiltà 1999, pp. 432-436; VALERI 2000, p. 185. 4 - CLEMENTI, in Celestino V 1988, p. 25; ID., in La civiltà 1999, pp. 438440. 5 - GRÉGOIRE, in I Celestini 1996, pp. 11-20; DI VIRGILIO, in DELTENSEMBLE 2008, pp 191-228. 6 - CLEMENTI 1991, pp. 103-104. 7 - LATTANZIO 1979, pp. 18-20. 8 - Conventi dell’Osservanza, a partire da quello di San Giuliano, fondato nel 1415, si diffondo a macchia d’olio lungo il secolo XV e il XVI in tutto il territorio abruzzese, occupando monasteri benedettini, come è il caso di Santa Maria delle Grazie a Teramo (1448) o Santa Maria dei Lumi a Civitella del Tronto, primo insediamento francescano della
Tav. VII. Veduta di Calascio (AQ), 2012
città (1466), Sant’Angelo d’Ocre (1479 o 1480), Santa Maria del Crognale a Propezzano (1583), o cistercensi, come San Nicola ad Arischia o Santa Maria di Frisa a Lanciano (1424), o insediandosi con nuove costruzioni: è questo il caso, tra gli altri, di San Bernardino a L’Aquila (1454), San Francesco a Capestrano (1447), Santa Maria della Pace ad Ortona (1440), San Bernardino a Campli, Santa Maria delle Grazie a Orsogna, San Francesco di Caramanico (1448) e, sul finire del XVI secolo, Santa Maria del Paradiso a Pizzoli (1575), Sant’Antonio Abate a Rapino (1589), la Santa Concezione a Pacentro (1589), San Francesco a Barrea (1590), Santa Maria delle Grazie a Calascio (1594), raggiungendo in territorio abruzzese il numero di 46. Fenomeno di rilievo appare anche quello delle fondazioni conventuali, tra cui San Francesco di Carapelle Calvisio (1459) e Sant’Antonio di Padova a Civitaretenga (1489). Vedi SALIMBENI 1993, pp. 100-108. 9 - A Castel del Monte realizza nella chiesa di San Giovanni Battista, in un altare laterale, un dipinto raffigurante il Santo, su commissione del Principe Francesco Antonio dei Medici, nel 1585. Leosini menziona una Nascita di Cristo in San Massimo e una Nascita della Vergine nella chiesa di Santa Maria della Consolazione di Poggio Picenze (datata 1595). E’ firmata e datata al 1598 la pala con la Pentecoste della chiesa dell’Annunziata di Sulmona. Vedi LEOSINI 1848, pp. 143, 280; SULLI 1979, p. 74. 10 - Vedi SULLI 1979, pp. 91-98. 11 - GIUSTIZIA 1982, p. 270. Vedi Arch. Com. di Calascio, busta 7, cat. II, cl. I, fasc. 12, Libro della Venerabile Cappella del Rosario di Calascio (1696-1709).
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Il terremoto dell’Aquila. Un’opportunità per riflettere su Giovanni Urbani e sulla crisi della teoria estetica del restauro BRUNO ZANARDI
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l 20 giugno del 1964 Giovanni Urbani pubblica sul settimanale «Il Punto» un articolo dal titolo «Per un’archeologia del presente»1. È il testo con cui egli conclude la sua meditazione sul rapporto tra «arte del passato e arte d’oggi», iniziata nella metà degli anni ’50, quando viene chiamato a scrivere d’arte contemporanea su quello stesso settimanale2. Al fondo dell’interrogarsi di Urbani, cioè la figura che con maggior spessore di pensiero ha varcato l’orizzonte di restauro, conservazione e tutela del patrimonio storico e artistico nell’ultimo mezzo secolo, pur se da tutti inascoltato, è però sotteso un altro e ben più decisivo quesito. Se il vaticinio hegeliano della morte dell’arte sia giunto al punto d’arrivo, quindi se l’arte rappresenti definitivamente un passato senza più collegamenti con la produzione artistica del presente. In caso affermativo – questa la conclusione di Urbani, – la conservazione dell’arte del passato diviene heideggeriano destino, cui gli uomini d’oggi non possono in alcun modo sottrarsi, pena la perdita della possibilità stessa del loro accesso a quel manifestarsi della verità in opera che è l’arte. Inappellabile il giudizio negativo sulla produzione artistica contemporanea formulato in quell’articolo, o meglio breve saggio, che una volta di più conferma il debito di pensiero con Heidegger, del quale Urbani fu precocissimo cultore in Italia, già negli anni ’50 se non prima ancora 3. Ma che anche appare in indipendente sintonia con l’interrogarsi sulla storia dal punto di vista di «una archeologia delle scienze umane», che condurrà due anni dopo il Michel Foucault di Le parole e le cose a voler ‘scavare’ lo strato storico in cui «le cose [iniziano] a non richiedere al loro divenire che il principio dell’intelligibilità, abbandonando lo spazio della rappresentazione»4. Due punti di vista tra loro, torno a dire, indipendenti, ma omogenei, che trovano sintesi in Giorgio Agamben, allievo in qualche modo di Urbani, come subito sotto attesto, e che da Foucault, come lui stesso afferma, «ho avuto modo di apprendere molto», il quale così scrive nel 2008, presentando il suo Signatura rerum5: Ogni ricerca nelle scienze umane (…) dovrebbe implicare una cautela archeologica, cioè regredire nel proprio percorso fino al punto in cui qualcosa è rimasto oscuro e non tematizzato. Solo un pensiero che non nasconde il proprio non-detto, ma incessantemente lo riprende e lo svolge, può, eventualmente, pretendere all’originalità.
Ed è forse è il caso anche di sottolineare come Urbani, sostanzialmente privo di allievi (nei fatti, nessun funzionario dell’ICR lo fu, con la sola eccezione, per certi versi, di Michele Cordaro, sperando che questo vero e proprio vulnus nelle cultura della tutela in Italia sarà presto risarcito dall’Università di Urbino), proprio sul pensiero di Heidegger trova seguito nell’incontro, avvenuto per caso, nel 1963, in casa di comuni amici, con un giovanissimo Giorgio Agamben, allora poco più che ventenne, ma nel 1964 «Apostolo Filippo» in Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (con lui, Enzo Siciliano, J. Rodolfo Wilcock, Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto, Mario Socrate e pochi altri), nel 1966 e nel 1968 presente ai seminari di Heidegger a Le Thor, Agamben, che nel 1969 dedica – a stampa – «A Giovanni Urbani come testimonianza di amicizia e di riconoscenza» il suo primo saggio in volume, L’uomo senza contenuto, e che così, nel 2009, ricorda quel loro antico sodalizio6: Ho conosciuto Giovanni Urbani a Roma nel 1963. Avevo allora ventun anni e Giovanni, se ben ricordo, trentotto. Lontanissima, quasi prestorica, la Roma di quegli anni, così dolce, reticente e povera, mi appare ora nella memoria come divisa in due mondi, ciascuno dei quali era retto da un implacabile snobismo. (…). Fu nel secondo [di quei mondi], per me decisamente meno familiare, che una sera incontrai per caso Giovanni. La sua ascetica, leggendaria eleganza, la sua sprezzatura curiosamente segnata da una nota di irriducibile estraneità non ebbero difficoltà a conquistarmi. Malgrado la sua esigente mondanità, compresi subito che il suo daimon non era Swann, ma, come del resto seppi più tardi da lui stesso, Lord Jim, cioè un uomo la cui vita è stata per sempre adombrata da una colpa non veramente commessa. Come ogni vero snobismo («nessun animale può essere snob»), lo snobismo di Giovanni era innanzitutto un’acutissima percezione del carattere storico – e quindi anche frivolo, cioè friabile e caduco – di ogni fenomeno umano e, conseguentemente, un’altrettanto scontrosa intolleranza per chi non sa leggere le segnature storiche dell’accadere. Nella Roma, nell’Italia di allora (come in quella di oggi) le persone in grado di leggere queste segnature erano rare ed erratiche e lo snobismo di Giovanni aveva molte e non certo liete occasioni di esercitarsi. E ho sempre pensato che non poteva essere un caso che un uomo dotato di un tale particolare snobismo dovesse per mestiere occuparsi dei segni che il tempo lascia sulle cose (…). Comunque sia, Heidegger divenne il “nostro” autore, una sorta di talismano esoterico la cui amara esclusività era garantita
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dal fatto che quasi nessuno nella cultura romana (e, forse, italiana) di allora era in grado di condividerlo con noi.
Mentre così sono l’inizio e la chiusa dell’addio dato da Urbani all’arte d’oggi nel suo saggio pubblicato su «Il Punto» nel 1964, quarantotto anni fa7: Le montagne partoriscono spesso dei topolini. Non ci sarebbe da meravigliarsi se tutto ciò che nell’evoluzione dell’arte contemporanea sembra avere peso e sostanza d’evento storico, dovesse un giorno risultare esattamente il contrario della storia: un informe canovaccio di azioni irrilevanti e senza peso, una cronaca incolore intessuta di fatti minimi e sempre uguali (…). Resta quello che si diceva da principio: la possibilità che questa finta storia così rapida e zelante nel seguire passo passo il suo finto percorso, arrivi all’ultima tappa e riesca a vedersi come sicuramente apparirà un giorno: un’immensa pagina grigia, una lunghissima parentesi in cui lo strepito e il furore dei suoi mille finti eventi si ricompongono nella compattezza sorda e indifferenziata d’uno strato archelogico. Questo strato che è il presente; umano e vero solo se si riuscirà a «scavarlo», se si riuscirà cioè a fare terra delle sue illusioni e a disseppellirne gli stupidi idoli come povere suppellettili da cui, caduto il mito, resti con la polvere e indistruttibile come essa, la traccia di ciò che realmente siamo.
Tav. VIII. Rocca Calascio (AQ) (m 1400 s.l.m.), 1987 Tav. IX. Carapelle Calvisio (AQ) Chiesa parrocchiale di Santa Maria, 2012
Il breve viaggio di Urbani nell’arte d’oggi, a cercare le ragioni per la conservazione dell’arte del passato, trova nel 1960 il suo anno più fecondo. Nel marzo, egli tiene infatti alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma una conferenza in cui porta a forma compiuta la sua meditazione sul senso dell’arte d’oggi, in particolare sulle ragioni della completa autonomia formale dell’astrattistismo. Titolo della conferenza, ma già un giudizio, La parte del caso nell’arte d’oggi8. Né per lo storico dell’arte romano «il caso» è esito dell’inconscio come per il surrealismo, «le hasard, divinité plus obscure que les autres» del Manifesto di Breton9. Nemmeno è dato formale già storicamente presente nella «invenzione degli spazi che da Caravaggio, attraverso Rembrandt e Turner, conduce fino all’‘Informale’», come sosterrà qualche anno dopo Francesco Arcangeli, con un’iperbole suggestiva, ma più letteraria e fantasiosa, che critica10. Per Urbani «il caso» irrompe nella produzione artistica d’oggi come portato del destino, inevitabile conseguenza del modo di oggettivare il reale indotto dalla tecnica moderna. Il che conduce l’arte astratta a «sfondare ‘il muro del visibile’» e a assemblare, inevitabilmente a caso, ciò che di là da quel muro trova. Un ragionare che, di nuovo, appare in stretta aderenza al pensare di Heidegger11: A cancellare le apparenze del mondo dalla pittura [d’oggi] non sono state la teoria della relatività o quella dei quanta, ma ciò che ha reso possibili anche queste scoperte scientifiche: ossia, semplicemente, il modo che ognuno di noi ha di porsi di fronte al reale. Questo modo, che è anche detto della rappresentazione oggettivante, può essere sintetizzato nella formula più elementare del nostro sapere: il mondo è composto di oggetti, e questi oggetti fanno parte della realtà in quanto possiamo rappresentarceli in maniera oggettiva, coi loro requisiti propri di peso misura forma colore eccetera, e non perché li vediamo. Rappresentare in maniera oggettiva gli oggetti, significa darsene una spiegazione (Heidegger). Pensare la realtà oggettivamente, cioè al di là delle semplici apparenze con cui ci si mostra, è di fatto l’unico modo in cui ci è oggi possibile concepire la realtà. Oggi; e perciò oggi l’artista fa della pittura astratta: perché, come chiunque altro, è preso nella rete dell’oggettività, e l’oggettività ci fa ineluttabilmente sfondare il «muro del visibile», cioè ci mette al cospetto delle proprietà effettive degli oggetti, ma non degli oggetti in quanto cose: cose presenti, semplicemente offerte alla vista.
Ma, una volta passato «il muro del visibile», dove troverà il pittore astratto «gli elementi esatti, ovvero i modelli tangibili a cui riferirsi per la trasfigurazione di codesta realtà oggettiva?». Li troverà, risponde Urbani, nell’estetica. Cioè nel modo in cui il pensiero scientifico moderno, dall’Illuminismo in poi, ha oggettivato l’arte12: Quando parliamo dell’estetica, ovvero del pensiero che oggettiva l’arte, non intendiamo naturalmente solo l’estetica dei filosofi ma anche, se non soprattutto, il modo oggettivo in cui l’umanità d’oggi si rappresenta l’arte. Questo modo non è stato sempre lo stesso. I Greci, ad esempio, pensavano così poco oggettivamente l’arte, che erano costretti a chiamarla téchne, cioè con una parola la cui traduzione letterale sarebbe «produzione», e che allora aveva un significato certamente più nobile, ma quasi altrettanto generico di quello attuale. Oggi, invece, siamo riuniti in questa sala [della Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove si tiene la conferenza], e in questa sala celebriamo un rito che avrebbe fatto trasecolare i saggi della Grecia antica. Parliamo in maniera astratta, ma non per questo meno oggettiva, dell’arte. E più ne parliamo astrattamente, più la oggettiviamo. Ce la rappresentiamo in termini di valore, di forma, di qualità. E questi attributi astratti, ma che pure le sono pertinenti, ci servono a collocarla nel nostro mondo reale, assieme agli oggetti di cui, come oggetti, sappiamo tutto o quasi tutto, ma che ignoriamo nel loro essere di semplici cose.
Tutto ciò provoca l’oggetto-arte a non rappresentare più sé stesso, ma a divenire «una macchia, uno strappo,
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un buco». Tutte provocazioni che però potrebbero rientrare in valori costituiti quali «la novità o la libertà del fare artistico». Ma c’è un momento che azzera questi valori, rendendoli non più tali. Il momento in cui l’artista decide che il dipinto, ormai libero da ogni vincolo formale, sia divenuto opera, perciò da licenziare come tale, facendolo in tal modo cadere «sulla nuda terra del mondo». Ebbene, quel momento è affidato al caso: «Non si intende ciò che oggi la pittura cerca di dirci, se non si riconosce che essa parla il linguaggio del caso»13: Invece di partirsi dagli oggetti reali [l’astrattismo] muove da qualcosa che ha costituzione non meno oggettiva di essi: e cioè dall’arte, pensata oggettivamente, dal quadro che è fatto per il museo, dal quadro che è – secondo una celebre definizione che blocca da quasi tre quarti di secolo il cammino dell’arte – «una superficie piana con forme e colori disposti in un certo ordine». Muove da questo oggetto e in un certo modo lo provoca a uscire, a cadere dall’oggettività propria, cioè dal sistema di valori formalistici, ideali o meramente psicologici, che lo costituiscono in quanto oggetto. Lo provoca con tutti i mezzi: ma per iconoclastici e antitradizionali che questi possano essere (macchie, strappi, buchi eccetera) finirebbero sempre col rientrare nell’ordine dell’oggettività, in quanto possibili nuove determinazioni di vecchissimi valori: quali l’originalità, ad esempio, o la novità o la libertà del fare artistico. Però c’è un momento in cui queste provocazioni sembrano arrivare a segno, e l’orizzonte dell’oggettività incrinarsi, e la pittura cadere dalla ribalta della propria auto-rappresentazione oggettiva sulla nuda terra del mondo, farsi cosa tra le cose. Questo momento è affidato al caso. Non si intende ciò che oggi la pittura cerca di dirci, se non si riconosce che essa parla il linguaggio del caso. Ed è veramente un mistero come, in questi anni di furore critico, nessuno abbia osato interrogarsi su ciò che la pittura attuale cura meno di nascondere, ovvero sul fatto che essa è governata dal caso, si esprime in forme casuali.
Un ragionare sull’estetica e sull’arte d’oggi, questo di Urbani, che con ogni evidenza può essere posto alla base della radicale critica da lui svolta in tutti i suoi scritti sul restauro alla «teoria estetica del restauro», ed è chiarissima, pur se non esplicita, chiamata in causa della Teoria di Brandi14. In particolare è a partire dal 1967 del suo diretto ingresso nell’agone teorico del restauro con Il restauro e la storia dell’arte, il primo d’una serie di saggi poi raccolti nel suo Intorno al restauro, che Urbani va evidenziando una lunga filza di problemi di teoria e di pratica che aleggiavano – e ancora aleggiano, irrisolti – su restauro, conservazione e tutela15. La gran parte di loro ha all’orizzonte, torno a dire, la Teoria del restauro di Brandi, pubblicata quattro anni prima, nel 1963, dei cui fondamenti di pensiero (e risultati applicativi) Urbani aveva avuto modo di giudicare sulla base dell’ininterrotta presenza all’ICR a partire dal 1945, quando entra in quella già gloriosa istituzione come allievo restauratore; altro pregio e singolarità del suo cursus honorum, oltre che ragione essenziale dell’originalità di pensiero e della sicurezza di giudizio in materia di conservazione e restauro, segnando la fondamentale differenza, quasi un’anomalia, della sua figura rispetto a quelle di chiunque altro si sia avvicinato ai problemi di tutela nel Novecento. Saggi, quelli raccolti dallo stesso Urbani nel suo Intorno al restauro, pubblicato poi nel 2000 chi scrive, che coprono uno spazio di tempo che va dal 1967 al 199016. Né vale evidenziare una disorganicità del volume perché costituito da interventi usciti in tempi e luoghi diversi. Uguale genesi ebbe la Teoria di Brandi, preceduta da una prima teoria del restauro in sé conclusa, come lo stesso teorico senese scrive nel 195317: Nei nn. 1, 2, 11-12 [del «Bollettino» dell’ICR] sono stati pubblicati rispettivamente i capitoli 1, 4, 2 della Teoria del Restauro; quello che ora si pubblica [«Il restauro secondo l’istanza estetica o dell’artisticità»] è il 3 e ultimo.
Una prima Teoria del restauro in quattro capitoli di cui il primo, «Il fondamento teorico del restauro» (1948/50), è di base al primo capitolo della versione finale della Teoria, «Il concetto di restauro», mentre altri tre capitoli – «Il ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte» (1950), «Il restauro dell’opera d’arte secondo l’istanza di storicità» (1952), «Il restauro secondo l’istanza estetica o dell’artisticità» (1953) – vi confluiscono più o meno uguali; quel che vale anche per un altro capitolo, «Il restauro preventivo», pubblicato nel 1956 sempre sul «Bollettino» dell’ICR18. E ribadisce altresì il tono «miscellaneo» del volume del 1963 l’aggiunta d’una «Appendice» in sette capitoli, sei di loro già variamente editi a partire dal 1949, sia sul «Bollettino» dell’ICR, che in altre sedi. Del resto è lo stesso Brandi a porre in alea di casualità la resa in volume della Teoria per le «Edizioni di Storia e Letteratura» fondate da don Giuseppe De Luca. Lo fa nelle commosse parole con cui ricorda la figura del sacerdote lucano scomparso prematuramente nel 1962. Parole che chiariscono la ragione della dedica a stampa della Teoria: «alla memoria di don Giuseppe De Luca / che questo libro volle né poté vedere stampato»; ma anche parole che non si capirebbero a pieno senza ricordare come l’abbandono dell’I CR nel 1961 sia stato per Brandi evento doloroso, causato da ragioni indipendenti dalla sua volontà 19: Non dimenticherò che quando, nominato [nel 1961] all’Università [di Palermo, Cattedra di Storia dell’Arte Medievale e Mo-
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Tav. X. L’Aquila, la chiesa di San Flaviano, parrocchiale intra moenia del castello della Torre, 2012
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derna], dovetti lasciare l’Istituto Centrale del Restauro per una sorda opposizione del Ministro, egli [don De Luca], di sua spontanea volontà, andò con Manzù da Fanfani, Presidente anche allora del Consiglio, per scongiurare quello che a lui prima di tutto pareva – bontà sua – una perdita per la tutela del patrimonio artistico. Non ottenne quello che chiese, e volle allora rimediare come poteva. Le mie lezioni di teoria del restauro che appariranno nelle sue Edizioni di Storia e Letteratura, furono richieste perentoriamente da lui, perché rappresentassero, scadendo i vent’anni della Fondazione dell’Istituto, il consuntivo e l’epilogo di quei vent’anni; gli anni della nostra amicizia.
Tav. XI. Tetti di Castel Del Monte (AQ)
Anche il moderno restauro estetico (preteso critico) nasce dalla scissione tra arte e scienza, cioè dal destino heideggerianamente imposto all’uomo d’oggi dalla tecnica moderna a pensare oggettivamente tutto quanto ci circonda. Cosa più del restauro estetico conduce a «sfondare il muro del visibile», cioè a «sfondare», con la pulitura, l’immagine dell’opera così come arrivata a noi. Ma quel che si trova ‘al di là del muro del visibile’, sciogliendo vernici alterate, ridipinture e quant’altro, non è più l’opera come opera, ma l’opera come oggetto d’una indagine scientifica. Quindi, quasi sempre resa in un’immagine con ‘buchi’ e ‘strappi’, cioè frammentata da lacune di profondità, cadute della pellicola pittorica, colori alterati e qualunque altra ‘autentica’ forma d’irreversibile modificazione materiale avvenuta, in forma di danno, nel tempo. Perciò un manufatto, che nel porre in evidenza la propria «struttura fisica», finisce per corrispondere al «gusto dell’oggettualità spinta di tanta arte d’oggi», quasi divenendo esso stesso una speciale opera d’arte contemporanea, e certamente un’opera che in quella forma non è mai esistita20. Ma ancora. Se il moderno restauro scientifico oggettiva le opere, perciò le restituisce in stretto rapporto con il gusto dell’arte d’oggi, come ci si comporterà nel concreto della loro restituzione estetica? E cioè: in quale momento il restauro farà cadere dalla loro oggettività le opere su si esercita per farle tornare sulla terra, rendendole così di nuovo «cose tra le cose»? Come per «l’arte d’oggi», affidandosi al «caso». Infatti del tutto soggettive, perciò inevitabilmente governate dal caso, sono – e restano, al di là di ogni teoria – le decisioni critiche e estetiche nel procedere del moderno restauro scientifico. Se pulire più o meno l’opera, addirittura ritenendo legittimo farlo in modo «differenziato»21. Quali siano, in un viso, un manto, un paesaggio e così via, le lacune ‘interpretabili’ «in base alla speciale metalogica che l’immagine possiede e il contesto dell’immagine consente», come scrive Brandi, quindi lacune che, appunto perché ‘interpretabili’, è possibile reintegrare (inoltre come, a tratteggio? con pennellate incrociate? con un pointillisme? a tono? ovvero com’altro)22? Quali invece siano le lacune ‘non interpretabili’, perciò da trattare con una «tinta neutra» (calda? fredda? chiara? scura?), o con un «abbassamento di tono» (caldo? freddo? chiaro? scuro?), ovvero lasciando in vista come tale intonaco, pietra, tela, legno, cioè la materia del supporto originale, (stuccata? non stuccata? inscurita? schiarita? al naturale?) e così via. Tutto ciò dimostra, per Urbani, che le basi con cui il restauro estetico pretende di ristabilire in modo scientifico l’autenticità d’un testo figurativo sono solo una mascheratura ideologica di interventi che fanno ricadere il problema di quella stessa autenticità sotto il dominio della critica come momento d’una individuale (e crociana) ricreazione artistica delle opere, ricreazione inevitabilmente condotta ‘nel gusto dell’arte d’oggi’. Da qui il comune spirito che aleggia su molte opere restaurate e su molti testi figurativi dell’arte contemporanea, addirittura in alcuni casi consentendo l’ipotesi che talvolta siano stati i risultati estetici delle prime a aver influenzato (e a influenzare) i secondi23. Né da meno è il problema posto dal fatto che, per il restauro estetico, inevitabilmente ogni restauro è «un caso a parte», come per primo riconosce lo stesso Brandi nella sua Teoria24; ed è elementare verità di scienza che mai sapere ragiona su casi singoli, bensì per insiemi. Da qui l’epiteto di dilettantismo dato da Urbani della ‘Carta del restauro’ del 1970, in cui Brandi si prova a dare contenuti tecnici alla sua Teoria, epiteto cui accoda una valutazione ancor più negativa dell’organizzazione del ministero di Giovanni Spadolini, figura verso la quale Urbani ebbe sempre una profonda disistima, accusandolo d’aver voluto a tutti i costi, per puri interessi carriera, che infatti ebbe, assai importante, mettere in piedi un ministero senza avere alcuna idea di come farlo, creando in tal modo tutte le difficoltà che oggi rischiano di farlo chiudere. Né fu il solo Urbani a avere una simile opinione. Così infatti scrisse Sabino Cassese del Mibac nel 1975, cioè nello stesso anno in cui lo stesso Mibac fu fondato 25: Il Ministero è una scatola vuota: il provvedimento [della sua costituzione] non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela; consiste in un mero trasferimento di uffici da una struttura all’altra e non si vede perché uffici che non funzionano dovrebbero funzionare riuniti in un unico Ministero.
Tornando invece al dilettantismo in cui Urbani confinò la carta del restauro di Brandi, aggiungendo un giudizio ancora più tranchant sul ministero spadoliniano26: Lasci stare questa benedetta Carta [del restauro del 1972], che magari, come dichiarazione di intenti storico-critici, ha una sua dignità culturale, ma che quanto a contenuti tecnici se la batte con i precetti di Frate indovino. Qui si tratta di uscire dal
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circolo perverso che da un Ministero, non solo sordo, ma ferocemente ostile a ogni istanza di progresso tecnico, conduce a degli organi tecnici periferici, le Soprintendenze, che lo ripagano con una totale mancanza di fiducia e quindi con un impegno limitato a quel tanto che basta per farlo fesso e contento. Aggiunga la dissennata demagogia assistenzialista che ha portato a intasare gli organici delle Soprintendenze con personale il più delle volte privo di qualsiasi qualifica professionale, come è sostanzialmente quello della legge sulla disoccupazione giovanile 285/77, e avrà completato il quadro del disastro.
E da qui altre due questioni, entrambe pesanti come macigni, poste da Urbani nel 1967 agli attori della tutela, storici dell’arte, restauratori e esperti scientifici in Il restauro e la storia dell’arte, quindi quasi mezzo secolo fa, senza che in mai in tutto questo tempo vi sia stato almeno un accenno di risposta da parte di Soprintendenze e Università. Così la prima27: Il nostro conservare e restaurare, se dipendenti da questa ideologia, manterrebbero allora il carattere d’una produzione artigianale o al meglio artistica, che si servirebbe di scienza e tecnica unicamente per attardarsi ancora nella dimensione medievale della recta ratio factibilium, cioè nella dimensione di quell’unità tra arte scienza e tecnica che nel mondo moderno non ha più corso. E allora, potremmo ancora pretendere di non star restaurando come si è sempre restaurato: cioè alterando o manomettendo?
Così la seconda: La storia dell’arte, che è appunto conoscenza dell’arte nella totalità della sua storia, sa che nessuna delle sue acquisizioni particolari ha valore se non sul piano dell’insieme; e perciò non può non sapere che il perseguimento dell’autenticità nelle singole opere resta un’impresa marginale e aleatoria, se non porta alla determinazione d’un criterio che abbia effetto sull’insieme, che cioè sia valido per la totalità delle opere d’arte. Pensare che questo effetto si potrebbe forse ottenere restaurando, nei modi d’oggi, una ad una tutte le opere esistenti, significa non solo porsi davanti ad una impresa imperseguibile perché smisurata, ma anche impostare il problema esattamente all’inverso di come andrebbe impostato: perché non è con un’infinità di risultati marginali e aleatori come quelli attuali, che si può comporre un insieme essenziale, certo e necessario. D’altra parte, è solo sul piano dell’insieme e della totalità che la scienza può venirci incontro: perché quello è il piano su cui essa si muove già per suo conto. A meno di non credere che la scienza serva a far meglio i ritocchi, e non a mettere i dipinti nelle condizioni per cui abbiano sempre meno bisogno di ritocchi.
Né mai si dovrà vedere in tutto questo un abbandono polemico chiesto da Urbani dei principi critici e estetici del restauro formulati Brandi (e da Argan), bensì una loro ben meditata storicizzazione28. Così da passare a un’azione di tutela che non faccia più di ogni restauro ‘un caso a parte’ di natura estetica, da risolvere con interventi che «che quanto a contenuti tecnici se la batte con i precetti di Frate indovino», bensì abbiano, appunto, «effetto sull’insieme, cioè sia valida per la totalità delle opere d’arte», come la scienza vuole29. Questa il progetto al centro della rifondazione dell’Icr che Urbani, voleva realizzare. Un progetto mai infedele a Brandi, lo ripeto, perché basato in partenza sulla lezione dello stesso storico dell’arte senese, non mai in sua opposizione, e progetto cui subito aderisce Pasquale Rotondi, direttore dell’Icr dal 1961 al 197330. Rotondi, che immediatamente entrerà in uno strettissimo rapporto di stima e amicizia con Urbani, portando un decisivo contributo al progetto della conservazione programmata e preventiva del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente elaborato dallo stesso Urbani. Il progetto che avrebbe potuto essere la chiave di volta per una tutela finalmente efficace di quello stesso patrimonio, il progetto incentrato sulla fondazione di una inedita «ecologia culturale» aperta a una ricerca scientifica e tecnologica tanto innovativa quanto evolutiva, il progetto in grado di dare un’occupazione importante e interessante e utile alle giovani generazioni, anche a salvaguardia della loro identità storica e culturale e di quella delle generazioni a loro future. Il progetto, cioè, benissimo fondato e definito nei particolari, tuttavia chiuso nei cassetti della burocrazia ministeriale e da lì mai più uscito. Ma questa è una vicenda di cui si parlerà alla prossima mostra. Quando ci sarà.
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Tav. XII. Castelvecchio Calvisio (AQ) visto da Carapelle, 2012
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Tav. XIII. Capestrano (AQ) cortile del Castello
Note: 1 - G.URBANI [d’ora innanzi, G.U.], Per una archeologia del presente, «Il Punto» IX.26 (20 giu. 1964), p. 21. (= in ID., Per un’archeologia del presente, Intr. e a c. di B. Zanardi, Prem. di G. Agamben («Attualità di Giovanni Urbani»), Postfaz. di T. Montanari, Milano, Skira 2000, pp. 205-207), bibliografia gen. degli scritti di G,.U, di B. Zanardi (pp. 253.270). Su Urbani, figura di cui si sta finalmente risarcendo il ruolo di maggior teorico (con Brandi) del restauro nel secolo appena chiuso, producendo però Urbani (a differenza di Brandi) un pensiero anche attento (a differenza di Brandi) a darsi «corpo di azione tecnica attraverso l’elaborazione dei suoi piani per la conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, cfr., B. ZANARDI, Il restauro. Giovanni Urbani e Cesare Brandi due teorie a confronto, intr. di S. Settis, Skira, Milano, 2009; ID., Per un’archeologia, cit.; in part. in Il restauro, cit, v. R. LA CAPRIA, Il mio amico Giovanni, ivi, pp. 191-197; G. AGAMBEN, Il daimon di Giovanni, ivi, pp. 199202); J. RASPI SERRA, La genesi della Teoria del restauro, ivi, pp. 203-210. Si parla inoltre di inoltre Urbani in C. BON, Restauro made in Italy, Electa, Milano, 2006, pp. 97-144 («Giovanni Urbani e la trasformazione dell’Icr (1973-1983)»; in una mia convers. con Giorgio Torraca, B.Z. & G.T., Uno sguardo sul restauro dagli anni ‘50 del Novecento a oggi, «Il Ponte». 10 (2011), pp. 92-116 (= in «Atti della ‘Giornata di studi in onore di Giorgio Torraca’», Città del Vaticano, 3 dic. 2012, c. st.); e in una mia convers. con Walter Conti e Enzo Tassinari, B.Z., Giovanni Urbani e la fondazione delle moderne foderature. Una conversazione con Walter Conti e Enzo Tassinari, «Bollettino dell’Istituto [centrale] del restauro», c.so st.. Ha studiato la figura di Urbani, parlandone nel solito modo intelligente e affettuoso, come lei è, Silvia Cecchini nella sua ‘tesi di dottorato’ discussa nell’a. acc. 2007-2008 (Storie di manutenzione del patrimonio culturale. Uso, valore, affezione, tutor il prof. Massimo Montella) e in La ‘apertura sul futuro’ della Teoria del restauro. La lezione di Brandi letta da Giovanni Urbani, in Arte e memoria dell’arte, Atti delle Giornate di studio (Viterbo, Università degli Studi della Tuscia, 1-2 luglio 2009) a cura di Maria Ida Catalano e Patrizia Mania, Gli Ori, Pistoia 2011, pp. 235-248. Racconta Giovanni Urbani nella vita il suo amico di sempre Raffaele La Capria, in L’estro quotidiano, Milano, Mondadori, 2005; Id., America 1957, a sentimental journey, Nottetempo, Roma, febb. 2009; Id., Un amore al tempo della Dolce Vita, Gransasso, Roma, ott. 2009 (gli ultimi due vol. sono dedicati, a stampa a Urbani: in part, nel secondo: «a Giovanni che ho cercato di far rivivere per non vederlo scomparire nel nero abisso dove finiscono tutte le stelle che brillarono, una volta», come La Capria scrive nel secondo dei due libri di ‘nottetempo’, p 7). Di passaggio cito infine la tesi di laurea discussa nel novembre del 2004 da Alfonsina Perrotta (Giovanni Urbani storico dell’arte, direttore dell’Istituto centrale del restauro. Un profilo biografico e bibliografico, anno acc. 2003/2004, Seconda Università di Napoli, Facoltà di Lettere, Corso di laurea in Conservazione dei beni culturali, Rel. R. Lattuada, Corr. R. Cioffi, [voll. I-II]). 2 - Una antologia degli scritti di ‘Urbani critico dell’arte d’oggi’, con annessa una bibliografia generale dei suoi scritti, in Per un’archeologia, cit. 3 - Su Urbani e Heidegger, cfr. B.Z., Il restauro, cit., in part. p. 25 ss.; G. AGAMBEN; Il Daimon, cit.; ID., Premessa. Attualità di Giovanni Urbani, in G.U. Per un’archeologia, cit., pp. 9-21, Per un’archeologia, cit., pp. 10-21; B.Z., Introduzione, ivi, 23-89: 33 ss.; G. TRAVAGLINI, Giovanni Urbani: pensare l’esperienza dell’arte in dialogo con Martin Heidegger, c.s. st. 4 - M. FOUCAULT, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane [1966], con un saggio critico di G. Canguilhem, trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano, 1967, p. 13; ma v. anche, sempre di Foucault, L’archeologia del sapere [1969], trad. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano, 1971. 5 - G. AGAMBEN, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 7-8 («Avvertenza»): p. 7 (la dichiarazione sul ‘debito’ da Foucault), p. 8 (la citaz. in infratesto). 6 - ID., L’uomo senza contenuto (1970), Quodlibet, Macerata 20055, p. 7. 7 - G.U., Per una archeologia, cit, p. 21. 8 - ID., G.U., La parte del caso nell’arte d’oggi (1960), «Tempo presente», 7 (1961), pp. 491-499 (= in, ID., Per un’archeologia, cit., pp. 93-107. Il saggio ebbe anche una edizione francese, Le rôle du hasard dans l’art d’aujourd’hui, «Diogène» 38 (AvrilJuin 1962), pp. 116-133) e una inglese, The Role of Chance in Today’s Art, «Diogenes» 38 (1962), pp. 112-130. 9 - La trad. in it. di questo ‘Manifesto’, si legge in M. DE MICHELI, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 322-343 («Primo manifesto del surrealismo»[1924]): 330 10 - La citaz. in F. ARCANGELI, Lo spazio romantico, «Paragone» 271 (1972), pp. 3-26: 9 (= in ID., Dal Romanticismo, cit., (vol. I), pp. 3-22: 8). 11 - G.U., La parte del caso cit., p. 492; (= in Per un’archeologia, p. 95). Il ragionare di Urbani appare in sintonia piena con la celebre conferenza di sulal tecnica tenuta da Heideggr a Monaco nel 1953, La questione della tecnica (1953), in ID., Saggi e discorsi (1954), a c. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27. 12 - G.U., La parte del caso cit., p. 493 (= in Per un’archeologia, p. 96). 13 - Ivi, p. 495 (= in Per un’archeologia, p. 100 s.). 14 - Tratto l’arg. anche nel mio Il restauro, cit., p. 146 ss.; su Brandi e l’estetica, cfr., ad es., E. GARRONI, Arte e vita. Note in margine all’estetica di C. Brandi, «Giornale Critico della Filosofia Italiana» 1 (1959), pp. 123-137; Brandi e l’estetica, «Supplemento degli Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo», a c. di L. Russo, Luxograf, Palermo 1986; M. CARBONI, Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte (1992), Jaca Book, Milano 20042; M. CORDARO, Intro-
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duzione, in C.B., Il restauro. Teoria e pratica, Ed. Riun., Roma, 1994, pp. XI-XXXVI; P. D’ANGELO, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia, Quodlibet, Macerata 2006. 15 - G.U., Il restauro e la storia dell’arte, «Bullettin du Ciha», II [avr.-ju.-sept. 1967 [‘Actes du XVIIIime Congrès International d’Histoire de l’Art (nr. spécial)], pp. 7-8; G.U., Intorno al restauro, a c. di B. Zanardi, Skira, Milano, 2000 (Il restauro e la storia dell’arte è qui alle pp. 15-18). 16 - G.U., Intorno, cit. Circa il mio ruolo di curatore del vol., fu lo stesso Urbani a affidarmelo negli ultimi tempi della sua vita. 17 - C.B., Il restauro dell’opera d’arte secondo l’istanza estetica o dell’artisticità, «Bollettino dell’Istituto centrale del restauro» 13 (1953), pp. 3-8: 3 (n.); l’ed. maior, C. BRANDI, Teoria del Restauro. Lezioni raccolte da L. Vlad Borrelli, J. Raspi Serra, G. Urbani, con una bibliografia generale dell’autore, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1963. Testimonianza diretta del farsi della Teoria rende Joselita Raspi Serra, che lo stesso Brandi chiamò per farsi aiutare nella redazione del volume, nel mio, Il restauro, cit., pp. 215-225. 18 - ID., C.B., Cosa debba intendersi per restauro preventivo, «Bollettino dell’Istituto Centrale del Restauro», 27-28 (1956), pp. 87-92. Perché citata subito sotto, nel testo, giudico ridondante indicare la collocazione dei 4 capp. di quella prima Teoria del restauro. 19 - ID., C.B., Una amicizia vera, pugnace, in Don Giuseppe de Luca. Ricordi e testimonianze, a c. di M. Picchi, Morcelliana, Brescia 1963, pp. 66-68: 67 sg. Come mi raccontò Urbani, il forzato abbandono dell’ICR da parte di Brandi fu causato dalla scoperta di alcuni ammanchi amministrativi con cui Brandi ovviamente nulla aveva a che fare: e non entro in ulteriori dettagli, ad es., i costi umani, altissimi, di contorno a questa vicenda. Sulla figura di Don De Luca, L. MANGONI, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1989. 20 - G.U. Il restauro, cit., p. 16. «Restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, è ripristinarlo in uno stato di completezza che può non essere mai esistito in un dato tempo», in Eugéne Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle, VIII (1866), pp. 14-34 (s.v. «Restauration»], ed. ant. a c. di 15; l’intera voce, in italiano, in Id., L’architettura ragionata. Estratti dal Dizionario, intr. e a c. di M.A. Crippa, Jaca Book, Milano 20022, pp. 247-272: 248. 21 - E. BUZZEGOLI, Relazione sul restauro del dipinto, in Il tondo Doni di Michelangelo e il suo restauro, Cat. della mostra, Firenze, Galleria degli Uffizi, dal 7 dic. 1985, Centro Di, Firenze, 1985, [«Gli Uffizi. Studi e Ricerche. 2» (1985)], pp. 57-70: 66. 22 - BRANDI, Teoria, cit., p, 102. 23 - Nel merito dell’influenza dei risultati estetici dei restauri sull’arte contemporanea, riferisco un aneddoto che devo all’amica Diana De Feo. Le raccontò anni fa l’attuale proprietario della «Malcontenta», l’architetto Antonio Foscari, che il definitivo passaggio dall’arte formale all’arte astratta di Mark Rothko si dovette a una permanenza dell’artista nella villa di Palladio subito dopo la seconda guerra mondiale. Rothko vi trovò le pareti orfane dell’originaria decorazione a fresco di Giovan Battista Franco e Giovan Battista Zelotti, perché strappata dai ladri nel periodo in cui la villa rimase abbandonata durante la guerra. Come sempre accade dopo uno strappo, sulle pareti erano tuttavia rimaste, le pallide impronte dei colori originali: nel caso quelli ancora sontuosamente caldi degli affreschi manieristi rubati. Ciò che, sottolinea Diana De Feo, rende non più misterioso il titolo dato nel 1947 da Rothko al suo primo quadro tonale: «Muro». 24 - Ivi, p. 57. 25 - S. CASSESE: I beni culturali da Bottai a Spadolini (1975), in L’Amministrazione dello Stato, a c. di S.C., Giuffrè, Milano, 1976, pp. 153-183:173); ma cfr. anche M.S. GIANNINI, La legge di tutela e il Ministero dei beni culturali (1990), in B.Z., Conservazione, restauro e tutela, Skira, Milano, 1999, pp. 81-86: 82; ID., La mancata tutela del patrimonio artistico, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2 (2011), pp. 431472: 450 ss. 26 - G.U., Restauro, conservazione, e tutela del patrimonio artistico (1989/90), in B.Z., Conservazione, restauro, cit., pp. 53-62: 61; ha posto Brandi la sua Carta del restauro del 1972 in appendice alla ristampa della Teoria del restauro realizzata da Einaudi nel 1977, pp. 131-154. 27 - ID., Il restauro e la storia, cit., p. 16. 28 - G.C. ARGAN, Restauro delle opere d’arte. Progettata istituzione di un Gabinetto centrale del restauro (1938), in MIBAC. UFF. STUDI, Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni trenta, a cura di V. Cazzato, introduzione di S. Cassese, Roma, ISPZ, 2001, (I), pp. 264-270; ma su questa vicenda cfr. anche B.Z., La La mancata, cit., p. 440 ss. 29 - Ivi, p. 18. 30 - Ho sottolineato spesso l’importanza del ruolo svolto da Rotondi all’Icr e del suo rapporto professionale e d’amicizia con Urbani, in part. v. la mia Introduzione, in G.U., Per un’archeologia, pp. 30 ss.; ma cfr. anche C. BON, Restauro made in Italy, Electa, Milano, 2006, pp. 59-96 («Varianti in corso d’opera: la direzione di Pasquale Rotondi [1961-1973]»).. Per un’ulteriore bibliografia su Rotondi, B.Z., Come nascosi in guerra per 5 anni, 3 mesi e 8 giorni 13 Tiziano, 17 Tintoretto, 4 Piero della Francesca e oltre 500 capolavori dei musei italiani, «Il Giornale dell’Arte» IX, 86 (febb. 1991). pp. 36-37; G. Di Ludovico, Urbino e Pasquale Rotondi (1939-1949), QuattroVenti, Urbino, 2009.
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路36路 Egnazio Danti, Aprutium, affresco, 1581. Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche
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«Ecce Homo» XIII-XIV SECOLO Affresco staccato, cm 135 x 105,5 x 2 Caporciano (AQ), Chiesa di Santa Maria Assunta, già nell’oratorio di San Pellegrino
L
Fig. 1. Affresco prima dell’intervento
’affresco, proveniente dalla Chiesa di Santa Maria Assunta a Bominaco, raffigura un Ecce Homo. Il Cristo è rappresentato frontalmente, sollevato dall'avello. Il capo reclinato e le chiome bionde che scendono sulle spalle sottolineano il pathos del momento. I tratti del viso, purtroppo, sono seriamente compromessi da una lacuna. E' possibile notare il tentativo della resa anatomica del corpo, nelle costole, nel ventre e nelle mani incrociate. Le stigmate e la ferita al costato sono ben rappresentate, in primo piano. L'evocazione della sofferenza è ribadita dalla corda annodata al collo del Cristo, un elemento ricorrente in molte rappresentazioni del medesimo tema iconografico, anche cronologicamente posteriori. Il riferimento è alla crocifissione, in particolare alla salita al Calvario. Infatti, nell'esecuzione della pena i condannati venivano legati tra loro con una corda stretta attorno al collo e alle mani. L'anonimo aguzzino, con il capo coperto da un elmo, stringe tra le mani l'estremità della corda ed è colto nell'atto di sollevare il flagello. E' disegnato con dimensioni ridotte rispetto alle altre due figure, in secondo piano, dietro il sarcofago, probabilmente per creare una sorta di resa prospettica a più piani, ingenua ed insicura. Tuttavia l'idea della terza dimensione è presente nella composizione del sepolcro: lo spazio è suggerito dalla forma trapezoidale della tomba, concepita con un'ardita visione frontale. La superficie del sarcofago è trattata con cura dall'artista: sui lati lunghi sono raffigurati racemi vegetali, sul coperchio sono visibili degli elementi decorativi geometrici, che, nella parte frontale del coperchio, suggeriscono la rappresentazione dei tre chiodi. I simboli della Passione, nella tradizione iconografica dell'Ecce Homo, sono considerati gli strumenti con cui Cristo ha sconfitto il male e hanno quindi un senso apotropaico. Di difficile riconoscimento è il santo con la spada, colto nell'atto di indicare Cristo. Si tratta di una figura, in primo piano, dalla veste a pieghe, con la capigliatura rifinita. La giovane età parrebbe escludere San Paolo e la mancanza di ulteriori attributi iconografici allontanerebbe anche l'ipotesi di un San Martino. Se, in definitiva, non abbiamo elementi sufficienti per restituire un'identità certa al personaggio, potremmo azzardare e considerare ipotesi plausibile quella dell'Arcangelo Michele. Egli suggerirebbe la figura di Cristo come “Salvatore delle anime”attraverso la Passione. In effetti ciò potrebbe trovare riscontro nel significato precipuo dell'iconografia dell'Ecce Homo, ovvero un'immagine legata all'ottenimento dell'indulgenza. Peraltro, San Michele, festeggiato tutt'oggi a Bominaco il 13 maggio ed eponimo di un eremo poco distante dal complesso abbaziale, è raffigurato, nell'atto di pesare le anime dopo la morte, anche negli straordinari affreschi dell' oratorio di San Pellegrino. Questo piccolo e prezioso edificio è, insieme alla Chiesa di Santa Maria Assunta, quanto resta dell'intero complesso abbaziale di Bominaco. Sebbene il livello pittorico dell'affresco in oggetto non può essere paragonato a quello della più celebre decorazione pittorica dell'oratorio, è evidente una vivacità culturale e una varietà iconografica tale da confermare il ruolo primario che l'abbazia doveva rivestire. Nel 1937 alcuni affreschi furono staccati da San Pellegrino al fine di riportare alla luce la stupefacente decorazione duecentesca. In
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questa occasione, i lacerti vennero posti nella Chiesa di Santa Maria Assunta e tutt'oggi qui conservati. Anche l'Ecce Homo è stato posizionato in questa splendida Chiesa romanica dell’ XI secolo che rappresenta un esempio eccezionale di architettura e arte benedettina. Ne sono testimonianza inoltre lo straordinario pulpito in marmo datato 1180, l'elegante cattedra vescovile e il ciborio che s’affiancano a lacerti d’affresco di varie epoche a con-
ferma di una vitalità continuata in tutto il Medioevo. Inedito ALESSANDRA GIANCOLA Bibliografia consultata DANDER 1979; BASCHET 1991; LUCHERINI 2000; DELLA VALLE 2006; Bominaco 2012.
