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Supplemento al n. 3 de “La Rassegna” del 12 febbraio 2015 - Giuseppe Ruggieri direttore responsabile Editrice: La Rassegna S.r.l. - via Borgo Palazzo 137, Bergamo Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60
febbraio 2015
Tutti pasticcieri Ma il mercato è un po’ amaro
Anche in Bergamasca è esplosa la voglia di fare dolci Il numero delle attività, però, non decolla
FEBBRAIO 2015
SOMMARIO www.affaridigola.it
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4 TENDENZE
nella foto di copertina una creazione del pasticciere Leonardo Di Carlo, intervistato a pagina 26
Feste e banchetti, «così è cambiato il gusto dello stare a tavola»
12 TRADIZIONI
Bergamo carnivora, quando il pesce era solo cibo per dame
14 IL CASO
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I ristoratori: «Personale di sala improvvisato e poco motivato»
16 IL RACCONTO
Il sommelier di “Vittorio”: «Tanta umiltà. Così si può capire il mondo del vino»
18 L’INTERVISTA
Gritti: «È tempo che la ristorazione cambi passo»
24 FOCUS
Tutti pasticcieri. Ma il mercato è un po’ amaro
30 FACECOOK
New York, un bergamasco in cattedra all’università della cucina
32 IL LOCALE
Ai Burattini, la tradizione nelle mani dei giovani
36 LA SCELTA
Dal liceo al forno. E la pizza diventa un’opera d’arte
Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Giuseppe Mazzini, 24 - 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Giuseppe Mazzini, 24- 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - info@larassegna.it - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Riccardo Lagorio, Roberta Martinelli, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Rosanna Scardi, Giordana Talamona, Donatella Tiraboschi - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg
TENDENZE di Laura Bernardi Locatelli
Feste e banchetti, «così è cambiato il gusto dello stare a tavola»
L’evoluzione della cucina vista dal catering. Nel giro di trent’anni si è detto addio alle sette-otto portate servite al tavolo, per far spazio ai food corner con tanto di show-cooking. I menù si alleggeriscono e la voglia di stupire gli ospiti prevale su tutto. Cala la media degli invitati, ma si moltiplicano quelli 4con specifiche esigenze alimentari
L’
febbraio 2015 ultima moda italiana nei ricevimenti è il dim sum party, con mini specialità accompagnate da tè cinese, per un matrimonio esotico e anche un po’ ascetico. C’è poi chi va oltre la moda dialgante del cake design e sceglie una stratificazione di ciambelle americane - i classici donut - al posto della torta nuziale e per il buffet esige solo push-pop, i cilindri infilati su uno stecchino ripieni delle torte preferite. I ricevimenti cambiano e quello per il matrimonio tutto sommato resiste, confermandosi un punto fermo nella vita di tutti. Se non da protagonisti almeno da invitati, il ricevimento nuziale continua infatti ad essere l’evento per antonomasia in cui si fa esperienza di catering e banqueting. Negli ultimi trent’anni i ricevimenti sono molto cambiati e, sfogliando migliaia di album che immortalano scambi di promesse eterne, balzano subito all’occhio piccole e grandi evoluzioni. Dal numero degli invitati sempre più piccolo alle torte sempre più monumentali e grandiose, da buffet e food corner preferiti al servizio più formale al tavolo, alla spettacolarizzazione della cucina con lo show cooking. I matrimoni sono sempre più vegan ed eco-chic, trionfano sushi e tapas ma cresce l’interesse per i prodotti a chilometro zero e i presidi Slow Food. I menù si alleggeriscono e la voglia di stupire i propri ospiti prevale su tutto, magari scadendo in esagerazioni lontane anni luce dalle raccomandazioni del bon ton. Tanto che per evitare cadute di stile - oltre che per tenere a bada lo stress da organizzazione - ci si affida sempre più al wedding-planner. L’arte del ricevimento è un mondo in costante fermento: grazie all’esperienza di Fabio Acquaroli e Silvio Longhi e al contributo di Tino Fontana, il primo a portare i ritmi e le tendenze del catering a Bergamo, abbiamo ripercorso le principali evoluzioni del settore, dalle foto con le vecchie reflex analogiche alle riprese dall’alto con i droni.
Fabio Acquaroli
«Cresce l’interesse per il territorio, i prodotti bio e di nicchia»
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Forte di una tradizione di famiglia nella ristorazione inaugurata da papà Tito nel bar-trattoria di Colognola e a San Vigilio al Baretto, Fabio Acquaroli ha scelto con lungimiranza all’inizio degli anni Ottanta di puntare sul catering e di rilevare prima e acquisire poi alcune tra le più prestigiose dimore bergamasche: «Le spose allora iniziavano a cercare alternative al classico banchetto nel solito ristorante e in provincia cresceva il numero di grandi dimore e ville abbandonate o inutilizzate, i cui costi di manutenzione diventavano sempre più onerosi - racconta Acquaroli, deus ex machina di migliaia di matrimoni da Mille e una Notte -. Nel 1986 abbiamo creato una cucina professionale al Castello di Marne, che è ormai la nostra location storica, per garantire piatti di qualità ed “espressi” in una cornice unica. Siamo stati tra i primi ad avere l’intuizione di organizzare gli eventi in esclusiva, con tanto di slogan “principessa per un giorno”, in anni in cui nella stessa location si svolgevano anche quattro o cinque ricevimenti in contemporanea. E così abbiamo acquisito prima l’ex Villa Bisutti, ora Villa Acquaroli, e nel 1997 il Castello di Monasterolo».
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TENDENZE Fabio Acquaroli Se fino a venti o trent’anni fa il matrimonio era l’occasione per una festa spesso all’insegna di veri e propri eccessi alimentari, oggi prevale la volontà di emozionare, stupire ed intrattenere gli ospiti. «L’obiettivo è quello di ottenere l’“effetto wow”, destando stupore e ammirazione con un evento inedito e soluzioni alternative - spiega Acquaroli -. La cucina passa in secondo piano: il grande investimento, economico oltre che emotivo, è rivolto alla festa e all’intrattenimento». Non si sta seduti al tavolo più di due ore e la cucina si fa spettacolo. «Alle portate servite vengono preferiti i buffet, ma soprattutto lo show-cooking. Non c’è matrimonio senza food corner, dallo chef che sfiletta un tonno intero all’esperto che cura le braci dello spiedo, dall’angolo delle zuppe a quello dei cocktail, dalle crêpes fatte al momento fino alla decorazione quasi in presa diretta della torta nuziale». La torta è sempre più curata ed è tutto uno studio di proporzioni, architetture, decori per stupire gli invitati: «La wedding cake ormai è un must: si dedica molto tempo alla sua scelta e allo studio di ogni decorazione, quasi più che al resto del menù. Il taglio della torta è diventato un rituale fondamentale, che impiega anche un’ora di tempo. La ricerca dell’effetto sorpresa guida ogni momento della festa, dalla cerimonia al ricevimento, anche per questo abbiamo scelto di creare uno showroom di oltre 300 metri quadri e grazie alla consulenza di una
wedding planner nulla viene lasciato al caso, dai fiori alle bomboniere, dall’abito ai confetti. Un servizio ulteriore per spose sempre più di corsa che preferiscono affidarsi ad una regia unica per il grande giorno». Fare catering oggi rispetto a venti anni fa significa far fronte alle più disparate richieste. Le intolleranze e i regimi particolari dettati da scelte etiche o religiose sono all’ordine del giorno: «Non c’è cerimonia senza celiaci o intolleranti, i vegetariani ed i vegani sono in crescita e non è raro proporre piatti per musulmani, così come capitano richieste di piatti ebrei che rispettino i dettami casher». Il numero degli invitati è sceso drasticamente, come quello delle portate: «Da una media di duecento inviti, la lista si è più che dimezzata e ora non si contano più di 80-90 persone», continua Acquaroli. Le portate servite al tavolo si sono ridotte, ma il numero delle preparazioni se non è rimasto lo stesso si è moltiplicato. «Un tempo il menù classico prevedeva sei-otto antipasti, tre primi, tre secondi e la classica torta nuziale. Ora gli antipasti sono quasi esclusivamente a buffet con diverse isole tematiche, dai finger food agli affettati tagliati al momento con la Berkel, dall’angolo del pesce a quello dei formaggi. Le portate servite al tavolo sono in genere due primi piatti e un secondo o, più raramente, un primo e due secondi. Se prima c’era solo la torta nuziale ora c’è il rinforzo dei dessert a buffet, con golosità di ogni genere e
Silvio Longhi
«Invece di avere a cuore la qualità di ogni piatto, il mercato chiede più scenografia e allestimenti» 6
Dalla gastronomia di paese, a Seriate, introdotta negli anni Settanta per dare un servizio al cliente dello storico negozio di alimentari, Silvio Longhi a suon di banchetti è arrivato ad avere cinque location in tutta la provincia. «Alla fine degli anni Ottanta con l’avvento dei supermercati e della grande distribuzione organizzata ho deciso di puntare sull’organizzazione di matrimoni ed eventi, prima solo al Castello della Marigolda, poi al Castello di Cavernago e alla fine degli anni Novanta a Cascina San Carlo a Caravaggio, Tenuta Olmetta ad Osio Sotto e Villa Suardi a Trescore». Menù e servizio sono profondamente cambiati negli ultimi vent’anni: «Una volta il ricevimento classico prevedeva un aperitivo veloce con tartine e salatini e due antipasti, uno all’italiana a base di salumi accompagnato da un’insalata e uno di pesce, dalla cappasanta al salmone, allo spada. Seguivano ben tre primi: un risotto, quello allo Champagne e rosmarino andava per la maggiore,
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per chiudere in bellezza non manca un angolo dedicato ai confetti, proposti in diversi gusti». Quanto alla cucina, trionfano i sapori della nostra tradizione mediterranea, anche se rivisitata e alleggerita con nuove tecniche di cottura, dal sottovuoto al vapore. I riflettori sono puntati su prodotti di eccellenza, declinati in tutte le denominazioni riconosciute e ai presidi Slow Food: «Grazie anche ad una produzione enoica molto migliorata negli ultimi anni sono sempre più richiesti anche i vini del territorio, Valcalepio in testa». E l’impostazione nei ricevimenti firmati Acquaroli è, per scelta di qualità e professione di etica, sempre più responsabile e sostenibile: «Non utilizziamo carne e pesci provenienti da allevamenti intensivi – evidenzia - e cerchiamo di valorizzare prodotti di nicchia e piccole produzioni. L’interesse è sempre più rivolto al bio e al territorio, due tendenze che celebreremo nella nuova Tenuta Serradesca che inaugureremo questa primavera, con tanto di cattedrale vegetale per cerimonie religiose eco-chic e la garanzia di un ricevimento immerso nel verde. Piscina, open bar, forno a legna a vista e la possibilità di stare a dormire per gli ospiti rendono l’appuntamento davvero diverso dal solito. E, visto che chi organizza eventi è sempre a caccia di idee nuove, abbiamo studiato la location e disposto il verde per rendere spettacolari le riprese dall’alto con i droni e immortalare con una prospettiva diversa il ricevimento».
una pasta ripiena, in genere i classici casoncelli, e una pasta saltata o gratinata, dal cannellone alla nizzarda alla pasta al tovagliolo. Veniva servito poi al carrello il secondo di pesce, porzionato in sala. E, per riprendersi dall’abbuffata e garantire un attimo di respiro per riorganizzare il servizio, arrivava l’ora del sorbetto. I secondi di carne, sempre due, venivano serviti in modo rinascimentale: presentati interi in sala venivano poi porzionati e accompagnati dai contorni. Il dolce era la classica torta nuziale e non erano previsti altri dessert». Ora è un moltiplicarsi di angoli ed isole tematiche per movimentare la festa: «Per gli aperitivi e gli antipasti organizziamo di solito cinque o sei food corner. Un vero e proprio arcipelago di isole tematiche, da quella dei fritti al sushi, da quella delle trasparenze con finger-food di ogni sorta in contenitori monoporzione a quella delle tapas
con crostini e assaggi alla spagnola. Non manca mai il classico antipasto di salumi, presentati in modo scenografico». Si riducono a due, tre al massimo, le portate servite al tavolo: «In genere solo un primo e un secondo o, al massimo, due primi e un secondo. Tra i primi sono scomparse le paste ripiene: i casoncelli vengono sempre richiesti dagli stranieri mentre riusciamo a proporre solo ravioli particolari, in genere di pesce. Tra i secondi vanno molto i cartocci di pesce in carta fata, belli da presentare e leggeri e delicati. È scomparsa anche la polenta, a meno che non diventi spettacolare il servirla, in genere con paiolo di rame a vista e accompagnata da fragoline di mare e funghi e salsiccia in un food corner». La classica torta nuziale ormai appartiene alla preistoria: «Le torte sono ormai monumentali – conferma Longhi -, tutte rivestite all’inglese o all’americana e decorate in ogni dettaglio.
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Matteo Mottari
Matteo Mottari
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TENDENZE
IL PIONIERE
Tino Fontana
«Sono scomparsi piatti classici e di grande sapore, un vero peccato»
Silvio Longhi
È stato il re del catering - come titolò Harper’s Bazaar - l’artefice di ricevimenti e feste da urlo, dai più esclusivi party della moda italiana ai ricevimenti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia milanese, dai convivi politici di grandi leader a matrimoni da sogno. Tino Fontana oggi, a 71 anni, è in “semi-pensione” con una valigia sempre pronta per consulenze in giro per il mondo. Fontana ha costruito sull’arte del ricevere un vero e proprio impero, facendo scuola sin dalla fine degli anni Settanta in fatto di catering e ristorazione nella sua Bergamo. A “sprovincializzare” la città fu proprio lui, il ragazzino della Bassa, partito da Fontanella per fare il garzone in via Montenapoleone dal “Salumaio” dove, rubando il mestiere con gli occhi, aveva presto fatto carriera, da chef a capogastronomo, ma soprattutto fatto buone e utilissime conoscenze nella Milano che conta. In pochi anni a Bergamo pose, con un’abilità nel moltiplicare business come a Monopoli, le prime pietre di una catena internazionale di ristoranti, dalla Fifth Avenue a New York all’Hostaria Ferrari by Tino Fontana nel centro commerciale Hammer di Mosca. La prima avventura da imprenditore fu alla Gastronomia Ghisalberti dove organizzò i primi catering casalinghi, poi l’Excelsior San Marco, Il Gourmet, Il Caffè del Tasso e il Balzer. Il segreto di questo successo e di un ricevimento perfetto? «Non ho mai voluto fare
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Abbiamo cercato di dare un gusto il più italiano possibile al cake design con farce moderne di grande finezza e qualità». E mentre scende il numero degli invitati, si moltiplicano i problemi e le richieste: «Oggi è un vero supplizio gestire le allergie più disparate, dall’aglio alla cipolla, dal peperone alla buccia di pomodoro, dalla zucchina al nichel. Le intolleranze si sommano alle scelte etiche e religiose, dai vegani ai vegetariani. Ogni matrimonio porta con sé una media di quattro o cinque problemi e ce n’è quasi sempre uno non risolvibile. Da tempo
il personaggio, ma ho costruito sulla discrezione e sulla serietà la mia carriera – afferma -. Non bisogna mai dimenticare che noi siamo al servizio del cliente e che i riflettori sono per lui, perché suoi sono i meriti della riuscita di una festa. Ora invece è tutto al contrario: il ricevimento è fatto dagli chef-personaggi e non dall’ospite che ha organizzato l’evento. Io ho costruito business stando in penombra, senza mai rubare la scena o peggio pubblicizzare la mia attività. I miei riferimenti e biglietti da visita li ha sempre svelati, quasi come un segreto, chi organizzava la festa. E con questi passa-parola ho faticato quasi a tener fede agli impegni che rimbalzavano da ogni angolo del mondo». Molto è cambiato oggi rispetto ad un tempo e purtroppo, sottolinea Fontana, non in meglio: «Sono scomparsi piatti di grande gusto, dall’aragosta alla parigina al filetto alla Wellington, dal fagiano imperiale allo stracotto alla milanese, al classico ossobuco che, con la giusta gremolade, resta sempre un grande piatto. Ora i piatti vengono preparati in batteria, abbattuti e rigenerati. È un paradosso perché se un tempo trasportare le cucine era un lavoro immane anche solo dal punto di vista strettamente logistico, oggi le piastre ad induzione portatili e i forni a convenzione agevolerebbero la cucina espressa sul posto e invece si prepara quasi tutto in laboratorio come una
abbiamo investito molto nel garantire qualità e salubrità di ogni piatto, con tanto di laboratorio di analisi interna e certificazione di ogni processo. Eppure invece di avere a cuore la qualità di ogni singola porzione che serviamo, il mercato chiede più scenografia e allestimenti». Non manca una certa nota nostalgica: «Sul primo furgone che acquistai per i primi catering campeggiava lo slogan “Lo chef a casa tua”. C’era molto arrosto e poco fumo, ora invece ci si perde in una nube di minuzie e decori senza valorizzare l’arrosto che cuoce nel forno».
