Anno XVI n. 10 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - â‚Ź 2,60
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XVI n.
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SOMMARIO
Anno
dicembre 2016 - GENNAIO 2017
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35 all’in anni della c segna rescita
I fratelli Rota festeggiano i 35 anni della 4R. Da sinistra, Maurizio, Giampietro, Enrico e Luca
4 IL Prodotto
Olio d’oliva, cresce (anche in qualità) la produzione bergamasca
10 L’INTERVISTA
Il critico mascherato: «Mai identificato al ristorante e questo fa la differenza»
12 FUORIPORTA
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È tempo di tappe golose
15 L’iniziativa
A Medjugorje l’hotel che parla e cucina bergamasco
16 la novità
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Cantoni: «Luci e ombre nel nuovo Testo Unico del vino»
18 IL borsino
Formaggi, chi è in... forma e chi no
22 IL PIATTO
Zuppe, due classici per le Feste
28 il coltivatore
Dal “Senatore Cappelli” al mais bianco, a Calvenzano la sfida è bio
32 il locale
Le signore dei casoncelli
37 a tavola con
Enrico Bertolino: «Se v’invito a cena non chiedetemi cosa si mangia»
Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120322 - fax 035 231082 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120280 - fax 035 231082 - info@larassegna.it - N° ROC 5847 - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Roberta Martinelli, Fabrizio Pirola, Rosanna Scardi, Gualtiero Spotti - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg
IL PRODOTTO di Roberta Martinelli
Olio d’oliva, cresce (anche in qualità) la produzione bergamasca
L’ Quest’anno il meteo ha ridotto la raccolta, il settore però prosegue nello sviluppo. La superficie coltivata ad olivi è di circa 200 ettari e non mancano le aziende che investono nel miglioramento continuo. Antonucci: «Magari ce ne sono di migliori, ma acquistando un olio di Bergamo ci si porta a casa il territorio»
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olivicoltura orobica cresce sia in termini di qualità che di quantità. Il trend è costante: negli ultimi dieci anni, secondo le stime, il comparto ha conosciuto un incremento tra il 30 e il 40% e le previsioni confermano lo stesso aumento per i prossimi anni. Nonostante il continuo sviluppo, l’olio “made in Bergamo” è però ancora un prodotto di nicchia: la produzione oggi è di circa 45 tonnellate di olio di oliva all’anno, con 75mila piante di olivo coltivate (in Italia ce ne sono circa 250 milioni) su una superficie di circa 200 ettari. Rappresenta circa il 10% dell’olio prodotto in Lombardia, lo 0,01% di quello prodotto in Italia e lo 0,001% della produzione mondiale. Le colture si concentrano nelle due aree vocate del lago e di Scanzo, definita la Toscana bergamasca, e coinvolge circa 200 operatori, per lo più amatori che hanno produzioni molto piccole e destinano l’olio prodotto all’autoconsumo familiare. Ma c’è anche una bella realtà di aziende con una discreta produzione, come il Castelletto e la Brugherata di Scanzorosciate, l’azienda Mantolina di Predore, l’Azienda agricola Vismara di Cenate Sotto e le aziende agricole Alba e Possimo di Lovere e Cascina Lorenzo a Costa Volpino. La cultivar locale è la Sbresa, una pianta antica probabilmente portata dai Romani, la cui coltivazione si è mantenuta negli anni grazie alla presenza sul territorio di molti monasteri, che producevano olio per scopi sacri. Ad oggi sono censite circa 500/600 piante provenienti dal ceppo originale. «Siamo quasi tutti appassionati e va bene così perché fare agricoltura in montagna non dà guadagno. Da noi è tutto un terrazzamento, le macchine non arrivano, non si può pensare di fare come in Toscana», spiega Vittorio Capitanio, presidente della Cooperativa olivicoltori bergamaschi, gruppo che conta circa 70 associati di cui una trentina sono nuovi ingressi. «Il lavoro degli hobbisti è una
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ricchezza importante – sottolinea Capitanio -. Andrebbe riconosciuto con una politica di sostegno, come avviene in Trentino dove chi tiene pulito il territorio viene pagato per questo. Invece da noi ci sono mille controlli burocratici e non si valorizza Marco Antonucci il lavoro che facciamo. La cooperativa stessa sta in piedi perché tutti, anche il commercialista, lo facciamo a costo zero». L’obiettivo è potenziare la produzione. «C’è il progetto di realizzare un secondo frantoio in provincia, a Predore, e questo sarebbe un passo importante ma la cosa fondamentale che manca sono i giovani – rileva -. Il nostro lavoro si concentra tutto in un mese, dovrebbe essere inglobato in un sistema che permetta a chi sta in campagna di avere un utile». Marco Antonucci, tecnico ed esperto del MiPAF con la qualifica di capo panel internazionale e formatore, nonché coordinatore della Guida agli Extravergini Slow Food e autore di “L’olio giusto” edito da Aipol, da anni si impegna per migliorare e valorizzare l’olio orobico: «Quest’anno, anche a Bergamo, la raccolta ha avuto una forte contrazione, del 30-40%, a causa delle condizioni meteorologiche e dell’attacco della mosca. Ma in generale il settore è in costante crescita, sia a livello di numeri che di qualità, anche grazie al lavoro fatto in questi anni. Certo non possiamo ancora paragonarci al Garda che ha una lunga tradizione, ma c’è stato uno sviluppo grandissimo». Quali pregi hanno gli oli “made in Bergamo”? «Sono oli molto apprezzati perché hanno una nota amaro-piccante molto leggera che lascia sentire i sentori di mandorla, frutta bianca e banana. Questo è dovuto alla presenza di abbondanti precipitazioni e alla ridotta esposizione al sole, fattori che riducono sia la piccantezza che l'amarezza. Sono inoltre oli salutari perché hanno una discreta percentuale di polifenoli e un’alta percentuale di acido oleico, il cosiddetto “grasso buono”, e di acido linoleico e linolenico, meglio noti come omega 3 ed omega 6. Con un distinguo: l’olio prodotto sul lago ha sentori di frutta – mela verde, frutta bianca, banana - perché le piante godono di una migliore esposizione al sole, quello di Scanzo presenta sentori più vicini all’erba e di mandorla». Quali sono i limiti e le potenzialità dell'olivicoltura orobica? «Un limite grosso è la mentalità della tradizione familiare rurale, che non dà spazio all’innovazione. Tra alcuni contadini appassionati c’è ancora la tradizione di fare l’olio come lo si faceva una volta. Mentre i produttori più grossi che hanno una certa cura fanno oli di buona qualità, che migliora anno dopo anno».
Tempo fa si parlava di realizzare un frantoio a Predore. «Il progetto non è stato ancora realizzato, ma alcune cose si stanno muovendo. Non posso aggiungere altro: vediamo cosa succederà nel 2017. A Bergamo c’è un unico frantoio, che è di proprietà della Cooperativa olivicoltori bergamaschi ed è ospitato all’azienda Il Castelletto a Scanzorosciate. Ma negli ultimi tempi ne hanno aperto uno in Valle Camonica, poi ce ne sono uno a Monteisola, uno a Capriolo e tre tra Marone e Sulzano». Dove si possono trovare gli oli bergamaschi? «La commercializzazione avviene in parte nei mercati in provincia e in parte all'estero attraverso l’e-commerce. Possimo e Castelletto vendono localmente. A Bergamo si possono trovare da Why in Italy shop, in via Cesare Correnti, che propone le specialità del territorio bergamasco». I prezzi non sono a buon mercato. «I nostri oli sono costosi. Non possono costare meno di 15 euro al litro, che è il costo minimo di produzione. Solo la manodopera costa dieci euro al litro. In Spagna le aziende hanno 30/40mila piante e ci sono cooperative addirittura con 6 milioni di piante. La differenza è abissale già qui. Inoltre in Spagna c'è una macchina che raccoglie le olive. Qui raccogliamo a mano su piante anche grandi. I costi di partenza sono dieci volte superiori. Se compri un olio “di Bergamo” è perché compri un pezzo di Bergamo, hai il valore aggiunto dell’area di produzione. Poi magari ci sono altri oli migliori, ma porti a casa il territorio, il tipo di cultivar».
In senso antiorario: nuovi impianti di olivi a Predore; una pianta dell’antica cultivar Sbresa; la raccolta familiare e il frantoio di Scanzorosciate
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IL PRODOTTO
I “trucchi” per capire se è buono
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su tutte le nostre tavole, ma siamo in grado di stabilire se un olio d’oliva è buono o scadente? E, non meno importante, lo conserviamo nel modo giusto? Perché la dicitura “olio extravergine di oliva” da sola non garantisce che siamo di fronte a un olio di qualità. Con l’aiuto di Marco Antonucci, da molti anni attivo a livello internazionale nella diffusione della cultura dell’extravergine e dell’analisi sensoriale attraverso seminari, corsi, incontri, guide, articoli e pubblicazioni di carattere sia divulgativo che universitario, abbiamo realizzato un vademecum fatto di piccoli trucchi che vi aiuteranno a riconoscere un olio buono da uno che non lo è. E a conservarlo in modo corretto. Tanto per iniziare, sfatiamo una convinzione diffusa: il colore non è importante.
Leggere con attenzione l’etichetta Il primo consiglio è leggere bene l’etichetta. Più informazioni sono riportate, più chiare sono, e più possiamo fidarci del prodotto. L’indicazione Igp o Dop, che garantisce che l’olio è di una determinata area, e il marchio di consorzi locali possono essere buoni indici di qualità, oltre a tutte le indicazioni di legge. È importante verificare anche la provenienza delle olive: non c’è una regione di provenienza migliore dell’altra, ma esistono tecniche virtuose di gestione dell’oliveto, raccolta, trasformazione e conservazione che permettono di avere un olio di qualità. Se le olive sono lavorate in frantoio aziendale, ad esempio, è una garanzia in più (il frantoio aziendale consente la lavorazione delle olive dopo poche ore dalla raccolta, conferendo agli oli alti valori nutrizionali). Altre informazioni importanti sono i dati del
confezionatore (se non è lo stesso produttore), il numero del lotto (che facilita la rintracciabilità), il contenuto in acido oleico, di polifenoli, di vitamina A, D ed E. La trasparenza informativa tra produttore e consumatore è un elemento decisivo nel mercato di oggi. Il consiglio di Coldiretti è di guardare anche la data di scadenza e preferire l’extravergine nuovo controllando l’annata di produzione che molti indicano volontariamente in etichetta. «Da qualche anno c’è scritto se l’olio è comunitario o non comunitario – dice Antonucci -. L’indicazione da cercare è “prodotto e confezionato da”. È la “e” a fare la differenza. Anche la scritta “olio italiano al 100%” va benissimo ed è garanzia di qualità. Al contrario, la scritta “olio proveniente da Comunità europea” deve far pensare che l’olio può essere spagnolo o greco. Se è riportato anche l’anno di raccolta è un altro segno di qualità. Se non c’è scritto, è facile che nella
NEL MONDO
Piace sempre più e conquista nuovi mercati
L’
olio d’oliva piace sempre più. Negli ultimi quattro anni i consumi sono cresciuti del 13,4% e si stima che la produzione salirà a 2,9 milioni di tonnellate, grazie anche all’ingresso di dieci nuovi Paesi consumatori, che portano il numero totale dei Paesi “innamorati” dell’olio da olive a quota 174. Anche se l’olio d’oliva rappresenta solo l’1,7% del consumo globale di grassi, con un consumo pro-capite annuo di soli 420 grammi, il potenziale di crescita è alto. La maggior parte del consumo è fortemente sostenuta dai Paesi produttori (83% della popolazione mondiale), che hanno un consumo medio annuo di circa 10 chilogrammi di
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e per conservarlo nel modo giusto bottiglia siano presenti anche oli di altri anni». «Il colore, invece, non va considerato – aggiunge - non dà né gusto né profumo».
Il profumo deve ricordare l’oliva Quello che leggiamo in etichetta non basta a garantire la qualità. È importante anche valutare la componente olfattiva. L’olio deve avere un profumo che ricorda l’oliva, perché alla fine non è altro che una spremuta di olive (in gergo si dice che l’olio deve avere un “fruttato maggiore di zero”). Sembra una banalità scriverlo, però è utile e da tenere sempre a mente. Se profuma di erba appena tagliata, di pomodoro, carciofo, mela o mandorla, siamo in presenza di un buon prodotto.
Deve avere un gusto amaro e piccante «L’olio è come il vino, per capire se è buono va assaggiato – spiega Antonucci -. Se all’assaggio si nota
una sensazione di amaro in bocca, leggermente tendente al piccante in gola, allora l’olio è buono». Amaro e piccante, insieme al fruttato, sono i tre pregi che un buon olio extravergine deve avere e garantiscono anche le proprietà salutistiche del prodotto: alcuni composti nobili dell’olio come l’oleuropeina e l’oleocantale (l’uno antinfiammatorio, l’altro antiossidante potentissimo) garantiscono la loro presenza nel prodotto proprio attraverso il gusto, il primo di amaro e il secondo di piccante. Per assaporare bene l’olio lo si tiene su palato e lingua almeno 20 secondi, quindi si deglutisce.
Non deve essere rancido né acido Uno dei difetti più comuni dell’olio di oliva è il “rancido”, dovuto all’invecchiamento, che è causato dalla luce, dal calore o dall’ossidazione (come sapore e odore assomiglia al grasso del prosciutto crudo lasciato una
olio di oliva per persona (con punte nell’isola greca di Creta che sfiorano i 32 kg). Cresce anche la produzione. Più 13% negli ultimi quattro anni. Ad oggi l’olivicoltura coinvolge 56 Paesi produttori, con una superficie mondiale investita di oltre 10 milioni di ettari, una media di 3,1 milioni di tonnellate di olio di oliva prodotta e una piantumazione di dieci alberi al secondo. Le previsioni sono di raggiungere, nel 2020, i 4,1 milioni di tonnellate.
