dicembre 2017
Anno XVII n.5 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - â‚Ź 2,60
la buona tavola raccontata da
A Natale
un cesto di bontĂ Per il piĂš classico dei regali, i consigli dei gastronomi, fruttivendoli e grossisti bergamaschi
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Si fa presto a dire cesto
8 L’intervista
Micheli: «L’opera è un’esperienza sensoriale, come il cibo»
10 la visita
Fico, «un maxi progetto che deve ispirare le piccole attività»
14 protagonisti
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Il cheese bar dell’anno? È in Valle Imagna
17 sapori & territori
Un’Isola di gusto
20 la proposta
WinterMoon, il mistero dell’inverno in una birra
22 vini
Feste, ad ogni occasione la sua bottiglia
26 l’Anniversario
Druso, «così siamo diventati la casa del rock»
30 una giornata con
La magia quotidiana del panettiere che si è fatto da sé
32 strumenti
Gestione del team, tre parole d’ordine per il successo
Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120322 - fax 035 231082 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120280 - fax 035 231082 - info@larassegna.it - N° ROC 5847 - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Roberta Martinelli, Rosanna Scardi, Gualtiero Spotti - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg
SOS NATALE di Roberta Martinelli
È un classico tra i regali e piace a tutti. Ecco le idee, le tendenze e i consigli di gastronomi, fruttivendoli e grossisti per farlo ancora più buono e bello
Si fa presto a dire cesto
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on il Natale alle porte la ricerca del regalo per familiari e amici entra nell’agenda delle priorità. Il cesto gastronomico non è forse un’idea originale ma è un regalo che piace sempre (figura tra i doni più apprezzati), si può comporre come si vuole e permette di fare bella figura anche senza spendere un capitale. Senza contare che è un regalo passepartout: è adatto a tutti, salva in tutte le situazioni in cui non si sa cosa regalare ed è ideale come ringraziamento in caso di inviti a cena durante le Feste. L’importante è non scadere nel banale, quindi scegliere con attenzione e un pizzico di originalità i prodotti e dare un tocco personale. Con l’aiuto di alcuni esperti gastronomi, alimentaristi, fruttivendoli e grossisti dell’Ascom abbiamo raccolto alcune regole che permettono di realizzare il cesto di Natale perfetto: una piccola guida con gli errori da non fare, gli ingredienti must per un cesto d’effetto e i consigli per confezionarlo in modo da strappare uno “wow” a parenti e amici. Perché si fa presto a dire cesto di Natale, il segreto sta in cosa si mette al suo interno e a come si realizza la confezione.
ad ognuno il suo cesto La prima regola, come per ogni regalo, è fare “qualcosa di pensato”. «Bisogna interrogarsi sui gusti di chi riceve l’omaggio e comporre il cesto con cose che gli piacciono», consiglia Nunzio Carrara, titolare dell’omonimo alimentari nel quartiere di Boccaleone a Bergamo. Se non si conosce bene la persona alla quale cui si vuole fare il regalo, per andare sul sicuro, è opportuno escludere intolleranze alimentari, almeno quelle più frequenti come la celiachia, e problemi di salute come il diabete (in questi casi vanno banditi tutti i prodotti con il glutine nel primo caso e i dolci nel secondo); altrettanto importante è sapere se mangia carne, le persone vegane e vegetariane sono sempre più numerose e la gaffe è dietro l’angolo. A meno che il cesto non sia indirizzato all’intera famiglia. In base al tipo di destinatario si può trovare il cesto più adatto. In generale, se l’omaggio gastronomico viene fatto ad amici e persone giovani sono da preferire caramelle, cioccolatini, frutta fresca e liquori. Se invece il cesto è destinato a persone anziane, gradiranno generi alimentari che possono consumare tutti i giorni
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magari più ricercati: pasta, grissini, salsa di pomodoro, biscotti, caffè, tè particolari, frutta secca.
Meglio piccolo ma di qualità «La cosa da non fare assolutamente è inserire prodotti di scarsa qualità, facilmente rintracciabili. Il valore del cesto non deve essere quantificabile, non è elegante che il destinatario sappia quanto si è speso», raccomanda Giovanna Pradella di Cidia a Bergamo, presidente dei Grossisti alimentari Ascom. Quindi, scegliere sempre prodotti di qualità: piuttosto pochi ma di nicchia.
Non può mancare il panettone o il pandoro È una tradizione e va rispettata. Con l’attenzione di scegliere dolci di pasticceria o comunque artigianali. Negli ultimi anni nelle panetterie si possono trovare panettoni molto buoni.
Scegliere prodotti che creano colore «Per avere un cesto di impatto occorre fare attenzione a che i colori siano abbinati tra loro - consiglia Donatella Rosbuco dell’omonimo ortofrutta di Osio Sotto -. Si può anche scegliere un colore dominante e proseguire su quella strada».
La confezione deve essere curata
Uno dei cesti natalizi di Lazzarini Dolciumi
Il tocco in più
Se si vuole dare un segno di originalità, si possono mettere in pratica diverse idee. Ad esempio, al posto della frutta secca si può scegliere la frutta tropicale, si possono inserire delle spezie esotiche, olio e vino biologici o acquistati direttamente dal produttore, oppure un oggetto non gastronomico: un libro di cucina, un coltello in ceramica, un pentolino in rame per fondere il cioccolato, un piatto decorato, un coupon per una cena. Si può fare un cesto con selezioni di tè o caffè, con zucchero, mug e cucchiaini, oppure, se si è ferrati in cucina, si può aggiungere qualcosa fatto con le proprie mani come biscotti, marmellate o un buon liquore. Una novità nata a Bergamo e molto apprezzata negli ultimi anni è My Cooking Box, la confezione che contiene tutti, ma proprio tutti, gli ingredienti per preparare un piatto gourmet. Una soluzione più economica ma altrettanto originale è regalare un kit per realizzare i biscotti di Natale con tanto di formine e guanto da forno. In alternativa ai classici cesti di vimini si possono infine usare cassettine di legno o «una bella scatola di cartone colorato, rosso o al più verde, con del nastro oro», come consiglia Giovanna Pradella.
Il cesto di vimini deve essere bello e resistente. Assolutamente vietato usare cesti già utilizzati (il recupero è un atto di creatività e un valore, soprattutto di questi tempi, ma quando si tratta di regali l’effetto è sempre spiacevole. Si possono acquistare cesti a prezzi contenuti in qualunque negozio, supermercato o fai da te che abbia oggetti per la casa). Per la paglietta è meglio usare quella di carta o comunque naturale. Nel posizionare i prodotti vanno messi in fondo le confezioni più grandi e davanti quelle più piccole, in modo da non nascondere niente. A meno che nel cesto ci sia un regalo più prezioso che vogliamo risulti una sorpresa. Una volta composto il cesto, si chiude con della carta trasparente lucida e un fiocco o una coccarda, meglio se nei colori rosso o oro. «Tutto va confezionato benissimo – dice Giovanna Pradella - Confezionare male, non mettere sufficiente paglietta o utilizzare un cesto di scarsa qualità che si spacca sono errori da non fare. Un altro errore è non confezionare i prodotti alimentari (ottima la carta del pane o la carta velina) in particolare i formaggi perché poi dal cesto escono odori spiacevole e i prodotti all’interno si sporcano. Per evitare contaminazioni, i formaggi vanno messi sottovuoto in questo modo si garantisce anche la freschezza e si a un bell’impatto visivo, oppure si possono avvolgere e chiudere in carta color pacco». Se non si recapita di persona il cesto, accertarsi che sia spedito con la massima attenzione.
Mai dimenticarsi il biglietto d’auguri «Può essere un semplice bigliettino con poche righe, oppure una lettera, ma il biglietto non si può non mettere – ricorda Pradella -. In caso di regali aziendali va bene il biglietto da visita ma avendo cura di mettere la firma».
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Le Proposte
SOS NATALE
Cidia – Bergamo
LUXURY
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er un cesto di lusso la regola è puntare sulle specialità e i prodotti artigianali di nicchia, in particolare sui salumi che fanno la differenza per un omaggio prestigioso. Le confezioni più pregiate possono raggiungere anche i mille euro. «Di solito sono regali d’affari per aziende», dice Giovanna Pradella. «In questi casi, la bottiglia di vino deve essere pregiata, può essere un vino d’annata, un rum particolare, ma anche vini legati al territorio come il Moscato di Scanzo, il Valcalepio o il Franciacorta. Lo stesso vale per il panettone che Giovanna Pradella deve essere di pasticceria o al-
meno di una pasticceria semiartigianale». Proseguendo nella composizione del cesto vip, «il piccolo salume si gradisce sempre abbastanza, ma è meglio puntare su specialità come il black angus marinato ai funghi o i cacciatorini di cinghiale. Bene anche il prosciutto purché di cinta senese o di Montepulciano e il culatello di Zibello. Ingredienti di sicuro successo sono anche i tartufi, i funghi (devono essere rigorosamente porcini, sott’olio con la testa nera) e il salmone con la stessa attenzione di sceglierlo di qualità. Il caviale invece da qualche tempo non si regala quasi più perché è costoso e molto delicato. Una buona scelta è inserire un buon olio italiano extravergine e, in quanto ai dolci, spazio a torroni artigianali, creme al cioccolato fondente, dolci con le nocciole Dop e marmellate particolari, ad esempio aromatizzate alla vaniglia o quelle per i formaggi». Se si vuole rendere più importante il cesto «basta giocare sulla pezzatura del tartufo e dei salumi». Spesa: dai 200 ai 1.000 euro
Alimentari Fratelli Carrara - Bergamo
PER LA FAMIGLIA
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e il cesto è indirizzato a una famiglia bisogna tenere in considerazione i gusti di tutti i suoi componenti. «Il segreto per fare contenti tutti è scegliere prodotti di largo consumo - rivela Nunzio Carrara -. A meno che il cesto sia rivolto a persone importanti, in questo caso non conta la quantità di prodotti che si mettono ma la qualità». I prodotti must per questo tipo di regalo sono «il classico salame che sulle nostre tavole nelle ricorrenze c’è sempre, il vino Valcalepio o il Moscato di Scanzo i cui prezzi si sono rimodellati e quindi oggi risultano più alla portata. Vanno benissimo i formaggi, Branzi, Taleggio e in generale tutti i prodotti caseari delle Valli bergamasche ma, attenzione, se il cesto verrà consegnato dopo un po’ di giorni, è meglio scegliere forme stagionate». Per completare il cesto family si possono aggiungere zampone e sottaceti e sottolio, che piacciono sempre, e per renderlo più originale e personale unire condimenti al cervo, aceto balsamico, mostarda di Cremona o uno spumante biologico. Come dolce, ca va sans dire, panettone o pandoro. Nunzio Carrara Spesa: 60 euro
Macelleria Marchesi - Seriate
DEL TERRITORIO
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n cesto “a tema” infallibile è quello legato al territorio e alla stagionalità. «Il mio segreto è mettere prodotti che nel resto dell’anno non ci sono o non si consumano e alcune specialità - dice Tiziana Marchesi dell’omonima macelleria di Seriate -. Una bottiglia di spumante Calepino, pasta colorata ad esempio agli spinaci o al pomodoro che sono molto belle da vedere e fanno scena (farfalle, pennette
Giuseppe Marchesi con i figli Andrea e Alessandro
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Lazzarini - Azzano San Paolo
DOLCE
Ortofrutta Rosbuco - Osio Sotto
VEGANO
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er i bambini e per gli adulti più golosi il cesto più indicato è quello di soli dolci. «Caramelle, cioccolatini, torroni particolari o scaglie di torrone, zuccherini di Santa Lucia, gelatine e ovviamente un panettone o un pandoro farcito ai marron glacè - dice Marino Lazzarini -. Per un risultato più originale e agrodolce si può raccogliere una nuova tendenza degli ultimi anni e unire ai dolci vasetti di formaggini aromatizzati al peperoncino, sottoli particolari o specialità che piacciono molto come le bisciole della Valtellina». Spesa: 50-60 euro
Marino Lazzarini
Donatella ed Egidia Rosbuco
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e il destinatario del cesto segue una dieta vegetariana la scelta può essere solo una: sbizzarrirsi con frutta, verdura, ortaggi e cereali. «La regola per un cesto veg perfetto è utilizzare prodotti di stagione, giocare con i colori e inserire qualche curiosità - dice Donatella Rosbuco -. La scelta va orientata su mele verdi e rosse, agrumi, clementine, ananas e pere per quando riguarda la frutta, mentre per le verdure si può puntare su carciofi, cavolfiori, radicchio rosso, peperoni gialli, cime di rapa. Meglio evitare le erbette che sono un prodotto povero, consiglio invece le puntarelle, un prodotto poco conosciuto che fa scena e che dà la possibilità di assaggiare qualcosa di insolito. Per arricchire il cesto un must sono i legumi. Ce ne sono di una grande varietà e colori: fagioli bianchi e scuri, lenticchie, cicerchia, farro, orzo. Per finire, marmellata all’ananas e una manciata di ciliege rosse che danno un tocco di colore». Spesa: 70 euro
e fusilli per la maggiore). E come specialità, formaggi di capra (buoni quelli del caseificio di Chiuduno), il salame del contadino (consigliato quello di Vigolo), una bottiglia di olio extravergine di oliva del Garda, aceto balsamico, marmellata di Sicilia al gusto di arancia, papaja oppure mango, capperi di Pantelleria, e per chiudere in dolcezza, caramelle, torroncini sfusi e un panettone artigianale, rigorosamente classico perché è quello che piace di più». Spesa: 80-90 euro
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L’intervista di Roberta Martinelli
Il direttore artistico che sta guidando il risveglio dell’orgoglio donizettiano a Bergamo è gelato-dipendente ed è certo che anche l’enogastronomia possa supportare i progetti culturali. «I nosecc sono il mio piatto preferito e amo le trattorie: ci inviterei Donald Trump, così capirebbe il senso delle cose»
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Francesco Micheli, foto Gianfranco Rota
Micheli: «L’opera è un’esperienza sensoriale, come il cibo» rancesco Micheli, bergamasco di Sedrina, 45 anni, laureato in Lettere Moderne e diplomato alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano, è uno dei più apprezzati registi e direttori artistici della sua generazione (ha collaborato con l’Orchesta Filarmonica della Scala, ha ricevuto, tra gli altri, il premio Abbiati e, nel 2017, allo Sferisterio di Macerata, ha messo a segno il record di spettatori paganti). Dal 2015 è il direttore artistico della Fondazione Donizetti di Bergamo con due obiettivi precisi: fare in modo che la musica lirica torni ad essere popolare e portare nei cuori di tutti i bergamaschi il grande compositore. Una sfida in parte vinta con il festival autunnale Donizetti Opera e le oltre 40.000 presenze alla Donizetti Night 2016, che ha coinvolto nella celebrazione del maestro anche commercianti, alberghi, bar, ristoranti e guide turistiche. Che rapporto ha con il cibo? «Ho un rapporto viscerale con il cibo. Sono molto goloso. È la dimensione sensoriale che mi fa impazzire. Ho addirittura una dipendenza da alcune sostanze, i dolci in generale e i gelati in particolare, il pistacchio è il mio preferito».