Matteo Mottari
febbraio 2015 catena di montaggio. La maggior parte dei catering aziendali è in mano a chi gestisce mense e il prodotto che arriva in tavola ne risente. È impossibile fare qualità se l’approccio è questo: “mensaiolo” e prefabbricato». La tradizione è stata soppiantata dalla spettacolarizzazione: «Mancano sapori, gusto, qualità, classe. I piatti gustosi della tradizione sono scomparsi – rileva -. C’è molta scena e poca sostanza e la cucina non può essere fatta solo di presentazioni. L’occhio è importante e l’ho imparato lavorando in gastronomia, dove ogni piatto deve appagare la vista subito dalla vetrina, ma non è tutto. La differenza la fanno sempre i sapori. Purtroppo la ristorazione si è appiattita nel gusto». Sono cambiate anche le materie prime: «I pesci sono in larga misura allevati – ricorda -, i polli nulla hanno a che fare con quelli che razzolavano nelle aie una volta. La materia prima è troppo importante per la riuscita di un piatto». Anche il servizio non sempre è impeccabile: «Sarà probabilmente effetto della crisi – nota -, ma mi è capitato più volte di vedere assoldare ragazzi non del mestiere, dagli studenti in cerca di un extra a, purtroppo, chi ha perso il lavoro e si arrabatta come può. Non ci si improvvisa cameriere dal mattino alla sera. Io ho sempre investito molto nel personale, nella formazione, nella preparazione della tavola e nel servizio. Ricordo che investii una follia per acquistare argenteria per mille persone». Oggi manca sempre quel tocco, quel quid che fa la differenza: «Ci sono molto chef davvero bravi, ma sono pochi quelli che riescono ad immedesimarsi nel cliente e ad esaudire i suoi desideri, andando addirittura oltre le aspettative. Molti ricevimenti sono davvero belli e ben orchestrati, eppure finiscono col risultare un po’ freddi. Gli ostacoli si superano sempre con il contatto umano e con l’empatia».
Verso l’Expo di Enrico Rota*
Così il Valcalepio giocherà le sue carte
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l 2015, oramai lo sappiamo tutti, sarà un anno davvero ricco di novità e iniziative e il vino di Bergamo, il Valcalepio Doc, si prefigge di essere il più possibile un attore protagonista. Lo abbiamo già detto in altre sedi, ma riteniamo sia fondamentale ripeterlo ancora, l’Esposizione universale milanese è un’occasione unica, una vetrina internazionale di grande rilevanza, un’opportunità che non capita spesso per avere gli occhi del mondo puntati addosso. Bergamo può giocare un ruolo di primo piano, sia per la vicinanza geografica sia per l’importanza che il nostro aeroporto riveste, considerando gli oltre 20 milioni di visitatori attesi nei padiglioni dell’Expo. Sono stime ormai consolidate, pertanto c’è da ritenere che un nutrito numero di passeggeri farà scalo a Orio al Serio nell’arco
dei sei mesi dell’esposizione e noi abbiamo tutta l’intenzione e la volontà di raccontare a questi visitatori internazionali chi è Bergamo e cosa produce. Racconteremo loro la storia del nostro territorio, una storia ricca, fatta di architettura, arte, cultura, cibo e, naturalmente, vino. Cercheremo di coinvolgere tanto i visitatori italiani quanto quelli stranieri nella tradizione del nostro territorio e nel racconto della realtà produttiva attuale, presentando loro le nostre eccellenze e introducendoli alle novità. Diversi saranno gli appuntamenti che vedranno coinvolto il Consorzio Tutela Valcalepio nel corso dei prossimi mesi: il primo, in ordine di tempo, sarà la partnership con il progetto Domus Bergamo in collaborazione con l’associazione Signum e l’amministrazione
del Comune di Bergamo, nonché la Fondazione Credito Bergamasco grazie alla mostra internazionale dedicata a Palma il Vecchio. Secondo, ma non certo per importanza, il Salone del Vino e dei Distillati Vinitaly 2015 a Verona, un appuntamento fondamentale per l’enologia internazionale, mai così importante come nel 2015, vista la prossimità dell’esposizione. Anche quest’anno il Consorzio rappresenterà l’enologia bergamasca con uno stand collettivo, aperto a tutti i produttori locali associati e non, sotto il nome di Piazza Valcalepio. A seguire, poi, ci sono le strette collaborazioni con l’Ascom per un progetto che vede protagonisti i ristoratori e gli albergatori di Bergamo; con il Comitato Decennale Veronelli, dove siamo stati tra i primi sostenitori; con l’Ente Fiera Promoberg, che ha ospitato tra l’altro il nostro ultimo convegno internazionale Emozioni dal Mondo; con la Camera di Commercio, che ha acquisito uno spazio importante a Expo, e con Gate, che tutti quanti ci auguriamo possa procedere con grande entusiasmo. A chiudere i sei mesi di Expo 2015, ci sarà infine l’Undicesimo Concorso Enologico Internazionale “Emozioni dal Mondo Merlot e Cabernet Insieme” che è già stato inserito nel masterplan degli eventi dell’Esposizione della Regione Lombardia e che si preannuncia ricco di novità davvero interessanti. *Delegato Expo per il Consorzio Tutela Valcalepio
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GourmArte per Expo
Lo “street food” protagonista al Balzer per venti settimane
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ergamo punta a diventare capitale italiana della cucina regionale con un format che prevede una location di prestigio, cuochi di fama nazionale ed internazionale, degustazioni, assaggi, momenti di formazione e intrattenimento. Il tutto grazie a “GourmArte per Expo”, il nuovo evento dedicato alla ristorazione di qualità ideato da Ente Fiera Promoberg e di scena durante tutto il periodo dell’esposizione universale di Milano, da maggio ad ottobre. Venti settimane scandite da un calendario ininterrotto di eventi, venti prodotti tipici, venti regioni rappresentate in un percorso ideale che proietterà l’appassionato pubblico gourmand direttamente all’evento fieristico con la quarta edizione di GourmArte 2015, in programma alla Fiera di Bergamo il 28, 29 e 30 novembre. All’insegna specializzata nella preparazione di una specialità caratteristica e tipica della cultura regionale del cosiddetto «cibo di strada» sarà affiancata la presenza di un’insegna bergamasca che contribuirà con la propria creatività alla reinterpretazione di un prodotto bergamasco sempre secondo i dettami dello street food. In ogni fine settimana GourmArte per Expo si concretizzerà, quindi, con la presenza di un cuoco di grande lustro proveniente da una delle venti regioni italiane, affiancato da un collega bergamasco per proporre a quattro mani l’interpretazione della cucina tradizionale del territorio di provenienza. L’evento sarà ospitato nei locali del “Balzer”, sul Sentierone, il cuore urbanistico e storico di Bergamo. Già dotato di sala ristorante (con la possibilità di ospitare fino a cinquanta persone) con cucine attrezzate e disponibili allo scopo, “Balzer” è il luogo ideale per coniugare la tradizione culinaria italiana con la ristorazione di alto livello. Inoltre, sarà allestito uno spazio per la degustazione street food, con una formula che
coniuga l’esigenza dei palati raffinati con la convivialità di un’esperienza gastronomica di classe, ma popolare ed accessibile a tutti. “Promoberg - sottolinea il segretario generale, Luigi Trigona - non solo è lieta, è orgogliosa di partecipare da protagonista alla vita di Expo 2015 con questa idea “prodromica di Gourmarte”. Sono due le principali vocazioni dell’Italia: abbiamo prodotti alimentari e un patrimonio di opere d’arte incomparabili che peraltro, proprio a Bergamo verranno esaltate dalla riapertura dell’Accademia Carrara e della mostra di Palma il Vecchio. L’intervento di Promoberg sarà mirato ad esaltare la varietà della cucina e dei prodotti agroalimentari italiani, che costituisce il vero nostro primato, grazie alle eccellenze regionali, dalla Valle d’Aosta alla Sardegna, attraversando tutte le regioni della nostra penisola. Eccellenze che offriranno ai visitatori una spettacolare offerta di piatti tipici con materie prime Dop”. “Promoberg - aggiunge il presidente Ivan Rodeschini - vuole dare anche in quest’occasione un contributo significativo alla promozione del territorio. E lo fa tramite un progetto che è strettamente legato a uno dei cinque itinerari tematici di Expo. Il gusto è conoscenza. Perché nutrirsi può essere anche uno degli atti più gioiosi per l’uomo. E il piacere del palato diventa strumento di conoscenza: i sapori e gli odori delle cucine internazionali raccontano la storia e le culture delle società del Pianeta. GourmArte per Expo - afferma ancora Rodeschini - consentirà quindi a tutti gli appassionati gourmand di apprezzare le eccellenze regionali realizzate da cuochi di fama nazionale e internazionale. E a chi non ha avuto ancora il piacere di venire a Bergamo, di conoscere una città e un territorio straordinari”.
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Tradizioni di Leonardo Bloch
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Bergamo carnivora, quando il pesce era solo cibo da dame l grande medievalista Fernand Braudel l’ha marchiata come l’età dell’Europa carnivora. Ed invero i due secoli intercorsi tra la metà del trecento e quella del cinquecento rappresentano per i partigiani dell’alimentazione vegetariana uno dei picchi storici di oscurantismo. Autorevoli studi attestano infatti che durante tale lasso di tempo i consumi annui pro capite di carne, pur con ampi scarti su base di ceto, fluttuassero dai 30/40 kg delle regioni mediterranee sino al quintale abbondante delle lande del nord. Livelli considerevolmente superiori a quelli di ogni altra epoca trascorsa, e ragguardevoli anche se raffrontati agli 80 kg dei nostri giorni - specie allorché si tenga conto che il rigido regime di magro allora vigente un giorno su tre oggi è solo uno sbiadito ricordo. Per uno dei beffardi paradossi che sovente determinano il corso delle vicende umane, le radici di così protratte condizioni di opulenza alimentare - un “periodo di vita individuale felice”, sempre secondo Braudel - affondano in una delle più tragiche calamità della storia. Fu infatti la spaventosa epidemia di peste nera che tra il 1347 ed il 1353 falcidiò il continente, spazzando via oltre un terzo della popolazione europea, a gettare le basi della susseguente fase di prosperità. Alle prese con un mondo di punto in bianco spopolato, i sopravvissuti al contagio si ritrovarono in dote risorse nutrizionali ampiamente eccedenti i loro fabbisogni. Ed il crollo della domanda di cereali determinato dalla profonda recessione demografica indusse i proprietari terrieri a riconvertire in maggese buona parte degli arativi, liberando così vasti appezzamenti per il pascolo. Nei nuovi prati stabili dell’area padana iniziò dunque a prender piede l’allevamento bovino, sino a quel momento sostanzialmente negletto. Non è pertanto casuale che, a margine di un’abbondanza di carni senza precedenti, giusto in quegli anni vedessero la luce gli storici caci vaccini di pianura, tra i quali avevano distinzione il Parmesano ed il Lodigiano. Le arti culinarie presero celermente atto del mutato quadro di disponibilità alimentari. Se i ricettari del duecento e del trecento facevano per molte preparazioni generico riferimento alla carne, senza curarsi di precisare da quale bestia questa dovesse provenire, a partire dal XV secolo
la letteratura gastronomica iniziò a dedicare specifica attenzione alle peculiarità delle singole specie e dei diversi tagli. Nell’inarrestabile crescendo di popolarità delle proteine animali, le classi più altolocate finirono addirittura per lasciarsi contagiare dal popolaresco trasporto per il quinto quarto. Sulle tavole nobiliari fecero così comparsa eccentriche portate di frattaglie, con punte di audacia quali bulbi oculari d’agnello e palato bovino, che nelle epoche pregresse erano inderogabilmente riservate al consumo plebeo. Da più di un indizio si desume che in questo impeto continentale di frenesia carnivora Bergamo fosse seconda solo a pochi altri centri. Tra i plurimi riscontri spicca l’ordinanza
febbraio 2015 emanata nel 1562 dal vescovo Federico Cornaro il quale, per prevenire le inottemperanze al regime quaresimale di magro, decretò che nel periodo intercorrente tra il mercoledì delle ceneri ed il sabato santo non più di tre beccai in città fossero autorizzati a tener aperta bottega. Per venir serviti i compratori dovevano peraltro essere muniti di una speciale autorizzazione, rilasciata dalle autorità ecclesiastiche solo dietro presentazione di adeguata documentazione medica. L’articolazione del disposto e la severità delle pene (scomunica, ammenda e punizioni corporali) la dicono lunga su quanto ricorrenti dovessero essere presso i nostri avi le trasgressioni all’astinenza precettiva dalle carni. Non meno emblematica è la lista delle imbandigioni per lo sposalizio di due rampolli della borghesia mercantile bergamasca - Girolamo Rota e Dorotea Alessandri - celebrato nel febbraio del 1523. Il banchetto nuziale si aprì con un servizio di credenza - ai nostri giorni un buffet freddo - assai più succinto di quello che un’occasione di tale importanza avrebbe di norma comportato. Vennero infatti serviti solamente zenzero candito, pignoccate con saponea (confetti allo zenzero), cavi di latte - antenati del mascarpone - e torta bianca (un timballo a base di formaggio fresco). Un così stringato preambolo era apparentemente inteso a non guastare l’appetito per la pantagruelica sarabanda di carni che di lì a poco avrebbe avuto corso, aperta da quaglie e pernici assieme a piccioni lessi ed allo spiedo. E poi fagiani, pavoni, anatre ed oche nella loro livrea - i volatili, secondo l’uso del tempo, erano scuoiati, arrostiti ed infine ricomposti nel loro piumaggio in modo da serbare sembianze da vivi. Quindi capponi bolliti, arrosto ed in limonia - un intingolo medievale a base di succo di agrumi e latte di mandorle. Ed ancora, inframmezzati da un imprecisato pasticcio che sarebbe comunque azzardato congetturare vegetariano, arrosti di lepri e di conigli a propria volta rivestiti del loro manto, seguiti da petto di vitello in salsa. Approssimandosi ormai l’epilogo del banchetto, gli impavidi cucinieri dovettero pensare che nulla più convenientemente di un’ultima tornata di arrosti potesse accomodare lo stomaco dei commensali. Ecco dunque che dagli spiedi vennero recati sulle mense porchette, capretti e lombi di vitello. Per soprammercato anche le portate deputate a guidare il disimpegno dall’abbuffata si trovarono impresso l’onnipresente marchio della carne: furono infatti servite gelatine di manzo, di vitello e di cappone. E finalmente Dio volle che giungesse il liberatorio turno di torte, pere cotte, confetti e marzapani. Superfluo rimarcare che in seno alla ciclopica lista delle vivande del pesce non comparisse neppure l’ombra, ancorché nei convivi più formali dell’epoca quest’ultimo fosse di norma alternato agli altri cibi. In realtà in calce al resoconto si fa incidentale cenno a carpioni ed anguille, temoli e trote, persici e bose. Per singolare combinazione i manicaretti ittici rimasero tuttavia esclusivo privilegio delle dame, tenute quel dì all’osservanza del regime di magro cadendo l’indomani la tutt’altro che imperdibile festività di Sant’Agata.