Veronelli e la battaglia per la qualità L'olio è tra i prodotti più contraffatti in circolazione: l’80% dell’olio d’oliva utilizzato in Italia è composto da olio di importazione da Spagna, Tunisia e Grecia. Secondo il regolamento europeo, è sufficiente, affinché un olio sia considerato italiano, che venga prodotto con olive spremute in Italia anche se provenienti da coltivazioni estere. Non solo. Alcune aziende impiegano oli di scarto addizionati con betacarotene, clorofilla e coloranti, che – una volta ripuliti chimicamente – vengono distribuiti come extravergine a costi notevolmente inferiori alla media. Ecco perché in commercio è facile trovare oli extravergine a costi anche molto bassi. La prima campagna per l’olio di qualità e la difesa dell’olivicoltura italiana è stata fatta da Luigi Veronelli. È stata la sua ultima battaglia
La coltivazione si sta espandendo in tutto il mondo: i maggiori produttori sono Spagna, Italia, Grecia e Portogallo. Seguono Francia, Balcani e Malta, Turchia, Tunisia, Libia, Algeria, Siria, Cipro, Israele, Palestina, Libano e Giordania, in coda Argentina, Cile, Brasile e Uruguay, Australia, Sud Africa e, da qualche anno, anche il Sud America e la Cina. Nell’ultimo anno, hanno cominciato a investire nel settore anche Uzbekistán, Azerbaijan, El Salvador, Etiopia, Kuwait, Macedonia, Bulgaria e Yemen.
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IL PRODOTTO
Perché extravergine è meglio
giornata al caldo a contatto con l’aria). L’olio d’oliva è un olio di base, prodotto «Per bene che lo si con olive cadute a terra o di seconda scelta, conservi, a un certo l’olio extravergine invece è un olio proveniente punto muore, come da spremuta di olive di prima raccolta, il burro – spiega colte direttamente dalla pianta e nel Antonucci -. Dipende momento di perfetta maturazione. Questa da come è conservato, accortezza fa sì che l’olio mantenga ma in generale la durata intatte tutte le qualità nutrizionali media di un olio è di un e organiche. paio di anni». Un altro difetto è la fermentazione. «Le olive si raccolgono la mattina e si portano al frantoio il pomepresentano uno strato sul fondo della riggio. Se si lascia passare più tempo bottiglia», consiglia Antonucci. e le olive vengono ammassate in ambienti poco aerati e umidi, fermentano. Non può In questo caso l’olio assume un legcostare meno gero odore di aceto». In generale, se di 12 euro si percepiscono odori che richiamano «Il detto “costa poco, vale poco” nel verdure o frutti passati o peggio ancocaso dell’olio d’oliva va tenuto semra l’odore della salamoia o di rancido, pre a mente. Bisogna diffidare degli è segno che il prodotto è scadente e oli a prezzi bassi. Un buon olio extraforse non è nemmeno extravergine. vergine di oliva, lavorato con metodi
Non deve avere il fondo
«Un terzo difetto che può avere l’olio è di presentare il fondo. «Come per il vino, anche per l’olio, la bottiglia non deve avere il fondo. Se l’olio è novello va bene, ma va consumato subito. In generale però è sempre bene filtrare l’olio ed evitare di acquistare oli che
artigianali e di qualità, deve avere un costo minimo di 12 euro al litro. Se il prezzo è più basso, quasi di sicuro la sua qualità non è eccellente ed è composto da un mix di oli provenienti da Paesi europei ed extra-europei, non soltanto da olio extravergine di provenienza italiana. La cosa migliore è acquistare l’olio direttamente dal produttore, sia per risparmiare accorciando
la filiera, sia per avere la possibilità di assaggiare il prodotto prima dell’acquisto e per verificare personalmente come avviene la produzione».
Va conservato come il vino
Una volta acquistato un buon olio extravergine, è importante conservarlo nel modo corretto. «L’olio è più delicato del vino. La prima accortezza è evitare di sottoporlo a temperature elevate e dividere la damigiana in tante bottiglie. Se lo acquisto in Puglia in damigiane e lo metto nel baule dell’auto a una temperatura di 40 gradi e poi, arrivato a casa, lo ripongo in cantina lo uccido». Anche la conservazione in casa richiede alcune attenzioni. «Molti conservano male l’olio – avverte Antonucci -. La bottiglia deve essere riposta lontano dai fornelli e al buio, a una temperatura tra gli 11 e i 16 gradi, altrimenti si guasta. Inoltre, quando si apre una bottiglia bisogna richiuderla subito, cosa che non si fa di solito. A differenza del vino, infatti, l’olio non ha conservanti quindi se si lascia aperto si ossida. Infine, quando la bottiglia è finita la si deve buttare perché sulle pareti si forma dell’olio ossidato». «Se si conserva l’olio come il vino non si hanno problemi», garantisce l’esperto.
Per chi vuole approfondire
Incontro tecnico pratico di degustazione dell’olio Giovedì 19 gennaio Comunità Laghi bergamaschi | Lovere
Giovedì 26 gennaio Comunità Laghi bergamaschi | Casazza
Giovedì 2 febbraio Comunità Laghi bergamaschi | Villongo
Giovedì 9 febbraio Comunità Laghi bergamaschi | Villongo
ore 20.30 partecipazione libera
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Riflessioni di Enrico Rota
È tempo di ringraziamenti. Ecco a chi dedico questo Natale
A
nche il 2016 è alla fine. L’affannosa ricerca dei regali e l’organizzazione di pranzi o cene con amici e parenti ci distoglieranno per alcuni giorni dai soliti problemi. Cercherò, senza pretese alcune, di chiudere l’anno con un ringraziamento fatto con il cuore a chi si prodiga per il bene comune, senza mai cercare i riflettori o avere un ritorno personale. Da sempre metto in evidenza situazioni che non vanno o che andrebbero modificate, senza la pesunzione di aver ragione e con l’unico obbiettivo di difendere ciò che amo. Il mondo del vino mi è sempre appartenuto, essendo cresciuto in una famiglia con le bottiglie di vino in casa, di quelli che “senza la bottiglia sul tavolo non si può iniziare a mangiare”. La fiaschetteria dei genitori - lavoro oltre che delizia - mi ha permesso di vivere un mondo straordinario, fatto di passioni e sofferenze. Faccio parte di quel mondo che il vino lo conosce bene, non solo perché studiato, ma perché l’hanno vissuto come uno straordinario prodotto culturale e non come una mera bevanda da analizzare. Mi è stato spiegato come ogni vino sia unico, come ogni annata sia irripetibile e come ogni bottiglia porti con sé fatica, speranze e tanto tanto amore. È un mondo viziato, però, fatto anche da chi il vino non lo ama e non rispetta il lavoro altrui, cercando quasi sempre fama e gloria a spese del prossimo. Confesso di essere diventato intollerante con quelle persone che scrivono e giudicano sempre e solo male per pure manie di protagonismo o, peggio ancora, per un ritorno economico. Sono falsi profeti, ma non è di loro che voglio parlare. Troppe volte diamo un palco ingiusto a coloro che sanno solo criticare, dimenticandosi che persone oneste e competenti lavorano tutti i giorni per questo mondo, senza chiedere nulla in cambio. Persone nobili di animo che lavorano in silenzio, cercando di valorizzare il territorio e le persone che ci vivono e ci lavorano. Un primo pensiero va a coloro che danno vita alle varie associazioni, stimolandole con il proprio apporto e con il proprio temperamento; persone sempre disponibili a visitare un vigneto per dare qualche suggerimento o a sedere attorno a un tavolo tecnico in Regione. Persone che mai si astengono e pagano di tasca propria anche i meri trasferimenti; persone che cercano di trasmettere il grande valore dell’associazionismo quale volano per svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, nel pieno rispetto della libertà e dignità di tutti, promuovendo la partecipazione, la solidarietà e il pluralismo. Un secondo pensiero va invece a coloro che aiutano il territorio a crescere tramite la comunicazione. Sono giornalisti o direttori di testate che, con zelo e dedizione, prestano attenzione al comparto in modo positivo e propositivo. Sono quelli che non amano le urla da cortile e non fanno dei loro blog una fiera di mercanti. Sono quelli che non approfittano del supposto “quarto potere”, anzi, lo mettono a disposizione della comunità. Sono quelli che evitano di chiedere rispetto per la propria professione mentre diffamano le persone e il lavoro altrui. Ecco, questo Natale a loro lo voglio dedicare: grazie.
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L’intervista
Il critico mascherato: «Mai identificato al ristorante e questo fa la differenza» Parla Valerio Massimo Visintin, giornalista enogastronomico del Corriere della Sera ospite dell’Accademia del Gusto. «L’anonimato mi dà la certezza di ricevere lo stesso servizio che viene fornito ai clienti. E poi non si costringe lo chef ad uno stato di agitazione che potrebbe perfino peggiorare il suo rendimento». «Troppi chef si sono montati la testa o dicono cose senza senso, come Bottura» Lo scorso 28 novembre Valerio Massimo Visintin, scrittore e critico gastronomico del Corriere della Sera noto come il critico mascherato per la scelta di non mostrare in pubblico il suo volto così da salvaguardare l’indipendenza del suo giudizio - è stato ospite dell’Accademia del Gusto a Gourmarte. Un incontro che ha permesso di raccontare quale tipo di cucina piace oggi ai clienti e come incidono guide e critica gastronomica sul destino di un’attività di ristorazione. Affari di Gola era presente all’evento e l’ha intervistato
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di Donatella Tiraboschi
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isintin di cognome, ma il viso - e tutto il resto - non si vede. Cognomen omen? (ride) «È un cognome di origine goriziana, ma non ho mai messo piede a Gorizia. Sono discendenze antiche, in realtà sono nato a Milano, figlio di un giornalista milanese (l’ex direttore del Corriere dei Piccoli, ndr) e di mamma bolognese». Critico gastronomico per caso? «Prima, in avvio di carriera, ho scritto per diverse riviste tecniche. Mi sono fatto una cultura sul golf, sul disegno e perfino
sui sanitari. Ho cominciato 26 anni fa. Ho passato metà della mia vita a tavola». In 26 anni di carriera non è mai stato identificato? «No, e devo dire senza fare neanche tanto sforzo. Mi limito a non presentarmi. Certo, nessuno mi ha mai pedinato. Alcune volte mi capita di essere individuato mentre sono da un’altra parte. Ero in ufficio stavo scrivendo e su Fb mi arriva il messaggio: sei a mangiare in quel tal posto! ». Come è nato questo costume alla Fantomas? «Il giaccone di pelle è un riciclo di quando ero giovane, il passamontagna è fondamentale e i
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guanti sono stati un suggerimento di mia moglie, che dice che le donne riconoscano gli uomini dalle mani». Non le capita mai di svelare la tua identità? «Solo in farmacia o dal medico o, se dovesse fermarmi, dalla polizia. Ma non temo di essere riconosciuto, il mondo del food in realtà è un provincialissimo micro cosmo». Come fa a mantenersi così in forma? «Mi alleno molto. Non sono in forma, assolutamente. Però devo dire che il nero sfina molto». Quanto la non riconoscibilità le garantisce l’imparzialità di giudizio? «È fondamentale. Devi essere sicuro di ricevere lo stesso servizio che viene fornito ai clienti qualsiasi. E poi non si costringe lo chef ad uno stato di agitazione che potrebbe perfino peggiorare il suo rendimento».
La peggior recensione? In un ristorante milanese: due dischetti di tartare, una di manzo e l’altra di branzino con una senape in mezzo che sapeva di topo marcio Cucina a casa? «Assolutamente no. Esco molto meno ora, ma circa 4 volte alla settimana. A casa mangio il meno possibile, diciamo delle foglie di insalata, giusto per compensare. In media sono fuori, soprattutto la sera, circa 250 volte l’anno». Dal momento che nessuno le offre niente, che cosa costa questo tipo di vita? «Dai 12 ai 15mila euro l’anno. Ovviamente il giornale mi rimborsa». La recensione più difficile? «Non saprei. Difficili lo sono tutte, perché bisogna fare un’analisi attenta dell’emozione che si è vissuto. Sono più facili le stroncature, più naturali, vengono meglio». Piatto preferito? «Non ce l’ho, devo essere super partes».
Il mio cibo preferito è in assoluto il formaggio. Mi piacciono tutti. Stanno benissimo con i vini. È un mondo meraviglioso». «Mangio fuori casa circa 250 volte l’anno, con una spesa che sfiora i 15mila euro Alimento preferito? «Il formaggio, in assoluto. Buonissimi, mi piacciono tutti. Stanno benissimo con i vini. È un mondo meraviglioso». Il piatto più immondo che le è capitato di mangiare? «In un ristorante di Milano, zona ticinese; due dischetti di tartare, una di manzo e l’altra di branzino con una senape in mezzo che sapeva di topo marcio. Cioè, io non ho mai mangiato un topo marcio, ma credo che il sapore sia molto simile. E non riuscivo a finirlo, cosa che invece si deve fare. Ero in difficoltà; fortunatamente mia moglie ha preso questa specie di polpetta e me l’ha ficcata nella tasca». La recensione come fu? «Una stroncatura, ma se lo meritava. Fortunatamente è un ristorante che adesso non esiste più». Che cosa le scrivono i lettori? «Sono tutti molto gentili, sanno che posso sbagliare ma mi abbuonano la sincerità di giudizio».
Quanto sono onesti i critici gastronomici? «Pochissimo, la categoria è squalificata. Sono pochi quelli che si comportano in maniera degna». E i ristoratori? «Cercano di essere onesti, si barcamenano. Io non ce l’ho con loro». Per non parlare degli chef… «Prime donne, chi più chi meno. Ma quelli sono una piccola parte del mondo della ristorazione. Molti si sono montati la testa, altri dicono cose senza senso». Tipo? «Massimo Bottura che gioca con le parole, facendoci dei mantra; l’etica e l’estetica, rendere visibile l’invisibile e poi quest’altra sciocchezza: dalla cultura nasce la conoscenza e dalla conoscenza si apre la coscienza. È piuttosto vero il contrario, ma lui lo ripete sbagliato da sempre…» Bartolini superstar si è preso 4 stelle Michelin in una volta sola: è già stato al Mudec? «No, non ancora e ci andrò senza preconcetto». A Bergamo c’è Vittorio superstar... «Sono stato da loro 10 anni fa, credo che ci ritornerò anche se ormai ha dei prezzi proibitivi». Che esperienza ha dei ristoranti di Bergamo? «Poca perché la committenza si concentra su Milano da un po’ di tempo e sto trascurando gli altri territori». La soddisfazione più grande? «È la felicità del mangiar bene. Sul lavoro me la godo poco, però, perché sono sempre in tensione, attento a mille particolari». Ristorante ideale? «Su una spiaggia, senza nessuno intorno... bello anche se non si mangia». Menù? “Non importa, formaggio e patate possono bastare».