Le piace cucinare, è un bravo cuoco? «Non ho una tecnica sopraffina, ma mi piace molto. Da bambino quando frequentavo le scuole medie volevo fare l’alberghiero. Quando mio padre regalò a mia madre la macchina per la pasta, la usavo io. Ma è una abilità che richiede tempo e io sono molto poco in casa». Per sei anni è stato direttore artistico dello Sferisterio di Macerata. Meglio la cucina marchigiana o quella bergamasca? «Sono molto diverse e, forse in virtù del fatto che era nuova, la cucina marchigiana mi ha intrigato. Il ciauscolo è un salume che meriterebbe una scena mondiale. Sulla polenta, però, non c’è storia. I maceratesi si vantano di averla inventata, la considerano un loro piatto tipico, ma non ha niente a che fare con la nostra ricetta. La loro polenta è, per noi, una pappetta indigesta». Quale è il suo piatto preferito e perché? «Un piatto semplice della tradizione bergamasca, i nosecc, gli involtini fatti con ripieno di carne, mollica e pan grattato avvolto in foglie di verza. Li cucinavano mia mamma e mia nonna quando ero bambino. Si
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Musica, cultura e buoni sapori insieme. Da sinistra: lo chef Ezio Gritti, Francesco Micheli, Cinzia Cortinovis della Cantina Le Corne che ha imbottigliato una riserva di Pinot Nero per l’opera del progetto #Donizetti200 “Divenire Pigmalione”, Iris Defendi del Caseificio Defendi che ha creato un nuovo erborinato dal nome “Furtiva lagrima”, Nadia Ghisalberti assessore alla Cultura del Comune di Bergamo e Paolo Fabbri direttore scientifico della Fondazione Donizetti
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La musica al ristorante? Mi piace, può migliorare l’esperienza del mangiare. Attenzione alle scelte, però, in un locale di Torino ne ho trovata di insostenibile e anche il cibo ne ha risentito
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possono fare in umido o bolliti che è la mia ricetta preferita. Mi piace anche la carne di selvaggina». C’è un cibo che non sopporta? «Ho un problema con i prodotti fermentati, per cui evito la frutta cotta, i succhi di frutta, così come vini rossi e birre». È astemio? «Mi concedo i vini bianchi». Preferisce il ristorante, la trattoria o la pizzeria? «Dipende dalle occasioni. La trattoria, intesa come cucina casalinga e locale storico, è in assoluto la mia preferita. Poiché viaggio molto, però, mi capita spesso di avere bisogno di un po’ più di tranquillità e silenzio, in questi casi scelgo il ristorante». Ma al ristorante la musica di sottofondo ci può stare oppure no? «A me piace. La musica può senz’altro migliorare e amplificare l’esperienza del mangiare. L’opera lirica, del resto, è nata nelle corti, come esaltazione dei banchetti. Non tutte le scelte però possono andare bene. Qualche tempo fa a Torino in un locale era trasmessa musica insostenibile, anche il cibo ne ha risentito». Chi inviterebbe a cena e dove lo ospiterebbe? «Mi piacerebbe invitare Donald Trump per dirgliene quattro! Manca un senso alla sua politica. Lo ospiterei in una delle nostre trattorie italiane dove c’è ancora il senso delle cose». L’orgoglio donizettiano passa anche da eventi nei locali, come i DoReDrink, e da prodotti ispirati al nostro compositore, dallo “Spriss” al liquore “Elisir d’Amore”, fino ai
cioccolatini e alle novità dell’erborinato “Furtiva lagrima” e del vino per l’opera #Donizetti200 “Divenire Pigmalione”: come può il cibo farsi ambasciatore di un progetto culturale? «La musica, l’opera lirica sono un’espressione culturale, ma la loro forza è nella dimensione sensoriale. L’opera la si guarda e la si ascolta. L’esperienza del teatro nasce nella preparazione che fai per arrivare alla serata dello spettacolo, nell’apertura del sipario che ti porta in posti molto belli, nel sedersi in una poltrona di velluto: coinvolge tutti i sensi, come avviene con il cibo. E poi la cucina e la gastronomia sono presenti anche nella vita dei compositori. Nel far conoscere la figura di Donizetti abbiamo posto attenzione anche ai suoi gusti, alla sua infanzia». La Bergamo di ristoranti e locali è a misura di artisti e spettatori? Ovvero, per chi finisce tardi ci sono abbastanza occasioni per mangiare e bere qualcosa? «Bergamo sta operando una transizione economica da città industriale a città turistica. La risposta è in parte positiva, anche se resta molto da fare. La nostra è ancora una città per lavoratori, il sentiero però è tracciato. Una cosa stimola l’altra, ci vogliono impegno e investimento da parte di tutti. È anche in questo senso che la Fondazione punta a stimolare e qualificare l’offerta culturale dando anche spunti di unione con le altre categorie della città. È stata molto bella la presenza alla Donizetti Night di iniziative collaterali da parte di realtà lontane da noi, è un segno importante». Qual è il più bel brindisi o banchetto in un’opera? «Ce ne sono nel Don Giovanni, nella Traviata ma il più significativo, sarò “partigiano”, a mio avviso è nella Lucrezia Borgia di Donizetti. Alla fine dell’opera, durante un banchetto, uno dei giovani al tavolo fa un brindisi. Il banchetto è tutt’altro che conviviale, i ragazzi sono dissoluti, persi nelle droghe e nella disperazione e il banchetto culmina con Lucrezia che per vendicarsi dei soprusi subiti avvelena tutti, tra cui suo figlio che muore per colpa sua. È un banchetto di segno negativo ma la vivacità con cui il giovane inneggia al bisogno di vita è toccante e fa capire quanto i ragazzi hanno bisogno di vivere e di cose buone per crescere bene». Ha un ristorante del cuore nella Bergamasca? «Da sempre sono legato alla Tavernetta di Zogno, è il locale della mia infanzia. Allora uscivamo pochissimo ma quando lo facevamo la nostra scelta ricadeva lì».
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LA VISITA Il più grande parco agroalimentare al mondo, aperto a Bologna e firmato Oscar Farinetti, convince per la capacità di coinvolgere, raccontare e mostrare come nascono prodotti e piatti. Una carta che anche le botteghe e i locali possono giocare per porsi in maniera nuova
Fico, «un maxi progetto che deve ispirare le piccole attività»
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di Giorgio Lazzari* bbiamo visitato Fico nell’anteprima a sei giorni dall’apertura al pubblico. Cosa portiamo a casa? Qualcuno l’ha già ribattezzata la Disneyland del Food, in realtà Fico, acronimo di Fabbrica Italiana Contadina, nasce ancora una volta dall’intuizione del vulcanico quanto istrionico Oscar Farinetti, inventore del format Eataly, che viene qui declinato in un vero e proprio museo esperienziale ed emozionale dei prodotti enogastronomici del Bel Paese, anche a misura di turisti e famiglie. A differenza di un parco divertimenti (la definizione non sconvolge il patron Farinetti «l’importante è che la gente ci venga per toccare con mano questa splendida realtà») a Bologna prevale il mondo reale e si ha la possibilità di seguire in diretta 40 lavorazioni dei prodotti che ogni giorno tutti noi mangiamo. Una crescita culturale e un’esperienza unica, con fabbriche in miniatura che permettono di seguire a vista, “dal campo alla forchetta”, tutte le fasi della produzione, dalla fava di cacao alla tavoletta di cioccolato, dal grano alla farina macinata in sacchetto, dal latte alla forma di Grana Padano (se ne producono due ogni giorno), dall’albero alla liquirizia confezionata, è così per oltre 40 prodotti di consumo quotidiano. Chiaro che, anche solo per una questione di economie
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di scala, non è stato possibile avere tra i partner i piccoli artigiani, ma aziende più strutturate e comunque di buon livello. Pur essendo un maxi insediamento, Fico Eataly World può però dare spunti e stimoli interessanti ad un commercio al dettaglio in crisi. Qui lo storytelling è un elemento sempre presente per attirare, stupire e ben consigliare il consumatore e rappresenta ancora oggi la miglior risposta alla diminuzione di acquisti nei negozi di vicinato in favore dell’ecommerce. Fico è un esempio da seguire per le attività, che devono cercare sempre maggiormente di porsi in maniera nuova e propositiva agli occhi dei propri clienti. Oggi il consumatore è più preparato ed esigente rispetto a qualche anno fa, tanto da pretendere una spiegazione esaustiva dei prodotti che va a degustare e ad acquistare. Occorrerà insomma puntare sempre maggiormente sull’aspetto esperienziale che scatena emozioni e ricordi, con l’obiettivo di fidelizzare e fornire consigli come valore aggiunto ai nostri clienti. Al ristorante, invece, i commensali sono sempre più curiosi di apprendere e talvolta di “rubare” le ricette dello chef. A Fico si degusta un piatto di pasta fresca mentre a fianco la stanno lavorando le sfogline, con le quali è possibile anche scambiare due parole e apprendere qualcosa di nuovo. Dal punto di vista del marketing, poi, Farinetti si conferma un maestro e riesce grazie alle intuizioni e agli slogan che vengono puntualmente coniati ad attirare migliaia di clienti. Progetto troppo faraonico con i suoi 100mila mq? «Anche quando hanno costruito la stazione centrale di Milano qualcuno diceva che era troppo grande - tuona Farinetti -. Ma provate ad andarci alle 6 di sera e vedrete che non basta alla mole di persone che la frequentano». A Bologna tutto è studiato nei minimi dettagli, a partire dal nome scelto per il parco agroalimentare più grande del mondo. Fico è veramente “fico”, il commento più gettonato per una realtà che è stata pensata come un’Expo permanente. Al momento non ha rivali: occorrerà aspettare l’apertura della Città internazionale dell’alimentazione prevista tra due anni a Lione. Una visita a Fico è naturalmente consigliata. *responsabile Marketing Ascom Bergamo Confcommercio
COS’È FICO
In dieci ettari, il percorso del cibo dal campo alla forchetta Con 100.000 metri quadrati dedicati alla biodiversità e all’arte della trasformazione del cibo italiano, progettati dall’architetto Thomas Bartoli, Fico, a Bologna, zona fiera, è il più grande parco al mondo dedicato all’agroalimentare. Il progetto è promosso dal Comune di Bologna con Fico Eataly World - la società di gestione del Parco -, la Fondazione Fico per l’Educazione alimentare e alla Sostenibilità, Prelios Sgr, che ha istituito e gestisce il Fondo Pai (Parchi agroalimentari italiani) per la sua realizzazione, e con Caab - Centro Agroalimentare Bologna. Aperto dallo scorso 15 novembre ha una previsione di 6 milioni di visitatori l’anno. Gli altri numeri che lo descrivono sono i 700 posti di lavoro creati, più l’indotto, i due ettari dedicati a campi e stalle all’aria aperta, con più di 200 animali e 2.000 cultivar, gli otto ettari coperti che ospitano 40 fabbriche alimentari in funzione, 40 luoghi ristoro, dai bar fino ai chioschi di cibo di strada e ai ristoranti stellati, e ancora botteghe e mercato, aree dedicate allo sport, ai bimbi, alla lettura e ai servizi, sei aule didattiche, sei grandi “giostre” educative, teatro e cinema. A questo si aggiunge un centro congressi modulabile da 50 a 1000 persone. Per capire la trasformazione alimentare è possibile la visita alle fabbriche contadine che mostrano la produzione e la lavorazione di carni, pesce, formaggi, pasta, olio, dolci e birra. Per imparare, ci sono sei “giostre” educative dedicate al fuoco, alla terra, al mare, agli animali, al vino e al futuro. Per divertirsi e imparare sono disponibili 30 eventi e 50 corsi al giorno tra aule, teatro, e spazi didattici per bambini e adulti. L’ingresso è gratuito e il parcheggio è gratuito per due ore. Il parco è collegato alla stazione centrale di Bologna dalla neonata linea F Fico bus con biglietto a/r a 7 euro e un tragitto di circa 20 minuti.