La storia del vino a Bergamo. cantinabergamasca.it
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Il caso di Roberta Martinelli
La denuncia dello chef La Mantia rilancia il dibatto sulla figura del cameriere, difficile da trovare, troppo spesso impreparato o poco interessato a maturare una professionalità
I ristoratori: “Personale di sala improvvisato e poco motivato” Istituto Alberghiero San Pellegrino
Vono: “La formazione ha colpe. I programmi sono un po’ datati” Che il lavoro di cameriere sia divenuto poco attraente e soprattutto poco professionalizzato lo dimostra il calo di allievi che scelgono questo percorso di studi. Una caduta in picchiata se si pensa che all’Istituto Alberghiero di San Pellegrino rispetto a tre anni fa i futuri camerieri sono diminuiti del 40%. Per Piergiuseppe Vono, docente del centro scolastico brembano, “i ragazzi sono motivati. Il problema non è questo”. “Il fatto - spiega - è che i genitori sull’onda dei programmi televisivi, inculcano nei figli l’idea di fare cucina e non sala e gli stessi ristoratori orobici puntano sulla cucina più che sul servizio. E così i ragazzi non vengono invogliati a questo lavoro”. Insomma, la questione sarebbe ribaltata. Vono da parte sua incassa l’accusa e riconosce la debolezza nel sistema formativo. “I programmi ministeriali sono arretrati - dice -. Le materie così come sono previste sono generiche e quindi poco interessanti per i ragazzi. Non sono all’avanguardia, Piergiuseppe Vono dovrebbero essere aggiornate sulle evoluzioni della professione. La cucina motiva anche perché già dalla prima classe lavorano sugli elementi. In sala purtroppo cominciano più tardi”.
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rovare camerieri giovani e adeguati è diventata un’impresa, se non titanica, di quelle che mettono in seria difficoltà. L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dallo chef Filippo La Mantia. La mancanza di camerieri giovani e motivati avrebbe addirittura rallentato l’apertura del suo nuovo ristorante a Milano, nei locali di quello che un tempo era il Gold. Il problema non è tanto trovare persone che fanno questo lavoro, ma giovani motivati: “I ragazzi che si presentano - denuncia lo chef romano - sono pochi e svogliati”. La notizia lascia l’amaro in bocca, non solo per il problema lavoro che investe i giovani, ormai da allarme sociale, ma anche per il fatto - non marginale - che il mestiere è di norma ben retribuito. Si potrebbe pensare che lo chef stellato sia troppo esigente. Non è così. Alla voce di La Mantia si è unita, quasi all’unisono, quella di Parini Durini, panificio di lusso di Milano. E anche a Bergamo il problema è sentito. I ristoratori lamentano tutti la difficoltà a trovare giovani desiderosi di lavorare in sala. Colpa forse anche della televisione, che propone sempre programmi sui cuochi e così il cameriere finisce per sentirsi di una classe inferiore. Sottolinea Daniela Nezosi dell’Accademia del Gusto, che “ogni qualvolta affrontiamo con i ristoratori il tema della sala ci diciamo che un buon servizio può salvare un cattivo piatto, ma un buon piatto non riesce a far dimenticare una cattiva accoglienza”. “Se in un locale - aggiunge Nezosi - non viene gestita l’attenzione al cliente in quel locale non ci si torna più, anche se si è mangiato bene, o persino molto bene. È bene allora che anche i camerieri, così come è avvenuto per i cuochi, riscoprano l’orgoglio della loro professione”.
febbraio 2015 I ristoratori
Petronilla Frosio: “Servono contratti di lavoro più flessibili” “È da tempo che segnaliamo questo proQuelli che vogliono professionalizzarsi blema. Quella del cameriere è una prosono pochi, pochissimi. “I ragazzi non capiscono che non sono più portapiatti. fessione non socialmente riconosciuta. Il cameriere è una figura tanto importante La televisione toglie interesse verso il laquanto il cuoco - afferma la ristoratrice –. voro di sala - dice Petronilla Frosio, titolaÈ un lavoro che presuppone una serie di re del ristorante Posta a Sant’Omobono requisiti, conoscere le lingue soprattutto, e presidente dei ristoratori bergamaschi accogliere con il sorriso, conoscere il vino dell’Ascom -. Per la maggior parte dei e oggi, con la normativa sugli allergeni, candidati essere cameriere oggi è solo intuire, chiedere prevenun ripiego, un lavoro momentivamente al tavolo se ci taneo per guadagnare sono delle intolleranze”. qualche soldo in un peAl di là del poco riconoriodo di disoccupazione”. scimento sociale, a sco“Dovrebbero inventare raggiare dal fare questo un format che valorizzi il mestiere ci sono anche personale di sala” - lancia gli orari. “I ragazzi quanl’idea Frosio. do fanno i colloqui chieIn effetti a proporsi sono dono quante ore devono giovani universitari, ragazlavorare e quante ferie zi disoccupati che lavohanno. Si parte da lì rano come camerieri per e poi è tutto in salita. brevi periodi e per necesPetronilla Frosio È passata l’idea che sità più che per scelta.
Antonio Lecchi: “Purtroppo il cliente si interessa sempre meno al servizio” Per Antonio Lecchi, patron del ristorante Al Rustico di Sorisole, “il problema è che il cliente si sta abituando a non ritenere così determinante il servizio. È attento al prezzo, al cibo e fa poco caso all’accoglienza in sala”. Insomma, una volta che ha mangiato bene e ha speso poco è contento. La dimostrazione è che “gli agriturismi, dove per lo più non c’è un servizio curato, sono pieni e i ristoranti mezzi vuoti”. “Il mestiere di cameriere - spiega Lecchi - è diventato poco sentito forse per questo, perché la clientela è poco attenta e pensa più all’aspetto economico. Inoltre, se si ha famiglia, lavorare di sera, il sabato e la domenica è un problema. Così accettano di fare questo lavoro solo quelli che sono costretti”. Il risultato è che nella professione impera l’improvvisazione. La maggior parte del personale in giro oggi per i ristoranti vuoi a causa della crisi, vuoi del proprietario del ristorante che vuole risparmiare - sono camerieri fai da te. Inoltre si moltiplicano i locali dove il cameriere è un ragazzo sotto i trent’anni, ha un grembiule nero, ti tratta come fossi un amico e sta servendo ai tavoli per pagarsi l’università. Peccato che spesso l’aspetto informale nasconda di fatto assenza di
il tempo libero è la cosa più preziosa. I giovani il sabato e la domenica vogliono divertirsi, gli adulti hanno famiglia e non vogliono sacrificarla”. La questione però non si esaurisce nella scarsa motivazione e preparazione del personale di sala. C’è un problema normativo . “Nella nostra attività - segnala Frosio - il lavoro si inventa tutti i giorni. Ci sono alti e bassi come non mai. O non fai niente o fai troppo. I clienti finiscono di mangiare alle 11 di sera ma stanno seduti fino all’una e trenta. Il personale sta due ore a girarsi i pollici e poi deve riordinare la sala, è l’ultimo a finire”. “Nei ristoranti che fanno banchetti quando c’è un matrimonio i camerieri lavorano 14/15 ore come si fa a metterli in busta paga? - aggiunge Frosio -. Allora si compensa in qualche modo ma si è passibili di rischi. E poi ci sono gli orari di apertura, diversi da un’attività a un’altra. Il lavoro è complicato.
professionalità e faciloneria. “Un servizio professionale oggi non c’è - sostiene Lecchi -. La scuola alberghiera in Italia non c’è più. Chi si propone come cameriere non ha preparazione, capita il ragioniere che ha fatto il corso per sommelier, poi ci sono i ragazzi selezionati tramite le agenzie interinali. Tutti vogliono lavorare ma oggi ci sono dopodomani Antonio Lecchi magari no. Così ognuno di noi ‘si ruba’ i più bravi o cerca di far imparare loro il mestiere ‘in casa’. Ma spesso, dopo avergli pagato i corsi ti dicono che se ne vanno perché in un altro locale gli hanno offerto cinquanta euro in più o perché la moglie ha problemi e così si perde l’investimento fatto su di loro, oltre che un bravo cameriere”. Secondo Lecchi “i ragazzi devono capire che fare il cameriere è un mestiere di cui essere orgogliosi, è un mondo intero che non si esaurisce nel servire i piatti ma è fatto di tante componenti. I clienti da parte loro devono riscoprire il piacere di un buon servizio in sala, di scambiare due parole, farsi consigliare un buon rum”. Anche per il ristoratore di Sorisole servirebbe una legge che regoli meglio gli orari di lavoro.
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IL RACCONTO di Giordana Talamona
Parla Fabrizio Sartorato, chef sommelier del tristellato “Da Vittorio”. «Un errore le cantine-museo con centinaia di bottiglie storiche. L’esperienza insegna quando arriva il momento di massima espressione e stappare». «Che emozioni servire al pranzo per gli ottant’anni della Regina Elisabetta e aprire un raro Heraud Grand Champagne 1802»
«Tanta umiltà. Così si può capire il mondo del vino»
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sentirlo parlare sembrerebbe quasi che Fabrizio Sartorato, chef sommelier del tristellato Da Vittorio, a Brusaporto, abbia vissuto più di una vita. Non sono molti, infatti, i professionisti della sommellerie che possono vantare la sua esperienza e una tale miriade di aneddoti, alcuni dei quali incredibili, che potrebbero riempire più di un’esistenza, come il Gin tonic della Regina Elisabetta o quel favoloso Cognac del 1802, aperto nottetempo per dei clienti speciali. C’è chi, per molto meno, si sarebbe già montato la testa, ma non lui che, piedi ben piantati a terra, continua a lavorare sentendosi un vero “sommelier al servizio del vino”. È una definizione che campeggia anche sul suo biglietto da visita. Cosa significa essere un “sommelier al servizio del vino”? «Il vino è un alimento vivo per il quale ho grande rispetto, per questo mi metto al suo servizio. Per rendergli giusto merito, infatti, occorre scegliere il momento di massima espressione in cui aprirlo, la giusta temperatura di servizio e utilizzare tutta la ritualità del caso. Ogni vino è come un’opera unica, che merita attenzione e rispetto». Come riesce a intuire quando un vino è pronto, prima che intraprenda la sua fase discendente? «L’esperienza maturata in vent’anni
di lavoro è stata determinante per affinare questa sensibilità. È chiaro che, pragmaticamente, è necessario tenere monitorata la cantina in modo che le bottiglie di pregio non rischino di andare sprecate. È perfettamente inutile ed economicamente folle, infatti, avere una “cantina-museo” con centinaia di bottiglie storiche, che hanno sorpassato la curva del loro massimo. Il vino, non a caso, è un alimento vivo che come l’uomo invecchia. Quando questo accade, senza che sia stato aperto, l’errore è del sommelier che non ha saputo anticipare e capire i tempi di evoluzione di quella bottiglia». Come nasce la sua passione per il vino? «Grazie a una bellissima esperienza fatta in Austria, al ristorante Altwienerhof di Vienna. Allora ero Chef de Rang e per gioco il sommelier del ristorante iniziò a farmi assaggiare dei vini. Ricordo che il mio primo bicchiere importante fu un Chateau La Tour, del quale non seppi dire altro se non “buono”. Durante quell’esperienza lavorativa ebbi modo di girare, per oltre due anni, le più importanti cantine dell’Austria, dove ho potuto conoscere i grandi Riesling, i Grüner Veltliner e i maglifici vini dolci. In seguito, nel 1999, tornato in Italia feci il primo corso da sommelier con l’Ais».
Fabrizio Sartorato Dunque una passione nata quasi per gioco che l’ha portata a lavorare in ristoranti di altissimo livello. «È andata proprio così. Sono stato all’Hospiz Alm a Arlberg in Tirolo, uno tra i pochi Hotel Restaurant al mondo ad avere quasi esclusivamente una selezione di grandissimi formati, circa 900 pezzi, dai cinque litri in su. D’altra parte quel Restaurant, posto proprio sui campi da sci, era frequentato dal gotha di politici, potenti e grandi ricchi, tra cui - ricordo - anche la Principessa Diana e la Regina Elisabetta. Dopo meno di due anni mi sono trasferito in Francia, a Vonnas, per imparare la lingua, lavorando nel ristorante Georges Blanc, 3 stelle Michelin. È di quel periodo il mio diploma di Sommelier Conseil conseguito all’Università del Vino di Suze La Rousse, tra le più importanti al mondo. Successivamente mi sono trasferito a Londra con la mia compagna per continuare la mia formazione linguistica. Conoscevo bene, infatti, sia il tedesco che il francese, ma mi mancava l’inglese, quindi accettai di
febbraio 2015 lavorare in un altro 3 Stelle Michelin, il The Waterside Inn a Bray». Qual è il ricordo più emozionante del periodo passato all’estero? «Ce ne sono tanti, che è difficile sceglierne uno. Direi che tra i pranzi più importanti che ho seguito, c’è sicuramente quello per gli ottant’anni della Regina Elisabetta, al quale ha partecipato tutta la Royal Family. Ricordo che qualche mese prima il General Manager del Waterside Inn mi informò che, di lì a qualche mese, avremmo avuto un pranzo molto importante per il quale avremmo dovuto scegliere i migliori vini della cantina, senza alcun limite di spesa. Come aperitivo, per esempio, servimmo uno Champagne Pommery Louise 1989». Ricorda cos’ha bevuto la Regina? «Ha pasteggiato a Gin tonic, come il Principe consorte, Filippo, che ha chiesto una caraffa di tonica a parte. Il pranzo fu servito in una saletta privata, collocata in un’ala distaccata del ristorante, con un vasto e rigoglioso giardino tutt’intorno». Dopo 12 anni passati all’estero, nel 2006, torna in Italia per diventare Chef Sommelier del tristellato Da Vittorio. Cos’ha imparato dalla famiglia Cerea? «Molte cose, ma quello che li contraddistingue è l’estrema flessibilità, difficilmente trovata in egual misura all’estero. Se c’è un cliente che chiede una variazione sul menù o se fa ritardo, per esempio, si cerca in tutti i modi di accontentarlo. So per certo che se il cliente di un qualsiasi altro ristorante stellato francese, dovesse chiamare per chiedere di tenere aperta la cucina oltre l’ora prevista, si sentirebbe dire un deciso “mi dispiace, ma non è possibile”. Da Vittorio, al contrario, il cliente è considerato il padrone di casa». Quando gli chef creano dei nuovi piatti, tutta la brigata viene coinvolta? «Certamente, perché quando cambia il menù in base alla stagione tutto il gruppo di lavoro deve essere formato. Nella settimana del cambio menù, quindi, vengono fatti assaggiare tutti i piatti. Nel mio caso posso anche chiedere di fare degli assaggi durante le serate, per capire meglio un ingredien-
te o una cottura per abbinare il miglior vino possibile». Rispetto all’assegnazione delle Stelle Michelin, venite avvertiti dell’arrivo o dell’identità degli ispettori? «No. Sappiamo che possono arrivare in qualunque momento, in genere due o tre volte all’anno, ma non sappiamo chi siano. In realtà Da Vittorio ogni cliente viene trattato con la stessa attenzione e cura, senza alcuna differenza di sorta. L’obiettivo è quello di far passare un bel momento al nostro ospite, chiunque egli sia». Dal momento che anche il servizio concorre all’attribuzione delle Stelle, le sente un po’ sue? «No, non mi permetterei mai di dirlo. È chiaro che per l’attribuzione delle Stelle Michelin vi dev’essere alta uniformità qualitativa tra la location, la cucina e la sala. Ognuno fa la sua parte». La mettiamo alla prova. Ci propone tre piatti degli chef Cerea in abbinamento a tre vini della vostra selezione? «Certamente. Inizierei con un Cappuccino di spuma di patate con funghi porcini cacao e tartufo bianco, abbinato a un Terre di Franciacorta Chardonnay 2010 Az. Ag. Cà del Bosco. A seguire delle Linguine all’amatriciana di pesce con un Colli Tortonesi Timorasso “Fausto” 2011 Vigne Marina Coppi e come secondo di carne un Filetto di vitello piemontese alla Rossini con un Barolo Brunate 2006 Az. Vit. Ceretto». In vent’anni di carriera, di cui 12 anni passati all’estero, quali sono state le tre grandi emozioni enologiche? «Ricordo che quando lavoravo da Georges Blanc ho aperto uno Chateau d’Yquem del 1937, considerato dalle guide di settore il vino “perfetto” da 20 punti su 20. Un noto giornalista svizzero di settore ebbe modo di dichiarare che, unica eccezione al mondo, avrebbe dato a quel vino 21 punti su 20, se avesse potuto. Ricordo che il profumo di bergamotto troneggiava elegantemente su tutti gli altri: quello Chateau d’Yquem era ancora un fanciullo dopo settant’anni! Un’altra esperienza rara l’ho vissuta al Waterside Inn di Londra, quando ho servito a tre arabi il vino più importante della mia vita, un La Tâche Grand Cru Romanée-Conti del 1978,
l’annata più vecchia in carta. Ricordo che quando ho versato il primo sorso nel bicchiere, i profumi del vino si sono diffusi in tutta la sala. Non avevo mai sentito un vino con aromi terziari evoluti tanto intesi di tartufo, goudron, pelle e rum, da coprire una distanza di almeno quattro metri quadrati, tutt’intorno alla bottiglia. Non ultimo, Da Vittorio abbiamo, ancora per poco, un Cognac L’Heraud Grand Champagne 1802 a dir poco favoloso. Si tratta di una bottiglia di sei pezzi, forse rimasta l’unica al mondo. Il prezzo stimato per un bicchiere è di circa 1.000 euro». In quale occasione è stata aperta la bottiglia? “Pochi anni fa, per un grandissimo estimatore di vini e distillati canadese. Già da tempo, infatti, stavamo aspettando la persona giusta a cui proporlo,
perché sia io che la famiglia Cerea desideravamo che il primo assaggiatore fosse un vero esperto. L’occasione giusta è arrivata a fine cena, quando fui lui stesso a chiederci se era possibile aprire quella rarità. Erano le 2.30 del mattino quando scesi a prendere la bottiglia in cantina. Chiamai a raccolta tutta la famiglia Cerea per quell’evento, che fu straordinariamente emozionante per tutti noi. Quel Cognac era favoloso, con una persistenza di qualche ora in bocca, che tornava a più riprese con straordinaria eleganza». Da ultimo, che consigli darebbe a un giovane sommelier? «Di essere umile e di continuare a studiare. Mai sentirsi arrivati e cercare di trarre i migliori insegnamenti da tutti. Solo così si può iniziare a capire il mondo del vino».