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Fuori porta di Gualtiero Spotti
Arrivano le Feste, è tempo di tappe golose Le festività di fine anno ci regalano una parentesi di libertà. Perché non approfittarne per scoprire nuovi locali a due passi da Bergamo? Ecco sette indirizzi che meritano una trasferta
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l mese di dicembre, con le festività natalizie, si trasforma ogni anno in un percorso alimentare spesso complicato e tutt’altro che facile da affrontare, dove si passa da una cena a un brindisi, da una degustazione ai piatti della tradizione, per finire con i pranzi in famiglia tra zamponi con lenticchie e i panettoni a farla da padrone. Insomma, si tratta di una vera e propria maratona del gusto, che mette a dura prova il fisico e anticipa solitamente l’austerità d’inizio anno. Detto che è difficile sottrarsi al clima di festa generale, che pervade un po’ tutti, c’è però modo di concedersi una pausa ragionata, magari inventandosi un Natale alternativo e sostituendo gli eccessi con un percorso sempre legato alla buona tavola. Magari andando alla scoperta di qualche cucina e di qualche piatto particolarmente interessanti, con gite fuori porta costruite ad hoc in giro per la Lombardia o perfino oltre. Un bel modo per non essere troppo sedentari e, magari, per raccontare poi agli amici di quel nuovo indirizzo gourmand che avete scoperto. Abbiamo selezionato una manciata di indirizzi da tenere a mente, che valgono la scampagnata e permettono di vivere un Natale “diverso”.
Ristorante Daniel – Milano
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l passato recente di Daniel Canzian è legato a doppio filo con quello del suo storico maestro, Gualtiero Marchesi, che ha frequentato a lungo occupandosi delle cucine del Marchesino in Piazza della Scala. Ora Daniel cammina con le sue gambe, e cammina molto bene, dimostrando di aver assimilato la lezione dei grandi e di aver acquisito anche un senso estetico ed artistico non indifferente. Lo stile è quello di una cucina italiana esplorativa che pure rimane ancorata a preparazioni molto classiche. Canzian poi ogni tanto si diverte a mescolare le carte, a utilizzare qua e là spezie, a rendere vagamente etnico qualche piatto e in questo fuoriesce la sua passione per le cucine lontane dalla geografia continentale. Uno sguardo oltreconfine che offre nuove chiavi di lettura e diverte, spiazzando il cliente al tavolo. L’ambiente è quello accogliente di una grande sala arredata con sobrietà e che permette di sbirciare nella cucina, aperta e a vista. Costo medio: 80 euro Il piatto: il Risotto Exponenziale, nato in occasione dell’EXPO 2015
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Ristorante Materia – Cernobbio (Co)
È
il nuovo ristorante di Davide Caranchini, ventiseienne talento della cucina italiana. Aperto da tre mesi, il Materia rappresenta l’esempio di come si possano reinventare in chiave moderna e quasi futurista molti piatti della tradizione, passando attraverso tortelli, pasta e risotti. Già alla corte di Gordon Ramsay al Maze di Londra e di René Redzepi al Noma di Copenhagen, Caranchini ha una passione per il mondo vegetale, per l’utilizzo di erbe e prodotti della terra, ma qui a due passi dal suo lago si trova anche dell’ottimo pesce e la migliore materia prima dei produttori che lavorano nell’eccellenza, e ci si stupisce di fron-
te alla ricchezza di sensazioni sprigionate da ogni preparazione. Sapidità, acidità, contrasti, affumicature, sono molte le sfumature che si incontrano nelle due piccole sale in stile minimal del Materia. Aiutato da tre suoi coetanei tra sala e cantina (Ambra, Marco e Luca Sberna) è uno dei cuochi di una generazione di fenomeni nei quali si può intravedere già oggi quale potrà essere il futuro della cucina italiana. Costo medio: 70 euro Il piatto: Tortelli di animelle di vitello con tè nero e brodo di pollo allo yuzu
Ristorante Acquada – Porlezza (Co)
È
un po’ complicato da raggiungere questo ristorante affacciato sul lago di Lugano. Ma una volta arrivati c’è la certezza di poter mettere le gambe sotto a uno dei tavoli di Acquada, l’indirizzo che mette in mostra tutte le qualità e il talento di una cuoca, Sara Preceruti, 33 anni, già vista all’opera in questa area geografica di confine. Giovane stella Michelin ai tempi della Locanda del Notaio di Pellio Intelvi e cresciuta frequentan-
do mostri sacri come Carlo Cracco e Antonino Cannavacciuolo, oggi presenta una cucina vivace e originale, che passa velocemente dal dolce al salato, dal caldo al freddo. Come dire che le consistenze e le temperature sono uno degli aspetti che balzano agli occhi e al palato seguendo i piatti del menù. Ma c’è molto altro. C’è la creatività che spinge a reinventare molti piatti e uno stile che evidenzia la forte personalità della cuoca. Ambiente piacevole con terrazza e team giovane. Costo medio: 70 euro Il piatto: Petto di faraona confit, tartufo nero, crocchette di patate e castagne con cuore di Camembert
Ristorante Inkiostro – Parma
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erry Giacomello è forse il cuoco italiano che vanta maggiori esperienze di rilievo all’estero, visto che per molti anni ha lavorato da Ferran Adrià a El Bulli, ma è passato anche attraverso le cucine di Marc Veyrat, di Redzepi e di tanti altri in una lista davvero lunga. La sua passione però rimane in qualche modo la cucina iberica d’avanguardia, così nel suo nuovo ristorante Inkiostro, alle porte di Parma, il menù diventa un’esperienza davvero unica, un po’ sensoriale, un po’ tecnoemozionale, ma sempre legata ad un pensiero e a un
piacere del palato. I piatti non sono semplici esercizi di stile, ma intuizioni che raccolgono anche prodotti locali oppure eccellenze poco conosciute dalla clientela italiana, come nel caso del raro cetriolo di mare. Il ristorante, moderno ed accogliente, è parte dell’Hotel Poli, ma si trova in una palazzina, separata dall’edificio principale. Lasciatevi guidare dal cuoco in un percorso che dice molto della sua storia professionale. Costo medio: 70 euro Il piatto: Mezza Manica al brodo di prosciutto, torta fritta, ristretto di balsamico
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Fuori porta
Ristorante Lido 84 - Gardone Riviera (Bs)
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iccardo Camanini è uno dei cuochi di maggior talento che offre oggi la scena gastronomica italiana. La sua visione a metà strada tra classico e moderno ammalia e lascia stupefatti. Si percepisce la storia (nel passato ha frequentato Gualtiero Marchesi e anche molte cucine francesi), ma si vive il presente in ogni preparazione e anche quando l’idea passa attraverso dei classici diventa assolutamente rivoluzionaria, come è stato per la celebrata Pasta cacio e pepe cotta nella vescica. Un bel concentrato
di emozioni vista lago, di quelle che non ti aspetti e che dicono di uno stile personale e di un lavoro certosino quotidiano, incessante. Un bergamasco, Riccardo Camanini, che rientra perfettamente nel cliché orobico del lavoratore incessante che bada al sodo e, alla fine, guarda al risultato. Che qui è davvero straordinario, al punto che il Lido 84 è diventato meta di gourmet da ogni parte d’Italia e non solo. Anche Alain Ducasse è passato da queste parti…
Costo medio: 75 euro Il piatto: Pasta cacio e pepe cotta in vescica
Ristorante Cucina San Francesco del Cappuccini Resort – Cologne (Bs)
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l Cappuccini Resort è un ex convento, oggi hotel, appoggiato sulle propaggini nord occidentali del Monte Orfano. Lo si vede percorrendo l’autostrada BergamoBrescia e vale sicuramente una deviazione, per l’ambiente raffinato, la vista impagabile sulla pianura circostante e la cucina di Piercarlo Zanotti, cuoco già visto all’opera anni fa all’Ortica di Bedizzole, dove aveva raggiunto la stella Michelin. Poi, dopo una parentesi olandese e la sosta presso il ristorante La Lepre di Desenzano, da qualche mese è arrivato al Cappuccini Resort. La cucina, nonostante l’anima multifunzione del luogo (eventi, matrimoni, Spa…) è solida e piacevole nella sua espressione territoriale che tocca il pesce di lago e la sapidità di piatti che mantengono un’impronta nostrana. Senza troppi grilli per la testa e tanta concretezza nel piatto.
Costo medio: 70 euro Il piatto: Tartare di tonno con germogli, misticanze e olio del Cappuccini Resort
Ristorante Terrazza Gallia – Milano
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onsumare un pasto in un albergo milanese? Perché no, visto che la cucina del capoluogo lombardo è in netta crescita soprattutto dove l’ospitalità si fa seria. Come all’interno dell’Hotel Excelsior Gallia, un cinque stelle nel quale si incontra la cucina dei fratelli Antonio e Vincenzo Lebano, con la consulenza tristellata della famiglia Cerea. E vista la qualità delle
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preparazioni qui il rapporto qualità/prezzo è decisamente buono. Tra piatti che strizzano l’occhio alla tradizione milanese (Risotto, Cassoeula), interpretazioni personali di classici italiani (Cacio e Pepe, Carbonara) e qualche divagazione marina dal gusto internazionale facilmente comprensibile (Capesante, Astice). Ottimi i dolci con l’imperdibile Tiramisù e servizio di ottimo livello così come la carta dei vini. Prima e dopo cena c’è anche il piacevole lounge bar per sorseggiare cocktail d’autore con vista su piazza Duca d’Aosta. Costo medio: 90 euro Il piatto: Risotto alla milanese con ragù di ossobuco
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L’INIZIATIVA
di Laura Ceresoli
Venanzio Poloni
A Medjugorje l’hotel che parla e cucina bergamasco
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Venanzio Poloni, titolare dell’albergo Centrale di Fino del Monte, ha aperto in Bosnia Erzegovina lo Stella Maris, che ai pellegrini serve anche i piatti della tradizione orobica Medjugorje, in una zona tranquilla immersa nel verde, c’è da qualche mese un hotel in cui si parla bergamasco. Si chiama Stella Maris e a gestirlo c’è un seriano che in fatto di ristorazione la sa lunga. Classe 1956, Venanzio Poloni è albergatore da oltre 30 anni ed è titolare dell’albergo Centrale di Fino del Monte. Negli ultimi 20 anni ha accompagnato tantissimi pullman di pellegrini come capogruppo in vari santuari mariani. Di qui l’idea di lasciare la Valle Seriana per la Bosnia Erzegovina, per stare più vicino alla Madonna e trasmettere agli altri, anche attraverso il lavoro di ristoratore, la sua testimonianza cristiana. È alla guida dell’hotel Stella Maris a Medjugorje dallo scorso primo aprile e sta già riscuotendo parecchi consensi tra i clienti, non solo per la qualità delle camere ma anche per l’ottimo servizio di ristorazione. Qui Poloni offre infatti molti piatti tipici della tradizione orobica, dai Casoncelli fatti in casa al capù con carne trita e verza. C’è poi la trippa bergamasca, che all’albergo Centrale è un classico da gustare in ogni periodo dell’anno e così a Poloni è venuta naturale l’idea di proporla anche a Medjugorje. «È stata una bella sfida ma i clienti apprezzano – rileva -. Nel menù ho tante specialità della mia terra d’origine capaci di dare conforto non solo agli italiani ma anche a inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli, portoghesi». Quella di Venanzio è una storia di fede, viaggi e cucina
che parte da lontano. La sua è una famiglia di albergatori e fin da bambino è cresciuto respirando il profumo confortante dei sughi, degli intingoli e dei ripieni preparati tra le mura domestiche. Ancora adolescente, ha iniziato ad accumulare esperienze in giro per il mondo. Dopo aver studiato l’inglese a Cambridge, è diventato prima cameriere di bordo a Montecarlo e poi caposala sulle navi da crociera americane con destinazione Polinesia, Alaska, Caraibi. Tornato a casa, è diventato titolare dell’albergo storico di famiglia ma la devozione alla Vergine Maria è da sempre il suo primo pensiero. Così è nato il progetto di aprire un luogo di sosta e ristoro per i pellegrini di Medjugorje. Nell’ampia sala da pranzo dell’hotel, si vedono ogni giorno gruppi di fedeli che pranzano spensierati, condividendo lunghi tavoloni imbanditi di specialità. L’atmosfera è calda, accogliente. Spesso qualcuno prende la chitarra e intona una canzone per rendere omaggio a Gesù, trasformando un momento conviviale in una vera e propria festa. «A Medjugorje senti proprio la presenza soprannaturale della Madonna che poi ti dà la forza di andare avanti nella tua quotidianità», spiega Poloni. La conversione di fede di quest’uomo semplice e spontaneo ha colpito anche la scrittrice clusonese Angela Grignani Scainelli che nel 2013 ha raccolto la testimonianza di Venanzio e l’ha trasformata in un libro dal titolo “A Medjugorje Dio ha Parlato al Mio Cuore” (Edizioni Paoline).
