Affari di Gola - febbraio 2016

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Anno XVI n.1 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60

febbraio 2016

C’è del talento in Danimarca. E parla bergamasco

L’ascesa a Copenhagen della chef Francesca Parazzi di Alzano


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SOMMARIO

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FEBBRAIO 2016

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4 L’ITINERARIO

Turisti del gusto in Val Brembana? Si può fare

10 FORMAZIONE

Sarnico, boom di iscritti all’Istituto Alberghiero

12 IL PRODOTTO

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Piccoli semi, grandi sapori

17 IL NEGOZIO

Anche la carne ha la sua pasticceria

18 TENDENZE

Facciamoli viola!

20 LA STORIA

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Da Alzano a Copenhagen «Così ho conquistato i Danesi»

22 IL LOCALE

“La Tana”, l’arte di valorizzare il formaggio

24 IL FENOMENO

L’home restaurant si fa largo E tutti chiedono regole

30 TRADIZIONI

Catone e il mistero dello zampone

32 IL PREZZO FISSO

La mediatrice culturale che fa scoprire il gusto dell’Asia

Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120322 - fax 035 231082 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120280 - fax 035 231082 - info@larassegna.it - N° ROC 5847 - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Riccardo Lagorio, Roberta Martinelli, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Rosanna Scardi, Donatella Tiraboschi - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg


L’ITINERARIO di Anna Facci

Turisti del gusto in Val Brembana? Si può fare Da Sedrina alla Valtaleggio fino alla Valsassina, 11 Comuni si sono riuniti nel Distretto dell’Attrattività “Vallinf@miglia” per promuoversi meglio. Abbiamo deciso di metterci nei panni di un visitatore e fare un tour tra paesaggi e gastronomia

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are i turisti in casa propria? Si può. Basta mettere nella borsa da viaggio un po’ di tempo per concedersi di guardarsi attorno con calma, un briciolo di curiosità per uscire dalle rotte già percorse e la voglia di scambiare qualche parola con chi si incontra. Lo abbiamo sperimentato grazie al Distretto delle Attrattività Territoriali Vallinf@miglia, che aggrega, secondo l’input a fare rete dato dalla Regione Lombardia, 11 Comuni (Zogno, capofila del progetto, Sedrina, Ubiale Clanezzo, Val Brembilla, Taleggio, Vedeseta, Blello e, in provincia di Lecco, Pasturo, Cassina, Moggio e Cremeno) di quattro valli (Valbrembana, Valbrembilla, Valtaleggio e la Valsassina) in un percorso di valorizzazione unitario che ha scelto di puntare sul paesaggio e sulla natura, ma anche sulle testimonianze del passato, i prodotti tipici e la buona tavola. Il tutto da gustare senza fretta né clamori, a misura di famiglia, come ricorda la denominazione, nonni compresi. Occorre ammettere che il compito di dare appeal turistico a realtà storicamente più vocate alla manifattura e all’edilizia o di riportare interesse sulle seconde case non è facile, ma se è vero che oggi - come indicano gli studi - ciò che il visitatore vuole è vivere un’esperienza e avere un contatto autentico con il territorio, allora le possibilità ci sono tutte. Perché di cose da raccontare questi luoghi ne hanno e le persone che abbiamo conosciuto hanno deciso di credere nella propria terra e di fare del proprio meglio per metterne in risalto le peculiarità. A cominciare da Elena Riceputi e Marta Torriani, che con la loro giovane agenzia Emozioni Orobie hanno organizzato il tour che vi racconteremo, e da Barbara Pesenti Bolò, ex hostess sulle linee aeree, che ci ha accompagnato ritagliando tempo al suo duplice lavoro, la mattina nel suo negozio di alimentari di Gerosa con tanto di consegne a domicilio nelle frazioni, dal pomeriggio alla reception di un albergo a Bergamo. Siete pronti? E allora partiamo. Naturalmente parleremo di cibo e del protagonista di queste valli, il formaggio.