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L’intervista di Laura Bernardi Locatelli
Ormai da due anni a Bali, l’ex patron dell’Osteria di via Solata fa un primo bilancio della sua esperienza asiatica. E manda un invito ai colleghi italiani: «Spero che non restino sulla carta i buoni propositi di abbassare i prezzi e di mutare la concezione di cucina curando anche la sintonia tra brigata e sala»
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zio Gritti, cuoco e sommelier bergamasco, che ha costruito il suo successo in Città Alta all’“Osteria di via Solata”, da quasi due anni si è trasferito nella paradisiaca Bali, dove ha aperto il “Solata Restaurant”, a Seminyak. Con lui se n’è andata anche la stella Michelin che brillava in Città Alta da quasi dieci anni, dal 2005. Ora si divide tra il suo ristorante a Bali e la capitale indonesiana Giacarta, dove è impegnato nella consulenza di ristoranti importanti nei grandi mall, piccole città del commercio incastonate in grattacieli vertiginosi, dal “Le mieux” nel Pacific Place al “Prime Cut” nel Wisma Mulla. Ha inoltre rappresentato la cucina tricolore per due eventi dell’Ambasciata Italiana a Giacarta, al Kempinsky Hotel presso il ristorante “Casa d’Oro” e a Bali al “Gyanyar”. Dall’Oriente dinamico e ruspante di Giava al paradiso per turisti di Bali, Ezio Gritti guarda con nostalgia alla sua Bergamo e non manca di lanciare uno sguardo appassionato ma al tempo stesso critico alla ristorazione di casa nostra, facendo il punto sulla
Gritti: «È tempo che la ristorazione cambi passo» Ezio Gritti
cucina bergamasca e italiana perennemente sotto i riflettori dei media. Come va a Bali? «Benone. Mi mancano però sempre tanto Bergamo, le montagne, le valli, ma soprattutto le persone che amo e gli amici. È quasi un anno e mezzo che non abbraccio mio figlio e da più di un anno che non vedo mia madre. Li vedo sempre su Skype ma il poterli abbracciare fisicamente è cosa ben diversa. Mi mancano davvero molto, come tutti gli amici».
«L’Indonesia ha contaminato la mia cucina. Ci sono prodotti straordinari. Qui adorano gli spaghetti al pomodoro e basilico, il nostro vialone nano veronese e vanno alla grande anche i piatti a base di funghi e pollo gras». «Speriamo che la Michelin prima o poi arrivi anche da queste parti» Bali è un paradiso o c’è qualcosa che non sopporta o a cui fa fatica
ad abituarsi? «Il traffico è micidiale e la corruzione non manca, anzi è istituzionalizzata. Quanto alla ristorazione, fatico ad abituarmi a vedere gente mangiare a tutte le ore del giorno: ad esempio ora che non sono ancora le 17 al tavolo a fianco hanno ordinato costolette d’agnello con funghi… Qui mangiano dalle 10 del mattino alle 22 e credo sia impossibile educarli ad una suddivisione più razionale dei pasti. Le cucine non si fermano mai» Quali materie prime trova più interessanti? «Qui si trovano materie prime straordinarie come la carne di wagyu, un manzo dal manto nero che arriva dall’Australia. Segue lo stesso trattamento del più famoso bovino Kobe giapponese, nutrito a birra e grano e massaggiato costantemente. Il taglio risulta marmorizzato da un reticolo di venature di grasso che si sciolgono in cottura, regalando una morbidezza straordinaria alla carne. La frutta tropicale è eccezionale, ha dei sapori unici, oltre ad avere costi irrisori. C’è solo l’imbarazzo della
febbraio 2015 scelta tra otto tipi diversi di mango, papaya gigantesche, lime. Un frutto veramente incredibile è il durian, dal gusto molto dolce con consistenza ed intensità paragonabili al burroso foie gras. È perfetto per i soufflè e i gelati, bisogna solo avere il coraggio di provarlo dimenticando l’odore forte, acre e pungente che emana, che ricorda il formaggio iper maturo. Il gusto è straordinario come la consistenza della polpa, un mix perfetto di morbidezza e grassezza. Anche il jackfruit è eccezionale per un soufflè glacé alla vaniglia che a queste latitudini, nel regno delle spezie, è tutta un’altra cosa». Meglio il pesce indonesiano o quello del Mare nostrum? «Il nostro ha sapori unici, non c’è gara. Ma qui si pescano ugualmente tra le 13mila isole e atolli indonesiani pesci eccezionali: il barramundi ricorda il nostro branzino, poi c’è il red snapper che somiglia al nostro pagello, il coral trout che si avvicina alla triglia. Lo squalo ha carni pregiate e anche il fish butter, che ricorda davvero il burro. Si trovano gamberi di ogni sorta, granchi e granciporri, aragoste, ma mancano gli scampi e gli astici». Come vede la ristorazione bergamasca dall’altra parte del mondo? «Mi spiace vedere guerre per accaparrarsi i clienti a suon di campagne e iniziative pubblicitarie. Allo stesso modo percepisco un certo fermento, oltre a grandi aspettative, legati ad Expo. Mi auguro che questo grande evento possa dare una marcia in più al settore agroalimentare e della ristorazione. A patto che la città
migliori: si parla da anni del collegamento ferroviario tra Bergamo e l’aeroporto di Orio ma non se ne è fatto nulla. I servizi pubblici sono insufficienti e nelle festività è impossibile raggiungere Città Alta. Del resto i parcheggi scarseggiano e i taxi hanno costi proibitivi…» Con lei se ne è andata anche l’ultima stella Michelin cittadina…. «È stato un colpo al cuore vedere la mia città senza stelle Michelin: anche se non è stata una sorpresa, come del resto stabilisce chiaro il regolamento della guida, è stata comunque una brutta notizia». Quale augurio per il 2015 per la ristorazione italiana? «Spero che non restino sulla carta i buoni propositi di abbassare i prezzi e di cambiare la concezione di cucina. La vera rivoluzione è, come ripeto da anni, “il ritorno al passato”, ad una cucina di qualità, alla concretezza, alla corretta esecuzione e interpretazione. La creatività e fantasia oltre certi limiti diventa stravaganza e da troppi anni l’estro non ha un freno né un limite». Da quali valori ripartire? «Dalla conoscenza e dal rispetto della materia prima, dal giusto rapporto qualità/prezzo e dalla sintonia tra cucina e sala. Si possono fare piatti incredibili ma se in sala vengono serviti con sufficienza tornano indietro come frisbee. Purtroppo tutti i ristoratori pensano sempre alla brigata di cucina ma non ad un ottimo sommelier o a un maitre. Basti la prova: tutti sanno nomi e ruoli della brigata in cucina, solo in pochi conoscono quelli della sala, che vengono definiti
“camerieri” e basta... mentre invece ci vorrebbero molti piu’ “maggiordomi” con l’eleganza e padronanza del conoscere». Tutti vogliono fare lo chef. Colpa della tv? «Non ho mai amato il termine chef, gli ho sempre preferito e mi sono sempre definito un cuoco. I cuochi hanno le padelle in mano, trasformano le materie prime e le mettono nel piatto. Questo è il mondo della cucina vera, che non è certo quello delle tv. In cucina si lavora fianco a fianco, si crea un legame di familiarità unico. Tutti vogliono cavalcare tendenze, ma la gente è stanca dei fiorellini e ghirigori nei piatti. Bisogna tornare a valutare i piatti in base al gusto: nella ristorazione a tutti i livelli mi sembra che ci sia molto fumo e poco arrosto». I media danno un’immagine distorta della cucina? «Per mia scelta ho lasciato la tv dopo diverse trasmissioni. Troppo urlata e fanfarona. Per andare in televisione e non mancare al ristorante ho sempre scelto di andarci nel giorno di chiusura, rinunciando al mio giorno libero. L’ho fatto con serietà, ma quando mi è stato chiesto di fare dello show che oltre a non appartenere alla mia indole si scontra con il mio ideale di professionalità, ho lasciato lo studio sbattendo quasi la porta». Passiamo più ore a guardare cucinare in tv che a farlo davvero. Un vero paradosso? «Le massaie sono una specie in estinzione. Eppure la cucina è diventata grande e soprattutto anche grazie a loro, a donne, madri, nonne che
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L’intervista hanno nutrito generazioni con manicaretti più o meno elaborati. Quante giovani donne preparano ancora il ragù o anche solo un minestrone di verdura come Dio comanda?» L’Indonesia ha cambiato la sua cucina? «L’ha contaminata. Sono nati così piatti come gli spaghetti ghiacciati conditi con olio extra vergine, mango fresco, menta e polvere di caffè, una ricetta di confine che unisce come in un ponte Indonesia e Europa. Uso latte di cocco, cocco dry, platano e banana, ma non rinuncio a piatti che mi ricordano la mia Bergamo. La ricetta dei casoncelli è immutata, dal ripieno alla pasta fresca, non c’è alcuna differenza tra la mia Osteria di via Solata in Città Alta e il Solata Restaurant a Seminyak. Pasta fresca e paste ripiene non mancano mai anche se, certo, per i ravioli ai funghi, uso champignon e porcini secchi. Non ho rinunciato alla polenta all’inizio, ma con una temperatura media che oscilla sempre tra i 28 e i 32 gradi ho finito con l’arrendermi, anche perché forse io stesso avrei difficoltà a mangiarla. Tra i piatti classici, in carta non mancano la guancia di manzo brasata, il risotto allo zafferano con l’ossobuco e la cotoletta alla milanese. E faccio il pesto rigorosamente a mano col mortaio». Quali piatti vanno per la maggiore? «Adorano gli spaghetti al pomodoro e basilico, del resto uno dei piatti che io stesso preferisco per la loro semplice e perfetta eleganza al gusto. Vanno alla grande anche i piatti a base di funghi e anche la mia versione del pollo Ayam (bellissimo esemplare nero dalla testa alle zampe, ndr) farcito con ciliegie, formaggio cheddar e salsa di foie-gras. Il risotto poi conquista l’Indonesia: il nostro vialone nano veronese viene apprezzato moltissimo qui dove si usa esclusivamente basmati, quasi sempre stracotto». I prodotti italiani conquistano anche l’Oriente? «Assolutamente sì, tanto che se non si sta attenti alle etichette si rischia di acquistare dei veri tarocchi. Perfino a me che ho l’occhio allenato è capitato di acquistare dei biscotti secchi che avevano la stessa grafica di uno dei nostri marchi più famosi, con cui però non avevano nulla a che fare. Ci sono invece casi eclatanti come il “parmiggiano”o “parmegiano”, la “mozzarilla” che arriva dal Canada ed altri orrori». Quali sono i prossimi obiettivi? Far brillare la stella anche a Bali? «Qui, nella parte bassa dell’Asia, la guida Michelin non si è ancora spinta. Se Giappone ed Hong Kong rappresentano delle eccezioni, Filippine, Malesia, Indonesia e Singapore sono ancora escluse dalla più prestigiosa guida gastronomica. Sono orgoglioso però di ricordare di essere l’unico chef italiano stellato ad essersi trasferito in Indonesia. Speriamo che prima o poi la Michelin arrivi anche qui».
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torna Per rendere omaggio alla grande mostra di Palma il Vecchio e cogliere tutte le opportunità legate all’Expo, InGruppo torna a promuovere i propri menù a un prezzo speciale. Lo farà dal prossimo 10 marzo fino al 31 ottobre. La formula resta immutata, a parte il prezzo che ha subito un leggero rialzo. Sarà pertanto possibile consumare menù completi (antipasto, primo, secondo e dolce) comprensivi di vino, bevande e caffè, al prezzo prestabilito che quest’anno passa da 99 a 110 euro a coppia. Cifra che sale a 220 euro, sempre per due persone, sia Da Vittorio (3 stelle Michelin) sia dal bistellato “Devero” di Cavenago, nuovo “acquisto” di InGruppo. La promozione è valida a pranzo e cena e in tutti i giorni di apertura del locale, esclusi San Valentino, Pasqua e lunedì Dell’Angelo. Si può prenotare via telefono o e-mail, ma specificando che si intende prenotare il menù “InGruppo”. Le proposte dei ristoranti verranno aggiornate periodicamente sul sito www.ingruppo.bg.it.
Coinvolti Al Gigianca, Collina e trattoria Visconti
SlowCooking Tour 2015 fa tappa in tre ristoranti bergamaschi
febbraio 2015
solidale con lo show-cooking in fiera Grande evento il 10 marzo per raccogliere fondi a sostegno di un progetto della “Paolo Belli”. Riparte la promozione dei menù completi a prezzi speciali, ma il costo a coppia subisce un piccolo ritocco Il via alla nuova stagione sarà concomitante col grande evento solidale che InGruppo ha programmato per il 10 marzo alla Fiera di Bergamo. Nell’enorme corridoio centrale, i 16 ristoratori aderenti al sodalizio allestiranno altrettante postazioni per dar vita ad un suggestivo showcooking. Ogni chef proporrà un piatto che sarà abbinato ai vini dei produttori bergamaschi del gruppo “Sette Terre”. Un format già
sperimentato con successo nel dicembre 2013, quando la fiera fu raggiunta da oltre 500 persone. Ma quest’anno gli organizzatori sperano di poter superare quel traguardo per dare maggiore forza alla raccolta fondi da destinare al progetto promosso dal Rotary Club Bergamo a favore della Fondazione Paolo Belli che sta realizzando “La nuova Casa del Sole” nei pressi dell’ospedale di Bergamo. Sempre nell’ambito della serata, InGruppo lancerà anche una lotteria a sostegno del “Premio Francesco Arrigoni”, assegnato annualmente a una figura meritevole nel campo enogastronomico.