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la novità di Laura Bernardi Locatelli
Cantoni: «Luci e ombre nel nuovo Testo Unico del vino» Il direttore del Consorzio di Tutela Valcalepio saluta con favore l’accorpamento delle normative, ma avverte: «Per tante piccole aziende ci saranno complicazioni». «Bene il nuovo regime sanzionatorio, delusi invece dalla scelta di non affidare maggiori poteri e deleghe ai Consorzi»
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ovanta articoli accorpano e razionalizzano in un’unica legge tutte le normative sparse che fino ad oggi hanno regolato il settore vitivinicolo, bandiera del Made in Italy e dell’export italiano. Con l’approvazione del Testo Unico del vino, di cui si attendono i decreti attuativi, diversi sono i cambiamenti che interessano il settore, dalla gestione della burocrazia al sistema dei controlli, dal regime sanzionatorio alla tracciabilità, dalla tutela contro la contraffazione alla salvaguardia dei vigneti storici. Sergio Cantoni, direttore del Consorzio di Tutela Valcalepio, se saluta con favore l’accorpamento semplificatorio in un’unica legge della normativa che interessa l’intera filiera vitivinicola, non nasconde però la propria perplessità di fronte al cambiamento che la norma impone. Con l’inizio del 2017 ci sarà il primo banco di prova per i produttori, con la dematerializzazione dei registri vinicoli. Una rivoluzione informatica che porta con sé più di una difficoltà di gestione per le aziende bergamasche: «Dal 1° gennaio si abbandoneranno i vecchi registri delle imprese vitivinicole in favore di un’unica rendicontazione on-line. Il problema è che non tutte le aziende sono attrezzate per farlo. Non tutti hanno dimestichezza con software e computer: molte piccole imprese si affideranno a consulenti esterni, sostenendo ulteriori costi oltre ai circa 2mila euro richiesti per essere alla pari con il nuovo
sistema. Le semplificazioni sono sempre bene accette, ma per molti si tratterà di una complicazione. Gli adempimenti restano gli stessi poi, quindi non mi sembra che si sia sburocratizzato un granché». Viene
invece accolto con favore il nuovo regime sanzionatorio. «La possibilità di sanare l’errore introdotta dal ravvedimento operoso e lo strumento della diffida risparmiano all’azienda il pagamento delle
Ricci Curbastro (Federdoc): «Un piccolo «Continueremo a lavorare per accorpare le Doc e renderle più competitive e riconoscibili a livello internazionale»
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l presidente di Federdoc, la confederazione nazionale dei Consorzi di Tutela delle Doc, Docg e Igt italiane, Riccardo Ricci Curbastro, sottolinea con orgoglio la nuova norma di riferimento del settore: «Grazie ad un lavoro di squadra da parte di tutta la filiera vitivinicola portato avanti in due anni, abbiamo ottenuto un grande risultato, che rappresenta un unicum in Europa. Un piccolo miracolo italiano e politico passato nelle aule di due Camere, con tanto di voto all’unanimità. La premessa fondamentale del testo unico è il riconoscimento del vino come patrimonio. L’Italia ha il dovere non solo di mostrare al mondo di essere maestri del food, ma di tutelare questa ricchezza del Paese, che annovera più di una zona vinicola nel patrimonio Unesco». Quali sono le principali novità del Testo Unico? «Tra le più interessanti vi sono un notevole snellimento della burocra-
Riccardo Ricci Curbastro zia e un sistema più efficiente dei controlli. La nuova legge istituisce infatti un unico registro ispettivo (Ruci). Gli organismi di controllo con le loro diverse competenze Nas, Asl, Forestale e via dicendo - hanno finalmente modo di coordinarsi tra loro e i produttori hanno il vantaggio di avere un unico accertamento».
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solite maxi-multe. Se si pensa che le sanzioni venivano fatte, ad esempio, anche per un millimetro in meno nella dimensione del carattere tipografico impiegato in etichetta e per altre questioni marginali, non si può che accogliere di buon grado la possibilità di correggere in corso d’opera errori spesso banali». Il testo unico non affida inoltre - come sottolinea con un certo rammarico Cantoni - maggiori poteri e deleghe ai Consorzi di tutela: «Avremmo voluto maggiore voce e potere consultivo almeno sul fronte del sistema di autorizzazione di nuovi impianti, che invece resta appannaggio esclusivo delle Regioni e per quanto concerne la promozione e la tutela del marchio». La nuova legge non porterà grossi cambiamenti sulle etichette di 4 milioni e 300mila bottiglie tra Valcalepio Doc, Igt Bergamasco e Moscato
di Scanzo: «Il bollino numerato del Consorzio per la Doc ci dà sufficienti garanzie anche sul fronte della tracciabilità». La novità del testo unico sul fronte della salvaguardia dei vigneti eroici o storici per promuovere la tutela di aree a rischio di dissesto idrogeologico o di pregio paesaggistico potrebbe invece dare buoni frutti e creare nuove possibilità nel territorio. «Da sempre ci battiamo per fare delle nostre vigne il giardino di Bergamo. Gran parte dei vigneti si inserisce in aree in cui lo sviluppo urbanistico è stato più aggressivo, a partire dalle nostre colline. Nel nostro territorio ci sono intere fasce a rischio ed aree da tutelare. I vigneti servono da sempre ad evitare dissesti e non mancano varietà storiche da riscoprire. Tra queste la Merera, finalmente iscritta - il 27 ottobre di quest’anno - nel Registro delle varie-
Sergio Cantoni tà: una vite rustica e resistente alle malattie che dà un’uva a bacca rossa dalle note fruttate estremamente piacevoli. Interessante da coltivare anche l’Incrocio Terzi n. 1, un incrocio tra Barbera e Cabernet che qualcuno ha già riscoperto e produce a Bergamo come Dop Colleoni. Anche la coltivazione della Schiava Lombarda, che dà un rosato piacevole, può avere maggiore impulso».
miracolo italiano. Tante le novità interessanti» Quali sono i cambiamenti del regime sanzionatorio? «Il nostro è il sistema di controlli migliore e più severo d’Europa, quindi la possibilità di commettere qualche errore è sempre in agguato. Se prima ci si vedeva recapitare solo grandi multe e basta, con il nuovo regime l’errore può essere sanato. Il testo unico infatti prevede il ravvedimento operoso, che porta ad una risoluzione preventiva delle irregolarità, e la diffida, una sorta di “cartellino giallo” dato all’azienda in fallo. Entrambi strumenti che rendono meno soffocante il sistema sanzionatorio e contemplano l’aureo principio latino dell’errare humanum est». Ci sarà una maggiore salvaguardia della qualità, evidente sin dall’etichetta? «L’Italia ha già un sistema estremamente efficiente che identifica ogni partita di vino con un’analisi organolettica e chimica. Il sistema telematico di tracciabilità fornisce un’evidenza di controlli che garanti-
sce con una marea di dati l’unicità di ogni bottiglia. Fino ad oggi Doc e Docg hanno avuto la garanzia delle fascette stampate dall’Istituto Poligrafico e contrassegnate da un codice alfanumerico. Con il testo unico potranno essere messi in campo strumenti ancora più sofisticati. Siamo in attesa dei decreti applicativi: potrebbe essere adottato un codice a barre o un codice alfanumerico. Il Qr Code è già praticamente scomparso all’estero». Il made in Italy sarà più tutelato dalla contraffazione all’estero? «Su questo fronte c’è ancora molto da fare, basti pensare alle usurpazioni delle denominazioni, valga l’esempio della denominazione “Chianti” che negli Stati Uniti è una dicitura generica ed impiegata, ahimè, largamente». Il testo unico può rafforzare la crescita del settore? Qual è l’andamento dei vini a denominazione? «La vendemmia è in crescita per le Doc, con oltre 50 milioni di ettolitri annui. Cresce anche la percentuale
delle Igt rispetto ai vini generici o da tavola, segno di una maggiore attenzione alla qualità. Persiste per le Doc un eccesso di ricchezza del nostro Paese, come accade ai nostri musei che non riescono ad esporre tutte le opere. Delle 525 tra Doc, Docg e Igt, 444 portano all’8% del volume di vendite, mentre le restanti concentrano il 92% del mercato. Abbiamo poco più di 80 denominazioni di successo con volumi importanti e moltissime etichette difficilmente riconoscibili a livello internazionale. Se il Ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina parla di una grande ricchezza di Doc, questa peculiarità del nostro Paese credo porti con sé una grande dispersione. Federdoc suggerisce da tempo di trovare minimi comuni denominatori tra le Doc più piccole per accorparle e renderle più competitive, con indiscutibili vantaggi remunerativi per i produttori. Sono solo poche le Doc ad aver compiuto questa scelta, tra quelle di maggior successo la denominazione Friuli».
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Il borsino di Leo Bartoli
Formaggi, chi è in... forma e chi un po’ meno
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ine anno, tempo di bilanci per il mondo caseario, massima espressione economica a livello provinciale. Alla vigilia, infatti, di un anno decisivo (si spera) per il salto di qualità dell’agroalimentare bergamasco, con il Progetto Erg 2017 che renderà il nostro territorio (insieme ad altri tre della Lombardia Orientale: Brescia, Cremona e Mantova) il baricentro europeo della gastronomia, è bene capire lo stato di forma di alcuni dei nostri “campioni”, anche tenendo presente che uno dei biglietti da visita più autorevoli che presenteremo al Vecchio Continente sarà proprio l’invidiabile primato nazionale delle Dop casearie (ben 9). Forniamo quindi qualche valutazione dei prodotti, ma anche dei personaggi, locali e iniziative che più si sono messe in mostra in questo 2016.
Bitto storico Destino amaro per un Cru venduto nel mondo a prezzi stellari (anche 250 euro al chilo), rimasto fedele alla sua storia, eppure costretto a cambiare denominazione per non incorrere in multe europee: siamo curiosi di capire come il mercato accoglierà la nuova parabola dello “Storico ribelle”, nato per distinguersi dal Bitto Dop, e figlio di una delle più annose dispute casearie, peraltro numerose a questi latitudine (vedi anche Strachiunt e soprattutto Branzi). Le premesse per rialzarsi ci sono.
Taleggio La corazzata avanza, anche se dal punto di vista dei numeri (qualcosa in meno sul fronte vendite rispetto al passato) e promozionale c’è stata qualche battuta a vuoto unita all’inspiegabile congedo dello storico direttore Vittorio Emanuele Pisani, protagonista, insieme ad altri, del trend positivo degli ultimi anni e soprattutto della crescita d’immagine verso i giovani, anche attraverso efficaci campagne sui social network, come quella dei “Taleggiatori” che ha avuto protagonisti Elio e le Storie tese.
Strachitunt L’anno di “castigo” è finito: in estate dall’Europa è arrivato il via libera per tornare a marchiare Dop il “nonno” del gorgonzola, dopo la brutta avventura legata alle misure non corrette riscontrate in alcune forme. Peraltro durante l’anno di “limbo”, il formaggio, che continuava ad essere venduto come “Stracchino di montagna a due paste” non ha perso i suoi estimatori, anche se il danno d’immagine fatalmente c’è stato: ora si riparte.
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Branzi Resta un formaggio meraviglioso se fatto invecchiare al punto giusto (fresco invece è piuttosto anonimo), ma anche un grande incompiuto sul fronte della mancata Dop, dopo che in passato la nascita e soprattutto la contrapposizione di due Consorzi di tutela aveva portato a un unico risultato: neutralizzare gli sforzi di entrambi. Nonostante ciò continua ad essere “il formaggio dei bergamaschi”, dalla grande popolarità e dal grande utilizzo in cucina come ingrediente principe di tante ricette.
Agrì È un momento di grande crescita per il “bon bon” di Valtorta, che piace a grandi e piccini e che comincia a sfondare anche sui mercati esteri, pur con i limiti legati ai numeri (sempre esigui) della produzione e
dicembre 2016
Si chiude l’anno ed è tempo di bilanci per il mondo caseario bergamasco. Riflettori accessi sui prodotti ma anche sui personaggi e sui locali
ai problemi di conservazione per un formaggio che dà il suo meglio quando viene mangiato freschissimo. Il 2017 può diventare l’anno della definitiva consacrazione, anche grazie al supporto sempre crescente del Presidio Slow Food.
Formai de mut Buona produzione e alcuni giovani leve compensano la “mezza scivolata” degli organizzatori della fiera di San Matteo, che avevano imposto la vendita del solo Dop brembano durante l’evento, lasciando al box altri caci blasonati come lo stesso Branzi, per giunta in casa sua. Ma noi crediamo che il Formai sia più forte anche degli incidenti di percorso.
Zola Spalmabile Quello degli spalmabili è un “amore di ritorno”, nel senso che fin dagli anni Settanta erano noti formaggi più freschi anche a livello industriale (vedi Dover) messi sul mercato solo per essere spalmati sul pane. Oggi in tanti, da Arrigoni di Pagazzano a CasArrigoni, hanno riscoperto questo filone, proponendo zola dolci al cucchiaio di grande qualità che stanno incontrando un gradimento crescente.
L’iniziativa finanziaria Il crowdfunding anche per un formaggio? Perche no? Uno dei più antichi della Val di Scalve, il formaggio Nero de la Nona (datato 1753) ha puntato forte su questa forma di raccolta fondi finanziaria dal basso, solitamente dedicata alle start up più innovative, per rilanciare immagine e produzione: primo step 15mila euro con la caccia ai sostenitori aperta fin da settembre ricercando adesioni su Eppela, la principale piattaforma italiana di crowdfunding. Le “azioni”? In forme o anche solo in spicchi del cacio prodotto con latte intero di mucche Bruna Alpina.
Il manager caseario Gialuigi Zenti è un manager bergamasco (nativo di Zù di Riva di Solto) noto soprattutto per avere prima sviluppato il mercato americano per il gruppo Barilla (ha anche gestito per Barilla l’Academia di Parma). Ora sta cercando di sviluppare un progetto ad ampio raggio per Bergamo, partendo dai prodotti della Cooperativa di Vigolo (Monte Bronzone in primis), per poi ampliare il suo raggio d’azione verso altre realtà importanti dell’agroalimentare e il successivo coinvolgimento di attività turistiche e di accoglienza. Idea affascinante e coraggiosa che merita attenzione.
Il superpremio Meno male che qualcuno diceva che Bergamo per il Gorgonzola era ai confini dell’impero. Il terzo posto assoluto a livello mondiale del “dolce” Dop di Arrigoni di Pagazzano, alla finalissima della 29esima edizione dei World Cheese Awards di San Sebastian, dimostra al Consorzio di Tutela novarese che anche in terra d’Orobie, il principe degli erborinati viene fatto a regola d’arte. Lo certifica uno dei pochi premi internazionali “seri”, quest’anno tenutosi in terra basca, a cui hanno partecipato 3.000 caci in rappresentanza di 30 Paesi.