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IL RICONOSCIMENTO
La guida Michelin incorona il ristorante di San Paolo d’Argon, riaperto nel 2015 dallo chef Umberto De Martino. «È stata dura risollevare il locale, ora comincia un nuovo capitolo». «I miei piatti? Non sono stressati dalla ricerca della perfezione»
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La Stella arriva al Florian Maison, «ripagati di sacrifici e difficoltà» on ho ancora realizzato di aver raggiunto un così bel traguardo, ci sono però le e-mail, le prenotazioni, le richieste di collaborazione, di preventivi che arrivano come non mai a dirmi che la stella Michelin è una realtà». Il riconoscimento della Guida rossa, arrivato lo scorso 16 novembre al teatro Regio di Parma portando a dieci i ristoranti stellati in Bergamasca, segna un netto “prima” e “dopo” al Florian Maison di San Paolo d’Argon. Lo chef Umberto De Martino non fa mistero delle difficoltà che ha incontrato da quando, nel marzo 2015, ha riaperto il ristorante resort appoggiato sulle colline all’imbocco della Val Cavallina, varato con parecchie ambizioni nel 2012 dalla gestione precedente e tramontato in pochi mesi portandosi dietro lo stigma del grande flop. «È stata dura far capire che eravamo un’altra cosa – ricorda -, i clienti ce li siamo dovuti conquistare uno ad uno, scontrandoci anche con una non celata diffidenza da parte dei colleghi. La Stella è arrivata a chiudere questo capitolo della storia, non solo nostra ma del locale». Tanto è vero che ora la responsabilità di dimostrare di meritarsi il titolo non pare poi così gravosa. «Certo, l’impegno sarà organizzare bene il servizio per non deludere le aspettative, che sono grandi – rileva –, ma prima la sforzo era doppio perché, oltre a convincere con la cucina, dovevamo pensare a come fare arrivare i clienti». In quel plurale c’è la compagna Monia Remotti, supporto appassionato e tenace della sua carriera. Sorrentino, classe 1974, ai fornelli da quando aveva 15 anni, un ricco bagaglio di esperienze maturate nelle cucine del Sud e
del Nord Italia e in Germania, De Martino prepara piatti raffinati che esaltano le materie prime, a cominciare dal mare e dai prodotti della terra d’origine. «Come descrivere i miei piatti? Non stressati – l’originale definizione -. Non sono per l’esasperazione della perfezione, anche “l’imperfezione” ha il suo perché. La cucina è bella perché ha delle sfumature, come le persone, che non sono tutte uguali. I miei piatti rispecchiano ciò che sono, accogliente e disponibile con tutti e non certo uno che in cucina grida e risponde a muso duro». Per rappresentarsi sceglie il risotto, «perché non puoi mai lasciarlo solo, cuoce lentamente sotto il tuo controllo», una ricetta del nord che rende sua con gli agrumi: «I limoni li mangiavo crudi a merenda, tagliati e cosparsi di zucchero, i sapori con cui si cresce si portano dietro», afferma. Posizione con vista, circondato dal verde, ambiente elegante, Florian Maison ha 13 tavoli per 35-45 coperti. Lo staff è composto da otto persone, cinque in cucina e tre in sala. Sorge in una cascina ristrutturata dove sono state ricavate anche sei suite. La sua Stella si aggiunge alle tre di Vittorio, che resta una delle cucine più blasonate d’Italia, e a quelle, tutte confermate, di Frosio (Almè), Antica osteria dei Camelì (Ambivere), Casual (Bergamo), Il Saraceno (Cavernago), A’anteprima (Chiuduno), LoRo (Trescore), San Martino (Treviglio), Osteria della Brughiera (Villa d’Almè). a.f.
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PROTAGONISTI di Laura Ceresoli
Il cheese bar dell’anno? È in Valle Imagna
Pierluigi Dolci e la moglie Michela
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er Pierluigi Dolci affinare formaggi è una sorta di alchimia. Tra le montagne della Valle Imagna dà vita a piccole creature casearie che respirano, maturano, crescono. E poi sperimenta nuovi abbinamenti con erbe, vini e spezie per rendere i suoi prodotti sempre più golosi e appetibili. Ciò che ne deriva è una chimica unica per il palato, capace di sorprendere anche gli intenditori più esigenti. Che il suo lavoro sia speciale lo ha capito anche il pool di esperti che lo scorso 21 ottobre, in occasione della manifestazione “Forme”, ha eletto “Miglior cheese bar dell’anno” il suo locale di Sant’Omobono Terme, nel corso dell’Italian Cheese Award a Palazzo della Ragione di Città Alta. «Il Cheese Award è arrivato come un fulmine a ciel sereno – racconta Dolci –. Mi avevano detto che si poteva restare nei propri stand
L’Italian Cheese Award 2017 a Pierluigi Dolci, ambulante diventato affinatore, che a Sant’Omobono affianca alla bottega uno spazio degustazione, già prenotato fino a marzo. «I clienti hanno solo l’obbligo di stare in silenzio per un minuto per ascoltare la spiegazione dei miei formaggi»
anche fino alle 9 di sera e quindi non avevo minimamente preso in considerazione l’ipotesi di partecipare alla premiazione. Invece, a un certo punto, gli organizzatori mi hanno consigliato di fare un salto al Palazzo della Ragione per la cerimonia. Vista l’insolita insistenza, all’ultimo momento mi sono deciso ad andare e, con mia grande sorpresa, ho vinto. Quando sono salito sul palco per ritirare il premio puzzavo ancora di formaggio». Qualche settimana dopo, a Milano, ha invece ricevuto il riconoscimento dal Golosario Bell’Italia 2018, il vademecum delle mille e più cose buone curato da Paolo Massobrio dove l’affinatore è presente dal 2013, così come sulla guida di Gambero Rosso Italia. L’amore di Pierluigi per i prodotti caseari viene da lontano. Fin da bambino aiutava suo padre nella sta-
gionatura dei taleggi e si divertiva a far rotolare le forme di Padano e Reggiano in cortile. La sua bottega, “Gigi Salumi, Formaggi e Vini”, oggi rappresenta la terza generazione di formaggiai iniziata con il nonno Vittorio, fino al 1950, per poi prose-
dicembre 2017 guire con il papà Pietro fino al 1985. Nel 1988 Pierluigi è diventato formaggiaio a tutti gli effetti con servizio ambulante. Poi, nel 2000, ha aperto con la moglie Michela un’attività alimentare in proprio a Sant’Omobono Terme. «Prima io facevo l’ambulante e mia moglie stava in negozio – spiega –. Ma nel 2001 ho cominciato a lavorare e stagionare i formaggi tipici del nostro paese affinandoli con erbe, vini e aceti balsamici. Ben presto ho sentito la necessità di far conoscere queste mie creazioni alla gente, unendo la mia abilità nella produzione di formaggi con la passione per il vino di mia moglie. Così nel 2009 è nata l’idea di adibire un’area della nostra bottega a enoteca e sala di degustazione, dove poter assaggiare formaggi, salumi e vini». Oggi, nonostante la crisi, il cheese bar di Pierluigi e Michela non manca di riscuotere consensi, al punto che è impossibile trovare un posto libero fino a marzo. Tuttavia, soprattutto agli esordi, non è stato semplice affermarsi in una valle così isolata: «Come tutti abbiamo dovuto lavorare sodo per trovare una formula di successo. All’inizio avevamo pensato a una sala con tavoloni lunghi dove condividere un happy hour seduti in amicizia. Abbiamo però capito che ai bergamaschi non piaceva molto questa filosofia di mangiare tutti insieme come avviene in Germania o in Austria. Si sedeva uno, si alzavano gli altri. Così abbiamo sistemato tavolini più piccoli per le degustazioni. Ora abbiamo una saletta con una ventina di posti dove ai clienti vengono proposte cinque portate». Le degustazioni avvengono solo su prenotazione, il venerdì e il sabato a cena e la domenica a pranzo. Il menù prevede: lingue di suocera con burro e sale; polentine abbrustolite con Gigetto al vino rosso; selezione di 10 tipi di salumi tra cui prosciutto cotto, crudo di Parma, pancette affumicate e speck; carpaccio di porchetta tiepida; orologio di 12 formaggi e infine formaggio alla piastra. Da Gigi di possono trovare più di 100 tipi di prodotti caseari. Ricca anche
la carta dei vini con oltre 400 etichette delle migliori cantine italiane, vini francesi, birre, whisky, Cognac, Armagnac, grappe e rum. «Il menù non è rigido – precisa –. Di tanto in tanto inseriamo qualche variazione a seconda della nostra fantasia e della stagione. Il dolce è l’unico prodotto che non cuciniamo direttamente noi. Il caffè viene servito con biscotti secchi sfornati da una pasticceria qui vicino. Sotto Natale invece proponiamo il panettone artigianale, ma non lo servo mai con salse o mascarpone per non coprire il gusto». Già, perché Pierluigi Dolci è un cultore della tradizione e dei sapori antichi. Quindi, se siete un po’ modaioli e seguite il filone di chi al formaggio abbina miele e confetture, pensateci due volte prima di chiedergli una composta di cipolle o una marmellatina di fichi da accostare al suo Gigetto: «Secondo me il formaggio va gustato da solo per assaporarlo al meglio – esclama –. Un prodotto particolare non ha bisogno di altre aggiunte perché si coprono i sapori anziché esaltarli. Questo è il consiglio che do al cliente, poi se insiste per spalmare marmellate sul formaggio faccia pure. Ho una vasta selezione di confetture e alla fine gliele servo comunque, anche se devo ammettere che storco il naso e lo faccio sentire un pochino in colpa». Insomma, il segreto del successo di Gigi non si cela dietro gusti alternativi che stupiscono o che seguono il trend del momento. E nemmeno dietro battage pubblicitari o tamtam su Internet. «Non ho mai fatto grande propaganda - sottolinea -, tutto si basa sul passaparola. La migliore pubblicità ce la fa la gente che viene a mangiare poi porta amici e così abbiamo sempre il locale pieno. I clienti hanno solo l’obbligo di stare in silenzio per un minuto per ascoltare la spiegazione dei miei formaggi, mi piace infatti rendere gli ospiti consapevoli di quello che mangiano». Nel frattempo, non ha mai smesso di testare nuovi sapori. Il suo gioiello di punta è il Gigetto, che prende spunto dal suo nome, così come la Michelina deriva da quello di sua mo-
Il Gigetto alle erbe, fiore all’occhiello della proposta glie Michela: «Molti esperimenti sono nati per caso, compio tante prove per capire se il risultato finale possa piacere o meno – rivela –. In questo periodo sto provando un nuovo abbinamento ovvero il Gigetto Felix che è composto da una base di Quartirolo lombardo addizionato con canapa. La base in genere è il classico taleggio, cui aggiungo ingredienti che prendono ispirazione dai sapori della tradizione orobica. Il “Gigetto alle erbe” è stato il mio primo formaggio in ordine di affinamento, nel 2004, e ancora adesso è il mio fiore all’occhiello, forse perché è stato quello che ha dato il via alla mia vita di affinatore. Ha un sapore deciso che sprigiona un profumo pepato grazie a un mix di erbe aromatiche e fiori. Poi è nato il Gigetto al Valcalepio perché mi sono ricordato che i miei nonni preparavano la minestra con il vino rosso. Quello aromatizzato all’aceto balsamico, invece, l’ho pensato perché l’insalata viene condita con l’aceto e quindi poteva essere un abbinamento perfetto per un formaggio. Molto amato dai clienti è anche il Gigetto rosa e rosmarino. La stagionatura viene fatta in casse di legno oppure in ambienti molto umidi. Sta al buon senso capire i tempi giusti per la stagionatura - afferma -, molto dipende dalle condizioni meteorologiche e dal grado di umidità. Ho imparato il mestiere da mio padre ma anche da altri stagionatori. Nel nostro lavoro non c’è una regola fissa, ci si basa molto sull’esperienza».
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L’INIZIATIVA A Camerata Cornello la seconda edizione del Convivium ideato da Andrew Regazzoni per promuovere un più stretto legame tra tipicità e cucina
Valle Brembana, la cena delle eccellenze fa incontrare chef e produttori Andrew Regazzoni e Tatiana Galbusera, che ha condotto la serata
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ndrew Regazzoni, chef brembano in forza al ristorante Il Forno di Brembilla e componente dell’Associazione cuochi bergamaschi, ha un obiettivo che porta avanti con cuore e determinazione: mettere in contatto i produttori della Valle con i cuochi e i ristoratori locali perché diventino i primi promotori delle bontà del territorio, contribuendo a tenere vive le aziende e l’economia in zone dove è spesso difficile persino resistere. Lo ha fatto creando lo scorso anno un nuovo raviolo, il Capel de Monega con ricetta registrata alla Camera di Commercio che racchiude i prodotti locali, e con il Convivium Eccellenze Valle Brembana, una cena nella quale chef e produttori si ritrovano alla stessa tavola. La seconda edizione si è tenuta al ristorante La Baracca di Camerata Cornello ed ha messo ai fornelli Ezio Gritti, che dopo l’esperienza a Bali ha aperto sul Sentierone ed è tornato a vivere in Val Brembana, e Andrea Tiziani, 23enne di Mozzo portacolori del team junior della Nazionale Italiana cuochi. A loro è stato chiesto di esaltare i prodotti locali con un primo e un secondo mentre i cuochi brembani Acb hanno curato il buffet di benvenuto “Finger food Berghem” e il dolce. Ampia la scelta delle materie prime grazie alla partecipazione di oltre trenta aziende che, messe tutte insieme (qui il valore dell’iniziativa), hanno composto un paniere davvero ricco di sapori (e di storie imprenditoriali fatte di corag-
Qui la galleria fotografica della serata (immagini di Baldovino Midali)
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gio, ricerca e innovazione). D’accordo i formaggi – dei quali la Valle è regina, dalle Dop ai Presidi Slow Food passando per i caprini e la novità del formaggio stagionato in miniera, a Dossena -, il miele, le confetture, i salumi, espressioni tipiche dell’agricoltura montana, ma ci sono anche il latte d’asina, la carne grass-fed, ovvero di capi nutriti a erba e fieno, di bovini di razza Highland, le mele, la frutta e la verdura biologiche, la frutta disdratata, i prodotti da forno con farine selezionate, le salse a base di erbe, lo zafferano, il tartufo, le birre e l’idromele. Territoriale anche il servizio in sala e in cucina, con gli allievi dell’Istituto alberghiero di San Pellegrino e non hanno fatto mancare il proprio sostegno nemmeno la Comunità montana, l’Ascom e la presidenza dell’Associazione cuochi bergamaschi. «L’iniziativa vuole far conoscere le numerose eccellenze presenti in Val Brembana agli chef e ai ristoratori – ricorda Regazzoni – e soprattutto invitarli ad utilizzarli nei loro menù perché sono di qualità, naturalmente, ma anche perché in questo modo si offrono tipicità e identità ai turisti e si dà una mano un’economia in difficoltà. Il Convivium mette in gioco tre ingredienti: le aziende, gli chef e la rete, perché è dalla collaborazione che tutti ricevono più forza». Da gennaio, invece, riprenderà il tuor nei locali per la degustazione del raviolo “brevettato”.