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Negozio e cucina, a Zogno il locale che esalta i prodotti tipici Capofila del Dat è il Comune di Zogno. Ed un biglietto da visita delle specialità della Valle lo si trova alla Baita dei Saperi e dei Sapori Brembani, proprio sulla strada provinciale. Il locale, realizzato dalla Latteria di Branzi in collaborazione con la Comunità Montana, è aperto da quasi due anni ed è una sorta di brochure - ma molto più concreta - della gastronomia locale. Vi si trovano infatti il bancone per la vendita dei formaggi, gli scaffali con i prodotti tipici, un laboratorio di cucina, una cantinetta a vista per la stagionatura, uno spazio degustazione che può diventare sala conferenze e video. Insomma un luogo in cui fermarsi per acquistare il souvenir gastronomico, la tappa per un aperitivo o per la cena, oppure per tutte e tre le cose insieme, in una formula moderna per far parlare le tipicità. «Vendita e somministrazione sono state messe in dialogo - spiega in sala Hakim Jendauni, marocchino, il papà dipendente della Latteria di Branzi -. Le proposte di degustazione e quelle della cucina vogliono mostrare le caratteristiche e la gamma degli utilizzi dei nostri formaggi. Chi si ferma a mangiare può scegliere tra tre primi e tre secondi che variano seguendo le stagioni. Pasta fresca e risotti sono tra i protagonisti e si accompagnano, ad esempio, agli asparagi in primavera, alle castagne e ai porcini in autunno. La cifra è la semplicità, come nella tradizionale “polenta e ciareghì”, resa però più elegante». In cucina c’è Romeo Gervasoni, da Roncobello, con trascorsi in Germania, sul lago di Garda e a Foppolo, che ricorda anche gli “gnocchi di ricotta con erbe di monte essiccate e burro”, il “risotto allo zola di capra e frutti di bosco” o i “tagliolini freschi con carciofi e agrì”. Tutt’altro che banale pure il tagliere dell’aperitivo, un viaggio tra formaggi di diversa pasta, stagionatura, aromatizzazione, accompagnato da salumi selezionati, mostarda, giardiniera e persino un croccante di mandorle. Da non perdere le “bese”, i ritagli dopo la

pressatura della cagliata del Branzi, fritti in una pastella di farina e birra artigianale. Visto che siamo turisti, vediamo di organizzarci per scoprire anche qualcosa in più del territorio. La visita del Museo della Valle nel centro di Zogno entusiasmerà i bambini con la sua sezione sui pesci fossili ritrovati nelle vicinanze, alcuni di rilevanza fondamentale nella paleontologia. Oppure si potrà fare una sosta a Ubiale Clanezzo per attraversare il Brembo sulla lunga passerella (vietato dondolarsi!) che ha preso il posto del traghetto o spostarsi di poco per ritrovarsi sul ponte di Attone, risalente al X secolo, che invece si trova sul torrente Imagna. Chi ama l’arte non può perdere nella parrocchiale di Sedrina, progettata dal Codussi, la pala d’altare di Lorenzo Lotto, “Madonna in Gloria e Santi” (1542).

Brembilla, l’antica Osteria è anch’essa un “monumento” L’itinerario del Dat piega a sinistra ed è a Brembilla (che ora con Gerosa forma il Comune di Val Brembillla) che si trova quello che per gli amanti della gastronomia può essere considerato a tutti gli effetti un “monumento”. L’Antica Osteria il Forno, la cui attività è documentata dalla licenza del 1811, ha ricevuto il riconoscimento di “Locale storico” da parte della Regione ma ha saputo soprattutto conservare il suo passato e valorizzarlo. È stata forno, stallo per i cavalli, alloggio, trattoria, macelleria, negozio e pesa pubblica e le cinque sale da cui oggi è composta hanno tenuto traccia delle destinazioni di un tempo. Da notare, la sala del forno con volta a botte in tufo, il pavimento vecchio di 140 anni nella sala centrale e, in un’altra saletta, un affresco con un’annunciazione del 1500, che prima era all’esterno. Anche in cucina la parola d’ordine è stata salvaguardia. Nonostante gli ampi spazi, per circa 200 coperti, il locale non ha ceduto al richiamo della pizzeria o delle proposte che di volta in volta hanno fatto tendenza, ed ha avuto ragione, almeno a giudicare dalle tavolate di giovani incontrate nelle nostra visita, ben felici di spaziare tra

Romeo Gervasoni con Hakim Jendauni e un tagliere della Baita di Saperi e dei Sapori Brembani