Fig. 2. Particolari dell’affresco prima dell’intervento
INTERVENTO DI RESTAURO
I
l dipinto fu staccato da una parete dell’oratorio di S. Pellegrino per mettere in luce lo strato pittorico sottostante1. Era collocato su malta cementizia armata con rete in metallo, con telaio perimetrale in legno e traverse in ferro. Degli originari strati preparatori il dipinto conserva l’intonaco e intonachino. Lo strato di intonaco ancora presente è spesso circa un centimetro, ha colorazione grigia e composizione a base di calce e sabbia silicea. Lo strato superficiale, che accoglie la cromia (intonachino), si presenta molto liscio e compatto, ha granulometria estremamente fine e colorazione tendente al rosato-giallastro. Non si notano sovrapposizioni di “giornate”. L’intonachino sembrerebbe quindi steso e dipinto in un unico tempo. Il dipinto mostra i caratteri distintivi della tecnica dell’affresco. Le finiture a secco sono ormai quasi del tutto perse. I colori principalmente utilizzati sono: giallo, rosso, rosa, blu, verde, bianco, marrone e grigio. In alcuni punti, al di sotto della cromia, traspaiono impronte di cordino imbevuto di ocra rossa, utilizzato per tracciare alcune linee rette (si veda ad esempio la cornice colorata in rosso, bianco e giallo). Queste linee costituiscono i primi elementi di organizzazione dello spazio realizzati dal pittore. Anche la spada e il sarcofago sono stati eseguiti battendo prima il cordino imbevuto di ocra rossa. Il disegno preparatorio è visibile solo in alcune zone molto abrase (gambe e piedi del santo). In corrispondenza della mano sinistra del Santo si può osservare un pentimento dell’autore: il pollice,
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in origine dipinto rivolto in alto è stato poi ridisegnato piegato all’interno del palmo. Per tracciare la circonferenza delle aureole è stato utilizzato un compasso, con il quale sono stati tracciati due solchi paralleli sull’intonaco. Non sembrano presenti lamine metalliche. Sul fronte del sarcofago, sono stati rilevati alcuni tratti incisi (probabilmente un monogramma), che non sembra comunque pertinente alla fase di realizzazione dell’opera. Interessante la tecnica a spruzzo utilizzata per schizzare macchie blu scuro, rosse e bianche sul fondo grigio-blu del piano di base della composizione, in modo da suggerire un pavimento in porfido o forse un semplice acciottolato. Gli incarnati sono realizzati tramite campiture fluide di tonalità rosata di differente intensità, stese in modo da omogenizzare il passaggio di tono. In ultimo, con pennelli sottili e colori più densi sono stati tracciati contorni e dettagli delle figure e degli elementi della composizione, in nero, marrone, rosso, grigio e bianco. Il sarcofago, di colore rosa antico e rosso purpureo è stato eseguito in ultimo. La geometria descrittiva dell’oggetto mostra ancora una costruzione per piani di proiezione giustapposti. Il supporto era costituito da un telaio ligneo perimetrale provvisto di due traverse in ferro. Su questa struttura era fissata, con chiodi e filo di ferro, una rete a maglia esagonale in ferro zincato, immersa per circa un centimetro di profondità nella malta cementizia applicata sul retro dell’opera. Probabilmente, quando all’opera
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«Ecce Homo»
Fig. 3. Retro del telaio
Fig. 4. Opera a luce radente
distaccata dal muro venne applicato il supporto descritto, l’intonaco originale fu assottigliato e consolidato dal retro. Sul recto, una stuccatura in cemento grigio colmava lo spazio tra i bordi dell’affresco e la cornice lignea. Le traverse in ferro manifestavano un’avanzata ossidazione che aveva in parte macchiato la malta limitrofa. Gli strati preparatori mostravano una fitta e diffusa rete di fratture, ben evidenziate nelle fotografie a luce radente. Le aree perimetrali del dipinto e quelle in corrispondenza delle principali lacune mostravano anche fenomeni di microfratturazione e riduzione dell’intonaco in piccole isole poco adese al substrato. Con ogni probabilità la fratturazione così estesa degli strati preparatori è da imputare al trauma meccanico subito dall’affresco al momento del distacco dalla parete. La tecnica di stacco prevedeva infatti l’inserimento di lame metalliche (dette anche “lance”) tra muro e dipinto, appena dietro l’intonaco, che venivano usate come leve per separare l’intonaco dal muro. Assenti invece fenomeni di decoesione della struttura cristallina degli strati preparatori o distacchi dell’intonaco dal supporto apposto nel vecchio intervento. Numerosissime le stuccature presenti, di differenti tipologie. Le crepe e le microlacune erano stuccate con gesso, ben lisciate e integrate a tempera. Alcune lacune di maggiore ampiezza (ad esempio quelle sui volti del Cristo e del Santo) erano invece stuccate con una malta grossolana a base di calce e sabbia (e anch’esse ritoccate a tempera); va poi annoverata la stuccatura perimetrale con
malta a base cementizia, liscia e di colore grigio. In molti tratti le stuccature sbordavano sull’intonaco coprendo la cromia originale. Uno strato diffuso di polvere e depositi incoerenti ottundeva le superfici. Al di sotto di questo strato superficiale, sono state evidenziate aree coperte da veli di carbonati. Lacune di pellicola pittorica, più o meno ampie, erano dislocate su tutta la superficie e, in molti casi, lasciavano trasparire il colore giallo-rosato dell’intonachino integro. I rossi e i gialli mostravano lievi fenomeni di decoesione, frequenti nei pigmenti a base di ossido di ferro come le ocre. Per il resto la pellicola pittorica si presentava coerente, anche se opacizzata. Numerose le abrasioni e le cadute di pellicola pittorica. Alcuni colori, quale ad esempio il verde del risvolto interno dell’abito del santo, sono in parte persi e traspare la stesura sottostante. Particolarmente abrasa è anche la cornice dipinta, il manto e i calzari del Santo, il fondo e la pavimentazione. Sul volto e sulle mani del flagellatore sono osservabili incisioni intenzionali volte a deturparne la figura. La pellicola pittorica era diffusamente ritoccata in modo mimetico con colori a tempera, stesi sia sulle zone stuccate che direttamente sull’intonaco, come ben evidenziano le foto ai raggi UV ante operam. Molte ridipinture erano anche facilmente individuabili a luce visibile, poiché alterate nei toni. La sostituzione del supporto è stata dettata principalmente dall’esigenza di eliminare le sbarre di armatura e la rete metallica, che avevano prodotto ossidi di ferro. In questa fase è stata anche
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rimossa la malta cementizia di restauro in modo da eliminare una fonte di sali solubili pericolosa per l’opera. Dopo una pulitura preliminare, la pellicola pittorica è stata protetta con garza di cotone adesa con polimer acrilico, in modo da poter ribaltare il dipinto sul piano da lavoro e operare in sicurezza sul retro2. Sono state rimosse quindi: le sbarre in ferro ormai ossidate, il telaio perimetrale in legno, la malta di restauro posta sul retro e la rete metallica di armatura. Raggiunto il retro dell’intonaco originale è stata applicata una garza in cotone e una malta livellante a base calce, sabbia e vermiculite3. Per il nuovo supporto è stato scelto un materiale composito a base di alluminio e vetroresina4. E’ stato inoltre creato uno “strato di intervento” tra il nuovo supporto e la materia originale in modo da garantire il principio di reversibilità e facilitare eventuali futuri interventi. La storia del restauro infatti insegna che nessun intervento può considerarsi definitivo. Per lo strato di intervento è stato utilizzato un polimero espanso in fogli5. L’affresco è stato anche dotato di un listello “salvabordo” (spesso
circa un centimetro), quale precauzione doverosa, al fine di evitare durante la movimentazione il danneggiamento dei bordi in malta. Al termine di questa fase il dipinto è stato ribaltato e gli strati di velinatura sono stati rimossi con solvente6. La rimozione dei prodotti di degrado, delle stuccature e dei ritocchi è stata effettuata in parte prima della velinatura (prepulitura) ed in parte dopo (rifinitura della pulitura). Nella prima fase l’intonaco e intonachino sono stati liberati, tramite bisturi, da tutte le stuccature realizzate nei precedenti restauri con gesso, cemento o calce, eliminando così anche le vecchie ridipinture. Lungo i bordi sono state effettuate infiltrazioni di resina acrilica in dispersione acquosa, al fine di evitare la perdita di frammenti di intonachino7. Dopo il rifacimento del supporto sono stati rimossi tutti i residui di malta cementizia ancora presente sui bordi, che coprivano parte della pellicola pittorica. Le zone interessate da veli carbonatici sono state pulite utilizzando resine a scambio ionico8 e impacchi di sali solubili9. La pulitura degli strati carbonatici è stata rifinita puntualmente tramite bisturi e matita in fibra di vetro. Dopo la pulitura, la cromia e la leggibilità generale dell’opera è notevolmente migliorata. Rimangono alcuni veli di carbonati, in particolare sui fondi blu e rossi, che attutiscono un po’ i toni originali. Si tratta di strati di qualche micron di carbonato calcio che abbiamo assottigliato, ma non totalmente rimosso, poiché tale velo sottilissimo di carbonati collabora alla stabilità della pellicola pittorica, che come noto nella tecnica ad affresco è essa stessa costituita da un reticolo di carbonato di calcio che ingloba i pigmenti. La fascia perimetrale priva di intonaco originale e la ampie lacune che interessano i volti del Cristo e del Santo sono state reintegrate con una malta a base di calce aerea ed inerti di granulometria e colore simile agli strati preparatori originali10. Per la lacune di minor entità è stata utilizzata una malta a base di grassello e inerti sottili11. Queste ultime sono state integrate negli strati pittorici con la tecnica del tratteggio verticale, in modo da rendere riconoscibile l’intervento. Le numerose abrasioni sono state trattate con leggere velature di colore12. FABIANO FERRUCCI ADRIANA ALESCIO
Note tecniche: 1 - Tecnicamente si tratta di uno stacco. Infatti, in relazione alla profondità in cui si opera la separazione tra la pittura e il supporto si distinguono tre tecniche di intervento molto in uso in passato: • stacco a massello, consiste nel rimuovere la pittura con la totalità dell’intonaco e tutto o in parte il supporto; • stacco, ovvero la rimozione della pittura con gli strati d’intonaco immediatamente sottostanti; • strappo, permette la rimozione della sola pellicola pittorica. 2 - La velinatura è stata realizzata sovrapponendo due strati di tela: un primo strato di velatino in cotone a trama larga applicato a rettangoli di 20x30 cm mediante un adesivo acrilico (Paraloid B-72 in dimetiletilchetone al 20%); un secondo strato di tessuto in cotone a trama fitta, applicato in bende di 40x30 cm, adese con il medesimo prodotto. L’operazione è stata eseguita previo lavaggio e stiratura dei tessuti impiegati. 3 - La vermiculite è un materiale derivante da una mica idrata che viene estratta da miniere e viene successivamente espansa mediante procedimento termico. I micropori danno alla vermiculite espansa un basso peso specifico. La composizione della malta è: calce idraulica, sabbia grigia a granulometria fine, vermiculite in rapporto 1:1:2, con aggiunta di 1% di polimero acrilico in emulsione. 4 - Il nuovo supporto è un pannello con queste caratteristiche: il rivestimenti esterno è in tessuto in fibra di vetro bidirezionale del peso di 500 g/m²; il tessuto ha uno spessore di 0,5 mm ed è impregnato con un adesivo epossidico autoestinguente; la struttura in-
terna è alveolare a nido d’ape in alluminio con celle da 9,52 mm. Le proprietà principali che ne rendono ottimale l’utilizzo come supporto per dipinti murali staccati sono: planarità e leggerezza, l’elevata resistenza agli sforzi di taglio e di flessione; ottima resistenza alla compressione; ottima stabilità e resistenza agli agenti atmosferici. 5 - Il materiale, denominato cadorite, è un pannello in cloruro di polivinile espanso a cellule chiuse, stabile e non infiammabile. Per l’adesione è stata utilizzata Resina Epossidica bicomponente Epo 121 e specifico indurente K 122 rapporto in peso 20%. 6 - Dimetiletilchetone. 7 - E’ stato utilizzata resina acrilica in dispersione acquosa Primal B60 A al 10% v/v in acqua. 8 - Resine a scambio ionico di tipo cationico con azione decarbonatante. 9 - Composizione miscela: 30 g Carbonato d’Ammonio, 25 g E.D.T.A. (sale bisodico dell’acido etilendiamminotetracetico), in 1lt di acqua supportato da polpa di cellulosa con tempi di contatto di 15 minuti. 10 - Composizione della malta: sabbia grigia, marmo Botticino, marmo giallo e calce idraulica in rapporto 1:1,5:0,5:1 con l’aggiunta di emulsione di polimero acrilico al 2% in soluzione acquosa. 11 - Malta per le stuccature: Carbonato di Calcio, marmo Botticino e grassello in rapporto 1,5:1,5:1. 12 - Sono stati utilizzati colori ad acquerello Windsor&Newton nella gamma dei colori stabili per restauro.
Fig. 5. Particolare del volto del Santo in fluorescenza
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Fig. 6. Particolare del flagellatore prima e dopo il restauro
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«Compianto ai piedi della Croce» Madonna dolente FINE DEL XV SECOLO SCULTORE ATTIVO IN AMBITO ADRIATICO Legno di pioppo scolpito e dipinto, cm 36 x 50 x 172 Popoli (AQ), chiesa di San Francesco
San Giovanni Evangelista FINE DEL XV SECOLO SCULTORE ATTIVO IN AMBITO ADRIATICO Legno di pioppo scolpito e dipinto, cm 36 x 50 x 177 Popoli (AQ), chiesa di San Francesco
Cristo in croce FINE DEL XV SECOLO SCULTORE ATTIVO IN AMBITO ADRIATICO Legno di pioppo scolpito e dipinto, 145.5 x 217 cm Popoli (AQ), chiesa di San Francesco
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Fig. 1. Cristo in Croce prima del restauro
e tre sculture appartengono allo stesso gruppo raffigurante il Compianto ai piedi della Croce, collocato nel terzo ‘cappellone’ del lato sinistro, dove ancora tra il 1829 e il 1836 risulta attestato un altare dedicato al Crocifisso sotto il patronato di Don Domenico Carusi. Le prime due propongono la Vergine Addolorata e San Giovanni Evangelista, colti di tre quarti e rivolti verso il Cristo Crocifisso che è collocato al centro, appena più in alto. Realizzate ciascuna da unico segmento di tronco, appaiono piuttosto esili e allungate, e scolpite con una puntigliosa cura dei dettagli, come ad esempio le capigliature. Eccentriche rispetto al panorama della scultura lignea non solo abruzzese tra Gotico e Rinascimento, evidenziano nei corpi un linearismo deciso, elegante e tormentato, quasi ascetico, lasciando affiorare nelle fisionomie aspre, determinate da una certa durezza dei lineamenti, di Maria dolente e di San Giovanni Evangelista, accenti cupi e severi i quali ben trasmettono la dimensione tragica del dolore, bloccata tra disincanto e sofferenza. Ciò sembra come contrastare con la posizione dei piedi che in entrambe le figure è restituita in termini dinamici e sembrerebbe quasi accennare passi di danza. Con enfasi più naturalistica è invece definita l’anatomia del Cristo in croce, caratterizzato da solchi bluastri che simulano le piaghe del flagello. Pervenuto in cattivo stato di conservazione, cui il restauro (cfr. infra) ha posto rimedio, il gruppo scultoreo, già profondamente alterato a causa delle pesanti vernici brune che lo ricoprivano, ha goduto una modesta attenzione da parte della critica fino a tempi molto recenti. La scarna bibliografia, spesso limitata a sintetiche osservazioni, parte dai cenni, brevi e alquanto generici, forniti dalla storiografia locale, che qui ripropongo a beneficio del lettore, attingendo al testo compilato in occasione della mostra Il Rinascimento danzante Michele Greco
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Compianto ai piedi della Croce
da Valona e gli artisti dell’Adriatico tra Abruzzo e Molise (2011). In quella esposizione, presso il Castello Piccolomini di Celano, le due sculture laterali sono state collocate a fianco al più tardo dei due polittici eseguiti da Pietro Alamanno per Valle Castellana (Giancola 2011, pp. 50-51, con bibl. precedente), contribuendo a confermare la datazione sul cadere del Quattrocento, per le stringenti analogie di gusto e di stile. In pittura e scultura le stesse pieghe segmentate che s’intersecano descrivendo geometrie, lo stesso sentimento contrito nei confronti della rappresentazione di un tema sacro, sembrerebbero confermare un’ipotesi già abbastanza accreditata, che in Abruzzo tende ad ascrivere in questi anni opere d’arte di tecniche diverse a una stessa bottega. Il Compianto è citato per la prima volta nelle Memorie storiche di Popoli fino all’abolizione dei feudi di Alfonso Colarossi Mancini, che peraltro rivela di non essere a digiuno di storia dell’arte nel commentare la facciata della Chiesa di San Francesco, impreziosita da uno straordinario rosone e da notevoli sculture in marmo. Come “degno di nota” in questa chiesa, lo studioso indica il “gruppo di tre statue in legno, pregevole lavoro, eseguito probabilmente ai principi del XVI secolo (1911, p. 230). A sua volta Zaccaria Setta (1926 p. 92) segnala nella Cappella del Crocifisso le tre figure datandole alla fine del 1400. “L’atteggiamento di esse, pieno di misticismo, la cura scrupolosa dei più minuti particolari, dalle pieghe e dagli svolazzi dei panneggi, alle crespe dei visi dolenti, ai rilievi dei muscoli tesi nello spasimo, fanno testimonianza che l’autore, a noi ignoto, ebbe molta perizia della sua arte”. Non si discosta Fernando Damiani (1957, p.161), che chiosa: “La composizione di tale mirabile opera si fa risalire alla fine del XV secolo, ed è di valore incalcolabile. Ignoto rimane l’autore, il quale ha curato il capolavoro in ogni particolare che vanno dall’atteggiamento pio delle figure, alle pieghe delle vesti; dall’espressione dei volti al rilievo dei muscoli tesi nello spasimo”. Le prime sintetiche osservazioni sull’opera in una pubblicazione non di carattere prettamente locale si devono a Maria Laura Ajmola, la quale sottolinea innanzitutto come, nella guida rossa del Touring Club Italiano, unica bibliografia precedente da lei citata, il San Giovanni Evangelista sia erroneamente identificato con la Maddalena. A suo avviso il Compianto di Popoli è estraneo alla produzione abruzzese, mentre può essere utilmente messo al confronto con la Madonna adorante conservata al Bargello a Firenze, ma proveniente da S. Genesio presso Macerata (Carli 1960, p. 104, fig. CXIX), e quindi riconducibile alle esperienze umbro-marchigiane. A suo dire in “quest’opera ritroviamo, con le stesse forzature impressionistiche … lo stesso modulo elegantemente allungato del volto, l’alta fronte bombata e la minuziosa cura posta nel delineare la capigliatura”. Di parere diverso è Stefano Gallo che collega l’opera alla cultura veneta. Il gruppo “rinvia ad un allievo di Antonio Rizzo per l’impostazione dinamica delle figure e il panneggio a nervature tese che aderendo al corpo ne caricano d’energia l’articolazione. Il San Giovanni, in particolare, ripete le soluzioni di Rizzo anche nel modo disuguale di impostare i piedi a terra per farne risultare lo sviluppo dei mo-
Fig. 2. San Giovanni Evangelista prima del restauro
Fig. 3. Madonna dolente prima del restauro
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vimenti contrastanti del corpo” (DAT, II, 2, p. 563). In effetti non si può negare che nella nostra opera affiori, ma in termini incredibilmente più schietti, quel naturalismo espressivo, ancora di ascendenza gotica, che sembrerebbe la cifra peculiare di questo magistrale interprete della scultura veneziana della seconda metà del Quattrocento. Ciò che maggiormente colpisce nelle due figure è però la costruzione che qui non avviene per masse alla ricerca delle corrette proporzioni, inseguendo un’idea di rinascimentale armonia, bensì per linee che cadono fluide intrecciandosi in serrate geometrie per avvolgere i corpi. Sin dal primo impatto nel laboratorio di restauro a Urbino, le due sculture del Compianto mi sono subito sembrate totalmente in linea con il tema di questa mostra in fase di preparazione, orientando verso una possibile provenienza balcanica, da quei territori dell’altra sponda dell’Adriatico, da collegarsi forse proprio al clima culturale di quell’Albania ‘veneta’ in anni appena precedenti la conclusione del sogno progressista di Giorgio Castriota Scandberg nel 1479. Mentre si lascia aperta questa pista di ricerca non facile da perseguire a causa della successiva furia iconoclasta, va qui sottolineato che significativo è stato l’esodo da quelle terre verso la sponda opposta dopo la diaspora turca. Pertanto, se si riflette a fondo, non è neanche tanto strano trovare un’opera così eccentrica proprio a Popoli, dove anzi questo sconosciuto maestro sembrerebbe aver esercitato la propria arte in sintonia con il territorio stesso. Difatti il suo naturalismo, lineare e contorto, pare quasi evocare lo scorrere lento dei fiumi, l’Aterno e il neonato Pescara, che qui confluiscono correndo verso l’Adriatico, e voler restituire forme concrete a quel vento, descritto dal poeta e umanista Giovanni Pontano, che contribuiva a creare favorevoli condizioni climatiche soffiando regolarmente quasi ogni giorno alle stesse ore, tanto da essere definito marea aerea e considerato positivamente perché “ tende alla conservazione degli abitanti e alla perfezione de’ vegetali e de’ loro frutti” (Torcia, cit. da Ghisetti Giavarina, p. 25). Battezzata la “Chiave dei tre Abruzzi”, la cittadina è peraltro ubicata in una posizione strategica, alla confluenza tra la via degli Abruzzi, che portava a Napoli o in direzione nord verso L’Aquila, Perugia e Firenze, e la via Valeria che da Roma portava all’Adriatico. Fiorenti erano i commerci, tant’è che presso la Taverna Ducale, eretta da Giovanni I Cantelmo nel 1377 e utilizzata come stazione di posta, locanda e magazzino, si raccoglievano le “decime” di spettanza del feudatario e i dazi per chiunque entrasse nella Valle Peligna. L’attività imprenditoriale s’avvantaggiava del fatto che il fiume Pescara, le cui sorgenti sono proprio a Popoli, era un fiume navigabile. Agevolando i commerci, permetteva quindi il transito delle merci importate e scambiate con i prodotti locali, in particolare il vino della valle peligna (Ghisetti Giavarina). Nel 1453 l’umanista Flavio Biondo (ed. 1524, p. 117) presentava Popoli come centro “nobilissimo” per la natura del luogo, per le fortificazioni e per essere frequentato dal popolo. Vi si trovava il primo ponte sull’Aterno, mentre le mura costruite sulle due sponde formavano una barriera unitissima perché posta in un territorio molto montagnoso. Soprattutto gli anni dal 1460 al 1487 in cui Giovanni Cantelmo è stato
conte di Popoli hanno rappresento per la cittadina, che allora contava ben mille abitanti, un tempo di rilancio anche grazie all’ampliamento del palazzo, detto poi ducale, che sorge nella piazza del Mercato, sul lato opposto rispetto alla chiesa di San Francesco. In quel periodo Popoli è visitata tra gli altri da Alfonso, duca di Calabria, figlio del re Ferrante d’Aragona, nel corso dei suoi viaggi in quegli Abruzzi, resi ricchi anche dalla mena delle pecore. Fin dal 1474 scendevano dall’Abruzzo verso le Puglie un milione e settecentomila pecore, oltre gli animali grossi (Silla 1738, p. 34). Non è quindi un caso che a Popoli, alcuni decenni più tardi sorse il più grande lanificio del Regno, fatto costruire da Giovannella Carafa, vedova di Restaino Cantelmo, il settimo conte di Popoli barbaramente ucciso nel 1514. A beneficio delle attività che si svolgevano nello stabilimento erano state addirittura incanalate le acque del San Callisto, e propriamente il ramo sinistro del fiume detto delle Pagliare (Popoli 1901, p. 11). Ben poco resta oggi del ricco patrimonio d’arte che di certo Popoli poté vantare nella sua stagione d’oro. La stessa chiesa di San Francesco, sgomenta per la povertà dell’interno che s’apre dietro la straordinaria facciata. L’unica testimonianza artistica degna di qualche attenzione è un altro episodio della passione di Cristo. Il tema di Gesù deposto abbracciato dalla Madre, dinanzi all’ingresso del sepolcro, con la Maddalena e San Giovanni Evangelista in preghiera, è liberamente sviluppato in un affresco, variamente, (ma sarebbe meglio dire vanamente!) attribuito a Giovanni da Sulmona e a Paolo da Montereale, dai citati studiosi locali. Coevo o di poco successivo al Compianto, di recente l’opera è stata oggetto di un intervento di restauro, che ne permette oggi una migliore lettura. Mentre le linee fluenti e un’analoga tendenza a una semplificazione geometrica dei piani sono proprie sia di quest’affresco sia di certa produzione di derivazione ‘crivellesca’, come ad esempio il polittico di Santa Rufina di Pietro Alamanno (scheda 4), in special modo si possono confrontare le stesse pieghe fitte del perizoma di Gesù crocifisso, con quelle del panno che cinge il Cristo che accompagna le nostre sculture, un’opera che “colpisce per l’intensità del dolore che scava il volto di Cristo e per la proprietà del panneggio lieve … mentre l’Addolorata ha il volto assorto in un’angoscia indicibile che si fissa nei solchi della fronte invecchiata.” (Di Donato). Curiosamente la medesima espressione ‘dura’ e i medesimi lineamenti tesi sono propri dell’angelo annunziante raffigurato in un altro affresco, in Santa Maria di Propezzano, datato 1499 (Pavone 1986, in DAT II, 2, p. 415-430). Il riconoscimento dell’essenza con lo schema dicotomico effettuata in occasione del restauro ha permesso di rettificare la natura del legno che non è ulivo, bensì pioppo. LUCIA ARBACE Bibliografia COLAROSSI MANCINI 1911, p. 230; ZETTA 1926, p. 92; DAMIANI 1957, p. 161; AJMOLA 1984, pp. 53-54; GALLO in DAT II, 2 p. 563; DI DONATO 2003, V; GHISETTI GIAVARINA, pp. 52-53; ARBACE 2011, pp. 52-55.
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INTERVENTO DI RESTAURO
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e sculture sono realizzate in legno di pioppo, un’essenza lignea di colore chiaro, a massa volumica non particolarmente densa. Sul corpo centrale, ricavato da un unico tronco e modellato con appositi strumenti, sono innestate le braccia del Cristo e le mani di entrambi i dolenti. Il tronco della Madonna e del San Giovanni Evangelista è stato svuotato delle parti interne, mediante l’utilizzo di un’ascia, di cui sono riconoscibili i segni lasciati. Tale svuotamento è stato eseguito, sia per ridurre al massimo i ritiri tangenziali del legno durante la stagionatura, sia per alleggerire le statue durante il trasporto, poiché la destinazione culturale della maggior parte di esse poteva prevedere degli spostamenti. In corrispondenza della calotta cranica di entrambi i dolenti è, infatti, presente un largo foro a sezione circolare, probabile sede dell’asse di sostegno del tronco in fase di svuotamento, tamponato poi con un inserto della stessa specie lignea. Questa tamponatura, così come diverse fenditure del legno sono state coperte con strisce di tela, probabilmente di lino, al Fig. 4. Madonna dolente prima e dopo il restauro fine di diminuire le variazioni dimensionali dovute ai cambiamenti termo igrometrici. La preparazione delle sculture è piuttosto sottile e di colore chiaro, composta da gesso di Bologna e colla di origine animale, ad esclusione del manto azzurro della Madonna dove è emersa la presenza di un’ulteriore strato preparatorio di colore rosso per far probabilmente risaltare il pigmento blu del manto. Anche la pellicola pittorica a tempera è sottile, omogenea e ben adesa allo strato preparatorio. Particolare è la tecnica esecutiva degli incarnati bruni delle sculture, che presentano effetti di chiaroscuro, e delle vene ben visibili lungo tutto il corpo del Cristo, realizzate in rilievo e dipinte con un pigmento verde molto corposo. Su queste è stato steso il colore dell’incarnato che conferisce per trasparenza un naturalistico effetto
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bluastro. Anche i rigagnoli di sangue, sempre del Cristo sono stati eseguiti in rilievo e rifiniti con un pigmento rosso. Sui basamenti originali della Madonna e del San Giovanni Evangelista sono state individuate inoltre tracce di doratura a bolo. Il supporto originale delle sculture è apparso in buono stato; l’attacco di insetti xilofagi visibili dai fori di sfarfallamento, nel complesso, è da considerarsi di lieve entità. E’ stata riscontrata la presenza di alcune fessurazioni, in particolare al centro della parte anteriore del perizoma del Cristo e sul retro della testa della Madonna dolente, riconducibili a movimenti di ritiro del tronco in fase di stagionatura, e da una mancanza del supporto della parte posteriore della testa della Madonna. Il capo di San Giovanni Evangelista è stato interessato da una sconnessura di media entità che ha causato, alla base del collo, un leggero dislivello. Il braccio destro del Cristo era mobile e sconnesso, mentre erano parzialmente o completamente mancanti tutte le dita delle mani, ad eccezione del dito indice della mano destra. La corona sul capo del Cristo inoltre conservava ancora solo poche spine. Le mani giunte della Madonna, ricavate da un unico pezzo, erano staccate all’altezza dei polsi e sostenute dai due perni lignei. Gli strati preparatori e la pellicola pittorica complessivamente, risultavano in un discreto stato di conservazione, ad eccezione delle abrasioni della pellicola pittorica presenti prevalentemente sul corpo ed il perizoma del Cristo e sul manto rosso del San Giovanni Evangelista e della leggera crettatura da essiccamento con andamento reticolare, in corrispondenza del manto e dei piedi del Santo. Inoltre erano presenti dei difetti di adesione e delle lacune degli strati preparatori in corrispondenza della parte inferiore del manto rosso, dei piedi e del collo del San Giovanni Evangelista, del manto azzurro
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Compianto ai piedi della Croce
Fig. 5. Particolare del busto del Cristo prima e dopo il restauro e nella fase di pulitura
della Madonna e della corona di spine del Cristo. Il gruppo scultoreo, nel corso dei secoli, è stato oggetto di una serie di rimaneggiamenti che ne hanno alterato la policromia originaria. Infatti, le tre sculture risultano integralmente ridipinte, in alcuni punti a più riprese. Lo splendido e brillante azzurro originale della veste della Madonna era stato coperto con uno strato di colore grigio vagamente azzurrognolo, mentre la veste del San Giovanni Evangelista era stata ridipinta in grigio-verde e in rosso cupo su un verde-nero e su un rosso brillante. Gli incarnati di entrambi i dolenti avevano subito anch’essi due interventi di ridipintura, il più recente di colore rosa più chiaro di quello originale. Il corpo del Cristo presentava due strati di ridipintura rosa sulla pellicola pittorica originale bruna, così come il perizoma era stato anch’esso ridipinto in bianco con striature scure sul bianco uniforme originale. Sulla corona di spine è stato inoltre trovato uno strato di porporina gialla a imitazione dell’oro. Su tutti gli elementi costituenti il Gruppo è stata infine stesa una vernice di finitura, volutamente scura. Le due sculture dei dolenti, pensate originariamente per una collocazione a parete1, sono attualmente ancorate ad un basamento non originale, in nudo legno molto più largo e squadrato dei basamenti antichi, mediante tavole e chiodi, che consente alle due figure di tenersi solidamente in piedi senza l’ausilio di altri sostegni. La Croce del Cristo, così come il sistema di ancoraggio del corpo alla Croce, non sono certamente pertinenti alla fase originaria. Quest’ultima presenta una sottile policromia a finto legno su strato preparatorio bianco, facilmente riconducibile all’ultima fase di ridipintura delle sculture. Il cartiglio recante la scritta INRI è invece antico, probabilmente ricollocato sulla nuova Croce e poi ridipinto. L’intervento di restauro è stato suddiviso in diverse fasi: una fase di
risanamento del supporto e di consolidamento degli strati preparatori, una fase di pulitura, stuccatura e reintegrazione pittorica ed una fase di disinfestazione dagli insetti xilofagi. In seguito ad una preliminare rimozione meccanica dei depositi incoerenti mediante pennellesse e aspiratore, si è proceduto, su tutte le sculture che necessitavano di tale operazione, al ristabilimento dell’adesione dei sollevamenti degli strati preparatori con l’utilizzo di una resina polivinilica2 per i sollevamenti di piccola entità, e con una resina acrilica diluita in acqua3 per i distacchi di media e grave entità. Per i distacchi invece della tela dal supporto si è reso invece necessario l’impiego di una resina acrilica in emulsione4 pura. Inoltre è stato eseguito il consolidamento delle fratture del supporto, presenti nella zona del collo e della spalla di San Giovanni Evangelista, mediante infiltrazioni di una resina vinilica diluita in acqua5. Successivamente si è provveduto su tutte le opere del gruppo scultoreo alla rimozione della vernice e degli strati di ridipintura. La vernice scura è stata rimossa con una miscela solventi6 supportata con un’emulsione cerosa, per permettere un’azione più controllata ed un contatto migliore del prodotto; gli eventuali residui sono stati rimossi a tampone con la stessa miscela solvente. Si è così proceduto con la rimozione degli strati di ridipintura, in seguito a diverse prove, differenziando la pulitura in base alle sostanze da rimuovere e al loro spessore e alla sensibilità ai solventi degli strati originali. Gli strati dei depositi parzialmente coerenti, presenti sui capelli del Santo sono stati asportati con un gel chelante, mentre ridipinture sono state rimosse con solventi polari supportati in gel con tempi di contatto che variavano in base allo spessore delle ridipinture, e successivamente rifinite meccanicamente con un bisturi a lame intercambiabili.
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Compianto ai piedi della Croce
Fig. 6. San Giovanni Evangelista prima e dopo il restauro
In alcune zone delle sculture si è proceduto diversamente. Sulla parte anteriore del perizoma, sul volto e le vene del Cristo, poiché lo strato originale risultava essere molto sottile, si è preferito procedere solamente con rimozione meccanica a bisturi, invece lo strato di porporina presente sulla corona di spine del Cristo è stato rimosso con un solvente polare in gel7. Infine per la pulitura della doratura presente sul basamento originale delle due sculture è stata utilizzata un’emulsione grassa8. Per quanto riguarda la Croce si è proceduto, in accordo con la Direzione Lavori, alla rimozione solamente dello strato di vernice scura per mantenere lo strato pittorico non originale. E’ stata quindi effettuata solamente la rimozione meccanica degli strati di ridipintura del cartiglio, unico elemento originale della Croce. I ferri, anch’essi non originali, ma ormai pertinenti all’opera, sono stati trattati
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con un prodotto antiruggine9 e protetti successivamente con uno strato di resina acrilica in soluzione10. Al termine delle operazioni di pulitura le sculture sono state trattate con una verniciatura preliminare eseguita a pennello con una vernice diluita11 per proteggere ed isolare gli strati originali. Prima di procedere con la fase della reintegrazione pittorica su tutte le opere del gruppo scultoreo si è provveduto al risanamento della sconnessura tra il braccio destro del Cristo con la rimozione dei chiodini industriali e tra le mani e le braccia della Madonna ripristinando il sistema di imperniatura originale. Inoltre si è provveduto al risanamento della parte mancante sul retro della testa della Madonna mediante l’inserimento di un tassello di risanamento. L’inserto è stato creato utilizzando dei listelli di legno di tiglio, ponendo l’attenzione a far coincidere la parte radiale del legno con l’esterno
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Compianto ai piedi della Croce
Fig. 7. Madonna dolente vista del retro
Fig. 8. Test di pulitura della veste e rimozione dello strato di vernice scura dal volto di San Giovanni Evangelista
della fessura, per garantire in questo modo maggiore stabilità e riducendo così i movimenti causati dalle variazioni termoigrometriche. Modellati e ben levigati, i tre tasselli sono stati incollati al supporto con una resina vinilica12 e regolarizzati gli eventuali vuoti con una stuccatura di polvere di legno ed una resina acrilica in soluzione. Le stuccature del supporto, presenti in diverse zone del gruppo scultoreo e le ricostruzioni delle parti lignee mancanti, in particolare in corrispondenza della testa e del basamento del San Giovanni Evangelista, sono state eseguite con una resina epossidica bicomponente13 adatta per le stuccature e ricostruzioni delle parti lignee, poiché ha un’ottima consistenza e una giusta plasticità e inoltre imita fedelmente la colorazione del legno. Le lacune degli strati preparatori e della pellicola pittorica, che avrebbero influito negativamente sull’aspetto estetico delle opere, invece sono state risarcite con gesso di Bologna e colla animale. La reintegrazione pittorica è stata eseguita con i colori ad acquerello,
procedendo a tono mimetico sulle lacune di modeste dimensioni e ad abbassamento di tono sulle zone abrase al fine di restituire l’unità di lettura cromatica delle opere. L’equilibratura cromatica generale invece è stata effettuata con i colori a vernice. La verniciatura finale delle opere è stata infine eseguita a spruzzo con una vernice semilucida14. Al termine dell’intervento è stata effettuata la disinfestazione da insetti xilofagi per anossia. Il Cristo è stato fissato sulla Croce con il sistema di ancoraggio a noi pervenuto e le sculture delle due dolenti sono state infine riposizionate sul basamento in legno non originale con un ancoraggio più stabile e più sicuro del precedente, per consentire una stabilità alle opere durante il periodo di esposizione alla mostra. Successivamente le opere verranno ricollocate nella chiesa di appartenenza, valutando se ripristinare o meno la loro collocazione originaria a parete. ARABELLA BERTELLI DE ANGELIS CRISTINA CALDI FRANCESCA MARIANI
Note tecniche: 1 - Alcuni fori presenti sulle figure dei dolenti, oltre alle esigue dimensioni del basamento originale, fanno pensare a una possibile collocazione originaria a parete. 2 - Gelvatol diluito al 20% in acqua e alcool etilico. 3 - Acril 33 diluito al 50% in acqua. 4 - Acril 33 puro. 5 - Vinavil diluito al 75% in acqua. 6 - Metiletilchetone e Alcool isopropilico al 50%. 7 - Acetone in gel.
8 - L’emulsione grassa è composta da 90 ml di solvente apolare (Ligroina), 10 ml di acqua deionizzata e 2 ml di tensioattivo (Tween 20). 9 - Fertan. 10 - Paraloid B72 al 5% in acetone. 11 - Vernice à Retoucher della Lefranc&Bourgeois diliuta 2:1 in etere di petrolio. 12 - Vinavil appilcato puro. 13 - Araldite Renpaste SV427 e Ren HV 427 (1:1). 14 - Vernice Mat della Lefranc&Bourgeois e Vernice à Retoucher Surfin della Lefranc&Bourgeois diluita 2:1.
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«Madonna delle Grazie» INIZIO XVII SECOLO (1612) attr. a GIUSEPPE CESARI, detto il CAVALIER D’ARPINO E BOTTEGA Dipinto ad olio su tela, cm 248 x 167 San Benedetto in Perillis (AQ), chiesa di Santa Maria delle Grazie
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Fig. 1. Opera prima del restauro
a Madonna, rappresentata al centro, affiancata da due angeli, accoglie sotto il suo mantello San Benedetto e Celestino V, insieme a membri di una confraternita. La figura, che appare solida e statica, mostra un viso di fanciulla, dolce nei tratti, con gli occhi rivolti in basso verso i fedeli trepidanti in preghiera. La presenza di San Benedetto e di Celestino V rimanda ai due ordini monastici che si sono avvicendati nel paese: i Benedettini, già dall’età longobarda, come si evince dai motivi decorativi a nastro intrecciato che ornano la facciata della chiesa di San Benedetto, e poi, dal 1450, i Celestini di Collemaggio. Alla presenza di questi ultimi è legato il culto per la Madonna di Casaluce, icona bizantina portata dall’Oriente da Bertrando Sanseverino, vicerè sotto il regno di Carlo I d’Angiò, e ospitata dal 1360 nel castello di Casaluce, acquisito dei Celestini. Con l’istituzione, nel 1604, di un noviziato, si è affermata la consuetudine, da parte di novizi, di realizzare copie dell’icona e portarla nei loro monasteri, favorendo in tal modo la diffusione del culto: nel monastero di San Benedetto è pertanto conservata una icona bizantina raffigurante la Madonna di Casaluce. La devozione per la Madonna delle Grazie si radica invece in una vicenda storica che coinvolge il territorio di San Benedetto in Perillis: il passaggio degli eserciti pontificio e imperiale nel 1527, durante la guerra tra Carlo V e la lega di Cognac. E’ infatti a seguito di un voto fatto dalla popolazione che, nel 1530, viene eretta (forse a seguito di ampliamento di un precedente edificio sacro, come mostra la mancata posizione centrale del portale), a spese della universitas di San Benedetto, la chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie con annesso ospedale: la Vergine viene raffigurata sulla lunetta del portale, vestita di una corazza, allusiva alla protezione che aveva esercitato sulla comunità. Il dipinto, raffigurante la Madonna delle Grazie nella veste iconografica di una “Madonna della Misericordia”, era conservato, prima del 2009, nel solaio della casa parrocchiale, arrotolato. Si ignora l’originaria collocazione dell’opera. La campitura sul soffitto, dove la tela è stata alloggiata prima di venire arrotolata, potrebbe risalire a una fase recente, quando si realizza la cantoria e si chiude la porta laterale. Questo potrebbe essere avvenuto dopo il 1893, quando l’edificio sacro viene dismesso dalla funzione di lazzaretto per i malati di colera. Certo è che dei lavori devono essere stati effettuati dopo il 1916, dal momento che la chiesa, assente nelle visite pastorali del 1913, nel 1916 viene trovata mal tenuta e bisognosa di restauro. L’altare maggiore è decorato con affresco raffigurante la Madonna tra due angeli, ritoccato nel 1960, da cui risulta difficile risalire allo stato originario, appena intuibile dalla figura dell’angelo a sinistra, che mostra movenze compatibili con le tendenze stilistiche della prima metà del Cinquecento. Nella visita pastorale del vescovo Mario Mirone, in data 17 luglio 1842, troviamo la testimonianza che la tela non fosse apposta sul soffitto, ma fosse priva di una collocazione liturgicamente appropriata, tanto che viene prescritto di posizionarla sul-
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Madonna delle Grazie
l’altare maggiore: «Visitavimus hanc ecclesiam pertinentem ad communitatem S. Benedicti cum altari sub eodem titulo quod invenimus in bono statu, et adprobabimus: verum sacra icona ipsius beatissime virginis in tela depicta collocetur in eodem altari quam citius». Nella successiva visita del 13 settembre 1850 non si fa più menzione della tela, il che permette di ritenere che fosse stata effettivamente posta all’interno della nicchia dell’altare maggiore, o che avesse trovato collocazione sul soffitto. Il confronto tra le misure dell’altare e quelle della tela non esclude una eventuale apposizione sull’altare o una primitiva intenzione da parte dei committenti di collocarla in tale posizione di rilievo. La forma centinata del riquadro sul soffitto sembra essere stata realizzata per una tela già esistente, che non aveva nella chiesa una adeguata collocazione. La rappresentazione di incappucciati accolti sotto il mantello della Vergine suggerisce che il dipinto sia stato commissionato da una confraternita legata alla Madonna delle Grazie e all’ospedale annesso alla chiesa, forse la stessa la Confraternita del Sacramento, che nel 1612 ottiene l’aggregazione all’Arciconfraternita della Santa Sede. La maniera pittorica sembra vicina ai modi del Cavalier d’Arpino, il cui stile poliedrico assume una veste multiforme a seconda delle committenze e dei soggetti. L’artista lavora a Calascio nel 1600, lasciando una tela raffigurante la Madonna con il Bambino datata e firmata, e in varie località abruzzesi, tra cui L’Aquila, Sulmona, Tagliacozzo, Luco dei Marsi, coadiuvato da una bottega molto attiva. Accanto alle grandi imprese decorative in cui prevalgono temi mitologici e biblici, come quelle del Palazzo dei Conservatori e della villa Aldobrandini a Frascati, e alle importanti commissioni romane nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesci, nella cappella Olgiati in Santa Prassede, nel transetto di San Giovanni in Laterano non mancano soggetti devozionali rappresentati con uno stile asciutto e rigoroso, in cui si respira un’atmosfera di solennità e pacatezza. E’ il caso del dipinto di Calascio, a cui quello di San Benedetto in Perillis può essere accostato per l’atmosfera silenziosa e composta e per lo stagliarsi monumentale della figura della Vergine. Alcuni dettagli, quali l’aspetto infantile del volto dagli occhi rivolti verso il basso e il cadere verticale delle pieghe dell’abito, rimandano ad esempi attestati nella produzione del Cesari, dalla Madonna di Santa Maria della Scala a Roma (Röttgen 2002, 178), a Santa Maria Salomé di Veroli (Röttgen, 214), a Maria con Gesù di Calascio (Röttgen 2002, 90), all’Immacolata di Madrid (Röttgen, 107). La tipologia fisionomica trova riscontro in figure come il San Giovanni Evangelista di Arpino (Röttgen, 216), la Madonna nell’Annunciazione di Tagliacozzo (Röttgen, 256), e similmente quella degli angeli rimanda a tipi facciali ricorrenti nella produzione del Cesari, nei cartoni per la cupola di San Pietro (Röttgen, 115.6, 115.8, 115.15), nel San Michele della Collezione Barberini-Sciarra (Röttgen, 179), nel San Michele di Agriano (Röttgen, 257), nell’angelo della Cappella Cafarelli di Santa Maria sopra Minerva (Röttgen, 192), in quello (a sinistra) del Cristo morto Aldobrandini (Röttgen, 86); allo stesso modo le orbite profonde dei fedeli astanti rimandano a una maniera ricorrente nella rappresentazione di figure in preghiera (Röttgen, 173, 174). I dati raccolti, se non possono fondare un’at-
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Fig. 2. Giuseppe Cesari, Maria con Gesù, dipinto firmato e datato 1600. Calascio (AQ), Chiesa di Santa Maria delle Grazie
tribuzione certa al Cesari, stabiliscono una parentela così stretta con la sua produzione pittorica da suggerire l’attribuzione perlomeno alla sua bottega. La staticità e la composizione simmetrica dell’opera non escludono una datazione all’inizio del Seicento (forse proprio intorno al 1612, anno dell’aggregazione della Confraternita del Sacramento all’Arciconfraternita di Roma), ipotizzabile per i dati stilistici che rivelano una cultura artistica matura, che da premesse di stampo manierista si muove verso modelli aggiornati interpretati alla luce di una concezione personale dell’immagine pittorica. MARTA VITTORINI Bibliografia consultata Archivio Diocesano di Sulmona, Visite Pastorali; CIRILLO 1570, p 178; ANTINORI, sec. XVIII, vol. XXXIX; RÖTTGEN 2002; GUALTIERI c.so st.
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Madonna delle Grazie
INTERVENTO DI RESTAURO
Fig. 3. Particolare della mano destra della Madonna prima e dopo il restauro
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l manufatto, sprovvisto di struttura di sostegno, è realizzato su di un supporto in lino1 costituito da tre teli cuciti a sopraggitto con ripiegamento dei lembi sul verso, due verticali e uno orizzontale, ed è caratterizzato da un’imprimitura di medio spessore e di colore scuro ottenuta con una miscela di pigmenti mischiati con olio. Anche la pellicola pittorica è ottenuta con pigmenti legati con olio. Il dipinto, proveniente dai deposti della Casa parrocchiale di San Benedetto in Perillis, versava in un precario stato conservativo: ben visibili erano i segni di piegature dovute all’arrotolamento e il supporto tessile appariva fragile e sfibrato con numerose piccole lacune e alcune lacerazioni risarcite in un precedente intervento di manutenzione con rattoppature dal verso. Gli strati preparatori e pittorici presentavano vaste zone caratterizzate da una mancanza di adesione, nonché abrasioni e cadute macroscopiche di colore. La pellicola pittorica appariva interamente offuscata da sostanze soprammesse quali polvere sedimentata e strati di finitura alterati, verosimilmente a base di sostanze proteiche quali colle animali o bianco d’uovo. Il velo dell’angelo a sinistra della Madonna e l’interno del manto della Vergine presentano una ridipintura con ocra rossa stesa sopra uno strato di lacca rossa originale. Tale rifacimento è probabilmente da imputare a un restauro precedente, durante il quale la lacca applicata come preziosa finitura del colore è stata asportata mediante una pulitura troppo invasiva.