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SAPORI & TERRITORI
Un’Isola di gusto T
I 21 Comuni tra il Brembo e l’Adda puntano sull’enogastronomia per sviluppare l’attrattività turistica. Al centro la rinascita del mais Nostrano, i prodotti di 17 aziende e menù a chilometro zero. In campo Promoisola e Distretto dell’Attrattività: «Ora è fondamentale coinvolgere negozi e ristoranti»
ra il Brembo e l’Adda la promozione del territorio passa dal mais “dell’autentica polenta bergamasca” e dagli altri prodotti dell’agroalimentare. Sono questi i testimonial che hanno messo d’accordo tutti e 21 i Comuni che compongono il Distretto dell’Attrattività dell’Isola Bergamasca, l’organizzazione che, secondo il programma della Regione Lombardia, riunisce le imprese, i Comuni, le associazioni di categoria nella realizzazione di progetti integrati per lo sviluppo commerciale e turistico. Bene perciò il sito Unesco di Crespi d’Adda, il richiamo religioso di Sotto il Monte, le ville, i castelli, il percorso sul fiume e le altre mete storiche, culturali e architettoniche, ma per catturare al meglio l’interesse dei visitatori, rinnovare l’attenzione da parte dei residenti e offrire opportunità di sviluppo miffuse per le attività si è deciso di puntare sulle bontà locali, tanto più che oggi, nell’era dei food lovers e dei ricercatori del gusto, si tratta di un settore più che mai attrattivo.
SAPORI & TERRITORI IL menù
Il compito di mostrare le potenzialità dei prodotti dell'Isola è stato affidato allo chef Graziano Foresti del ristorante La Corte del Noce di Villa d’Adda (al centro della foto, con lo staff della serata), nella cena che ha presentato il progetto. Il suo "Menù dell'Isola" si è mosso tra salumi, formaggi e carne delle aziende locali, piatti della tradizione come i capù e nuove proposte come lo scrigno dell’Isola, fagottino di farina di castagne, funghi porcini, patate e caprini. Declinato in forma di polenta, crostino o biscotto, il mais Nostrano ha superato a pieni voti la prova, regalando il profumo e il gusto schietto del cereale “di una volta”. Fulcro del progetto è un vero e proprio campione, il mais Nostrano dell’Isola, varietà che fino agli anni Cinquanta era la più diffusa in tutto il Nord Italia per la preparazione della polenta alla bergamasca, quella consistente e profumata, per intendersi, simbolo della cucina orobica, da qui lo slogan “Buono, come una volta” che accompagna logo. La semente è stata conservata in purezza dall’agronomo Marco Bertolini e attraverso un percorso partito cinque anni fa, e rafforzatosi in occasione dell’Expo, è cominciata la rinascita, con tanto di miglioramento genetico attraverso la collaborazione con il corso di Operatore agricolo dell’Engim di Valbrembo, con attività laboratoriale a Brembate Sopra. Il mais Nostrano dell’Isola cresce oggi su tre appezzamenti per un totale di circa tre ettari, coltivato dalle aziende Tironi di Brembate e Bonzi di Carvico. L’essiccatura e la molitura avvengono al mulino Pennati di Medolago dove è
possibile acquistare le farine e le gallette di mais, croccanti snack triangolari senza glutine. Si producono farina semintegrale, farina bramata, ossia con molitura di dimensione medio-grossa della granella, ideale per la polenta bergamasca, e farina fioretto, di grana fine, utilizzata per i dolci e gli impasti. Il prezzo di vendita è attorno ai 2,50 euro al chilo. Dalle farine e dal mais sono già nati altri prodotti: oltre alle già citate gallette, i biscotti “i santissimi” - creati dal ristorante La Corte del Noce di Villa d’Adda, utilizzando, insieme alla farina di Nostrano, farina di castagne e miele dell’Alveare di Bonacina – e una ciambella ispirata alla “smaisa”, antico dolce a base di farina gialla, preparata dalla pasticceria Giove di Ponte San Pietro. C’è persino una birra, Amais, ideata dal birrificio Maspy di Ponte San Pietro. La disponibilità di materia prima è ancora limitata. Quest’anno, al secondo raccolto, sono stati prodotti circa 20 quintali
IL NOSTRANO
Salvato da un agronomo, è il mais della polenta bergamasca Il mais “Nostrano Isola Bergamasca” è una varietà tipica dell’Isola introdotta più di cento anni fa dai nobili Guido Finardi e Alessandro Roncalli nell’area compresa fra i villaggi di Chignolo, Madone, Bottanuco, Suisio e Medolago. Fu oggetto di studio da parte della Stazione Sperimentale di Maiscoltura di Bergamo e nel 1936 la selezione ottenne il marchio governativo “semente eletta di mais” e si diffuse rapidamente in Lombardia e nel Nord Italia. La sua conservazione sino ad oggi si deve alla lungimiranza del direttore della Stazione di Maiscoltura, Luigi Fenaroli, che nel Dopoguerra, di fronte all’arrivo dei mais ibridi da
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Oltreoceano, diede il compito ai propri collaboratori di tenere in vita, riproducendole, le 560 specie italiane. Ad incaricarsi del Nostrano, oltre che di altre varietà, l’agronomo di origine trentina Marco Bertolini, per 40 anni in forza al centro, che ne ha permesso il recupero e ne sta supervisionando il miglioramento genetico. A lui è andato il Premio Eccellenza dell’Isola Bergamasca, giunto alla quinta edizione, e consegnato al Castello di Solza nella serata di presentazione del “Menù dell’Isola” . Il Nostrano dell’Isola ha un seme vitreo, che dà farine con caratteristiche organolettiche di maggiore pregio
rispetto agli ibridi, più produttivi ma teneri e poco saporiti. Ha una colorazione giallo-arancio intensa, contiene infatti betacarotene e antiossidanti,
A Marco Bertolini, l’agronomo che ha conservato e riprodotto la semente del Nostrano, il Premio Eccellenza dell’Isola Bergamasca
dicembre 2017 di mais, anche per via della siccità che ha ridotto le rese. «Si tratta di un ambito ancora poco più che sperimentale», precisa Guido Bonacina, vicepresidente di Promoisola, l’associazione che da vent’anni si occupa di promozione del territorio e che ha avviato la riscoperta del mais. «Vogliamo procedere per gradi – spiega -. Da un lato garantire la qualità del prodotto, dall’altro dare la certezza di sbocchi commerciali a chi lo coltiva. Il primo punto si sviluppa attraverso un disciplinare di produzione rigoroso, i campi infatti devono essere isolati perché non si verifichino contaminazioni genetiche e sono previste precise prassi agronomiche. Contemporaneamente stiamo lavorando alla promozione e al coinvolgimento gli operatori commerciali e dell’ospitalità per offrire reali opportunità ai produttori e creare una filiera di valore sul territorio». «Tra gli eventi ai quali saremo presenti – annuncia – l’eccezionale traslazione a Sotto il Monte della salma di Papa Giovanni XXIII, il prossimo anno». A rendere ancora più ricca l’offerta enogastronomica ci ha pensato il Distretto dell’attrattività che, attraverso i fondi ottenuti con un bando regionale, attorno al mais ha raccolto altre produzioni “Made in Isola”: vini, carne, formaggi, salumi, confetture, miele e farine di 17 aziende. «Si vuole creare un brand dell’Isola – ha evidenziato Roberto Ghidotti, responsabile Ascom dei distretti in occasione della presentazione del primo “Menù dell’Isola” lo scorso 7 novembre –, generare attrattività turistica attraverso i prodotti dell’enogastronomia. Siamo partiti dai produttori, ora ci rivolgiamo alla ristorazione e alle attività commerciali, è attraverso questi canali, infatti, che vini e cibi a chilometro zero possono arrivare ai consumatori e ai visitatori». «Cinque anni fa – ha ricordato il presidente di PromoIsola Silvano Ravasio – abbiamo cominciato a parlare di mais, ora abbiamo una bella lista di eccellenze che ci permette, ad esempio, di partecipare alle iniziative che la Regione Lombardia dedica al turismo enogastronomico e di presentare la nostra offerta agli influencer del web. Sono inoltre nate collaborazioni importanti, come quelle con le scuole, l’Engim di Valbrembo e la Fantoni di Bergamo che invece ha curato il logo. E ci sono le basi per continuare a far crescere il coinvolgimento».
I produttori Azienda agricola La Colombera Sotto il Monte Giovanni XXIII formaggi, salumi, vini L’Alaveare di Bonacina Roberto Sotto il Monte Giovanni XXIII miele biologico e derivati, confetture, vini Agriturismo Cascina Baccia Filago carne, salumi, farina Agriturismo Casa Clelia Sotto il Monte Giovanni XXIII confetture Azienda agricola Micheli Morris Sotto il Monte Giovanni XXIII carni e salumi Azienda agricola Sant’Egidio Sotto il Monte Giovanni XXIII vino, olio, grappa Azienda agricola Bolognini Cristiana Mapello salumi e vino Vini Pressiani Angelo Villa d’Adda vino Azienda agricola Scotti Mapello vini, farine e foiade, miele e marmellate Azienda agrituristica Cascina Rigurida Villa d’Adda salumi e vino
ha un gusto marcato, aromaticità ed alta digeribiltà. È il mais, insomma, della “vera” polenta bergamasca. Le analisi hanno inoltre riscontrato una presenza di aflatossine di gran lunga inferiore ai limiti di legge, aspetto non trascurabile di fronte all’aumento delle contaminazioni principalmente a causa dell’innalzamento delle temperature. La rusticità della pianta la rende adatta alla coltivazione biologica. Attraverso il protocollo d’intesa siglato tra Promoisola e Engim Lombardia, gli studenti del corso di Operatore agricolo si occupano, in un campo sperimentale isolato, della riproduzione controllata e del miglioramento genetico del prodotto.
Vengono cioè autofecondate le piante migliori, per resa, qualità della granella, ma anche sviluppo dell’apparato radicale, così da resistere meglio alla siccità, e capacità della fusto di rimanere eretto, salvaguardando la qualità e la salubrità delle pannocchie. Per accelerare il processo, i semi vengono inviati in Cile dove la controstagione permette di far crescere le piante quando nel nostro emisfero è inverno e realizzare perciò due selezioni in un anno. Ad oggi sono già stati effettuati cinque di questi miglioramenti. I semi così ottenuti vengono forniti agli agricoltori con la garanzia, perciò, che si tratti sempre della varietà selezionata.
Azienda agricola Enrica Tosi Filago formaggi caprini Azienda agricola La Rossera Villa d’Adda vino e olio Azienda agricola Tassodine Villa d’Adda vino Azienda agricola La Ca’ Villa d’Adda vino Hammer Beer Villa d’Adda birra Birrificio Maspy Ponte San Pietro birra con mais nostrano dell’Isola Molino Pennati Medolago farine
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LA PROPOSTA
WinterMoon, il mistero dell’inverno in una birra L’etichetta stagionale del birrificio Otus di Seriate ha toni dolci e suadenti per scaldare i pensieri in questo periodo dell’anno. Rappresenta alla perfezione la filosofia aziendale, come il gufo, enigmatico e saggio, del marchio
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a storia della birra è, come già sappiamo, intrigante e ci può forse insegnare ad apprezzarla di più, anche in occasioni come le prossime festività natalizie. Non a caso, da più secoli, i mastri birrai del nord hanno elaborato birre in grado di festeggiare degnamente questa particolare ricorrenza. Le birre invernali, e nello specifico quelle di Natale, sono un’antica tradizione, tipica di alcune regioni del Nord Europa. Hanno trovato una larghissima diffusione, in particolare, in Belgio fin dall’800. Da diversi anni, però, si realizzano birre invernali anche in altri paesi europei come ad esempio la Germania dove la cultura brassicola non è sicuramente da meno di quella belga. Comunque sia, queste birre rientrano nella vasta categoria delle etichette stagionali e possono considerarsi una sorta di birre ad edizione limitata, dal momento che non si possono ripresentare al consumatore perfettamente uguali a quelle dell’anno precedente. Anche il birrificio Otus di Seriate, da un paio d’anni, ha pensato di realizzare una birra che permette di percorrere la complessità della stagione invernale. Così, con toni dolci e suadenti, nella WinterMoon, il gufo, emblema del birrificio
bergamasco, e la luna permettono di addentrarsi nell’atmosfera di questo periodo dell’anno: accompagna i pensieri scaldandoli, per arrivare nel profondo del mistero della vita e dei sogni dell’uomo. «È esattamente questo che fa un bravo birraio - spiega Ruben Agazzi, amministratore delegato del birrificio Otus -, intuisce, sperimenta, verifica, corregge e rifinisce, in un ciclo senza fine, unendo creatività e rigore tecnico. Si confronta con gli altri produttori e lavora immaginando il momento in cui il consumatore, alzando il bicchiere, sarà sedotto dal colore, dalla schiuma e dal profumo e poi la sua sorpresa al primo sorso». A cavallo tra una Golden Strong Ale ed una Dubbel, WinterMoon è una birra in stile belga, di corpo e di complessità ma moderatamente forte. La sua peculiarità è svelata nello sprigionarsi di un carattere maltato, ricco e complesso, avvolgente, con un finale dal taglio secco che aiuta a mediare i toni dolci. Con profumi di vaniglia e banana, i classici aromi dello stile belga, lascia emergere toni più delicati dei malti che richiamano la frutta rossa sotto spirito. È una birra decisamente elegante, complessa ed al tempo stesso bilanciata. Le materie prime utilizzate sono i malti Pils,
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Vienna, Caramber, Cararoma, Aromatic a cui aggiungere zucchero candito, Saaz, Hersbrucker, Perle. È una birra ad alta fermentazione, da un amaro moderato (21 IBU) e dal grado alcolico che titola 6,8. La schiuma è fine e compatta, aderente e persistente. L’aspetto è ovviamente leggermente velato per la presenza dei lieviti. Il colore è giallo oro intenso con riflessi aranciati (18 EBC), al naso si percepiscono in modo deciso i profumi dei malti utilizzati, mentre spiccano i sentori di luppolo usati che ricordano frutta tropicale e frutta secca, leggermente tostata. In bocca sorprendono la sua morbidezza e rotondità. Di corpo strutturato, al palato è ben equilibrata. Aromaticamente è molto fine e gradevole, dalla marcata persistenza. Questa birra incarna completamente la filosofia aziendale: l’alone enigmatico che attornia il gufo è riconducibile ad un tempo remoto, è un animale ancestrale e notturno e la notte è da sempre la dimensione in assoluto più misteriosa agli uomini. La sua grandiosa abilità di vedere nelle tenebre e di distinguere ciò che gli altri non riescono è correlata indissolubilmente alla saggezza, ovvero alla capacità di percepire ciò che altri non vedono, l’invisibile. Il gufo è spesso associato alla luna, che abita la notte. Bianca. E fredda. Così appare la luna invernale, nitida perché stagliata contro un cielo blu scuro più del solito, nel periodo dell’anno in cui il buio accompagna la vita per la maggior parte del tempo su questa parte della terra. Anche il cielo diventa carico e pieno di stelle e pianeti, che emergono nitidi dal fondo cupo tanto da sembrare più vicini, da poterli toccare. Da questa interpretazione prende vita l’immagine della WinterMoon: la luna appare ancor più viva e lucente, nel bosco spoglio e fosco si può intravvedere la sua luce tra i rami degli alberi, come compagna di viaggio nelle giornate e nelle serate invernali. Ed anche il gufo, guardiano della notte e del bosco tenebroso, si lascia accompagnare dalla luce biancastra e opalescente per scorgere la vita laddove tutto sembra inabitato e silenzioso. WinterMoon è disponibile in bottiglia da 75 cl e in fusto PolyKeg da 24 litri.