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L’ITINERARIO casoncelli e taragne. Zia Alessandra Offredi, ottant’anni, è orgogliosa di avere dato l’impronta con i piatti di famiglia, come i ravioli e la gallina, ed ora i nipoti Andrea e Marco Cornoldi, quinta generazione, proseguono sulla stessa linea o addirittura tornando indietro. «Ad esempio, abbiamo riscoperto i “nusècc” – dice Andrea –, gli involtini di verza con il ripieno dei casoncelli che facevano le nonne, e stiamo rivalutando un altro piatto di casa, “patate, fasöi e codeghì”, ossia patate, fagioli e cotechino, che proponiamo in una forma più elegante, in carta fata con i fagioli passati». I pezzi forti sono i ravioli di carne al burro versato, i risotti mantecati con i formaggi locali e per secondo farona ripiena, gallina lessa, polpa di cervo con l’immancabile polenta o la taragna. Per chi è a caccia di un emblema del territorio c’è anche “polenta e osèi” con gli uccelletti cucinati con panna e salsiccia, «come era tipico delle nostre zone – ricorda Andrea – dove anche il condimento doveva dare sostanza». Il Forno ha anche alcune camere, nel caso la vostra voglia di vacanza stia prendendo il sopravvento. Per smaltire un pranzo come questo o prepararsi alla cena si può arrivare a Gerosa e con una piacevole e panoramica camminata sulla mulattiera raggiungere il santuario del Madonna della Foppa, luogo di devozione e pellegrinaggio per via di due apparizioni, nel 1558 e nel 1630.

Un museo diffuso racconta la cultura del Taleggio In Valtaleggio, manco a dirlo, tutto vi parlerà del tipico formaggio. Gli enti locali, gli abitanti e le aziende hanno deciso di ribadire con forza che la forma oggi famosa e ricercata in tutto il mondo è nata lì e che solo tra quelle montagne la si può conoscere ed apprezzare al meglio. È così nato l’Ecomuseo, un museo grande tanto quanto il territorio, dove le opere da ammirare sono i pascoli, l’aria, le baite con i tipici tetti in piode, il caseificio, le aziende di stagionatura e dove a fare da guida sono i residenti stessi. Il progetto porta con sé una buona dose di originalità e innovazione. Per un soggiorno esclusivo, tutto tradizione e natura, senza dimenticare i comfort, sono state recuperate due baite ed è stata lanciata la formula baita&breakfast, dove le colazione è a base di prodotti tipici e c’è pure una zona relax con sauna, mentre per far conoscere da vicino la vita dei bergamini e l’arte del formaggio sono a disposizione tre installazioni, a Sottochiesa, Vedeseta e Peghera, che uniscono multimedialità ed esperienza diretta: si chiamano La VaCCanza, Tu Casaro e Stagiònàti. Un pacchetto davvero insolito ed intrigante che comprende anche cinque itinerari tematici, che però non ha ancora segnato, per ammissione dei promotori, una svolta nell’attrattività e andrebbe rilanciato.

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La cooperativa e lo Strachitunt, una storia di resistenza

Dall’alto, in senso orario: Flaminio Locatelli; Mauro Arnoldi; un’iniziativa dell’Ecomuseo; Andrea e Marco Cornoldi con la zia Alessandra Offredi; Alida Pesenti Bolò e la figlia Gloria. Per le foto si ringrazia Lara Abrati