Infine, su entrambi i versi del manufatto è stato riscontrato un attacco biologico sotto forma di macchie biancastre2. Il ristabilimento dell’adesione dei materiali costitutivi al supporto tessile è stato effettuato dal recto mediante applicazione localizzata di prodotto consolidante sintetico in soluzione a spruzzo3. L’attacco biologico è stato rimosso con un biocida4 applicato a spruzzo sia sul recto sia sul verso. Le deformazioni della tela sono state risanate umidificando il supporto tessile e apportando una leggera pressione, mentre le lacerazioni sono state risarcite mediante incollaggio puntuale dei fili e applicazione di inserti di tela nelle lacune più ampie per ricostituire l’unità strutturale del supporto e per impedire il rilassamento della zona circostante la lacerazione5. La pulitura della tela è consistita nella rimozione sul verso di depositi coerenti e aderenti alla tela con pennellesse, pani di gomma6 e piccoli aspiratori, mentre l’asportazione degli strati soprammessi alla pellicola pittorica è avvenuta mediante applicazione a pennello sulla superficie dipinta di un gel rigido di agar potenziato con sostanze basiche7 successivamente risciacquato per asportarne i residui nonché lo sporco rigonfiato. Data la fragilità del supporto e il grado di depolimerizzazione delle fibre, il manufatto è stato sottoposto a un intervento di foderatura totale con applicazione di una nuova tela sintetica8 fatta aderire con una resina sintetica termoplastica9, previa rinforzatura delle cu-
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Fig. 4. Particolare del volto di Papa Celestino V prima del restauro e dopo l’intervento di pulitura
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Madonna delle Grazie
Fig. 5. Immagine in falso colore
Fig. 6. Riflettografia IR
citure dei teli10. Dopo aver eseguito la verniciatura del manufatto a pennello con resine sintetiche in soluzione11, con finalità di protezione della pellicola pittorica, le lacune reintegrabili per localizzazione e per estensione sono state colmate con stucco12, successivamente rasate a livello e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata eseguita a velatura con tecnica mimetica mediante applicazione per stesure successive di colori ad acquarello13 e a vernice14. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con l’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione15.
Il dipinto è stato montato su un nuovo telaio in alluminio16 calandrato secondo la misura della centina, con un bordo di scorrimento di legno rivestito di teflon. Il manufatto è stato vincolato al sistema elastico montato usando il perimetro eccedente della tela di foderatura, in cui è stato alloggiato un tondino in acciaio inox da 5 mm di diametro per distribuire omogeneamente sul perimetro la forza esercitata dalle molle17. La forza di tensionamento scelta è di 1,8 N/cm18. Si è proceduto successivamente all’applicazione di una nuova cornice lignea. DAPHNE DE LUCA
Note tecniche: 1 - Il supporto originale in lino ad armatura tela (1:1) ha una riduzione media di 8 x 11 (trama e ordito). Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - Le analisi biologiche eseguite presso il Dipartimento di Scienze Biomolecolari dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, hanno confermato la presenza di miceti, in particolare di Penicillium chrysogenum e Ulocladium cartharum. 3 - BEVA O.F all’8% in benzina rettificata 80-100°C. 4 - New Des 50 al 2% in acqua demineralizzata. 5 - Il risarcimento filo a filo è stato ottenuto impiegando l’adesivo Tylose MH300 all’8%. Nel caso di ampie lacerazioni o di mancanze nel supporto sono stati realizzati degli inserti con tela di lino antica, con trama e riduzione simile all’originale, facendo aderire testa-testa le fibre della tela lungo i tagli con polvere poliammidica Textile 5060. 6 - Spugne Wishab di varie morbidezze. 7 - Il gel di Agar-agar è stato preparato aggiungendo poche gocce di TEA (Trietanolammina) fino al tamponamento del pH a 8,75-9. L’impasto è stato così composto: 190g di acqua demineralizzata + 10g di Agarart + 6g di Tween 20 + 6g di TEA. La rimozione dello sporco rigonfiato e dei residui di TEA è avvenuta con Tween 20 al 2% in acqua demineralizzata.
8 - E’ stata scelta una tela sintetica in poliestere Trevira CS ISPRA precedentemente apprettata con Plexisol al 10% in White spirit. 9 - Beva film OF. 10 - Le giunzioni dei teli sono state rinforzate con velatino di garza applicato con Plexisol al 12% in White spirit. 11 - La prima verniciatura è stata effettuata applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 12 - Lo stucco è stato ottenuto mischiando 2 parti di gesso di Bologna con 1 parte di Aquazol P200, precedentemente diluito in acqua demineralizzata al 10-15% e lasciato rigonfiare per 24 ore, omogeneizzando poi il tutto con l’aiuto dell’agitatore magnetico per 15-30 minuti. 13 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 14 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 15 - Per la protezione finale è stata scelta la vernice a base di resine alifatiche Regalrez 1094 caratterizzata da ottime proprietà di trasparenza, reversibilità, resistenza all’ingiallimento e all’invecchiamento in generale. 16 - Il telaio è stato saldato e verniciato a forno con polveri epossidiche. Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 17 - Le molle sono realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. 18 - Pari a ca. 160 grammi per centimetro di perimetro del dipinto, cioè ca. 16 kg per ogni metro.
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«Sant’Antonio Abate» FINE XVI – INIZIO XVII SECOLO SCULTORE ABRUZZESE Legno intagliato e dipinto, cm 219 x 70 Calascio (AQ), convento di Santa Maria delle Grazie, già chiesa di Sant’Antonio Abate
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Fig. 1. Opera prima del restauro
l volto barbato ed espressivo, il saio che reca sulla spalla il segno tau, le dita della mano strette a tenere un bastone, oggi mancante, contraddistinguono il santo come l’eremita Antonio, vissuto in Egitto nel III secolo. Gli attributi che convenzionalmente lo identificano poggiano da un lato sul racconto della sua vita, tramandata dal vescovo Atanasio di Alessandria, a lui coevo, dall’altro su stratificazioni posteriori che aggiungono valenze fondate sull’operato dell’ordine degli Ospitalieri di Sant’Antonio e a lui attribuite dalla religiosità popolare vicina al mondo agricolo pastorale e ai cicli stagionali. Se dunque l’immagine del Santo come eremita, in età avanzata, col bastone dal manico a forma di tau trae la sua ispirazione dalla narrazione biografica che lo vede intraprendere in Egitto un monachesimo anacoretico e resistere alle tentazioni del demonio, l’associazione con gli animali (in particolare con il maiale) e con il fuoco rimanda all’acquisizione occidentale della sua immagine aperta a una molteplicità di letture che lo legano al contesto socio-economico delle comunità che ne accolgono il culto e all’immaginario popolare che ne arricchisce la leggenda. Il maiale che talvolta lo accompagna potrebbe alludere al diavolo vinto da Antonio nel deserto, ma anche, e forse più opportunatamente, all’assistenza che gli Ospitalieri di Sant’Antonio esercitavano a favore degli ammalati di “herpes zoster” (il fuoco di Sant’Antonio) alleviando le piaghe con un balsamo emolliente preparato con il lardo dell’animale: a questo scopo era stata fatta licenza agli Antoniani di allevare i maiali nei centri abitati, segnalandone l’appartenenza mediante una campanella. Da questo episodio che vede protagonista l’ordine fondato nell’XI secolo sembra trarre origine nella tradizione iconografica la campanella, che talvolta figura appesa al suo bastone, evocativa del ruolo attribuito al santo di cacciare il demonio. Il fuoco, che può comparire accanto alla figura dell’eremita o in mano, alludendo alla capacità di guarire l’“herpes zoster”, ben si sposa con i riti di inizio anno. La cadenza della morte del santo il 17 gennaio, coincidendo con le “ferie contadine”, nel momento di chiusura dell’anno vecchio e di apertura di quello nuovo, inteso come anno agricolo inaugurato dalla stagione primaverile, comporta che al fuoco vengano attribuite valenze purificatorie: le farchie, preparate con il concorso di tutta la comunità, hanno una funzione propiziatoria per il raccolto della nuova stagione. La concomitanza della festa con l’apertura del carnevale spiega la diffusione di una tradizione burlesca di gusto popolare che si ispira al racconto delle tentazioni subite da Sant’Antonio e della tradizione dei canti di questua, risultato della trasformazione di componimenti agiografici. Da questi brevi linee ben si evince l’importanza del culto per Sant’Antonio abate in un territorio di montagna che naturalmente presenta una vocazione eremitica e in cui l’economia è strettamente legata ai cicli stagionali. Due sono i principali “riti” che accompagnano la festa di Sant’Antonio nei paesi abruzzesi:
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Sant’Antonio Abate
la benedizione degli animali, di cui l’eremita è considerato protettore, e l’accensione dei fuochi, entrambi espressione di una società a economia agricolo-pastorale. Si spiega pertanto come, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, ai santi ricorrenti in ambito francescano si aggiunga l’eremita egiziano. Il convento di Santa Maria delle Grazie è stato fondato nel 1594 dai Frati Minori Osservanti. L’importanza del complesso conventuale è legata, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, alla figura di Padre Mario da Calascio, famoso ebraista e autore di concordanze ebreo-latine, che si trasferì a Roma nei conventi di San Pietro in Montorio e di Aracoeli, divenendo familiare e confessore di Paolo V Borghese da cui fu nominato Maestro Generale della lingua ebraica. La chiesa conosce nel primo quarto del Seicento un momento di un grande fervore artistico, con la realizzazione di preziosi altari barocchi arricchiti di sculture poste all’interno di nicchie inquadrate da colonne tortili. L’altare maggiore offre una collocazione di rilievo alle immagini scultoree di San Francesco d’Assisi e di San Bernardino, santi fondatori del Francescanesimo e dell’Osservanza in Abruzzo, posti ai lati della scultura raffigurante la Madonna delle Grazie, insieme a San Bonaventura e a San Nicola di Bari, mentre Sant’Antonio da Padova, altrettanto ricorrente tra i soggetti privilegiati dall’ordine, San Leonardo e san Pasquale Bayron sono esposti in altari minori. Estranea a questa concezione unitaria è la scultura raffigurante Sant’Antonio Abate, fino al alcuni anni fa collocata in una nicchia del porticato antistante la chiesa e trasferita all’interno su indirizzo della Soprintendenza
per ragioni conservative. La devozione per il santo eremita è attestata dalla presenza di una chiesa a lui dedicata, che reca sulla facciata l’iscrizione “templum ad honorem et gloriam Sancti Antonii dicatum Anno Domini 1641”. Sembra assai probabile che la scultura provenisse proprio da lì, prima di trovare collocazione all’esterno della chiesa conventuale. Questa ricostruzione è avvalorata dalla testimonianza di una visita pastorale del 22 agosto 1907, in cui si attesta che nella chiesa recentemente restaurata mancano alcune statue, e trova un elemento di chiarificazione nel legame della chiesa con il convento osservante, evidente dalla presenza del monogramma bernardiniano sulla facciata di gusto tardo-rinascimentale, e documentato da una successiva visita pastorale del 1911, da cui emerge il dato che nella chiesa di Sant’Antonio aveva la sua sede la Confraternita dell’Annunziata, retta proprio da un minorita del convento di Santa Maria delle Grazie. La caratterizzazione realistica del Santo, con il volto segnato da rughe, la trattazione a ciocche dei capelli e della barba, il solco scavato che gira intorno agli occhi e le gote disegnate plasticamente sul viso smunto consentono di collocare la scultura tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII. ROSELLA ROSA MARTA VITTORINI Bibliografia consultata Archivio Diocesano di Sulmona, Visite pastorali; ANTINORI, Corografia, XXVIII; GIANCRISTOFARO 1995, pp. 183-194.
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a statua è stata realizzata in legno di pioppo (Popolus L.), riconosciuto con analisi macroscopica delle fibre che consente l’esame della tecnica di assemblaggio: tre blocchi che costituiscono il corpus centrale e la testa sono trattenuti con l’ausilio di chiodi metallici e perni di legno. Su questi sono innestate le braccia. Il retro dell’elemento centrale, il tronco più voluminoso, si presenta scavato; sono visibili i colpi di scalpello e di sgorbia utilizzati per lo svuotamento. La parte posteriore della statua, concepita per una visione unicamente frontale, è lasciata a uno stadio di lavorazione iniziale. Un pannello piatto funge da copertura di tale cavità. Rimuovendo il pannello è possibile notare l’accentuata nodosità del legno. Sulla testa della statua è posta l’aureola dorata, trattenuta con perno metallico. Le asperità e le connessure degli elementi lignei sono state uniformate e rinforzate con strisce di tela spessa di cui non è possibile osservare esattamente la tessitura. L’intera superficie lignea è stata trattata prima di ricevere lo strato pittorico con applicazioni di gesso e colla animale, in più strati di colore grigio chiaro. La presenza di lacune nella zona
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delle pieghe della tunica bianca del santo e laterale del mantello ha messo in luce come lo spessore degli strati preparatori raggiunge spessori considerevoli, concorrendo a realizzare il modellato dei panneggi. La pellicola pittorica, realizzata a tempera, ha pennellata sottile e continua sulle vesti; nonostante il pessimo stato di conservazione degli incarnati, sono ancora visibili le velature che sottolineano il modellato delle palpebre e delle labbra. L’aspetto austero della composizione è addolcito dai rilievi morbidi della barba e dei capelli, dalla cura con cui è ricavato il modellato del volto e dei piedi. La statua è stata oggetto di interventi precedenti di pulitura e successiva ridipintura. Al momento del restauro l’opera esposta a inadeguate condizioni microclimatiche presentava morfologie di degrado dovute all’elevata nodosità del supporto ligneo, che impedisce i movimenti naturali del legno dovuti alle variazioni termoigrometriche, creando tensioni differenziali nel supporto con conseguenti fessurazioni. Lesioni stese lungo l’asse longitudinale delle fibre erano visibili nel retro in corrispondenza della nuca e dei capelli del santo. Tali fenomeni si riscontravano anche in corrispon-
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Fig. 2. Statua vista dal retro prima e dopo il restauro
denza dei giunti assemblati con mobilità e distacchi delle parti. Il degrado legato all’attività di insetti xilofagi risultava diffuso in tutti i volumi e su tutta la superficie erano visibili fori di sfarfallamento con rosume. In corrispondenza delle mani e alcune parti del volto erano riscontrabile le tracce di un attacco fungino inattivo. Sono parzialmente mancanti le dita di entrambe le mani. In corrispondenza della parte inferiore sinistra della veste bianca erano presenti tracce di combustione da candele e ceri votivi. Le zone più spesse degli strati preparatori presentavano decoesione e mancanza di adesione al supporto. Tutta la superficie
era interessata da cadute di materiale costitutivo e si presentava lacunosa a varie profondità. La pellicola pittorica si presentava abrasa e arida, con fenomeni di decoesione superficiale. L’intera superficie era interessata da depositi incoerenti e parzialmente coerenti in aggiunta ad uno strato di protettivo applicato a pennello non continuo ed alterato. Gli interventi diretti sull’opera sono stati preceduti inizialmente da una campagna fotografica finalizzata all’elaborazione del rilievo grafico e della documentazione necessaria alla comprensione del manufatto, dallo stato di conservazione, alle tecniche
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Fig. 3. Immagine dell'opera in fluorescenza
Fig. 4. Particolare di un chiodo nella veste del Santo
esecutive, differenziando le fasi del restauro dedicate ai trattamenti del supporto e della pellicola pittorica. Come operazione preliminare, è stato necessario intervenire sulla parte inferiore della veste, eseguendo una prima riadesione delle scaglie di pellicola pittorica distaccatesi dal supporto, e dunque maggiormente a rischio di caduta, mediante iniezioni di alcol polivinico, con pressione della spatola per agevolare la distensione. Ove i sollevamenti erano di spessore maggiore si è reso necessario l’utilizzo di resina acrilica in emulsione. Successivamente l’opera è stata pulita con pennelli a setole morbide e aspiratore così da rimuovere la maggior parte del particolato incoerente con polvere, ragnatele e detriti di piccole dimensioni. In seguito sono state effettuate le operazioni di risarcimento delle lesioni della struttura lignea mediante inserimento di tasselli e riempimento con polvere di legno e colla vinilica. L’impannatura distaccata è stata fatta riaderire con infiltrazione di resina acrilica in emulsione e pressione esercitata da pesetti. Per il trattamento della decoesione degli strati è stata utilizzata resina acrilica in soluzione a bassa percentuale. Al momento della pulitura del viso, sono stati effettuati diversi tasselli di pulitura per individuare il metodo che consentisse un’ottimale rimozione dello strato soprammesso senza alterare la cromia originale e la sen-
sibilità degli strati preparatori. Si è deciso di rimuovere meccanicamente a bisturi la strato di ridipintura applicato in un intervento precedente, riportando così in luce l’incarnato originale. Lo strato di ridipintura monocromo sul mantello è stato rimosso con solventi aprotici al di fuori delle attività di laboratorio. In seguito, i residui rimasti sono stati solubilizzati con solventi polari a bassa tossicità. Una volta ultimata la pulitura della superficie l’opera è stata sottoposta ad una prima applicazione di vernice acrilica. Le lacune degli strati pittorici sono state risarcite con stuccature a base di gesso e colla animale e rasate a livello delle superfici originali. Il trattamento dei perni metallici è stato effettuato asportando la parte più superficiale ossidata con microtrapano; successivamente la superficie è stata trattata con convertitore di ruggine. La reintegrazione pittorica è stata eseguita con la sovrapposizione di velature leggere fino al raggiungimento della coprenza desiderata, con colori ad acquerello e vernice. L’ultima fase di intervento ha previsto la disinfestazione da insetti xilofagi per anossia. FRANCESCA MARIANI ARABELLA BERTELLI DE ANGELIS CRISTINA CALDI
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«Visione di San Giovanni da Capestrano» PRIMO QUARTO DEL XVII SECOLO (ca. 1625) Dipinto ad olio su tela, cm 210 x 158 x 3 Capestrano (AQ), convento di San Francesco e Giovanni
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Fig. 1. Opera prima del restauro
el convento di San Francesco a Capestrano sono conservati quattro dipinti su tela raffiguranti episodi della vita di San Giovanni. Il genere, inaugurato dal noto polittico del Museo Nazionale d’Abruzzo, viene replicato nello stesso convento nelle lunette del chiostro. Gli episodi rappresentati (l’incontro a Mantova con papa Martino V, il guado del fiume con i confratelli, la visione che ebbe durante una messa celebrata a Peterwarden, la morte) dipingono il santo nella sua attività di difensore della fede e dell’ortodossia, a fianco del papato, contro il dilagare delle eresie e la minaccia musulmana. L’incontro con il papa è emblematico dello stretto rapporto che ebbe con l’autorità pontificia, da cui fu incaricato di svolgere la sua opera di difesa dell’ortodossia e della religione cristiana. Più volte il Santo fu ricevuto dai pontefici: nel 1418 da Martino V, che lo nominò Inquisitore ed elaborò le Costituzioni Martiniane che avrebbero dovuto fondare l’unità all’interno dell’ordine francescano; dopo la morte di San Bernardino da Eugenio IV presso cui Giovanni sollecitava la canonizzazione del confratello senese. Ma è soprattutto il suo impegno nel promuovere la crociata e nel partecipare in prima linea alle operazioni militari che appare come il tratto più ricorrente nelle storie del Santo, tanto da contraddistinguerne l’iconografia con il vessillo segnato dalla croce. Se il polittico quattrocentesco coglie Giovanni nel momento della battaglia dove, nel nome di Gesù spronava i crociati a combattere, nel dipinto in esame è il momento che precede le operazioni di guerra a essere raccontato, quando, durante una messa che celebrava a Peterwarden, secondo la testimonianza dei biografi “celebrando gli parve di vedere una saetta, mandata dal cielo, e in un attimo apparve sull’altare con la scritta a lettere d’oro: «Non temere, Giovanni, ma con sicurezza discendi e sii coraggioso, perché riporterai vittoria sui turchi in virtù della croce»” (Giovanni da Tagliacozzo, Cristoforo da Varese). Questa visione incoraggiò il Santo nella risoluzione a marciare verso Belgrado portando aiuto alla città minacciata di assedio, e a combattere contro l’offensiva turca nonostante l’invito a desistere del governatore János Hunyadi. San Giovanni è rappresentato nel momento della celebrazione, intento a leggere il messale; la sua rappresentazione sembra ispirata non tanto a modelli convenzionali che assimilano i membri dell’Ordine alla fisionomia di San Bernardino, quanto rispondere a una ricerca ritrattistica basata su fonti iconografiche vicine al Santo; in alto tra due angeli appoggiati sulle nuvole, contornata di cherubini, la freccia indirizzata verso il basso a indicare le parole “non tem: gio:”. Intorno al Santo, disposti a corona, personaggi ben individuati nelle pose e nelle caratterizzazioni fisionomiche. Due figure, in posizione frontale ai lati di Giovanni, delineate con l’accuratezza del ritratto, devono alludere a finanziatori dell’opera o a protagonisti delle vicende ungheresi, come suggeriscono la lancia accanto a quello di sinistra e l’armatura indossata dal più giovane a destra. Tra coloro che hanno condiviso gli ultimi episodi della crociata contro i musulmani si possono menzionare János Hunyadi e suo figlio Mátyás (Mattia Corvino) o il fratellastro di János, Mihály Szilágyi, e suo figlio László, questi ultimi improbabili perché non figurano nelle fonti biografiche. Gli altri personaggi sembrano seguire la
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Visione di San Giovanni da Capestrano
celebrazione mentre un frate, inginocchiato davanti all’altare accanto a una figura di spalle che tiene il vessillo con il nome di Cristo mostra nella posa e nel gesto della mano una concitazione, come se fosse consapevole del segno divino apparso tra gli angeli. L’artista mostra una formazione ampia, di respiro europeo. La caratterizzazione fisionomica dei personaggi rimanda a quell’attenzione per il ritratto individuale e di gruppo che si era affermata in ambito olandese e aveva trovato tra i primi esponenti Franz Hals. Le cromie, la costruzione delle scene sembrano discendere da espressioni pittoriche che si sviluppavano in Spagna tra il finire del XVI e l’inizio del XVII, pur con una caratterizzazione stilistica che trae spunti dagli esempi della pittura controriformista di ascendenza bedeschiniana, caratterizzati da una presentazione composta della scena insieme ad una connotazione realistica. Si riscontra un’identità di mano con i tre dipinti che descrivono la vita del Santo nell’impianto delle scene e in tipologie fisionomiche ricorrenti a caratterizzare alcuni personaggi. Prendendo in esame l’episodio della morte del Santo, tra i tratti comuni si segnala lo sfondo disegnato da architetture e la presenza di dettagli realistici che descrivono l’ambiente, gli angeli in alto, la posizione orizzontale e frontale di alcune figure e quella “di taglio” di altre. La corrispondenza di tipi fisionomici crea un parallelismo tra le scene, che sembrano costruite come se i medesimi attori assumano di volta in volta un ruolo in ogni episodio. Si riscontra inoltre un’assonanza con alcuni episodi del chiostro del convento di San Giuliano a L’Aquila, prima fondazione dell’Osservanza a L’Aquila. Questi risultano opera di più mani, tra loro molto eterogenee nell’identità stilistica e nella scelta delle cromie, tra cui si ritiene di poter rintracciare, oltre a una comunanza di ambito, alcuni moduli fiosonomici ricorrenti nei dipinti di Capestrano. Il convento di San Francesco fu fondato da San Giovanni nel 1447 nella località del “vecchio castello”, appena fuori le mura di Capestrano, dove ruderi di un fortilizio che un’antica tradizione ascriveva al re longobardo Desiderio erano diventati ritiro di piccioni tanto da originare l’ulteriore toponimo di “Palombara”. Il terreno fu donato da Giacomo Amico Consobrino a seguito di una permuta con Giovanni di Zaino. La contessa di Celano Covella, terziaria francescana e devota al santo, con privilegio emanato il 1 dicembre 1447 ratificò l’avvenuta cessione e concesse l’esenzione da “qualunque prestazione di censo, di adoa, o di altro servizio, di colletta, o di pagamento”. Alla prima consacrazione avvenuta nel 1625 seguì una seconda nel 1799, a suggellare l’ampliamento e ammodernamento dell’edificio terminato nel 1751: la primitiva chiesa fu alzata di alcuni metri, dotata di un nuovo pavimento, voltata, decorata con stucchi, un nuovo coro aveva sostituito il precedente, ritenuto troppo angusto per ospitare i numerosi chierici. Nel 1925, in occasione di un restauro, la facciata è stata rivisitata in chiave moderna, la volta è stata arricchita con quattro tele di padre Colombo Cordeschi da Lucoli. Quanto alla chiesa primitiva l’affresco della Vergine e San Francesco sulla lunetta del portale dell’attuale facciata, recante la data 1488, fa ritenere che in questo anno i lavori fossero terminati e che l’edificio, di dimensioni ridotte, si estendesse dall’attuale fronte
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fino al presbiterio, privo dei corpi aggiunti occupati dal coro. L’altare maggiore era dedicato a San Francesco e già dal 1457, anno in cui i libri e gli oggetti personali di Giovanni furono portati dai suoi confratelli dall’Ungheria, una cappella doveva essere riservata al beato. Questa nel 1648 fu adornata nelle pareti laterali di pitture eseguite da Antonio Biordi, Paolo Coccetta e Paolo Damiano di Poggio Picenze, che furono ben presto coperte, verosimilmente quando si procedette a dare un nuovo assetto alla cappella dotandola di un monumentale altare in legno, commissionato al milanese Giovanni Battista del Frate, che fu indorato nel 1690 in occasione della canonizzazione di Giovanni, e adornato, all’inizio del Settecento, di una scultura in terracotta raffigurante il santo. Al 1620 risale la decorazione del chiostro con scene della vita di Giovanni, a cui sono state sovrapposte nel secolo successivo altre più recenti. La datazione, fornita da Antinori, trova un supporto nello stemma affrescato nel chiostro stesso, “d’oro al tasso levato, al naturale”, appartenente ad Alessandro Tassoni, governatore generale inviato a Capestrano nel 1613 da Francesco II de’ Medici. Questo periodo coincide con quello immediatamente precedente la consacrazione del 1625. E’ facilmente ipotizzabile che la cappella dedicata a San Giovanni, in questa fase ancora priva della decorazione pittorica e dell’altare ligneo, dovette essere preparata per l’avvenimento, forse arricchita proprio con le quattro tele che prima del sisma del 2009 erano collocate nella settecentesca scala regia. Le affinità ravvisate con i dipinti del chiostro di San Giuliano suggeriscono l’ipotesi che maestranze chiamate a decorare i conventi dell’Ordine potessero occasionalmente essersi impegnate nella realizzazione delle quattro tele per ornare la cappella del Santo. La collocazione lungo la scala regia potrebbe risalire a una fase successiva, quando, dopo il 1709, si mette mano di nuovo al convento, realizzando nel 1750 la scala e, anzi, la mobilità con cui altari e decorazioni vengono realizzate e rimosse per dare posto a nuove in occasione di importanti celebrazioni che coinvolgono il Santo fa ipotizzare che la loro collocazione sia stata modificata più volte nel corso del tempo. MARTA VITTORINI Bibliografia Inventario manoscritto; MARINUCCI, BALASSONE e TROPEA, scheda OA n. 13/00034351, 2002 Bibliografia consultata GIOVANNI DA TAGLIACOZZO, sec. XV; GIROLAMO DA UDINE 1457; NICOLA DA FARA 1462; CRISTOFORO DA VARESE 1489; ANTINORI sec. XVIII, vol. XXVIII; MASCI 1906; CHIAPPINI 1925; PICCIOLI s.d., s.n.p.; MASCI 1939, pp. 73-81; SONSINI 1856; HOFER 1955; VALERIANI 1977, s.n.p.; CONTI 1978, pp. 25-34; Storia 1978; ANTINORI, in Capestrano 1986, pp. 33-34; BONMANN 1986, pp. 5-20; CAMPAGNOLA 1986, pp. 43.54; Omaggio 1986; OTTAVIANI 1986; San Giovanni 1986; SARTORELLI 1986; TODESCHINI 1986, pp. 21-42; ZAVALLONI 1986, pp. 55-76; ESPOSITO 1989; San Giovanni 1990; CAPEZZALI, in Santità 1991, pp. 75-93; BOSCO, in San Giovanni 1999, pp.13-24; SOLVI, in San Giovanni 1999, pp. 25-46; KOVÁCS, in San Giovanni 1999, pp. 147-156; CORONA 2005; DI VIRGILIO 2006; San Bernardino 2006; PEZZUTO 2010(a); PEZZUTO 2010(b).
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Visione di San Giovanni da Capestrano
Fig. 2. Particolare a luce radente
Fig. 3. Particolare in falso colore
INTERVENTO DI RESTAURO
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l dipinto su tela è ancorato a un telaio ligneo rettangolare fisso, composto di quattro elementi uniti con sovrapposizione a metà dello spessore e vincolati con chiodi metallici e da una traversa orizzontale molto sottile probabilmente non originale inchiodata ai regoli laterali tramite elementi metallici. L’opera è eseguita su un supporto in lino1 costituito da due teli verticali uniti mediante cucitura a sopraggitto “antico”. La tela è incollata al telaio e ancorata in modo puntuale sul fronte dei regoli con grappette e chiodi metallici: l’ancoraggio è da considerarsi coevo alla realizzazione del dipinto, poiché gli strati pittorici continuano sul fronte dei regoli del telaio. Lo stato preparatorio consiste in un’imprimitura di colore bruno scuro e di spessore sottile costituita da olio e pigmenti. Anche i pigmenti sono mischiati con olio, formando una pellicola pittorica omogenea dallo spessore sottile. Il telaio versava in un pessimo stato conservativo: le maggiori ma-
nifestazioni del degrado consistevano nei danni causati dagli insetti xilofagi e nelle numerose fratture e sconnessure dei regoli soprattutto in corrispondenza degli angoli inferiori. Inoltre, il telaio era tenuto in forma dalla presenza di una cornice (posizionata in un intervento successivo) avvitata direttamente sul fronte degli elementi costitutivi attraverso la pellicola pittorica. La traversa centrale era imbarcata e fratturata al centro e tenuta insieme da un’assicella fissata in modo precario. Gli strati preparatori e pittorici presentavano vaste zone caratterizzate da una mancanza di adesione e sollevamenti, nonché abrasioni e cadute macroscopiche di colore, soprattutto in corrispondenza dei colori scuri quali le terre. La pellicola pittorica appariva interamente offuscata da sostanze soprammesse quali polvere sedimentata e strati di finitura alterati e ingrigiti. Il ristabilimento dell’adesione dei materiali costitutivi al supporto tessile è stato eseguito in due fasi: la prima, eseguita a pennello
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Fig. 4. Lo stato di conservazione del regolo inferiore destro e in basso gli inserti lignei realizzati negli incastri angolari dei regoli dopo il restauro
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Visione di San Giovanni da Capestrano
Fig. 5. Particolare di San Giovanni prima e dopo l’intervento di restauro
con infiltrazioni localizzate di adesivo2 attraverso il cretto, è servita a mettere in sicurezza le parti sollevate prima della pulitura del supporto tessile, mentre la seconda fase è stata eseguita dopo il ristabilimento della continuità del telaio, parallelamente alla riduzione delle deformazioni degli strati preparatori e pittorici. Si è proseguito con lo stesso adesivo alle stesse concentrazioni, consentendo di migliorare la tensione del dipinto, che non poteva essere smontato dal telaio. La pulitura del retro della tela è consistita nella rimozione sul verso di depositi coerenti e aderenti alla tela con pennellesse e piccoli aspiratori, mentre l’asportazione degli strati soprammessi alla pellicola pittorica è avvenuta con gel rigido di agar potenziato con sostanze basiche3 successivamente risciacquato per asportarne i residui nonché lo sporco rigonfiato. La pulitura è stata rifinita mediante applicazione a pennello sulla superficie dipinta di una miscela solvente supportata in Laponite4. Dopo aver eseguito la verniciatura del manufatto a pennello con resine sintetiche in soluzione5, con finalità di protezione della pellicola pittorica, le lacune reintegrabili per localizzazione e per estensione sono state colmate con stucco6, successivamente rasate a livello e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata Note tecniche: 1 - Il supporto in lino ad armatura tela (1:1) ha una riduzione media di 7x8 (telo di sinistra) e più rada di 5x5 (telo di destra). Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - Colla di storione diluita in acqua al 5%. 3 - Il gel di Agar-agar è stato preparato aggiungendo poche gocce di TEA (Trietanolammina) fino al tamponamento del pH a 8,75-9. L’impasto è stato così composto: 190g di acqua demineralizzata + 10g di Agarart + 6g di Tween 20 + 6g di TEA. Il gel di agar è stato applicato in forma fluida a pennello, in modo da seguire il ductus pittorico. I tempi di contatto del gel sono variati dai 2 ai 3 minuti a seconda dello spessore della sostanza da rimuovere. Una volta solidificato, l’impacco è stato rimosso agevolmente asportando la pellicola di gel formata con l’ausilio di bastoncini di bambù. La rimozione dello sporco rigonfiato e dei residui di TEA è avvenuta con Tween 20 al 2% in acqua demineralizzata 4 - La miscela solvente supportata in Laponite RD è stata così composta: 70% MEK + 30% etanolo + poche gocce di TEA fino al tamponamento del pH a 8 (tempo di con-
eseguita a velatura con tecnica mimetica mediante applicazione per stesure successive di colori ad acquarello7 e a vernice8. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con l’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione9. Si è dunque proceduto al restauro del telaio10, dopo la pulitura del legno e il suo trattamento contro l’attacco da agenti xilofagi con prodotto biocida adeguato11. Le fenditure dovute a difetti del legno sono state pulite e incollate con adesivo vinilico, riaccostando le parti con morsetti e piccole sverzature. La traversa è stata ricomposta inserendo nello spessore del legno un elemento di pioppo, costruito in lamellare a tre strati. Anche gli angoli inferiori sono stati ricostruiti con elementi in legno di pioppo (sempre stratificato per aumentarne la stabilità). Tale operazione è stata eseguita tenendo conto della necessità di migliorare il posizionamento dei regoli durante l’incollaggio finale, per cui gli elementi ricostruiti sono stati conservati aperti fino all’ultima fase. La superficie degli inserti è stata lavorata in modo da ottenere un corretto inserimento nella struttura originale, e patinata con mordente color noce. DAPHNE DE LUCA MICHELE PAPI
tatto 1 minuto). Lo sporco rigonfiato è stato rimosso mediante tamponi di ovatta imbibiti nella miscela solvente. Un’ulteriore rifinitura della pulitura è stata ottenuta a tampone con una miscela sostitutiva agli acidi: così composta: 12% n-Butilacetato + 11% acetone + 77% alcool etilico + 5 g di acido citrico. 5 - La prima verniciatura è stata effettuata applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 6 - Lo stucco è stato ottenuto mischiando 2 parti di gesso di Bologna con 1 parte di Aquazol P200, precedentemente diluito in acqua demineralizzata al 10-15% e lasciato rigonfiare per 24 ore, omogeneizzando poi il tutto con l’aiuto dell’agitatore magnetico per 15-30 minuti. 7 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 8 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 9 - La protezione superficiale finale è stata ottenuta applicando una miscela di vernici costituita da una parte di vernice finale Surfin 1186 e una parte di vernice mat Lefranc&Bourgeois, al fine di ottenere un effetto satinato non lucido. 10 - Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 11 - E’ stato impiegato il Per-Xil 10.
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«La strage degli innocenti» PRIMA METÀ DEL XVII SECOLO Dipinto a olio su tela, cm 260 x 140 Navelli (AQ), chiesa parrocchiale di San Sebastiano
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Fig. 1. Opera prima del restauro
a grande pala, raffigura l’episodio riportato dal Vangelo secondo Matteo (2,1-16) in cui Erode il Grande, re della Giudea, ordina un massacro di bambini allo scopo di uccidere Gesù della cui nascita, a Betlemme, era stato informato dai Magi. L’episodio non ha riscontro negli altri Vangeli canonici né nelle opere di Giuseppe Flavio (37-103 c.a), fonte principale della storia giudaica del I secolo e grande avversario di Erode. I piccoli martiri sono venerati come “Santi innocenti” e ricordati nella liturgia cristiana il 28 Dicembre. La scena si svolge in un’atmosfera dai toni cupi ed è colta in un momento della giornata in cui la luce, appena percettibile, traspare dalle nubi diradate accentuando la drammaticità della scena. Sullo sfondo si stagliano edifici classicheggianti ed archi emblemi di una sovranità pronta a macchiarsi anche di atrocità pur di salvaguardare il potere. Lo stesso concetto è rafforzato dalla figura del re Erode, seduto su un trono con baldacchino, che con lo scettro nella mano destra è in atto di ordinare l’esecuzione della strage. In primo piano campeggia la figura di un soldato mentre scavalca una donna dallo sguardo rivolto al cielo, brandisce la spada con la mano destra mentre con la sinistra afferra per i capelli una giovane madre con l’intento di strapparle il bambino che stringe tra le braccia. Il pathos narrativo è evidenziato dai gesti impietosi dei carnefici e dagli sguardi imploranti delle madri che cercano di sottrarre alla furia omicida i propri figlioletti. Nella parte inferiore del dipinto sono raffigurate due scene particolarmente cruente: al centro un armigero con elmo è ripreso nell’atto di trafiggere un innocente con la spada mentre più in basso a destra una donna stringe al seno un corpicino mutilo, la cui testa si intravede poco più in là. La costruzione, che mostra più eventi racchiusi in uno spazio limitato, è caratterizzata da un grande movimento senza che questo sfoci però in confusione. Da un’attenta analisi è possibile ravvisare assonanze con la maniera pittorica di Giulio Cesare Bedeschini (notizie ultimo quarto sec. XVI – prima metà sec.XVII), attivo a L’Aquila nei primi decenni del 1600, allievo di Ludovico Cardi detto il Cigoli e giunto in città al seguito di Margherita d’Austria. Il particolare della donna afferrata per i capelli da un aguzzino trova un perfetto parallelismo nella tela raffigurante lo stesso soggetto, di Guido Reni (1575 – 1642), risalente al 1611 e conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. Alla luce di quanto suddetto, si può ipotizzare pertanto una datazione del dipinto in questione, intorno alla metà del XVII secolo. La tela, originariamente collocata sul secondo altare di destra dedicato ai Santissimi Innocenti, di Jus patronatus della famiglia Piccioli, proviene dalla chiesa parrocchiale di S Sebastiano di Navelli (AQ), uno dei castelli più antichi della Diocesi valvense. La chiesa risale al 1631 come si legge su una pietra, che reca scolpito un calice con sopra l’ostia, visibile sul breve tratto di muro che la unisce all’imponente palazzo baronale che domina il paese. Ha caratteri tardo barocchi con contaminazioni neoclassiche. Si sviluppa su tre
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La strage degli innocenti
navate; quella centrale con copertura a padiglione ribassato, mentre quelle laterali presentano volte a crociera. Il campanile risalente al medioevo era originariamente una torre d’avvistamento dell’antica fortezza, costruita dagli abitanti nella parte più alta del borgo. MARIA ANTONIETTA CIANETTI
Bibliografia consultata MORETTI 1968, p. 150; PORTOGHESI, scheda OA n. 13/00020119, 1981; Pinacoteca 2011.
INTERVENTO DI RESTAURO
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l dipinto è ancorato a una struttura di sostegno costituita da un telaio ligneo rettangolare centinato fisso, composto da tre regoli con unione angolare a mezzo legno e da un regolo superiore ancorato ai precedenti per mezzo di quattro chiodi per parte. La parte centinata consiste di due mezze lune in legno di circa 2,5 cm di spessore, sulle quali sono ancora visibili i segni di lavorazione per mezzo di asce. Queste sono ancorate con incastro a mezzo legno nella parte inferiore e unite nella parte superiore da un elemento di raccordo. L’opera è eseguita su un supporto tessile vegetale in lino1 costituito da tre teli verticali e uno orizzontale uniti mediante cucitura
Fig. 2. Telaio prima e dopo l’intervento di restauro
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a sopraggitto con ripiegamento dei lembi sul verso, con uno strato preparatorio di colore marrone scuro realizzato con una mestica di olii siccativi e pigmenti. La pellicola pittorica, composta da pigmenti legati con olio, è caratterizzata da spessori di colore disomogenei, ovvero con una stesura fluida nei colori scuri e più corposa nei colori chiari. L’ancoraggio della tela al telaio è puntuale, tramite chiodi metallici, distanziati in maniera irregolare l’uno dall’altro, inseriti dal verso e ribattuti. Questi risultano nascosti dalla presenza di una cornice modanata ancorata al telaio per mezzo di ventuno chiodi metallici. Il regolo inferiore è con ogni probabilità non coevo alla
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La strage degli innocenti
realizzazione del dipinto, dato l’impiego della diversa chiodatura utilizzata per l’ancoraggio. Il telaio presentava un leggero imbarcamento nel regolo superiore dovuto a una scorretta esecuzione tecnica dell’incastro della mezzaluna destra con il regolo verticale destro e alcune sconnessure degli incastri dei regoli e della centina. Sulla cornice e sul telaio è stato riscontrato un attacco biologico in corso da parte di insetti xilofagi che avevano causato numerosi fori di sfarfallamento, particolarmente evidenti nei regoli laterali e nella traversa alla base della centina. La cornice originale, realizzata in legno di noce modanato, era inchiodata direttamente sul telaio attraverso dipinto. Sui regoli laterali e sulla centina vi erano numerose lacune. La tela presentava un tensionamento molto debole, imborsamenti e grinze nella parte inferiore e una vistosa impressione dei regoli del telaio. In corrispondenza delle cuciture, il supporto tessile era molto ondulato, con conseguenti sollevamenti e cadute del colore. Gli strati preparatori e la pellicola pittorica erano interessati da una leggera crettatura di origine meccanica con andamento reticolare in corrispondenza della centina, degli angoli e soprattutto delle cuciture, da imputare agli stress meccanici subiti dalla tela, e da crettature da essiccamento di lieve entità con andamento reticolare irregolare su tutta la superficie. L’intera superficie dipinta appariva coperta da depositi coerenti e incoerenti quali particolato atmosferico sedimentato, cera e sgocciolature di calce. Inoltre, la pellicola pittorica era fortemente imbrunita per via dell’alterazione di uno strato di finitura. Il manufatto ha subito un precedente intervento di restauro o di manutenzione, consistente probabilmente nella sostituzione di un regolo del telaio2 e nell’applicazione di una sostanza ravvivante3, la quale ha conferito al filato una colorazione più scura, nonché di una rattoppatura sul retro della tela fatta aderire con un adesivo di origine animale. Su tutta la superficie e in particolare nella metà sinistra del manufatto in corrispondenza degli incarnati dei personaggi, sono state riscontrate numerose stuccature a base gessosa reintegrate a tempera e ridipinture cromaticamente alterate debordanti sulla pellicola pittorica originale. Il verso della tela è stato pulito con pennellesse, gomme Wishab e piccoli aspiratori, mentre per la rimozione degli strati soprammessi alla pellicola pittorica è stata effettuata una pulitura mediante mezzi chimici, ovvero impiegando una miscela sostitutiva delle sostanze basiche4 supportata con Laponite5, per permettere un’azione più controllata e un contatto migliore del prodotto sulla superficie. La miscela è stata applicata a pennello in modo da seguire meglio l’andamento delle pennellate e lasciata agire, massaggiando la superficie, per tempi di contatto di 2-4 minuti e successivamente rimossa con la stessa miscela per rimuovere le sostanze soprammesse. Le stuccature sono state asportate meccanicamente con l’ausilio di bisturi, mentre per la rimozione delle ridipinture è stato impiegato un solvente dipolare aprotico6 applicato a tampone. Il ristabilimento dell’adesione dei materiali costitutivi al supporto tessile è stato effettuato dal verso mediante applicazione localizzata di prodotto consolidante sintetico in soluzione a pennello7.
Fig. 3. Particolare prima del restauro
Fig. 4. Particolare di due figure dopo la rimozione delle sostanze soprammesse e delle stuccature con le ridipinture debordanti sulla pellicola pittorica originale
Fig. 5. Particolare dopo l’intervento di restauro Fig. 6. Il manufatto fotografato a luce radente
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La strage degli innocenti
Fig. 7. Opera in falso colore Note tecniche: 1 - Il supporto originale in lino ad armatura tela (1:1) ha una riduzione media di 13 x 11 (trama e ordito). Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - Da un’attenta valutazione del regolo inferiore del telaio, caratterizzato da uno stato di conservazione migliore rispetto alla restante struttura e da un ancoraggio realizzato con chiodi industriali3, si può ipotizzare una sua sostituzione in una fase non coeva alla realizzazione dell’opera. 3 - La sostanza non è stata analizzata, ma si potrebbe trattare del cosiddetto “beverone” (mistura di olii, grassi animali, sostanze resinose e bituminose). 4 - La miscela basica è composta da 5% di Etanolo , 95% di n-Butilacetato e 1% di TEA. 5 - Il supportante è ottenuto aggiungendo ad 1 litro di acqua deionizzata 60 g di Laponite. 6 - Il DMSO in Acetato d’etile (25:75), successivamente sciacquato con Acetato d’etile puro. 7 - BEVA O.F all’8% in benzina rettificata 80-100°C. 8 - La prima verniciatura è stata effettuata applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 9 - Lo stucco è stato ottenuto mischiando 2 parti di gesso di Bologna con 1 parte di Aquazol P200, precedentemente diluito in acqua demineralizzata al 10-15% e lasciato rigonfiare per 24 ore, omogeneizzando poi il tutto con l’aiuto dell’agitatore magnetico
Dopo aver eseguito la verniciatura del manufatto a pennello con resine sintetiche in soluzione8, con finalità di protezione della pellicola pittorica, le lacune reintegrabili per localizzazione e per estensione sono state colmate con stucco9, successivamente rasate a livello e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata eseguita a velatura con tecnica mimetica mediante applicazione per stesure successive di colori ad acquarello10 e a vernice11. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con l’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione12. Il legno del telaio è stato pulito e consolidato con ripetute impregnazioni di prodotto consolidante13. Il montante destro è stato sostituito con un elemento ligneo della stessa forma e specie legnosa (pioppo) poiché non è stato possibile restituirgli adeguata funzionalità. Per dare solidità alla traversa, è stato applicato un elemento in legno di rovere di 12 mm di spessore incollato sul fronte. In seguito, si è proceduto con l’inserimento delle tre connessioni della centina (chiave e imposte) in una struttura a sandwich che permettesse di scaricare le forze dal nucleo di legno danneggiato a solidi strati esterni14. Essendo realizzata con un elemento originale sovrapposto sul retro in corrispondenza della chiave, la centina avrebbe impedito un corretto scorrimento della tela: per questo motivo, è stato necessario livellarne l’altezza aggiungendo uno spessore in legno (pioppo), su cui montare i meccanismi del sistema elastico. Il dipinto è stato vincolato al sistema elastico attraverso le fasce di foderatura dei bordi in cui è stato alloggiato un tondino in acciaio inox da 5 mm di diametro per distribuire omogeneamente sul perimetro la forza esercitata dalle molle15. La forza di tensionamento scelta è di 1,6 N/cm16. La cornice è stata integrata riproducendo manualmente le parti mancanti in legno di noce, con una tecnica analoga e quella originale17 ed infine fissata al telaio con appositi ponticelli per non bloccare il libero scorrimento della tela sul perimetro del telaio18. DAPHNE DE LUCA
per 15-30 minuti. 10 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 11 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 12 - Per la protezione finale è stata scelta la vernice a base di resine alifatiche Regalrez 1094 caratterizzata da ottime proprietà di trasparenza, reversibilità, resistenza all’ingiallimento e all’invecchiamento in generale. 13 - E’ stato impiegato il Paraloid B72 in acetone a concentrazioni crescenti. 14 - E’ stato realizzato il calco in gomma siliconica delle connessioni stesse (dopo averle fissate temporaneamente nella posizione corretta), al fine di costruire sottovuoto degli elementi in composito carbonio/epossidica di 4 mm di spessore da accoppiare con viti in acciaio inox e dadi autobloccanti. Si è scelto di usare questo materiale perché molto leggero e dotato di una conducibilità termica sufficientemente simile a quella del legno da rendere improbabile qualsiasi fenomeno di condensa in presenza di sbalzi termici in ambienti umidi. 15 - Le molle sono realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. 16 - Pari a ca. 160 grammi per centimetro di perimetro del dipinto, cioè ca. 16 kg per ogni metro. 17 - Per la piegatura della cornice, si è ricorso a umidificazioni successive forzando il legno su una apposita controforma. Una volta stabilizzato il pezzo nella forma definitiva, lo si è bloccato annegandovi con resina epossidica un tondino in acciaio inox da 12 decimi di mm in uno scasso appositamente realizzato nella faccia posteriore. Successivamente, la cornice è stata assemblata su una sagoma in piattina di acciaio inox da 3 mm di spessore. 18 - Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino.