Prende il via il prossimo 1° marzo, per concludersi il 3 novembre, lo SlowCooking Tour 2015. Un tour enogastronomico in tredici tappe organizzato dai ristoranti della Lombardia aderenti all’associazione SlowCooking. Nella provincia di Bergamo la manifestazione farà tappa all’osteria al Gigianca di Bergamo, al ristorante Collina di Almenno San Bartolomeo e alla trattoria Visconti di Ambivere. Valorizzazione della la cucina e della cultura del territorio con piatti della tradizione o rivisitati dagli chef, rispetto della stagionalità, accurata selezione nella scelta dei prodotti, valorizzazione della filiera corta, ma anche ricerca, creatività e soprattutto passione per il buon cibo e il buon bere sono gli ingredienti primari delle proposte dello SlowCooking Tour. Ad ogni tappa ogni locale si racconterà con i propri saperi e sapori. Sei le provincie coinvolte: da Bergamo a Sondrio, da Brescia a Como, passando per Lecco e la provincia MonzaBrianza, ognuna con le proprie peculiarità culinarie e le bellezze del territorio. Ecco come funzione lo SlowCooking Tour: i partecipanti riceveranno dal primo ristorante visitato una scheda che attesta la partecipazione al tour e, tramite l’apposizione del timbro, la conferma delle tappa effettuata. Ad ogni sosta gastronomica il commensale, al termine del pasto, riceverà un omaggio gastronomico del territorio e la possibilità di partecipare alla grande cena finale in programma il 4 novembre presso il ristorante San Gerolamo di Vercurago. La cena finale, preparata dai cuochi dei
Il costo per l’ingresso all’evento fieristico sarà di 55 euro a persona. Per prenotazioni si può telefonare al 380 2004946. I ristoranti di “InGruppo” sono: Frosio - Almè; Collina - Almenno San Bartolomeo; Camelì - Ambivere; Colleoni dell’Angelo - Bergamo alta; Lio Pellegrini - Bergamo; Roof Garden - Bergamo; Da Vittorio - Brusaporto; Saraceno - Cavernago; Anteprima Chiuduno; Al Vigneto - Grumello del Monte; La Caprese - Mozzo; Posta Sant’Omobono; Rustico Villa Patrizia - Sorisole; LoRo - Trescore Balneario; Brughiera - Villa d’Almè; Ristorante Devero - Cavernago di Brianza.
locali aderenti all’iniziativa, sarà gratuita per chi avrà visitato tutti i tredici ristoranti aderenti al tour, o scontata in proporzione variabile in base al numero di quelli visitati. Tra le numerose e varie proposte culinarie lo SlowCooking Tour darà, per esempio, la possibilità di gustare i Casoncelli fatti in casa, i Nusecc, la Pecora Gigante Bergamasca ed i Formaggi delle Valli Orobiche per la provincia di Bergamo, il Missoltino del Lario essicato al Sole, la Pecora Brianzola, il Risotto al Pesce Persico, la Luganega Monzese e gli Asparagi di Mezzago per la Brianza ed il Lago di Como, i Pizzoccheri della Val Chiavenna, la Brisaola artigianale, il Bitto Storico per la provincia di Sondrio, il Manzo all’Olio e lo Spiedo di Pollo per la provincia di Brescia. I tredici ristoranti aderenti allo SlowCooking Tour 2015 sono, oltre ai tre bergamaschi già citati: Osteria Sali e Tabacchi di Mandello del Lario (Lc), agriturismo La Costa di Perego (Lc), San Gerolamo di Vercurago (Lc), Osteria del Crotto di Morbegno (So), Cantinone a Madesimo (So), Osteria al Dosso di Aprica (So), Trattoria Uomo Selvatico di Chiavenna (So), Crotto del Sergente di Como, La Madia di Brione (Bs) e la Piana da Gilberto di Carate Brianza (Mb).
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appuntamenti
Quando la ciaspolata si fa golosa
In inverno la passeggiata in montagna indossa le ciaspole e si muove lungo sentieri innevati. Un sano e corroborante esercizio che permette di godere di panorami suggestivi, ancor più gratificante se accompagnato dalla buona tavola. Per chi vuole unire all’escursione la scoperta dei prodotti locali, l’associazione Kairòs Brembo Emotion propone ai Piani dell’Avaro (Cusio) la manifestazione “Ciaspolando con Gusto”, tour a tappe alla scoperta delle baite che durante la stagione estiva sono dedicate all’alpeggio e che per l’occasione, invece, accolgono alcuni produttori con le loro tipicità. Gli appuntamenti sono domenica 22 febbraio e 8 marzo, con partenza libera tra le 10 e le 13. Un’alternativa è la ciaspolata con degustazione finale al centro di valorizzazione dell’alpeggio Ai Ciar: sabato 21 marzo in notturna e domenica 24 marzo di giorno. Sempre ai Piani dell’Avaro, l’albergo rifugio Monte Avaro offre la possibilità di prenotare una ciaspolata serale con accompagnatore, noleggio ciaspole e cena a base di piatti tipici tutto compreso, ogni sabato sera, ma anche in serate concordate. La ciaspolata al chiaro di luna con cena è proposta anche dal rifugio Ristorobie. A Mezzoldo, sabato 14 marzo, è in programma invece una ciaspolata al tramonto con arrivo e cena al rifugio Passo San Marco 2000. Spostandosi in Val Seriana, domenica 22 febbraio si tiene una ciaspolata in Valzurio, in comune di Oltressenda Alta, che raggiungerà la Baita del Moschel, la Baita Pagherola bassa e al ritorno la Baita valle azzurra per il pranzo. Sabato 7 marzo appuntamento in notturna a Lizzola con cena tipica in rifugio.
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FINO A FINE MARZO
Menù della tradizione lungo la Valle dell’Oglio Il corso del fiume come una guida gastronomica, che svela con il procedere verso valle il mutare di prodotti e dei piatti tipici. Succede con “Il percorso del gusto della Valle dell’Oglio”, rassegna gastronomica promossa dai Parchi Oglio Nord e Oglio Sud, che è partita a novembre e si concluderà a fine marzo. Si snoda in 35 locali, tra ristoranti, locande, osterie e agriturismo, che propongono menù della tradizione a prezzi tra i 20 e i 40 euro. Dai casoncelli si passa ai tortelli di erbe o di zucca, dal coniglio ai bolliti, senza dimenticare i salumi e le diverse interpretazioni del pesce di acqua dolce. I menù ed i prezzi sono riportati dettagliatamente nella brochure pubblicata on line (www.parcoglionord.it). In provincia di Bergamo partecipano 12 insegne: a Sarnico Ristorante Bèla Eta e Cascina Boneta; a Villongo Agriturismo Cascina Oglio e Trattoria Zucchello; a Credaro Ristorante La Cascina, Trattoria da Mario e Agriturismo La Cascina dei Prati; a Palosco Ristorante Ponte Cherio; a Cividate al Piano Ristorante Magetta e Ristorante Locomotiv; a Pumenengo Osteria Finiletti; a Torre Pallavicina Trattoria dell’Angelo.
DAL 21 AL 23 FEBBRAIO
Live Wine, a Milano un nuovo salone del vino naturale L’attenzione al vino naturale prende forma in un nuovo appuntamento milanese dal respiro internazionale. Dal 21 al 23 febbraio al Palazzo del Ghiaccio di via Piranesi va in scena Live Wine, organizzato in collaborazione con la manifestazione Vini di Vignaioli-Vins de Vignerons e Ais Lombardia. Il salone ospita una nutrita rappresentanza da tutte le regioni d’Italia e vignaioli provenienti da Francia, Georgia, Slovenia e Spagna, che presenteranno al pubblico i loro vini prodotti secondo natura. Per chiarire meglio di cosa si tratta, gli organizzatori spiegano che a Live Wine si può trovare solo vino prodotto e imbottigliato da chi lo segue personalmente in vigna e in cantina, che viene da un vitigno che non è stato trattato con prodotti chimici di sintesi, è fatto con uva vendemmiata manualmente e non contiene additivi non indicati in etichetta. Oltre ai banchi di assaggio, sono previsti incontri, conferenze e speciali eventi serali con degustazioni a tema in enoteche, ristoranti e location selezionati della città (Live Wine Night). Con il biglietto d’ingresso (15 euro, 12 euro per sommelier tesserati) è possibile degustare tutti i vini presenti e acquistare le bottiglie direttamente dai produttori. Sono presenti anche banchi dedicati agli alimenti artigianali e all’editoria specializzata. www.livewine.it.
Luca Maruffa
VALLI BERGAMASCHE
febbraio 2015
FINO AL 28 FEBBRAIO
I ristoranti cremaschi imbandiscono “La Maialata” Impegnati nella valorizzazione della cucina tradizionale del territorio, i ristoratori dell’Associazione “Le tavole cremasche” propongono nel corso dell’anno una serie di appuntamenti gastronomici ispirati e cadenzati dal ritmo delle stagioni. Dal primo al 28 febbraio l’iniziativa non poteva che essere dedicata al maiale e all’uso di allevarlo in proprio e macellarlo in casa nei periodi più freddi dell’anno, che si sposa con l’abitudine di fare abbondante scorta di proteine e grassi prima del digiuno quaresimale. La rassegna ha un titolo che più esplicito non si può, La Maialata, ed è giunta alla 18esima edizione. Vi prendono parte sei ristoranti che propongono menù guidati a prezzi tra 25 e 30 euro, bevande escluse. La scelta non
DAL 21 AL 24 FEBBRAIO
A Montichiari, l’agroalimentare in fiera per operatori e appassionati Dall’incontro di Golositalia, in precedenza di scena a Brixia Expo, e Aliment & Attrezzature è nato un nuovo evento fieristico bresciano che le ricomprende (anche nel nome: Golositalia – Aliment), in programma dal 21 al 24 febbraio al Centro fiera del Garda di Montichiari. La manifestazione, dedicata al settore agroalimentare nelle sue diverse declinazioni, è rivolta a consumatori, operatori e buyer ed ha superato quota 400 espositori. Il percorso è suddiviso in sei aree tematiche (food, wine, beer, bio-vegan-glutenfree, professional technology & restaurant), alle quali si affianca una sezione eventi che propone, in una logica di potenziamento rispetto alle esperienze precedenti, oltre 70 appuntamenti tra corsi, seminari, concorsi, degustazioni e dimostrazioni. La scelta è vasta e spazia tra gli argomenti, dal cioccolato al senza glutine e vegan, passando per le caramelle d’altri tempi, i liquori fatti in casa e il lievito madre. Non mancano gli approfondimenti per i professionisti, come la nuova normativa sugli allergeni, il marketing, il food design, il ruolo dei social media, oltre alla scoperta dei prodotti e all’arte degli abbinamenti. www.golositalia.it
manca e si moltiplica grazie alla versatilità del suino e alle interpretazioni dei ristoratori, tra salsicce, cotechino, stinco, filetto e ancora pancetta e guanciale, fino all’hamburger di culatello nella foglia di verza e all’insalata di piedino disossato. I locali che partecipano sono: Il Ridottino e Trattoria Quin a Crema, Bistek (Trescore Cremasco), Hostaria San Carlo (località Colombare di Moscazzano), Trattoria Tre Rose (Castelleone), Trattoria Volpi (Nosadello di Pandino). Info: www.tavolecremasche.it. La rassegna si sviluppa parallelamente alle manifestazioni legate al Carnevale cremasco in programma fino al 22 febbraio.
FINO AL 6 APRILE
Al Festival della Cucina mantovana ogni fine settimana sfila una specialità Non occorre rincorrerli di sagra in sagra, i piatti della cucina mantovana da tramandare e custodire sfilano un fine settimana dopo l’altro al “Festival della Cucina Mantovana” fino al 6 aprile. Il sabato a cena e la domenica a I capunsei pranzo e a cena, nell’ampia area polivalente del Palabam alle porte della città, si mettono ai fornelli le diverse associazioni culinarie del territorio per condividere la semplicità e l’unicità di certi sapori. La rassegna si è aperta il 31 gennaio con la “Festa risotti di risaia”, è proseguita con la disfida tra tortello amaro e tortello alla ciliegia e con la festa degli agnolini. Il 21 e 22 febbraio tocca alla “Festa dli fujadi” fettuccine all’anitra o con ragù alla paesana, caposaldo della cucina di Villanova De Bellis, mentre il 28 febbraio e il primo marzo è la volta della “Festa dla bigolada”, con la distribuzione a tutti i partecipanti dei “Bigoi”, spaghetti conditi con acciughe e tonno, e del Riso alla Pilota (cotto nell’acqua o nel brodo in ebollizione e condito con salamelle arrostite) De.Co. Il 14 e 15 marzo sono in scena i “Tortei ad suca”, ovvero i tortelli di zucca, piatto simbolo della cucina mantovana, il 21 e 22 marzo i “Macarun col stracot”, maccheroni conditi con lo stracotto mantovano. Al “Capunsel”, primo piatto povero realizzato con pane raffermo, croste di formaggio e uova, e al “Risot menà” tipico dell’alto mantovano è dedicato il week end del 28 e 29 marzo. Il calendario si chiude a cavallo di Pasqua, sabato 4 e lunedì 6 aprile, con il tipico riso alla Pilota questa volta arricchito con il “puntel” ovvero la costina di maiale. L’ingresso è libero e il parcheggio è gratuito. www.mantova.com
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Focus di Anna Facci
Complici i programmi tv, è esplosa la voglia di fare dolci e la richiesta di formazione. In Bergamasca però le pasticcerie non aumentano. Berbenni (Capab): «Soffre meno chi punta sulla qualità»
Tutti pasticcieri.
Ma il mercato è un po’ amaro
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opo la cucina, è la pasticceria la nuova passione e il nuovo mito professionale. Ulteriore declinazione del desiderio di esplorare il mondo del gusto che caratterizza questi anni, ha trovato una sponda potente nel moltiplicarsi di trasmissioni tv, fino ai recenti talent show e ai programmi sulle maggiori reti nazionali. Un boom mediatico e con esso di appassionati e di aspiranti pasticcieri, conquistati da pan di Spagna, ganache, cremosi, croccanti e dalla sottile alchimia che permette di realizzare un dolce perfetto. Scuole e formatori confermano l’interesse crescente dei ragazzi per una carriera nella pasticceria e la vivacità del settore sembra aver fatto bene anche per l’affermazione sul piano internazionale, visto il successo della squadra italiana alla “Coupe du Monde de la Pâtisserie” di Lione, il Bocuse d’Or della pasticceria. A questo fermento non corrisponde un’uguale esplosione delle attività. Restando in Bergamasca, le pasticcerie sono sostanzialmente stabili da qualche anno (170 negli anni 2012 e 2013, una in meno nel 2014) e in
LA FORMAZIONE
Alla scuola professionale è boom di richieste, «ma non aumenteremo le sezioni» «La crescita di richieste per il corso di formazione professionale di pasticceria e panetteria è esponenziale da un paio d’anni ed è la netta conseguenza dei programmi televisivi», conferma Gabriella Savoldi, preside della Fondazione Isb, che nella sede di Torre Boldone porta avanti due sezioni del corso e dallo scorso anno ne ha attivata una anche a Caprino bergamasco, all’interno del collegio Celana. «Dopo la cucina, la pasticceria è la nuova aspirazione dei ragazzi – spiega -. La nostra scuola offre anche corsi di sala e preparazione pasti, ma quest’anno negli open day e negli incontri di orientamento che teniamo nelle scuole medie circa l’80% delle richieste ha riguardato proprio il corso di panificazione e pasticceria». «Di fronte a questo boom, il nostro compito è di dare una visione realistica di ciò che comporta questa professione. La tv trasmette un’immagine positi-
febbraio 2015 calo del 14% rispetto a dieci anni fa (nel 2004 erano 197), periodo precrisi. «Il settore sta soffrendo, come tutti del resto per via del calo dei consumi», evidenzia Giosuè Berbenni, presidente del Capab, il Consorzio dei pasticcieri artigianali bergamaschi, che fa capo a Confartigianato Bergamo e che associa circa la metà delle pasticcerie presenti sul territorio, più qualche insegna delle province vicine, ed è un raro esempio, in Italia e non solo, di aggregazione che funziona nel tempo (oltre trent’anni di attività). «Il comparto alimentare – prosegue il presidente, fondatore della pasticceria Giosuè di Montello – soffre un po’ meno di altri, a patto che sia di qualità. Nella pasticceria, in particolare, i consumatori sono sì più restii a spendere e magari riducono la frequenza degli acquisti, ma quando comprano si aspettano prodotti di un certo livello. Il tempo e la qualità hanno fatto selezione e chi non si è aggiornato o non aveva i prodotti richiesti è andato in difficoltà, lo stesso dicasi per le nuove aperture». Pur riconoscendo ai programmi tv, a cominciare dal Boss delle Torte, il me-
Giosuè Berbenni rito di aver dato una scossa al settore, accendendo la curiosità del pubblico e la volontà dei pasticcieri di mettersi in gioco e cercare nuove idee, Berbenni ricorda che bisogna prendere le misure alla moda del cake design. «In queste trasmissioni sembra che si riesca a preparare una torta tridimensionale decorata e creativa in mezz’ora – fa notare – e non si parla mai di prezzi. Un buon servizio della tv dovrebbe essere invece far capire tutto il processo dall’inizio alla fine, la manodopera necessaria e di conseguenza i costi del prodotto, così i clienti non resterebbero spiazzati».