Chi vive e lavora qui, del resto, lo sa che rimanere comporta difficoltà. La cooperativa agricola Sant’Antonio a Vedeseta, in frazione Reggetto, è un esempio di resistenza. È l’unico caseificio della Valtaleggio e lavora esclusivamente il latte della zona, circa 25 quintali al giorno, di sei conferenti, offrendo agli allevatori di montagna un reddito equo e sostenibile e creando occupazione. Sono partite da qui riscoperta dell’ormai celebre Strachitunt (lo stracchino rotondo dalla caratteristica erborinatura che nasce dall’unione della cagliata della sera con quella del mattino) e l’iter che ha portato alla Dop, delimitando il territorio di produzione ai soli comuni di Taleggio, Vedeseta, Gerosa e Blello ed escludendo tutti gli altri, in primis la pianura che aveva già “adottato” la specialità. Per un errore nel disciplinare, relativo a misure e peso delle forme, lo scorso anno la vendita a marchio è stata sospesa. «Un’inesattezza puramente formale – spiega il presidente della cooperativa Flaminio Locatelli –. È bastato cambiare un numero e tutto è andato a posto. Le correzioni sono state inviate lo scorso 20 novembre e dalla primavera potremo con ogni probabilità tornare sul mercato con lo Strachitunt Dop. Fortunatamente i clienti hanno capito che il prodotto era lo stesso e continuato ad acquistarlo pur senza denominazione, ma ovviamente questa sospensione un po’ di problemi ce li ha creati». «Sinceramente avremmo fatto a meno della Dop – confessa -, perché significa burocrazia e spese per la certificazione, ma era l’unico modo per tutelare il prodotto e il nostro lavoro. Basti pensare che qui a Vedeseta siamo la realtà che impiega più persone, quattro: due casari, addetti anche alla raccolta del latte, e due donne part time». Annesso al caseificio c’è lo spaccio dove, oltre allo Strachitunt, si possono acquistare le altre produzioni: il Taleggio, lo Stracchino di Vedeseta (un antenato del Taleggio), l’Alben (simile al Branzi), le formaggelle, la Magrera, tutti rigorosamente a latte crudo. Vengono realizzati in proprio anche gli yogurt e il burro. Per trovare gli stagionatori occorre invece andare a Peghera, nel comune di Taleggio. Si tratta di realtà aziendali, CasArrigoni e Arnoldi Valtaleggio, storiche e strutturate, che vendono ormai in tutto il mondo. «Se rimaniamo c’è un perché – afferma Mauro Arnoldi, dell’omonima società -. Perché ambiente e clima hanno alcune caratteristiche uniche, ma anche per come sono esposte e costruite le aziende, con locali quasi tutti sotto terra, e naturalmente per la conoscenza dei prodotti, che qui si tramanda da generazioni». Taleggio, Quartirolo, Salva Cremasco e Strachitunt rappresentano il grosso delle specialità trattate ed essendo delle Dop ognuna richiede il rispetto di precise norme.

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L’ITINERARIO

La sfida di Alida, da affineur a ristoratrice Una bella conoscenza dei formaggi ce l’ha anche Alida Pesenti Bolò che, sempre a Peghera, dopo 15 anni da affineur, ha accettato la sfida di mettersi ai fornelli per proseguire l’attività del ristorante Liberty. «È nato come osteria e posto di ferma per i cavalli, ha più di cento anni – evidenzia – ed è sempre stato della famiglia di mio marito. Nel 2001 è venuto a mancare mio cognato, che lo gestiva, e a me dispiaceva chiuderlo e mettere fine ad una storia così lunga». Si è perciò messa in gioco frequentando i corsi della scuola alberghiera di San Pellegrino e scoprendo una passione per la cucina. La scelta è di utilizzare soprattutto ciò che offre la zona, ma per portare un po’ di novità agli habituée si fa anche il pesce. Il formaggio è spesso protagonista e la fantasia non manca. Tanto che Alida ha vinto il premio “Ecomuseo & Strachitunt, due risorse per la Valtaleggio” con le sue “madeline allo speck e salvia con salsa di Strachitunt e miele di acacia”. Tra gi altri piatti, gli “gnocchi di castagne e patate con fonduta di Taleggio e bresaola del salumificio Corticelli”, i casoncelli di magro secondo la ricetta del posto, i risotti, le tagliatelle alle ortiche, speck e funghi porcini, le “crespelle Valtaleggio” (con Taleggio, patate, rosmarino e pere) e per secondo le carni di cinghiale, cervo, la lepre in salmì. I dolci sono fatti in proprio, così come la giardiniera con le verdure dell’orto. Da esperta affinatrice, Alida seleziona inoltre le forme e ne cura l’ultimo tocco nella “moscarola” di casa. «Il ristorante non ha mai avuto la carta – precisa -, solo il menù del giorno. Le nostre proposte del resto sono conosciute e il massimo per me è quando mi dicono “fai tu”». Ad aiutarla c’è la figlia Gloria, ostetrica in cerca di lavoro, contagiata nel frattempo dalla passione per la ristorazione. «Ammetto che la decisione di portare avanti l’attività era un salto nel vuoto – dice Alida -, ma il posto è nostro e con bar, tabacchi e qualche stanza ce la facciamo».

Ai Piani di Artavaggio la famiglia bergamasca salita in quota E perché, a questo punto del viaggio, non permettersi uno sguardo “oltreconfine”? Basta proseguire lungo la strada provinciale per raggiungere la Valsassina, che con quattro comuni partecipa al Dat Vallinf@miglia. Una sosta panoramica alla Culmine di San Pietro (1.258 metri) e poi giù fino a Moggio. Non perdete l’occasione di chiedere in paese dell’epica impresa della biblioteca parrocchiale prima di prendere la funivia per i piani di Artavaggio (tra 1.600 e 1.900 metri di altitudine) e scoprire con una facile passeggiata un’altra storia bergamasca e altre scelte coraggiose.