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«Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova» METÀ DEL SECOLO XVII FRANCESCO BEDESCHINI (L’Aquila, 1626-1695) Dipinto a olio su tela, cm 184 x 104 L’Aquila, Chiesa di San Flaviano
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Fig. 1. Opera prima del restauro
a tela fa parte del ristretto numero di dipinti, per altro di qualità disuguale, tradizionalmente attribuiti a Francesco Bedeschini (MONINI, 2006, p. 265), artista poliedrico, capace di adempiere, con una multiforme attività di pittore, disegnatore, architetto, decoratore, scenografo ed estroso ideatore di feste e cerimonie, “ad un ruolo egemonico di moderatore e ‘modernatore’ del gusto cittadino”, che aggiornò, ispirandosi a “modelli soprattutto romani”, alla nuova sensibilità barocca (COLAPIETRA, 1984, pp. 462-463). La vicenda del dipinto è stata segnata, fin dal momento della realizzazione, dai ripetuti eventi sismici che hanno funestato la storia dell’Aquila. Nel corso dei violenti fenomeni tellurici che atterrirono la popolazione, pur senza provocare vittime o gravi danni, tra il marzo e il giugno 1646, si registrò infatti un improvviso revival del culto di Sant’Antonio da Padova, che traboccò clamorosamente al di fuori dei suoi tradizionali centri di diffusione, costituiti dalle principali fondazioni francescane della città. Dopo una serie di spettacolari manifestazioni penitenziali, di cui una cronaca coeva ha conservato l’impressionante resoconto, “si stabilì … ricevere per quinto protettore della città Sant’Antonio da Padova, Santo veramente degli miracoli, acciò unito con gli altri più antichi, … impetrasse dal Signore il perdono e non più con sì spaventosi smovimenti di terra seguitasse ad intimorirli”. E il santo cominciò presto a operare prodigi, attraverso una sua “divina figura” dipinta da Francesco Bedeschini, “in un oratorio dei Signori Cavalieri de Nardis… onde si stabilì… di edificare… una Chiesa in honore di Santo tanto miracoloso, con trasportarvi la meravigliosa figura”. Il 4 luglio 1646, con gran concorso di popolo, fu posta solennemente la prima pietra del nuovo edificio sacro, e il 7 giugno dell’anno successivo, fatta la traslazione della miracolosa immagine, il vescovo Clemente del Pezzo vi cantò la prima messa (CIURCI, cc. 266-267; BALDINUCCI, pp. 379-380; ANTINORI, XXII, cc. 620-621). Un’altra fonte attesta che essendo la venerata effigie dipinta su parete, la traslazione avvenne “staccandola dal muro” e informa anche che essa era stata dipinta nel 1643, tempo in cui Francesco Bedeschini “principiava a colorire” (MARIANI, c. 326). In seguito al fervore devozionale suscitato dall’affresco, ne furono commissionate all’artista delle repliche su tela. Una di esse, probabilmente realizzata, in sostituzione del dipinto murale traslato nella nuova chiesa, per l’oratorio privato de Nardis, fa tuttora parte della collezione d’arte della famiglia. La replica oggetto della presente scheda fu eseguita invece, con ogni probabilità, per la Confraternita del Suffragio, ufficialmente istituita nel 1645, che annoverava tra gli affiliati della prim’ora, rispettivamente nel ruolo di sindaco e in quello di guardiano, i cavalieri Ludovico e Ottavio de Nardis, cioè gli stessi munifici promotori del culto del Santo (Venerabilis Confraternitas, p. 99). Per l’oratorio del pio sodalizio, sorto nelle adiacenze della chiesa di San Biagio di Amiternum, sull’attuale via Roio, il Bedeschini, oltre a dipingere la pala d’altare raffigurante la Madonna che intercede per le anime del purgatorio presso la Trinità, avrebbe fornito anche il progetto dell’aula e il disegno degli altari (LUCANTONI, 2004, pp.
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Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova
Fig. 2. Particolare prima del restauro
927-928). Dopo il terremoto del 2 febbraio 1703, rimasta gravemente danneggiata e inagibile la sede originaria, i due dipinti del Bedeschini furono trasferiti nella “chiesa baraccale” edificata dalla confraternita sul lato meridionale della piazza del mercato, e in seguito andarono ad arricchire il nuovo e sontuoso tempio barocco di Santa Maria del Suffragio, la cui costruzione iniziò, sul sito medesimo in cui sorgeva l’edificio provvisorio in legno, nel 1713. Non è stato possibile per il momento accertare data e motivazione del trasferimento del Sant’Antonio da Padova in San Flaviano; fonti ottocentesche ne registrano ancora la presenza nella chiesa del Suffragio, all’epoca più comunemente detta del Purgatorio o delle Anime Sante (BONANNI, 1874, p. 70; BINDI, 1883, pp. 67-68). È probabile tuttavia che l’opera sia stata rimossa in occasione dei restauri eseguiti nel 1897 sotto la direzione del pittore Teofilo Patini (“L’Aquila”, 3 ottobre 1897; LANCIA, 2010, p. 125). Il Sant’Antonio da Padova realizzato nell’occasione dal Patini prese probabilmente il posto, sull’altare della prima cappella di sinistra, dell’opera di analogo soggetto dipinta da Francesco Bedeschini due secoli e mezzo prima. Di iconografia convenzionale, l’opera mostra l’immagine di Sant’Antonio più diffusa, ispirata al più noto e toccante degli episodi tramandati dal Liber Miraculorum: l’apparizione del Bambino Gesù ricevuta dal santo nel romitorio di Camposampietro pochi giorni prima della morte. Secondo uno schema desunto dalla ritrattistica ufficiale dell’epoca, il santo è raffigurato a figura intera, in posizione eretta e frontale, e inquadrato all’interno di uno scenario di gusto classico, costituito da un arco illusionisticamente aperto su un paesaggio soffuso di luce crepuscolare. L’abbigliamento e gli attributi del santo sono quelli consacrati dalla tradizione: il lungo saio, stretto alla vita dal cordone, e i piedi scalzi indicano l’adesione alla
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regola di San Francesco; il giglio tenuto nella sinistra allude alla sua castità, mentre il libro sorretto con la destra lo qualifica come dotto teologo. Il capo, cinto d’aureola, è leggermente chino verso il Bambino, il quale, in piedi sul libro, regge con la sinistra il globo crucigero, simbolo di sovranità sul mondo, e benedice con la destra. Un drappo rosso, segno di regalità e allusione al sangue versato sulla croce, cinge le spalle del divino infante, mettendo per contrasto in rilievo l’incarnato del nudo ben tornito. È questa l’unica nota di colore acceso della composizione, per il resto caratterizzata dai toni spenti, tra il bruno e il grigio, del saio, degli elementi architettonici che fanno da cornice alla scena, del cielo nuvoloso che ne costituisce lo sfondo. La luce avvolgente e la delicata modulazione chiaroscurale costituiscono un retaggio della pittura fiorentina tra la fine del secolo XVI e gli inizi del XVII, alla quale rimandano anche l’attenta cura dei particolari e la monumentalità della figura, esaltata dalla scelta del punto di vista, localizzato decisamente al di sotto della linea dello sguardo dei personaggi, e dall’orizzonte basso sullo sfondo. L’adesione al linguaggio controriformistico toscano deriva dalla formazione dell’artista, avvenuta certamente nella bottega del padre Giulio Cesare (L’Aquila, 1582-1627), pittore affermato e allievo a Roma del Cigoli, anche se non sotto il suo diretto magistero, avendolo questi lasciato orfano all’età di appena un anno. Su questo dato di origine s’innestano più aggiornati riferimenti culturali alla corrente classicista romana, riscontrabili principalmente nell’ambientazione. L’orientamento “in direzione della cultura figurativa barocca romana”, particolarmente evidente nella produzione grafica e nell’attività di progettazione architettonica del Bedeschini, è stato messo in relazione con la presenza all’Aquila, per oltre un anno, di Ercole Ferrata, uno dei principali collaboratori del Bernini,
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Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova
che fu attivo nel cantiere di Sant’Antonio de Nardis, realizzando la statua per la facciata della chiesa (MONINI, 2006, pp. 265-266). La misurata espressività del volto del santo, che sembra assorto nella meditazione piuttosto che coinvolto in un’esperienza estatica, e l’assenza delle vistose manifestazioni di affettività generalmente associate allo specifico tema agiografico, caratterizzano questa prova bedeschiniana, che appare perciò improntata a raffinato e aristocratico intellettualismo. Ciononostante l’immagine, nelle sue varie redazioni, fu oggetto, come si è visto, di fervide manifestazioni di devozionismo popolare e modello di copie fino all’Ottocento. MAURO CONGEDUTI Bibliografia MOSCARDELLI, scheda OA n. 13/00036329, 1992.
Bibliografia consultata CIURCI, cc. 266-267; Venerabilis Confraternitas…, pp. 99-10; BALDINUCCI 1728, vol. V, pp. 379-380; ANTINORI, vol. XXII, cc. 620-621, vol. XXIII, c. 286; MARIANI, vol. M, c. 326; LEOSINI 1848, pp. 28-31, 148 e 170; BONANNI 1874, pp. 70 e 75; BINDI 1883, pp. 67-68; I lavori in Santa Maria del Suffragio…, 1897; CHIERICI 1965, pp. 518-520; DI GIOVANNI 1970, pp. 9-14; COLAPIETRA 1978, vol. I, pp. 215-216 (873874), 385 (1059) nota 372, 397-401 (1071-1075), 404-405 (10781079), 421 (1095), 437 (1111) nota 550, 450 (1124), 455 (1129); ID., 1984, pp. 355, 437-441, 444-445, 451, 464, 490; ID., 1986, p. 159-160; COUTTS, 1987, pp. 401-403; COLAPIETRA 1987, p. 16; LOPEZ 1988, p. 192; COUTTS 1991, pp. 183 e 186; ARBACE 2002, pp. 129-144; ANTONINI 2004, pp. 70-81; LUCANTONI 2004, pp. 895-943; Grove Encyclopedia …, 2006, p. 92; MONINI 2006, pp. 265-270; GIULIANI 2008, pp. 125-132; MACCHERINI 2009, p. 117; LANCIA 2010, pp. 120-125.
INTERVENTO DI RESTAURO
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’opera è eseguita su supporto tessile vegetale1 ancorato a una struttura di sostegno consistente in un telaio ligneo rettangolare fisso, costituito da quattro regoli con incastri a tenone e mortasa del tipo “a capitello” e da una traversa orizzontale unita ai regoli laterali per sovrapposizione a metà dello spessore. L’ancoraggio della tela è effettuato sul fronte del telaio, tramite chiodi metallici distanziati in maniera regolare l’uno dall’altro. La preparazione del dipinto, di medio spessore, è formata da un impasto di colore bianco-avorio sul quale è stato riscontrato un secondo strato preparatorio di colore bruno, costituito da una miscela di pigmenti legati con olio. La pellicola pittorica è composta da olio e pigmenti e presenta una stesura fluida con alcune pennellate piuttosto materiche. E’ stato riscontrato un pentimento in corrispondenza del pollice della mano sinistra del Santo portante il giglio, originariamente più spostato verso il corpo, e della mano benedicente di Gesù Bambino, in origine più aperta e più spostata verso lo sfondo architettonico. Inoltre, il fondo di colore azzurro è stato dipinto per ultimo, come dimostrano le ampie pennellate che scontornano le figure, gli elementi architettonici e il giglio. I regoli laterali e la traversa del telaio, sui quali sono stati riscontrati numerosi fori di sfarfallamento e mancanze di materiale dovuti all’attacco di insetti xilofagi, presentavano un imbarcamento piuttosto evidente e alcune fessure. Il supporto tessile, particolarmente sottile e delicato e caratterizzato da un tensionamento piuttosto debole, appariva molto fragile e sfibrato: vi erano infatti numerosi strappi e alcune lacerazioni in corrispondenza dei bordi risarciti in un precedente intervento di restauro, e la tela presentava una leggera imborsatura nella parte inferiore, nonché i segni della traversa centrale del telaio causati del generale rilassamento del tessuto. La pellicola pittorica e gli strati preparatori erano interessati da una crettatura da essiccamento e di origine meccanica accentuata in cor-
rispondenza dello sfondo, da numerose lacune di piccola e media entità presenti su tutto il dipinto, nonché da sollevamenti localizzati su tutta la superficie ed in particolare in corrispondenza dei colori scuri. La superficie era interamente coperta da particellato atmosferico incoerente e da uno strato di finitura leggermente imbrunito, con sgocciolature di colore marrone scuro localizzate soprattutto in corrispondenza dei volti delle figure. Per procedere con la rimozione delle sostanze soprammesse all’originale, è stato effettuato un intervento di pre-consolidamento temporaneo con applicazione di ciclododecano2. Si è così proceduto con la pulitura meccanica del retro attraverso l’impiego di pani di gomma3 e piccoli aspiratori, con la rimozione delle vecchie rattoppature in corrispondenza dei tagli e degli strappi e con la pulitura della superficie dipinta, resa idrorepellente dal ciclododecano, con gel rigido di agar potenziato con sostanze basiche4 successivamente risciacquato per asportarne i residui nonché lo sporco rigonfiato. Avvenuta la completa sublimazione del ciclododecano5, il ristabilimento dell’adesione dei materiali costitutivi al supporto tessile è stata effettuata dal verso mediante applicazione a pennello di prodotto consolidante sintetico in soluzione6. Le deformazioni del supporto tessile sono state risanate durante la riattivazione della resina termoplastica impiegata per il consolidamento, apportando una leggera pressione tramite posizionamento nel tavolo ad alta pressione7, mentre le lacerazioni sono state risarcite mediante incollaggio puntuale dei fili e applicazione di inserti di tela nelle lacune più ampie per ricostituire l’unità strutturale del supporto e per impedire il rilassamento della zona circostante la lacerazione8. Data la fragilità del supporto e il grado di depolimerizzazione delle fibre, il manufatto è stato sottoposto a un intervento di foderatura totale con applicazione di una nuova tela sintetica9 fatta aderire con una resina sintetica termoplastica10.
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Fig. 3. Particolare del volto del Santo e di Ges첫 Bambino prima e dopo il restauro
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Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova
Fig. 4. Il telaio prima e dopo l’intervento di restauro
Dato il pessimo stato di conservazione del telaio11, si è proceduto al tensionamento del dipinto su di un nuovo telaio in alluminio con sistema di espansione elastica, saldato negli angoli e verniciato a forno con polveri epossidiche, con un bordo di scorrimento di legno rivestito di teflon. Il dipinto è stato vincolato al sistema elastico montato usando il perimetro eccedente della tela di foderatura, in cui è stato alloggiato un tondino in acciaio inox da 5 mm di diametro per distribuire omogeneamente sul perimetro la forza esercitata dalle molle12. La forza di tensionamento scelta è di 1,8 N/cm13. Dopo aver eseguito una verniciatura molto leggera del manufatto con
resine sintetiche in soluzione14, le lacune reintegrabili per localizzazione e per estensione sono state colmate con stucco15, successivamente rasate a livello e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata eseguita a velatura con tecnica mimetica mediante applicazione per stesure successive di colori ad acquarello16 e a vernice17. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con l’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione18. Successivamente si è proceduto all’applicazione di una nuova cornice lignea. DAPHNE DE LUCA
Note tecniche: 1 - Il supporto originale in lino ad armatura tela (1:1) ha una riduzione media di 8 x 11 (trama e ordito). Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - Ciclododecano spray della ditta Hans Michael Hangleiter Gmbh. Il prodotto è stato applicato a spray in modo omogeneo su tutta la superficie dipinta e successivamente portato a fusione per garantirne la penetrazione e l’effetto consolidante degli strati pittorici, con una pressione costante di 350 millibar e una temperatura di 60°C. E’ stato scelto il ciclododecano in spray al fine di ridurre l’apporto di solvente che un’applicazione del prodotto in soluzione avrebbe invece comportato. Tuttavia, in corrispondenza dei bordi del manufatto, caratterizzati da un degrado maggiore rispetto al resto del dipinto, è stato applicato il ciclododecano in forma solida diluito al 60% in ligroina. 3 - Spugne Wishab di varie morbidezze. 4 - Il gel di Agar-agar è stato preparato aggiungendo poche gocce di TEA (Trietanolammina) fino al tamponamento del pH a 8,75-9. L’impasto è stato così composto: 190g di acqua demineralizzata + 10g di Agarart + 6g di Tween 20 + 6g di TEA. Il gel di agar è stato applicato in forma fluida a pennello, in modo da seguire il ductus pittorico. I tempi di contatto del gel sono variati dai 3 ai 4 minuti a seconda dello spessore della sostanza da rimuovere. Una volta solidificato, l’impacco è stato rimosso agevolmente asportando la pellicola di gel formata con l’ausilio di bastoncini di bambù. La rimozione dello sporco rigonfiato e dei residui di TEA è avvenuta con Tween 20 al 2% in acqua demineralizzata mediante tamponi di ovatta. 5 - L’applicazione di prodotto consolidante è avvenuta dopo la completa sublimazione
del ciclododecano accelerata attraverso l’attivazione del tavolo caldo a una temperatura di 60°C. 6 - BEVA O.F all’8% in benzina rettificata 80-100°C. 7 - 250 millibar di pressione e 65-70° C. 8 - Il risarcimento filo a filo è stato ottenuto impiegando l’adesivo Tylose MH300 all’8%. Nel caso di ampie lacerazioni o di mancanze nel supporto sono stati realizzati degli inserti con tela di lino antica, con trama e riduzione simile all’originale, facendo aderire testatesta le fibre della tela lungo i tagli con polvere poliammidica Textile 5060. 9 - E’ stata scelta una tela sintetica in poliestere Trevira CS ISPRA precedentemente apprettata con Plexisol al 10% in White spirit. 10 - Beva film OF. 11 - Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 12 - Le molle sono realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. 13 - Pari a ca. 160 grammi per centimetro di perimetro del dipinto, cioè ca. 16 kg per ogni metro. 14 - La prima verniciatura è stata effettuata applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 15 - Lo stucco è stato ottenuto mischiando 2 parti di gesso di Bologna con 1 parte di Aquazol P200, precedentemente diluito in acqua demineralizzata al 10-15% e lasciato rigonfiare per 24 ore, omogeneizzando poi il tutto con l’aiuto dell’agitatore magnetico per 15-30 minuti. 16 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 17 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 18 - La protezione superficiale finale è stata ottenuta applicando una miscela di vernici costituita da una parte di vernice finale Surfin 1186 e una parte di vernice mat Lefranc&Bourgeois, al fine di ottenere un effetto satinato non lucido.
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«San Michele Arcangelo sconfigge il demonio tra San Carlo Borrromeo e San Filippo Neri» FINE DEL XVII – INIZIO DEL XVIII SECOLO AMBITO NAPOLETANO (fronda solimenesca) Dipinto ad olio su tela, cm 248 x 167 Carapelle Calvisio (AQ), chiesa di San Francesco, già chiesa parrocchiale di Santa Maria uis ut Deus, colui che come Dio combatte le forze del Male, campeggia al centro del dipinto, sullo scudo del San Michele Arcangelo, equivalente latino del Mika’ el ebraico, principe degli angeli e protettore del popolo d’Israele. La studiata e complessa iconografia della tela sembra prendere le mosse da questa scritta: in alto la SS.ma Trinità, dogma fondamentale della religione cristiana, nel mezzo San Michele Arcangelo che sconfigge il demonio affiancato da San Carlo Borromeo e San Filippo Neri, tutti e tre strenui difensori della fede, in lotta perenne contro tutte le forze e le forme del male che insidiano l’uomo e che nelle varie epoche storiche si configurano nel peccato, nelle malattie e negli eventi calamitosi. Il culto micaelico, uno dei più vivi tra le popolazioni della montagna abruzzese particolarmente legate al mondo della pastorizia e della transumanza, si diffonde in Italia meridionale dalla fine del V secolo fortemente influenzato anche dalla vicinanza della celebre grotta del Gargano dove sarebbe apparso l’Angelo, la cui venerazione si sostituì a culti pagani preesistenti. La tradizione vuole che presso il santuario cominciasse a scorrere una sorgente di acqua miracolosa che produsse numerose guarigioni per cui vengono da sempre evidenziati gli aspetti del santo risanatore e purificatore che sconfigge il male, nell’iconografia rappresentato dal demonio o dal drago trafitto dalla spada o dalla lancia di Michele. Nel corso del XVII secolo la devozione verso San Michele Arcangelo conobbe una stagione di rinnovato fervore, nel clima di rinascita spirituale che la Chiesa stava vivendo con l’applicazione delle disposizioni post-tridentine, in concomitanza con una serie di eventi luttuosi che decimarono le popolazioni. Nel meridione fu la pestilenza del 1656 a rinsaldare il legame tra le comunità e il Santo che, secondo la tradizione, apparve in sogno all’allora arcivescovo di Siponto rivelandogli di aver ottenuto, per intercessione della SS.ma Trinità, presente anche nel nostro dipinto, una speciale protezione contro la peste per tutti i fedeli che avessero riutilizzato, nelle loro città, i sassi della sua basilica. In Abruzzo, soprattutto nel seicento e nel settecento, si registra una vasta produzione di dipinti su tela e sculture lignee, alcune di notevole qualità, la gran parte collocate lungo il percorso della transumanza, spesso in chiese dedicate esse stesse a San Michele Arcangelo. La terribile epidemia aveva mietuto un gran numero di vittime anche a Carapelle Calvisio, come si ricava da una scritta tuttora leggibile nella sagrestia della chiesa di San Francesco: “A lì 1656 fu la peste in Carapelle se ne morsero 400 e ne remasero vivi 151” (Mattiocco, 1988, p. 106). San Filippo Neri (1515 – 1595), è figura dal grande trasporto spirituale. Fiorentino di origine, si trasferì a Roma dove decise di dedicarsi alla propria missione evangelica, in una città corrotta e pericolosa anche per la formazione delle nuove generazioni che accoglieva nel suo oratorio, tanto da ricevere l’appellativo di “secondo apostolo di Roma”. A lui la tradizione vuole che la Vergine sia apparsa in sogno raccomandandogli di ricostruire la Sua chiesa
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Fig. 1. Opera prima del restauro
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San Michele Arcangelo sconfigge il demonio tra San Carlo Borrromeo e San Filippo Neri
Fig. 2. Particolare del giglio prima del restauro con le cadute di pellicola pittorica
e a tal proposito va richiamata la sua funzione di protettore dai terremoti in una terra funestata dagli eventi sismici. Accanto a San Filippo Neri viene effigiato uno dei suoi più convinti e fedeli seguaci, il cardinale Federico Borromeo (1538 – 1584), inviato in giovane età al Concilio di Trento ed eletto vescovo di Milano, una diocesi vastissima che curò prodigandosi in ogni modo per incoraggiare la crescita della vita cristiana. Preoccupato della formazione del clero, fondò seminari ed impose ordine all’interno delle strutture ecclesiastiche, difendendole dalle ingerenze dei potenti locali. Edificò ospedali e ospizi, utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri e durante la peste del 1576 si dedicò ad assistere direttamente i malati. E’ chiaro, nella committenza, l’intento di restituire fiducia e sicurezza alle popolazioni locali stremate dai flagelli della peste e del terremoto, facendo ricorso a tre baluardi della fede fortemente impegnati nel contrastare il male e le calamità, una committenza che molto verosimilmente doveva far parte di quella “operosissima borghesia di montagna che per circa sei secoli fece fiorire l’economia della regione, cercando ai suoi prodotti sbocchi sulle piazze commerciali di gran parte d’Italia e tenne alto il proprio livello culturale stabilendo fitti contatti con i grandi centri degli studi e dell’arte” (Sabatini, 2004, p. 24). Testimonianza eloquente di questo fenomeno è senz’altro la presenza non solo nelle maggiori cittadine, ma anche in tanti altri centri minori, di palazzi e di chiese talora monumentali: a Carapelle Calvisio nel tessuto edilizio antico, malgrado gli effetti nefasti dei ricorrenti terremoti, tra cui quello particolarmente violento del 1703, emergono, oltre a numerose chiese, due dimore gentilizie appartenenti ai casati dei Piccioli e dei De Lauretis e, nella chiesa di San Francesco, ancora oggi si conservano pregevoli affreschi assegnati a Francesco da Montereale
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(1466 ca. – 1541) e una delle tele che Bernardino di Lorenzo di Monaldo (1568 ca – 1620), pittore fiorentino, promise di realizzare per l’altare maggiore, tutti elementi che ci rimandano ai periodi in cui l’economia del borgo era florida grazie, soprattutto, alla ricca industria armentizia. Il nostro dipinto era stato ricoverato, almeno da diversi decenni, nella chiesa conventuale di San Francesco, l’unica agibile ed aperta al culto dopo il terremoto dell’aprile 2009; proveniva, invece, molto verisimilmente, dalla parrocchiale della Beata Vergine Maria, edificata nel XV secolo, situata lungo la cinta muraria, in prossimità di una delle antiche porte di accesso al paese denominata appunto “Porta della Chiesa”. Per il vero, nel paese, è tuttora presente anche la chiesa di Sant’Angelo, documentata già dal 1356 e oggi completamente trasformata, ma in un documento del 1719, rinvenuto a seguito di una attenta ricerca di archivio da Marta Vittorini, risulta che nella parrocchiale sia stato dedicato un altare proprio a San Michele Arcangelo, San Carlo Borromeo e San Filippo Neri, pertinente alla cappellania dei de Leonardis, fondata nel 1683. Queste le circostanze storiche con le quali è opportuno intrecciare i dati stilistici che emergono da una prima analisi del dipinto. Molto verosimilmente la tela viene commissionata intorno agli anni in cui viene dedicato l’altare ai tre baluardi della fede, tanto più che al dato archivistico fa riscontro il risultato dell’indagine storico-artistica. Riprendendo l’iconografia più comune, San Michele Arcangelo è vestito della consueta lorica, in qualità di guerriero celeste, con elmo sormontato da un monumentale pennacchio agitato e scomposto dal vento, scudo agganciato al braccio sinistro e spada sguainata nella mano destra. Il principe degli angeli, dal viso soave e dalla capigliatura mossa con i biondi
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San Michele Arcangelo sconfigge il demonio tra San Carlo Borrromeo e San Filippo Neri
riccioli che escono dal cimiero, irrompe sulla scena dominandola: in volo trionfante su Satana, è colto nell’attimo in cui sta atterrando sul corpo di un demonio antropomorfo che si dibatte, sfigurato dall’ira. Come di consueto, San Filippo è raffigurato di scorcio, con indosso la pianeta, inginocchiato e con lo sguardo rivolto verso l’alto, con tra le mani il giglio, simbolo di purezza, mentre San Carlo Borromeo compare in abiti vescovili. L’opera, contrassegnata da eleganza formale e da una formulazione ricca di finezze espressive e di preziosità cromatiche, si inserisce nelle vicende della cultura figurativa napoletana tra Seicento e Settecento legate alla cosiddetta “fronda solimenesca”, volta a superare
soluzioni di tradizionale inclinazione barocca per aspirare ad esperienze più libere ed innovative di impronta rocaille. ANNA COLANGELO Bibliografia MOSCARDELLI, scheda n. 13/000184474, 1998. Bibliografia consultata ANTINORI, Corografia, vol. XXIX; BOLOGNA 1958; CAUSA 1961; SPINOSA 1979; MATTIOCCO 1988, p. 106; La pittura 1989; La pittura 1990; SABATINI 2004, p. 24.
Fig. 3. Particolare del San Filippo Neri prima e dopo l’intervento di restauro
INTERVENTO DI RESTAURO
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l dipinto su tela è ancorato a un telaio ligneo rettangolare fisso, composto di quattro elementi uniti a tenone e mortasa e da due traverse orizzontali unite con sovrapposizione a metà dello spessore e inchiodate ai regoli laterali tramite elementi metallici. L’opera è eseguita su un supporto in lino1 costituito da due teli orizzontali uniti mediante cucitura a sopraggitto con ripiegamento dei lembi. L’ancoraggio della tela al telaio è puntuale, tramite chiodi metallici distanziati in maniera regolare l’uno dall’altro. Lo stato preparatorio consiste in un’imprimitura di colorazione rosso scuro di spessore sottile costituita da olio e pigmenti. Anche i pigmenti sono mischiati con olio, formando una pellicola pittorica omogenea dallo spessore sottile con alcune pennellate più corpose soprattutto in corrispondenza dei colori chiari. I regoli del telaio erano leggermente imbarcati e la tela presentava un tensionamento mediocre: erano evidenti i segni delle due traverse orizzontali e dei regoli del telaio dovuti al generale rilassa-
mento del supporto tessile. Sul supporto tessile vi erano alcune piccole lacune e due lacerazioni in corrispondenza del panneggio di San Carlo Borromeo e dell’armatura dell’Arcangelo Michele. La pellicola pittorica e gli strati preparatori erano interessati da crettature di origine meccanica e da essiccamento e da macroscopiche cadute e abrasioni di colore. La superficie era coperta da particellato atmosferico incoerente e da uno strato di finitura ingiallito. Infine, il perimetro del dipinto era coperto da una ridipintura di colore violaceo eseguita con colori a olio debordante in più punti sulla pellicola pittorica originale. Le deformazioni della tela sono state risanate ponendo il manufatto nel tavolo caldo, umidificando il supporto tessile e apportando una leggera pressione2. Il ristabilimento dell’adesione dei materiali costitutivi al supporto tessile è stato eseguito dal verso mediante applicazione localizzata di prodotto consolidante in soluzione a pennello3.
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Fig. 4. Particolare dell’Arcangelo Michele prima e dopo il restauro
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San Michele Arcangelo sconfigge il demonio tra San Carlo Borrromeo e San Filippo Neri
Fig. 5. Opera in falso colore infrarosso
Note tecniche: 1 - Il supporto in lino ad armatura tela (1:1) ha una riduzione media di 8x9. Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - Le deformazioni della tela e degli strati pittorici sono state ridotte gradualmente con cicli di umidificazione a UR 85% e trattamento sul tavolo caldo fino a un massimo di 50°C, con pressione di ca. 250 mbar. 3 - Plexisol all’8% in White spirit. 4 - Il risarcimento filo a filo è stato ottenuto impiegando una miscela di Paraloid B72 e Aquazol 200 (10% p/p) in acetone. Le lacune del tessuto sono state ricostruite con lo stesso principio, utilizzando fili di lino di titolo e torsione simili, tessuti nella lacuna seguendo l’andamento dei fili interrotti. 5 - Lo strip-line è stato eseguito con tessuto naturale in lino (tela pattina) ad armatura tela apprettato con Plexisol P550 al 10% in acetone, e applicazione di Beva film OF.
Le lacerazioni e le lacune del supporto sono state risarcite mediante incollaggio puntuale dei fili per ricostituire l’unità strutturale del supporto e per impedire il rilassamento della zona circostante la lacerazione4. Data la fragilità del supporto in corrispondenza dei bordi, il manufatto è stato sottoposto a un intervento di foderatura parziale con applicazione di nuove fasce perimetrali fatte aderire alla tela originale con una resina sintetica termoplastica5. La pulitura della tela è consistita nella rimozione sul verso di depositi coerenti e aderenti alla tela con pennellesse e piccoli aspiratori, mentre l’asportazione degli strati soprammessi alla pellicola pittorica è avvenuta mediante applicazione a pennello sulla superficie dipinta di un solvente supportato in emulsione cerosa6 con successiva rimozione dello sporco con Tween 20 al 2% in acqua demineralizzata e asportazione dei residui di cera mediante etere di petrolio a tampone. Dopo aver eseguito la verniciatura del manufatto a pennello con resine sintetiche in soluzione7, con finalità di protezione della pellicola pittorica, le lacune reintegrabili per localizzazione e per estensione sono state colmate con uno stucco ottenuto con gesso di Bologna e colla di coniglio, successivamente rasate a livello e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata eseguita a velatura con tecnica mimetica mediante applicazione per stesure successive di colori ad acquarello8 e a vernice9. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con l’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione10. Il telaio è stato pulito, trattato contro l’attacco di insetti xilofagi11 e rifunzionalizzato, montando sul perimetro un bordo di scorrimento in legno rivestito di teflon e fissando i meccanismi del sistema di tensionamento elastico direttamente sulla faccia posteriore del telaio, visto che le sue dimensioni sono sufficienti allo scopo. Il dipinto è stato vincolato al sistema elastico attraverso le fasce di foderatura dei bordi in cui è stato alloggiato un tondino in acciaio inox da 5 mm di diametro per distribuire omogeneamente sul perimetro la forza esercitata dalle molle12. La forza di tensionamento scelta è di 1,6 N/cm13. Infine, si è proceduto con l’applicazione di una nuova cornice lignea. DAPHNE DE LUCA MICHELE PAPI
6 - La pulitura è stata realizzata con Trietannolammina TEA in emulsione cerosa, ovvero 0,25 ml di TEA in10g di emulsione cerosa. L’aggiunta di TEA è avvenuta fino al tamponamento del pH a 8 (tempo di contatto: 2 minuti circa a seconda dello stato di conservazione). 7 - La prima verniciatura è stata effettuata applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 8 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton. 9 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 10 - La protezione superficiale finale è stata ottenuta applicando una miscela di vernici costituita da una parte di vernice finale Surfin 1186 e una parte di vernice mat Lefranc&Bourgeois, al fine di ottenere un effetto satinato non lucido. 11 - E’ stato impiegato il prodotto con Per-Xil 10. 12 - Le molle sono realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 13 - Pari a ca. 160 grammi per centimetro di perimetro del dipinto, cioè ca. 16 kg per ogni metro.
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«La Pietà tra i Santi Sebastiano e Cristoforo» FINE DEL XVII - INIZIO DEL XVIII SECOLO IGNOTO (Domenico Gizzonio? – notizie dal 1720 al 1750) Trittico a tempera su tavola, cm 130 x 160 x 3 ca Popoli (PE), chiesa di San Francesco d’Assisi
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Fig. 1. Opera prima del restauro
l trittico, di forma cuspidata, presenta nel pannello centrale la Madonna in tunica giallastra e manto blu che sorregge sulle ginocchia il corpo esanime del Figlio davanti ad una capanna che allude al sepolcro e che reca sul tetto una chiesa in miniatura. A sinistra si staglia contro il cielo azzurro una croce. Negli sportelli laterali sono raffigurati rispettivamente San Sebastiano, coperto da un perizoma e legato ad un albero frondoso, nella consueta iconografia con il corpo trafitto da frecce e le ferite sanguinanti, e San Cristoforo, vestito di tunica e con in mano un bastone fiorito, che porta sulla spalla il Bambino Gesù, il quale regge nella mano sinistra il globo sormontato da una croce mentre con la destra stringe affettuosamente una ciocca dei capelli del Santo. Le teste della Vergine, del Cristo e di S. Sebastiano sono cinte da nimbi dorati, quelle di S. Cristoforo e di Gesù Bambino da sottili aureole anch’esse dorate. Praticamente sprovvisto di bibliografia scientifica, il trittico veniva ricordato più di un secolo fa dallo studioso abruzzese Antonio De Nino (DE NINO 1904) che riassume i dati contenuti nella scheda inventariale da lui redatta per la Soprintendenza alle Antichità e Belle Arti dell’Aquila e consegnata il 19 aprile 1898, dando testimonianza della sua collocazione nella chiesa parrocchiale di S. Lorenzo, che sorge a fianco di quella della SS. Trinità sulla sommità di una scenografica scalinata, a breve distanza dalla piazza principale di Popoli e dalla chiesa di S. Francesco, dove venne poi trasferito in epoca imprecisata. La notizia trova riscontro nella seguente iscrizione dipinta sul verso della tavola centrale: “Trittico a tempera, La Pietà, S. Cristoforo e S. Sebastiano, Chiesa di S. Lorenzo, Popoli”. Ulteriori dati sull’opera provengono da una scheda storica conservata nell’Archivio della Soprintendenza, datata 18 maggio 1908, in cui si conferma la provenienza dalla già citata chiesa parrocchiale, nella Cappella della Madonna di Costantinopoli, e si accenna alla tradizione secondo la quale essa era in origine conservata nella Chiesa della Madonna della Pietà che sorgeva lungo la strada che da Popoli conduce a Vittorito. Il De Nino data l’opera al sec. XV, ed in effetti la struttura a trittico cuspidato con pannelli incernierati e richiudibili fa pensare ad un’epoca piuttosto antica, ipotesi che potrebbe trovare una conferma nella presenza, riscontrata nel corso dell’intervento di restauro, di strati pittorici sottostanti, di cui tuttavia è ignota la periodizzazione. In realtà i connotati stilistici delle pitture oggi visibili, di qualità invero non eccelsa e di tono popolareggiante, rimandano ai secoli posteriori, ed in particolare ad un periodo compreso tra la fine del sec. XVII e i primi decenni del successivo. Con uno sforzo notevole per far uscire l’autore dall’anonimato, si potrebbe chiamare in causa il pittore Domenico Gizzonio, personaggio ormai ben noto dopo che una serie di recenti restauri di sue opere firmate (L’arte svelata 2007) ha permesso di puntualizzare i pochi e fuggevoli accenni forniti dalla letteratura locale. Nativo di Roccacasale (L’Aquila), paese alle pendici del Morrone distante solo
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La Pietà tra i Santi Sebastiano e Cristoforo
pochi chilometri da Popoli, il Gizzonio fu attivo nella prima metà del Settecento in un ristretto ambito locale che abbraccia la parte meridionale della provincia di Pescara e la conca peligna, spingendosi con la sua opera più lontana fino a S. Stefano di Sessanio, sul versante aquilano del Gran Sasso. A titolo esemplificativo del possibile accostamento al Gizzonio, si confronti, per l’impostazione generale, la Pietà nel pannello centrale del trittico di Popoli con l’affresco di analogo soggetto, firmato e datato 1737, sull’altare della Cappella della Maddalena nell’Eremo di S. Spirito a Maiella, presso Roccamorice (Pescara), oppure il volto del San Cristoforo con quello di Sant’ Andrea apostolo nella tela con la Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Andrea della chiesa di Santo Stefano di Cugnoli (Pescara), anch’essa firmata e datata 1748, che però appartiene all’ultima fase dell’attività del Gizzonio, laddove il trittico di Popoli andrà collocato agli esordi della sua modesta carriera di pittore. “Ma l’arte non gli fruttò gran che. C’è tradizione che, alcune volte, fu costretto a metter da parte i pennelli e prendere la zappa!”. Così Antonio De Nino, dopo aver ricordato le origini contadine del Gizzonio, argutamente conclude il breve profilo dedicato all’artista (DE NINO 1887). SERGIO CARANFA Bibliografia DE NINO 1904, p. 59; scheda storica 1908; MARINUCCI, scheda OA n. 13/00215474, 2000. Bibliografia consultata DE NINO 1887, ad vocem “Domenico Gizzonio”; L’arte svelata 2007, pp. 130 ss.
Fig. 2. Particolare del volto di San Sebastiano prima del restauro
INTERVENTO DI RESTAURO
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l trittico di Popoli è stato integralmente ridipinto in tempi relativamente recenti. L’osservazione a luce radente evidenzia la presenza di strati pittorici sottostanti. L’estensione di questi ultimi appare tuttavia troppo esigua per incoraggiare l’eventuale rimozione della ridipintura. Per contro, il supporto ligneo, pur se rimaneggiato e variamente integrato, conserva la sobria eleganza e la solidità di una tavola quattrocentesca. Per questa ragione, si è deciso di dedicare al supporto una attenzione non comune, affiancando all’intervento conservativo una serie di interventi volti al recupero del supporto anche dal punto di vista estetico. Il pannello centrale del trittico (cm 130 x 81), di forma cuspidata, dello spessore di circa 3 cm, è composto da due assi di pioppo di taglio subradiale assemblati a spigolo vivo, attualmente privi di elementi interni di connessione. Entrambi gli sportelli laterali (cm 130 x 40), composti ognuno da due tavole assemblate testa-testa dello spessore di circa 1,4 cm, presentano lungo le linee di giunzione, ad intervalli irregolari, cavicchi in legno duro a sezione quadrata di circa 5 mm (4 in quello a sinistra, 3 a destra). Gli scomparti del trittico sono a loro volta collegati tramite ele-
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menti metallici ripiegati a forma di omega (quattro sulla tavola centrale e due per ogni sportello laterale) agganciati in coppia. La tavola centrale presenta uno spesso strato di ammanitura che ingloba fibre vegetali - probabilmente stoppa di canapa - poste in direzione ortogonale alla fibra del legno. Sugli sportelli laterali, invece, si individuano tracce localizzate di un sottile strato preparatorio di colore bianco con evidenti segni di policromia. In entrambe i casi, la presenza di uno strato protettivo sul retro ha ridotto l’entità dei movimenti del legno, stabilizzando in egual misura il retro rispetto al fronte. Il pannello centrale conserva tre robuste traverse originali, probabilmente in pioppo, mentre l’originario sistema di traversatura ed incorniciatura a tergo delle tavole laterali era stato in gran parte sostituito da listelli in legno di abete ancorati al supporto mediante chiodi e viti. L’intervento di restauro del supporto ha mirato alla risoluzione di due ordini di problemi strettamente connessi alla fruizione dell’opera, sia dal fronte che dal retro: da una parte la necessità di risarcire i punti di maggiore debolezza strutturale del tavolato tramite tassellatura con inserti lignei, dall’altra quella di ristabilire una continuità fisica fra le assi migliorando la percezione visiva
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La Pietà tra i Santi Sebastiano e Cristoforo
Fig. 3. Immagine a luce radente
dell’opera nel suo complesso. Il quadro fessurativo del tavolato non presentava particolari criticità, mentre le deformazioni dello stesso avevano determinato forti sconnessure tra le assi all’interno di ogni singolo elemento del trittico. A partire dagli sportelli laterali, prima di procedere al risanamento delle sconnessure, sono state rimosse le traverse (conservando quelle originali) in modo da riavvicinare il più possibile i margini di contatto fra le assi. Le linee di giunzione sono state risanate e tassellate con inserti lignei di pioppo a sezione triangolare, opportunamente sagomati laddove intercettavano i cavicchi. Allo stesso modo, le fessurazioni passanti presenti sui tre pannelli sono state risanate e tassellate. La cuspide della tavola centrale, particolarmente degradata dagli insetti xilofagi, è stata risanata “a supporto” tramite l’inserimento di tasselli sfalsati, sempre in legno di pioppo. In questa zona, così come sulle traverse originali, è stato previamente eseguito un intervento localizzato di consolidamento con una resina acrilica in soluzione (Paraloid B72 al 4% e al 7% in miscela 1:1 di
alcol isopropilico e metil-etil-chetone), applicata a pennello ad imbibizione. L’insieme delle traverse e delle cornici perimetrali a tergo è stato completamente rivisto conservando da una parte gli elementi originali, dall’altra rimuovendo tutti gli inserti posticci. Tali inserti sono stati sostituiti da nuovi regoli in legno di tiglio, dimensionati e sagomati a sezione triangolare sul modello degli originali. E’ stato quindi riproposto l’originario sistema di chiodatura riutilizzando chiodi antichi, a testa larga e circolare con corpo rastremato a sezione quadrata, inseriti ad incastro all’interno di fori precedentemente realizzati sia sulle traverse che sul supporto. Infine, l’opera è stata disinfestata tramite la creazione di un ambiente anossico in una camera pneumatica, all’interno della quale è stata tenuta, assieme agli altri manufatti lignei provenienti dalla provincia dell’Aquila, per 28 giorni. Come già sottolineato, l’opera risultava integralmente ridipinta, ma troppo lacunosa nei suoi strati pittorici originali per essere
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La Pietà tra i Santi Sebastiano e Cristoforo
Fig. 4. Un particolare dei piedi del Cristo nella fase di pulitura
riportata alla luce. L’intervento è stato quindi di parziale rimozione della ridipintura, là dove il contesto lo consentiva (come sul cielo del fondo), e di conservazione e reintegrazione della ridipintura là dove la perdita della stessa sarebbe equivalsa a perdita di significato del testo pittorico. E’ stato inizialmente eseguito un fissaggio dei sollevamenti di pellicola pittorica, presenti lungo le linee di giunzione delle assi e in molte aree della tavola centrale, con una resina acrilica in emulsione acquosa (Acril 33 al 30% in acqua) tramite interposizione di carta giapponese. I primi test di pulitura hanno evidenziato la criticità dell’intervento, dato che la semplice rimozione dello strato di vernice ossidata implicava talvolta anche la rimozione indesiderata delle ridipinture, specialmente sui toni scuri. Dopo una serie di prove, la rimozione della vernice è stata eseguita con un Solvent Gel di Metil-Etil-Chetone e Alcol Isopropilico 1:1, tenuto sulla superficie per pochi secondi e rimosso prima a secco e poi delicatamente a tamponcino. Dopo aver rimosso le stuccature presenti, sono stati eseguiti dei sondaggi a bisturi per indagare lo stato di conservazione della pellicola pittorica originale sottostante. L’esito dei saggi ha confermato la veridicità delle informazioni ricavate dall’osservazione a luce radente: il dipinto originale è presente in pochi frammenti isolati, ad eccezione del cielo del fondo. Si è pertanto deciso di procedere alla rimozione della ridipintura sul cielo, conservando invece le ridipinture in corrispondenza delle figure. La ridipintura sul cielo è stata rimossa con lo stesso
solvent gel utilizzato per la rimozione della vernice, ma con tempi di contatto di 15 minuti. E’ stata eseguita anche la rimozione delle ridipinture presenti sul busto e sul volto del Cristo nella tavola centrale, troppo alterate e incongruenti per essere conservate. La rimozione in questo caso è stata eseguita con una miscela di Dimetilsolfossido al 15% in Etil Acetato supportata con Laponite. Anche dopo la rimozione delle ridipinture l’area compresa tra il volto della Madonna e il busto del Cristo risultava lacunosa e poco leggibile. Trattandosi del fulcro della composizione, è stato deciso di reintegrarla pittoricamente, raccordando mimeticamente l’integrazione alla ridipintura circostante. A questo scopo è stato realizzato un lucido 1:1 della morfologia delle lacune, in modo da poter realizzare a parte una serie di simulazioni volte alla ricostruzione pittorica. L’elaborato grafico ritenuto più adatto è stato riportato a spolvero sulla stuccatura precedentemente eseguita con gesso di Bologna e colla di coniglio su stuccatura di profondità realizzata con Araldite HV 427. La reintegrazione pittorica sulla ricostruzione, così come sull’intero trittico, è stata eseguita con colori ad acquerello (Windsor & Newton) sulle stuccature a gesso e colla, con equilibratura finale con colori a vernice (Maimeri). A conclusione, il trittico è stato protetto con una verniciatura 1:1 di vernice à Retoucher e Matt (Lefranc & Bourgeois) eseguita a spruzzo. CRISTINA CALDI ARABELLA BERTELLI DE ANGELIS FRANCESCA MARIANI
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«San Francesco riceve le stigmate» PRIMA METÀ DEL XVIII SECOLO SCULTORE ABRUZZESE Legno scolpito, dipinto e dorato, cm 110 x 80 x 183 Castelvecchio Calvisio (AQ), Chiesa di San Giovanni Battista
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Fig. 1. La scultura nella sua originaria collocazione in una foto degli anni Trenta
a scultura lignea, incompleta e non rifinita sul lato sinistro, raffigura san Francesco mentre riceve le stigmate, vestito del saio marrone con cappuccio e cordone alla vita. Il Santo è rappresentato inginocchiato con le braccia sollevate nella iconografia codificata da Giotto nella prima metà del XIII secolo, così come nella tavola del Louvre prima e dell’affresco in Santa Croce a Firenze poi; sostanziale difformità è nella posizione del Santo che, nella scultura, è rivolto verso sinistra. La corporatura del Santo è individuata dalle pieghe del saio che ricadono dritte e pesanti quasi a volerla idealmente ancorare al suolo; tuttavia, al trattamento piuttosto sommario del panneggio si contrappone una particolare cura nel rendere i tratti del viso in estasi, con lo sguardo volto verso l’alto e la bocca semiaperta che lascia scoperti i denti. Molto definite le corte ciocche arricciate dei capelli e della barba che incornicia il magro ovale. La scultura manca di parte del cordone che dalla vita scendeva fino a terra e della mano sinistra. L’opera proviene dalla parrocchiale dedicata a San Giovanni Battista di Castelvecchio Calvisio, era parte integrante dell’altare più vicino alla porta di ingresso sulla sinistra, collocata addossata alla base di una pala d’altare alta circa due metri, contro una parete rivestita con roccia naturale. Grazie alla documentazione conservata presso l’archivio della Soprintendenza BSAE a L’Aquila è possibile ricostruire il complesso decorativo dell’altare votivo: dalle annotazioni della scheda manoscritta del 1934 di Maria Grazia Gabbrielli sappiamo che sulla sinistra, si trovava un’altra statua di dimensioni più contenute (97 cm.) raffigurante frate Leone che “assiste ammirato” al miracoloso evento, che risultava però già scomparsa al momento in cui venne eseguita la foto allegata alla scheda OA (SBAAAAS AQ 236735). Nella documentazione fotografica del 1998 oltre allo spazio vuoto lasciato dalla rimozione della figura di frate Leone, si nota la presenza del Cristo crocifisso in alto a sinistra e in alto a destra a meglio definire lo scabro paesaggio roccioso, in lontananza, una piccola chiesa in rovina. Quello che è possibile oggi ricostruire è un gruppo scultoreo molto particolare che la Gabbrielli nel ’34 ebbe a definire “curioso” e che, per il suo sapore paesano, poteva, a suo dire, avvicinarsi ai presepi del XVIII secolo. Più incerta la scheda OA del 1998 che colloca la scultura tra il XVII e il XVIII secolo. Sconosciuta alla critica recente, l’opera ha risentito oltre che delle sue peculiarità stilistiche e tecniche anche della marginalità della collocazione, che ne hanno di fatto ostacolato l’approfondimento, apparendo ad oggi come un unicum nel panorama del territorio aquilano. E’ infatti l’intero insieme ad attirare l’attenzione su una cultura, che, al di là del carattere popolare, sembra rifarsi agli stessi intenti di partecipazione emotiva che portarono alla realizzazione dei Sacri Monti, dove un uso coordinato di tutte le arti aveva l’intento di ricreare la natura tangibile del luogo dell’evento simulato. Questi intenti realistici vanno ad innestarsi sulle esperienze prettamente barocche riferibili alle pale d’altare
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San Francesco riceve le stigmate
Fig. 2. Fronte e retro dell’opera prima del restauro
animate da sculture in marmo o stucco, che ebbero tanta fortuna a partire dalle invenzioni romane del Bernini (F. Ackermann, 2007). Il linguaggio così definito, ben si attaglia a quella produzione napoletana che tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 vede protagonisti di rilievo gli scultori Gaetano e Pietro Patalano a cui sono stati recentemente attribuiti l’altare maggiore della SS. Trinità nella Chiesa di S. Rocco a Foggia e l’Annunciazione nella Chiesa di S. Nicola di Roccanuova (Potenza), opere di particolare complessità e più ampio respiro ma che sembrano fornire il substrato educativo ed intellettuale all’altare di Castelvecchio Calvisio (Di Liddo 2008, pp. 139 e 148, fig. 90 e 97). Di tutto l’apparato messo insieme dall’anonimo scultore per rendere vivo e presente l’evento miracoloso delle stigmate di San Francesco, è la scultura del Santo a fornirci gli elementi utili a definire meglio un possibile ambito di riferimento. Sembrano infatti i peculiari caratteri di instabilità e slancio della figura pur se priva di quegli effetti dinamici dei volumi, tipico vocabolario della scultura barocca, ad avvicinare l’opera a quel filone produttivo di botteghe di formazione napoletana che avevano, in Giacomo Colombo o Paolo Saverio di Zinno, due importanti esponenti. Nella ricostruzione ipotetica del percorso che ha portato al compimento di una scultura dalla comunicatività immediata come il
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San Francesco di Castelvecchio Calvisio, sono gli antichi tracciati del tratturo, che venivano percorsi annualmente dall’Abruzzo verso i pascoli invernali e la Dogana di Foggia, ad avere la funzione di unire territori differenti per culture e tradizioni e a fornire il canale privilegiato di contatto tra centri anche molto lontani gli uni dagli altri. Le botteghe artigiane, che si erano impregnate dello spirito innovativo della cultura più raffinata di una capitale internazionale come Napoli tra seicento e settecento, ne avevano tradotto i risultati in un linguaggio più facile, dando vita ad una ricca produzione dalla qualità spesso discontinua e a volte approssimativa ma particolarmente apprezzata dalla committenza locale tanto da trovarsi capillarmente diffusa all’interno di un vasto territorio, così come evidenziato dagli studi sullo scultore Di Zinno (Felice 1996; Colangelo 2010, p. 91). EMILIA LUDOVICI Bibliografia GABBRIELLI 1934; MOSCARDELLI 1998. Bibliografia consultata FELICE 1996; ACKERMANN 2007; DI LIDDO 2008; ARCIGLIANO 2009; COLANGELO 2010, pp. 88-98; SIMONE 2010, pp. 150-165.