Birrificio Otus srl via Fonderia Rumi, 7 24068 Seriate (Bg) tel. +39 035 296473 info@birrificiootus.com www.birrificiootus.com
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VINI I consigli del distributore per bere bene nel periodo più spumeggiante dell’anno
Feste, ad ogni occasione la sua bottiglia Pranzi, cenoni e meeting aziendali si avvicinano e se l’attenzione al menù è altissima non si possono trascurare gli abbinamenti coi vini. Giuseppe Betti, consigliere del Gruppo Grossisti Vino e bevande dell’Ascom, imprenditore della storica azienda di Cividate al Piano specializzata dal 1929 nella distribuzione, aiuta a districarsi nell’impresa, con un occhio attento al rapporto qualità-prezzo. Ecco i consigli giusti per ogni occasione, dal brindisi informale con gli amici al cin-cin di Capodanno.
Vigilia di Natale
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Se la tradizione del cenone della Vigilia appartiene più al sud d’Italia, un grande vino del Nord, delle nebbie delle Langhe come l’Arneis Doc sorprende sempre, abbinato a qualsiasi ricetta di mare. Crudi di pesce e affumicati, crostacei e piatti con frutta secca si sposano bene all’aromatico Gewürtztraminer, un vino che può essere anche scelto dagli appassionati a tutto pasto.
Vini importanti, ma senza spendere un patrimonio, per il tradizionale pranzo che riunisce attorno al tavolo parenti e amici più stretti. Il Valpolicella Ripasso Doc si sposa bene per struttura e piacevolezza a primi e secondi di carne. Chi opta per un menù con specialità di mare può puntare su un vino bianco inconfondibile, rigoroso e di grande classe come il Lugana Doc o su un grande vino cam-
Il Cipresso, svolta biologica nel 2018
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na nuova cantina e un obiettivo preciso: dal 2018 produrre solo vini biologici. Ha le idee chiare l’Azienda agricola Il Cipresso che dal 2003, anno di fondazione, continua a crescere e a investire nella propria attività valorizzando la vigna di Moscato di Scanzo di oltre 25 anni sulle colline soleggiate e ventilate della Tribulina di Scanzorosciate. L’azienda, che ha sede in una casa del Seicento totalmente ristrutturata, può contare, dalla fine di ottobre, su una nuova struttura operativa progettata secondo i criteri più avanzati per arrivare sempre più in alto nella qualità della vinificazione e dell’invecchiamento. Unisce il fascino architettonico al rigore tecnico funzionale. Ordine e igiene assoluta caratterizzano sia i locali adibiti alla pigiatura e alla vinificazione sia quelli per l’invecchiamento in grandi botti di rovere o in barrique. Il moderno impianto di appassimento a temperatura e umidità controllata consente di mantenere gli aromi primari delle uve del Moscato, che così giungono autentici fino al palato. Accanto alla cantina è stato allestito
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un nuovo spazio espositivo in cui è possibile degustare e acquistare tutti i vini, incluso l’ambito Moscato di Scanzo Serafino. «La nostra è un’azienda familiare di picco- L’inaugurazione della nuova cantina le dimensioni in cui ognuno ha un preciso ruolo, mio marito si occupa della vinificazione e della vigna, con il supporto di due ottimi collaboratori, mentre mio figlio gestisce gli aspetti amministrativi e commerciali. Inoltre ci avvaliamo della consulenza dell’enologo Sergio Cantoni. Abbiamo investito nell’azienda agricola perché amiamo la particolarità del terroir di Scanzorosciate e siamo convinti che i vini di questo splendido angolo di Bergamasca siano destinati all’eccellenza. Dal 2018 tutti i nostri vini saranno biologici». Angelica Cuni rac-
dicembre 2017 pano come il Fiano di Avellino Doc. Indecisi tra carne e pesce o in cerca di un vino versatile che può accompagnare tutto il pasto? Stappate un Chiaretto del Garda Doc perfetto su carni bianche, appaga anche a fianco di antipasti di pesce.
San Silvestro Per il brindisi di Capodanno non possono mancare le bollicine, orgogliosamente italiane: con un Franciacorta Saten l’anno inizia con il botto giusto. Chi non vuole strafare può puntare su un grande classico: le bollicine del Trentino Trento Doc o nelle versioni più ricercate pas dosè e riserva. Non si tradisce comunque mai la patria, stappando una bottiglia di Champagne per salutare il 2017 con un brindisi sempre di classe, oltre che classico.
Brindisi con colleghi e amici
Giuseppe Betti, imprenditore della storica azienda di Cividate al Piano
conta così la sua azienda, la passione e l’impegno profusi insieme al marito Alfonso, al figlio Cristian e alla sua compagna Roxana. Oltre al Moscato di Scanzo, Il Cipresso produce Melardo (Valcalepio Bianco Doc), Dionisio (Valcalepio Rosso Doc), Bartolomeo (Valcalepio Rosso Riserva Doc), Alberico (spumante dolce rosso che si ottiene dalle ricche uve del Moscato di Scanzo Docg) e Celestino (Spumante Brut millesimato metodo classico prodotto con uve di Chardonnay ed Incrocio Manzoni). Infine le grappe Matilde e Antonia, prodotte dalla distillazione delle vinacce del Moscato di Scanzo. Il Cipresso, ad oggi, è l’unica azienda bergamasca che produce vini con tutte tre le Doc del territorio: Valcalepio, Terre del Colleoni e Moscato di Scanzo. Non mancano alcune golosità, come i fini cioccolatini ripieni di grappa di Moscato di Scanzo.
Il contesto è di solito informale, quanto il buffet d’accompagnamento o il classico taglio del panettone in ufficio. L’occasione richiede un vino di facile beva, pronto a mettere d’accordo tutti, anche i quasi astemi, e a evitare improvvisi cali di produttività. La danza dei calici - senza incroci inutili per scaramanzia - può iniziare con Prosecco Extra Dry Valdobbiadene, ideale per ogni occasione. In alternativa, dal vicino Friuli con caratteristiche fresche e immediate, ma di grande qualità, la Ribolla Gialla Brut.
bottiglie da regalare Il vino è sempre un cadeux gradito ed è sempre più gettonato in tempi in cui i regali futili sono messi al bando. I rossi importanti - Amarone, Barbaresco, Brunello di Montalcino, Nebbiolo - vanno per la maggiore. Le bollicine, specialmente nelle versioni Magnum, sono sempre un’ottima e gradita alternativa.
chicche enoiche La ricerca di vini poco conosciuti e non commerciali è un trend in continua crescita. Le feste sono l’occasione per portare in tavola grandi vini come il Taurasi Docg, antichissimo rosso strutturato di origine pre-romana, o il Rossese di Dolceacqua, rosso prodotto nel ponente ligure con richiami mediterranei di macchia di terra e di mare. Da provare, tra i bianchi i marchigiani, Passerina e Pecorino, perfetti per accompagnare sia formaggi che antipasti e aperitivi e il ligure Pigato bianco secco, fresco, fine ed equilibrato, con intensi aromi fruttati e floreali. Laura Bernardi Locatelli
Vitigni resistenti, nasce l’associazione Lombarda. La sede è a Cenate Sopra
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a sede a Cenate Sopra, presso la cantina Le Nove Lune, la nuova associazione Piwi Lombardia che fa riferimento a Piwi International e rappresenta un gruppo di viticoltori che hanno a cuore la filosofia della sostenibilità ambientale. Aziende che da alcuni anni coltivano vitigni resistenti (chiamati Piwi dal tedesco pilzwiderstandfähig che significa viti resistenti ai funghi) che permettono di eliminare del tutto o quasi i trattamenti anticrittogamici. Vitigni che per le loro caratteristiche vengono anche soprannominati “super-bio” e consentono di produrre vini di altissima qualità senza inquinare l’ambiente. L’associazione si è regolamentata con un ristrettissimo disciplinare che impone la conduzione dei vigneti col metodo biologico oltre a limitare le rese e a comprendere solo zone altamente vocate alla viticoltura. «La Lombardia è una regione densamente popolata e i vigneti sono spesso cittadini, a ridosso di case, scuole, fattorie didattiche, piste ciclabili – spiega la neonata associazione -. I vitigni resistenti potranno abbattere quasi a zero l’utilizzo di fitofarmaci con evidenti benefici per la popolazione». I soci fondatori sono cantine bergamasche (oltre a Le Nove Lune, Giuseppe Orsini di Nembro e Frontemura in città), bresciane e della provincia di Sondrio. www.piwilombardia.com
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TRADIZIONI di Leonardo Bloch
La zuppa dei morti e il Natale “noir” degli antenati
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Descritta dal Tiraboschi, un’antichissima vivanda della tradizione bergamasca, a base di cereali, testimonia riti di fine anno molto meno “zuccherosi” di quelli attuali innestata sull’ancestrale ceppo etnografico del l corso delle vicende umane, osservato attraverso ciclo di ricorrenze pagane legate al solstila lente della cultura del cibo, svela tinte zio d’inverno. In particolare, dal 17 al e dettagli che mai potrebbero trapelare 23 dicembre occorrevano i Saturnali dalle più formali trattazioni degli storomani, allestiti per blandire e risoriografi. Uno di questi sorprendenti spingere nell’Ade le divinità dell’olspaccati di vita è evocato da un’antretomba che - si favoleggiava - con tichissima vivanda della tradizione il sopraggiungere dei freddi salivano bergamasca, preparata in occasiodagli inferi per aggirarsi tra i vivenne delle festività di fine anno, da ti. Secondo le antiche credenze, ai cui si ottiene evidenza di un afflato numi dell’aldilà spettava non solo la celebrativo del tutto antipodico a custodia degli spettri dei trapassati, quello che anima le zuccherose corema anche la protezione dell’agro e delografie natalizie dei nostri giorni. le sue messi, nell’atavica consapeNon è mistero - è d’uopo premettervolezza che il ciclo dei raccolti non lo - che la Natività cristiana si sia Il filologo Antonio Tiraboschi
dicembre 2017 potesse essere governato che da chi dimora nel grembo della terra. Allorché la stagione invernale raggiungeva il suo apice, la propiziazione della fecondità delle campagne diveniva dunque - annota acutamente Ignazio Buttitta - oggetto di un contratto che obbligava in egual misura tutti i membri della comunità, vivi e morti. E, come per ogni contratto che si rispetti, la stipula del negozio veniva imperativamente suggellata a tavola, con l’allestimento di un’epula le cui portate erano appositamente codificate. Dagli scritti di Antonio Tiraboschi emerge con evidenza come nel contado bergamasco, non più tardi di due secoli fa, il primigenio tema del culto dei defunti, anche nelle sue consuetudini gastronomiche, continuasse a rappresentare uno dei motivi centrali delle celebrazioni di fine anno. Il filologo riporta infatti l’uso di imbandire nelle case, la sera della vigilia di Natale, un banchetto da lasciarsi intonso sulle mense ad esclusivo beneficio dei componenti trapassati della famiglia, i quali - si vagheggiava - nel corso della nottata avrebbero reso visita alle loro antiche dimore terrene. Non meno evocativa è la zuppa, servita il giorno di capodanno, per la cui preparazione - a rammentarlo è sempre il Tiraboschi - si utilizzava ogni varietà disponibile di grani mangerecci. La valenza simbolica della singolare vivanda, che nella diversità dei suoi ingredienti doveva rappresentare tutte le principali colture praticate, era irrefutabilmente legata alle pratiche votive consacrate agli inscindibili leitmotiv dell’ossequio agli estinti e dell’auspicio di abbondanza delle messi. È del resto indiscutibile che, per via della loro intrinseca connessione con il ciclo di cessazione e rigenerazione della vita, i semi - tanto di graminacee quanto di leguminose - occupassero una posizione di preminenza nei rituali gastronomici di commemorazione dei defunti. Basti pensare alla secolare zuppa di ceci e tempia di maiale che la tradizione milanese riservava al secondo giorno di novembre o ai popolari dolcetti noti come fave dei morti. Evidenze di minestre di cereali affini a quella ricordata dal Tiraboschi affiorano invero nella cucina natalizia di molteplici distretti, in più casi separati da distanze impensabili. Si va dal gran pistau della montagna imperiese alla cuccia dell’entroterra siculo, per giungere addirittura, grazie a chissà quali imperscrutabili vincoli di parentela, alla pressoché omonima kut’ja della Russia meridionale. In ciascuna di esse i semi solevano essere cucinati interi, così come venivano consegnati al suolo dopo l’aratura autunnale. E non è affatto incidentale che ai grani si accompagnassero sovente le carni del maiale. Quest’ultimo è infatti legato sin dal suo etimo al primitivo culto della dea Maia, madre di Mercurio e tutrice, nella mitologia latina, della fecondità dei campi. Persino lo zampone con le lenticchie dei nostri veglioni pare dunque provvisto di un’ancestrale carica simbolica, oggi mestamente trasposta in più venali aspirazioni alla pinguedine del portafoglio. Ma a chi scrive, senza troppo filosofare sulle nozioni di morte e resurrezione, la cucina del fine anno rammenta piuttosto come quella del cibo sia la più avvincente tra tutte le storie.