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La famiglia Galizzi gestisce il rifugio Angelo Casari Quelle dei fratelli Galizzi – Giacomo, Achille e Ruggero – che con papà Rocco e l’aiuto di Evelyn, moglie di Giacomo, hanno riportato in vita il rifugio Angelo Casari, intitolato al nonno, Alpino del Polo con la spedizione del dirigibile Italia, che lo ha costruito nel 1960 ed ha tirato su altri due rifugi da quelle parti. I nipoti, impegnati nell’azienda di famiglia di demolizioni e scavi a San Giovanni Bianco, di fronte alle difficoltà dell’edilizia hanno scelto di salire in quota e rispolverare quell’eredità. «Era il 2009 – ricorda Giacomo -, il rifugio era stato chiuso per vemt’anni ed abbiamo cominciato a ristrutturarlo. Prima il tetto, poi il bar, il ristorante e infine le camere». Ora il “Casari” è aperto tutto l’anno ed è un punto di riferimento per gli escursionisti di ogni stagione, forma fisica ed età. Basti pensare che il mercoledì è diventato la “giornata del pensionato”, con menù a prezzo fisso (10 euro per primo o secondo, 15 per entrambi) che invitano gli “over” a godersi la montagna in compagnia. Ai fornelli c’è papà Rocco, che in gioventù ha avuto esperienze in cucina, mentre le torte sono di Evelyn, che usa anche farine integrali e di farro. Pizzoccheri e cervo sono i piatti più richiesti, non mancano i formaggi (anche brembani, vista la provenienza dei gestori) e, in generale, la scelta è di utilizzare materie prime selezionate e di produzione artigianale. Si usano anche le erbe spontanee, come il paruch e l’aglio orsino. «La vita quassù? È cambiata del tutto – ammette Giacomo -. Bisogna fare i conti con l’acqua che gela, la motoslitta che si rompe, il telefono che non prende e Internet che va sì e no. È un altro mondo, ma penso che siano ancor più i vantaggi degli svantaggi».


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PUNTI DI VISTA di Enrico Rota

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Birre artigianali, gli errori da evitare Osservatorio Altis, in capo all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, di concerto con Unionbirrai, nel rapporto da poco pubblicato, rileva dati molto positivi nel comparto che vede protagoniste le birre a produzione artigianale: il settore è in espansione e l’attività dei microbirrifici presenta una crescita costante e uno sviluppo positivo delle realtà produttive. Questa fotografia lascerebbe intendere una futura ulteriore espansione. Il successo è generato da molti fattori, tra cui la crescente apertura della ristorazione tradizionale e dei locali pubblici specializzati, che hanno trovato nelle birre artigianali italiane determinate caratteristiche organolettiche e un’enorme varietà di tipologie che hanno incontrato il favore di moltissimi appassionati. È necessario però, prima di procedere ad un approfondimento, classificare in tre categorie questo comparto oggi così vitale. Dapprima abbiamo i “micro birrifici”, quelli che si dedicano esclusivamente alla produzione di birra artigianale. Poi ci sono i “brewpub”, locali cha affiancano alla produzione di birra artigianale un’attività di mescita in loco, ed infine arrivano i “beerfirm” (detti anche “brewfirm”), iniziative imprenditoriali che, vista l’assenza di un impianto di produzione proprio, si appoggiano ad altri birrifici per la produzione delle proprie ricette. Aggiungiamo pure la nota del direttore della Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, pubblicata il 4 dicembre del 2013, che ha determinato l’applicazione del termine “micro birrificio” a quelle fabbriche di birra con produzione annua non superiore ai 10mila ettolitri. Detto ciò, è opportuno capire come possono prendere vita i miocrobirrifici. A mio parere, due sono le importanti motivazioni. La prima ricade nel mondo amatoriale, dove sostanzialmente - dopo prove effettuate magari in casa o nello scantinato, visto i risultati positivi - si decide di compiere il passo e di produrre in modo più rilevante. La seconda, in-