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Fig. 3. L’opera dopo il restauro vista dal retro
a scultura in legno tenero, di cui a causa del pessimo stato di conservazione non è stato possibile effettuare il riconoscimento secondo lo schema dicotomico, è formata da un corpo centrale composto di due segmenti di tronco svuotati e incollati e da altri due elementi lignei da cui sono state ricavate le braccia, uniti al blocco centrale mediante l’impiego di perni lignei. Per mascherare e rinforzare i punti di giunzione è stata applicata l’ impannatura con strisce di stoffa di lino ad armatura tela di riduzione alta, metodo che permetteva di ridurre le imperfezioni del supporto. Lo strato di preparazione alla policromia è di colore chiaro con superficie porosa, resa più uniforme dall’imprimitura in corrispondenza dell’incarnato. La veste della statua è dipinta uniformemente di scuro senza licenza alla decorazione, in conformità con la regola di povertà del Santo. Il pigmento è applicato in più stesure fino ad ottenere una buona coprenza. Il viso e l’incarnato delle mani sono stesi a velature. Di buona fattura è l’aureola intagliata e collegata al corpo centrale grazie a un perno metallico. La doratura è realizzata con la tecnica della foglia d’oro su bolo rosso. La statua ha subito danni diretti a causa del sisma. E’ da notare che già precedentemente all’evento il supporto, in cattivo stato di conservazione, era sfibrato da diversi cicli di riproduzione di insetti xilofagi, le cui larve stagionalmente si sono nutrite della cellulosa del legno tenero. Sono inoltre visibili parti mancanti, tra cui le dita della mano sinistra, del piede, parte del saio e della corda. Difetti di adesione dello stato preparatorio rendevano difficile anche lo sfiorare la superficie, in particolare presso la zona del capo e del braccio sinistro. La pellicola pittorica era caratterizzata dalla presenza diffusa di piccole lacune ed abrasioni su tutta la superficie con depositi parzialmente coerenti quali polveri fissate, deiezioni animali e depositi incoerenti polveri e particellato atmosferico. Sono emerse diverse reintegrazioni del modellato trattate mimeticamente con ritocchi poi alterati, in particolare sono state precedentemente riparate con stuccature e riprese le sconnessure in corrispondenza dei giunti sia sul retro che sul fronte. Il viso è stato più volte oggetto di ridipintura. L’intera superficie è stata verniciata con uno strato come protettivo, poi ingiallito. Dopo la compilazione della scheda per la catalogazione, e dopo aver rimosso ove possibile i depositi incoerenti tramite pennellesse morbide ed aspiratore, si è proceduto con la riadesione delle scaglie sottili del supporto con alcool polivinilico mentre i sollevamenti più rigidi sono stati abbassati tramite infiltrazione di resina acrilica in emulsione e posti sotto pesetti per facilitarne la distensione. La parte inferiore del manto, mani e piedi, rosi dagli insetti e indeboliti anche pregressa esposizione ad ambienti umidi, sono stati trattati con resina acrilica in soluzione a bassa percentuale. Resina acrilica in emulsione ad alta percentuale è stato utilizzata per trattare i difetti di adesione dell’ impannatura, particolarmente
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San Francesco riceve le stigmate
Fig. 4. Particolare dopo la rimozione dell’aureola
evidenti sulla calotta della testa e sul retro. Successivamente sono stati incollati, con resina vinilica e polvere di legno, il pollice della mano sinistra e il nodo della corda, che si presentavano separati dalla statua. La fase della pulitura si è rivelata piuttosto delicata a causa della delicatezza della stesura pittorica sottostante la vernice ingiallita e lo strato di depositi coerenti che si intendeva rimuovere. Dopo opportuni test sono stati miscelati solventi polari in grado di rimuovere vernici. A causa della volatilità, sono stati supportati con l’ausilio di gel che trattenessero la miscela esclusivamente in superficie per un tempo relativamente maggiore. Differenziando la pulitura in base ai pigmenti sottostanti si è potuto avere un’indicazione sui leganti delle ridipinture: per i bruni del manto, più bituminosi, è stata utilizzata una miscela di solventi polari supportata con carta giapponese, mentre per gli incarnati, più tenaci, è stato aggiunta alla miscela anche una base a pH moderatamente alcalino, supportando in emulsione cerosa e rifinendo poi la pulitura meccanicamente tramite bisturi. Per l’aureola si è proceduto con una pulitura a tampone tramite impiego di soluzioni idro-alcoliche. Dove mancanze e fessurazioni fendevano il supporto in profondità si sono rese necessarie stuccature con resina aralditica; per le
stuccature superficiali si è proceduto invece con G gesso e colla animale. Le dita mancanti della mano sinistra sono state ricostruite realizzando fori nel supporto che ha alloggiato il filo metallico in ottone fissato con una resina epossidica bicomponente. Su questo scheletro è stata modellata in fasi successive l’araldite caricata di polvere di legno, concludendo con un ultimo strato di resina pura, quindi rifinendo con bisturi e carta abrasiva. In seguito alla prima verniciatura ricostruzioni, stuccature e abrasioni sono state reintegrate mimeticamente cercando di ottenere una trama vibrante simile alla pellicola pittorica originale. Si è proceduto con le fasi finali del lavoro con il trattamento antiruggine dei vecchi chiodi metallici tramite inibitore di corrosione isolato con resina acrilica previa rimozione meccanica della ruggine preesistente. La verniciatura finale si è svolta in ambiente protetto con vernice di finitura mat applicata a spruzzo. La disinfestazione per anossia delle larve di insetti xilofagi forse ancora vitali è l’ultima fase dell’intervento ed è stata eseguita durante la stagione primaverile. FRANCESCA MARIANI ARABELLA BERTELLI DE ANGELIS CRISTINA CALDI
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«Natività» 1741 Dipinto a tempera su tela, cm 190,5 x 102,5 Calascio (AQ), chiesa di San Nicola di Bari
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Fig. 1. L'opera durante l'intervento di restauro
aratterizzato da un’ampia tavolozza e accesi contrasti cromatici, l’inedito dipinto evidenzia accenti dinamici e musicali nella particolare tessitura compositiva. Investito da una luce diffusa e collocato al centro, il Bambin Gesù è circondato da Maria, da San Giuseppe con il bastone fiorito e da un pastore che suona la ciaramella, ginocchioni a destra. In primo piano a sinistra un fanciullo giunge con passo svelto per recare un’anatra, da collocarsi verosimilmente nella cesta dove sono stati deposti due galli. Al centro sono tre cherubini, lateralmente fa capolino il bue. L’intera parte superiore della tela, centinata, è occupata da un elegante angelo che, sguardo rivolto al cielo, indica con l’indice della mano destra la scena in basso. Come di consueto nell’iconografia della Natività, assai diffusa a partire dalla stagione barocca, l’episodio si svolge accanto alle rovine di un tempio, qui evocate da una sola possente colonna rastremata eretta su un alto basamento. Nondimeno una scarna tettoia sottolinea la provvisorietà del ricovero presso il quale la Sacra Famiglia trovava riparo e Maria dava alla luce Gesù. L’autore del dipinto di Calascio dipinto inedito è da rintracciarsi nella vasta schiera di pittori napoletani o di cultura napoletana – solo in parte finora evidenziati dalla letteratura critica - che attingevano liberamente al repertorio di più accreditati maestri elaborando gradevoli composizioni assai amate e ricercate dalla committenza, in una fase durante la quale il lavoro per tali professionalità non doveva certo mancare. In proposito va ricordato un dipinto raffigurante la Sacra Famiglia – segnalatomi da Giovanni Villano – conservato in una collezione privata e attribuito dallo stesso proprietario, Achille Della Ragione, al “solimenesco di seconda battuta” Evangelista Schiano. Nella tela troviamo alcuni elementi addirittura sovrapponibili a quelli che compaiono nella tela di Calascio: il Bambin Gesù, la posizione della Madonna in ginocchio a sinistra ammantata con ampi drappeggi che solleva un lembo del panno su cui giace il bambino, il gesto del San Giuseppe che si sporge mettendo la mano al petto. Del maestro, da taluni ritenuto nativo di Ischia, si conoscono opere in chiese di Napoli e della provincia, attualmente racchiuse nell’arco cronologico compreso tra il 1755, anno in cui Evangelista Schiano data e firma la Madonna del Rosario della Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, oggi nel Museo diocesano di Napoli, e il 1777, che troviamo su un suo dipinto nella Chiesa di San Francesco d’Assisi a Ischia. Un riferimento al medesimo maestro lascia tuttavia assai perplessi poichè, a parte l’evidente scarto cronologico, soprattutto la Sacra Famiglia citata appare fortemente ancorata al linguaggio solimenesco, mentre nel nostro caso, le tinte rischiarate e l’intonazione complessiva ispirata a una pacata classicità rappresentano modelli di stile che sembrerebbe condurre piuttosto in direzione dell’attività matura di Francesco De Mura e Paolo De Matteis, vale a dire verso quei valenti maestri che nei primi decenni del Settecento contesero a Francesco Solimena la scena artistica non solo napoletana, spingendosi in prima persona o attraverso le opere non solo nelle ‘periferie’ del Regno, ma anche all’estero,
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Natività
Fig. 2. Particolare della lacerazione del supporto tessile in corrispondenza del manto del pastore in primo piano
Fig. 3. Particolare prima del restauro
contesi tanto dalla nobiltà quanto dai benedettini di Montecassino. Nel corso dell’intero Settecento una miriade di maestri risulta attiva sulla loro scia, non di rado come in questo caso replicando elementi liberamente desunti dai dipinti dei maestri, con ricorso frequente ai disegni e alle incisioni che circolarono nel Regno. Del resto persino l’angelo in alto e i tre cherubini richiamano analoghe figure proposte più volte proprio da Francesco De Mura. Pertanto s’attendono maggiori conferme per precisare un’attribuzione per questo dipinto datato 1741. Al momento il panorama abruzzese relativamente alla diffusione di tali esperienze è ancora tutto da ricostruire; dopo le lontane aperture di alcuni benemeriti studiosi locali ancora mancano
studi sistematici a fronte di tante presenze di spicco e materiali interessanti ancora inediti. Presenze e materiali che sebbene oggi rappresentino solo in minima parte un passato di ricchezza economica e culturale di centri come Calascio – ubicati in posizione strategica - potrebbero attraverso una corretta valorizzazione ancora rappresentare una leva per la rinascita di una comunità che oggi va lentamente esaurendosi. LUCIA ARBACE
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Bibliografia MOSCARDELLI, scheda OA n. 13/00187454, 1999.
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Fig. 4. L'opera durante la fase di reintegrazione pittorica
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Natività
Fig. 5. Particolare a luce radente
Fig. 6. Particolare prima dell'intervento di restauro
INTERVENTO DI RESTAURO
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’opera è eseguita su di un supporto tessile vegetale in lino1, con una preparazione rossa scura molto sottile ottenuta probabilmente con creta impastata con olio e pigmenti2. La pellicola pittorica è costituita invece da pigmenti stemperati con il rosso d’uovo3. Il dipinto era ancorato tramite chiodi metallici a un telaio non originale4 in pioppo, di forma rettangolare centinata, costituito da tre regoli uniti a tenone e mortasa e da una traversa a croce imperniata ai regoli. Le maggiori manifestazioni del degrado del manufatto si trovavano in corrispondenza dei bordi, i quali mostravano alcune lacerazioni e la sfibratura del tessuto, nonché vistosi segni verticali da imputare ai regoli laterali e al generale rilassamento del supporto tessile. Vi erano inoltre numerose lacerazioni del supporto con cadute di colore e alcuni fori di sfarfallamento causati da insetti xilofagi in corrispondenza dei regoli del telaio. Gli strati preparatori e la pellicola pittorica erano interessati da vistose crettature di origine meccanica, con andamento circolare, causate da danni di origine antropica ma anche dalla trazione esercitata dal telaio sulle parti di tessuto lacerato, e crettature da essiccamento con andamento reticolare irregolare. La pellicola pittorica era coperta da depositi incoerenti e presentava un generale imbrunimento dovuto all’alterazione di uno strato di fi-
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nitura coevo alla realizzazione del dipinto, ottenuto mediante la stesura di bianco d’uovo5. Tale sostanza aveva causato inoltre la formazione di accumuli materici puntiformi sulla superficie, da imputare a una contrazione filmogena dell’albume. Durante un precedente intervento di restauro, erano state applicate due rattoppature in tessuto sul retro della tela in corrispondenza delle lacerazioni più ampie del supporto ed eseguite alcune reintegrazioni pittoriche con colori a tempera cromaticamente alterate e debordanti in maniera vistosa sulla materia originale. Il consolidamento degli strati preparatori e della pellicola pittorica è stato eseguito mediante impregnazione con una resina sintetica termoplastica6 applicata dal retro a pennello. La pellicola pittorica è stata ulteriormente consolidata mediante applicazioni localizzate del medesimo prodotto sul fronte, in corrispondenza dei cretti più marcati e dei sollevamenti di grave entità. Per riattivare l’adesivo termoplastico e allo stesso tempo restituire planarità al supporto, il manufatto è stato sottoposto a un processo di riscaldamento e pressione tramite posizionamento nel tavolo caldo7. La tela presentava un tensionamento piuttosto debole e una leggera fragilità delle fibre del tessuto. Inoltre, lo stato di conservazione
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Natività
Fig. 7. Particolare del tassello di pulitura effettuato in corrispondenza di Gesù Bambino
dei bordi, discontinui e lacerati dalla ruggine dei chiodi, non permetteva di realizzare un sicuro ancoraggio tra la tela e il telaio, rendendo pertanto necessaria l’applicazione di nuove fasce perimetrali8 fatte aderire alla tela originale con una resina sintetica termoplastica9. Per la pulitura degli strati pittorici è stato impiegato il bicarbonato d’ammonio supportato in emulsione stearica10 per permettere un’azione più controllata ed un contatto migliore del prodotto sulla superficie. L’emulsione con il sale è stata applicata a pennello in modo da seguire lo spessore delle pennellate e per tempi di contatto di circa 30 secondi. La rimozione dell’impacco è stata eseguita con un tampone asciutto per asportare il materiale soprammesso solubilizzato e successivamente con essenza di petrolio per eliminare i residui di materiale ceroso dalla superficie. Le lacune della preparazione e della pellicola pittorica sono state
colmate con uno stucco di gesso di Bologna e colla di coniglio. La reintegrazione delle stuccature è stata effettuata con la tecnica del tratteggio mediante applicazione per stesure successive di colori ad acquarello11. L’unità di lettura della superficie è stata ottenuta con la velatura delle abrasioni e delle microlacune della pellicola pittorica con colori ad acquarello e a vernice12. La protezione finale del dipinto è consistita nell’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione13. Dato il pessimo stato conservativo del telaio ligneo non originale, si è proceduto con il montaggio della tela su di un nuovo telaio ligneo in pioppo con sistema di espansione a biette. La parte della centina, costituita da un unico pannello ligneo e in buono stato di conservazione, è stata conservata e inglobata nella nuova struttura di sostegno. DAPHNE DE LUCA
Note tecniche: 1 - Il supporto ad armatura tela (1:1) ha una riduzione media di 10 x 10. E' da segnalare la presenza di un’iscrizione grazie alla quale è possibile datare il dipinto al 1741. L’iscrizione “P. A. D. 1741”, probabilmente originale, è realizzata a pennello con un pigmento nero su di uno strato preparatorio di colore grigio chiaro. 2 - La natura dei materiali costitutivi è stata individuata tramite analisi spettrofotometriche realizzate sulle sezioni stratigrafiche e sulle polveri. Tali analisi hanno rivelato la presenza di carbonato di calcio e di silicati, entrambi riconducibili alla creta. Per quanto riguarda il legante dell’inerte, è stata riscontrata la presenza di olio di lino. Le indagini chimiche sono a cura del Dott. L. Giorgi, dell’Istituto di Scienze Chimiche dell’Università di Urbino “Carlo Bo”. 3 - Vedi Supra nota n.3 4 - La parte centinata del telaio consiste in un pannello di legno di circa 2 cm di spessore, la cui parte inferiore è sagomata a forma di regolo e sul quale sono ancora visibili i segni di lavorazione del legno con asce e sgorbie. La centina è con ogni probabilità coeva alla realizzazione del dipinto, come dimostrano le teste dei chiodi forgiati sulle quali deborda il colore originale. Al contrario, l’originalità del telaio è dubbia, perché i chiodi ivi presenti non recano tracce di pellicola pittorica e in alcuni punti dei regoli verticali si notano i segni di un’altra chiodatura. 5 - Vedi Supra nota n.3
6 - Beva O.F. sciolto in benzina 80-100°C al 10% 7 - E’ stata impiegata una temperatura di 60°-65° C ed una pressione di 250 millibar per circa quindici minuti, avendo cura di procedere con un lento raffreddamento del piano mantenendo costante la pressione. 8 - Lo strip-line è stato eseguito con tessuto poliestere ad armatura tela. Per evitarne lo sfilacciamento è stato necessario apprettare la tela risparmiando le frange, per imbibizione in una resina sintetica termoplastica (Plexisol P550 al 20% in White Spirit). Tutte le fasce sono state sfrangiate su un lato per una lunghezza di 2 cm per evitare che lo spessore della tela da rifodero si imprimesse sul davanti e successivamente imbibite con un’ulteriore strato di resina sintetica termoplastica (Beva OF in pasta diluito al 10% in benzina 80°-100°) per assicurarne una buona adesione. 9 - Beva film OF. 10 - Il bicarbonato d’ammonio (NH4HCO3) è stato impiegato nella sua forma solida, ovvero mischiando direttamente 1 parte di sale in 20 parti di emulsione cerosa fino al suo completo scioglimento. 11 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 12 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 13 - La verniciatura è stata effettuata con 2 parti di vernice J.G. Vibert Brillant-gloss, finale Lefranc &Bourgeois e 2 parti di vernice mat Lefranc &Bourgeois.
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«La Madonna presenta l’effigie di San Domenico» TERESA PALOMBA (NOTIZIE 1748-1773) Dipinto a olio su tela, cm 184 x 130 Castel del Monte (AQ), chiesa di San Marco evangelista
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Fig. 1. Il dipinto nella cona lignea in una foto precedente al sisma
’inedito dipinto settecentesco, incastonato ancora nella sua originaria carpenteria lignea, proviene dalla chiesa di Santa Maria del Suffragio a Castel del Monte (AQ): un luogo di culto particolarmente caro alla religiosità delle popolazioni abruzzesi per i riti legati al mondo pastorale e alla transumanza che, proprio nella cittadina, poteva contare su un importante mercato di lana nera in grado di richiamare non solo pastori ma anche artigiani e mercanti. Commissionata dai rappresentanti dell’Università, come lasciano chiaramente intuire non solo le iniziali C.M. (Castrum Montis) intagliate a rilievo, ma anche l’emblema civico con i cinque colli ristretti all’italiana dipinto nello scudetto posto alla sommità dell’ancona, la tela illustra il Miracolo di Soriano: un evento prodigioso avvenuto nel convento domenicano di Soriano Calabro, nei pressi di Vibo Valentia, la notte del 5 settembre 1530. Secondo la leggenda tramandata dalle cronache conventuali e successivamente ripresa da Saverio Frangipane nella “Raccolta de’ miracoli fatti per l’intercessione di san Domenico, istitutore del sacro ordine de’ Predicatori, con l’occasione d’una sua imagine portata dal cielo in Soriano”, stampata a Messina nel 1621, la Vergine Maria e le sante Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria sarebbero apparse per consegnare a un converso del convento un’immagine di San Domenico di Guzmán. A partire dalla metà del XVII secolo la raffigurazione di quell’evento miracoloso, che metteva in scena l’arrivo dell’icona acherotipa di san Domenico alla presenza delle tre sante donne, si diffuse rapidamente in tutto il Mezzogiorno, godendo - fino al Settecento inoltrato - di vasta fortuna soprattutto in quelle località dove la presenza dei frati predicatori o delle confraternite laicali, in particolare quelle ispirate alla devozione verso il Rosario, risultava particolarmente incisiva. Il recente restauro, che ha restituito alla composizione un’atmosfera familiare e serena ravvivata da colori intensi e brillanti, ci consente di ancorare il dipinto di Castel del Monte al catalogo di Teresa Palomba, una pittrice probabilmente di origini salentine, la cui attività è documentata in Campania e in Abruzzo fra il 1746 e il 1773. Scarne e molto spesso confuse sono le notizie relative alla vicenda biografica della pittrice nata - secondo alcuni - a Parabita in provincia di Lecce nei primi decenni del Settecento, ma trasferitasi abbastanza presto nella capitale, meta naturale per ogni giovane artista. Anche i tempi esatti del trasferimento a Napoli, peraltro, non sono noti. E’ verosimile, comunque, che ella avesse ricevuto una prima educazione in patria, dove sicuramente aveva avuto modo di studiare la pittura napoletana sui numerosi dipinti di Luca Giordano, Paolo de Matteis ma anche Nicola Malinconico e Giovanni Battista Lama conservati in cattedrali e chiese del territorio leccese. La stessa questione relativa al perfezionamento napoletano della sua preparazione artistica non è stata del tutto risolta. D’altro canto il corpus delle sue opere, ancora troppo esiguo, soltanto di recente si è arricchito di nuove acquisizioni grazie alla riscoperta della sua figura e a un maggiore interesse critico sulla sua produzione. Tra il terzo e il quarto decennio del Settecento, il tirocinio di Teresa può essere considerato pressoché concluso: le prime tele firmate e datate, relative proprio a quegli anni, mostrano già una pittrice autonoma, tito-
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La Madonna presenta l’effigie di San Domenico
Fig. 2. Particolare della Madonna dove si evidenzia il taglio sul supporto tessile con una sutura grossolana eseguita in un precedente restauro
lare forse anche di una modesta bottega, impegnata nell’esecuzione di opere destinate per lo più a una committenza privata, ma anche a chiese e conventi della provincia, lontano dalla capitale. Non è un caso che la prima opera finora rintracciata, l’Adorazione dei pastori dipinta nel 1746 per la sconsacrata chiesa di san Giuseppe di Lanciano (CH) e successivamente trasferita nella vicina chiesa di santa Chiara, mostri una completa assimilazione della pittura del protagonista indiscusso dell’ambiente artistico napoletano, Francesco Solimena, che ella cerca di conciliare attraverso le sue sobrie qualità figurative con soluzioni di accentuato tono devozionale. I riferimenti solimeneschi, arricchiti progressivamente anche da spunti demuriani, risultano evidenti anche nelle opere successive come testimoniano l’Immacolata Concezione con la Trinità, San Giovanni Battista e san Giuseppe del 1748 nella chiesa abbaziale di san Giovanni a Sirico di Saviano (Na), la Predica di san Francesco di Sales della chiesa napoletana di Santa Maria di Donnalbina (1752), il ciclo di tele eseguito intorno al 1756 per la chiesa di santa Maria di Monserrato ad Avellino o le pale di proprietà del Fondo Edifici di Culto commissionate per il complesso conventuale di san Bernardino da Siena a Sant’Anastasia (Na), di cui l’ultima autografa del 1773. Alla fine degli anni Cinquanta sembra datarsi anche la tela di Castel del Monte dove accanto ai tradizionali rinvii alla pittura colta emerge, nella composizione semplice, priva di fremiti o tensioni drammati-
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che, il particolare stile della sua pittura. In una dimensione sospesa e rasserenante, di emozioni delicate quasi sarnelliane, la sacra conversazione tutta al femminile di Castel del Monte mostra le tipiche qualità espressive dell’artista con le dolci pose delle figure avvolte in ampi e vorticosi manti, rappresentante con i colli lunghi, il capo costantemente reclinato, i volti distesi, la gestualità elegante e piacevole. Si afferma , insomma, un riuscito brano di pittura devota costruita su toni domestici e quotidiani che notevole seguito avrebbe trovato ancora nelle province del Regno fino agli albori del XIX secolo. GIOVANNI VILLANO Bibliografia ATTANASIO, scheda n. 13/00187428, 2002. Bibliografia consultata DI ORAZIO 1750; SIGISMONDO 1788-1789, p. 37; ZANI 1823; GALANTE 1872, p. 141; MOLINARO, 1935; DE GIORGI 1975, p. 242; CATELLO - CATELLO 1977, p. 48; STRAZZULLO 1978, p. 31; MUOLLO, in Momenti 1985, pp. 85-94; MARINO 1992, pp. 169, 376, 463; SCOTTI 1992; BATTISTELLA 1995, pp. 126-153; AVELLA 1999, p. 2008; GRAZIOSI 2004; MOLLICA 2010, pp. 31,154-159; DI FURIA, in Capolavori 2012, pp. 260-263.
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La Madonna presenta l’effigie di San Domenico
INTERVENTO DI RESTAURO
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Fig. 3. Ricucitura filo a filo
’opera è eseguita su un supporto in lino1 costituito da due teli orizzontali uniti mediante cucitura a sopraggitto. L’ancoraggio della tela al telaio, ottenuto tramite chiodi metallici lungo lo spessore, non è da considerarsi coevo alla realizzazione del dipinto: la tela ha infatti subito un intervento di resecazione sul lato sinistro che ne ha modificato le dimensioni originarie, probabilmente per montarla su di un nuovo telaio non adeguato alle sue dimensioni. Lo stato preparatorio consiste in un’imprimitura di colorazione bruno scuro di spessore sottile costituita da olio e pigmenti. Anche i pigmenti sono mischiati con olio, formando una pellicola pittorica omogenea dallo spessore sottile e caratterizzata da una stesura fluida. Tutti i regoli del telaio presentavano numerosi fori di sfarfallamento dovuti a un attacco di insetti xilofagi. In corrispondenza della testa della Santa ubicata a sinistra della Madonna è stato riscontrato un ampio taglio verticale del supporto tessile con cadute e sollevamenti degli strati preparatori e della pellicola pittorica. Il taglio è stato ricucito in modo grossolano durante un restauro precedente e la pellicola pittorica è stata reintegrata con colori a tempera debordanti sulla materia originale. Gli strati preparatori e la pellicola pittorica erano interessati da un cretto da essiccamento di media entità, più evidente nella parte inferiore del dipinto e in corrispondenza dei pigmenti scuri, e da vistose crettature di origine meccanica, riscontrate soprattutto nell’angolo inferiore destro e caratterizzate da un andamento diagonale, causate con ogni probabilità dalla trazione del telaio in corrispondenza degli angoli. Vi erano inoltre numerose lacune e sollevamenti in corrispondenza dei bordi del manufatto.L’opera non era chiaramente leggibile a causa di uno strato protettivo ingiallito e imbrunito steso in maniera uniforme sul manufatto. Sulla superficie pittorica è stata riscontrata anche la presenza di uno strato soprammesso di colore trasparente steso in modo disomogeneo soprattutto in corrispondenza dei panneggi scuri delle figure, probabilmente da imputare all’applicazione di un prodotto per ravvivare o consolidare gli strati pittorici. Infine vi erano alcune gocce di cera in corrispondenza del panneggio del santo inginocchiato, schizzi biancastri di natura gessosa e sgocciolature in corrispondenza della parte superiore del manufatto che avevano causato la parziale solubilizzazione dello strato di finitura ingiallito. Il manufatto è stato smontato dal telaio e spianato con l’ausilio del tavolo ad alta pressione per abbassare i cretti e le deformazioni dovute al taglio e alla trazione del telaio in corrispondenza degli angoli. Il consolidamento della pellicola pittorica e degli strati preparatori è stato ottenuto con l’applicazione a pennello di una resina sintetica in soluzione2, mentre il taglio è stato risarcito mediante incollaggio puntuale dei fili per ricostituire l’unità strutturale del supporto e per impedire il rilassamento della zona circostante la lacerazione3. Data la fragilità del supporto in corrispondenza dei bordi, il manufatto è stato sottoposto a un intervento di foderatura parziale con applicazione di nuove fasce perimetrali4 fatte aderire alla tela originale con una resina sintetica termoplastica5.
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Fig. 4. Particolare della lacerazione in corrispondenza della testa di Santa Maria Maddalena prima e dopo il restauro
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La Madonna presenta l’effigie di San Domenico
Fig. 5. Particolare di Santa Caterina d'Alessandria prima e dopo il restauro
La rimozione dei depositi coerenti e incoerenti presenti sul recto e verso della tela è stata compiuta mediante pulitura meccanica con morbide pennellesse, spugne Wishab e aspiratore. Lo strato di finitura alterato è stato rimosso mediante mezzi chimici, ovvero con l’impiego di bicarbonato d’ammonio in emulsione cerosa6. Tale impasto è stato applicato sulla superficie pittorica con l’ausilio di pennelli in modo da seguire meglio l’andamento del ductus pittorico, lasciato agire per tempi di contatto di circa 1518 secondi e successivamente rimosso a secco e mediante tamponi di ovatta leggermente imbevuti di essenza di petrolio per asportare i residui cerosi. Il materiale traslucido soprammesso alla superficie in maniera eterogenea è stato rimosso con tamponi imbevuti di acqua demineralizzata tiepida. Dopo aver eseguito la verniciatura del manufatto a pennello con resine sintetiche in soluzione7, con finalità di protezione della pellicola pittorica, le lacune reintegrabili per localizzazione e per estensione sono state colmate con stucco8, successivamente rasate a livello e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione
pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata eseguita a velatura con tecnica mimetica mediante applicazione per stesure successive di colori ad acquarello9 e a vernice10. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con l’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione11. Il telaio è stato pulito, trattato contro l’attacco di insetti xilofagi12 e rifunzionalizzato, montando sul perimetro un bordo di scorrimento in legno rivestito di teflon e fissando nella luce un controtelaio in legno di rovere, per rinforzarlo e vincolare i meccanismi del sistema di tensionamento elastico13. Il dipinto è stato vincolato al sistema elastico attraverso le fasce di foderatura dei bordi in cui è stato alloggiato un tondino in acciaio inox da 5 mm di diametro per distribuire omogeneamente sul perimetro la forza esercitata dalle molle14. La forza di tensionamento scelta è di 1,8 N/cm15. Infine, si è proceduto con l’applicazione di una nuova cornice lignea. DAPHNE DE LUCA
Note tecniche: 1 - Il supporto in lino ad armatura tela (1:1) ha una riduzione media di 7x8. Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - Plexisol al 10% in Etere di Petrolio 100-140°C e Butilacetato (2:1). E’ stata impiegata una miscela per favorire la solubilizzazione della resina. 3 - Il risarcimento filo a filo è stato ottenuto impiegando l’adesivo Tylose MH300 all’8%. 4 - Lo strip-line è stato eseguito con tessuto poliestere Trevira CS ISPRA ad armatura tela. Per evitarne lo sfilacciamento, la tela è stata apprettata risparmiando le frange, per imbibizione in una resina sintetica termoplastica (Plexisol P550 al 20% in White Spirit). Tutte le fasce sono state sfrangiate su un lato per una lunghezza di 2 cm per evitare che lo spessore della tela da rifodero si imprimesse sul davanti e successivamente imbibite con un’ulteriore strato di resina sintetica termoplastica (Beva OF in pasta diluito al 10% in benzina 80°-100°) per assicurarne una buona adesione. 5 - Beva film OF 6 - Sono state scelte due diverse concentrazioni del sale d’ammonio in emulsione cerosa, secondo la penetrazione della sostanza soprammessa all’interno degli strati pittorici: la concentrazione maggiore (1 parte di bicarbonato in 10 parti di emulsione cerosa) è stata
impiegata nei fondi e sui colori scuri, mentre la concentrazione minore (1 parte di bicarbonato in 20 parti di emulsione cerosa) ha dato ottimi risultati in corrispondenza delle parti chiare, quali l’incarnato, alcune vesti e il cielo. 7 - La prima verniciatura è stata eseguita applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 8 - Lo stucco è stato ottenuto mischiando 2 parti di gesso di Bologna con 1 parte di Aquazol P200, precedentemente diluito in acqua demineralizzata al 10-15% e lasciato rigonfiare per 24 ore, omogeneizzando poi il tutto con l’aiuto dell’agitatore magnetico per 15-30 minuti. 9 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 10 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 11 - Per la protezione finale è stata scelta la vernice a base di resine alifatiche Regalrez 1094 caratterizzata da ottime proprietà di trasparenza, reversibilità, resistenza all’ingiallimento e all’invecchiamento in generale. 12 - E’ stato impiegato il prodotto con Per-Xil 10 13 - Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 14 - Le molle sono realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. 15 - Pari a ca. 160 grammi per centimetro di perimetro del dipinto, cioè ca. 16 kg per ogni metro.
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«L’Immacolata e le anime purganti» TERZO QUARTO DEL XVIII SECOLO Dipinto a olio su tela, cm 159 x 105 Carapelle Calvisio (AQ), chiesa di San Francesco, già chiesa parrocchiale di Santa Maria
I
Fig. 1. Opera prima del restauro
l tema della Anime del Purgatorio, già presente in età medievale nelle scene del Giudizio, assume dal XV secolo e soprattutto a partire dal XVI un carattere autonomo secondo uno schema ricorrente che vede i corpi nudi tra le fiamme nel gesto di pregare e di tendere le braccia manifestando il disperante anelito a sollevarsi dalle fiamme, generalmente soccorsi da angeli che gettano acqua e li sollevano verso la sfera divina, rappresentata dalla Trinità, da Cristo o dalla Madonna, talvolta accompagnata da Santi. Questo modello tripartito rispecchia l’idea di intermediazione che gioca un ruolo centrale nella elaborazione del tema: il superamento della condizione transitoria di purificazione nelle fiamme infernali presuppone l’intervento mediatore degli angeli, dei Santi, o di Maria presso Cristo, rappresentato da un registro intermedio che, in espressioni artistiche baroccheggianti, fa tutt’uno con quel ritmo vorticoso che dalle fiamme infernali conduce verso le figure divine. La teologia e la liturgia cattolica attribuiscono a San Michele Arcangelo il ruolo di esecutore della volontà divina e intercessore per le anime presso Dio: è colui che ne allevia la sofferenza istillando loro la speranza e le conduce, una volta purificate, in Paradiso. Nella messa di Requiem la sua presenza è invocata come una luce che illumina le anime, riflesso della pienezza del Paradiso: “Signifer sanctus Michael raepresentet eas in lumen sanctam”. Nell’iconografia l’identificazione con l’arcangelo Michele non è esplicitata dal consueto attributo della corazza, e talvolta sono più angeli a tirare su le anime verso il cielo (Coppola, Anime del Purgatorio, Cattedrale di Sant’Agata, Gallipoli). Nel dipinto di Carapelle un solo angelo, verosimilmente San Michele, è raffigurato nell’atto di liberare un’anima dalle fiamme sollevandola con sé in cielo. Il movimento è sottolineato dai riccioli scomposti, dal panneggio che lo avvolge gonfio nelle morbide increspature, dalla nuvola che sembra averne accompagnato il volo. Le anime sono ora figure morbidamente definite dagli sguardi imploranti, ora volti e maschere che si intravedono tra le fiamme. In alto Maria nella veste dell’Immacolata, avvolta da nubi dorate da cui si affacciano i cherubini, rappresenta l’approdo ideale delle anime, quello della purezza, la cui dimensione eterna è simboleggiata dal sole e dalla luna disegnate nel cielo ai lati della sacra apparizione. Il manto mosso dal vento è simbolo dello Spirito Santo che anima la “nuova creazione”, il recupero della integrità primitiva rappresentata da Maria nuova Eva. La presenza della Madonna nella rappresentazione delle anime del Purgatorio è generalmente legata alla sua veste particolare di Madonna del Carmelo, connotata dallo scapolare, che tiene in mano, accompagnata da santi appartenenti al terz’ordine carmelitano, quali Simone Stock e Santa Teresa d’Avila. Nei primi decenni del XVI secolo, in ambito meridionale, alle anime purganti è associata la Madonna delle Grazie; artisti quali Marco Cardisco, Stefano Sparano, Andrea Sabatini, Girolamo Alibrandi, raffigurano Maria che stilla latte dal seno per alimentare il pentimento delle anime purganti. Ricerche d’archivio permettono di ipotizzare che la collocazione originaria dell’opera, oggi conservata nella sacrestia di San France-
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L’Immacolata e le anime purganti
Fig. 2. Particolare del telaio prima del restauro
Fig. 3. Particolare con le rattoppature applicate in un precedente restauro in corrispondenza di lacerazioni
sco, sia la chiesa parrocchiale di Santa Maria, in cui è documentato un altare del Santissimo Suffragio almeno dalla seconda metà del XVII secolo. Questo, istituito probabilmente ad opera di una confraternita, come sembra attestare la dicitura “de confraternitate” nelle visite pastorali degli anni 1670, 1687 e 1694, diventa altare per la devozione di tutta la comunità, perlomeno nell’Ottocento, quando le diciture che lo accompagnano risultano essere “ipsius ecclesie” (1829) o “de iure patronatus communitatis” (1842, 1850). Fino al 1708 si trovavano sull’altare delle “tabulae pictae” trovate in cattivo stato dal vescovo Bonaventura Martinelli: di esse non si
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ha notizia nelle visite successive, ma si può ritenere che siano state tolte al tempo della realizzazione del dipinto. MARTA VITTORINI Bibliografia MOSCARDELLI scheda OA n. 13/000184465, 1998. Bibliografia consultata ANTINORI, Corografia, vol. XXIX; MATTIOCCO 1988; SABATINI 2004; MOSCARDELLI, scheda OA n. 13/000184465, 1998.
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L’Immacolata e le anime purganti
Fig. 4. Falso colore infrarosso
Fig. 5. Immagine a luce radente
INTERVENTO DI RESTAURO
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l dipinto su tela è ancorato a un telaio ligneo rettangolare fisso, composto di quattro elementi uniti a tenone e mortasa del tipo “a capitello” e da una traversa orizzontale unita ai regoli a tenone e mortasa. L’opera è eseguita su un supporto in lino1 in un unico telo. L’ancoraggio della tela al telaio è ottenuto tramite chiodi metallici lungo lo spessore, distanziati in maniera regolare l’uno dall’altro. Lo stato preparatorio consiste in un’imprimitura di colore marrone chiaro e la pellicola pittorica è ottenuta con pigmenti legati con olio. Sul telaio sono state riscontrate alcune fratture in corrispondenza degli incastri angolari e numerosi danni causati da insetti xilofagi, mentre la traversa era leggermente imbarcata. La tela presentava un tensionamento molto debole e i segni molto evidenti dell’impressione dei regoli e soprattutto della traversa del telaio sul fronte. Vi erano inoltre due lacune e una lacerazione precedentemente risarcite con rattoppature applicate dal retro in un intervento di restauro. La pellicola pittorica e gli strati preparatori erano interessati da crettature di origine meccanica, nonché da vaste aree con cadute di colore. Sono stati riscontrati numerosi ritocchi pittorici eseguiti in un intervento precedente con colori a olio, debordanti ampiamente
sulla materia originale: in particolare, il volto di una delle figure immerse nelle fiamme era interamente ridipinto in maniera grossolana, così come alcune parti della veste della Madonna, delle fiamme e delle nuvole nel fondo. La superficie era coperta da particellato atmosferico incoerente e da uno strato di finitura vistosamente scurito e ingrigito. Le deformazioni della tela sono state risanate ponendo il manufatto nel tavolo a caldo, umidificando il supporto tessile e apportando una leggera pressione2, mentre il ristabilimento dell’adesione dei materiali costitutivi al supporto tessile è stato ottenuto mediante applicazione dal verso di prodotto consolidante in soluzione a pennello3. Le lacerazioni sono state risarcite con un intervento di incollaggio puntuale dei fili per ricostituire l’unità strutturale del supporto4. Le lacune del tessuto sono state ricostruite con lo stesso principio, utilizzando fili di lino di titolo e torsione simili, tessuti nella lacuna seguendo l’andamento dei fili interrotti. Successivamente si è proceduto con la foderatura dei soli bordi con applicazione di nuove fasce perimetrali5 fatte aderire alla tela originale con una resina sintetica termoplastica. I depositi coerenti e incoerenti presenti sul verso del manufatto sono
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Fig. 6. Particolare del San Michele Arcangelo prima e dopo l'intervento di restauro
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L’Immacolata e le anime purganti
Fig. 7. Particolare di una figura fra le fiamme dopo la reintegrazione pittorica
stati rimossi con pennellesse, morbide gomme e con una successiva rifinitura a bisturi per l’asportazione dei depositi più tenaci, mentre sul recto, l’asportazione degli strati soprammessi alla pellicola pittorica è avvenuta mediante un tensioattivo e con la successiva applicazione a pennello sulla superficie dipinta di un solvente supportato in emulsione cerosa6. La reintegrazione pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata eseguita a velatura con tecnica mimetica con applicazione per stesure successive di colori ad acquarello7. La prima verniciatura del manufatto, con finalità di protezione della superficie, è stata eseguita a pennello con resine sintetiche in soluzione8. Le lacune reintegrabili per localizzazione e per estenzione sono state stuccate uno stucco ottenuto con gesso di Bologna e colla di coniglio, in seguito rasate e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione pittorica è stata completata con colori a vernice9. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con
l’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione10. Per quanto riguarda il telaio11, si è proceduto alla pulitura del legno, al trattamento contro l’attacco da agenti xilofagi con prodotto biocida12 e alla sua rifunzionalizzazione, realizzata montando sul perimetro un bordo di scorrimento in legno rivestito di teflon e fissando nella sua luce interna un controtelaio in legno di rovere, per rinforzarlo e vincolare i meccanismi del sistema di tensionamento elastico. Il dipinto è stato vincolato al sistema elastico attraverso le fasce di foderatura dei bordi in cui è stato alloggiato un tondino in acciaio inox da 5 mm di diametro per distribuire omogeneamente sul perimetro la forza esercitata dalle molle13. La forza di tensionamento scelta è di 1,6 N/cm14. Infine, si è proceduto con l’applicazione di una nuova cornice lignea. DAPHNE DE LUCA MICHELE PAPI
Note tecniche: 1 - Il supporto in lino ad armatura tela (1:1) ha una riduzione di 9x11 (ordito e trama). Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - Le deformazioni della tela e degli strati pittorici sono state ridotte gradualmente con cicli di umidificazione a UR 85% e trattamento sul tavolo caldo fino a un massimo di 50°C, con pressione di ca. 250 mbar. 3 - Plexisol all’8% in White spirit 4 - Il risanamento delle lacerazioni e delle mancanze è stato eseguito con la tecnica del “filo a filo”, impiegando come adesivo la miscela di Paraloid B72 ed Aquazol 200 (10% p/p), disciolta in acetone. 5 - Lo strip-line è stato eseguito con tessuto naturale in lino (tipo pattina) ad armatura tela apprettato con Plexisol P550 al 10% in acetone, e applicazione di Beva film OF. 6 - La pulitura è stata effettuata con Trietannolammina TEA in emulsione cerosa, ovvero 0,25 ml di TEA in10g di emulsione cerosa. L’aggiunta di TEA è avvenuta fino al tam-
ponamento del pH a 8 (tempo di contatto: 2 minuti circa a seconda dello stato di conservazione). Lo sporco è stato rimosso a secco e con tamponi di ovatta imbevuti di tween 20 al 2% in acqua demineralizzata. Successivamente si è proceduto con l’asportazione dei residui cerosi con etere di petrolio e tamponi di ovatta. 7 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 8 - La prima verniciatura è stata effettuata applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 9 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 10 - La protezione superficiale finale è stata ottenuta applicando una miscela di vernici costituita da due parti di vernice finale Surfin 1186 e una parte di vernice mat Lefranc&Bourgeois. 11 - Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 12 - E’ stato impiegato il prodotto biocida Per-Xil 10 13 - Le molle sono realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. 14 - Pari a ca. 160 grammi per centimetro di perimetro del dipinto, cioè ca. 16 kg per ogni metro.