va e creativa della pasticceria, ma non mostra quanti anni di esperienza servono e quanta fatica per ottenere certi risultati e nemmeno le fasi intermedie che portano al dolce». Da sfatare è anche la convinzione che si tratti di un’attività prettamente pratica e manuale. «Ai ragazzi ricordo che in pasticceria e panificazione la matematica è fondamentale – prosegue la preside – e che comunque in tutta la formazione professionale è cambiato il peso delle materie di studio, perché ormai ci muove su scenari ampi e in continuo cambiamento e una buona preparazione culturale di base diventa indispensabile. In pasticceria, ad esempio, fino a qualche tempo si andava a bottega e si facevano sempre gli sessi dolci, mentre oggi è impensabile: ci si muove in un villaggio globale, arrivano tendenze da altri paesi e occorre saper rispondere alle nuove esigenze e richieste della clientela». Può farcela allora chi sarà volenteroso e preparato innanzitutto, ma anche «flessibile, curioso, adattabile». «Per chi ha queste caratteristiche – sottolinea Gabriella Savoldi – il posto di lavoro è assicurato». Ma la disponibilità di assorbimento del mercato non è infinita ed è per questo che, nonostante
Chiarito questo, non è comunque mancato chi nel cake design ha trovato una nicchia di specializzazione, per un tipo particolare di clientela. Le preferenze dei più, invece, continuano ad andare verso il classico. «Le crostate di frutta vanno tutto l’anno – rileva il pasticciere – come i semifreddi, magari arricchiti con un croccante, e poi le torte sullo stile Mimosa o Saint Honoré. Diciamo che crema, panna e cioccolato restano i capisaldi». Berbenni invita al realismo anche l’ondata di aspiranti pasticcieri che si accalca ai corsi professionali: «Gli sbocchi ci sono – rassicura – a patto che siano ragazzi con voglia di fare e di impegnarsi. Troppo spesso ho avuto stagisti che se ne stavano appoggiati al bancone» e mette in guardia sulla diffusione delle torte fatte in casa. «Da noi al momento è un fenomeno circoscritto – dice -, ma l’allerta è alta e in Veneto è già stato lanciato l’allarme. Oltre all’evasione fiscale, c’è il rischio per la qualità dei dolci, prodotti in situazioni che non offrono le stesse garanzie dei laboratori sottoposti ai controlli periodici dell’Asl. Non dico che ci si avveleni mangiando quelle torte, ma certo chi le acquista dovrebbe anche aver presente questi aspetti».
la valanga di richieste, la scuola non attiverà una nuova sezione del corso. «I percorsi della formazione professionale sono il risultato di un tavolo provinciale che analizza la situazione insieme con le aziende ed è su questa base che poi la Regione autorizza i corsi. Grazie a questa progettazione, la nostra percentuale di collocamento è altissima. Per quanto riguarda la pasticceria, far partire oggi un nuovo corso solo perché ci Gabriella Savoldi, preside della Fondazione Isb sono molte richieste significherebbe inflazionare il mercato, a meno che si voglia mandare i nostri ragazzi all’estero. Ma avrebbe anche dei risvolti negativi sulla qualità dell’insegnamento, a cominciare dalla disponibilità di laboratori, che sono un punto di forza del programma».
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Focus LA FORMAZIONE
Accademia del Gusto, crescono i corsi e sono più specifici Ma la pasticceria non sta affascinando solo le nuove generazioni. Anche l’Accademia del Gusto di Osio Sotto ha visto aumentare l’interesse verso il settore, che si tratti dei corsi per appassionati o per chi vuole costruirsi una professione o aprire un’attività. «Non so dire se sia un effetto diretto della televisione o piuttosto il risultato di diversi fattori tra i quali il desiderio di re-inventarsi una professione o di trovare una realizzazione nel proprio tempo libero – afferma la direttrice Daniela Nezosi -. Sta di fatto che da qualche anno l’interesse per l’area della pasticceria registra una crescita esponenziale e la nostra proposta si è evoluta di conseguenza, affiancando al corso base di pasticceria professionale una serie di opportunità per approfondire tecniche e preparazioni». Quanto alle tendenze, «l’attenzione alla decorazione in stile americano si sta facendo meno esasperata – rileva – e sta tornando in primo piano il prodotto con una attenzione al buon gusto e alla ricercatezza del decoro, quindi sì al cake design ma in raffinato stile italiano». Gli iscritti ai corsi di pasticceria hanno tutti una caratteristica in comune: «Si documentano, hanno letto molto e sono preparati, quindi sono generalmente clienti esigenti – nota Daniela Nezosi -. La materia stessa, del resto, basata su processi chimici e fisici richiede un approccio più “scientifico”. In una ricetta di pasticceria il “qb” accanto al nome degli ingredienti non è ammesso».
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Di Carlo: «La ricerca è Che la pasticceria stia vivendo un momento di grande attenzione da parte del pubblico, Leonardo Di Carlo l’ha verificato nel più social dei modi: a colpi di selfie. Giudice del talent di Raidue “Il più grande pasticcere” insieme a Luigi Biasetto e Roberto Rinaldini, il Campione del Mondo che ha scelto di fare il consulente e formatore non è riuscito a tenere il conto delle strette di mano e degli autoscatti che lo hanno coinvolto nella recente edizione del Sigep di Rimini. «Sono vent’anni che partecipo alla manifestazione – rileva – e non ho mai visto un simile assalto, soprattutto di ragazzi delle scuole alberghiere. Chef e ora anche pasticciere sono le carriere che hanno soppiantato quella del calciatore nelle aspirazioni dei giovani». La forza della tv... «Senza dubbio, anche se si deve ricordare che dietro l’immagine serve sempre la sostanza. È proprio con questo obiettivo che io e i miei colleghi abbiamo partecipato alla trasmissione: far vedere cosa c’è dietro la giacca del pasticciere - ossia preparazione, competenza, sacrificio, confronto - e per valorizzare il più possibile la pasticceria italiana». A che punto è la nostra pasticceria? «Io credo molto nella nostra tradizione pasticcera e la mia missione è proprio quella di diffonderla in tutto il mondo. Abbiamo degli ottimi prodotti, delle ottime materie prime, nulla da invidiare al resto del mondo. Si tratterebbe piuttosto di trovare quella competenza e sicurezza necessarie a promuovere le nostre specialità. Anche lo Stato dovrebbe essere più presente, aiutare le pasticcerie, non chiedere solo, ma dare degli incentivi, promuovere l’aggiornamento, perché il pasticcere è un artista, un artigiano, ma anche un imprenditore». Quali possono essere i prodotti vincenti? «Penso ai mille modi in cui si può realizzare un tiramisù o una panna cotta e poi i lievitati classici, panettone, colomba, pandoro, i dolci della domenica, anche in formati più piccoli. Ce ne sono di possibilità...». E il cake design dove lo mettiamo? «Anche questo fenomeno è stato soprattutto importato in Italia grazie alla tv! Personalmente lo considero frutto di una esteriorità che in generale abbaglia ma non conquista. Ovvero potrebbe anche essere accostato in pasticceria, ma il pasticcere che adotta il cake design nel suo laboratorio, se riesce a farlo bene, deve anche far pagare il dolce finito al prezzo giusto: tenendo presente che questo tipo di decorazione porta via molto tempo ed il tempo è un costo per l’impresa artigiana, possiamo decidere di far pagare al cliente un prezzo elevato, ma giusto per non rimetterci, o decidiamo di regalare il nostro prodotto, magari anche usando materie prime scarse. Per quanto mi riguarda, amo le decorazioni minimaliste, curate ed eleganti, in grado di catturare l’occhio e di far sognare ancora prima di degustare». Quali sono, allora, le nuove tendenze? «La ricerca è verso prodotti un po’ più leggeri, digeribili, attenti anche all’apporto calorico. Non che le pasticcerie debbano di-
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IL GIUDICE TV
verso prodotti più leggeri e digeribili» L’APPUNTAMENTO A marzo sarà all’Accademia del Gusto
Leonardo Di Carlo ventare delle farmacie, intendiamoci. I dolci sono dolci per definizione e lo zucchero resta uno dei ingredienti principali di tutte le preparazioni. Non va demonizzato, anche perché è un prodotto naturale, ma può essere utilizzato in maniera più accorta, salvaguardando il piacere». Da consulente e formatore professionale richiestissimo, quali sono le principali criticità che ha individuato nelle pasticcerie? «Le criticità sono date dall’imposizione fiscale per le piccole/medie aziende artigiane, che opprime con la tassazione e gli oneri. Ciò che si può fare per cercare di mettersi in tasca qualcosa in più è ottimizzare la produzione con le attrezzature necessarie, migliorando i processi e l’impiego della manodopera. Si può fare il dolce più bello del mondo, ma deve essere realizzabile e sostenibile economicamente». I due corsi che terrà all’Accademia del Gusto sono dedicati alla pasticceria salata e al carrello dei dolci nella ristorazione, due aspetti solitamente poco considerati... «La pasticceria salata è un’interessante opportunità, nell’ottica dell’ampliamento e dell’integrazione delle proposte, soprattutto ora che molte attività effettuano servizio nell’arco di tutta la giornata ed hanno l’esigenza di offrire prodotti anche per la pausa pranzo o l’aperitivo. Non si tratta di realizzare preparazioni complicate, io sono convinto che la genialità stia nella semplicità, senza però
Cresciuto nella pasticceria di famiglia a Roma e al fianco di grandi maestri pasticcieri, Leonardo di Carlo ha collezionato successi nelle competizioni internazionali di pasticceria, fino al titolo di Campione del Mondo nel 2004 a Rimini. Consulente e formatore per scelta, ha condensato studi e ricerche nel libro “Tradizione in evoluzione”, diventato ormai un manuale di riferimento anche per molte scuole di settore. Il suo è un approccio scientifico, presupposto essenziale per costruire una ricetta equilibrata e personalizzata. Sarà docente di due corsi per professionisti all’Accademia del Gusto di Osio Sotto lunedì 30 marzo (“Ristorazione: il carrello dei dolci” – 8 ore) e martedì 31 (“La pasticceria salata” – 8 ore). Info: www.ascomformazione.it cadere nella banalità, ma occorre credere in quello che si fa e non accontentarsi di seguire gli altri. Sempre nella logica dell’ottimizzazione del lavoro e della fattibilità, ad esempio, da un panetto base si possono realizzare tipologie diverse di panini, aromatizzati con peperoncino, con origano, con olive e noci e altro ancora». E dei dolci al ristorante cosa ne dice? «Sono sempre stati il tallone d’Achille, spesso non hanno alcuna coerenza con la proposta e passa quasi la voglia di ordinarli. Non è però solo un problema di costi e organico, perché si possono preparare dolci semplici, che non richiedono tante ore di lavoro, ma curati, come crème carmel, dolci da forno, crème brûlée. Non ci sono alibi per non proporre un buon dolce». La sua filosofia della semplicità è tutto il contrario della corsa all’invenzione che sembra animare la pasticceria di questi tempi… «Sono sempre stato controcorrente. Non ho mai seguito le mode, ho semmai cercato di crearle, ragionando sui fondamentali. È la stessa visione che ho adottato nel mio libro “Tradizione in Evoluzione”, che ha richiesto quasi quattro anni di lavoro ed ora è alla terza edizione e ha debuttato nella versione inglese da poche settimane. Non è un volume che vuole dimostrare quanto sono bravo, ma dare a chi lo consulta tutti gli strumenti per costruire un proprio modo di lavorare e di evolversi».
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Focus IL GIUDICE TV
la promessa
Mattia, il figlio d’arte vince il titolo italiano A Bergamo la nuova generazioni di pasticcieri ha già un suo campione. È Mattia Cortinovis, che dopo gli allori di papà Giancarlo - tra titoli nazionali, europei e il prestigioso argento alla “Coupe du Monde de la Pâtisserie” di Lione nel 2009 – ha pensato bene di arricchire la bacheca di famiglia laureandosi Campione italiano Juniores di pasticceria e cioccolateria nella gara andata in scena al Sigep di Rimini lo scorso 20 gennaio. Vent’anni il prossimo aprile, pur essendo cresciuto tra le dolci creazioni del padre prodotte nella pasticceria di Ranica, Mattia non ha scelto subito di seguirne le orme. Si è prima diplomato al liceo artistico e solo dal giugno scorso ha iniziato ad affiancarlo stabilmente in laboratorio, forte comunque di un’ottima credenziale come il secondo posto al Campionato italiano Juniores 2014 con tanto di miglior pezzo artistico. «In famiglia c’è questa bella tradizione per la pasticceria – spiega –, ma mio padre non mi ha mai forzato.
DOCENTE E CREATIVO
Ho cominciato ad appassionarmi dopo la Coppa del Mondo di papà e quando gli ho buttato lì l’idea di partecipare a un concorso non ha esitato a proporsi per darmi una mano. Nella mia decisione i programmi tv e l’idea di diventare una star non hanno avuto alcun peso – chiarisce a precisa domanda -. Mi sono iscritto al Campionato italiano nel 2014 per fare un’esperienza, il risultato è stato inaspettato e mi ha autorizzato ad avere qualche ambizione per quest’anno e a preparare quindi con maggiore attenzione la gara». Per la scultura in cioccolato o zucchero il tema era “Vespa, icona di gioventù”, dedicato alla due ruote simbolo dal made in Italy; il mini dessert al bicchiere doveva invece contenere obbligatoriamente un biscotto o un pan di Spagna con bagna al caffè espresso, mentre la monoporzione dove avere come base la pasta bigné: tutte le preparazioni dovevano valorizzare il gusto italiano. Mattia ha proposto il bignè con pistacchio, mandarino e mascarpone, mentre ha
di Leo Bartoli
A San Pellegrino l’artista dei dolci “autoctoni” Pasticciere e insegnante all’Istituto alberghiero, Francesco Zurolo crea specialità che valorizzano i prodotti locali, come il panettone alle mele brembane, quello con noci e castagne o la colomba al melone retato di Calvenzano, che ora va anche all’estero. «I ragazzi? Sono molto più attenti e curiosi di un tempo, ma devono sapere che è un lavoro duro» È solo questione di tempo: state certi che prima o poi arriva una nuova idea golosa. Per Francesco Zurolo l’arte della pasticceria è strettamente legata alla prossima invenzione dolce o salata. Così, ad esempio, è nato il panettone a base di mele rigorosamente brembane, quello a base di castagne e noci o la colomba al melone retato di Calvenzano, che ora esporta anche all’estero: da Madrid alla Svizzera, fino alla Russia. Intuizioni che, sposando il prodotto bergamasco, diventano ricette ambasciatrici del territorio. San Pellegrino è la culla di questo chef 39enne che attinge dalle sue origini
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campane (è sorrentino di nascita), ma poi sviluppa il suo iter del gusto nella nostra provincia, realizzando un mix di pasticceria nord-sud che non si arrende mai all’abitudine, senza trascurare la tradizione della sua terra d’origine: Francesco crea infatti quotidianamente dalla pastiera ai babà, dagli struffoli alle cassate, al limoncello. Giambattista Gherardi, giornalista bergamasco tra gli ambasciatori del mais spinato, ha definito Zurolo “il talent scout della tipicità”. Effettivamente, in questi anni l’uomo non si è mai risparmiato ospitando nel suo laboratorio dal melone alle castagne, alle mele,
Zurolo con i suoi allievi e il dolce Arlecchino Light “cucendo” loro addosso la ricetta giusta, capace di valorizzare un prodotto magari fino a quel momento trascurato. Ma l’aspetto più interessante è che Zurolo, con la sua passione, è riuscito a contagiare decine di giovani aspiranti pasticceri della Val Brembana. «Da anni sono docente all’Alberghiero di San Pellegrino – spiega -. Insegno cucina, ma soprattutto pasticceria e devo dire che i ragazzi mi seguono moltissimo. Rispetto a qualche anno fa sono più curiosi, hanno il gusto del particolare, si applicano con grande attenzione. Peccato che la tv deformi la professione di chef e pasticciere, creando
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accompagnato il pan di Spagna bagnato col caffè con cioccolato e anice, limone, mandorla, mascarpone e pinoli salati. La vittoria gli ha regalato anche una nuova sfida, aprendogli la possibilità di partecipare al Campionato mondiale in programma nel 2017, di cui il concorso nazionale costituisce la selezione. «Mi è stato anticipato che potrei far parte Mattia Cortinovis della squadra e occuparmi della scultura in cioccolato. Cosa mi ha aiutato ad affermarmi? Credo che il liceo artistico e la mia passione per l’arte mi abbiano agevolato nell’attenzione ai colori, alle linee e alla composizione, mentre sul versante del gusto è papà che mi ha dato una mano. Ora il mio obiettivo è imparare la “vera” pasticceria, quella che ogni giorno si prepara per i clienti e migliorare sempre, ma so anche che dovrò per forza fare altre esperienze e allargare gli orizzonti. Ho intenzione di viaggiare e confrontarmi con quante più realtà possibili, prospettiva che mi alletta anche come fanatico dell’arte. È così che si cresce e si può riportare l’innovazione a casa». E intanto la sorella Alessia si è iscritta alla scuola alberghiera.