vece, risiede nell’esigenza di dar vita a un progetto ben definito, con obiettivi e traguardi da raggiungere, dove l’aspetto imprenditoriale emerge in modo significativo. In realtà possono esistere altre motivazioni, ma sostanzialmente il denominatore comune è solitamente la passione e la voglia di raccontare una propria storia in questo campo. L’aspetto commerciale però è un altro. A prescindere dalle motivazioni con cui nascono i micro birrifici, è importante non perdere mai di vista le aspettative dei consumatori, pensando che non esistono solo gli appassionati estremi. È doveroso quindi, da parte dei produttori, pensare ai gusti di un pubblico anche più vasto, considerando neofiti e semplici amanti di questa millenaria bevanda. Non solo, non si può declamare la bontà di qualsiasi produzione solo perché fatta in modo artigianale, dimenticando invece che è il consumatore il nostro unico giudice. La storia insegna; cadere in questi errori sarebbe imperdonabile.

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FORMAZIONE di Roberta Martinelli

Sarnico, boom di iscritti all’Istituto Alberghiero

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Nel giro di pochi anni, gli studenti sono passati da 400 a 800. I ragazzi arrivano anche dal Bresciano. E ora il Comune mette a disposizione nuovi spazi. Varani: «La cucina resta la scelta preferita, ma il servizio più richiesto è quello di sala» l sogno dei ragazzi oggi è il cappello da cuoco, poi viene la gestione di un agriturismo. Lo dice una ricerca di Coldiretti Giovani Impresa: con 50mila iscrizioni all’anno, il 9,3% del totale nazionale, l’istituto alberghiero è l’indirizzo più scelto dopo i licei scientifico e linguistico. E il trend è in crescita. Non stupisce. Secondo uno studio recente di Unioncamere, nelle cucine italiane si assumono ogni anno almeno 23mila persone, dal pizzaiolo allo chef. E poi ci sono le assunzioni all’estero, sulle navi da crociera e nei resort dei tropici, che possono sfuggire alle statistiche italiane. Anche all’Istituto “Riva” di Sarnico,

nato nel 2012 e divenuto un punto di riferimento sul Sebino per la formazione professionale nel mondo della ristorazione, c’è una corsa a questo titolo di studio. «Le iscrizioni in pochi anni sono quasi raddoppiate. Da 400 studenti siamo saliti a 800 - spiega il dirigente scolastico Valeriano Varani -. Raccogliamo iscrizioni da una quarantina di comuni, anche dal Bresciano. Siamo ormai in difficoltà a dare risposta alle richieste e alle esigenze formative. Per fortuna, l’Amministrazione comunale di Sarnico ha messo a disposizione la vicina palazzina dell’ex Scuola di Arti e mestieri e un capannone attiguo, pertanto la

Valeriano Varani


febbraio 2016 scuola verrà ampliata. Per l’inizio dell’anno accademico 2017-2018 avremo nuove aule, nuovi laboratori e una nuova cucina». Come spiega questo successo. È un effetto-Masterchef? «La scuola è stata una scelta indovinata. Al di là del fatto che l’istituto alberghiero ha avuto successo non solo a Sarnico, la collocazione qui è giusta in ragione della vocazione turistica della zona. I reality hanno messo in luce la professione di cuoco, ma non si vedono gli sforzi e i sacrifici che questo mestiere richiede». Da dove arrivano i ragazzi? «Abbiamo iscrizioni da tutto il basso Sebino. La maggior parte degli studenti provengono da Foresto Sparso, Gandosso, Gorlago, Castelli di Calepio, Chiuduno, Grumello del Monte, Montello, Sarnico, ma abbiano iscritti anche da comuni bresciani: Paratico, Cortefranca, Capriolo, Adro, Erbusco fino a Chiari». Quali sono i corsi più frequentati? «L’orientamento prevalente è sulla cucina. Forse attira di più la fantasia dei ragazzi. In realtà il servizio più richiesto è quello di sala: è anch’esso una professione interessante. Magari la cucina dà più soddisfazione perché permette di vedere un prodotto fatto da sé, ma il servizio di sala richiede un lavoro di grande qualità, l’interazione con i clienti. È un lavoro molto qualificato che ha anche risvolti psicologici». Sul territorio c’è possibilità di occupazione? «Il corso arriverà in quinta l’anno prossimo, credo che le opportunità di sbocco professionale per gli alunni saranno concrete. Bisogna però qualificarsi. Il settore turistico esiste ed è in fase di sviluppo. Sul territorio chiedono molto spesso la collaborazione dei nostri studenti in occasione di cerimonie o buffet e per manifestazioni gastronomiche, come la rassegna “Un Lago diVino” di Sarnico. Vengono impiegati anche per il servizio di accoglienza turistica. In queste settimane, ad esempio, stiamo costruendo con i responsabili dell’Amministrazione comunale un progetto per l’evento della passerella di Christo. Sono iniziative interessanti per i ragazzi che equivalgono all’alternanza scuola-lavoro e permettono loro di vivere momenti apprendimento in situazioni reali. E anche la scuola trae beneficio da queste collaborazioni, perché spesso le associazioni finanziano l’Istituto». Avete qualche nuovo progetto in programma? «A marzo proporremo la quarta edizione di “All Around The Table”, un progetto che coinvolge il nostro istituto insieme ad alcune scuole europee per una riflessione sul cibo come valore fondamentale della vita di ogni persona. Si tratta di un seminario internazionale che vede studenti e docenti impegnati nella presentazione di progetti e nella realizzazione di stand informativi legati al mondo del cibo e alle sue valenze culturali e sociali. Dura una settimana e gli studenti stranieri vengono ospitati dalle famiglie degli studenti del nostro istituto».