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«San Michele Arcangelo, Santa Lucia e Sant’Anna» 1808 VINCENZO CONTI (1775-1825) Dipinto a olio su tela, cm 195 x 143 Collepietro (AQ), chiesa di San Giovanni Battista
I
l dipinto, firmato e datato, rappresenta sulla sinistra Sant’Anna, al centro San Michele Arcangelo e sulla destra Santa Lucia. La raffigurazione iconografica dei tre santi è quella tradizionale: Sant’Anna anziana, con il velo bianco e il libro, San Michele nell’atto di uccidere il demonio e Santa Lucia con gli occhi su un calice e la palma del martirio ai piedi. Appare inusuale la compresenza nel dipinto di questi tre santi, benché tutti ugualmente cari alla devozione popolare. La raffigurazione di San Michele al centro della scena, può essere collegata alla tradizione armentizia del luogo, vista la vicinanza del paese di Collepietro all’antico tratturo Regio, detto anche Tratturo Magno, che collegava L’Aquila a Foggia. La transumanza, infatti, aveva inizio proprio il 29 settembre, giorno dedicato a San Michele Arcangelo a cui i pastori si affidavano per essere protetti dai morsi dei lupi e dei serpenti. L’opera presenta in basso a destra l’indicazione della data e del nome dell’autore “Conti (pinxi)t 1808”, permettendo l’attribuzione certa a Vincenzo Conti, artista sulmonese che ha lasciato numerose opere nelle chiese di Sulmona, dell’Aquila e delle zone limitrofe. In particolare, il soggetto iconografico di San Michele Arcangelo che trafigge il Diavolo è raffigurato dal Conti anche in una tela posta nella Chiesa Santa Giusta a L’Aquila, riferimento dell’antico quarto anticamente titolato a San Giorgio. Si tratta di un’opera precedente alla nostra, datata 1800 e commissionata dall’influente famiglia dei Dragonetti de Torres. Accanto al San Michele, il Conti dipinge un’“Annunciazione” e un “Tobia e San Raffaele Arcangelo” che prendevano posto, prima del sisma del 6 aprile 2009, nella Cappella de Torres alla sinistra dell’altare. A commissioni importanti si affiancano opere eseguite nelle chiese di paesi più piccoli come Picenze dove, nella Chiesa di San Martino dipinge un San Vincenzo Ferrer, o Pacentro, per la cui chiesa di San Marcello dipinge una Madonna in cielo con Bambino e Santi. Sebbene Collepietro, paesino da cui proviene la nostra opera, sia di piccolissime dimensioni, ha testimonianze storiche antichissime. La chiesa di San Giovanni Battista fu costruita intorno all’anno Mille, e ristrutturata nel 1539. Presenta un bel portale tardo rinascimentale con monogramma bernardiniano ed è situata nella parte antica del paese che conserva ancora oggi il fascino della cittadella medioevale con alcune caratteristiche case-torri. ALESSANDRA GIANCOLA
Fig. 1. Opera prima del restauro
Bibliografia BALASSONE, scheda OA n. 13/00090270, 1994.
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Fig. 2. Telaio e supporto prima del restauro
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San Michele Arcangelo, Santa Lucia e Sant’Anna
Fig. 3. Particolare della veste di Santa Lucia durante la pulitura
Fig. 4. Opera in luce radente
INTERVENTO DI RESTAURO
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l dipinto su tela è ancorato a un telaio ligneo rettangolare fisso, composto di quattro elementi uniti a tenone e mortasa del tipo “a capitello”. L’opera è eseguita su un supporto in lino1 in un unico telo. L’ancoraggio della tela al telaio è ottenuto tramite chiodi metallici lungo lo spessore, distanziati in maniera regolare l’uno dall’altro. Lo stato preparatorio consiste in un’imprimitura di medio spessore di colorazione rosso scuro costituita da gesso (probabilmente mischiato con colla) e pigmenti, mentre la pellicola pittorica è ottenuta con pigmenti legati con olio. Al centro del basamento dietro le figure delle due sante, è presente un’iscrizione2 realizzata a pennello con il nome dell’autore e la data di realizzazione. Il telaio versava in un discreto stato di conservazione, ma la tela presentava un tensionamento mediocre, delle leggere deformazioni nella parte inferiore e i segni dell’impressione dei regoli del telaio. Sul supporto tessile vi erano alcune piccole lacune sull’ala sinistra dell’Angelo e sulla sua corazza e tre lacune di media grandezza con lacerazioni del tessuto in corrispondenza di Satana, risarcite con rattoppature applicate dal retro. Sul verso del manufatto è stato riscontrato un attacco biologico sotto forma di macchie biancastre3.
La pellicola pittorica e gli strati preparatori erano interessati da crettature di origine meccanica e da essiccamento, nonché da vaste aree con cadute di colore, localizzate soprattutto in corrispondenza del bordo laterale sinistro. La superficie era coperta da particellato atmosferico incoerente e da uno strato di finitura vistosamente scurito e ingiallito. In corrispondenza dell’ala sinistra dell’Angelo, sono state riscontrate delle sgocciolature scure e particolarmente resistenti. L’attacco biologico è stato rimosso con un biocida 4 a spruzzo sia sul recto sia sul verso. Le deformazioni della tela sono state risanate ponendo il manufatto nel tavolo ad alta pressione, umidificando il supporto tessile e apportando una leggera pressione5, mentre il ristabilimento dell’adesione dei materiali costitutivi al supporto tessile è stato ottenuto mediante applicazione dal verso di prodotto consolidante in soluzione a pennello6. Le lacerazioni sono state risarcite con un intervento di incollaggio puntuale dei fili per ricostituire l’unità strutturale del supporto7. Successivamente si è proceduto con la foderatura dei bordi con applicazione di nuove fasce perimetrali8 fatte aderire alla tela originale con una resina sintetica termoplastica. Sul verso del manufatto sono stati rimossi i depositi coerenti e in-
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Fig. 5. Le lacune e le lacerazioni del supporto corrispondenza della figura di Satana prima e dopo l'intervento di restauro
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San Michele Arcangelo, Santa Lucia e Sant’Anna
Fig. 6. Particolare di San Michele Arcangelo in fluorescenza UV
coerenti con pennellesse e morbide gomme, mentre sul recto l’asportazione degli strati soprammessi alla pellicola pittorica è avvenuta mediante un tensioattivo e con la successiva applicazione a pennello sulla superficie dipinta di una miscela solvente supportata in emulsione cerosa9. La reintegrazione pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata eseguita a velatura con tecnica mimetica con applicazione per stesure successive di colori ad acquarello10. La prima verniciatura del manufatto è stata effettuata a pennello con resine sintetiche in soluzione11. Le lacune reintegrabili per localizzazione e per estensione sono state stuccate uno stucco ottenuto con gesso di Bologna e colla di coniglio, successivamente rasate e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione pittorica è stata conclusa con colori a vernice12. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con l’applica-
zione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione13. Il telaio è stato pulito, trattato contro l’attacco di insetti xilofagi14 e rifunzionalizzato, montando sul perimetro un bordo di scorrimento in legno rivestito di teflon15. Nella luce del telaio originale è stato fissato un controtelaio in legno di rovere, per rinforzarlo e vincolare i meccanismi del sistema di tensionamento elastico. Il dipinto è stato vincolato al sistema elastico attraverso le fasce di foderatura dei bordi in cui è stato alloggiato un tondino in acciaio inox da 5 mm di diametro per distribuire omogeneamente sul perimetro la forza esercitata dalle molle16. La forza di tensionamento scelta è di 1,5 N/cm17. Infine, si è proceduto con l’applicazione di una nuova cornice lignea. DAPHNE DE LUCA MICHELE PAPI
Note tecniche: 1 - Il supporto in lino ad armatura tela (1:1) ha una riduzione piuttosto rada di 6x5. Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - L’iscrizione “Conti. D. 1808” con ogni probabilità originale, è realizzata a pennello con un pigmento marrone chiaro. 3 - Le analisi biologiche eseguite presso il Dipartimento di Scienze Biomolecolari dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, hanno confermato la presenza di miceti, in particolare di Penicillium chrysogenum e Ulocladium cartharum. 4 - New Des 50 al 2% in acqua demineralizzata. 5 - Le deformazioni della tela e degli strati pittorici sono state ridotte gradualmente con cicli di umidificazione a UR 85% e trattamento sul tavolo caldo fino a un massimo di 50°C, con pressione di ca. 250 mbar. 6 - Plexisol all’8% in White spirit 7 - Il risanamento delle lacerazioni e delle mancanze è stato eseguito con la tecnica del “filo a filo”, impiegando come adesivo la miscela di Paraloid B72 ed Aquazol 200 (10% p/p), disciolta in acetone.
8 - Lo strip-line è stato eseguito con tessuto naturale in lino (tela pattina) ad armatura tela preventivamente apprettata con Plexisol P550 al 10% in acetone, e applicazione di Beva film OF. 9 - La pulitura è stata eseguita con il Tween 20 al 2% in acqua demineralizzata e lo strato di finitura alterato è stato asportato con una miscela sostitutiva all’impiego delle basi: nbutilacetato + 2ml TEA supportata in emulsione cerosa. I residui cerosi sono stati rimossi con tamponi di ovatta e etere di petrolio. 10 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 11 - La prima verniciatura è stata effettuata applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 12 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 13 - La protezione superficiale finale è stata ottenuta applicando una miscela di vernici costituita da due parti di vernice finale Surfin 1186 e una parte di vernice mat Lefranc&Bourgeois. 14 - E’ stato impiegato il prodotto con Per-Xil 10 15 - Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 16 - Le molle sono realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. 17 - Pari a ca. 160 grammi per centimetro di perimetro del dipinto, cioè ca. 16 kg per ogni metro.
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«L’educazione della Vergine» XIX SECOLO Dipinto a olio su tela, cm 117 x 175 Ofena (AQ), chiesa di San Giovanni
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l dipinto è realizzato su supporto anomalo: un lenzuolo di cotone imbibito forse di colla animale. Ascrivibile al secolo XIX, è un esempio di pittura locale, destinata a essere inserita in una delle nicchie della chiesa; rappresenta Sant’Anna nell’atto di educare Maria alla lettura dei passi della Bibbia. Al centro della scena vi è la Vergine bambina, in abito bianco e mantello azzurro scuro, che legge con atteggiamento devoto il libro che la madre Anna, sontuosamente abbigliata e di aspetto insolitamente giovanile, tiene sulle ginocchia; a destra San Gioacchino, padre della Vergine, protende le mani in atteggiamento di preghiera verso il Padre Eterno benedicente. L’artista sceglie di rappresentare la scena in un ambiente chiuso, ricercato nelle citazioni architettoniche: l’antica colonna di marmo grigio, inquadra lo spazio a sinistra e sorregge il pesante drappeggio dorato che avvolge i personaggi; sulla destra, dietro una parasta si apre la finestra. La Vergine è seduta su una poltrona di velluto verde dalle rifiniture in oro. La composizione prospettica, sottolineata dalla luce soffusa delle aureole che si fonde con il cono luminoso dello Spirito Santo, tende a concentrare l’attenzione sulle due donne che troviamo concentrate nella lettura dei testi. Sebbene la mano tradisca una personalità artistica poco avvezza alle regole accademiche, l’opera risulta molto efficace nella resa narrativa. Proprio a questo proposito è interessante notare come tale tema sia, in Abruzzo, poco ricorrente, mentre trova ampia diffusione nella produzione di santini devozionali. L’educazione della Vergine nella sua dimensione quasi domestica e certamente familiare rappresenta un episodio caro alla cultura popolare e ciò giustificherebbe questa particolare e insolita scelta iconografica per una pala d’altare. Tuttavia ciò potrebbe essere stato suggerito anche dalla temperie culturale post-unitaria che mirava ad attuare un massiccio processo di alfabetizzazione in maniera diffusa in tutto il territorio, cercando di raggiungere, con la collaborazione delle autorità ecclesiastiche, ogni località. Ofena, nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo vive un momento di forte espansione demografica; la particolare posizione geografica del piccolo paese risultava strategica in virtù dell’antica rete viaria che attraversava la catena del Gran Sasso. La vicinanza con Navelli, centro di eccellenza nel commercio dello zafferano e con Capestrano, importante centro monastico, hanno favorito certamente lo sviluppo dell’ economia locale. Inoltre le condizioni climatiche rendevano la zona adatta alla coltivazione dell’ulivo e della vite. Il declino e lo spopolamento avverrà successivamente, a partire dalla metà del Novecento. ALESSANDRA GIANCOLA
Fig. 1. Opera prima del restauro
Bibliografia BALASSONE, scheda OA n. 13/00184028, 1999.
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L’educazione della Vergine
Fig. 2. Particolare del volto della Vergine
Fig. 3. Particolare con corrugamento e caduta della pellicola pittorica in corrispondenza della veste di Sant’Anna
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L’educazione della Vergine
Fig. 4. Il telaio prima e dopo l’intervento di restauro
INTERVENTO DI RESTAURO
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l dipinto su tela è ancorato a un telaio ligneo rettangolare fisso, composto di quattro elementi uniti a tenone e mortasa del tipo “a capitello”. L’opera è eseguita su un supporto molto sottile in cotone1 costituito da due teli verticali uniti a sopraggitto. L’ancoraggio della tela al telaio è ottenuto tramite chiodi metallici lungo lo spessore, distanziati in maniera regolare l’uno dall’altro, e con incollaggio della tela sui regoli. Lo stato preparatorio consiste in un’imprimitura di medio spessore di colorazione bruna e la pellicola pittorica è ottenuta con pigmenti legati con olio. Sul verso del manufatto è stato riscontrato un attacco biologico di lieve entità2. La tela presentava un tensionamento debole, i segni dell’impressione dei regoli del telaio e alcuni tagli in corrispondenza dello sfondo dietro la Sant’Anna. La pellicola pittorica e gli strati preparatori erano interessati da crettature di origine meccanica e da essiccamento, nonché da cadute e corrugamenti del colore localizzati in corrispondenza del panneggio verde scuro della Sant’Anna e del tendaggio alla sua sinistra. In-
fine, la superficie era coperta da particellato atmosferico coerente e incoerente. L’attacco biologico è stato rimosso con un biocida3 a spruzzo sul verso del manufatto. Le deformazioni della tela e degli strati pittorici sono state risanate umidificando il supporto e apportando una leggera pressione4, mentre il ristabilimento dell’adesione dei materiali costitutivi al supporto tessile è stato ottenuto mediante applicazione dal recto e dal verso di prodotto consolidante in soluzione a siringa e a pennello5. I tagli della tela sono stati risarciti con un intervento di incollaggio puntuale dei fili per ricostituire l’unità strutturale del supporto6. Le lacune del tessuto sono state ricostruite con lo stesso principio, utilizzando fili di lino di titolo e torsione simili, tessuti nella lacuna seguendo l’andamento dei fili interrotti. Successivamente si è proceduto con la foderatura dei bordi con applicazione di nuove fasce perimetrali7 fatte aderire alla tela originale con una resina sintetica termoplastica. I depositi coerenti e incoerenti presenti sul verso del manufatto sono
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Fig. 5. Particolare del taglio del supporto tessile prima e dopo l'intervento di restauro
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L’educazione della Vergine
Fig. 6. Particolare del volto di Sant’Anna in luce radente
Fig. 7. Particolare della fibra di cotone – ingr. 200x
stati rimossi con pennellesse, gomme Wishab e piccoli aspiratori, mentre sul recto è stata effettuata la rimozione del particellato mediante pani di gomma e con un tensioattivo applicato a tampone8. La reintegrazione pittorica delle abrasioni e delle lacune di piccole dimensioni è stata eseguita a velatura con tecnica mimetica con applicazione per stesure successive di colori ad acquarello9. La prima verniciatura del manufatto è stata effettuata a pennello con resine sintetiche in soluzione10. Le lacune reintegrabili per localizzazione e per estensione sono state stuccate uno stucco ottenuto con gesso di Bologna e colla di coniglio, successivamente rasate e reintegrate a tratteggio, mentre la reintegrazione pittorica è stata conclusa con colori a vernice11. La protezione finale superficiale del manufatto è stata ottenuta con l’applicazione a spruzzo di resine sintetiche in soluzione12.
Il telaio è stato pulito, consolidato, trattato contro l’attacco da agenti xilofagi con prodotto biocida13 e successivamente rifunzionalizzato, montando sul perimetro un bordo di scorrimento in legno rivestito di teflon e fissando nella luce del telaio originale un controtelaio in legno di rovere, per rinforzarlo e vincolare i meccanismi del sistema di tensionamento elastico14. Il dipinto è stato vincolato al sistema elastico attraverso le fasce di foderatura dei bordi in cui è stato alloggiato un tondino in acciaio inox da 5 mm di diametro per distribuire omogeneamente sul perimetro la forza esercitata dalle molle15. La forza di tensionamento scelta è di 1,4 N/cm16. Infine, si è proceduto con l’applicazione di una nuova cornice lignea. DAPHNE DE LUCA MICHELE PAPI
Note tecniche: 1 - Il supporto in cotone ad armatura tela (1:1) ha una riduzione piuttosto fitta di 22x19 (ordito e trama). Per individuarne la tipologia, i filati sono stati montati con scotch di carbone biadesivo, su particolari supporti detti stubs, ricoperti d’oro mediante sputtering e osservati al microscopio elettronico a scansione SEM Philips 515. Le analisi sono state eseguite dalla prof.ssa Elisabetta Falcieri e dalla dott.ssa Sabrina Burattini, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Sezione Morfologia e Tecnologie per la Salute, Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 2 - Le analisi biologiche eseguite presso il Dipartimento di Scienze Biomolecolari dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, hanno confermato la presenza di miceti, in particolare di Penicillium chrysogenum e Ulocladium cartharum. 3 - New Des 50 al 2% in acqua demineralizzata. 4 - Le deformazioni della tela sono state ridotte gradualmente con cicli di umidificazione a UR 85% e trattamento sul tavolo caldo fino a un massimo di 50°C, con pressione di ca. 250 mbar. 5 - L’adesione delle parti sollevate del cretto è stata ristabilita dal davanti con infiltrazioni localizzate di colla di storione al 5% e con applicazione dal verso di Plexisol all’8% in White spirit a pennello. 6 - Il risarcimento filo a filo è stato ottenuto impiegando come adesivo una miscela di Paraloid B72 e Aquazol 200 (10% p/p), disciolta in acetone. Per riaccostare i lembi dei
tagli è stato necessario metterli in leggera tensione con fili di nylon montati perpendicolarmente alla lacerazione stessa e con un’umidificazione localizzata. 7 - Lo strip-line è stato eseguito con tessuto poliestere Trevira CS ISPRA ad armatura tela e Beva film OF. 8 - La pulitura è stata eseguita con le gomme Wishab e successivamente con il Tween 20 al 2% in acqua demineralizzata. 9 - Sono stai impiegati i colori ad acquarello Winsor&Newton 10 - La prima verniciatura è stata effettuata applicando la vernice a base di resine acriliche Retoucher sopraffine 1188 Lefranc&Bourgeois per la sua elevata elasticità. 11 - I colori a vernice Maimeri sono stati diluiti in Paraloid B72 al 10% in Etil lattato. 12 - La protezione superficiale finale è stata ottenuta applicando una miscela di vernici costituita da due parti di vernice finale Surfin 1186 e una parte di vernice mat Lefranc&Bourgeois. 13 - E’ stato usato il prodotto Per-xil 10. 14 - Il lavoro è stato eseguito dalla ditta Equilibrarte s.r.l. di Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 15 - Le molle sono realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. 16 - Pari a ca. 160 grammi per centimetro di perimetro del dipinto, cioè ca. 16 kg per ogni metro.
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«Santa Filomena» 1831 Legno scolpito e dipinto, cm 162x82x66 Bussi sul Tirino (PE), chiesa di San Biagio
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Fig. 1. Opera prima del restauro
ra il secondo e il terzo decennio del XIX secolo l’agiografia meridionale conosceva un vero e proprio exploit: il culto alla santa vergine Filomena, una misteriosa martire di origini greche, vissuta nei primi secoli del Cristianesimo, il cui sepolcro era stato scoperto casualmente nelle catacombe di Priscilla a Roma, a seguito dei lavori di scavo e sistemazione patrocinati da papa Pio VII nel 1802. Pochi anni dopo la scoperta delle reliquie, un sacerdote della diocesi di Nola, Francesco de Lucia, attraverso una rete di dipendenze e autorevoli amicizie, in particolare con Bartolomeo de Cesare vescovo di Potenza, riuscì a impossessarsi delle sacre spoglie. Con prontezza e abilità ne dispose il trasferimento in Campania e già il 10 agosto 1805 le poté collocare solennemente in un fastoso sacrario realizzato presso la chiesa di santa Maria delle Grazie a Mugnano del Cardinale (Av), dove svolgeva il suo ministero pastorale. Animato da un entusiasmo quasi romantico, de Lucia diventa così l’impresario ufficiale del nuovo culto a santa Filomena, il custode privilegiato della sua memoria. Quella che a molti poteva sembrare una consueta forma di collezionismo cristiano di reliquie, in realtà, si rivelò una straordinaria operazione mediatico-religiosa che, per tutto l’Ottocento e per buona parte del secolo seguente, fece della “tomba” della martire un punto focale di religiosità per l’interno Mezzogiorno. In un’epoca che registrava una forte ripresa del fervore cristiano, il santuario di Mugnano del Cardinale aggiornava la mappa dei loca sanctorum dove i fedeli potevano sperimentare attraverso segni concreti la misericordia divina. Presso quel moderno martyrion si manifestava in tutto il suo splendore la presenza e la potentia di un’antica testimone del messaggio evangelico annunciato e difeso fino all’effusione del sangue: un modello di vita per i devoti e allo stesso tempo il simbolo di un recupero dei valori del Cristianesimo delle origini. Rapidamente dal territorio nolano e dall’Irpinia la venerazione per la sconosciuta ma fidata martire Filomena si diffonde a Napoli per poi irradiarsi nelle altre province del Regno. Risalendo attraverso antichi percorsi tratturali, l’ondata devozionale attecchì con grande successo anche negli Abruzzi grazie a un forte protagonismo dei laici (soprattutto borghesi) e all’attivismo di alcuni rami della grande famiglia francescana, in particolare Cappuccini e Osservanti Riformati, che si prodigarono per diffonderne culto, immagini e pratiche devozionali nelle rispettive province religiose. La popolarità e il prestigio della santa raggiunsero in breve tempo notevoli proporzioni, amplificate peraltro dalla sua fama taumaturgica manifestatasi con numerosi prodigi dispensati sul territorio dell’Aquilano (Capestrano, Collepietro, Celano, Aielli, Bussi e Popoli) ma anche a Teramo e a Chieti (Fara San Martino, Palena, Pizzoferrato): eventi miracolosi o presunti tali, puntualmente registrati da de Lucia nella sua Relazione istorica della traslazione del sagro corpo e miracoli di S. Filomena Vergine e Martire
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Santa Filomena
Fig. 2. Particolare della mano sinistra
da Roma a Mugnano del Cardinale, riedita a Benevento - dopo vari aggiornamenti - nel 1834 per i tipi di Pietro Paolo Paternò. Tra i numerosi interventi soprannaturali avvenuti per intercessione della santa, particolarmente interessante per lo studio del culto sul territorio, appare la salvezza di una puerpera a Bussi sul Tirino, oggi in provincia di Pescara, il giorno di Natale del 1831. A seguito di complicazioni correlate a un parto particolarmente difficile, una «gentildonna» della cittadina aveva dato alla luce una bambina morta e lei stessa - forse a causa di un’emorragia era in pericolo di vita. La provvidenziale azione della protettrice celeste, sollecitata attraverso preghiere e mediante il contatto con un’immaginetta devozionale, riesce a mettere in salvo la fedele e a risuscitare la neonata, battezzata in segno di protezione e riconoscimento con il nome di Filomena. Allo stato attuale degli studi non sappiamo se quell’evento straordinario, che aveva destato «pubblico stupore» nella comunità, avesse avuto anche delle implicazioni di carattere figurativo. Esso, tuttavia, può essere ragionevolmente considerato terminus post quem per la datazione della scultura che qui viene presentata per la prima volta. Questa ipotesi, d’altro canto, trova un’ulteriore conferma nella successiva data del 21 dicembre 1833, allorquando il Sant’Uffizio rilasciò il definitivo imprimatur alla stampa delle “Rivelazioni” sulla vita della martire, ricevute da una mistica napoletana, suor Maria Luisa di Gesù, al secolo Maria Carmela Ascione, fondatrice della Congregazione delle Suore di Maria SS. Addolorata. L’atto del tribunale ecclesiastico riconosceva per certi versi l’esistenza del culto e offriva un rinnovato impulso alla sua propagazione in Italia e in Europa, soprattutto in Francia ad opera di Paolina Jaricot e di Giovanni Maria Vianney curato di Ars, poi santificato dalla Chiesa. Non è certo casuale la circostanza che, proprio nel periodo immediatamente successivo all’approvazione del Sant’Uffizio, questa de-
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flagrante attenzione a santa Filomena si sia concretizzata nella dedicazione in tutto il Regno di cappelle e altari, nonché nella realizzazione di stampe, sculture e dipinti con episodi tratti dalle rivelazioni agiografiche. Proveniente dalla chiesa parrocchiale di San Biagio a Bussi, edificata nel sec. XVI e gravemente danneggiata dal sisma dell’aprile 2009, la pregevole scultura in legno dipinto raffigura la santa secondo l’iconografia dedotta dalla visione di suor Maria Luisa di Gesù - come una dolce fanciulla rapita dall’estasi mistica nell’atto di mostrare ai fedeli gli strumenti del martirio: le frecce d’argento a cui, probabilmente, in origine doveva accompagnarsi anche un’ancora uncinata, oggi dispersa. La giovane martire indossa una tunica bianca con una sopraveste celeste bordata di giallo, stretta in vita da una cintura dorata ed è completamente avvolta da un manto rosso, annodato ai fianchi, che copre le spalle e fascia il braccio destro, lasciando libero quello sinistro. La candida tunica, che sembra imitare una preziosa e impalpabile seta, è decorata con fiori distribuiti a bouquet di rose su un’intricata trama di girali vegetali mentre il mantello, picchettato da fiorellini cruciformi, presenta una bordura con un motivo ad archetti e palmette dorati a missione. La sinuosa gestualità incline ancora a una certa teatralità, la leggerezza del volto e delle mani pregnanti di arcadica grazia, la sapiente esecuzione dei panneggi e delle pieghe riconducono l’opera nell’ambito della produzione napoletana del terzo decennio del XIX secolo, profondamente agganciata alla tradizione tardo settecentesca tramandata da importanti botteghe che, con grande successo, perpetuavano fortunate forme rocaille talvolta ravvivate da elementi di gusto neoclassico. I caratteri partenopei, d’altra parte, sono stati messi in luce proprio dal recente restauro che ha reso ancora più evidenti le affinità fisionomiche e di resa stilistica tra la scultura di Bussi e coeve opere napoletane come la Santa Filomena della chiesa di san Francesco a Forio d’Ischia (Na), nonché le due statue in legno policromo poste nelle chiese di san Pietro apostolo a Capaccio (Sa) e di san Giuseppe a Sala Consilina (Sa). Sorprendono, inoltre, le analogie con la fluttuante Santa Filomena della parrocchiale di santa Maria Assunta al Cielo in Visciano (Na), caratterizzata da un incedere più sicuro ed elegante, che determina un agitato movimento delle vesti dalle fruscianti stoffe, nonché delle chiome acconciate con una pettinatura ispirata alla moda dell’epoca. Rintracciare, però, l’anonimo maestro della santa Filomena abruzzese risulta a tutt’oggi estremamente complesso sia per la scarsità di riscontri documentari sia per la mancanza di studi specifici da parte della critica che, soltanto in anni recenti, ha mostrato un inedito interesse alla produzione lignea napoletana del primo Ottocento. E’ auspicabile, quindi, che proprio l’elevata qualità del manufatto, memore ancora della robusta lezione di Giuseppe Sanmartino, possa sollevare in futuro ulteriori approfondimenti in grado di chiarire la questione che al momento rimane problematicamente aperta. GIOVANNI VILLANO Bibliografia CARRETTA, scheda OA n. 13/0064796, 1990
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Santa Filomena
INTERVENTO DI RESTAURO
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’opera raffigurante Santa Filomena, è una scultura in legno policroma a tutto tondo. La figura stante rivolge lo sguardo verso l’alto con espressione di devozione e rassegnazione al martirio; l’acconciatura con scriminatura centrale e il modellato a rilievo dei capelli abbracciano la rotondità del capo, congiungendosi in un nodo sulla nuca. La testa, le spalle e il torso sono orientati frontalmente rispetto alla posizione dei piedi, le braccia morbide si staccano e imprimono all’insieme la torsione che impreziosisce l’opera. Alla mano destra, portata al petto, corrisponde il piede sinistro che sostiene il peso del corpo. Ad essi fa da contrappunto la flessione dei rimanenti arti: al braccio sinistro spostato in avanti corrisponde la gamba destra, con la punta del piede a sfiorare appena il suolo. La martire è riccamente vestita: il mantello bordato reca decorazioni floreali a quattro petali semplici, distribuite con esattezza sul modellato e ricade morbidamente abbracciando la sopraveste. Questa è trattenuta in vita da una cinta che la increspa mentre segue la posizione delle braccia, con il risvolto di colore contrastante e si apre sulla tunica con uno svolazzo; nella tunica è simulato un tessuto leggero, che cade fino a terra e accompagna il movimento delle gambe leggermente scostate e rivolte verso sinistra rispetto al busto e dei piedi calzati “alla romana” che sporgono brevemente. A differenza delle vesti soprastanti, monocrome, con dorature che ne illuminano le bordature e le pieghe, la tunica è decorata con rose e leggeri arabeschi in toni smorzati, realizzati a contrasto su fondo chiaro. In questa opera l’intensità della policromia insieme all’accuratezza e solidità del modellato sono nell’intenzione dell’autore (o della bottega), che appare tecnicamente un valido esecutore di entrambe. Il piccolo basamento su cui poggia, di più recente fattura, la indica come statua posta in una nicchia. L’essenza lignea utilizzata per ottenere gli effetti di movimento e ricerca espressiva sopra descritti è stata riconosciuta all’analisi macroscopica confrontata con chiavi dicotomiche. Risulta essere pioppo (Popolus L.), materiale duttile, molto utilizzato per la scultura lignea grazie alla diffusa reperibilità ed alle caratteristiche meccaniche. L’asse centrale della statua ha un’altezza di 162 cm; la larghezza è di 82 cm e come profondità massima si hanno 66 cm dalla punta delle dita alla schiena; il basamento ha un’altezza di 19,5 cm, larghezza di 82 cm e profondità di 59,5 cm. La statua è un insieme di almeno nove parti assemblate, il cui volume è stato dapprima abbozzato grossolanamente e poi scolpito e definito in opera; queste corrispondono alla testa, ad una porzione centrale che comprende spalle, tronco e gambe, alle braccia, alle mani, alle zone laterali destra e sinistra delle vesti ed infine alla zona centrale del retro del mantello. Non sono osservabili né i vincoli che trattengono gli elementi più grandi né gli eventuali tasselli aggiunti con i quali sono stati realizzati pieghe ed zone più sporgenti. Viene trattenuta al basamento mediante incollaggio e ancoraggio puntuale, realizzato durante un intervento di manutenzione con chiodi “alla traditora”. Non si osservano altri segni di lavorazione del supporto.
L’effetto morbido e levigato del modellato è dovuto alla sapiente applicazione dei materiali che costituiscono la preparazione alla policromia. Questi partono dall’applicazione di tela sottile come impannatura, ad armatura tela di riduzione bassa, in corrispondenza delle commettiture degli elementi assemblati, fatta aderire con colla animale lungo le giunzioni delle porzioni di supporto ligneo, per trattenerle insieme e ridurne il segno. L’ammanitura o strato immediatamente sottostante la policromia, è composto da inerte finemente macinato, molto chiaro, quasi bianco e colla animale; la preparazione applicata liquida a pennello in più strati, è stata levigata con abrasivi fino ad ottenere una superficie liscia, privilegiando con particolare cura le zone dell’incarnato. La prima stesura pittorica è coprente e uniforme e viene applicata come base; le velature non sottolineano il modellato ma aggiungono trasparenze dai colori accesi. È questo carattere vivace della tavolozza ad essere ripreso in stesure di ridipintura a corpo, non originale quindi, presenti sul manto e sulla veste azzurra. La decorazione con fiori e tralci vegetali della veste è realizzata con foglia d’oro applicata a missione, punzonata lungo le bordature delle maniche e del colletto nonché lungo la cintura e il mantello. Il basamento, ha il piano orizzontale ripreso a finto marmo e una doppia modanatura con doratura a bolo. Le specchiature presentano una stesura trasparente blu ad imitazione del lapislazuli applicata su argentatura a foglia. Il legno di tutte le specie di pioppo ha struttura a densità relativamente bassa e diffusa porosità. Nasce con un elevato contenuto di umidità, con piccole differenze tra alburno e durame; le sue fluttuazioni stagionali di accrescimento hanno valori estivi leggermente inferiori rispetto ai valori invernali. La composizione volumetrica di questa essenza è dominata dalla relativamente alta percentuale di fibre (53-60%), seguiti da elementi dei vasi (28-34%) e infine dalle cellule parenchimatiche; ciò determina la bassa densità del legname, caratteristica che lo rende ottimo per l’esecuzione di sculture a tutto tondo con particolari in aggetto, ma determina anche l’alta percentuale di restringimento della struttura in fase di essiccazione e la sensibilità alle variazioni termoigrometriche. Condizione comune a molte delle statue lignee conservate negli edifici di culto, l’opera è stata esposta a condizioni di clima non controllato. Si presuppone la collocazione prolungata in luogo umido; erano visibili tracce di assorbimento d’acqua ormai asciutte. Grazie alla ottima tecnica d’esecuzione, i danni da rigonfiamento e conseguente essiccazione con variazione volumetrica delle fibre del pioppo sono stati limitati. Lo spesso e compatto strato di preparazione ha limitato fortemente lo scambio termoigrometrico del legno con l’ambiente. Erano presenti fessurazioni e distacchi parziali di alcune giunzioni degli aggetti in particolare lungo i polsi e il retro del manto.
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Fig. 3. Fronte dell’opera in fluorescenza.
La composizione chimica del pioppo è caratterizzata da un’elevata percentuale di poli-saccaridi e basso contenuto di lignina; l’attacco da parte di insetti xilofagi si è esteso in particolare all’interno delle zone ricavate da legno primaverile, indebolendole e manifestato con diffusi fori di sfarfallamento. Alla base della veste erano presenti residui di colonie fungine non più vitali. Si possono ipotizzare problemi legati all’emergenza causata dal sisma, anche se non gravi. La mano sinistra risultava mancante di due dita (medio e mignolo) e l’anulare era separato dalla mano. Mancano gli attributi in corrispondenza dei perni scoperti sul capo e sulla base. Tracce di combustione superficiali erano dovute alle manifestazioni di devozione alla Santa. In generale, la statua sembrava aver sofferto della movimentazione o di un’incidentale urto; la scultura presentava numerose lacune e difetti di adesione degli stati di preparatori, infragiliti e distaccati nelle zone più esterne. Si notavano diffuse lacune e abrasioni, crettature su alcune zone del panneggio rosso e sui verdi e chiari (tunica e incarnati). Nella zona inferiore in corrispondenza delle cavità del panneggio e del piede sinistro erano evidenti macchie e gore dovute all’umidità. Il basamento presentava dei depositi coerenti di cera e un annerimento prodotto da depositi incoerenti. Dopo un’iniziale rimozione meccanica dei depositi incoerenti mediante pennellesse morbide e aspiratore ove possibile, è stato necessario ristabilire l’adesione tra supporto e strati preparatori. In corrispondenza delle lacune e delle sconnessure, dove si palesavano
Fig. 4. Il retro della statua restaurato
sollevamenti e scaglie mobili ma rigide, è stata veicolata emulsione in acqua di resina acrilica. La ricostruzione delle dita mancanti della mano destra con resina è stata decisa per ricostituire unità al modellato, altrimenti integro e fruibile nella sua buona conservazione. Il dito staccato è stato facilmente ricollocato e fatto aderire, sostenuto internamente con un corto pernetto in ottone. L’operazione di rimozione delle ridipinture è stata programmata dopo aver effettuato alcuni tasselli di prova e aver accertato che la pellicola pittorica sottostate era integra. È stata eseguita una pulitura differenziata in base ai materiali soprammessi da rimuovere ed alla loro compatibilità con il film originale (pigmenti, foglia d’oro, lacca, mecca). Lo strato superficiale di depositi aderenti e le ridipinture localizzate sono stati rimossi con solventi polari addensati in gel; le zone sensibili alle miscele polari sono state trattate con emulsioni di solventi apolari. Le lacune degli strati preparatori sono state risarcite con impasti a base di fibre di legno e resina vinilica per ricostituire gli spessori maggiori e con gesso di Bologna e colla animale come supporto alla reintegrazione del film pittorico. Le lacune di pellicola pittorica, di modeste dimensioni, sono state mimeticamente trattate a tono. La protezione superficiale è affidata a vernici acriliche di finitura semi-mat. La disinfestazione da insetti xilofagi per anossia è stata effettuata in conclusione dell’ intervento. FRANCESCA MARIANI ARABELLA BERTELLI DE ANGELIS CRISTINA CALDI
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«Orologio meccanico da torre» 1915 (PUNZONATO SULL’ETICHETTA FISSATA ALLA PARTE ANTERIORE DX DEL TELAIO) Firma: “Premiata Fabbrica orologi - Anno di fondazione 1870 - Ditta Cesare Fontana del Figlio Augusto Fontana-Milano-1915” (punzonato sull’etichetta fissata alla parte anteriore dx del telaio) Ferro verniciato grigio, ottone, acciaio, ghisa, alluminio, legno di rovere, legno di noce laccato Villa Santa Lucia degli Abruzzi (AQ), Chiesa di Santa Lucia Vergine Martire (Torre Civica)
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Fig. 1. Orologio in camera campanaria prima del restauro
Dopo il meraviglioso orologio a ruota inventato nel 1344 da Jacopo Dondi Padovano, detto poi dell’orologio, pochi anni dopo la morte di Jacopo vivente il di lui figlio Giovanni, e propriamente nel 1375 fu posto su la nostra torre questo orologio…” Così viene descritta dal Leosini la collocazione del primo orologio da torre aquilano voluto dal capitano dell’Aquila Tommaso degli Obizzi (?- 1408) che “..ne ornò la torre del Comune, il quale vi spese mille trecento fiorini”[Leosini,p.107] L’0rologio, nel suo funzionamento, celebrò la storia della fondazione della città. Infatti “Fuvvi ab antico, e v’è ancora la popolar tradizione che 99 castella convenissero d’edificar questa Città: onde a perpetua memoria di questo fatto si dice essersi erette 99 Chiese, fatte 99 piazze, 99 fontane, e sin l’orologio, pubblico regolato così che ogni sera alle due ore scocchi 99 volte” [Leosini,p.107]. E’ su questa importante radice storica che si inserisce l’orologio meccanico da torre, ubicato nella camera campanaria della chiesa parrocchiale di Villa S. Lucia degli Abruzzi. Datato 1915, è stato sapientemente eseguito da Augusto Fontana, figlio di Cesare il quale, nel 1870 fondò l’omonima ditta. Originario di Appiano, Cesare Fontana si recò nel 1860 a Ginevra per “perfezionarsi nell’arte”, per poi andare a Milano dove fondò all’angolo di Via Solferino e Via Ancona, una prima fabbrica di orologi da torre. Successivamente, nel 1873, trasferì l’attività di molto ampliata, ad Appiano costruendo moltissimi orologi fra cui quello della torre di San Vittore a Varese, premiato con la medaglia d’argento all’ Esposizione Nazionale di Milano del 1881. Già alla fine dell’Ottocento fino agli anni trenta del XX secolo, la Ditta aveva una sede di rappresentanza ed uffici in Via Cusani 9 al centro di Milano, mentre le officine si trovavano, come già detto ad Appiano Gentile, in provincia di Como. Le caratteristiche tecnologiche unite alla raffinatezza esecutiva contraddistinsero la Ditta Fontana, che basò la sua scelta progettuale, meccanica e strutturale, sui modelli realizzati nella produzione franco-svizzera, a telaio orizzontale, ed in particolare ispirandosi a quelli costruiti da Odobey a Morez, nel Giura francese. Queste peculiarità permisero all’atelier Fontana di produrre orologi anche per la Svizzera, la Francia e l’ America. Fra le numerose realizzazioni citiamo l’orologio per la Chiesa di S. Stefano ad Appiano nel 1878, quello per il Duomo di Pistoia del 1905 e un esemplare a carillon
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Orologio meccanico da torre
Fig. 2. Particolare del quadrante in ceramica prima del restauro
che fu installato nella Torre del Filarete del Castello Sforzesco di Milano. Particolare menzione merita un orologio a quattro treni completo di meridiana, cioè della particolare suoneria che permetteva l’esecuzione di motivi musicali prefissati in corrispondenza di ore programmabili, (l’alba ad esempio) e che fu premiato all’Esposizione Mondiale di Melbourne del 1880. L’attività della Ditta Fontana si esaurì, secondo le fonti documentali, con la Seconda Guerra mondiale. Anche l’orologio da torre della chiesa parrocchiale di Villa Santa Lucia degli Abruzzi è un esemplare a quattro treni, frutto dell’evoluzione tecnologica che dagli orologi solari ha generato, attraverso l’applicazione delle conoscenze scientifico-matematiche, l’orologeria meccanica. L’esistenza di complessi orologi idraulici a portata costante, destinati a piazze e palazzi ci è pervenuta grazie alle descrizioni di Vitruvio, contenute nel IX libro del De Architectura dove l’ingegnere e architetto romano, documentandone le particolarità costruttive, ne attribuisce la paternità al grande meccanico ellenistico Ctesibio, vissuto nel III secolo a.C. Orologi idraulici, posti in luoghi di pubblica visione, venivano realizzati anche in epoca tardo medievale. Le epoche che seguirono furono contrassegnate dalla decadenza delle città e della cultura in generale che decretarono la distruzione di molti esemplari di questi straordinari manufatti. Le conoscenze ellenistiche vennero in parte conservate grazie alla cultura bizantina che le trasmise poi all’Islam. Durante il Medioevo, ciò che restava del sapere antico, venne tramandato nei monasteri dapprima sotto la regola di San Benedetto ed in seguito tramite la nascita di altri Ordini. La vita dei monaci doveva e voleva essere lo specchio dell’ordine impartito dal Creatore, il “Cosmo” in opposizione al “Caos”del mondo esterno. Ecco la necessità del monastero di scandire le azioni quotidiane attraverso la presenza di un orologio, necessità eloquentemente descritta da Roberto di Molesme fondatore dell’Ordine Cistercense. Inoltre, fondamentale era la figura del monaco temperatore, cioè di colui
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che si occupava della messa all’ora e della manutenzione dell’orologio, mansioni minuziosamente descritte nel Liber consetudinum. Siamo nel XIII secolo e quindi in presenza ancora di orologi idraulici che cominciano però ad avere congegni sempre più complessi, opera di tecnici e frutto di progettazione. L’unità linguistica offerta dal latino, favorisce, nel tardo Medioevo, l’ampia divulgazione delle caratteristiche tecnologiche e quindi costruttive di questi orologi. Alla fine del XIII secolo, comparvero gli orologi pubblici meccanici, grazie alla nascita in Italia dei liberi Comuni e delle città mercantili in tutta Europa. Il tempo infatti non era più collegato alle attività agricole, legato quindi alle ore di luce, ma doveva scandire, un tempo artificiale che regolamentava, scambi e commerci. L’orologio pubblico divenne simbolo di prestigio per la città. Basato sul funzionamento di ruote dentate, trasmetteva alle lancette un’informazione posizionale atta a garantire la precisione dell’indicazione oraria e delle azioni che da essa dipendevano, come lo svincolo delle suonerie o le letture accessorie. Questi orologi trecenteschi, azionati da pesi erano realizzati in ferro forgiato. Ogni ruota e ogni singolo dente di ingranaggio venivano eseguiti a mano, tirati a lima ed aggiustati con sapiente pazienza. Il dispositivo che determinava il controllo del rilascio dell’energia che scaturiva dalla caduta dei pesi era lo scappamento a verga e palette. Questo sistema rimase, utilizzato nell’orologeria di grandi dimensioni, sino all’avvento del pendolo, la cui legge del moto fu scoperta da Galileo, ma definita matematicamente in modo rigoroso da Christiann Huygens nel 1673. Il pendolo costituì una vera rivoluzione in termini di precisione dell’indicazione oraria. Nel tempo alle ruote dentate realizzate in ferro vennero sostituite quelle in ottone eseguite, a partire dal XVII secolo, con l’uso di macchine per dividere e di frese per il taglio dei denti. Nel XIX secolo, l’uso delle fusioni di ghisa apportarono una effettiva innovazione nella esecuzione dei telai. DESCRIZIONE L’orologio meccanico da torre di Villa Santa Lucia degli Abruzzi è un esemplare a quattro treni , formato dal treno del tempo e dal treno della suoneria che regolano rispettivamente lo scorrere del tempo che viene indicato, attraverso una lancetta su un quadrante e l’attivazione periodica di una suoneria, in una duplice funzione, quella di indicare le ore, e le frazioni di esse con rintocchi correttamente cadenzati e batterne inoltre un numero corrispondente all’ora segnata dalla lancetta sul quadrante. La struttura portante è di tipo orizzontale. I telai sono in fusione di ghisa a doppia torretta di sostegno a forma di lira, mentre i lati lunghi del telaio, sono ottenuti da profilati. Su quello anteriore è fissata la targhetta di ottone verniciata di nero arrecante la firma “Premiata Fabbrica orologi-Anno di fondazione 1870-Ditta Cesare Fontana del Figlio Augusto Fontana-Milano-1915”. Il fissaggio è assicurato da viti e grandi dadi esagonali. Il movimento è a quattro treni affiancati, con carica a pesi di ghisa, agganciati a funi di acciaio avvolte sulla parte centrale dei tamburi in ferro, le cui ruote sono costituite da ottone e ghisa. I pignoni sono ad ali. Il regolatore a pendolo è caratterizzato da sospensione a lama e accoppiamento a occhiello, lo scappamento è del tipo a chevilles ortogonale. La suoneria è a dodici, con rimbotta ad ore e quarti, su due campane ottenuta con chiocciola e rastrello. Il movimento è ulteriormente regolato dalla presenza di tre ventole a
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Orologio meccanico da torre
pale esterne. Sulla parte anteriore, si trova il quadratino di regolazione di ferro e ottone, il cui quadrante è di ferro ricoperto di ceramica bianca, riportante le ore da 1 a 12 in cifre romane di colore nero,con indicazione per i minuti. Sul quadrante spicca la dicitura “Cesare – Fontana - Milano” visibile anche sulle fusioni laterali delle traverse. STATO DI CONSERVAZIONE Dall’orologio, ubicato nella camera campanaria è stato preventivamente smontato il telaio a doppia torretta, insieme al quadratino in ceramica, alle tre ventole e all’albero di trasmissione posteriore, per favorirne il passaggio attraverso la cella di scorrimento dei pesi. Successivamente una volta in laboratorio, si è proceduto ad analizzarne lo stato di conservazione che è stato dettagliatamente documentato fotograficamente. L’orologio, non funzionante, si presentava completo in ogni sua parte, ma in cattivo stato di conservazione. Tutti i tamburi e le ruote erano interessati da un importante ispessimento dei prodotti di corrosione, con zone caratterizzate da ossidi ferrosi ispessiti riguardante le parti costituite di ferro. Il grasso continuamente sovra messo, per agevolare lo scorrimento dei meccanismi, aveva formato uno spessore che ha inglobato nel tempo polvere e sporco che hanno
compromesso anche, il giusto scorrimento degli ingranaggi. Tutte le parti in fusione di ghisa erano caratterizzate da grasso aggregato a polvere. L’asse di legno di rovere, nella cui estremità inferiore è inserito il disco di ghisa del pendolo, evidenziava lievi fessurazioni, sporco coeso ed una alterazione della cromia e della laccatura che lo ricopriva. Anche la manopola di legno di noce, posta inferiormente al braccio di ferro ad elle, provvisto di boccola per azionare la carica, evidenziava i medesimi degradi dell’asse ligneo del pendolo. Impropri fili di ferro agganciati ai rotismi corrispondenti l’azionamento delle campanelle che scandiscono le ore, ricoprivano l’orologio, ed erano sganciati. Il piccolo orologio,di ceramica ubicato nella parte antistante il meccanismo, si presentava integro, ma ricoperto di polvere, quest’ultima sommata al grasso e residui di vernice da muro, interessava anche i contrappesi che regolano il meccanismo scorrendo in un apposito corridoio verticale posto a sinistra del meccanismo. RAFFAELLA MAROTTI Bibliografia LEOSINI 1848; ADDOMINE – PONS 2009.