L’exploit in casa dei rivali francesi: Taddei & Gritti Lasciare a bocca aperta i francesi con una serie di chicche made in Italy non è da tutti. Invece recentemente Massimo e Camilla Taddei di Fornovo e i fratelli Alfio e Bruno Gritti del caseificio Quattro Portoni di Cologno al Serio hanno riscosMassimo Taddei con la moglie Camilla so grande successo al Mercato internazionale di Rungis (Parigi), la più grande e importante vetrina agroalimentare di prodotti freschi del mondo, praticamente la Disneyland degli appassionati del fromage, guadagnando ordini anche tra i grossisti d’Oltralpe.
Il Locale: il cheese bar Bù Finale non per un prodotto ma per un locale. Che il Bù creato da Francesco Maroni e soci in un solo di anno di vita sia già diventato un punto di riferimento nazionale dei locali legati alla proposta casearia, con tanto di riconoscimento del “guru” Marcomini, non è cosa da poco…
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L’azienda
Il compleanno della In dieci scatti 35 anni di crescita 1982
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crivere dei 35 anni che la 4R di Torre de’ Roveri si appresta a compiere, nel prossimo gennaio, non è facile. O, forse, è fin troppo facile. Quattro fratelli, Maurizio, Giampietro, Enrico e Luca Rota, saldamente uniti in un progetto che ha trovato la propria ispirazione nell’esempio e nel lavoro del padre. Un prezioso modello di
Il 15 gennaio prende vita il sogno della famiglia Rota
riferimento che ha fatto il paio con la visione che le nuove generazioni portano con sé e che, 35 anni fa, ha spinto i quattro fratelli a trasformare la fiaschetteria
1985
dei genitori in un’azienda organizzata, dedita a più servizi per la ristorazione.
Le tappe importanti che hanno costellato il cammino della 4R sono molte. La prima, forse tra le più lungimiranti, fu quella di iniziare a mettere il vino sfuso in contenitori d’acciaio.
A settembre viene aperto il primo show room 2002 1990
A novembre il primo grande intervento strutturale, l’aera viene triplicata
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A marzo l’azienda entra nel Consorzio Tutela Valcalepio, nasce il progetto Villa Domizia
dicembre 2016
A dicembre 2016 pensando al futuro …
2015
A giugno papà Dino insignito all’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica
2014
L’ultima, forse quella più audace, diventare protagonisti nella produzione della birra artigianale tramite il Birrificio Otus di Seriate. Su tutto una serie di valori non negoziabili: professionalità, rispetto per il cliente e massimo sostegno all’educazione enogastronomica. Senza dimenticare un concetto che i fratelli Rota ribadiscono ad ogni occasione utile: credere nel proprio lavoro e, soprattutto, credere nella cultura del lavoro.
A settembre la 4R diventa la sede operativa dell’ambasciata per l’Italia della Confrérie des SOSSONS D’ORVAULX 2011
QUATTROERRE via Marconi, 1 Torre de’ Roveri tel. 035 580701 info@quattroerre.com www.quattroerre.com
Ad agosto la prima esportazione nel mercato asiatico a Singapore 2005
2010
A febbraio inaugurata la sede di Seriate
Ad ottobre inaugurato il Centro di Formazione Polivalente Quattroerre
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IL PIATTO di Roberta Martinelli
Zuppe,
due classici per le Feste Stanno tornando di moda e sono un’alternativa interessante da inserire nel menù. In omaggio alla tradizione vi consigliamo come preparare al meglio quella di lenticchie e quella di pesce
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e Feste sono ormai prossime ma c’è ancora chi non ha deciso cosa cucinare. Gli impegni sono tanti e trovare una ricetta che accontenti tutti è un’impresa quasi impossibile. Un piatto che può salvare è la zuppa. Sfiziosa, gustosa, facile da preparare, da qualche tempo è ritornata sulla tavola dei grandi chef come pietanza raffinata ed è di grande tendenza. Le ricette sono infinite, da quelle classiche con le verdure, i legumi e i cereali come l’orzo e il farro, fino a quelle di pesce e carne o di tradizione orientale. Per il menù di Natale e di capodanno noi vi proponiamo la zuppa di lenticchie e quella di pesce, perché sono buonissime e piacciono a (quasi) tutti. In pochi passaggi vi spieghiamo come realizzarle in modo impeccabile.
La zuppa di lenticchie L
e lenticchie, simbolo di denaro e prosperità per l’anno in arrivo, sono un must nel menù delle Feste. La zuppa può essere proposta come primo piatto oppure come aperitivo: basta fare delle mini porzioni al bicchiere e il buffet sarà perfetto. Si può scegliere tra le lenticchie grandi e quelle piccolissime, rosse, nere, verdi, ce n’è per tutti i gusti. Vista l'occasione importante, evitate le scorciatoie - pur utilissime - offerte dalle lenticchie già lessate e confezionate in barattoli che si trovano nei supermercati e dedicate al piatto un
po’ di tempo e cura in più. Noi vi consigliamo le lenticchie di Castelluccio ma anche quelle di Altamura e del Fucino sono buonissime. Quale che sia la vostra scelta, ecco i procedimenti giusti per cucinarla. L’ammollo - Le lenticchie hanno una buccia dura. Per ammorbidirle, il consiglio è di lasciarle in ammollo nell’acqua una notte intera. Questa operazione permetterà anche di eliminare le lenticchie non buone (le riconoscete perché vengono a galla) ed eventuali impurità. Quando si mettono in ammollo aggiungere all’acqua
dicembre 2016 un pezzetto di alga kombu, le lenticchie saranno più digeribili. Usata anche in cottura renderà la zuppa più saporita. La cottura - Il giorno dopo, le lenticchie vanno lavate sotto acqua corrente e scolate molto bene. In una pentola di terracotta si fa un soffritto con un filo di olio, aglio, alloro e sedano e si aggiungono le lenticchie. Dopo pochi minuti si procede a bagnare con il brodo caldo facendo cuocere a fuoco basso per un’ora circa o comunque fino a che la cottura è perfetta e dalla zuppa emana un profumo intenso: alla vista la zuppa non deve apparire cremosa e le lenticchie devono essere integre. Quando è cotta va lasciata riposare per 10 minuti lontana dal fornello. Attenzione a non salare subito l’acqua, perché il sale rende le lenticchie più dure. Il sale si aggiunge a pochi minuti dalla fine della cottura. La presentazione - La zuppa si serve in ciotole di terracotta con extravergine d’oliva e delle fette di pane tostato. L’olio va aggiunto sempre a cottura ultimata e fornello spento. Se si è preparata la zuppa di lenticchie in anticipo, conviene prima riscaldarla, aggiungendo un mestolino di acqua, e condire solo dopo con sale ed olio. L'abbinamento - Ideale un buon Frascati o il Malbec oppure una birra Ale.
La zuppa di pesce P
ur nella sua semplicità, la zuppa di pesce è uno dei piatti italiani più apprezzati nel mondo. Le ricette sono tantissime: c’è la versione toscana (cacciucco), quella adriatica (brodetto), quella delle regioni meridionali, quella ligure (buridda). Variano i nomi e le specie ittiche impiegate, ma il procedimento è più o meno lo stesso. Un mix di pesci di mare serviti su una fetta di pane imbevuta con salsa di pomodoro leggermente piccante e agliata. Per un'ottima zuppa di pesce occorrono aromi (aglio e peperoncino, anche in quantità moderata, sono assolutamente necessari), pomodoro e tante varietà di pesce: scorfano, gallinella, rana pescatrice, triglie, moscardini, seppie, gamberi, vongole e scampi. Il primo consiglio quando si è
davanti al banco del pescivendolo è di non darsi alle spese pazze: il risultato della zuppa è eccellente anche con i cosiddetti pesci poveri. La preparazione del pesce - Anche se il procedimento richiede più tempo, tutto il pesce va pulito, eviscerato e sfilettato. Se non si ha tempo o voglia, si può chiedere al pescivendolo di fare queste operazioni, ricordandosi però di farsi dare testa e lische. I molluschi vanno fatti aprire a parte, in una pentola senza condimenti. Poi si filtra l’acqua che rilasceranno e la si aggiunge al brodo, per arricchirne il sapore. Anche gli scarti del pesce non vanno buttati ma utilizzati per preparare il brodo, che va passato e aggiunto poi al soffritto di cipolle, carote e sedano per far cuocere il pesce. La cottura - La pentola perfetta per cucinare la zuppa di pesce è quella in coccio. I pesci vanno cotti per pochi minuti e inseriti nella zuppa in momenti diversi, mai insieme: prima quelli con carni più solide, poi quelli più teneri e delicati, per evitare che si sfaldino durante la cottura. Quindi, prima seppie e moscardini, dopo qualche minuto gallinella, scorfano e rana pescatrice. Poi triglie, molluschi e per ultimo i crostacei. Basta avere pazienza e aggiungere il pesce in base ai tempi di cottura, per non ritrovarsi con un polpettone stracotto nel piatto (se siete al ristorante o ospiti da amici e il pesce è ridotto in poltiglia significa che la zuppa è stata riscaldata). Lasciate cuocere il pesce nel suo vapore senza mai usare il mestolo. Fate attenzione a sfumare bene il vino, in modo che non resti un eccesso di acidità sul palato. Il soffritto si fa con
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IL PIATTO aglio, carota, cipolla e sedano tritati, con un filo d’olio extravergine. La presentazione - Le zuppe si servono sempre calde con una spruzzata di prezzemolo fresco e del pane casereccio, anche raffermo. Per un sapore più deciso, dopo aver fatto scaldare il pane in forno lo si può sfregare con dell’aglio. Per preparare i crostini si fa a pezzettini o listarelle il pane e si mette in forno per 10 minuti (si possono anche friggere ma la zuppa così diventa più ca-
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I segreti di una buona zuppa
l di là delle singole ricette, ci sono consigli che valgono per tutte le zuppe. Perché la zuppa è un piatto semplice da cucinare, ma nasconde insidie ed è un attimo commettere errori che ne compromettono la bontà. Per realizzare una zuppa impeccabile basta seguire poche regole. Primo segreto il brodo, ma anche la selezione degli ingredienti è decisiva.
Non farla bollire La zuppa non va fatta bollire, ma solo lentamente e cautamente sobbollire. Non è una pignoleria, solo con il controllo della temperatura si consente di rilasciare i sapori degli ingredienti, il che garantisce un ottimo risultato. Potete scegliere di lasciarla più liscia o renderla più corposa frullandone una parte a fine cottura.
Fare il brodo in casa Un brodo di buona qualità è l’ingrediente indispensabile per fare una buona zuppa e senza dubbio quello fatto in casa è il migliore. A seconda degli ingredienti, si può preparare con la carne, con il pesce o con le verdure. In questo caso il consiglio è di arrostire prima per qualche minuto le verdure al forno, renderanno la zuppa più saporita.
Preparare brodo in abbondanza Una zuppa troppo fitta è impresentabile. Cucinando una zuppa, gli ingredienti tenderanno ad assorbire il brodo, alcuni più di altri, quindi è consigliabile prepararne un po’ di più rispetto a quello preventivato.
Non introdurre tutti gli ingredienti nello stesso momento Gli ingredienti di una zuppa richiedono diversi tempi di cottura. Le lenticchie, devono essere aggiunte all’inizio, mentre il pesce a seconda della varietà e consistenza. Insaporire con le spezie Utilizzando spezie, erbe aromatiche, concentrato di pomodoro si può ridurre la quantità di sale. Attenzione però a non esagerare con il piccante. Se avete messo troppe spezie, per attenuare l’eccesso di piccante, aggiungete una sostanza acida che ne annulli l’effetto come il limone, lo yogurt, l’ananas o l’aceto.
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lorica). Attenzione, il pane dev’essere abbrustolito molto bene per evitare che si spappoli subito a contatto con la parte liquida della zuppa. I crostini vanno posti sul fondo del piatto (come prevede la ricetta classica), in questo modo rendono la zuppa ancora più buona. Oppure serviti in una ciotola a parte. L'abbinamento - Il vino ideale da abbinare alla zuppa di pesce è il Sauvignon. In alternativa una birra Porter o una Kolsch.
Salare solo alla fine Aspettate la fine della cottura, assaggiando e valutando il sapore. Se salate all’inizio della cottura, la zuppa risulterà troppo salata. Questo perché il brodo e gli altri ingredienti tendono a rilasciare i sali minerali e interpretano già il ruolo di “insaporitori”. Attenzione alla temperatura dell’olio Preparare gli ingredienti prima di aver messo l’olio in padella per evitare che l’olio si scaldi troppo. Se fuma significa che si è scaldato troppo con il risultato che avrà un sapore sgradevole e sarà dannoso per la salute. Il tocco finale E infine non dimenticate che l’olio extravergine di oliva va sempre messo a freddo per completare il piatto.