Il numero delle pasticcerie a Bergamo 2014 2013 2012 2004
169 170 170 197
totale
2014 2013 2012 2004
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in città Dati Confartigianato Bergamo
un’immagine fasulla, tutta lustrini e paillettes, che li vorrebbe tutti star del piccolo-grande schermo, mentre chi fa questo mestiere conosce gli enormi sacrifici, gli anni trascorsi senza poter far ferie a Natale o Capodanno, lavorando giorno e notte, senza poter mai guardare l’orologio». Emblematica a questo proposito è la sua giornata tipo durante le recenti festività natalizie: «Mi alzo attorno alle 3 del mattino per creare dolci e infornare – racconta – e non mi fermo più fino alle 9 di sera, perché poi ho i miei affezionati clienti del negozio (si chiama Gusto Dolce & Salato, ndr.), senza contare i pacchi regalo da confezionare e il servizio catering, che mi porta a proporre le mie specialità anche a molti chilometri da San Pellegrino». Si diceva dei giovani: molti, i più promettenti, attraverso stage con l’istituto alberghiero, finiscono per un periodo direttamente nella bottega del loro docente: «La pratica in negozio - evidenzia - mette anche i ragazzi a contatto con la clientela, dosandone gli umori, i rilievi, i suggerimenti: è una grande palestra di vita, che, oltre
ai miei suggerimenti, serve a loro per migliorare il lato tecnico e umano». Poi naturalmente Zurolo consiglia a tutti di «viaggiare, per arricchire il proprio bagaglio di esperienze, proprio come ho fatto io prima di mettere le tende in Val Brembana. Sono stato da grandi maestri dal Giappone alla Germania, ho imparato l’arte del cioccolato a Vienna, nella terra della Sacher: per fare questo mestiere ci vuole una grande dose di umiltà e tanta curiosità, che ti permette di rubare tanti segreti, per poi cominciare a sperimentare anche in maniera autonoma».
Da allora Zurolo ha iniziato a creare i suoi panettoni con prodotti autoctoni, che hanno subito raccolto consensi in valle, come l’ultima “creatura” dello scorso Natale, l’Arlecchino Light, composto da lievito madre, mele della Val Brembana e una miscela di farine di cereali. «L’ho chiamato Arlecchino in onore della maschera originaria proprio di questa terra e light – spiega -, perché ho usato zucchero integrale e miele. Le mele vengono candite nel loro sciroppo, con glassatura croccante e cottura nel legno». Ma il pasticcere campanobergamasco guarda già alle prossime sfide: nel mirino ci sono dei biscotti con base zafferano. «Sto prendendo contatti con la Comunità montana, perché so che è nata una produzione in Valle molto incoraggiante», dice, e poi rivela un altro sogno che sta per avverarsi: «Grazie alla collaborazione con Aspan, l’azienda di Olmo al Brembo Mondo Asino e alla società Emozioni Orobie, sto mettendo a punto un’altra novità che credo risulterà interessante: i biscotti a base di latte d’asina, che risultano molto più leggeri e digeribili anche per chi ha intolleranze».
Francesco Zurolo
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FACECOOK
alla scoperta del social chef
di Laura Ceresoli
Alberto Vanoli insegna al Culinary Institute of America, considerato l’Harvard della gastronomia. All’interno della struttura gestisce il ristorante Caterina de’ Medici
New York, un bergamasco in cattedra all’università della cucina
«F
in da giovane mi piaceva aiutare in cucina ma non avrei mai pensato di fare carriera come cuoco. Ho cominciato solo perché i miei genitori mi hanno spinto a farlo, vista la mia dimestichezza con i fornelli di casa. Nella primavera del 1995 uno chef Italiano di nome Giovanni Scappin mi contattò per offrirmi un lavoro come sous chef in un ristorante a New York: fu così che la mi avventura americana cominciò». Nato e cresciuto a Petosino, Alberto Vanoli, 47 anni, è ormai un americano d’adozione. Vive infatti da tempo negli Stati Uniti dove ha preparato succulenti manicaretti per alcuni dei più rinomati locali di San Francisco, Boston e Philadelphia. Dopo una lunga gavetta iniziata nel ristorante Antica
Alberto Vanoli
«A giovani cuochi americani faccio capire l’importanza delle tradizioni regionali» 30
Perosa al Cristallo Palace, da dieci anni Vanoli è assistente professore al Culinary Institute of America di New York, dove insegna gli autentici sapori regionali italiani. E grazie all’aiuto dei suoi validi studenti gestisce con passione il Caterina de’ Medici, uno dei tre ristoranti di questo celebre campus considerato l’Harvard della cucina internazionale. Dietro i fornelli di questa grande villa in stile toscano che fa capolino nel “Colavita Center for Italian food and wine”, l’arte culinaria di Vanoli ha trovato la massima espressione. Cenare qui significa intraprendere una fuga gastronomica che trasporta i palati dei clienti in un viaggio all’insegna del gusto.
Come nasce la sua passione per la cucina? «Ho cominciato la mia carriera nel ristorante Antica Perosa al Cristallo Palace. Malgrado il difficoltoso inizio, molto diverso che fare due piatti a casa, ho lavorato con persone appassionate e professionali che mi hanno indirizzato su quella che è diventata la mia strada. Ho lavorato per più di dieci anni in diversi ristoranti a Bergamo, poi qualche stagione in Sicilia e un inverno in Sardegna». E la sua esperienza lavorativa all’estero com’è iniziata? «Nel 1993 ho fatto una breve esperienza a New York. Tornato in Italia, nella primavera del 1995 lo chef Giovanni Scappin, che sarebbe diventato un carissimo amico, mi offrì un lavoro come sous chef in un ristorante a New York. In questi vent’anni ho lavorato in diversi ristoranti italiani a San Francisco, Boston, Philadelphia, mentre a New Paltz, un paesino situato nella meravigliosa Hudson Valley, ho aperto il mio piccolo ristorante italiano. Per diverse circostanze, tra cui il divorzio, sono tornato in Italia, finché lo chef Scappin mi ha rintracciato e proposto di affiancarlo come insegnante nel ristorante italiano
del Culinary Institute of America. Sono qui da dieci anni. È un lavoro interessante, a volte impegnativo, dove ho la possibilità di servire cucina italiana al pubblico e allo stesso tempo insegnare questa mia passione ai miei studenti». Riesce a far conoscere la cucina bergamasca nel mondo? «La cucina bergamasca sarà sempre nel mio cuore. Sebbene sia difficile far capire all’americano quanto sia importante la cucina regionale per ogni italiano, io propongo spesso piatti tipici. Inoltre come insegnante ho anche la possibilità di far conoscere la nostra cucina a giovani cuochi americani». Con quali piatti? «La polenta, da sola oppure con osei o salame, i casoncelli, gli strozzapreti, il margottino e il coniglio arrosto della domenica con cui sono cresciuto. E poi la taragna e pure i pizzoccheri, anche se non sono proprio bergamaschi». È vero che gli stranieri hanno una visione stereotipata della cucina italiana? «Purtroppo sì, gli americani sono ancora legati ai piatti casalinghi introdotti dagli emigrati di fine ‘800, che sono rimasti impressi nella loro cultura. Dunque proporre piatti tipici e far capire
Nato nel 2001, il centro Colavita fa parte del Culinary Institute of America, un vero e proprio tempio della cucina che mette a disposizione dei suoi 2.800 studenti le più moderne tecnologie e attrezzature per imparare a preparare pietanze di ogni sorta. Fondata nel 1946, questa università, che dal 1972 ha sede a Hyde Park, è il sogno di chiunque aspiri a un futuro nella gastronomia. Allo chef Alberto Vanoli va il merito di aver portato nel campus e, in particolare, nella cucina del ristorante Caterina de’ Medici, un angolo di Italia che va ben oltre quelle tradizioni toscane o mediterranee a cui gli stranieri sono abituati. Con grande dedizione ama sfornare piatti nei quali non manca qualche richiamo alle sue radici. È infatti riuscito nell’ardua impresa di inserire nel raffinato menù di questa villa d’altri tempi, dove gli alunni completano il proprio percorso di studi alternandosi tra fornelli e servizio ai tavoli, la taragna con la fontina, le quaglie ripiene di salsiccia accompagnate da polenta e persino i Casonsei alla bergamasca. Su Tripadvisor, tra le recensioni che parlano del Culinary Institute of America, non mancano riferimenti al Caterina de’ Medici: «Il cibo era molto buono - scrive Cavalier7_61 di Southampton, Regno Unito - e anche la nostra cameriera è stata molto entusiasta di mettere la sua formazione in pratica. Se siete nel quartiere di Hyde Park, non si può sbagliare con una visita qui per il pranzo». E ancora: «Il cibo e il servizio erano eccellenti - commenta Roseal2004, North Brunswick, New Jersey -. Io ho ordinato il risotto di scampi e mia moglie il pollo milanese. La cameriera, Katie, era di alto livello». quanto sia importante la cucina regionale è un’impresa difficile». Quanto è importante Internet per promuovere la sua attività? «Al giorno d’oggi Internet e assolutamente necessario. Con l’introduzione degli smartphone e dei tablet e l’accesso wifi disponibile in molti luoghi pubblici, il cliente può accedere alle informazioni quando lo desidera». Qual è il suo rapporto con le recensioni di Tripadvisor? «Tripadvisor, come altri social media, è un mezzo che consente al cliente di ricevere informazioni e leggere i giudizi degli utenti, anche se molte volte, secondo me, le recensioni sono ingannevoli e spesso contraddittorie». Come sono cambiati la ristorazione e il rapporto con i clienti grazie ai nuovi media? «Non so se la ristorazione in se stessa sia cambiata, ma sicuramente i nuovi media l’hanno resa più accessibile, consentendo a qualsiasi ristoratore di farsi conoscere e di mettersi in evidenza. I media hanno incrementato il rapporto con i clienti. Oggi siamo in grado di comunicare a un livello che non sarebbe mai stato possibile in passato. Tuttavia il contatto è più freddo e statico e si sta perdendo il valore proprio del rapporto umano». Tornerebbe a Bergamo per aprire un ristorante? «Ritorno a Bergamo quasi ogni anno per rivedere amici e famigliari e ogni volta che riparto mi rattristo. Vivo in America da vent’anni ma per me Bergamo rimarrà sempre la mia casa. Comunque a questo punto della mia vita non credo che tornerei per aprire un ristorante. La verità è che lasciare tutto e ricominciare di nuovo è complicato, negli Usa ho una compagna, un lavoro, una casa, dunque non è molto semplice staccarsi da tutto questo».
GASTRONOMIA - VINI E BIRRE
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21-22-23-24 febbraio
Sab/Dom 9.00 ~ 22.00 - Lun/Mar 9.00 ~ 19.00
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da non perdere: Centro Fiera del Garda
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IL LOCALE di Fulvio Facci
Ad Adrara San Martino, Gianmarco Bellini, 36 anni, porta avanti l’attività avviata dai bisnonni puntando con decisione sui prodotti tipici e i presidi. E quest’anno il locale è entrato nella guida Osterie d’Italia di Slow Food. Ai fornelli due ventenni
Ai Burattini, la tradizione nelle mani dei giovani
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isogna andare a cercarlo, ma ne vale la pena. Il ristorante enoteca Ai Burattini di Adrara San Martino non è collocato infatti né in un grosso centro né su una via di grande traffico ma nel tempo è riuscito a ritagliarsi spazio e visibilità nel panorama della ristorazione bergamasca. Tanto da essere inserito quest’anno nella guida Osterie d’Italia di Slow Food Editore, “sussidiario del mangiarbere all’italiana” a prezzi che per antipasto, primo, secondo e coperto non devono superare 35 euro. Un riconoscimento che arriva gradito, anche se la storia del locale è molto lunga e va avanti da quattro generazioni. Sono stati i bisnonni - Giacomo Plebani con la moglie Maria - dell’attuale patron Gianmarco Bellini, 36 anni, a dare inizio all’attività. La coppia ha avuto quindici figli ed è stato il nonno di Gianmarco, Nino Plebani con la moglie Agnese Tiraboschi, che ha portato avanti l’attività. Poi il locale è passato di mano per un breve periodo, nel 2001 è stato ristrutturato e dal 2009 è gestito da Gianmarco che si avvale anche della collaborazione in sala della moglie Annamaria Zambelli.
LA PROVA
Menù degustazione anche alla sera Ai Burattini di Adrara San Martino il “prezzo fisso” diventa menù degustazione nel senso che l’all inclusive viene proposto sia a mezzogiorno sia alla sera da lunedì a venerdì. Ci sono due varianti: 11 euro per un piatto a scelta dalla lista del giorno, 18 euro per due piatti. Sono sempre compresi l’acqua e un calice di vino di buona qualità, il dolce (tutti fatti in casa tranne il gelato) ed il caffè. Noi manteniamo fede alla nostra linea che per questi servizi (pranzi per necessità appunto) ci impone di tener d’occhio anche il portafoglio. Ecco quindi che scegliamo il menù da 11 euro. Sulla lavagnetta sono elencati: crudo di Parma con carciofi, antipasto tipico (salame e pancetta nostrani), casoncelli alla bergamasca, ravioli alla zucca con burro e pinoli, straccetti di manzo all’aceto, scaloppine al vino bianco, baccalà in umido e formaggi misti con mostarda. Ci attirano i casoncelli alla bergamasca e ci viene offerta la possibilità di un bis sullo stesso piatto con i ravioli alla zucca. Tra i dolci sfilano salame al cioccolato, torta di pere e cioccolato, tiramisù e cantucci. Ci propongono cantucci e cioccolatini, di cui il locale offre un’ampia scelta. Il vino era un Valcalepio riserva con la bottiglia che è rimasta sul tavolo e probabilmente il solo bicchiere non è poi così tassativo. Ottimo servizio, ottima la cucina ed in questo caso la qualità supera senz’altro la quantità. Lasciamo il locale pienamente appagati.
febbraio 2015 Dal 23 febbraio la rassegna gastronomica dell’Ascom
I sapori della caccia tornano in tavola Gianmarco Bellini, appassionato patron dei Burattini, è fratello del capitano dell’Atalanta Gianpaolo. Nella foto accanto Luca Costa e Michael Capoferri «Siamo cresciuti qua – racconta Gianmarco Bellini, che per inciso è fratello di Gianpaolo, calciatore e bandiera dell’Atalanta –, asciugando sin da piccoli i piatti in cucina, si dava una mano tutti. C’è tanta passione in questi anni di storia e penso che il riconoscimento ottenuto da Slow Food vada in parte anche a quanti ci hanno preceduto. Non abbiamo vanificato i loro sacrifici. Certo, nella povertà si cucinava alla buona, ora bisogna seguire altri canali». “La tradizione e la qualità” è lo slogan di Ai Burattini (nome non casuale in quanto nel cortile in passato si tenevano, appunto, gli spettacoli di burattini) che Gianmarco interpreta così: «Ricerchiamo i prodotti Slow Food, abbiamo quindi la scottona piemontese, lo Stracchino all’antica delle Valli Orobiche, l’Agrì di Valtorta, il mais di Rovetta rostrato rosso, tanto per fare degli esempi, e adesso aspettiamo la sardina essiccata del lago d’Iseo». In cucina ci sono due baldi giovanotti: Luca Costa di 20 anni e
Michael Capoferri che ha qualche anno in più ed è nel locale da sei anni, quindi da quando è passato in gestione a Gianmarco. Così come il menù ha la sua particolarità, essendo scritto sulla lavagna, anche la carta dei vini (con buona rappresentanza di bergamaschi, franciacorta e piemontesi) è originale: le bottiglie sono collocate in vista sui ripiani di uno scaffale con tanto di cartellino del prezzo: si passa e si sceglie. Il locale è intimo con due salette da 20 – 25 posti ciascuna per una capienza quindi di 45 coperti. Per la bella stagione c’è un dehors delle stesse dimensioni ma i due ambiti vengono usati in alternativa. Per un menù da 35 euro, come richiede la guida, cosa consiglierebbe, dunque il padrone di casa? «Premesso che tutta la pasta è fatta in casa, anche i grissini e i dolci – sottolinea Bellini –, suggerirei un antipasto tipico, poi i casoncelli alla bergamasca o il risotto con i funghi quindi tra i secondi il filetto allo Strachitunt, il coniglio con la polenta, lo stracotto di asino o cinghiale oppure il baccalà in umido o in insalata».