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L’ANNIVERSARIO di Rosanna Scardi
Druso, «così siamo diventati la casa del rock» Dieci anni di attività, oltre 2mila concerti e tanti grandi nomi: dietro le quinte di uno dei templi bergamaschi della musica dal vivo, la passione indomita di Marilena Avogadri e David Drusin. «Gestire un locale è una scelta di vita, si va incontro a enormi sacrifici e rischi»
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Ogni artista ha le sue richieste, dai sigari per Tonino Carotone al Gratta e vinci per Dente. Gli stranieri vanno matti per la pasta al pomodoro e prima di salire sul palco chiedono un cappuccino
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uando un artista sale sul palco del Druso a Ranica si comporta come un pugile, è sul ring e fiuta l’odore del sangue. Si sente a casa e sa che quella notte dovrà dare il meglio di sé tirando fuori tutta la sua grinta. Il tempio del rock bergamasco, che ha superato duemila concerti in un decennio, ha una storia fatta di passione e sacrifici, soddisfazioni e percorsi accidentati. Dietro c’è una famiglia, guidata da Marilena Avogadri, imprenditrice, beatlesiana e appassionata di cantautorato italiano. Nel 2002 ha sposato David Drusin, giocatore professionista di basket, originario di Cividale del Friuli, girando con lui l’Italia, dopo aver venduto l’Hemingway café in via Borfuro, in città, che gestiva con un’amica. La coppia ha aperto nel 2005 la prima attività a marchio Druso legata al mondo del basket, allora
novità assoluta, con abbigliamento e scarpe per giganti, in via Carnovali. A fianco c’era un bar. «Era un mestiere che mi era rimasto nel cuore, sognavo di poter riprendere il percorso iniziato, avevo voglia di fare e così l’abbiamo rilevato, i clienti della pallacanestro ci hanno subito seguito
nella nuova avventura», racconta Marilena. Nulla è stato affidato al caso. Neanche la data scelta per l’inaugurazione del Druso café, il 9-9-2007, dove anche la somma dei numeri dell’anno dava 9, un’ossessione per John Lennon: era nato il 9 ottobre del 1940 a Liverpool, aveva incontrato Yoko Ono il 9 novembre del 1966, il figlio Sean era venuto alla luce il 9 ottobre del 1975. Con Marilena ci sono la figlia Stefania, David e il fratello di lui, Daniele. Alle pareti, ogni immagine parlava di musica, teatro, cinema. «Dal lunedì alla domenica c’erano esibizioni di cantanti bergamaschi o di cabaret, spesso affittavo lo spazio - ricorda la proprietaria -. Da noi sono venuti Dente e Zibba ancora agli inizi. Ma la musica dava fastidio agli inquilini al piano superiore, i parcheggi erano pochi, gli spettatori multati molti
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e siamo stati costretti a spostarci». Nel 2009 il Druso Circus ha aperto a Redona come associazione, dopo il primo anno è scattato l’obbligo di tesserarsi: per sette sere su sette si alternavano nomi importanti. Tra tutti Sergio Caputo, Tommy Emmanuel, Terence Trent d’Arby, Robben Ford, Billy Cobham, Nada, Aida Cooper. La fama cresceva sempre di più, lo spazio era però limitato, le spese tantissime. «Avevamo dato tutto, eravamo davanti a un bivio: chiudere per cambiare vita o cercare una soluzione - ripercorre Marilena -. Pesavano le spese di gestione, i cachet degli artisti (dai 28mila euro in giù), gli investimenti fatti, i tre mesi d’estate senza lavoro, competere con i festival estivi sarebbe stato inutile». Nel 2013 è partita la maratona per coprire i costi e ricominciare. Il capofila è stato Federico Fiumani dei Diaframma, insieme a tanti altri artisti che come lui per una settimana hanno suonato gratis. «Gestire un locale è una scelta di vita, si va incontro a enormi sacrifici e rischi che solo chi è motivato da una grande passione può sopportare, un commerciante puro non lo farebbe mai», è l’opinione della signora del rock. Al suo fianco, a occuparsi e confrontarsi su tutto, oltre a Stefania, i figli Francesca, cantante lirica, e Nicolò, talvolta come buttafuori. Ogni artista avanza una lista di richieste, dai sigari per Tonino Carotone al Gratta e vinci per Dente. Inclusa la cena. E ai fornelli c’è spesso Stefania. «Gli stranieri fanno più onore alla tavola, mangiano spesso in piedi e tutto assieme, quasi non si aspettassero un secondo - dice -. Il loro piatto preferito è la pasta al pomodoro con basilico e parmigiano, Ian Paice ne va matto. Prima di salire sul palco chiedono un cappuccino, banditi panini e pizze. Molti sono vegetariani, come i Marlene Kuntz, per loro la-
sagne verdi». Un aneddoto riguarda Paul Kantner dei Jefferson Airplane, che si è esibito nel 2014 al Druso, per l’ultima volta in Italia, prima di morire. «A metà serata ha voluto latte e biscotti - racconta Stefania -. Il manager, durante un brano, mi fece cenno di scaldargli il latte perché dopo poco l’avrebbe chiesto». Il fidanzato della ragazza, Valentino Novelli, pure musicista, ha inventato la rassegna indie che ha risollevato le sorti del locale, elevandolo a club nazionale, portando artisti della scena indipendente come Giorgio Canali. Ma lo spazio è stretto e nel 2014 c’è stato l’ultimo trasferimento nel capannone a Ranica. Di pari passo, sono cambiate anche le abitudini del pubblico bergamasco. «È raffinato, esce la sera per un concerto se è veramente interessato, a differenza di chi vive a Milano o Brescia. Per questo abbiamo tolto la tessera, introducendo un biglietto d’ingresso, chi viene da noi lo fa perché cerca quell’artista», precisa Marilena. Oggi il venerdì c’è il concerto indie o grandi nomi internazionali, il sabato tributi o feste a tema dagli anni 80 al Duemila. A scegliere sono soprattutto i cantanti e gli artisti. Sono 200 al giorno le mail inviate da management e agenzie. Capita anche chi non ti immmagineresti mai di vedere al Druso. «Sono arrivate richieste da Ornella
Vanoni e Patty Pravo, ma sono voci da teatro - confida la proprietaria -. Il nostro sogno era David Bowie. Oggi ci piacerebbe Loredana Bertè». David Drusin aspira a «Miguel Bosé e Julio Iglesias, chissà che non si possa portare Amanda Lear con Riki Cellini per una serata strass». Tra il basket e la musica trova molte somiglianze. «In fondo play, in inglese, significa sia suonare sia giocare e i compagni, come in una band, sono quattro, certo mentre palleggiavo mi sarebbe piaciuto un sottofondo», sorride. Tra gli eventi da non dimenticare, l’ultima esibizione, nel 2014, dei Quarrymen, ormai “vecchietti”, prima band di Lennon. Carl Palmer degli Emerson Lake and Palmer suonava il 10 marzo del 2016, nella stessa sera in cui Keith Emerson si toglieva la vita. «Bombe di emotività, sapere di essserci stato ti ripaga di ogni sacrificio. Solo che il giorno dopo tocca trovare un altro artista che ti dia altrettanto. E riparte la macchina», conclude Drusin.
Dall’alto in senso orario: Marilena Avogadri con il chitarrista statunitense Eric Sardinas; Stefania e il fidanzato Valentino Novelli, che ha lanciato la rassegna “indie”; David Drusin, ai tempi del basket professionistico
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LA GUIDA di Laura Bernardi Locatelli
Bar e ristoranti, prima di aprire o cedere l’attività è meglio sapere che...
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Nel Listino dei Prezzi degli Immobili della Fimaa Ascom anche le quotazioni per le compravendite e gli affitti dei pubblici esercizi. Patelli: «Da non sottovalutare i vantaggi del subentro». «Una zona sulla quale scommetere? Celadina» rovare il locale giusto e fare un buon affare o cederlo senza troppi rimpianti sono gli obiettivi all’ordine del giorno per la compravendita di un’attività commerciale. In un momento in cui la crisi del settore si fa sentire e i consumi stentano a risollevarsi, non c’è spazio per l’improvvisazione e gli errori sono al bando. Il nuovo Listino dei prezzi degli Immobili di Bergamo e provincia realizzato dalla Fimaa Ascom - Federazione italiana mediatori e agenti d’affari rappresenta una guida autorevole per chi vuole orientarsi nel mercato, con valori e quotazioni aggiornate in città, per vie e quartieri, e in provinica, sia per la compravendita sia per la locazione. La nuova edizione - 23esima - è pubblicata in collaborazione con Ascom, Consiglio notarile di Bergamo, Confedilizia, Appe, Collegio Geometri e Adiconsum e distribuita in tutte le edicole di Bergamo e provincia. L’occasione per fare il punto sulla compravendita di pubblici esercizi e sui nuovi trend di mercato con un esperto come Luciano Patelli, da quasi 40 anni nel settore, consigliere nazionale Fimaa e uno dei tre rappresentanti della Federazione all’interno
della Consulta interassociativa nazionale. Rilevare un bar o un ristorante o crearlo da zero progettandolo nei minimi dettagli? È da sempre uno dei primi dilemmi per l’aspirante imprenditore. «Oggi pochi acquistano aziende già esistenti e avviate e preferiscono puntare sul nuovo - spiega Patelli -. Se la tentazione di creare su misura il proprio locale è sempre forte, è innegabile che i tempi di avvio dell’attività si dilatano, anche di diversi mesi, tra impiantistica, progettazione, arredi, ottenimento di permessi, concessioni ed altri passaggi burocratici».
La nuova edizione del Listino dei Prezzi degli Immobili di Bergamo e provincia, realizzata dagli agenti immobiliari Fimaa Ascom, contiene i dati aggiornati a settembre 2017. Offre un quadro completo sull’andamento del mercato, con tutte le quotazioni per la compravendita e la locazione di appartamenti, box, uffici, negozi e capannoni della città e dell’intera provincia. Si trova in edicola e nelle sedi Ascom di Bergamo (via Borgo Palazzo, 137 - tel. 035 4120111) e in provincia (Albino, Calusco d’Adda, Clusone, Lovere, Osio Sotto, Romano di Lombardia, Sarnico, Trescore Balneraro, Treviglio, Zogno) .
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In questo momento sul mercato ci sono molte aziende e le occasioni non mancano: «Molti aspiranti imprenditori scartano il subentro ad un’attività già esistente per evitare di pagare l’avviamento commerciale, ma in realtà i costi sono spesso più contenuti, in termini anche di tempo e quindi di possibilità di incasso, rispetto alla creazione ex novo di un locale. Inoltre un’attenta analisi dei bilanci può dare un’aspettativa di guadagno ben definita», fa notare l’esperto. Bastano a volte piccoli accorgimenti per rinnovare l’immagine di un bar o un ristorante, come del resto mostra un reality come “Cucine da incubo” dove il restyling del locale avviene a tempi record e a bassi costi. «A volte basta rinnovare, o sostituire, il bancone, giocare con l’illuminazione, cambiare pochi dettagli per dare l’idea di entrare in un ristorante o bar del tutto diverso», continua Patelli. Quanto alle tendenze del mercato, sono in auge i locali polifunzionali di grandi dimensioni, mentre calano le aperture di bar, che per anni hanno guidato la dinamica dei pubblici esercizi: «Le metrature richieste sono importanti, tra i 300 e i 600 metri quadri - rileva -. In città, a ridosso delle principali arterie commerciali e nell’immediato hinterland, si aprono ristoranti-pizzeria e griglierie. Format che mirano a conquistare diverse fasce di clienti, da quella business in pausa pranzo a quella più giovane all’ora dell’aperitivo, alle famiglie nel fine settimana». A decretare il successogioca sempre un ruolo cruciale la posizione: «La scelta della via e del quartiere è fondamentale per un pubblico esercizio, che deve poter contare, sembra scontato ricordarlo, su un grande passaggio pedonale in un quartiere con uffici e negozi o su un buon passaggio veicolare con possibilità di posteggio o ancora meglio un bel parcheggio antistante». Quanto alle vie di maggiore interesse commerciale identificate dal nuovo Listino degli Immobili, in città continua il fermento da piazza Pontida a
via Sant’Alessandro per la somministrazione. «Anche via Tiraboschi e viale Papa Giovanni hanno ormai virato sul food con una proposta ampia e varia - aggiunge l’immobiliarista -. Città Alta non perde il suo appeal, a maggior ragione dopo il riconoscimento delle Mura tra i siti patrimonio Unesco che porterà ad un ulteriore incremento del turismo nel borgo storico della città». Quanto all’hinterland, «non tramonta l’asse della Briantea, in particolare nel tratto d’uscita dalla città e fino al primo confine con Curno. In crescita l’interesse anche per la direttrice da via Moroni alla Grumellina fino al casello di Dalmine. La scommessa per gli investimenti è alla Celadina che, con l’inaugurazione di un polo commerciale come Esselunga e un quartiere ad alta densità di popolazione, può offrire spazi interessanti per nuove attività commerciali. I locali non mancano in zona se si è disposti ad investire in ristrutturazioni e restyling. Perdono invece quota i quartieri interni o attraversati dalle grandi arterie, dall’area ex Molini Moretti a Campagnola a Boccaleone». Quanto ai prezzi degli affitti, in particolar modo in centro città, restano alti: «Sono finiti gli anni delle speculazioni commerciali e negozi e locali dovrebbero tornare a vivere per salvaguardare la vitalità dei centri storici. Purtroppo i proprietari immobiliari sono restii a riposizionare il giusto canone di mercato ai tempi che stiamo vivendo», la conclusione che è anche un monito di Patelli.