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L’INCONTRO Dario Cecchini ospite della cena dell’Associazione cuochi bergamaschi. «La bistecca è meravigliosa, ma sono meravigliose anche tutte le parti meno nobili»
L’ inno alla “ciccia” del macellaio-poeta
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n tempi in cui della carne si preferisce avere la visione più distante possibile dall’animale - in forma di fettine o arrosti, belli e pronti da mettere in padella - Dario Cecchini, il macellaio di Panzano in Chianti che ha reso il suo negozio una meta turistica internazionale, fa l’esatto contrario e trasforma in uno show (riuscitissimo!) niente meno che il sezionamento e il taglio di una mezzena di manzo. È stato lui l’ospite della cena degli auguri dell’Associazione cuochi bergamaschi, che nell’occasione lo ha nominato socio onorario. Gesti sicuri, parlata schietta e i versi di Dante a dire che dentro le vene di questo artigiano, erede di una tradizione nella macelleria lunga 250 anni, scorre anche il gusto per la poesia. «L’animale bisogna trattarlo il meglio possibile, dargli cibo buono, una vita lunga e una morte dignitosa, il più compassionevole possibile. E per rendergli
Il macellaio di Panzano in Chianti è stato nominato socio onorario dell’Associazione cuochi bergamaschi
il giusto onore va usato tutto, dal naso alla coda, perché se la qualità c’è, è dappertutto». È il primo caposaldo del Cecchini-pensiero. Il secondo, e conseguente, è l’elogio delle parti meno nobili. «La prima ricetta dell’Artusi è il brodo, che, guarda caso, si fa con le ossa, non con il filetto». E che dire della pancia del manzo? «Oggi ci si fanno gli hamburger, ma a me sembra sprecata - evidenzia -, prima ci si facevano bolliti eccezionali». Sarà che è stato tirato su con gli “scarti” della macelleria di famiglia. «Da piccolo pensavo che la mucca avesse 5 teste, 20 zampe e 4 code - ricorda -. Le bistecche erano per i clienti e alla nonna portavano da cucinare tutto ciò che in bottega non era richiesto. La mia “prima volta” con la bistecca è stata al compimento dei 18 anni: è stato meraviglioso, ma è stato meraviglioso anche tutto quanto avevo mangiato fino ad allora, grazie alla sapienza in cucina della nonna». Il giusto incentivo ai cuochi in sala a trasformare con passione e arte anche le parti più difficili. «Anche la gente, che ha sempre visto il manzo come un oggetto misterioso, sta cominciando a capire che la carne non deve essere magra», rassicura Cecchini, che intanto svela: «Il taglio migliore, quello che i macellai non vendono mai e che tengono come ricompensa per la famiglia, è il “ragno”, un pezzettino sull’anca brutto e un po’ grasso, con delle nervature a mo’ di ragnatela, da cui il nome». Dalla coscia, farcita di midollo e insaporita con sale e aromi, ha invece ricavato il pezzo forte di Natale della sua macelleria, il brasato al midollo. Quanto alla bistecca, le regole sono poche ma tassative. «Deve essere alta troppo, grande troppo e bella troppo. Sotto i quattro centimetri è carpaccio – sentenzia -. Va cotta sulla brace otto minuti da un lato, otto dall’altro e otto per in piedi e mangiata nella maniera più primitiva possibile, portando in tavola solo sale e olio». Con buona pace della fettina.
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BERE
All’Enoteca Leone tengono banco i vini di Emidio Pepe È
la prima volta che l’azienda agricola Emidio Pepe, nota e affermata cantina abruzzese, partecipa a una degustazione ufficiale dei propri prodotti nella Bergamasca. È accaduto il 24 novembre scorso all’Enoteca Leone di Gazzaniga, guidata da Simone Cornacchia e Maria Stefania Martinelli. A rappresentare la cantina - che con i suoi vini, la sua azienda, la sua famiglia e la sua filosofia enoica regala certezze nel bicchiere - sono intervenuti Rosa, la moglie di Emidio, e la nipote Sofia, che ha sorpreso tutti con la sua conoscenza enologica ed aziendale nonostante la giovanissima età. «Era dal 2003 che aspettavo questo momento - ammette Simone -, da quando ho messo piede per la prima volta nella cantina di Emidio Pepe. È allora che ho deciso che avrei trasmesso ai miei clienti il piacere di approcciare questi grandi vini così difficili al primo incontro, ma così facili da bere una volta conosciuti».
Simone Cornacchia e Maria Stefania Martinelli con la giovane Sofia e la moglie di Emidio Pepe, Rosa
La serata ha preso il via con l’aperitivo a base di Cerasuolo d’Abruzzo 2015 e Trebbiano 2013. Quattro invece le annate di Montepulciano d’Abruzzo degustate nel corso della serata: 2013, 2003, 1993, 1983, tutte convincenti e capaci di conquistare i palati dei commensali. In abbinamento ai vini non poteva mancare un piatto tipico, gli arrosticini, arrivati appositamente dall’Abruzzo e proposti in omaggio alla Regione. Come aperitivo, l’Enoteca ha servito: ali di pollo marinate alla curcuma e fritte, focaccine tiepide di grano Gentil rosso con mortadella, uova di quaglia ai capperi di Favignana, frittatine ai porri piemontesi e ciuffetti di calamaro fritti. A seguire, totano ripieno cotto sottovuoto con crema di patata di Martinengo e mela renetta, filetto di suino nero dei Nebrodi con peperoni corno di bue piemontesi e tartufo nero bergamasco. In chiusura, selezione di formaggi ovini e caprini, umbri e marchigiani.
Villa Franciacorta, un 2016 ricco di riconoscimenti I
l 2016 è stato un anno formidabile per Villa Franciacorta, che ha visto una sequenza incredibile di premi e riconoscimenti, in Italia e nel mondo. Il nuovo Franciacorta RNA 10 anni Extra Brut millesimato 2004 si è dimostrato un outsider nelle classifiche generali delle guide. Tra i premi ricevuti vanno annoverati il riconoscimen-
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to come Miglior Spumante Metodo Classico da Best Alpe Adria, il “Grande esordio” dalla Guida Veronelli, le 5 Sfere da Cucina e Vini, i 5 Grappoli da Bibenda, la Corona da Vini buoni d’Italia, la Medaglia d’oro da Gilbert & Gaillard ed il Certificato d’eccellenza da The Wine Hunter. Sempre nel 2016 vanno ricordati i Tre bicchieri del Gambero Rosso assegnati al Boké Rosé Brut millesimato 2012, le 5 Medaglie d’oro che la prestigiosa guida francese Gilbert & Gaillard assegna ai Franciacorta millesimati di Casa Villa; oltre al già citato RNA 10 anni, la medaglia va a Mon Satèn 2012, Emozione Brut 2012, Bokè Rosé Brut millesimato 2012 e Diamant Pas Dosè 2010. E le soddisfazioni per Villa non si fermano qui.
Altri Certificati di eccellenza da parte di Wine Hunter sono andati a: Extra Blu Extra Brut Millesimato 2010 ed Emozione Brut Millesimato 2012. Il Briolette Rosè Demi Sec ha ottenuto la Corona di Vini buoni d’Italia, mentre al Mon Satèn Millesimato 2012 è stata attribuita la Rosa Oro da parte della guida Viniplus dell’Ais Lombardia. Da segnalare inoltre il punteggio di 90/100 che Luca Gardini ha attribuito al Bokè Rosé Brut Millesimato 2012 nella sua classifica Gardini Notes. Il Franciacorta Cuvette Brut Millesimato 2008 ha invece ricevuto la Medaglia d’argento all’International Wine Challenge di Londra, uno dei concorsi più prestigiosi al mondo per serietà delle valutazione e qualità dei giudici internazionali.
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L’artigiano
di Rosanna Scardi
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Paolo Riva, il creativo dei dolci
Paolo Riva
na décolleté rossa, l’intramontabile bauletto di Louis Vuitton custoditi in una teca trasparente. I capi che fanno impazzire le donne sono trasformati in dolci al cioccolato dalla creatività di Paolo Riva. Sono passati tre anni dall’inaugurazione della pasticceria a Treviglio, raffinata per i colori provenzali ripresi nel marchio e familiare dagli inebrianti profumi che ti avvolgono. Oggi non è solo il locale preferito dai golosi ma, con i suoi dipendenti, passati da una decina a 24, si conferma un’azienda florida. Durante le feste continua la produzione, a ritmo serrato, dei panettoni: dal laboratorio artigianale ne escono tremila l’anno. Le varietà sono 13: classico, cioccolato e noci, cioccolato e pere, cioccolato, marron glacé, albicocca, uvetta, frutti di bosco, veneziana, pandoro, vuoto, mandorlata e una prelibatezza, mela e scorze di limone candite che ricorda nell’aroma la torta della nonna. «A contare più di tutto è la materia prima - ci tiene a precisare Riva -. Da noi non si trova la pralineria industriale, ma prodotti con una durata più breve proprio perché contengono ingredienti freschissimi come la polpa di frutta, Pasticceria Paolo Riva viale De Gasperi, 14/E più gustosi e Treviglio tel. 0363 305162 salutari perpasticceriapaoloriva.com ché senza oli raffinati, dunque con il 60-70 per cento di grassi in meno». A colpire la vista sono capolavori in formato mi-
La pasticceria di Treviglio è una tappa obbligata per scoprire un’ampia e ghiotta proposta. Dai macarons alle torte, dai panettoni ai 18 tipi di brioche fino alla vasta serie di cioccolatini
gnon come i pasticcini, oltre a marmellate, gelato e 18 tipi di brioche, dalla sacher con marmellata di lamponi a quella al pistacchio. Anche se la passione di Paolo Riva è il cacao. Portano la sua firma i cioccolatini al caramello, rosmarino e nocciola, le “Paolline”, sfere di cioccolato bianco ripiene allo zabaione oppure le “Nocciole alla Paolo” tostate e caramellate con una spruzzata di cioccolato bianco e lampone essiccato, il pasticcino con marzapane, fondente e noce, le barrette di fondente fermentato con il frutto della passione o la banana. Il biscotto più gettonato è il macaron, un amaretto morbido dentro, dalla crosta croccante. Per realizzarlo al meglio, l’imprenditore è volato in Francia per seguire un corso e oggi ne sforna di ogni gusto e colore. In bella mostra le torte: ci sono le bavaresi al cioccolato fondente, alle arachidi e cioccolato morbido, al frutto della passione, al lampone, la gelée di fragole ai frutti di bosco con due strati di savoiardo, la mousse ai tre cioccolati senza farina, “Alba” con le tipiche nocciole, la panna cotta al cioccolato biondo. «Il segreto consiste nell’essere caparbi, umili e nel saper rischiare, spesso le difficoltà sono la molla più grande - dice il maestro pasticcere -. Oggi c’è un’esigenza di apparire, meglio essere defilati, esprimendosi solo quando c’è un vero bisogno. E lavorare sodo: fino a pochi anni fa era da “sfigato” fare il pasticcere, oggi, complice la tv, c’è la fila di aspiranti». Nel locale si può anche pranzare con sfizi gastronomici, insalate, panini, focacce, oltre ad acquistare conserve, spalmabili e l’ottimo caffè della sua torrefazione. E assaggiare l’ultima nata, la torta “Neve”, dal nome della bambina di Riva e della compagna Elena: una base di biscotto morbido alle nocciole croccanti, con strati di mandorle, pere e cioccolato, cremoso al mascarpone e crema ganache montata al cioccolato biscotto.
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Il coltivatore di Rosanna Scardi
Dal “Senatore Cappelli” al mais bianco, a Calvenzano la sfida è bio
Azienda agricola Fontana via Misano, 14 Calvenzano tel. 333 4005859
L’Azienda agricola Fontana produce cereali selezionati che si trovano solo al mercato. Fiore all’occhiello sono anche fagioli, piselli e ceci, essiccati e macinati a pietra, privi di bucce e ideali per vellutate da preparare in tempi rapidi. Il tutto senza l’utilizzo di sostanze chimiche
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Giovanni Fontana lla produzione di massa non è interessato, a fidelizzare clienti attenti e consapevoli sì. Giovanni Fontana, 61 anni, nato ad Azzanello, nel Cremonese, ma da sempre agricoltore a Calvenzano, produce cereali, riscoprendone antiche varietà, vellutate di legumi, oltre a frutta e verdura, ricavandone squisite creme e confetture. La sua è una tradizione di famiglia: il nonno Giuseppe era ortolano e il papà Mario gestiva un’azienda lattiera. Oggi per assaggiare i suoi prodotti occorre cercarne il banchetto a Treviglio al mercato del mercoledì mattina e ogni sabato di dicembre e a Bergamo il venerdì mattina, in piazza Pontida, oltre che negli scaffali dello spaccio Ciocca alla frazione Geromina. Fontana fa tutto da sé, con convinzione, supportato dalla moglie Laura. Nei sette ettari di terreno in via Misano, coltiva soprattutto un frumento di grano duro introdotto oltre un secolo fa e che sembrava scomparso, il Senatore Cappelli. La qualità della semola è eccellente e
si presta, in particolare, a produrre pasta dal gusto superiore tanto che nel Sud è tuttora diffuso. La presenza di una quantità inferiore di glutine lo rende, inoltre, un alimento più salutare. «Mio papà aveva conosciuto il genetista Nazareno Strampelli che ha inventato il Cappelli, dedicandolo allora a un senatore del Regno d’Italia, e vantava le sue proprietà organolettiche. Sapevo che le altre varietà sono state bombardate con irradiazioni di raggi gamma e le trasformazioni le hanno modificate nella loro struttura genetica favorendo nei consumatori lo sviluppo di intolleranze, ho voluto riscoprire la farina del Cappelli in modo da portare in tavola un alimento che fosse il più naturale possibile, nonostante le difficoltà nella coltivazione», spiega il produttore. Le piante sono molto più alte, tra 140 e 180 centimetri e suscettibili di ripiegamento. Prima di avviare la sperimentazione nei suoi campi, Fontana si è informato, recandosi a
Parma, nella sede dell’azienda agricola Stuard per conoscere le caratteristiche del grano. La produzione è di sei quintali l’anno, un quinto meno di un grano industriale. La farina è integrale o con il 70 per cento di crusca. Da due tipi di mais pregiati ricava invece il macinato per polenta, taragna e bramata. Sono lo spinato,
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così chiamato per la forma appuntita del seme e dalla storia lunga quattrocento anni, e il marano, seminato nel Vicentino a partire dalla fine dell’Ottocento, entrambi dalla bassa resa, ma dalle ottime proprietà nutrizionali. E, l’anno prossimo, raccoglierà per la prima volta il biancoperla, varietà autoctona originaria del Trevigiano e del Veneziano, dalle pannocchie vitree, quasi perlacee, a rischio estinzione, da cui si ricava la tipica polenta bianca veneta. Fiore all’occhiello dell’azienda bergamasca sono anche fagioli, piselli e ceci, essiccati e macinati a pietra privi delle bucce, nel mulino di proprietà, senza che possa avvenire la contaminazione da glutine, ideali per vellutate gustose e facilmente digeribili. La dose è la stessa del prodotto sgranato, le modalità di preparazione molto più semplici. Basta aggiungere acqua e patate per ottenere in un quarto d’ora la consistenza ideale. Si gusta immergendo con crostini di pane oppure pasta e spolverando la vellutata con abbondante Parmigiano grattugiato e un filo d’olio. «In pochi, se non le massaie, metterebbero la sera prima a bagno i legumi per poi passarli, il giorno dopo. Sono così andato incontro alle esigenze dei consumatori di oggi, con poco tempo a disposizione, offrendo anche a loro la possibilità di mangiare bene e sano», aggiunge Fontana. La verdura della sua azienda è
certificata biologica. Sul suo banco si trovano ortaggi di stagione come cavolfiori, zucche, cipolle, carote, finocchi, verze e patate. Tra le novità, lo zafferano con duemila bulbi seminati. «Il mio motto è che per coltivare sono essenziali, e bastano, acqua, sole e terra, non uso il diserbante né altre sostanze di sintesi neppure per sradicare le erbacce - sorride -: i controlli degli enti certificatori sono puntigliosi e constanti e io non “spingo” nulla, se le piante crescono bene, altrimenti pazienza, vorrà dire che me ne dovrò fare una ragione». Tuttavia, scandali e imbrogli nel settore non sono mancati e dopo un successo iniziale, è seguito un calo. Solo di recente, il trend del biologico è di nuovo in ascesa. «Il mio suggerimento è di ri-
volgersi sempre a produttori piccoli, di fiducia, a noi che ci mettiamo la faccia - afferma Fontana -. Al consumatore, che si riempie il carrello al supermercato, consiglio di non guardare troppo all’estetica, ma al gusto e alla salute». Dalla verdura si ricavano le salse a base dolce come il finocchietto con mandorle e capperi, la crema di finocchio con olive, carote e mandorle con aceto balsamico a crudo che si sposa bene con pesce, patate lesse e piatti meno saporiti e il finocchio con aceto balsamico, ideale per accompagnare bolliti e antipasti. Altre salse si ricavano da fichi, con un pizzico di senape, cipolle, zucca, pomodori verdi e melone. Per i golosi ci sono le confetture di ciliegie, frutti di bosco, albicocche, prugne, lampone, fragole, mirtilli, fichi e more. Se i dolci si vogliono preparare in casa, Fontana produce anche la farina più adatta, di sorgo o “di durra”, cereale originario dell’Africa, che cotto emana un aroma di nocciole, ricco di vitamine e sali minerali e sempre gluten free, dunque adatto alla dieta dei celiaci, che non vogliono rinunciare a torte, biscotti e pancakes. Per la sua consistenza speciale si presta a essere usato puro, soprattutto nelle frolle o negli impasti vari. Basta aumentare la dose di olio, burro oppure uova e, per aiutare la lievitazione, è utile aggiungere una piccola quantità di aceto o succo di limone. L’alto livello di proteine fa ottenere croste croccanti.