Ai Burattini ristorante enoteca via Madaschi 45 Adrara San Martino tel. 035 933433 chiuso martedì sera e mercoledì tutto il giorno www.aiburattini.it
“Caccia in cucina” fa tredici. Tante sono infatti le edizioni della rassegna regionale che valorizza la tradizione venatoria promossa da Anuu Migratoristi, con la collaborazione delle associazioni dei ristoratori. In Bergamasca l’iniziativa è coordinata dall’Ascom ed anche quest’anno (da lunedì 23 febbraio a domenica primo marzo, ma non mancano insegne che hanno scelto di prorogare l’iniziativa di una settimana) offre la possibilità di spaziare sul territorio e tra le proposte. I ristoranti che partecipano sono 34 e assicurano nel periodo della manifestazione la presenza in carta di un piatto o di un menù completo a base di selvaggina, che potrà essere abbinato ai vini più adatti e accompagnato ad altri prodotti locali e della tradizione rurale. Cervi, caprioli, camosci, cinghiali e ancora lepri e uccelli, preparati nelle ricette più classiche accanto all’immancabile polenta oppure in piatti rinnovati dalla personale interpretazione degli chef: non resta che assaggiare.
Partecipano 34 ristoranti A Bergamo: Al Vecchio Tagliere, Il Circolino, I Sapori di Terra e Mare, Ol Giopì e la Margì. In provincia: Isola Zio Bruno (Albino), Locanda della Corte (Alzano Lombardo), Trattoria Visconti (Ambivere), Villa Cavour (Bottanuco), Corona (Branzi), Osteria Da Mualdo (Capriate San Gervasio – Frazione Crespi), La Teglia (Castione della Presolana), Vecchi Ricordi da Gimbo (Cene), Hotel Ambra (Clusone), Garden Hotel (Fino del Monte), Il Platano da Gira (Foresto Sparso), K2 (Gaverina), Hotel Ristorante Gromo (Gromo), Le Ciel (Madone), Trattoria Bolognini (Mapello), Coq d’Or (Nembro), Albergo Ristorante Piazzatorre (Piazzatorre), Trattoria Del Moro (Ponteranica), Bellavista (Riva di Solto), Poggio d’Oro (Riva di Solto), Al Vecchio Tagliere (Scanzorosciate), Hotel Ristorante San Marco (Schilpario), Da Pacio (Spinone al Lago), Don Luis (Torre Boldone), Della Torre (Trescore Balneario), Quadrifoglio (Urgnano – fraz. Basella), Trattoria Ca’ dell’Orto (Villa d’Almé – Bruntino), Ristorante Cadei (Villongo), Al Vecchio Tagliere (Zanica), Da Gianni (Zogno).
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L’apertura
Giancarlo Balzer: “Qui mi sento a casa” Incontro tra Giovanni Barghi (Codesa) e la quarta generazione della famiglia che ha gestito lo storico locale sul Sentierone Pochi minuti prima dell’apertura del Balzer, lo scorso 31 gennaio, Giovanni Barghi, rappresentate legale di Codesa srl, la società che ha rilevato la gestione dello storico locale di Bergamo, si è rivolto in modo accorato al personale: “Oggi è una festa per tutti - ha detto
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-. Non abbiate paura di sorridere, di parlare con i clienti, di dedicare loro tutto il tempo necessario per farli sentire ospiti”. Fuori la folla aspettava di poter entrare, brindare al nuovo corso e scoprire il frutto del lavoro di restyling che ha permesso di riqualificare
gli ambienti in chiave più moderna pur mantenendo lo stesso contesto storico. La sfida per riportare agli antichi fasti il locale sul Sentierone è dunque partita, a chiusura di una trattativa lunga e complicata che alla fine ha permesso
Giancarlo Balzer (a sinistra) con Giovanni Barghi
di salvare anche il posto i lavoro ai 20 dipendenti. Nel frattempo, per la prima volta - dopo tanti anni - Balzer ha incontrato Balzer. Nei giorni scorsi, la quarta generazione della famiglia che ha gestito lo storico locale ha incontrato Barghi. “La nostra famiglia - ha sottolineato Giancarlo Balzer - ha gestito l’attività fino al 1986, poi si sono susseguite sei gestioni, ma nessuno è riuscito a dare una solida continuità al passato come state facendo voi. Qui mi sento a casa”. Secondo Giancarlo
Balzer i clienti di oggi si aspettano ancora quel calore che era una caratteristica principale del locale, apprezzato dai bergamaschi. Balzer ha ricordato anche la produzione della pasticceria quando era piccolo e faceva capolino in laboratorio: “Prima i bignè erano uno diverso dall’altro e grandi, le torte molto lavorate e confezionate con meticolosità da mia nonna nel laboratorio”. Barghi ha risposto che “l’obiettivo è quello di proporre una nuova produzione con la stessa qualità di allora”.
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LA SCELTA di Rosanna Scardi
Dal liceo al forno E la pizza diventa un’ opera d’arte Andrea Colombini, 22 anni, al “Sant’Orsola” di Bergamo, punta ad appagare gusto e vista
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nche una pizza può diventare un’opera d’arte che appaga gusto e vista. Questa la filosofia di Andrea Colombini, bergamasco, 22 anni, diplomato al liceo artistico, che ha trovato un nuovo mezzo per esprimere la sua vena creativa: l’impasto della pizza. Il ragazzo lavora nel forno della pizzeria “Sant’Orsola”, avviata da Roberta Seveso dalla scorsa estate nell’omonima via a Bergamo. La sua ultima creazione è la pizza “Oro e tartufo” condita con crema al pregiato tubero, peperoni e taleggio e guarnita da una lamina d’oro. È stata ideata in onore di Oroccoccoro, il movimento artistico e culturale internazionale ispirato al futurismo, fondato nel 2006 da due ex graffittari Andrea “Sbra” Perego e Simone “Jabba” Torri. La loro poetica comprende la commistione tra forme d’arte. Non a caso, tra i personaggi che vi aderiscono c’è anche lo chef Andrea Genio, con base a Kuala Lumpur, in Malesia. “All’inizio, quando cercavo un’occupazione, appena spiegavo il mio percorso di studi su-
scitavo scetticismo, non è stato facile far cambiare idea ai miei datori di lavoro”, spiega il pizzaiolo artista. Colombini intraprende la nuova strada dell’arte culinaria quattro anni fa. Segue un corso base sulla lievitazione e la stesura dell’impasto tenuto da Tiziano Casillo. Da lui apprende a essere attento alla qualità delle materie prime e che ogni singolo ingrediente può cambiare il risultato. Il suo vero maestro è stato, però, il salernitano Francesco Pintozzi, conosciuto per aver preparato pizze da Guinness. “Lui non insegna, devi rubargli i segreti - dice Andrea -. Il più importante? Avere passione e umiltà”. Impara che anche con una pizza si può fare un prodotto di alta cucina dal gusto intenso. E essere degli innovatori. Il concetto della pizza è rivoluzionato. “Non è più la semplice schiacciata condita con pomodoro e mozzarella, preparata in pochi minuti, che siamo abituati a mangiare in fretta - afferma Colombini -. È un prodotto che coniuga fantasia e sapore”. Le sue
preparazioni più originali sono quelle che piacciono soprattutto ai bambini: il calzone a forma di coccodrillo, il cigno dalla pasta leggera condita con olio e spezie, la conchiglia che trabocca di frutti di mare, le roselline napoletane, chiuse e farcite a proprio gusto, adagiate su un letto di rucola. Accanto alle venti pizze tradizionali, ci sono le tredici a fantasia dello chef, come la “contadina” con crema al tartufo, formaggio Branzi, champignon freschi e noci e la “Biancaneve” a base di ricotta, pinoli tostati, basilico, brie, speck e zucchine. Tra le specialità anche il cornetto, un panino croccante a doppia cottura, preparato con la pasta della pizza. “Continuo a rimanere nel campo artistico, ho solo cambiato gli strumenti di lavoro - dice Andrea -. Per me la cucina supera l’arte figurativa. Quando realizzavo un quadro, lo appendevo e me ne dimenticavo, oggi invece appago la vista e il gusto dei clienti. E una volta mangiata, posso ripetere l’opera quanto voglio”.
NEWS
febbraio 2015
I Vini di Veronelli 2015 a portata di app Per rispondere alle esigenze di un mondo del vino sempre più “digitale”, il Seminario Permanente Luigi Veronelli presenta “I Vini di Veronelli 2015”, applicazione per smartphone e tablet che riporta fedelmente gli assaggi, le informazioni e i punteggi presenti sulla storica guida cartacea. L’app, pratica e veloce, dal costo di 4,99 euro, permette a professionisti e appassionati del “buon bere” di avere sempre con sé per una rapida consultazione la più longeva guida italiana, la stessa che riporta in assoluto il maggior numero d’informa-
zioni su vini e aziende. Il progetto, giunto ormai al quarto anno, raggiunge con l’edizione 2015 il suo massimo grado di sviluppo grazie a una funzione di ricerca, un database sempre più ricco, suddiviso per Regione e Comune, e una legenda simbolica accurata e approfondita. Oltre 2mila i produttori trattati e 15mila le referenze recensite e classificate per denominazione, annata, numero di bottiglie prodotte, fascia di prezzo e, naturalmente, secondo la valutazione in centesimi assegnata dai curatori della Guida Veronelli.
Bolgare, viaggio nel gusto a Palazzo Asnenga La prima cena sensoriale s’è tenuta lo scorso 23 gennaio nel seicentesco Palazzo Asnenga, a Bolgare. Nel corso della serata sono stati serviti i cibi preparati dallo chef Michele Fiorito, affiancati da semplici nozioni di educazione alimentare, pillole di storia e facili esperimenti che hanno unito il sapere scientifico alle informazioni più intuitive e istintive che ci trasmettono i nostri sensi quando assaggiamo un cibo. I commensali, infatti, sono stati “accompagnati” da Beppe Tironi, esperto panel leader, assaggiatore Onav e beer master III Cervoisier, in un viaggio nel gusto a 360 gradi per rieducare i propri sensi e scoprire che “un pasto - afferma lo stesso Tironi - per risultare gradito, equilibrato e piacevole, deve essere preparato bilanciando i sapori: salato, amaro, acido e dolce, tenendo conto della cosiddetta catena degli smorzamenti dei sapori. Si scopre così che ad un piatto di bresaola, rucola e limone sarebbe più opportuno accostare un cucchiaino di zucchero che non del formaggio grana!”. La cena sensoriale di Miki Chef, si ripeterà ogni terzo venerdì del mese con menù diversi e potrà essere anche una divertente occasione per imparare a valutare in maniera più consapevole, e non solo a livello istintivo, un buon piatto, un buon vino o una buona birra. www.mikichef.it
Vini rosati, doppia anteprima sul Garda Per gli appassionati dei grandi vini rosati italiani l’appuntamento dell’8 marzo prossimo, a Lazise, sulla sponda veronese del lago di Garda, è imperdibile: è infatti di scena una doppia, inedita, Anteprima in rosa. Nello storico salone della Dogana Veneta il Consorzio di tutela del Bardolino presenta al pubblico il Chiaretto dell’annata 2014, figlio di quella “Rivoluzione Rosé” che ha condotto i produttori del classico vino rosato gardesano a scegliere un colore molto più tenue rispetto al passato e una gamma di profumi e di aromi che spaziano dai fiori bianchi agli agrumi, alle erbe officinali. Nella vicina sala civica del municipio è in Anteprima (con apertura già sabato 7 marzo) anche un’altra tipica interpretazione in rosa del vino italiano: il Rosato del Salento dell’annata 2014. Accanto alle due espressioni della grande tradizione del rosato italiano figlio di uve autoctone (la Corvina Veronese per il Chiaretto e il Negroamaro per il Salento), viene proposta in Anteprima anche l’annata 2014 del Bardolino, il vino rosso delle colline del Garda orientale. L’iniziativa nasce dalla collaborazione fra il Consorzio di tutela del Bardolino, che nel 2015 è alla sua settima Anteprima annuale, e l’associazione DeGusto Salento, che riunisce alcune tra le più prestigiose firme enologiche della Puglia, col contributo del Comune di Lazise. Saranno presenti circa ottanta aziende (una settantina quelle del Bardolino e una quindicina quelle del Salento) per un totale di duecento vini presentati direttamente dai produttori ai loro stand, con libera degustazione dalle ore 10 alle 18.
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Insalata light Ingredienti per 1 persona 1 mela 1 finocchio 1-2 topinambur 2 ravanelli olio di oliva limone semi di lino sale e pepe 1 cucchiaino di miele
Preparazione Sbucciate la mela e tagliatela a tocchetti. Preparate e lavate con cura il finocchio, i ravanelli e il topinambur ed eliminate le parti che non si utilizzano. Tagliate a rondelle sottili il finocchio, i ravanelli e i topinambur. In una ciotola mescolate un cucchiaio di olio con il succo di mezzo limone, un cucchiaio di miele, un pizzico di sale e pepe. In un’insalatiera mettete la mela, il finocchio, il topinambur e i ravanelli e condite il tutto con il condimento appena preparato. Non dimenticate di aggiungere anche un cucchiaio di semi di lino, utile a depurare l’organismo.
CURIOSITà Amo da sempre le feste del periodo natalizio perché permettono di incontrare amici e parenti che durante l’anno si vedono poco o di fretta e perché sono un’occasione per ripensare all’anno che sta volgendo al termine con i relativi alti e i bassi che hanno caratterizzato la nostra quotidianità. Ma è anche vero che proprio in quei giorni tra aperitivi, brunch aziendali e pranzi famigliari si eccede troppo spesso e ci si ritrova a gennaio e febbraio con un fisico appesantito dai bagordi delle feste. La ricetta che propongo oggi è un’insalata veloce, sfiziosa e soprattutto depurativa, che può aiutare l’organismo a rimettersi in riga senza rinunciare al sapore e al buon gusto; io, per esempio, la preparo ogni volta sento la necessità di un piatto light o quando devo perdere i soliti due chili di troppo. Considerato che molti amici a cui l’ho passata mi hanno chiesto numi su come pulire il finocchio e i topinambur, vale la pena spendere due parole a riguardo. Per quanto riguarda il finocchio, io lo poggio su un tagliere e con l’aiuto di un normale coltello, comincio a tagliare i gambi, quindi procedo con l’eliminare le foglie esterne (quelle cioè che risultano più dure e rovinate), tagliando con il coltello per tutta la lunghezza la foglia più esterna, che poi tiro verso l’esterno. Quindi divido il tutto in 4 spicchi che, dopo aver lavato e asciugato velocemente con della carta assorbente, taglio in tante listarelle il più fini possibile. Per pulire i topinambur mi
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aiuto invece con una spazzola: dopo averli risciacquati bene, li strofino per rimuovere le impurità e le tracce di terra; quindi li asciugo leggermente e li taglio a fettine molto sottili con l’aiuto di un semplice coltello. Man mano che taglio, metto le fettine di topinambur in una soluzione di acqua e succo di limone perché tendono ad ossidare rapidamente e l’acido citrico contenuto nel limone ne rallenta invece l’ossidazione. Per chi non lo sapesse, il topinambur è un tubero che ricorda il sapore del carciofo e l’aspetto della patata; e non è solo delizioso, ma è da sempre considerato un alleato per la salute: costituito per l’80 % da acqua, proteine, zuccheri, carboidrati e fibre alimentari, contiene l’inulina, che è una molecola nutritiva dalle eccellenti proprietà ed è foriero di vitamina A, vitamine B e minerali come potassio, magnesio, ferro e fosforo. Infine una precisazione sul miele: va sempre bene quello di produzione italiana di sicura provenienza, non trattato e tantomeno pastorizzato. Io preferisco acquistarlo presso gli apicoltori o nei negozi di erboristeria e/o prodotti biologici, perché quello in vendita sugli scaffali dei supermercati rappresenta spesso un prodotto di varia provenienza, miscelato, lavorato, pastorizzato e quindi “stabilizzato” per mantenere fluidità e garantire una buona conservazione delle caratteristiche nel tempo, che purtroppo hanno però perso la loro originaria vitalità. Non mi resta che auguravi buon appetito.
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