Luciano Patelli, consigliere nazionale Fimaa
Le “dritte” per valutare un locale
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nche se le quotazioni immobiliari sono un campo per addetti ai lavori ed è sempre meglio farsi guidare da un professionista, ecco una breve guida per orientarsi sul mercato. Il primo passo è sempre quello di analizzare il fatturato, ma individuando l’utile netto e reale. È fondamentale analizzare tutte le voci di costo e la loro incidenza nel tempo, anche su 5 o 10 anni. I locali sono a norma per quanto riguarda sicurezza e igiene? L’idoneità dei locali è un requisito fondamentale che diversamente va ad incidere sui tempi di avvio dell’attività e sui
costi, con spese spesso ingenti per la ristrutturazione e un lungo iter burocratico di permessi. Gli arredi devono essere in buono stato o facilmente riadattabili, come le attrezzature, almeno per quelle di proprietà e non in comodato d’uso. Fondamentali nella valutazione il passaggio, la possibilità di parcheggio, ma anche la disponibilità ad un affiancamento professionale da parte del vecchio proprietario. Partire da una clientela fidelizzata e avere contatti già avviati con fornitori rappresentano occasioni per qualsiasi attività imprenditoriale.
La dimensione dei locali va valutata non solo in termini di opportunità di coperti e posti a sedere ma anche in termini di costi fissi, dall’affitto all’arredo, dal riscaldamento al personale. Spesso rende di più un’attività piccola, più facilmente gestibile a livello familiare di un grande locale. Bisogna inoltre considerare nella scelta dell’attività che spesso è meno rischioso rilevare locali apparentemente in crisi, ma con ampi margini di miglioramento e crescita piuttosto che attività all’apice, con risultati difficilmente replicabili in futuro.
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Una giornata con di Anna Facci
A Urgnano, Erminio Carlessi ha lasciato una carriera in azienda per dedicarsi a lievitazioni e sfornate. «Tutti i panificatori possono essere grandissimi artigiani, senza doversi preoccupare della grande distribuzione». Tra i suoi prodotti anche una pagnotta da dieci euro al chilo Erminio Carlessi con la figlia Giulia, la moglie Adua e il nipote Stefano
La magia quotidiana del panettiere che si è fatto da sé
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assare una giornata con Erminio Carlessi, nel suo forno in via Rocca, a pochi passi dalla piazza di Urgnano, significa rivivere quel colpo di fulmine che 17 anni fa gli ha fatto cambiare vita e che oggi lo rende soddisfatto di ogni momento del suo lavoro. Parole sue, ma lo si capisce anche dall’atmosfera allegra e positiva che si respira in laboratorio e in negozio. A far scattare la scintilla, la visita con un amico a Giordano Amighetti, il precedente proprietario del panificio. «Non avevo mai visto fare il pane – ricorda –, sono rimasto incantato dal vedere impastare, dare forma e sfornare. Già da un po’ sentivo il bisogno di dare più spazio al mio lato creativo e di mettermi alla prova, sapere che Giordano voleva cedere l’attività ha fatto il resto». Così, alla fine del 2000, dopo 23 anni in un’azienda tessile di Cologno al Serio dove era responsabile dell’ufficio tecnico e dei servizi generali, Carlessi ha ricominciato da capo. «Avevo 38 anni, un buonissimo stipendio, un ruolo
di responsabilità, due figlie piccole: tutti mi hanno preso per pazzo – racconta –, tranne mia moglie Adua che subito mi ha detto che avrebbe condiviso la sfida». «Non avevo alcuna esperienza - prosegue -, ma sapevo chiaramente che cosa volevo produrre: pane di alta qualità con le migliori materie prime. Sono andato a scuola, ho imparato da maestri come Piergiorgio Giorilli e Giambattista Montanari e continuo a seguire corsi, ad aggiornarmi, a studiare, a proporre nuovi prodotti. Credo che tutti i panificatori possano essere dei grandissimi artigiani, senza doversi preoccupare della concorrenza della grande distribuzione». Lui non lo fa, tanto è vero che non ha mai tenuto aperto una domenica o un festivo, che d’estate può permettersi di chiudere per un mese intero, dedicandosi ai viaggi che ama tanto, e che vende un pane alla tutt’altro che modica cifra di dieci euro al chilo, il Prokorn, «una pagnotta dal sapore antico, piena di cereali, che resta
morbida anche per una settimana». Eppure non è una “boutique”, è il classico forno dove scorre la vita del paese. «La crisi non l’abbiamo mai sentita, pur avendo prezzi più alti della media – chiarisce il panettiere -. Certo, ai clienti do tutte le garanzie che chiedono sulla qualità del pane, mostro loro le schede tecniche delle farine, cerco sempre di accontentarli e se loro sono contenti io lo sono di più. Il tema delle intolleranze, ad esempio, non è da sottovalutare, mi sono reso conto dell’importanza che ha per i consumatori poter trovare un
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prodotto che fa per loro e così ogni giorno, tra le altre cose, mi prendo la briga di preparare per una nostra cliente due panini alla zucca e mais, con pochissimo glutine». A qualificare la produzione sono le materie prime selezionate, cominciando dalle farine con bassi contenuti di glutine e di tipo 1, e la doppia lievitazione da biga madre lasciata fermentare per 24 ore, procedimento che implica un minore utilizzo di lievito di birra. «In questo modo il pane risulta molto più digeribile e chi lo prova se ne rende subito conto», rileva. E poi la varietà delle proposte, una cinquantina tra pani, pani speciali, pizze, focacce, grissini, cracker e, sul versante dolce, brioche, frolle, muffin, biscotti. Tra le specialità, le baguette preparate secondo la ricetta di Giorilli e cotte su un tessuto di canapa fatto arrivare dalla Francia, per una crosta sottile, un pane dolce con scorza di limone e bacca di vaniglia, antica ricetta cremonese, il brezel della tradizione austriaca, il pane al kamut soffiato, la focaccia di grano saraceno al rosmarino. Sono disponibili a rotazione e un cartello in negozio ricorda cosa si può trovare nel corso della settimana. La precedente attività in azienda ha permesso a Carlessi di organizzare al meglio il lavoro. Ad esempio gestisce ordini e consegne con il computer: ogni mattina stampa le etichette con il nome del cliente e i prodotti richiesti, basta apporle ai sacchetti ed è più facile riempirli. «Penso che sia più utile “perdere” qualche giornata per programmare i processi piuttosto che continuare a fare le cose come si sono sempre fatte – rileva -, in questo modo anche i collaboratori diventano più autonomi e responsabili». Anche sul fare il pane ha la sua idea precisa: «Ho capito, soprattutto dagli errori, che non bastano la manualità e l’esperienza, per far un buon pane occorre studiare, conoscere le reazioni chimiche, fare attenzione ai tempi, alle temperature, alle modalità di lavorazione, agli ingredienti e saper intervenire di conseguenza». Sarà perché ha trovato la sua strada
che il lavoro, per quanto impegnativo, non gli pesa. In settimana la sveglia è all’1.20 per essere in laboratorio prima delle 2, il sabato, che il pane “è doppio”, comincia alle 23. Il primo pane, caldo e fragrante, è pronto attorno alle 5.30, alle 10 le sfornate sono finite e si dedica agli altri prodotti, dai grissini ai dolci, a organizzare il lavoro dei giorni successivi o a provare le farine e mettere a punto nuove ricette. Per mezzogiorno è a casa (abita a Cologno al Serio) e prepara il pranzo per la moglie e le figlie. Tre ore di sonno tra le 14 e le
mulini mi chiedono di testare le loro farine e miscele, sono soddisfazioni. Poi c’è il bello dell’incontro quotidiano con i clienti, c’è chi ci porta la colazione, chi nelle notti estate non riesce a prendere sonno e passa di qua, chi ci regala le verdure dell’orto, chi arriva con i fichi e ci chiede di preparare il pane con quelli, le visite dei bambini delle scuole. Senza dimenticare che ogni giorno il pane è una sfida e insieme una magia, è una una materia viva, cambia a seconda della temperatura, dell’umidità e richiede sempre di metterci un po’ di sé».
I giovanissimi Stefano e Giulia e, qui sopra, Erminio Carlessi con Giordano Amighetti, il precedente proprietario del forno
17 e la sera a letto alle 21. «Una delle mie passioni è la lettura (le altre sono la pittura e la scultura, con notevoli risultati ndr.). Leggo prima di addormentarmi, dormendo due volte al giorno ho quindi anche due momenti da dedicare ai libri», fa notare con un sorriso. «Non potrei chiedere di più – aggiunge -. Sono riuscito a costruire una professione da zero. Nel 2011 ho ricevuto dalla Regione Lombardia uno dei 22 riconoscimenti Artigiano Eccellente, io che non ero panificatore! E oggi molti
Ad aggiungere gratificazione, la consapevolezza di aver creato un gruppo motivato tanto quanto lui e di aver gettato le basi per il futuro. La moglie Adua non ci ha messo molto a diventare la regina del negozio, la commessa Jessica Maver è ormai una di famiglia e la figlia minore, Giulia, vent’anni, che ha cominciato sostituendola nel periodo della maternità, ha deciso di rimanere, mentre in laboratorio c’è un altro giovanissimo, il nipote Stefano Cortesi, 22 anni, appassionato e capace.
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Strumenti
Servizio a cura dell’Accademia del Gusto e di gp.studios
Creare una squadra affiatata richiede tempo e impegno, ma non è una sfida impossibile. Si può cominciare dicendo addio al “modello caserma” che impera in cucina e in sala per dedicarsi di più ai fondamentali: selezione, formazione e coinvolgimento
Gestione del team, tre parole d’ordine per il successo
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isorse umane, X Factor, valore aggiunto: lo chiamano in tanti modi ma è chiaro a tutti che oggi più che mai il personale fa la differenza nel mondo dell’ospitalità. Allora perché rappresenta un tasto dolente per qualsiasi ristoratore? Alla base di molte criticità di settore c’è un vizio di sostanza: la costruzione di un team, come viene chiamato oggi, è riconducibile ad un organigramma di tipo militare. Basti pensare al fatto che il termine in gergo è “brigata”, di cucina, di sala, di ricevimento, sia che si tratti di hotel sia di ristorante. Lo stesso vale per le qualifiche: capo ricevimento, capo partita e via così per tutta la struttura organizzativa che tocca le risorse umane. Questa è l’origine, chi fa questo mestiere lo sa bene. A questo punto è fondamentale rendersi conto che la brigata, inquadrata in un sistema verticale, in una gerarchia dove l’obbedienza al proprio responsabile è totale, non funziona più. Il modello caserma è out. Significa che, oltre a capire se il nostro dipendente è adatto al ruolo che ricopre e se regge i ritmi del locale, dobbiamo interessarci a cosa pensa. In un mondo che oggi parla solo di condivisione, scambio, reciprocità, motivazione, questa svolta è vera-
mente obbligatoria. Badate bene, nemmeno i trucchi funzionano. Cambiare un nome non basta per cambiare un modo di operare; chiamiamo la brigata team, eliminiamo la parola capo, adottiamo il termine collaboratore e il gioco è fatto? No, non funziona in questo modo. Servono tempo e tanto lavoro per fare ospitalità in modo eccellente. L’accoglienza è davvero un lavoro di squadra, dove occuparsi del personale è la parte più complessa. L’imprenditore, da parte sua, deve cercare di rendere gli individui che
Gli imprenditori della ristorazione, dei pubblici esercizi e dell’ospitalità interessati a migliorare la competitività del proprio business possono richiedere una consulenza personalizzata all’Accademia del Gusto di Osio Sotto, che propone il servizio in collaborazione con Gp.studios. info@ascomformazione.it tel. 035 4185706-707
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rappresentano l’azienda e che vi operano ogni giorno parte integrante della vision. Nella ristorazione una grande cucina senza servizio non è poi tutto questo granché, d’altronde lo hanno capito anche i format di fast food. Per avere un buon organico bisogna andare a monte del processo: tutto parte dalla selezione. Scegliamo le migliori risorse umane presenti sul mercato tenendo come riferimento un organigramma aziendale e una descrizione dei profili ricercati. Quali caratteristiche devono avere i collaboratori? Per quale ruolo? Cosa si aspetta l’azienda da loro? Qual è il valore aggiunto che porteranno al brand? Una volta selezionati i profili calzanti con le job description che stiamo cercando è fondamentale un’adeguata formazione dello staff sui vari aspetti, dallo story telling al suggestive selling. Il servizio al ristorante infatti deve identificare e rappresentare la visione dell’azienda, i valori che la guidano e gli obiettivi. Ogni elemento dello staff deve remare nella stessa direzione per far felici i clienti; l’obiettivo comune va raggiunto attraverso una serie di azioni precise, costanti, condivise. Ecco come procedere, in breve:
1. Cerca di essere un punto di riferimento per chi ti sta intorno, è il modo migliore perché la tua squadra ti segua. L’esempio è la più alta forma di insegnamento, lo ha detto il re della ristorazione, Gualtiero Marchesi. 2. Favorisci autonomia e responsabilità operativa nei tuoi collaboratori, ne gioverete tutti, l’azienda in primis. Se sei operativo nel tuo locale insegna ai tuoi dipendenti, oppure crea degli standard, fotografici, video, forma le tue risorse perché siano il prolungamento di te stesso. 3. Premia i tuoi collaboratori quando lo meritano e celebra i successi del gruppo. I tuoi dipendenti hanno bisogno di ricevere soddisfazioni da te, come tu da loro. 4. Ricorda sempre: “medesimi obiettivi, persone differenti”. Impiega perciò la maggior parte del tuo tempo per capire chi sono i tuoi collaboratori, cosa pensano e cosa provano, conquista la loro fiducia. 5. Condividi la strategia della tua azienda e stimola il pensiero delle tue risorse umane. Vedrai che varanno per te quello che non ti aspetteresti mai.