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Tradizioni di Leonardo Bloch
Alla riscoperta del “Pa’ de mistüra”
Anteponendo per una volta la pratica alle parole, il nostro esperto di storia alimentare si è misurato nell’approntamento di una più filologica versione del pane di mistura di ispirazione medievale, avvalendosi di ingredienti di rigorosa disponibilità precolombiana. Ecco il risultato
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na ricetta della tradizione bergamasca: riscopriamo l’antico «Pà de mistüra»”. Sotto questo titolo un quotidiano locale ha qualche settimana fa promosso la meritoria riproposizione di “un pane che i contadini orobici, in particolare quelli della Valle Brembana, realizzavano utilizzando tutta una serie di ingredienti, mescolati tra loro (da qui il termine dialettale «mistüra», ovvero «mescolamento»)”. ”Di recente - prosegue l’articolo - questa ricetta è stata rispolverata anche da alcune attività commerciali della Valle Brembana, in particolare un panificio di Branzi, dove il “pà de mistüra” era di casa già dalla fine dell’Ottocento”. Ad essere puntigliosi, l’assegnazione all’alimento di un marchio strettamente bergamasco - ed a fortiori brembano - appare invero piuttosto forzata. Dall’alba del basso medioevo sino alla fine del XIX secolo, in tutto il settentrione quello di mistura ha, infatti, rappresentato il terminale più umile della gamma dei pani. In forza di uno dei tanti luoghi comuni della storia della cultura materiale, si è portati a ritenere che anticamente il discrimine tra pagnotte dall’impasto brunito, ricche di cereali minori e di cruschello, e bocconcini a midolla candida ottenuti da farine di grano ben abburattate corrispondesse rigidamente alla demarcazione tra contado e città. In realtà, se è vero
che sino a poco più di un secolo fa nelle campagne il pane bianco ebbe una diffusione affatto trascurabile - una grida veronese del quattrocento si spingeva addirittura a bandirne la vendita agli hominibus rusticanis -, è altresì incontrovertibile che anche nei centri urbani il pane di mistura, nella cui composizione il frumento è stato per secoli per lo più assente, ricoprì a lungo un ruolo di tutt’altro che trascurabile rilievo. Nell’altera Milano, patria della celeberrima michetta dalle nivee molliche, la presenza del pane di mistura è attestata con continuità a partire almeno dal XIII secolo. La cangiante composizione della miscela di farine utilizzata dai fornai meneghini pare aver seguito dappresso l’incedere storico della cerealicoltura lombarda: mentre nell’età di mezzo si impiegavano segale e miglio in parti eguali, dalla seconda metà del cinquecento, con il diffondersi delle risaie, nel procedimento di panificazione trovò posto anche lo sfarinato di riso. L’aggiunta trova conferma nulladimeno che nel ventottesimo capitolo dei Promessi Sposi, allorché il Manzoni, in una delle sue proverbiali digressioni, ne fa menzione tra le disposizioni dei reggenti spagnoli volte a lenire i morsi della carestia del 1629. All’inizio del settecento, ad attestazione della lenta quan-
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to inarrestabile ascesa del mais, il fioretto di granoturco soppiantò la semola di riso. Ed un secolo più tardi, prendendo atto della sempre più estesa propagazione delle coltivazioni di frumento, la ricetta si assestò sulla formulazione che ancor oggi è accreditata di più chiara notorietà: metà farina di grano tenero, e metà di formentone. Grazie a statuti e bolle comunali, è quindi piuttosto agevole ricostruire morfologia e percorso evolutivo del pane di mistura urbano, la cui sostanza si può presumere aderisse piuttosto fedelmente ai canoni regolamentari per via dei rigidi controlli amministrativi cui erano sottoposti i forni di città. Di assai più incerta tipizzazione risulta invece il prodotto da forno nella sua interpretazione campagnola e montanara, il cui impasto doveva essere di composizione assai mutevole in dipendenza dei differenti usi locali - se non addirittura familiari - e della variabile disponibilità di materie prime. Si può ragionevolmente congetturare che molta segale e forse un po’ di frumento, che nel medioevo erano sovente di semina e mietitura frammista, ne costituissero la base. È altrettanto verosimile che altri cereali minori a ciclo vegetativo breve - come il miglio e, specie in circostanze emergenziali, quel sorgo che di norma era destinato all’alimentazione del bestiame - vi giocassero un ruolo non trascurabile. Nei tempi di magra, la miscela doveva altresì venir allungata con farina di fave e di castagne. E, a partire dal XVIII secolo, accolse con certezza un crescente apporto di fioretto di granoturco. Pretendere di redigere un attendibile disciplinare di produzione per il pà de mistura rustico equivarrebbe dunque ad azzardare una ricetta per quello che, nella Parigi del XIX secolo, era chiamato arlequin - un potpourri d’avanzi delle cucine dei grandi palazzi che veniva svenduto a poco prezzo alla plebe metropolitana. Ciò puntualizzato, è arduo non convenire che la combinazione di farine riportata nell’articolo menzionato in apertura - grano tenero tipo “00”, segale, frumento integrale, mais e fiocchi di patate - strizzi apertamente l’occhio al gusto contemporaneo. Anteponendo per una volta la pratica alle parole, mi sono misurato nell’approntamento di una più filologica versione del pane di mistura di ispirazione medievale, avvalendomi di ingredienti di rigorosa disponibilità precolombiana. Nella mescola ho utilizzato tre parti di farina di grano tenero tipo 2, tre parti di farina integrale di segale, due parti di farina di miglio e due parti di farina integrale di sorgo. Ne è risultata la pagnotta ritratta nell’istantanea riportata a corredo, contraddistinta da tinte spiccatamente bronzee, da un’alveolatura fitta e piuttosto minuta - ma, con il consistente impiego di sfarinati privi di glutine, migliori esiti assai difficilmente avrebbero potuto essere conseguiti - e da gradevoli sentori di nocciola. Lungi dall’ambire alla riscrittura di una ricetta la quale, per propria natura, mal tollera alcuna codificazione, questi goffi cimenti di panificazione intendono piuttosto suggerire che, muovendo al di là degli oggi assai celebrati - ma pur sempre allogeni - kamut, quinoa ed enkir, si offre una ricca dote di antichi grani autoctoni cui attingere per innovare seguendo il solco tracciato dalla nostra tradizione.
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IL LOCALE di Fulvio Facci Trattoria del Moro via Castello, 42 Ponteranica tel. 035 573383 www.trattoriadelmoro.com chiuso il lunedì
Sono il piatto forte della Trattoria del Moro di Ponteranica, il regno di Iosette, Giuliana e Bianca. «Ricetta immutata da quasi quarant’anni». Piacevano anche a Vittorio Cerea Da sinistra, Bianca Licini, Giuliana e Iosette Carenini
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Le signore dei casoncelli ot nostrà meno ol pà” (“tutto nostrano tranne il pane”). Sin dall’inizio dell’attività - era l’8 dicembre del 1969 - la Trattoria del Moro, di Ponteranica, ha avuto ed è rimasta fedele a questo motto che corrisponde ad una filosofia operativa, ad un modo di lavoro. Il Moro era Carmelino Carenini, che con la moglie Maria Fiorona ha avuto l’idea di aprire una trattoria nei pressi della propria abitazione. Una posizione poco appetibile, se vogliamo, da un punto di vista strettamente commerciale, visto che da Ponteranica si deve salire qualche chilometro sulla montagna, anche se le indicazioni sono molto chiare. Non ha però sbagliato, dal momento che l’attività continua fiorente fino ai nostri giorni, in una struttura che può ospitare sino a 170 coperti.
Certo le punte di lavoro sono nei fine settimana sia invernali, per la particolarità della cucina, sia estivi, per la piacevole freschezza che può spezzare la calura cittadina. Una specie di gita fuori porta, anche se nel periodo estivo non sono in pochi a salire per la pausa di mezzogiorno con la proposta del menù a prezzo fisso di 11 euro. Dalla metà degli anni Ottanta un terzetto di briose e simpatiche signore manda avanti l’attività. Tutto è rimasto in famiglia: Iosette, in cucina, e Giuliana, in sala, sono infatti figlie di Carmelino Carenini mentre Bianca Licini, anche lei in sala, è cognata delle altre due. «Abbiamo clienti che vengono da noi da generazioni – racconta Giuliana –. Si tratta di gruppi di amici ma soprattutto di famiglie. Bambine che oggi sono
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mamme, si può dire che molti sono clienti da quarant’anni. Certo qualcosa sta cambiando, stanno arrivando anche i turisti, soprattutto stranieri, particolarmente quelli che visitano la pala del Lotto, nella chiesa di Ponteranica. Ecco quindi che abbiamo anche il menù in inglese e poi, per stare al passo con i tempi, abbiamo anche un menù vegetariano. Per il resto non è cambiato niente, seguiamo la nostra cucina tipica bergamasca, semmai abbiamo variato il modo di presentare i piatti». Di certo per arrampicarsi, sia pure alle prime pendici della montagna (la strada è sufficientemente agevole), ci vogliono dei buoni motivi soprattutto, nel nostro caso, gastronomici. In realtà, sotto questo profilo, per andare alla Trattoria del Moro ne basta uno: i casoncelli alla bergamasca. Su questo piatto sono in molti i ristoratori, a torto o a ragione, a ritenere di avere la ricetta migliore, quella col segreto tramandato da qualche nonna. Attenzione: dal Moro non si scherza, qui i casoncelli sono veramente buoni e pur non potendo stilare una graduatoria di merito riteniamo di poterli collocare in un novero abbastanza ristretto di eccellenze. Piacevano persino al compianto Vittorio Cerea, il quale suggeriva di aggiungere solo un po’ di uova nell’impasto. Non sappiamo se sia stato fatto. «Di casoncelli ne prepariamo un bel po’ – conferma Iosette Carenini, regina assoluta della cucina –, visto che sono il nostro piatto forte, e ci atteniamo scrupolosamente alla ricetta originale. Non vedo motivo per cambiare dal momento che stanno funzionando bene sin da quando è iniziata l’attività. Per quanto riguarda gli altri piatti, proponiamo solo quelli della cucina tipica bergamasca. Abbiamo provato anche con il pesce ma ci sembrava un po’ un controsenso in questa cornice. Noi abbiamo tutta una storia nostra, alleviamo maiali, conigli, galline e coltiviamo verdure, avendo cura comunque di far seguire a questi prodotti tutta la trafila prevista dalle norme sanitarie. Sì, i casoncelli van bene, ma anche con il salame di nostra produzione non scherziamo!». La scupolosa osservanza della cucina bergamasca viene declinata sulla carta del Moro in piatti che possiamo citare tutti, visto che non sono moltissimi: salame con polenta e funghi o affettati misti per antipasto. Casoncelli burro e salvia, tagliolini ai funghi porcini e foiade al sugo di lepre i primi piatti mentre le seconde portate sono costituite da costata, nodini, spiedini, cotechini, polenta e coniglio al vino rosso, polenta e manzo al barolo, polenta e stracotto d’asino, polenta con funghi porcini trifolati, polenta lumache e funghi porcini, cinghiale con verdure stufate e polenta con funghi porcini e branzi. C’è anche la polenta taragna che può essere abbinata ai diversi piatti. Con tre portate e vino della casa si possono spendere sui trenta euro, ma quattro fette di salame con un po’ di polenta ed un piatto di casoncelli valgono da soli la pena di un paio di chilometri di salita.