INTERVENTO DI RESTAURO
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rima di iniziare l’intervento di restauro, si è analizzato il metodo e la sequenza di smontaggio delle varie parti del meccanismo e dei relativi telai. Il restauro si è basato su un intervento mirato per ogni singolo materiale costitutivo che ha previsto, per le parti metalliche le seguenti fasi: pulitura meccanica e/o chimica,trattamento di lavaggio, trattamento di stabilizzazione, eventuale trattamento di consolidamento, trattamento di protezione superficiale. Per effettuare lo smontaggio dei vari blocchi costituenti l’orologio, è stato necessario rimuovere dalle varie componenti il grasso che si era insinuato nel tempo all’interno dei dadi, dei bulloni, delle boccole e delle varie viti con ripetute applicazioni di impacchi di etere di petrolio,asportando di volta in volta attraverso l’ausilio di bisturi e specillo il grasso residuo. Effettuando dei saggi di pulitura, sulla doppia torretta di sostegno a forma di lira, costituita di ghisa, si è rilevato che era stata impiegata probabilmente a fini protettivi una vernice di colore nero, che formava uno strato ispessito, che a tratti appariva rigonfiato e quindi decoeso dal supporto. Dalle fonti documentali fotografiche, riguardanti le tecniche esecutive della Ditta Fontana-Milano, si è potuto accertare che essa, non apparteneva alle caratteristiche esecutive e tecnologiche adottate dalla Casa Costruttrice, tesi confermata dalla presenza sotto un dado esagonale della parte superiore della torretta, di una vernice originale di colore grigio. Dopo
aver effettuato una analisi FT IR (analisi a spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier) della vernice nera che ha rilevato la sua composizione acrilica si è provveduto a rimuoverla dalle varie parti utilizzando del dimetilsolfossido supportato in laponite, applicato a pennello, e facilitando la rimozione con l’ausilio di bisturi; la pulitura è stata ultimata applicando dell’etere di petrolio a tamponcini. Successivamente si è eseguito il trattamento di stabilizzazione effettuato con continui sciacqui di acqua deionizzata; operazione seguita dal trattamento di essiccazione con acetone applicato con tamponcini. Per la seconda torretta sempre di ghisa, che non presentava residui di una impropria verniciatura, si è proceduto rimuovendo il grasso e la polvere con l’applicazione di etere di petrolio, eliminando i residui con il bisturi. Dopo aver eseguito il trattamento di stabilizzazione si è proceduto all’applicazione, sulla parte superiore, di un impacco di acido citrico al 3% per un tempo di un’ ora, per estrarre gli ossidi presenti. Successivamente si è ripetuto il trattamento di stabilizzazione con acqua deionizzata a cui è seguito il trattamento si essicazione con acetone. La ghisa i, ha rivelato alcune zone che necessitano di consolidamento che è stato eseguito con Paraloid B48 N specifico per questa lega ferrocarbonio. E’ stata effettuata un’analisi FT-IR sulla vernice grigia originale che è risultata essere una vernice sintetica a base poliestere. Si è provveduto quindi a ripristinare la verniciatura, utiliz-
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Orologio meccanico da torre
Fig. 3. Parte centrale prima del restauro
Fig. 4. Parti centrali dopo il restauro e il montaggio
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Orologio meccanico da torre
Fig. 5. Particolare dell’orologio con quadratino orario, dopo il restauro
zando delle vernici della medesima composizione, miscelate al fine di ottenere la cromia appropriata. Infine, vista la collocazione finale dell’orologio, che prevede un ambiente caratterizzato da umidità, si è scelto di proteggere ulteriormente le parti applicando, a pennello, della paraffina in etere di petrolio. Anche sulla ghisa costituente una parte dei tamburi del tempo e della suoneria, si è intervenuti con lo stesso metodo, utilizzando però come protettivo della cera microcristallina. I pesi di ghisa erano interessati da una diffusa formazione inspessita e profonda di ossidi ferrosi che sono stati rimossi con una soluzione a tampone ad immersione per 48 ore. I residui sono stati eliminati con una pulitura meccanica, attraverso idonei spazzolini. Successivamente si è provveduto ad effettuare il trattamento di stabilizzazione con ripetuti sciacqui di acqua deionizzata, per poi procedere con l’applicazione a pennello di un convertitore di ruggine. Da tutte le parti di ottone è stato asportato il grasso con applicazione di etere di petrolio attraverso piccoli tamponi costituiti da lana d’acciaio fine ricoperta di cotone per evitare di graffiare la superficie della lega. Successivamente, si è utilizzata una miscela di carbonato di calcio (granulometria idonea) ed etere di petrolio applicate sempre a tampone per rimuovere selettivamente, soprattutto negli ingranaggi il grasso residuo. In alcune parti è stato necessario intervenire con un tensioattivo specifico, per ultimare la difficile rimozione del grasso. Da questo intervento è emersa, in alcune zone, la presenza di pitting che è stato trattato, dopo aver risciacquato le parti con acqua deionizzata, attraverso l’applicazione di BTA. Il trattamento di protezione è stato effettuato selettivamente: si è utilizzato incralac sulle superfici dei meccanismi e le restanti superfici, al fine di assicurare un’idonea protezione alle escursioni termo igrometriche, mentre le dentellature sono
state trattate con cera microcristallina, per garantirne lo scorrimento. Le parti di ferro di piccola dimensione sono state immesse in un bagno di etere di petrolio per rimuovere grasso polvere in esso inglobata, mentre la parti di dimensioni maggiori sono state trattate applicando l’etere di petrolio con tamponi di lana d’acciaio ricoperta di cotone. Successivamente dopo aver effettuato sciacqui con acqua deionizzata, sulle zone interessate da presenza di ossidi ferrosi ispessiti si è utilizzata una soluzione disgregante per assicurarne la definitiva rimozione. Si è ultimato il trattamento di pulitura con un tensioattivo specifico. Dopo aver stabilizzato le parti si è proceduto al trattamento di essicazione con acetone, seguito da quello di protezione effettuato con Paraloid B72, per ciò che riguarda le superfici; diversamente per assicurare, l’idoneo scorrimento delle dentellature si è utilizzata cera microcristallina. Sui profilati del telaio si è intervenuti dopo una accurata rimozione meccanica dei prodotti di corrosione misti a grasso, con impacchi di acido citrico al 3%, che hanno estratto gli ossidi diffusamente presenti. Dopo aver risciacquato le parti ed aver applicato un convertitore di ruggine, si è ripristinata la verniciatura, rispettando la composizione e la cromia originaria. L’asse di legno di rovere del pendolo è stato trattato con un tensioattivo specifico, per poi essere consolidato con Paraloid B72, che ha anche la funzione di protezione. L’impugnatura della manovella atta alla carica dell’orologio, di legno di noce, è stata trattata con un tensioattivo specifico per il trattamento di pulitura, di seguito sono state opportunamente risarcite le fessurazioni, per poi ripristinare la cromia originaria e la laccatura. Si è infine proceduto al rimontaggio dell’orologio. RAFFAELLA MAROTTI
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«Dipinti murali raffiguranti la vita di San Francesco» SANTO STEFANO DI SESSANIO, ORATORIO DI SAN ROCCO Progetto di restauro delle pitture murali
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Fig. 1. Volta dipinta
er l’Oratorio di S. Rocco l’obiettivo era di programmare un intervento di restauro delle pitture murali che ne decorano le pareti, come cantiere didattico, dopo i necessari interventi alle fondazioni e alle coperture tutt’ora in fase di studio e di verifica da parte dell’Università dell’Aquila. Una esperienza didattica deve fornire l’occasione agli studenti di approfondire le loro conoscenze teoriche con un caso pratico che offra la possibilità di esercitare tutte le fasi di intervento di restauro: pulitura, consolidamento delle malte, fissaggio della pellicola pittorica, reintegrazione delle lacune con stuccature e ritocco pittorico. Sotto questo profilo l’Oratorio di San Rocco appare un’ottima possibilità per un’interessante prova diretta su manufatti originali e lo spazio limitato ne garantisce tempi controllati di esecuzione, oltre che la piena interazione dei componenti nel gruppo. Le ricche decorazioni in stucco che arricchiscono l’ornato della cappella, non saranno prese in considerazione in questo contesto, ma potranno essere occasione di ulteriore cantiere per gli insegnamenti del corso di restauro specifico. Le superfici dell’Oratorio erano originariamente tutte dipinte: allo stato attuale l’ingresso dell’unico ambiente diviso in due porzioni da un arco, ha perso completamente la pittura di cui restano alcuni lacerti di colore, ed è stato completamente scialbato. Nella zona dell’abside con l’altare restano invece leggibili le pitture murali, seppure molto danneggiate nelle zone più basse: risulta evidente che l’attuale collocazione della piccola costruzione al di sotto dell’adiacente strada, è una delle fonti dei suoi problemi conservativi, poichè la parete destra, che resta interrata per circa la metà della sua altezza, è impregnata d’acqua e segue pertanto i cicli di imbibizione ed asciugatura con conseguente circolazione dei sali solubili. Questi cristallizzando in superficie o sub superficialmente, in fase anidra, provocano la rottura dei capillari nella porosità della malta, favorendo un sempre maggiore ingresso di acqua ricca di sali, innescando il noto fenomeno di disgregazione delle malte e polverizzazione del colore, che si autoalimenta accrescendo progressivamente il degrado nel tempo. Il piccolo Oratorio risulta inoltre danneggiato per la parte statica, dal recente sisma del 6 aprile 2009 ed al momento della visita necessitava ancora di lavori di verifica e consolidamento strutturale anche del tetto, da cui è ulteriormente favorito l’ingresso di infiltrazioni d’acqua.
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Dipinti murali raffiguranti la vita di San Francesco
Fig. 2. Vista dell' Oratorio dall'esterno
Fig. 3. Particolare della volta
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Dipinti murali raffiguranti la vita di San Francesco
Ogni intervento di restauro può effettuarsi solo dopo che sia stata individuata e rimossa la causa del degrado strutturale, altrimenti in breve tempo, i risultati ottenuti vengono vanificati, ed il tentativo di risanamento, grazie ai materiali aggiunti dal restauro stesso, innesca ulteriori problemi con un danno conseguente, che può essere addirittura maggiore di quanto non fosse prima dell’intervento. A tal fine prima di procedere col cantiere didattico si è avanzata la richiesta, oltre che di mettere in sicurezza la statica dell’architettura, di provvedere ai lavori di sbancamento della terra addossata alla parete destra e ripristino del marciapiede, oltre che una generale revisione del deflusso, raccolta e scarico delle acque pluviali. Il restauro dovrebbe effettuarsi solo dopo la realizzazione dei lavori preliminari ed inoltre, dopo un congruo periodo di asciugatura delle pareti e dell’ambiente. STATO DI CONSERVAZIONE Al momento i dipinti sulle due pareti, la volta e l’arco, presentano lacune della pellicola pittorica, diffusi sbiancamenti da sali superficiali e depositi di particellato fissato da fenomeni di condensa superficiale. Si individua inoltre un eccesso di saturazione dei colori - indicativi della presenza di umidità di risalita, distacchi degli intonaci - verificati con risposta acustica di vuoto dopo sollecitazione meccanica da percussione manuale.
Fig. 4. Particolare dell’arco sul lato destro dall’ingresso
FASE PROGETTUALE D’INTERVENTO Risanati i problemi strutturali, il cantiere didattico potrebbe realizzarsi in due fasi: · Cantiere didattico di documentazione, intervento d’urgenza di consolidamento e prove di pulitura · Cantiere didattico di restauro Nella prima fase da realizzarsi anche prima dell’esecuzione dei lavori volti al risanamento dall’umidità da effettuarsi all’intorno dell’architettura, si avrebbe modo di registrare la situazione tal quale della pittura, ed intervenire con operazioni d’urgenza per ripristinare la tenuta degli intonaci e fissare la pellicola pittorica. Preliminare al cantiere didattico di documentazione e propedeutico alla sua realizzazione sarà la documentazione fotografica e la creazione della base grafica, sulla quale in cantiere verranno poi mappate le tavole tematiche dello stato di conservazione con la fenomenologia del degrado, la tecnica d’esecuzione e l’intervento di restauro, da riportare in seguito in formato digitale. Durante questa prima fase quindi si potrebbero realizzare la documentazione grafica dello stato di conservazione, l’analisi e la individuazione della tecnica di esecuzione. In base a questa raccolta dati si potrebbero realizzare gli interventi d’urgenza per il consolidamento dei distacchi degli intonaci dalla struttura portante e della pellicola pittorica su tutta la superficie dipinta ed inoltre alcune prove di pulitura. Durante questa prima fase si potrebbe quindi mettere a punto quanto più idoneo al contesto pittorico e all’ambiente di conservazione, una volta risanata la causa del degrado. Questo cantiere conoscitivo, permetterebbe in pratica di progettare il successivo intervento da realizzarsi nella seconda fase, da mettere in atto solo dopo il risanamento architettonico. Sarebbero effettuate su tutte le superfici le necessarie operazioni di pulitura, verifica delle
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Dipinti murali raffiguranti la vita di San Francesco
precedenti fasi di consolidamento e fissaggio della pellicola pittorica ed eventuale ripresa e completamento di queste, stuccature e ritocco pittorico con tecnica a tratteggio delle lacune e velature delle abrasioni. Questa seconda fase si occuperebbe di risanare quindi tutto il ciclo pittorico riportando i dettagli delle operazioni sulla documentazione grafica con la tavola degli interventi di restauro. PROPOSTA DI GRUPPO DI LAVORO IN CANTIERE Questi cantieri prevederanno la presenza in cantiere di un gruppo
Fig. 5. Particolare della zoccolatura
Fig. 6. Acquasantiera
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docente in proporzione agli allievi che utilmente potranno operare: un restauratore docente, un restauratore assistente, 8/10 allievi per il cantiere di documentazione e prove, della durata di 2 settimane (da considerare a parte la fase di documentazione fotografica e la realizzazione della base grafica); un restauratore docente, un restauratore assistente, 8/10 allievi per il cantiere di restauro, per la durata di 8 settimane. GRAZIA DE CESARE
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Particolare dei sollevamenti e delle lacune degli strati preparatori e pittorici localizzati soprattutto in corrispondenza dei pigmenti scuri (terre)
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La documentazione prima del restauro: una problematica aperta LAURA BARATIN
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Fig. 1. La Strage degli innocenti, Navelli (AQ) Documentazione grafica sul supporto
Fig. 2. La Strage degli innocenti, Navelli (AQ) Documentazione grafica sulle tecniche di esecuzione
a documentazione, in termini generali, nasce dalla necessità di raggruppare le informazioni raccolte in un determinato ambito affinché esse possano essere disponibili nell’immediato e in futuro. Nell’acquisire delle informazioni vengono attuati, infatti, diversi processi dallo studio, all’analisi e alla rielaborazione delle informazioni stesse che ampliano e trasformano la concezione comune del termine, quale mera registrazione di un fenomeno. In questa accezione la documentazione diventa quindi un’operazione “dinamica” in quanto base di successive considerazioni sull’oggetto analizzato. La documentazione di un’opera prima del restauro può essere sintetizzata in tre momenti sequenziali: · documentazione preliminare, per identificare il problema e indirizzare le fasi successive; · documentazione sistematica ed esaustiva, per fornire contemporaneamente una visione d’insieme e di dettaglio sull’opera; · documentazione supplementare, associata alle indagini e/o ad alcune verifiche da svilupparsi nel tempo. La documentazione necessita, quindi, di una corretta impostazione di un sistema di classificazione delle informazioni acquisite, che a sua volta dipende dalla corretta comprensione del tema trattato e dalla sua conseguente idonea articolazione.1 Per rendere omogenea l’acquisizione e la divulgazione delle informazioni è perciò necessaria una standardizzazione del processo documentativo nel suo complesso, dalle prime fasi di raccolta alla presentazione dei risultati. Una documentazione che possa definirsi “completa” deve prendere in esame i diversi aspetti dell’opera: dalle caratteristiche metriche e tecniche, alla sua evoluzione storica, agli aspetti di degrado e di conservazione. Un primo esempio di raccolta sistematica di informazioni riguardanti i beni culturali è la catalogazione: un processo conoscitivo “oggettivo”, in quanto organizzazione e gestione della conoscenza del bene, che si qualifica come un’attività conoscitiva complessa propedeutica a una gestione di tipo non meramente conservativo e di controllo2. L’attività di catalogare i beni culturali non si riduce solo a costituire un inventario, ma in realtà è il punto di partenza per la realizzazione della documentazione vera e propria, strumento strategico di gestione territoriale del patrimonio e base preliminare per qualsiasi intervento di conservazione e restauro. Nel restauro, la documentazione è la testimonianza dell’intervento in ogni sua parte: comprende le ricerche storiche, la descrizione fisica dell’oggetto, lo stato di conservazione, le indagini analitiche e scientifiche sui materiali e sui fenomeni di degrado, l’esecuzione dell’intervento stesso ed eventuali considerazioni sulla conservazione futura dell’opera. Tutte queste informazioni derivano da contributi di diverse discipline ed è necessario sintetizzarle in un progetto esplicativo che chiarisca le relazioni che le legano e i risultati concettuali che guidano le scelte dell’intervento giungendo ad una sintesi comprensibile a tutte le figure professionali coinvolte. La documentazione è di certo il momento conoscitivo preliminare e propedeutico alla realizzazione dell’intervento, ma questo non implica che la sua realizzazione deve essere completamente eseguita prima dell’inizio del restauro. Parte della documentazione inizia prima dell’intervento al fine di stabilire le linee guida da seguire, tramite un’indagine preliminare del manufatto, ma molte delle operazioni successive necessitano di approfondimenti e di ulteriori analisi, parti integranti della stesura finale di un progetto. La documentazione deve soddisfare, innanzitutto, alla necessità di conoscere la consistenza materiale e artistica dell’opera; alla possibilità di progettare gli interventi di restauro e conservazione ed infine alle valutazioni per la sua salvaguardia in futuro. A questo scopo e come esempio di standardizzazione della documentazione per il restauro, l’Istituto Superiore Centrale per il Restauro3 (ISCR) ha ideato la scheda conser-
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vativa, utilizzata anche per la documentazione delle opere dell’Abruzzo, che prende in esame i materiali, la struttura, il supporto, le lacune, le alterazioni ed altro. È una scheda conoscitiva che può essere considerata propedeutica al progetto di restauro, infatti alla fine della scheda vengono indicati anche gli interventi da compiere. La scheda si occupa anche degli aspetti amministrativi e di gestione del bene. I dati sono organizzati in sei sezioni di seguito elencate: · Dati di riferimento: raccolta di informazioni per l’identificazione dell’opera. · Documentazione: insieme di riferimenti per il recupero del materiale documentario. · Caratteristiche di collocazione/esposizione: vengono indicati sia gli spostamenti sia la sua attuale collocazione; inoltre è inserita la voce “rischi da esposizione”che notifica la presenza di eventuali fattori di degrado ambientale e antropico. · Dati tecnici e stato di conservazione: sezione analitica e tecnica destinata alla raccolta di informazioni deducibili sui materiali costitutivi, le tecniche esecutive e lo stato di conservazione. · Indicazione sugli interventi: sulla base delle informazioni precedentemente rilevate, si propongono gli interventi secondo diverse categorie di riferimento dal pronto intervento alla manutenzione e controllo. · Dati di riferimento della scheda: riporta i nomi e la qualifica dei redattori, la data di compilazione ed eventuali aggiornamenti della scheda stessa. La scheda va corredata da un determinato numero di fotografie su particolari aspetti del manufatto, soprattutto sulle forme di degrado ritenute esemplificative delle condizioni generali e su quelle che mettono particolarmente a rischio l’opera. Una guida per la compilazione della scheda permette di uniformare il tipo di lessico tecnico e di sintassi da utilizzare. Per quante informazioni si possono elencare e corredare di fotografie dettagliate, la scheda conservativa non sarà mai di per sé stessa uno strumento sufficiente alla descrizione di un’opera in quanto “… una scheda si limita soltanto a registrare l’esistenza di un’opera e quella di alcuni fenomeni ad essa connessi senza poterne dare esatta e oggettiva rappresentazione poiché, come strumento documentario, non ha di per sé la capacità di produrre o registrare direttamente informazioni di tipo geometrico e topografico”4. È quindi necessario aggiungere una documentazione grafica appropriata al tipo di manufatto oggetto dell’intervento, utile all’esecuzione del progetto di restauro, come primo momento di creazione di una banca dati. La rappresentazione grafica è, quindi, lo strumento che permette di raffigurare un oggetto reale nella sua “fisicità” ed attraverso le regole della geometria descrittiva permette di evidenziarne sia le caratteristiche metriche che quelle morfologiche. La documentazione grafica di un bene culturale può essere ottenuta in diversi modi ognuno con un proprio livello di difficoltà e di accuratezza e con un determinato costo di realizzazione: un disegno bidimensionale può essere eseguito in loco, disegnato o “ricalcato” da una fotografia, oppure prodotto finale dell'attività di rilevamento attraverso l’integrazione di più strumenti: topografici, fotogrammetrici e laser scanner. Nei primi due casi può essere realizzato sia a mano che con l’ausilio di tecnologie informatiche, mentre nel terzo caso il ricorso alle tecnologie è assolutamente necessario. Rappresentare graficamente un’opera significa creare un modello iconico, convenzionalmente accettato dove l’interpretazione deve essere quanto più possibile univoca selezionando una serie di elementi ritenuti significativi, tralasciandone altri, al fine di ottenere un modello morfologico comprensibile. La distinzione, per esempio, tra una figura principale e lo sfondo, devono entrambe, garantire la piena “leggibilità” del modello, anche quando si giungerà alla sovrapposizione delle informazioni. In quest’ottica, la documentazione, il rilievo e la rappresentazione grafica di un’opera diventano un sistema aperto ad altre informazioni, acquisibili in tempi diversi, una
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Fig. 3. La Strage degli innocenti, Navelli (AQ) Documentazione grafica sullo stato di conservazione
Fig. 4. La Strage degli innocenti, Navelli (AQ) Documentazione grafica degli interventi
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Fig. 6. Sant'Antonio Abate, Calascio, (AQ) - Particolare delle mesh per la costruzione del modello 3D
Fig. 5. Sant'Antonio Abate, Calascio (AQ) - Rilievo tridimensionale attraverso sistemi digitali a basso costo, particolare della fase di orientamento del modello
Fig. 7. Santa Filomena, Bussi sul Tirino, (PE) - Modello 3D con mappata l'immagine a luce visibile
Fig. 8. Santa Filomena, Bussi sul Tirino, (PE) - Modello 3D con mappata la foto UV
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base necessaria alla programmazione di futuri interventi. Le moderne tecnologie informatiche forniscono strumenti sempre più adeguati per acquisire, archiviare e utilizzare i dati per la gestione e la diffusione delle informazioni, aprendo nuove prospettive di conoscenza e valorizzazione5. L’informatica gioca un grande ruolo anche nella realizzazione dei rilievi e della rappresentazione grafica in generale: a partire dall’utilizzo della fotografia digitale, ai metodi di rilievo strumentale, alle riproduzioni tridimensionali tramite fotogrammetria stereoscopica e laser scanner e fino alla realizzazione di modelli virtuali. Ogni rilievo può essere considerato come una “carta dell’opera” sulla quale evidenziare i diversi tematismi. Attraverso il collegamento di questa “carta” ad un database si può approfondire la conoscenza dei dati visibili sull’immagine dell’oggetto, accedendo ad informazioni di altro genere (testuali, alfanumeriche, ecc.); mantenendo sempre una visione d’insieme oppure scendendo a scale di maggiore dettaglio sempre in una forma organizzata6. Anche il processo di realizzazione della documentazione grafica deve necessariamente essere diviso in fasi, che schematicamente si possono riassumere in pianificazione, raccolta dei dati e loro organizzazione. La fase di pianificazione dove si definiscono gli obbiettivi complessivi del progetto, il metodo di rappresentazione (creazione della “carta” di base) e la definizione degli elementi da rappresentare, con la creazione di una legenda. La fase di acquisizione dei dati è incentrata sulla registrazione grafica degli elementi. La terza ed ultima è la fase di organizzazione dei dati, nella quale sono comprese tutte le operazione di presentazione e divulgazione delle informazioni. È chiaro che le necessità della rappresentazione grafica di un dipinto non solo le stesse di una scultura o di un’architettura si devono perciò, mettere a punto metodologie di rilievo e rappresentazione adeguate per ogni diversa tipologia di manufatto. Le informazioni grafiche possono essere presentate in molti modi diversi, cercando sempre di favorire una chiara interpretazione. La selezione degli elementi da raggruppare si basa sul tipo di presentazione, sulla funzione che la “carta” deve avere. Allo stesso modo, i simboli grafici e i colori non sono standardizzati, ma vengono scelti per facilitare la leggibilità ed intensificare il messaggio. Sarebbe necessario avere un “protocollo” o “capitolato” che definisca le linee generali per una documentazione grafica, ed una metodologia appropriata di rilevamento, proprio così come la scheda conservativa definisce la documentazione dei dati di tipo descrittivo. Diversi tentativi sono stati fatti in questo senso, ispirandosi ai processi di normazione delle attività edilizie e delle attività cartografiche, ma nell’ambito della documentazione per il restauro questa è una problematica ancora aperta.
Fig. 9. Santa Filomena, Bussi sul Tirino (PE) - Sezione longitudinale ricavata automaticamente dal modello 3D
Fig. 10. Santa Filomena, Bussi sul Tirino (PE) - Sezione trasversale ricavata automaticamente dal modello 3D
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I risultati possono essere diversificati a seconda delle esigenze e dei metodi impiegati, ma lo scopo oggi giorno deve essere quello di fornire una “carta digitale dell’opera” inserita nel suo contesto. La “carta digitale” come contenitore su cui riversare le informazioni nell’ambito del restauro, le diverse tematiche dall'analisi al controllo, al monitoraggio delle trasformazioni a cui il manufatto è soggetto nel tempo. Carta su cui sia possibile simulare gli interventi basandosi anche su modelli tridimensionali e, se necessario, su possibili ricostruzioni virtuali. Grazie alle nuove tecnologie, oggi possiamo visitare luoghi virtuali dentro i quali sono racchiuse testimonianze dell’operato dell’uomo, sia del presente che del passato, dislocate geograficamente e temporalmente in posti fisicamente lontanissimi tra loro; possiamo scegliere i nostri percorsi di conoscenza; possiamo interagire con l’opera, di qualunque luogo o di qualsiasi epoca essa sia. Tali applicazioni permettono di mostrare qualunque opera sotto tutte le angolazioni possibili, ruotarla, manipolarla, evidenziarne i particolari, e così via. I progetti di ricostruzione virtuale mirano ad offrire al fruitore simulazioni sempre più vicine all’esperienza reale, ed in alcuni casi permettono un’interazione più approfondita. Dall’altro lato si pensi anche alla valenza scientifica dei rilievi e della documentazione acquisita attraverso le nuove tecnologie, che consentono operazioni di salvaguardia e di restauro sempre più raffinate e rigorose. Di fronte alla situazione, sinteticamente illustrata, si impone un momento di riflessione per stabilire dove è il limite, nella documentazione e nel rilievo per la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, tra il rigore scientifico e gli effetti scenografici ed arrivare a delle regole condivise.
Fig. 11. Santa Filomena, Bussi sul Tirino (PE) - Rappresentazione a curve di livello
Note 1 - F. SACCO, Sistematica della documentazione e progetto di restauro, Bollettino ICR, nuova serie n. 4, Roma, 2002. 2 - “… La catalogazione è l’attività di registrazione, descrizione e classificazione del patrimonio culturale regionale e viene realizzata attraverso la compilazione delle schede di catalogo su cui si basa la raccolta e la sistematizzazione delle informazioni …” SANDRA VASCO ROCCA, Beni culturali e catalogazione, Principi teorici e percorsi di analisi, Gangemi Editore, Roma, 2002. Il modello di gestione delle informazioni, standardizzato sia concettualmente che a livello esecutivo, è stato realizzato dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, attraverso diversi modelli di schede organizzate per tipologia: beni archeologici, beni ambientali e architettonici, beni etnoantropologici, beni storici e artistici. Tutte le schede e la normativa per la loro compilazione sono reperibili nel sito dell’ICCD: http://www.iccd.beniculturali.it. 3 - La costruzione di questa scheda e tutte le successive evoluzioni si possono riscontrare nelle diverse pubblicazioni dell’ISCR, in particolare a partire dal saggio di F. SACCO, Il problema della documentazione grafica dei restauri, in Materiali e Strutture, 1993, III, 1. 4 - F. SACCO, A cosa serve la documentazione dei restauri?, in Geomedia, n 1, Roma,
2006, p.7. 5 - Gli esempi più importanti di gestione informatica dei beni culturali sono: nell’ambito della catalogazione il SIGEC - Sistema Informativo Generale del Catalogo, gestito dall’ICCD e nell’ambito della conservazione il SICaR - un sistema WebGIS per la progettazione esecutiva e la gestione degli interventi di restauro, relativamente agli aspetti inerenti la valutazione preventiva in termini di tempi e costi, la documentazione storico-artistica e tecnico-scientifica, la manutenzione e il monitoraggio. SICaR è nato all’interno del progetto OPTOCANTIERI - Tecnologie avanzate e per vari Beni Culturali, finanziato dalla Regione Toscana - Dipartimento per lo Sviluppo Economico, che ha promosso una fruttuosa collaborazione fra imprese di restauro, aziende di informatica, Soprintendenze e centri di ricerca dei Beni Culturali, con l’obiettivo di testare e ottimizzare in appositi cantieri-pilota tecnologie e metodologie sperimentate in un precedente progetto europeo, RIS+ (2000-2001). 6 - Per approfondire le problematiche di gestione informatizzata dei dati sul patrimonio culturale legate agli aspetti cartografici e all’integrazione di diverse tecnologie di rilevamento si vedano i contributi relativi alla Carta del Rischio del Patrimonio Culturale che nasce dall’estensione territoriale del Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali dell’Umbria, ideato da Giovanni Urbani.
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La documentazione diagnostica. Una riflessione sul rapporto tra la fotografia e il restauro STEFANO MARZIALI INTRODUZIONE
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n uno dei testi di riferimento per la documentazione non invasiva delle opere d’arte, Tecniche di documentazione e indagini non invasive sui dipinti, gli autori, Aldrovandi e Piccolo, commentando una delle nove qualità del restauratore indicate dal Secco-Suardo, affermano che “dal punto di vista analitico, il buon restauratore può essere identificato in colui il quale riesce a estrarre il massimo delle conoscenze su un dipinto mediante l’osservazione a vista e sfruttando le tecniche di indagine scientifiche più immediate e accessibili (riguardo ai tempi di analisi, ai suoi costi, alla reale utilità dell’impiego di quelle tecniche)”. Dal punto di vista dell’immediatezza e dell’accessibilità, le tecniche di indagine non invasive utilizzate sulle opere abruzzesi in restauro presso i laboratori dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, che compongono il corpus fotografico a corollario di questa pubblicazione, sono quelle che meglio si accordano al concetto esposto dai due autori. Queste tecniche hanno il fine di fornire un quadro dello stato di fatto di un’opera, documentandone la tecnica pittorica, i materiali impiegati sia per la sua creazione, sia per eventuali restauri subiti nel corso del tempo e lo stato di conservazione al momento dell’inizio dell’intervento di restauro. Possono anche essere utilizzate per registrare passo per passo le fasi dell’intervento di restauro, così da creare una documentazione che diventerà parte integrante della storia dell’opera e una potenziale fonte continua di informazioni anche a restauro concluso (fig.1). L’intervento di restauro, infatti, presenta una possibilità unica di studio dell’opera che non si presenterà nuovamente prima che questa venga a trovarsi tra le mani di una successiva generazione di restauratori. Le operazioni di restauro permettono una conoscenza approfondita, intima dell’opera, vista nella sua interezza, come una combinazione di materiali, uniti tra loro con precise tecniche artigianali e non solo come una composizione formale con precisi caratteri stilistici, iconografici ed estetici. Sui materiali costitutivi si sovrappone una stratificazione, spesso molto complessa, di materiali più recenti apportati dal “vivere” dell’opera all’interno di un ambiente e da passati interventi di restauro subiti nel corso degli anni.
Fig. 1. Particolare a luce visibile diffusa (cat.17)
ANALOGIA TRA DOCUMENTAZIONE E DIAGNOSTICA: UNA PROPOSTA TERMINOLOGICA
Con l’inizio dei lavori di restauro si presenta una grande occasione di studio nella quale è buona norma approfondire la conoscenza dell’opera d’arte e documentare le fasi di lavorazione dell’intervento con ogni mezzo possibile. A volte, tuttavia, indagini molto costose sono condotte con poco criterio, senza seguire un preciso progetto diagnostico calibrato sulle specificità dell’opera. Altre volte questa opportunità viene sprecata a causa di più impellenti necessità dettate dai limitati fondi destinati al restauro e dai tempi imposti per la conclusione dei lavori. Per questa ragione, riprendendo il ragionamento di Aldrovandi e Piccolo, è doveroso fare una scelta tra le numerose tecnologie applicabili che prediliga, almeno nelle fasi di indagine preliminare, “le tecniche di indagine scientifiche più immediate e accessibili”, meglio se realizzabili direttamente all’interno del laboratorio di restauro da restauratori specializzati. Spesso la semplice registrazione di un particolare dell’opera, fotografato così come si osserva in condizioni di luce normali, non è sufficiente a documentare una caratteristica che l’occhio del restauratore, educato dall’esperienza e dalla familiarità quotidiana con l’opera, è, invece, in grado di cogliere. Per questa ragione è necessario ricorrere a tecniche di acquisizione delle immagini che accentuino e rendano maggiormente visibili queste caratteristiche.
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Fig. 2. Microfotografia (cat. 16)
Fig. 3. Particolare a luce radente (cat. 9)
Le tecniche di acquisizione d’immagine possono essere catalogate in base alla qualità della radiazione elettromagnetica che è utilizzata per l’illuminazione dell’opera. Quando la sorgente illuminante emette una radiazione che ricade nella porzione dello spettro Visibile, che è compreso per lunghezza d’onda tra i 380 nm e 760 nm (radiazione che il nostro apparato visivo è in grado di osservare come la gradazione delle luci di un prisma, che passa, quindi, dal violetto al rosso), la tecnica di ripresa sarà definita “nel Visibile”. Le metodologie di ripresa nel Visibile, che sfruttano una geometria di illuminazione definita “a luce diffusa”, possono essere suddivise in funzione del livello di ingrandimento ottico utilizzato per lo scatto. Da una visione di insieme di tutto l’oggetto, si passa a un particolare della superficie. L’ingrandimento ottico è ottenuto diminuendo progressivamente la distanza tra la fotocamera e la superficie inquadrata e variando l’ottica montata sul corpo della macchina. Il grado di ingrandimento è individuato dal rapporto tra una dimensione lineare dell’immagine sul fotogramma e l’equivalente reale dimensione dell’oggetto. Le immagini ottenute prendono il nome “di close-up” o “fotografia ravvicinata” quando hanno un grado di ingrandimento tra 1:10 e 1:1, ovvero quando 1 centimetro del fotogramma ricavato corrisponda a 10 centimetri della superficie indagata, fino alla corrispondenza tra superficie e scatto (fig. 2). Tra livelli di ingrandimento di 1:1 e 2:1, si parla invece di “macro-fotografia”. Quando il livello di ingrandimento è ancora maggiore, si parla di “micro-fotografia”. Una ripresa “nel Visibile” può abbandonare la classica illuminazione diffusa per sfruttare l’effetto di una differente posizione della sorgente illuminante. Questo espediente può rendere più evidenti particolari caratteristiche della distribuzione dei materiali dell’opera, quali problemi di adesione della pellicola pittorica al supporto, disuniformità delle
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Fig. 4. Fluorescenza UV (cat. 1)
Fig. 5. Falso colore infrarosso (cat. 3)
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campiture pittoriche, il ductus pittorico (Fig. 3). In funzione della posizione della fonte di luce, queste tecniche di ripresa assumono il nome di “transilluminazione”, quando viene registrata la radiazione luminosa trasmessa attraverso la superficie, o “luce radente”, quando l’angolo tra la sorgente e il piano della superficie fotografata è inferiore ai 10° e le disuniformità negli spessori della superficie vengono accentuati dall’allungarsi delle ombre che proiettano. Queste tecniche di ripresa possono essere estremamente utili anche per documentare gli effetti di alcune operazioni di restauro, quali il consolidamento della pellicola pittorica, il tensionamento del supporto tessile o il miglioramento di superficie, nel caso di dipinti su tela. Quando la sorgente emette in una lunghezza d’onda esterna ai limiti del Visibile e, quindi, la luce che emette non è direttamente osservabile senza uno strumento che la riporti nei limiti di sensibilità del nostro occhio, la tecnica di ripresa sarà definita “nell’invisibile” o “nel non-Visibile”. Col termine “ripresa nell’invisibile”, si raggruppano alcune tecniche che utilizzano diverse porzioni dello spettro magnetico. Se per l’illuminazione è utilizzata una radiazione che cade nella porzione dell’Ultravioletto più vicina al Visibile, è possibile fotografare direttamente la radiazione riflessa dalla superficie (“riflettografia ultravioletta”), o la radiazione di fluorescenza emessa nel Visibile dai materiali della superficie eccitati dalla radiazione ultravioletta (“fluorescenza ultravioletta”) (Fig. 4). Qualora per l’illuminazione sia usata una radiazione nell’Infrarosso Vicino (nel caso delle opere trattate in questa sede, l’osservazione non si è mai spostata oltre i 1100 nm, limite massimo di sensibilità della strumentazione utilizzata), è possibile registrare la radiazione infrarossa riflessa dalla superficie. In questo caso la tecnica di ripresa prende il nome di “riflettografia infrarossa” o “falso colore infrarosso” quando parte delle informazioni provenienti dall’Infrarosso Vicino sono miscelate con una parte delle informazioni tratte dal Visibile. Un’eccezione a questa suddivisione è data dalla ripresa radiografica, nella quale si registra la radiazione X passante attraverso l’oggetto, ma questa tecnica non è stata applicata sulle opere qui trattate. In letteratura è spesso indicata una differenza terminologica tra tecniche di documentazione e tecniche diagnostiche, che in questa sede non viene seguita. Seguendo il ragionamento fin qui proposto, si possono definire le tecniche di documentazione fotografica come quelle tecniche che hanno il fine di documentare graficamente lo stato di fatto dell’opera prima, durante e dopo l’intervento di restauro. Le tecniche diagnostiche per immagine sono, invece, quell’insieme di tecniche di ripresa che cercano di rendere osservabili caratteristiche dell’opera non direttamente osservabili. Date queste due definizioni, si può intuire come non sia possibile definire una netta linea di divisione tra questi due gruppi. Una reale differenza non esiste. Il fine è il medesimo: documentare lo stato di fatto dell’opera nei vari momenti dell’operazione di restauro, rendendo esplicite caratteristiche che altrimenti resterebbero esclusivamente sensoriali. Questo crea la necessità di utilizzare un’espressione che renda giustizia dei due aspetti. In questa sede si propone il termine “documentazione diagnostica”, da non confondere con le indagini analitiche, come sarà spiegato più avanti.
DIFFERENZA TRA INDAGINI ANALITICHE E DOCUMENTAZIONE DIAGNOSTICA Una volta chiariti l’importanza dello studio dei materiali che costituiscono l’opera e il valore della documentazione dell’intervento di restauro, è fondamentale delineare un’importante differenza concettuale tra due termini che, spesso, vengono sovrapposti in quest’ambito disciplinare: “indagini analitiche” e “documentazione diagnostica”. Per comprendere questa differenza, è doveroso richiamare uno dei criteri di classificazione più comune delle tecniche scientifiche utilizzate per studiare un bene in restauro: l’invasività. Possono, infatti, essere suddivise in “non invasive”, quando per l’esecuzione non è richiesto alcun contatto tra lo strumento e l’opera analizzata, e in “invasive”, quando le analisi sono realizzate su campioni di materiale prelevati dall’opera. La necessità di campionamento per le analisi invasive impone, sia a livello deontologico, sia a livello di disponibilità di materiale da analizzare, che queste debbano essere realizzate un numero limitato di volte. È doveroso precisare, tuttavia, che questo è il prezzo da pagare per la precisione e accuratezza maggiori tipiche delle tecniche “invasive” rispetto alle tecniche “non invasive”. Questo si aggiunge ai tempi, spesso lunghi, di lavorazione dei campioni e di rielaborazione dei risultati presso i laboratori specializzati che eseguono l’analisi. In questa sede, sono indicate col termine “indagini analitiche” tutte le numerose tecniche di indagine invasive che richiedono un campionamento, alle quali si aggiungono quelle non invasive esclusivamente puntuali, che non restituiscono un’immagine della superficie inquadrata. Si può, pertanto, definire che la differenza principale tra indagini analitiche e documentazione diagnostica è data dalla finalità che queste si prefiggono. La documentazione diagnostica, squisitamente “non invasiva”, realizzata con tecniche fotografiche sia durante la fase progettuale dell’intervento, sia durante quella operativa, ha il fine di documentare
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elementi già osservabili o intuibili grazie all’esperienza degli operatori. L’indagine analitica ha, invece, il fine principale di approfondire la ricerca sull’opera per scoprire la presenza di materiali non direttamente rilevabili o processi di degrado non chiaramente determinabili con altre tecniche. Come corretta linea metodologica, si raccomanda, per prima Tab. 1. Dipinti su tela e affresco cosa, di realizzare una completa documentazione diagnostica dell’opera direttamente all’interno del laboratorio di restauro per mano del restauratore. In un secondo tempo, avendo già a disposizione queste informazioni, deve essere definito un organico programma di studio dei problemi specifici del manufatto. In questa fase saranno coinvolte le indagini analitiche più appropriate, al fine di rispondere ai quesiti ancora aperti. Queste saranno eseguite un tecnico specializzato e non dal restauratore. Tale approccio metodologico, che vede prima la realizzazione della documentazione diagnostica e poi delle eventuali indagini analitiche, ridurrebbe l’uso indiscriminato di queste ultime.
Tab. 2. Opere lignee e orologio
LA DOCUMENTAZIONE DIAGNOSTICA SULLE OPERE ABRUZZESI Sulle opere abruzzesi restaurate sono state diffusamente applicate tecniche di documentazione diagnostica di tipo fotografico totalmente non invasive. Restituendo un’immagine dell’intera superficie o di una porzione dell’oggetto inquadrato, queste tecniche di documentazione diagnostica hanno la caratteristica di essere allo stesso tempo “estensive” e “puntuali”. In un’unica acquisizione possono fornire informazioni su un’ampia porzione della superficie, consentendo, allo stesso tempo, di estrarre dati da aree molto circoscritte dell’opera, senza dover attendere i tempi di un laboratorio esterno. In particolare, le tecniche fotografiche che utilizzano radiazioni nell’“invisibile” possono determinare la famiglia di appartenenza di numerosi materiali usati in arte, come i pigmenti e le vernici, con un grado di approssimazione sufficiente nella maggior parte dei casi. Qualora i risultati ottenuti non permettano un’identificazione dei materiali, restano, comunque, utili a guidare un’eventuale indagine più approfondita che sfrutti indagini analitiche più complesse (Fig. 5). L’identificazione dei materiali è effettuata estraendo dall’immagine le coordinate numeriche, che identificano il colore di un determinato punto della superficie in ambiente digitale, e ponendole a confronto con riferimenti noti. Questa operazione, tuttavia, è possibile solo se preceduta da una calibrazione della macchina fotografica, in modo che il profilo colorimetrico dell’immagine digitale corrisponda il più possibile alla realtà. Le coordinate così ottenute sono “device-indipendent”, in altre parole indipendenti dalla periferica di acquisizione e da qualunque altra periferica che le visualizzi. In questo modo è garantita la riproducibilità della misurazione e la verifica nel tempo dei dati acquisiti, prerequisito fondamentale per ogni analisi strumentale eseguita con criteri scientifici. L’assoluta non invasività di queste tecniche, la semplicità di realizzazione, i rapidi tempi di esecuzione e di rielaborazione dei dati, la possibilità di eseguire le rilevazioni in qualsiasi momento delle operazioni di restauro senza interrompere in alcun modo il lavoro degli operatori rendono queste tecniche perfette per essere realizzate direttamente dal restauratore che sta attivamente lavorando sull’opera, senza che queste operazioni debbano essere demandate a operatori esterni con un aumento dei tempi e dei costi dell’intervento. Tale metodologia, inoltre, permette di sfruttare il grado di conoscenza dell’opera del restauratore, che ha con essa un rapporto quotidiano. Qualità che non appartiene all’operatore chiamato per l’analisi il quale, nella maggior parte dei casi, ha con l’opera un rapporto solo occasionale. Le tecniche di documentazione diagnostica dovrebbero, quindi, divenire procedure consolidate nel lavoro di un restauratore; un’abitudine condotta con intelligenza applicata alle specificità del caso, con confidenza del mezzo e dimestichezza, con la consapevolezza delle possibilità documentative e di studio che esse consentono. STEFANO MARZIALI
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Il contributo delle indagini micro-invasive alla caratterizzazione stratigrafica delle opere abruzzesi MARIA LETIZIA AMADORI, SARA BARCELLI
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n occasione del restauro di vari manufatti provenienti dall’Abruzzo è stata condotta una campagna diagnostica preliminare su nove tele, sei sculture lignee e un trittico, al fine di fornire un contributo volto alla conoscenza delle opere. Le indagini scientifiche rappresentano un fondamentale strumento per una comprensione più approfondita dei manufatti e permettono di avere indicazioni sulla tecnica esecutiva e sui materiali utilizzati per la loro realizzazione. La scelta delle metodologie di studio è stata attentamente valutata a seconda delle informazioni che si volevano ottenere. Sono state effettuate quindi sia di tipo non invasivo sia di tipo microinvasivo1 che saranno discusse in questo lavoro. Le indagini effettuate hanno previsto il prelievo di microframmenti (pochi micron), campionati in modo da non alterare l’aspetto formale ed estetico dei manufatti. In particolare sono stati prelevati campioni di policromia, ventinove dalle tele e tredici dalle sculture lignee e due dal trittico, dai quali sono state realizzate delle sezione stratigrafiche per lo studio al microscopio ottico (MO) a luce riflessa. Le sezioni, opportunamente metallizzate, sono state sottoposte ad osservazione al microscopio elettronico a scansione (ESEM) e relativa microanalisi (EDX)2. Dai campioni di legno sono state preparate sezioni sottili, che sono state indagate mediante microscopia ottica3. Lo studio in sezione stratigrafica4 è fondamentale per la comprensione della sequenza pittorica in quanto la maggior parte delle policromie presenta una struttura a strati sovrapposti ma il cui colore è così percepito dall’occhio umano grazie alla presenza degli strati sottostanti che fungono da supporto e da sottofondo cromatico. OPERE SU TELA Visione di San Giovanni da Capestrano (cat. 5) La preparazione applicata sulla tela, di colore marrone ocraceo, è stata realizzata mescolando delle terre a base di allumo-silicati ricchi in ferro e manganese con poco bianco di San Giovanni. Quasi tutti i campioni mostrano una sequenza stratigrafica molto semplice con una sola stesura pittorica il cui spessore massimo è di 140 micron. Il campione di colore rosso scuro, prelevato in corrispondenza dell’altare, è composto da ocra rossa, terra di Siena, ossidi di piombo (minio/litargirio) e tracce di smaltino (fig. 1). Il campione d’incarnato, proveniente dal viso del primo personaggio a destra, è costituito da biacca, ocra rossa e cinabro (fig. 2). Nel campione prelevato sulla veste gialla della figura in ginocchio, davanti all’altare, troviamo una sottile pellicola pittorica (spessore 90 micron) a base di biacca, ocra gialla e smaltino (fig. 3). Per la realizzazione della veste grigio-azzurra della figura in primo piano a destra, sulla preparazione è stata stesa un’imprimitura a base di biacca e sopra sono state applicate due sottili stesure, la più interna a base di biacca, ocra rossa, minio e cinabro e la più esterna composta da biacca, smaltino, quarzo e bianco di San Giovanni (fig. 4). San Michele Arcangelo, Santa Lucia e Sant’Anna (cat. 14) Anche in questa tela, sopra una spessa preparazione rossastra composta da gesso, ocra rossa, biacca e poco nero carbone, troviamo una sequenza stratigrafica molto semplice con una sola stesura pittorica abbastanza sottile (spessori variabili da 60 a 125 micron). Il manto rosso del demone è stato realizzato con una pennellata di ocra rossa e cinabro sulla quale è stata stesa una lumeggiatura composta da biacca e ocra rossa (fig. 5). Nel manto blu di santa Lucia lo strato pittorico è a base di biacca, blu di Prussia e terra verde (fig. 6). Nell’incarnato del volto della figura lo strato pittorico è composto da biacca, fini particelle di ocra rossa e nero carbone (fig. 7). Madonna delle Grazie (cat. 3) Sulla tela è stata applicata una spessa preparazione scura a base di ocra rossa, terra di Siena, biacca e nero carbone. La veste rossa della Madonna è stata realizzata con un’unica stesura, con spessore massimo di 215 micron, a base di ossidi di piombo (minio/litargirio), ocra rossa e terra di Siena (fig. 8). L’incarnato della Madonna è costituito da uno strato a base di biacca, ossidi di piombo (minio/litargirio), ocra rossa, poco bianco di San Giovanni e nero carbone (fig. 9).