Vorremmo soffermarci su quest’ultimo punto. Se desideri una buona organizzazione il personale deve essere coinvolto nei processi aziendali strategici, di contenuto; per quanto riguarda quelli economici, invece, è una tua scelta personale. Esempio, puoi fare assaggiare ai collaboratori alcune pietanze, anche perché se chi sta in sala a proporre la carta non conosce i gusti e gli odori, come può raccontarli e trasmetterli ai clienti? Lo stesso vale per il coinvolgimento nella scelta degli arredi tavola, i colori, le dimensioni. Il vero valore aggiunto del servizio al ristorante è proprio il capitale umano. Se non lo coinvolgi, lo perdi. Riassumendo: selezione, formazione e coinvolgimento dello staff sono i tre pilastri del tuo successo imprenditoriale. È bene ricordare che il business dell’ospitalità si annovera tra le attività commerciali che funzionano per relazione. In buona sostanza (e per fortuna nostra che ci lavoriamo e viviamo all’interno), le persone fanno e continueranno a fare la differenza tra successo e mediocrità. Trattale come fosse il tuo menù: più la materia prima è di qualità, più è facile assemblarla e creare un’opera d’arte.
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Fuoriporta di Gualtiero Spotti
Alessandro Sciortino, Virginia Severgnini e Nicholas Carusio, foto Stefano Borghesi
Saur, tre giovanissimi risvegliano i sapori della pianura bresciana Non raggiungono ottant’anni in tre. A Barco, minuscola frazione di Orzinuovi, rileggono i buoni prodotti del territorio. Ermergenti che valgono il viaggio
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e la provincia di Bergamo nell’ultimo biennio ha saputo offrire qualche indirizzo gastronomico nuovo cui affidarsi e alcuni giovani cuochi emergenti capaci di aggiungersi alla già nutrita lista di destinazioni orobiche ben conosciute agli amanti del buon cibo, va detto che qualche segnale positivo giunge anche dai territori confinanti. Si tratta di ristoranti che, come direbbero i curatori di una celebre guida dalla copertina rossa, “valgono il viaggio” e, quindi, sono da tenere in considerazione per diversi motivi. Il primo, come detto, è la giovane età degli interpreti, ma poi ci sono anche il taglio e lo stile della cucina, l’intraprendenza e una certa dose di audacia commerciale, oltre al piacere di veder crescere idee nuove che, in molti casi, vanno a svolgere il ruolo di contrappunto alla tradizione territoriale e ai piatti che mettono in bella luce il meglio dell’agroalimentare regionale. L’ultimo degli esempi da citare è quello del ristorante Saur, aperto da qualche mese (l’inaugurazione è avvenuta il 10 agosto) nella microscopica frazione di Barco a Orzinuovi, nella pianura bresciana, e sulle ceneri di due trattorie classiche, una chiamata El Purtù, che si era fatta un buon nome tra i locali della zona. Ad impegnarsi
nella nuova avventura ora sono arrivati tre giovani che insieme non arrivano a ottant’anni di età complessivi. Si tratta del siciliano Alessandro Sciortino e del torinese Nicholas Carusio, in cucina, e della sommelier e maître Virginia Severgnini, originaria del vicino borgo di Castelleone, che si preoccupa di accogliere gli ospiti nelle due salette semplicemente arredate e con il gusto sinceRistorante Saur ro della casa di campagna. via Filippo Turati 8
Barco di Orzinuovi (Bs) tel. 030 941149 www.ristorantesaur.it
dicembre 2017
Il loro incontro è avvenuto nella sala stellata di Valeria Piccini a Montemerano, in Toscana, ma i casi della vita li hanno poi portati a maturare diverse esperienze tra Australia, Francia, Svizzera e in molti altri Stati, frequentando cucine italiane e non solo, prima di riunirsi a Barco di Orzinuovi per prendersi cura di Saur, che, come forse si intuisce, gioca la carta del dialetto locale sin dal nome, visto che “saùr” significa molto semplicemente “sapore”. Ed è proprio questa una delle caratteristiche della cucina, che vive della deliziosa commistione tra le origini dei due cuochi e la materia prima locale, con scelte capaci di pescare tra i prodotti stagionali del mercato e persino facendo una selezione tutt’altro che banale, come quando si sceglie di rappresentare il pesce del vicino lago di Iseo. Lo si vede nei piatti che fanno capolino dai primi menù (ben ponderati con pochi e precisi riferimenti senza doversi districare tre scelte infinite), dove si mettono in bella evidenza il Finocchio con radice amara e limone (la radice amara che viene dalla vicina Soncino), i Plin di zucca con cime di rapa e mandorla, essenza del crossover nord/sud in cucina, il Maialino con cavolfiori, noci e kiwi gialli di Barco (altra valorizzazione di un prodotto locale ma dai contenuti esotici) o la Lingua croccante con porro e salsa verde, in una trasposizione padana di idee piemontesi. La carta offre intuizioni di grande soddisfazione al palato, tra tocchi acidi e agrumati, insieme a croccantezze che svolgono il ruolo di sliding door all’interno di molte singole preparazioni, con forse qualche miglioramento sul lato dolce di fine pasto e nella scelta dei vini, almeno per ora contenuta, ma piuttosto comprensibile vista la recente apertura e la necessità di farsi prima conoscere. In compenso molte idee sono già in fase di sviluppo, a partire dall’orto e dalla serra, che vorranno essere due delle punte di diamante di Saur per avere un controllo diretto sulla qualità della materia prima. Il pesce di lago invece proviene da Soardi, a Montisola, mente la carne è quella della macelleria Mazza di Chiari. Nicholas e Alessandro escono in sala e come accade sempre più spesso per i cuochi di ultima generazione, servono ai tavoli e spiegano i piatti con dovizia di particolari, mentre Virgina (appena 23 anni), racconta le bottiglie in mescita. Una sfida avvincente quella di Saur che merita grande attenzione, soprattutto in un territorio come quello della pianura, tradizionalmente avaro di creatività e dove la carta giocata è sempre quella della tradizione e dei sapori facilmente comprensibili. La scommessa quindi è anche quella di aprire una strada, di gettare uno sguardo che, se non è proprio globale, cerca di rappresentare una cucina diversa, dove si percepiscono basi che richiamano i sapori locali e le molte possibilità di incroci con altre culture, perlopiù regionali e italiane. Oltretutto a prezzi estremamente competitivi se si pensa che i due menù degustazione (rispettivamente di quattro e sette portate) costano 30 e 45 euro, vini esclusi.
In dieci anni la catena ha servito 6 milioni di fette
Sbafo, la “multa” per chi avanza la pizza aiuta Dynamo Camp
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on oltre 1 milione di clienti in 10 anni e 6 milioni di fette servite, è difficile sbagliarsi: nella catena di giropizza Sbafo la pizza con il Branzi batte la pur richiestissima pizza dolce alla nutella. Nata nel 2007 a Clusone, la formula di ristorazione prevede sei diversi menù, ma il principio cardine resta la pizza al tavolo servita senza limitazioni di quantità. Un’idea che piace al punto che oggi i locali Sbafo sono tre, ad Albino, Ponte San Pietro e Stezzano. E piacciono anche le proposte che valorizzano i prodotti tipici bergamaschi, come Branzi, salame e polenta, entrati in tutti i locali con l’iniziativa la Pizza del Mese, che prevede l’impiego di prodotti Dop, stagionali e di qualità. A caratterizzare l’offerta anche l’impego di pastelle a lenta lievitazione, che assicurano una maggiore digeribiltà, le pizze per vegetariani, vegani e per intolleranti al glutine oltre alla trasparenza e alla convenienza di mangiare tutta la pizza che si vuole a un prezzo stabilito all’ingresso. L’importante, però, è che non si avanzi cibo. «Per rispetto del cibo e del pianeta, non vogliamo che le fette di pizza avanzino - precisa Massimo Bosio, ideatore della formula Sbafo -. Perciò, quando il cliente si sentirà sazio, dovrà avvisarci e noi smetteremo di servirlo. In alternativa, possiamo chiedere un euro per ogni fetta avanzata in modo da ridurre gli sprechi. L’incasso non verrà trattenuto dai nostri locali, ma verrà devoluto in beneficienza a Dynamo Camp, un’importante Associazione che si occupa di bambini e ragazzi affetti da patologie gravi o croniche regalando loro esperienze indimenticabili».
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DA SAPERE Le novità sugli shopper che dal 2018 interessano anche gastronomie, macellerie, pescherie, ortofrutta e panetterie
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Negozi, addio ai sacchetti in plastica “leggeri”. Saranno solo bio e a pagamento ddio ai “rotolini” di sacchetti con l’anno nuovo. A partire dal primo gennaio 2018 - salvo proroghe che siano con o senza manici, anche i sacchi leggeri e ultraleggeri (ossia con spessore della singola parete inferiore a 15 micron) utilizzati per il trasporto di merci e prodotti, a fini di igiene o come imballaggio primario in gastronomia, macelleria, pescheria, ortofrutta e panetteria, dovranno essere biodegradabili e compostabili. Dal nuovo anno, per essere a norma, le shopper dovranno: essere biodegradabili e compostabili secondo lo standard internazionale Uni En 13432:2002; essere realizzate con un contenuto di materia prima rinnovabile di almeno il 40% (che dovrà diventare il 50% a partire dal primo gennaio 2020 e il 60% dal perimo gennaio 2021); disporre dell’idoneità per uso alimentare; essere cedute esclusivamente a pagamento. Biodegradabilità, compostabilità e contenuto di materia prima rinnovabile dovranno essere certificati da organismi accreditati, per non incappare in pesanti sanzioni. Le borse utilizzate nei reparti gastronomia, macelleria, ortofrutta, che con diciture o altri mezzi tentassero di porsi al di fuori della normativa e che fossero prive anche di uno solo dei requisiti previsti rappresenteranno infatti un’elusione di legge per la quale scatteranno sanzioni da 2.500 euro
Questi i marchi che identificano i materiali compostabili certificati, che permettono di riconoscere le borse a norma
fino a 25.000 euro elevabili fino a 100.000 euro. La nuova norma conferma il contenuto della legge 28/2012 relativa alle sporte della spesa monouso: rimangono commercializzabili solo i sacchetti monouso biodegradabili e compostabili certificati Uni Ee 13432 o quelli riutilizzabili con percentuali minime di plastica riciclata e spessori ricompresi tra 60 e 200 micron a seconda delle maniglie e degli usi. Ascom Bergamo Confcommercio invita gli associati a farsi rilasciare e sottoscrivere dal produttore una
certificazione e a farsi fornire tutti gli elementi identificativi che attestino il possesso dei requisiti di legge. I sacchetti di plastica stanno diventando, infatti, un business importante per la malavita e molto spesso vengono falsificati con diciture o apposizione di marchi non rispondenti alle norme di legge. Le sanzioni possono essere molto pesanti anche nei confronti del commerciante che si è fidato del suo fornitore. È opportuno, quindi, che chi commercializza tali sacchetti si accerti della conformità degli stessi già al momento dell’acquisto. L’associazione ricorda inoltre che, dato che le borse di plastica in materiale ultraleggero non potranno più essere distribuite a titolo gratuito, il prezzo di vendita per singola unità dovrà risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite.
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Pagine di
Gola
a cura del Gruppo Librai Ascom
Regalare un libro a Natale è quasi una tradizione. Con una spesa “low” si donano ore di relax e una breve fuga da lavoro e famiglia. Ma quale scegliere tra le pile di volumi che affollano gli scaffali delle librerie durante le Feste? Per aiutarvi a mettere sotto l’albero un buon libro vi segnaliamo cinque titoli dedicati a chi ama la cucina. Dai ricettari che insegnano a preparare piatti e dolci per il Natale ai romanzi sulle atmosfere delle feste, con un divertente suggerimento per i più piccoli.
I libri di cucina più belli da mettere sotto l’albero Racconta la divertente preparazione del cenone di Natale in casa Scaglisi in Puglia. Si ritrova l’atmosfera delle riunioni di famiglia in cui ognuno sente il dovere di essere perfetto. Una commedia all’italiana ironica e gradevolissima con una bella varietà di personaggi. Per regalarsi un po’ di buonumore Luca Bianchini
La cena di Natale Mondadori, 2013 Ci sono tante originali ricette, piacevoli aneddoti e fotografie molto belle. I piatti sono facili da realizzare e ci sono vari spunti e idee per biscotti e piccoli doni. Inoltre si può prendere qualche spunto interessante per decorare la casa. Per i racconti natalizi dell’autrice che accompagnano ogni ricetta. Sabrine D’Aubergine
Finalmente Natale - Ricette e racconti per i giorni di Natale Guido Tommasi Editore, 2013 Venticinque storie natalizie da leggere una per ogni giorno di dicembre fino a Natale, ciascuna accompagnata da una breve scheda che propone lavoretti, ricette, curiosità sulla ricorrenza. Ci sono racconti basati sui passi evangelici della Natività e storie di fantasia ispirate al Natale. Per accompagnare i più piccoli nell’attesa della festa più amata. Francesca Mascheroni
Mi leggi una storia di Natale? Edizioni Paoline, 2017 Un bel ricettario con 40 prelibatezze, ispirate alle cucine del mondo, di stagione e 100% vegetali con tante piccole golosità da regalare, come burri e sali da cucina o da sgranocchiare in famiglia come praline e biscottini. C’è anche un capitolo dedicato ai grandi classici della tradizione italiana. Per incontrare i gusti di tutti i commensali, anche quelli di vegetariani e vegani. Marie Laforêt
Natale per tutti Editore Songa, 2016 Fettuccine con zucca e guanciale croccante, mini cannelloni al caviale di salmone, rigatoni ripieni alla salvia. Una carrellata di cento ricette per i primi piatti, raccontati e fotografati passo-passo, con tutte le tecniche di base per fare la sfoglia e preparare tagliatelle, lasagne e ravioli fatti in casa. Per riscoprire il piacere di un gustoso piatto di pasta.
Pasta delle feste Cucchiaio d’Argento, 2013
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