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L’APERTURA
Bar e specialità alimentari, ad Antegnate un nuovo scrigno di sapori
Dolcefreddo Cafè via Meucci, 2 Antegnate tel. 0363 914240
Dolcefreddo Cafè è la sfida a diversificare di una storica azienda di surgelati. «Vogliamo valorizzare il made in Italy che tutto il mondo ci invidia»
C’
è una bella storia di famiglia e di impresa dentro al Dolcefreddo Cafè, locale aperto dallo scorso 27 settembre nella zona artigianale di Antegnate, in via Meucci 2. La storia di un’azienda attiva da quasi trent’anni nella distribuzione all’ingrosso e al dettaglio di surgelati, che ha fatto proprie le parole d’ordine di questi tempi: rinnovarsi e diversificare. E la scelta di Alessia, assistente di volo sui jet privati, di mettere la propria esperienza nella selezione di piatti e prodotti per i vip internazionali al servizio della nuova iniziativa di famiglia. «La crisi ci ha spinto a reinventarci – racconta Maria Guida Rubini, che ha fondato nell’89 con il marito Gian Paolo Bandera la Dolcefreddo -. Il settore del freddo è stato particolarmente colpito, perché i costi di gestione sono alti, e molti dei venditori
Alessia, a sinistra, e Federica Bandera
porta a porta che servivamo hanno chiuso. Così abbiamo deciso di concentrarci sulle forniture per le feste estive e di dedicarci anche all’acquisto e vendita di attrezzature usate per pasticcerie, panifici, bar e negozi di alimentari. E abbiamo aperto un locale, dove, accanto alla caffetteria, ai pranzi veloci e agli aperitivi, si possono trovare vini e specialità alimentari accuratamente scelti in tutti questi anni di attività nelle forniture». Natale è il momento migliore per farsi confezionare un cesto regalo, personalizzato nel contenuto e nella forma, o trovare un buon prodotto da portare in tavola. Ci sono i panettoni griffati Flamigni, Scar Pier, Muzzi, il ciccolato di Babbi, ma anche parmigiano, salumi, come il salame di Montisola o la coppa di un produttore locale, e poi i vini, Franciacorta e
toscani soprattutto. «Lavorando sui jet privati ho avuto la conferma di quanto valga il made in Italy», spiega la figlia Alessia, 26 anni, dall’età di 21 impegnata come assistente di volo, oggi freelance, per questa fascia esclusiva di viaggiatori. «Oltre a curare l’ospitalità a bordo ci si occupa del catering e non abbiamo idea di quanto sia apprezzata una mozzarella di bufala o una cotoletta – prosegue -. Da qui siamo partiti con l’idea del locale, dal valorizzare ciò che di semplice e buono ci invidia tutto il mondo». Tra i piatti per la pausa pranzo si può trovare, ad esempio, quello con stracciatella, alici e pomodori secchi, oppure insalate ricche. L’obiettivo è caratterizzarsi per gli aperitivi e i taglieri con salumi, come quelli di cinghiale e cervo, e formaggi, accompagnati ad un buon calice di vino. «Non abbiamo la cucina – dice Alessia, che nel locale è affiancata dalla sorella Federica, 28 anni -, ma ci stiamo organizzando per servire i taglieri con una scodella di polenta fumante. Piace a tutti, è appagante, credo che possa essere un’idea per uno spuntino o un apertivo diverso dai soliti buffet o dalle classiche patatine e noccioline». Insomma Dolcefreddo Cafè vuole diventare un posto di piccoli piaceri per il palato.
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L’azienda
Orobica Pesca, il porto sicuro per chi ama il pesce
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Qualità, ampia offerta, varie fasce di prezzo: ecco i punti di forza del Gruppo bergamasco l pesce, oltre ad essere un alimento ricchissimo dal punto di vista nutrizionale, adatto a qualsiasi età, è anche molto gustoso e rappresenta la portata delle Feste per eccellenza. In Orobica Pesca, sul banco del pesce fresco si trovano prodotti di vari prezzi; per un menù dal costo contenuto si possono acquistare alici e sarde, calamari, moscardini, cefali, cozze, vongole veraci, lupini e fasolari, platesse, branzini e orate di allevamento, trote, misti di pesce per sughi e zuppe. Se invece si vuole osare di più, la scelta può ricadere su anguille, astici vivi, branzini e orate selvaggi, rana pescatrice, rombi e sogliole, polpo fresco, cappelunghe, cappesante mezzo guscio, lumachine di mare, tartufi e telline, gamberi, mazzancolle e scampi freschi, ostriche, pesce spada o tonno. Non vanno dimenticate le specialità natalizie per eccellenza quali l’aragosta viva, il caviale, gli affumicati
di salmone, tonno, pesce spada, storione e marlin. Per quanto riguarda gli affumicati di salmone è da sottolineare che oltre a quello norvegese di allevamento è disponibile lo scozzese, meno grasso perché proveniente da allevamenti estensivi, oltre al selvaggio del Pacifico, richiesto per le sue carni magre, rosse e compatte. La preziosità di questo prodotto è data dal fatto che questi salmoni sono pescati da piccole imbarcazioni con la tecnica troll, cioè con sistema ad ami. Per guarnire e colorare tartine possiamo fare affidamento sulle uova di pesce, come quelle di lompo nere o rosse oppure di salmone, molto più grosse e dal colore arancione perlato, oppure si può pensare anche di acquistare un prodotto d’eccellenza come il caviale, di cui esistono diverse varietà, come il Beluga, l’Asetra, il Calvisius, l’Imperiale, ognuno con caratteristiche e prezzi diversi. Un’altra grande regina della tavola è sicuramente l’ostrica, che quest’anno è stata protagonista del menù proposto da Orobica Pesca a Gourmarte, la fiera delle eccellenze alimentari tenutasi a Bergamo a fine novembre. Orobica Pesca ha servito un aperitivo a base di quattro diverse tipologie di ostriche: Kys, Fine de France, Cica, Gillardeau. Per ulteriori suggerimenti e consigli si può visitare il sito www.orobicapesca.it
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A TAVOLA CON
di Roberta Martinelli
Il comico sarà al Creberg Teatro per lo spettacolo di Capodanno. Ci ha raccontato dei suoi gusti e della voglia di sperimentare sapori nuovi
Enrico Bertolino: «Se v’invito a cena non chiedetemi cosa si mangia»
E
nrico Bertolino è comico, conduttore televisivo, cabarettista ed esperto di comunicazione (è laureato in Economia alla Bocconi ed è manager nelle risorse umane). Da 30 anni è uno dei protagonisti dell’umorismo italiano. Il 31 dicembre si esibirà al Teatro Creberg di Bergamo nello spettacolo “Buon 2042! La festa di Capodanno”, un monologo sul meglio e il peggio dell’anno appena trascorso. Qui ci racconta il suo amore per il cibo fatto a mano e la cucina etnica e l’amicizia con gli chef Berton e Oldani. Che rapporto ha con il cibo? «Di sudditanza psicologica, sono sempre in lotta con i regimi alimentari. Mi piace mangiare bene, le cose buone, anche sperimentare le cucine etniche». Trattoria o ristorante stellato? «Entrambi. Non amo il ristorante stellato perché è stellato ma quando ha una cucina curiosa. Come quella di Oldani e Berton, che sono amici e con i quali facciamo anche iniziative di solidarietà. In queste occasioni faccio l’assistente di cucina. A Bergamo mi piace molto Da Vittorio, anche perché lo conoscevo, non sono mai rimasto deluso dai suoi ravioli. Ma non disdegno la trattoria. Nella zona dove abito a Milano ne stanno aprendo diverse. Quando posso, le sperimento». Dolce o salato? «Adesso salato. Prima molto dolce». Cosa non può mancare nella sua dispensa? «L'amore per come si fanno le cose,
le pietanze fatte a mano. Ora limito il sale e mi piace mettere lo zenzero, lo scalogno, i condimenti nuovi. Con l'età si diventa saggi». Ai fornelli, cuoco esperto o piccolo disastro? «Ai fornelli sono più bravi i ragazzi della scuola di Oldani. Ma a casa quando posso cucino. La nostra è una famiglia italo-brasiliana, mia figlia ama i piatti brasiliani». Qual è il suo piatto preferito? «Il vitello tonnato, è una combinazione irresistibile per me ed è un piatto che cucinava mia mamma. Ora che non cucina più glielo prepariamo noi. In generale mi piacciono i piatti tradizionali ma anche la cucina etnica. Ad esempio il churrasco. Deluderò qualcuno, ma sono tutto tranne che vegano». Cosa mangia dopo uno spettacolo? «Un primo o un secondo e poi chiudo
con la sambuca. Sono entrato nel tunnel della sambuca. Prima di uno spettacolo invece non mangio mai, devo stare leggero. Un tempo si mangiava molto. Addirittura si facevano le tournée per poter andare a mangiare. Adesso dopo cena è molto difficile trovare una cucina aperta, c'è poca cultura del dopo spettacolo. Possiamo contare su qualche ristoratore disponibile che tiene aperto, sono serate che non dimentichiamo». La sua cena più bizzarra. «È quella che non ho ancora fatto. Anche se Oldani mi ha stimolato molto con la sua cipolla caramellata. Sono rimasto dieci minuti a guardarla. Da allora non rifiuto più gli abbinamenti insoliti. Per me bizzarro è mangiare i prodotti del posto, la filiera corta, l'amatriciana ad Amatrice, in Sicilia i piatti siciliani. Credo che bisogna adattarsi». Chi inviterebbe a cena a casa sua e perché? «Persone accomodanti, come il sindaco di Milano Sala, che è un amico. Non apprezzo quelli che chiedono "cosa c'è da mangiare stasera?". Mangi quel che c'è e apri la tua testa all'innovazione». Vino o birra? «In Brasile la birra, il vino non è competitivo ed è molto caro. Altrimenti vino. Sono stato di recente in un paesino in Francia a un mercatino. Abbiamo comprato olive farcite in tutti i modi e vino francese. Di più non si poteva chiedere».
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Pagine di
Gola
Per chi è alla ricerca del regalo “dell’ultimo minuto”, per chi a Natale avrà ospiti e vuole omaggiarli con un pensiero o per chi durante le Feste vuole leggere un libro e saperne un po’ di più di piatti e sapori. Cinque titoli novità di questo 2016 ormai al termine, curiosi e in alcuni casi divertenti, per conoscere meglio la cucina e i grandi cuochi di domani.
a cura di Roberta Martinelli
Cucina e gusto, le novità in libreria da non perdere Cosa succede ai nostri cibi nel microonde? Perché la carne rossa è rossa? Le pentole a pressione sono veramente a prova di esplosione? Un libro di ricette e curiosità che spiega in modo divertente tutti i fenomeni chimici e fisici nascosti nei nostri gesti e nei nostri piatti. Einstein probabilmente non ne parlava al suo cuoco, ma se avesse dovuto spiegargli la scienza che sta dietro ai cibi e alla loro preparazione avrebbe fatto così. Robert L. Wolke
Einstein al suo cuoco la raccontava così 264 pagine – Feltrinelli In tv siamo bombardati da trasmissioni di cucina, ovunque il cibo è argomento di discussione e condivisione. Ma sappiamo davvero gustarlo? Questo libro insegna ad apprezzare i sapori nella loro gamma di sfumature e a ricrearli attraverso più di 100 ricette, suddivise a seconda del sapore dominante: amaro, aspro, dolce, salato e... umami, il quinto sapore. Tutte naturali, vegetali e senza glutine. Felicia Sguazzi
La forchetta dei 5 sapori 239 pagine - Sonda Editore Ogni giorno, all’ora del pranzo, siamo costretti a subire vere e proprie nevrosi traumatiche. Panini, Coca-Cola, tramezzini e hamburger: è questa la vera psicopatologia della vita quotidiana. Quale miglior terapia di un libro di cucina freudiana? Le ricette mescolano le migliori intuizioni della cucina viennese ai ricordi e alle riflessioni del padre della psicoanalisi. James Hillman e Charles Boer
La cucina del dottor Freud 198 pagine – Raffaello Cortina Editore Il libro è scritto a sei mani da giornalisti e critici enogastronomici e racconta “vita, opere e ricette” di trenta cuochi under 30. Ritratti divertenti e (bonariamente) canzonatori della generazione che sta prendendo in mano la cucina italiana. Gli chef vengono divisi in dieci categorie: ci sono i giocolieri, gli illusionisti, i secchioni. Al di là degli aneddoti surreali e delle provocazioni irriverenti, il libro offre un’analisi acuta e puntuale della ristorazione italiana, comprensibile anche ai meno esperti. Cavallito, Lamacchia, Vizzari
Giovani & audaci. Ritratti (quasi) veri dei cuochi che stanno rivoluzionando la cucina italiana 208 pagine - EDT In Giappone la cerimonia del tè è un rito quasi sacro, che unisce ospite e invitato in un momento di beatitudine terrena. Malgrado sia una bevanda molto popolare, la sua preparazione rimane per la maggior parte delle persone sconosciuta. In questo libro si apprendono i segreti per preparare la tazza perfetta, si conoscono i tè di tutto il mondo e si impara a sceglierli in base alle proprie esigenze. Brian Keating e Kim Long
L’arte della tazza perfetta. Scienza e pratica del tè 215 pagine - Vallardi editore
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Sostegno ai LAVORATORI Assistenza per figli disabili Contributo straordinario ai dipendenti in malattia/infortunio oltre il 180° giorno Concorso spese libri di testo, mensa scolastica e abbonamento trasporto pubblico per i figli dei lavoratori Concorso spese testi scolastici per lavoratori dipendenti pantone 3395C
Concorso spese asili nido
pantone 7725C
Concorso spese abbonamento trasporto pubblico ai lavoratori Spese sostenute per modello 730
pantone 2995C pantone 7461C
Sostegno alle IMPRESE pantone 1485C
pantone 3395C
pantone 166C
pantone 7725C
Formazione e apprendistato
pantone 2995C
Certificazione contratti di lavoro
pantone 7461C
D. Lgs 81/08 sulla sicurezza
pantone 1485C
Corsi sostitutivi libretto sanitario
pantone 166C
Promozione dei sistemi di qualità Concorso spese libri di testo, mensa scolastica e abbonamento trasporto pubblico per i figli dei datori di lavoro Incentivi alle imprese per l’assunzione di giovani disoccupati
www.entibilateralibg.it Enti Bilaterali di Bergamo via Borgo Palazzo, 137 - 24125 Bergamo - Tel 035.4120140 / 035.4120116 - Fax 035.4120110 info@entebilturbg.it | info@entebilcombg.it
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