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Fig. 1. Micrografia altare, (cat.5)
Fig. 2. Micrografia veste, (cat.5)
Fig. 3. Micrografia incarnato, (cat.5)
Fig. 4. Micrografia veste, (cat.5)
Fig. 5. Micrografia manto, (cat. 14)
Fig. 6. Micrografia manto blu, (cat. 14)
Fig. 7. Micrografia incarnato, (cat. 14)
Fig. 8. Micrografia veste, (cat. 3)
Fig. 9. Micrografia incarnato, (cat. 3)
Fig. 10. Micrografia manto, (cat. 7)
Fig. 11. Micrografia incarnato, (cat. 7)
Fig. 12. Micrografia fondo, (cat. 7)
Fig. 13 - Micrografia manto, (cat. 8)
Fig. 14. Micrografia manto, (cat. 8)
Fig. 15. Micrografia incarnato, (cat. 8)
Fig. 16 - Micrografia manto, (cat. 12)
Fig. 17. Micrografia manto, (cat. 12)
Fig. 18. Micrografia incarnato, (cat. 12)
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Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio da Padova (cat. 7) In questa tela, sopra una preparazione bianca, con spessore di circa 250 micron, a base di bianco di San Giovanni e pochi silicati è presente un altro strato preparatorio bruno, con spessore di circa 140 micron, composto da terra di Siena, ocra rossa, biacca, particelle di quarzo, giallo di stagno e piombo (giallorino). La pellicola pittorica è costituita da un unico strato con uno spessore massimo di 110 micron. Il manto rosso del Bambino è stato realizzato con una miscela abbastanza complessa di pigmenti: biacca, cinabro, lacca, ossidi di piombo (minio/litargirio) e poca ocra rossa (fig. 10). L’incarnato del Bambino è composto da biacca con fini particelle di terra di Siena, ocra rossa e nero d’ossa (fig. 11). Il campione prelevato dal fondo grigio del dipinto mostra una stesura a base di biacca e smaltino (fig. 12). San Michele Arcangelo sconfigge il demonio tra San Carlo Borrromeo e San Filippo Neri (cat. 8) La scura preparazione stesa sulla tela dell’arcangelo è composta da terre, di colore marrone ocraceo, a base di allumo-silicati ricchi in ferro e manganese, pigmenti a base di piombo, nero d’ossa, bianco di San Giovanni e particelle di quarzo. Anche in questo dipinto la cromia è ottenuta con stesure semplici i cui spessori superano di poco i 100 micron. Il manto rosso della figura a sinistra è stato realizzato con una miscela di cinabro, minio, lacca, biacca ocra rossa e nero carbone; la lumeggiatura sovrapposta è a base di lacca, cinabro e poca biacca (fig. 13). Il blu del manto del santo a destra tra le nuvole è stato ottenuto con biacca e oltremare naturale. Tra la preparazione e la pellicola pittorica ci sono tracce del disegno (fig. 14). Nell’incarnato del santo a destra troviamo due stesure, la prima, più scura, composta da ocra rossa, cinabro, biacca e nero d’ossa e la seconda, sottile chiara, a base di biacca e cinabro (fig. 15). La Madonna presenta l’effigie di San Domenico (cat. 12) Sulla tela è stata applicata una spessa preparazione (circa 400 micron), piuttosto scura, composta da ocra rossa, terra di Siena, biacca e nero carbone, molto simile allo strato preparatorio della Madonna delle Grazie (cat. 3). La pellicola pittorica è molto sottile con spessore massimo di 70 micron. Il manto rosso della figura a destra è stato realizzato con una pennellata di cinabro, minio, lacca, biacca, ocra rossa e terra di Siena (fig. 16). Questa stesura è molto simile a quella identificata nel manto rosso di san Michele Arcangelo. Il manto celeste della Vergine è costituito da due sottili stesure, la prima più spessa a base di biacca, smaltino e bianco di San Giovanni, mentre la seconda è una sottile ombreggiatura a base di smaltino e terra di Siena (fig. 17). L’incarnato della gamba di un putto è stato ottenuto con una sottile stesura di biacca, poco cinabro, ocra rossa e smaltino (fig. 18). L’Immacolata e le anime purganti (cat. 13) La tela presenta una spessa e pigmentata preparazione di colore marrone ocraceo che è stata realizzata mescolando delle terre a base di allumo-silicati ricchi in ferro, biacca e bianco di San Giovanni. Tale preparazione è molto simile allo strato preparatorio della Madonna delle Grazie (cat. 3). Le stesure pittoriche anche in questo dipinto sono molto semplici e sottili, da 25 a 60 micron. Il rosso delle fiamme è stato ottenuto con una miscela di cinabro, biacca, quarzo e bianco di San Giovanni (fig. 19). L’incarnato della donna tra le fiamme è stato realizzato mediante un sottile stesura di biacca, cinabro e ocra rossa (fig. 20). La strage degli innocenti (cat. 6) Alla tela è stata applicata una spessa preparazione (circa 400 micron), piuttosto scura, composta da ocra rossa, terra di Siena, biacca, bianco di San Giovanni e nero carbone, molto simile allo strato preparatorio della Madonna delle Grazie (cat. 3) e di La Madonna presenta l’effigie di San Domenico (cat. 12). Le stesure pittoriche sono molto semplici e sottili, con spessore massimo di 90 micron. La veste rossa della figura in alto al centro è stata realizzata con lacca, minio, cinabro, bianco di San Giovanni e terra di Siena (fig. 21). Tale strato è molto simile a quello rosso della tela di La Madonna presenta l’effigie di San Domenico (cat. 12). L’incarnato della stessa figura è costituito da una sottilissima pennellata a base di biacca, cinabro e nero d’ossa (fig. 22). L’educazione della Vergine (cat. 15) La tela raffigurante la Vergine si caratterizza per una preparazione con terre allumo-silicatiche ricche in ferro e biacca. La veste rossa di sant’Anna è stata realizzata mescolando cinabro e poca ocra rossa, sopra è visibile
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Fig. 19. Micrografia fiamme, (cat. 13)
Fig. 20. Micrografia incarnato, (cat. 13)
Fig. 21. Micrografia veste, (cat. 6)
Fig. 22. Micrografia incarnato, (cat. 6)
Fig. 23. Micrografia veste, (cat. 15)
Fig. 24. Micrografia manto, (cat. 15)
Fig. 25. Micrografia tiglio, (cat. 4)
Fig. 26. Micrografia preparazione, (cat. 4)
Fig. 27. Micrografia manto, (cat. 4)
Fig. 28. Micrografia incarnato, (cat. 4)
Fig. 29. Micrografia manto, (cat. 10)
Fig. 30. Micrografia manto, (cat. 16)
Fig. 31. Micrografia basamento, (cat. 16)
Fig. 32. Micrografia pioppo, (cat. 2)
Fig. 33. Micrografia perizoma, (cat. 2)
Fig. 34. Micrografia incarnato, (cat. 2)
Fig. 35. Micrografia manto, (cat. 2)
Fig. 36. Micrografia manto, (cat. 2)
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una lumeggiatura a base di biacca e bianco di San Giovanni (fig. 23). Il blu del manto della Vergine è stato ottenuto con pennellate di blu di Prussia e poca biacca (fig. 24). OPERE LIGNEE Sant’Antonio Abate (cat. 4) La statua è stata ricavata da un’essenza tenera: il legno di tiglio (fig. 25). La preparazione a base di gesso e colla, spessa circa 900 micron, è stata applicata in tre diverse stesure (fig. 26). Il marrone del manto è stato ottenuto mescolando ocra rossa, minio, nero d’ossa, nero carbone e biacca; segue una lumeggiatura a base di bianco di san Giovanni, biacca e ocra rossa (fig. 27). L’incarnato è caratterizzato dalla presenza di uno strato di adesivo steso sulla preparazione, segue una stesura a base di biacca e poca ocra rossa (fig. 28). San Francesco riceve le stigmate (cat. 10) La statua è stata realizzata con legno di tiglio. Lo strato preparatorio (spessa circa 350 micron) è caratterizzato dalla presenza di diverse stesure di gesso e colla. Il marrone del saio è composto da un primo strato pittorico a base di terra di Siena, biacca e poco cinabro, ed un secondo strato costituito da terra di Siena, nero carbone, biacca e bianco di San Giovanni (fig. 29). Santa Filomena (cat. 16) La statua è stata ricavata da legno di tiglio; lo strato preparatorio gessoso di notevole spessore è caratterizzato dalla presenza di due stesure a granulometria differente. Il manto rosso presenta una complessa stratigrafia: un primo strato a base di ossidi di piombo (minio/litargirio) e cinabro, un secondo strato a base di biacca e terra ricca in ferro, segue una doratura con lamina d’oro, un altro strato sottile a base di cinabro, ossidi di piombo (minio/litargirio) e ocra, ancora uno strato di biacca e terra, un adesivo e una doratura discontinua in lamina d’oro a bassa lega, ricoperta da una vernice (fig. 30). Nel campione prelevato dal basamento è presente il bolo, a base di terre, sul quale è applicata una foglia d’argento (fig. 31). Compianto ai piedi della Croce (cat. 2) Le statue di Cristo, Madonna dolente e San Giovanni Evangelista, facenti parte del gruppo scultoreo, sono tutte realizzate in pioppo (fig. 32) e hanno una preparazione, il cui spessore è di circa 200 micron, a base di gesso e poco bianco di San Giovanni. Cristo crocefisso: nel campione prelevato dal perizoma, su un’imprimitura a base di biacca, si osserva un primo strato realizzato con gesso, biacca e silicati, uno strato composto da biacca e bianco di San Giovanni, infine due pennellate a base di biacca, azzurrite, particelle di ocra e bianco di San Giovanni (fig. 33). Nel campione d’incarnato, sopra l’imprimitura a base di biacca, troviamo uno strato composto da biacca, particelle di ocra rossa e tracce di un pigmento a base di rame, segue uno strato a base di biacca e cinabro, un adesivo, ancora uno strato di biacca e particelle di ocra rossa ed infine uno strato composto da ocra e da un pigmento a base di rame (fig. 34). Sulla superficie pittorica è presente una vernice piuttosto scura. Madonna dolente: nel campione verde prelevato dalla parte interna del manto della statua, sopra le tracce di una probabile imprimitura a base di biacca, bianco di San Giovanni e silicati, è presente una prima stesura con un pigmento a base di rame (resinato/acetato), un secondo strato composto da un pigmento a base di rame e arsenico (probabilmente Paris green) e biacca, un terzo strato contente ossidi di piombo, pigmento a base di arsenico e zolfo (orpimento), nero carbone ed un pigmento a base di rame (acetato/resinato) (fig. 35). Il campione azzurro, prelevato dall’esterno del manto, presenta una stesura molto comune nella quale, a uno strato di ocra rossa e nero carbone, è stato sovrapposto uno strato più spesso di azzurrite e poco bianco di San Giovanni, al fine di caricare l’effetto cromatico desiderato; è presente poi un terzo strato grigiastro a base di biacca, smaltino, azzurrite e rare particelle di ocra rossa (fig. 36). L’incarnato è composto da un primo strato a base di biacca, poche e fini particelle di ocra rossa e bianco di San Giovanni, un adesivo e una stesura di biacca, un ultimo strato a base di ocra rossa e minio (fig. 37). Sulla superficie pittorica è presente una vernice piuttosto scura. San Giovanni Evangelista: nel campione prelevato dal manto rosso della statua è evidente la presenza di un’incamottatura sulla quale è stata stesa la preparazione. La pellicola pittorica è piuttosto complessa: il primo strato è a base di ossidi di piombo (minio/litargirio), cinabro e ocra rossa, il secondo strato è a base di ocra rossa e minio, il terzo strato è composto da biacca e lacca, il quarto strato è stato realizzato con ossidi di piombo
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Fig. 37. Micrografia incarnato, (cat. 2)
Fig. 38. Micrografia manto, (cat. 2)
Fig. 39. Micrografia veste, (cat. 2)
Fig. 40. Micrografia incarnato, (cat. 9)
Fig. 41. Micrografia aureola, (cat. 9)
Fig. 42. Micrografia incarnato, (cat. 9)
(minio/litargirio) e ocra rossa (fig. 38). Nel campione prelevato dalla veste verde è presente una sottile imprimitura a base di biacca, segue un primo strato composto da un pigmento a base di rame (resinato/acetato), un secondo strato realizzato con biacca, pigmenti a base di rame (azzurrite/malachite e resinato/acetato di rame), tracce di cinabro e bianco di San Giovanni, un terzo sottile strato verde a base di biacca, acetato/resinato di rame, bianco di San Giovanni e terra verde, un quarto strato costituito da ossidi di piombo (minio/litargirio) e ocra rossa (fig. 39). Nel campione di incarnato, sopra l’imprimitura a biacca, si trova un primo strato a base di biacca, minio, cinabro e ocra rossa, un secondo strato a base di biacca e cinabro, un terzo strato a biacca, bianco di San Giovanni e ocra rossa, un quarto strato composto da biacca, bianco di San Giovanni, ocra rossa e poco cinabro ed infine uno strato bruno a base di terra di Siena (fig. 40). Sulla superficie pittorica è presente una vernice piuttosto scura. La Pietà tra i Santi Sebastiano e Cristoforo (cat. 9) Le tavole sono state ricavate da legno di pioppo e hanno una spessa preparazione a base di gesso con pochi silicati. L’aureola della Vergine è contraddistinta da due stesure color nocciola realizzate con biacca, terra a base di allumo-silicati ricchi in ferro e bianco di San Giovanni, segue uno strato a base di biacca e solfato di bario (fig. 41). L’incarnato del Cristo è costituito da uno strato di notevole spessore (650 micron) a base di biacca, ocra rossa e minio, segue uno strato irregolare a base di biacca e solfato di bario (fig. 42). MARIA LETIZIA AMADORI SARA BARCELLI
Note 1 - M. L. Amadori, P. Baraldi, S. Barcelli, G., Poldi, 2012, New studies on Lorenzo Lotto’s pigments: Non-invasive and micro-invasive analyses. In atti del Congresso Nazionale di archeometria AIAR, Modena 22-24 febbraio 2012, CD. 2 - I campioni di policromia sono stati studiati all’ESEM con la collaborazione di Laura Valentini del Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Campus Scientifico “Enrico Mattei”, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 3 - Per l’identificazione delle specie lignee ci sia è avvalsi della collaborazione di Chiara Capretti (IVALSA-CNR). 4 - R.J Gettens and G.L. Stout, Painting materials – A short encyclopaedia, Dover ed., 91181, (1966); M. Menu, E. Itié, E. Ravaud, M. Eveno, E. Lambert, E. Laval, I. Reiche, R.
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Mazzeo, M. L. Amadori, I. Bonacini, E. Joseph, S. Prati, G. Sciutto, Examination of the Uomini Illustri: looking for the origins of the portraits in the Studiolo of the Ducal Palace of Urbino. Part I. In Studying Old Master Paintings: Technology and Practice. Marika Spring (Ed.). Archetype Publications. London, 37-43; (2011); R. Mazzeo, M. Menu, M. L. Amadori, I. Bonacini, E. Itié, M. Eveno, E. Joseph, E. Lambert, E. Laval, S. Prati, E. Ravaud, G. Sciutto, Examination of the Uomini Illustri: looking for the origins of the portraits in the Studiolo of the Ducal Palace of Urbino. Part II, in Studying Old Master Paintings: Technology and Practice. Marika Spring (Ed.). Archetype Publications. London, 44-51, (2011); M. L. Amadori, P. Baraldi, S. Barcelli, G., Poldi, New studies on Lorenzo Lotto’s pigments: Non-invasive and micro-invasive analyses. In atti del Congresso Nazionale di archeometria AIAR, Modena 22-24 febbraio 2012, CD.
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Aspetti strutturali della conservazione dei dipinti su tela ANTONIO IACCARINO IDELSON I DELICATI EQUILIBRI DI FORZE IN UN DIPINTO SU TELA
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’uso di dipingere su tela è documentato da tempi remotissimi. Tra le più antiche testimonianze disponibili in Italia è il frammento di tessuto dipinto del IV millennio a.C. conservato al Museo Egizio di Torino1. Ancora di ambito egiziano sono le tele dipinte dal Fayum, anch’esse spesso prive di strati preparatori2. Tale modalità esecutiva, ampiamente documentata in Europa in epoca storica3, porta l’attenzione su una caratteristica fondamentale dei dipinti su tela: la flessibilità del supporto. Cennino4 raccomanda di realizzare strati preparatori molto sottili a gesso e colla e di utilizzare tele sottili e fitte, perché un dipinto con tali caratteristiche resta flessibile. Vasari5 propone una mestica a base di olio di noce, farina e biacca per sostituire la preparazione a gesso, allo scopo di mantenere una Fig. 1. Confronto tra il cretto di una pellicola pittorica a olio ricca di terre buona flessibilità nonostante i maggiori spessori degli strati pit(dettaglio dal dipinto cat. 5) e quello di un terreno alluvionale argilloso torici a olio e della tela. Se questa caratteristica specifica rende la pittura su tela una tra le tecniche più diffuse, al punto che il termine “tela” arriva a essere usato come sinonimo di “dipinto”, porta con sé cause di degrado non condivise con le altre tecniche artistiche tradizionali: la relativa agevolezza del trasporto, la semplicità dello smontaggio dal telaio e dell’arrotolamento, sono spesso causa di danni importanti. La necessità di comprendere le cause del degrado meccanico dei dipinti su tela ha portato ad alcuni studi importanti negli ultimi decenni. Infatti, flessibilità e cedevolezza del supporto comportano tutta una serie di complicazioni che richiedono la comprensione di dati fondamentali resi a volte poco accessibili da preconcetti ben radicati. La questione di fondo risulta spesso sorprendente per i non addetti ai lavori, ma è molto semplice: i materiali con cui è realizzato un dipinto su tela cambiano talmente con umidità e temperatura da finire per non somigliare più a sé stessi, in diverse condizioni ambientali. Il materiale che mostra le variazioni più macroscopiche è la colla animale, che aumenta il proprio peso del 30% passando da secco ad umido e passa dallo stato di solido rigido e vetroso in ambiente
Fig. 3. La biacca del sottile strato con cui è raffigurato il merletto della tovaglia ha stabilizzato gli strati sottostanti grazie alla migrazione di ioni metallici attivi (dettaglio dal dipinto cat.5)
Fig. 2. Differenza di cretto tra strati con terre e strati con biacca (dettaglio dal dipinto cat. 5)
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secco allo stato di gelatina morbida e deformabile assorbendo umidità dall’aria. La colla animale è da sempre usata come appretto, ed è dunque lo strato che seve a rendere la tela meno assorbente, a limitare il passaggio della preparazione attraverso la trama e a proteggere la cellulosa del filato dall’acidità dell’olio usato come legante degli strati pittorici. Un cambiamento così drastico delle caratteristiche meccaniche della colla animale significa che l’intero dipinto reagirà in modo diverso a una sollecitazione, in base alle condizioni ambientali in cui questa avviene. Una forza di trazione applicata a un materiale resistente ma sottile arriverà a romperlo senza averlo deformato molto. La stessa forza applicata a una gelatina causerà una grande deformazione. Anche gli altri componenti fondamentali, e cioè gli strati pittorici ad olio, la tela e il telaio in legno, cambiano le loro caratteristiche in modo rilevante e con conseguenze a volte molto evidenti. Gli strati pittorici a olio sono considerati in genere la parte non sensibile all’umidità, appunto perché realizzati con olio, ma in realtà l’umidità li modifica in modo sostanziale. Questo è dovuto Fig. 4. Dettaglio del dipinto su lastra di rame del Domenichino: I fedeli guariti con l’olio della sia alle caratteristiche chimiche dell’olio dopo la polimerizza- lampada (Duomo di Napoli). Gli strati pittorici contenenti terre sono crettati nonostante la presenza stabilizzante del supporto rigido, mentre quelli contenenti ioni metallici attivi zione, sia alla presenza al suo interno di grandi quantitativi di sono in perfetto stato di conservazione pigmenti. L’olio polimerizzato assorbe umidità dall’ambiente6 fino a variare il proprio peso del 5-10%; se la biacca e gli altri pigmenti bianchi scambiano pochissima umidità, le terre e le ocre arrivano a variare il proprio peso del 10%. Uno strato di olio con terra d’ombra ha dunque un significativo aumento di peso quando l’umidità si alza, ma quel che è più importante è che rigonfia: arriva a cambiare dimensioni fino al 2,5%, che significa più di due cm per ogni metro. Dunque la pellicola pittorica di un dipinto a olio cambia dimensioni seguendo le condizioni ambientali, e questo è accompagnato da variazioni di resistenza meccanica in modo analogo a quanto succede con la colla animale. Le differenze più significative a seconda delle campiture riguardano la presenza di ioni metallici attivi all’interno dello strato. Infatti gli studi di Marion Mecklenburg presentati alla Cleaning Conference di Valencia nel 20107 hanno dimostrato che la presenza di tali ioni attivi (tra i più rilevanti lo ione Piombo) riduce molto le variazioni dimensionali legate all’assorbimento di umidità, riduce la solubilità e aumenta la resistenza meccanica dello strato. La cosa più inaspettata che questo studio dimostra è che gli ioni di Piombo 5. Il cretto con bordi ripiegati di strati pittorici ricchi di terre, che hanno possono migrare durante la polimerizzazione in strati contigui Fig. delaminato la corposa collatura applicata a una tela sottilissima che ne contengano meno, modificandone le caratteristiche. (dettaglio dal dipinto cat. 15) Il dipinto raffigurante La visione di San Giovanni da Capestrano (cat. 5) è un esempio eccezionalmente chiaro di questo fenomeno. Gli strati preparatori bruni, molto sensibili alle variazioni di UR, hanno un comportamento che ricorda da vicino quello delle argille in natura (fig. 1). Gli strati pigmentati con colori chiari presentano un cretto molto meno accentuato (fig. 2). La presenza di bianco di Pb nel merletto della tovaglia, così sottile da essere quasi trasparente, è sufficiente a modificare il comportamento dello strato sottostante facendolo risultare identico a quello degli strati ricchi di biacca (fig. 3). L’intensità della forza che si esprime con il rigonfiamento dei colori contenenti terre è dimostrata anche dal loro cretto su supporti rigidi come il rame o l’ardesia. In fig. 4 il dettaglio di un dipinto su rame del Domenichino nella Cappella di S. Gennaro del Duomo di Napoli: nell’opera che raffigura i Fedeli guariti con l’olio della lampada, si vede chiaramente il cretto preferenziale di alcune ombre del panneggio di una figura in primo piano, nonostante la presenza stabilizzante del supporto in rame.
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Tornando al comportamento della colla animale, il dipinto di Ofena che rappresenta L’educazione della Vergine somma al comportamento appena descritto per le terre quello di un importante strato di collatura della tela, che quasi sostituisce la preparazione su una tela molto fitta e sottile. Nel dettaglio in fig. 5 si vede come il cretto generato dal movimento delle terre abbia lacerato lo strato di colla reso gelatinoso dall’alta umidità: i movimenti dello strato pittorico sono continuati senza più il vincolo della tela, da cui il sollevamento dei bordi. Sebbene in genere lo strato di colla presente in un dipinto abbia uno spessore molto limitato, a questo sono associate forze importanti. Uno strato di colla da 12 micron (poco più di un centesimo di millimetro) largo un pollice (ca. 25 mm) è in grado di generare una forza di 800 grammi durante l’essiccazione8: si tratta di valori talmente elevati da risultare prevalenti su ogni altra forza in gioco, quando l’umidità ambientale ha un valore normale o basso. Le fibre con cui è realizzata la tela, prese singolarmente hanno un comportamento simile a quello del legno, perché assorbendo umidità rigonfiano aumentando di diametro9. Un filo è però costituito di fasci di fibre ritorti, avvolti su loro stessi nel processo di filatura, e questo cambia il comportamento del manufatto. Infatti, quando le fibre rigonfiano il loro movimento è limitato dalla presenza di quelle contigue, e possono spostarsi solo su un lato dell’asse neutro del filato. Tale limitazione si risolve in una spinta laterale che impone un accorciamento del filo per fare spazio alle fibre: dunque il filo diventa più spesso, come ci si aspetterebbe, ma anche più corto. I fili tessuti per realizzare la tela subiscono un secondo livello di limitazione di movimento, in tutto analogo al primo ma su una scala più macroscopica, per cui il rigonfiamento dei fili della tela causa aumento di spessore ed anche accorciamento nelle due direzioni del piano. Il comportamento di un tessuto cellulosico in presenza d’umidità è esperienza di dominio comune, ed è sfruttato per migliorare le caratteristiche della tela su cui dipingere: quando questa è tesa sul telaio e bagnata, i fili subiscono una forte tensione che li riordina ed elimina le piccole irregolarità della tessitura. L’intensità della tensione che si genera in questo processo causa l’aumento delle dimensioni della tela, che una volta asciutta risulta lenta sul telaio. L’ultima volta che questo processo è ripetuto sulla tela prima dell’applicazione degli strati preparatori o pittorici, per bagnarla è usata una soluzione acquosa di colla animale. Come a questo punto sarà facile comprendere, la sua essiccazione impone una tensione alla tela nonostante questa si sia estesa per la ripetizione dello stress da umidità combinato al vincolo su telaio. Dunque, quando aumenta l’umidità, un tessuto collato perde tensione perché la colla aumenta di volume e rivela quel rilassamento della tela che era stato nascosto dalla sua contrazione10. Il telaio ligneo aumenta dimensioni assorbendo umidità, quindi fornisce tensione aggiuntiva alla tela che si sta allentando con il rilassamento della colla, cosa che in parte bilancia il livello di tensione complessivo. Durante le fasi di bassa umidità, l’essicazione della colla e degli strati pittorici causa una contrazione del dipinto, e il conseguente aumento di tensione è limitato dalla contrazione del telaio ligneo. L’equilibrio complessivo tende a restare accettabile se i processi avvengono lentamente11, e quando non si superino valori estremi di UR in basso o in alto12. Le situazioni pericolose restano quelle descritte poc’anzi, legate ad aumenti di tensione o rigidità dei materiali, causati da rapide variazioni di umidità o di temperatura, o al permanere di valori elevati di umidità, pericolosi anche perché favoriscono gli attacchi biologici e microbiologici. Ad alte umidità, i materiali che compongono il dipinto sono molto vulnerabili alle sollecitazioni meccaniche, perché l’acqua assorbita li rende deformabili. Questa caratteristica è da sempre sfruttata nel restauro, ad esempio per modificare la forma di strati pittorici molto crettati. A basse umidità invece i materiali costitutivi diventano rigidi e fragili, e questa fragilità li rende nuovamente vulnerabili alle sollecitazioni meccaniche, sebbene per motivi opposti. IL CASO PARADIGMATICO DEL DIPINTO DI CAPESTRANO Un dipinto come La visione di San Giovanni da Capestrano (cat. 5), da sempre montato sul suo telaio fisso, tende a mantenere un certo equilibrio tensionale anche se l’impossibilità di modificare le dimensioni del telaio potrebbe oggi fare apparire la situazione poco idonea alla sua conservazione. Le principali cause di danno, identificabili con l’osservazione del cretto, sono legate a valori di umidità troppo alti che hanno causato il rigonfiamento e la deformazione degli strati contenenti pigmenti igroscopici e privi di ioni metallici attivi. La colla animale è stata a lungo in forma rigonfiata, se non gelificata, contribuendo al distacco di tali strati pittorici. La permanenza della colla ad alti valori di umidità ha causato una sua progressiva disorganizzazione, facendole perdere la capacità di contribuire alla tensione della tela. Questa si è allentata anche per i dissesti del legno del telaio, spaccato negli incastri inferiori e nella traversa. L’intervento è consistito dunque nel risanamento della struttura lignea, senza smontare il dipinto. Gli strati pittorici sono stati umidificati localmente in modo da sfruttarne lo stato plastificato13 per ridurre la deformazione del cretto. L’adesione è stata migliorata con infiltrazioni localizzate di colla di storione al 5% in acqua, contestuale all’intervento di miglioramento della superficie. Terminate tali operazioni necessarie alla messa in sicurezza delle problematiche più
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gravi, la debole adesione degli strati preparatori è stata migliorata su tutto il dipinto mediante un’applicazione di colla di storione al 5% in acqua. La colla di storione è un adesivo molto puro (è stato preparato partendo direttamente dalle vesciche natatorie del pesce essiccate) e non è prodotto industrialmente da scarti di macellazione come le altre colle proteiche. La sua nota efficacia come adesivo consente di utilizzarne soluzioni molto diluite, depositando nel dipinto piccoli quantitativi di prodotto. Inoltre, ad alte umidità conserva caratteristiche meccaniche accettabili e quantificate in più di 3 volte quelle residue per una colla di pelli di elevata qualità14. La contrazione della colla di storione, conseguente all’evaporazione dell’acqua con cui era stata applicata, ha consentito di restituire alla tela una tensione accettabile ed uniforme, con ogni probabilità paragonabile a quella che il dipinto aveva in origine. EVOLUZIONE VERSO IL TENSIONAMENTO ELASTICO La storia recente ci ha abituati alla necessità di fornire ai dipinti un tensionamento meno variabile e dipendente dalle condizioni ambientali. Si tratta di una tendenza che ha radici profonde nella cultura artistica europea, se i telai a espansione angolare sono un’invenzione della metà del XVIII secolo15, come anche la necessità di dipingere su una tela perfettamente planare e priva di asperità che ne facciano percepire la presenza come supporto fisico del dipinto16. Inoltre, la sempre maggiore frequenza con cui i dipinti erano impregnati17 e foderati, testimoniata dal Decalogo (1777) di Pietro Edwards che al punto VII prescrive di “sfoderare [i dipinti] che ricevono pregiudizio dalle fodere antiche”, trasforma i dipinti restaurati in strutture molto più resistenti di quanto non fossero in origine, e capaci di sostenere tensioni più forti. I sistemi di espansione angolare permettono di aumentare le dimensioni del telaio senza smontare il dipinto. Allontanando i lati per coppie parallele la tela si estende ma, essendo il dipinto inchiodato lungo i bordi, è necessario sollecitare molto le zone angolari della tela per arrivare a dare tensione sufficiente al centro. Negli angoli, infatti, la forza si dispone in diagonale a causa della prossimità di due lati contigui e la tensione arriva a valori altissimi18. Il telaio si trasforma, da elemento rigido di riferimento in struttura a geometria variabile con angoli aperti sottoposta a sollecitazioni molto superiori nonostante la maggiore fragilità degli angoli. Il sistema, che pur si propone come soluzione ai problemi di planarità, continua però a essere soggetto alle variazioni dimensionali dei materiali costitutivi in funzione dei valori d’umidità e temperatura. Per questo motivo la tensione continua a oscillare tra valori eccessivi o insufficienti, ed è corretta periodicamente con la battitura delle biette causando un progressivo allargamento del telaio e quindi del dipinto.
Fig. 6. Sezione di un telaio rifunzionalizzato con l’inserimento di un controtelaio di rinforzo (disegno di Carlo Serino)
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Fig. 7. Rappresentazione schematica delle staffe in carbonio realizzate per rinforzare le connessioni del telaio (realizzato per il dipinto cat. 6) (disegno di Carlo Serino)
Le biette sono instabili negli angoli, per cui già dalla seconda metà del XIX sec. si trova traccia di brevetti di sistemi di espansione a vite. Del 1875 è il primo brevetto noto19 per un sistema di espansione angolare a molle. La differenza è notevole, sebbene il sistema sia sempre basato sul principio dell’espansione angolare: le molle sono negli angoli a posto delle biette, e liberano dalla necessità di controllarle periodicamente. Purtroppo però la rigidità eccessiva delle molle usate impediva alla tela di comprimerle, per cui l’espansione costante del telaio finiva a volte per causare lacerazioni della tela prima nella zona angolare e poi lungo l’intero margine di chiodatura, condannando il brevetto ed il principio stesso alla diffidenza. Di fatto si trattava sempre, nonostante le molle, di un sistema con tutti i problemi legati all’espansione angolare, come tutti i telai simili inventati e brevettati in seguito. Roberto Carità, coinvolto da Cesare Brandi nell’avventura dell’Istituto Centrale per il Restauro tra il ‘54 e il ‘60, introdusse due importanti novità nel rapporto tra telaio e dipinto. La prima fu di separare la funzione di sostegno da quella di tensionamento, utilizzando un telaio fisso con i bordi arrotondati su cui far scorrere la tela messa in tensione con un sistema di molle poste sul retro. La seconda fu di utilizzare un margine di tela libera per rendere più omogenee le tensioni imposte al dipinto. Queste novità, anche se accolte solo trent’anni più tardi, permisero di misurare la forza di tensionamento del dipinto20 e di conservare il telaio originale rifunzionalizzandolo all’interno di un sistema elastico21. RESTAURO E RIFUNZIONALIZZAZIONE ELASTICA DEI TELAI ORIGINALI
ANTONIO IACCARINO IDELSON, CARLO SERINO Il metodo utilizzato è dunque un’evoluzione del sistema di Carità, messa a punto in questa forma da Equilibrarte nel 200322 e già pubblicata in varie modalità di applicazione. Con questo metodo sono stati rifunzionalizzati telai di opere con formati ed esigenze molto diverse, da dipinti leggeri e fragili come un pastello su tela di Boldini23 a dipinti a soffitto grandi e pesanti come quelli del Palazzo Fig. 8. Colatura della resina epossidica nello stampo in silicone per la laminazione ducale dei Borgia in Spagna24. Si tratta di un sistema versatile, che sottovuoto delle staffe in carbonio usate per irrobustire le connessioni del telaio (realizzato per il dipinto cat. 6) può essere adattato ad esigenze disparate tenendo conto delle necessità specifiche dell’opera. I telai sottili e fragili sono stati rinforzati con l’aggiunta di un controtelaio in rovere su cui sono montati gli elementi del sistema elastico, mentre per i telai più ampi e robusti questi sono stati montati direttamente sul retro. Il bordo di scorrimento, in legno di pioppo rivestito di teflon, è stato montato sul bordo esterno, o sulle facce del telaio nei casi in cui il dipinto andrà reinserito in una nicchia e quindi non era possibile aumentarne le dimensioni (fig. 6). I telai sono stati puliti, disinfestati e consolidati, integrati nelle mancanze strutturali con legno della stessa specie. Alcuni, come il telaio di La Strage degli innocenti (cat. 6), hanno richiesto di intervenire su instabilità strutturali con soluzioni più complesse. Il raccordo tra la centina e i montanti, e quello tra i due elementi della centina erano talmente infragiliti da richiedere un supporto aggiuntivo, che è stato realizzato con coppie di staffe in carbonio da 4 mm di spessore accoppiate con viti passanti. Per minimizzare l’impatto sul materiale originale, queste sono state realizzate sul calco in silicone delle parti da assemblare, laminando sottovuoto con resina epossidica più strati di un twill di carbonio da 380 g/mq (figg. 7 e 8). I sistemi di tensionamento elastico impiegano molle molto cedevoli25 perché il dipinto sia sempre in grado di imporre le proprie variazioni dimensionali, e la forza in gioco abbia un valore il più possibile costante26. Il valore di tensione
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è stato scelto individualmente per ogni dipinto, in funzione del suo stato di conservazione, dello spessore e del peso del dipinto, della presenza di una foderatura (cfr. tabella 1). La scelta del valore di tensione è un momento cruciale nella storia conservativa di un dipinto, che normalmente è affidata all’intuito del restauratore e, non essendo quantificabile con i metodi tradizionali, finisce per restare nel novero delle operazioni non comunicabili e quindi non ripetibili (tab. 1). Appare dunque chiaro come la definizione di “giusto valore di tensione” vada basata su una valutazione che tenga conto di più fattori, privilegiando in ogni caso un equilibrio che consenta al dipinto di contrarsi quando le condizioni ambientali lo richiedano, per evitare Tabella 1. Il valore di tensionamento scelto per ogni dipinto che le tensioni arrivino a generare nuove discontinuità negli strati pittorici o deformazioni viscoplastiche nel supporto. Questa complessa valutazione è stata oggetto di una ricerca, descritta nel libro “Tensionamento dei dipinti su tela. La ricerca del valore di tensionamento”27, che ha portato alla possibilità di operare una scelta che può essere condivisa anche nella sua quantificazione, ed ha fornito dati di riferimento. In questa ricerca, le prove di resistenza alla deformazione (analoghe alla pressione esercitata con la mano sul dipinto per valutarne la tensione, ma realizzate con appositi strumenti di misura) hanno portato all’individuazione di un valore definibile “massimo tensionamento utile”. Infatti, aumentando la forza con cui è teso sul telaio, il dipinto si oppone alla deformazione (la resistenza alla spinta della mano per valutare la tensione) con una forza che non aumenta come ci si potrebbe aspettare: oltre una certa soglia di tensione (tra 2 e 2,5 N/cm) la resistenza a deformazione si stabilizza, rendendo inutile l’uso di una la tensione maggiore. Questo valore è stato confermato da un sondaggio tra i restauratori operanti sul territorio italiano: alla richiesta di mettere in tensione lo stesso dipinto (a parità di condizioni di contorno), ca. 150 colleghi hanno risposto con un valore di tensione che è stato misurato, e la media più rappresentativa dei dati ottenuti si è attestata su 1,8 N/cm.
Note 1 - A. M. DONADONI ROVERI: Arte della tessitura. Quaderni del Museo Egizio, Electa 2001 p. 35. 2 - E. DOXIADIS, The Mysterious Fayum Portraits, Thames and Hudson, London, 1995. 3 - C. VILLERS (ed.) Lining Paintings. Papers from the Greenwich Conference on comparative lining techniques. Archetype, London, 2003. 4 - Il Libro dell’arte, Capitolo CLXII. 5 - Le Vite, Della Pittura, Cap XXXIII. 6 - I dati numerici sul comportamento reologico dei materiali citati da qui in avanti (tranne quando diversamente indicato) sono tratti da sperimentazioni condotte da Marion Mecklenburg presso la Smithsonian Institution di Washington, in corso di pubblicazione e utilizzati con il suo consenso. 7 - Cleaning 2010. New insights into the cleaning of paintings. May 26-28, 2010. Atti in corso di pubblicazione, c.so st. 8 - M. MECKELNBURG, Meccanismi di cedimento nei dipinti su tela: approcci per lo sviluppo di protocolli per il consolidamento Collana “I Talenti”, Il Prato editore, Padova, 2007, pag. 27. 9 - Il rigonfiamento delle fibre cellulosiche comporta anche un allungamento assiale, di entità tale da risultare ininfluente nel comportamento generale del filato e della tela. 10 - Ciononostante, non è raro che una tela si contragga con l’aumento di UR causando instabilità o addirittura espulsione degli strati pittorici. Nella maggior parte dei casi si tratta di tele che non avevano subito un processo di bagnatura e collatura come quello descritto, come quelle preparate con gelatine fredde o con sistemi industriali. Questo tipo di danni è tipico delle tele preparate a partire dal XIX sec. 11 - I tempi di reazione dei materiali sono diversi, ma quando le variazioni sono di tipo stagionale hanno una gradualità tale da consentire ‘l’adattamento non traumatico della struttura. 12 - Nonostante le prescrizioni contenute negli “Standard Museali” (art. 150, comma 6, D.Lgs. n. 112/1998), l’esperienza insegna che una forchetta accettabile per il dipinti su tela vede UR tra 40 e 65%. Per T il discorso può essere più complesso, ma i valori tipici di un ambiente abitato sono generalmente innocui, purché le variazioni siano graduali. 13 - Come si è detto, ad alti valori di UR e T il materiale diventa soggetto a deformazioni permanenti (o plastiche). Nel grafico stress/deformazione si potrebbe vedere come si abbassa il punto di snervamento e si riduce il suo modulo elastico. 14 - M. MECKELNBURG 2007, op. cit. pag. 63. 15 - H. Verougstraete sostiene in: VEROUGSTRAETE-MARCQ, H; VAN SCHOUTE, ROGER, Cadres et supports dans la peinture flamande aux 15e et 16e siècles. Heure le Romain 1989, che si possa
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definire la data della loro invenzione intorno al 1755, perché citate come una novità dal monaco benedettino Anton Pernety nel suo “Dictionnaire” del 1757, ed in base allo studio dei telai del pittore della scuola di Anversa P. J. Verhaghen (1728-1811) che iniziò ad usare telai a biette dal 1760. 16 - Vedere in proposito: G. CAPRIOTTI: Piano e superpiano come luogo della raffigurazione pittorica in: G. CAPRIOTTI, A. IACCARINO IDELSON: Il tensionamento dei dipinti su tela. Nardini 2004. 17 - Illuminanti in proposito e ricette di de Mayerne. 18 - M. MECKLENBURG: Some aspects of mechanical behaviour of fabric supported canvas paintings, National Museum Act, 1982. E poi: G. ACCARDO, G. SANTUCCI, M. TORRE: Sollecitazioni meccaniche nei dipinti su tela: ipotesi su alcuni metodi di analisi e di controllo. In: “Atti della Conferenza Internazionale Prove Non Distruttive”, Viterbo, 1992, pp. 37-52. 19 - J. P. WRIGHT and D. W. GARDNER. Canvas stretchers, Patented Jan. 19, 1875, n. 159102 20 - La questione è stata affrontata per la prima volta in modo organico dall’ICR con il restauro del S. Gerolamo di Caravaggio nel 1990: G. ACCARDO, A. BENNICI, M. TORRE, Tensionamento controllato della tela, in: Il San Gerolamo dì Caravaggio a Malta. Dal furto al Restauro, Istituto Centrale per il Restauro, Roma, 1991, pagg. 31-36. 21 - Il sistema è pubblicato per la prima volta in: A. IACCARINO, Dipinti su tela, una proposta per conservare i telai originali. in Materiali e Strutture, anno VI, n° 2, 1996, Roma: pp 85 – 93 22 - Brevetto dell’Amministrazione della Provincia di Viterbo, Antonio Iaccarino Idelson e Carlo Serino. 23 - La prima applicazione pubblicata del metodo è in: A. IACCARINO IDELSON, C. SERINO, Il tensionamento e la rifunzionalizzazione del telaio originario, in: Guardare ma non toccare. Il pastello bianco di Giovanni Boldini, a cura di P. Borghese e B. Ferriani, Kermes, n. 57, 2005. 24 - C. SERINO, A. IACCARINO IDELSON, I. GIRONÉS SARRIÒ, La rifunzionalizzazione elastica dei telai e la ricollocazione dei dipinti nella Galeria Dorada. In: Actas del Congreso internacional de restauracion de pinturas sobre lienzo de gran formato, Valencia, 26-28 ottobre 2010, Universitat Politècnica de València, 2010. 25 - Molle realizzate con realizzate in acciaio inox 302, diametro spira: 8 mm, diametro filo 1,1 mm, lunghezza avvolgimento 43 mm. Costante elastica media: 1 N/mm; precarico: 8 N. 26 - Se la molla è cedevole, va allungata molto per raggiungere la forza scelta e le variazioni dimensionali del dipinto saranno poco significative in confronto all’allungamento impostato, per cui si avranno oscillazioni di forza molto contenute. 27 - CAPRIOTTI, G., IACCARINO IDELSON, A., Tensionamento dei dipinti su tela. Nardini Editore 2004.
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REFERENZE FOTOGRAFICHE Tutte le immagini delle opere prima, durante e dopo il restauro e di diagnostica sono state realizzate da STEFANO MARZIALI Archivio dell’Università di Urbino Archivio del Comune di Castel del Monte p. 31, tav. XI; p. 170, tav. XIV Archivi Soprintendenza BSAE dell’Abruzzo pp. 36-37; p. 94, fig. 1; p. 106, fig. 1 MAURO CONGEDUTI pp. 10-11, tav. I; pp. 16-17, tav. IV; p. 21, tav. VI pp. 24-25, tav. VIII; p. 28, tav. X MARTA VITTORINI p. 19, tav. V; p. 22, tav. VII; p. 27, tav. IX; p. 32, tav. XII; p. 53, fig. 2 LUCA DI SALVO
p. 57, cat. 3 ANTONIO IACCARINO IDELSON p. 164, fig. 1, fig. 2, fig. 3; p.165, fig. 4, fig. 5; p. 168, fig. 8 Si ringrazia GINO DI PAOLO per le immagini a p. 13, tav. II; p. 15, tav. III; p. 35, tav. XIII
L’editore è a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non identificate e si scusa per eventuali, involontarie inesattezze e omissioni
Casa editrice Gabbiano Srl· Ancona 0719989979· info@adriaeco.eu Grafica e impaginazione Clizia Pavani Finito di stampare nel mese di settembre 2012 Bieffe Industria Grafica - Recanati (AN) È vietata la riproduzione dell’opera o parte di essa con qualsiasi mezzo se non espressamente autorizzata dall’editore ISBN: 978-88-905347-5-1