Nuovo chef al “M1lle” Rivoluzionato il menù Da gennaio in cucina Mario Capitaneo, già spalla di Bartolini di Giovanni Ponzoni

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l 2016 si apre con una novità per chi cerca emozioni in tavola a Bergamo, grazie all’arrivo di un giovane cuoco di talento alla corte del M1lle Storie e Sapori, il locale guidato da Giampaolo Stefanetti nella centralissima Porta Nuova. A prendersi cura delle cucine e del nuovissimo menù approntato ormai dalla metà di gennaio, c’è il giovane Mario Capitaneo, enfant prodige cresciuto sotto l’ala protettiva di Enrico Bartolini al Devero di Cavenago e già visto all’opera un paio di anni fa a Lugano, nel locale, ormai chiuso, dei fratelli Stoppani (quelli di Peck), che si chiamava il Salumaio di Montenapoleone. A tirare le fila però, come sempre, al M1lle Storie e Sapori c’è Giampaolo Stefanetti che, oltre alla professionalità e la pasMario Capitaneo sione, fa valere i suoi trascorsi in casa Cerea e una predilezione per la materia prima che proviene soprattutto dal mare. E che dopo il periodo delle festività natalizie ha ben pensato di rinnovare il locale rendendolo più confortevole e più vicino alle caratteristiche di un bistrò-ristorante. È così sparita la caffetteria e il servizio colazioni al primo piano e si è dato più spazio all’isola dei salumi e formaggi che ora diventa un angolo più vivace e centrale, nel quale il cuoco di casa (ma già si pensa anche ad ospitare colleghi italiani o esteri) in diverse occasioni cucinerà e intratterrà i clienti. Il tutto in attesa di conoscere quale sarà il restyling della sala sotterranea, quella vicina alla cantina che, in ogni caso, rimane la sala principale del M1lle. Nel frattempo i primi segnali cui prestare attenzione vengono dalla cucina, come dicono bene i piatti presenti in menù, più variegati, moderni, freschi e calibrati rispetto al recente passato. È il caso del Coniglio in salsa tonnata con pak choi e uovo di quaglia, dei Paccheri con anguilla affumicata, lime e pepe rosa, dei Ravioli cremosi di zucca con cozze, lattuga di mare ed emulsione marina e, tra i dolci, della Pera profumata allo zafferano con meringa e zabaione al whysky. Due i menù degustazione, uno denominato “I nostri classici”, proposto a 39 euro, e l’altro “la nostra ricerca in sei assaggi”, a 55 euro. Entrambi vini esclusi.

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IL PRODOTTO di Roberta Martinelli

Piccoli semi, grandi sapori

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È l’anno dei legumi. Lo ha decretato la Fao che ha avviato una campagna per promuoverne il consumo. Lenticchie, ceci, piselli e fagioli possono sostituire la carne e fanno bene alla salute. Intanto c’è chi lancia la prima pasta al mondo fatta con i legumi eci, piselli, lenticchie, fagioli, fave, soia ma anche varietà oggi quasi scomparse, come lupini, cicerchie e rovigli. Il 2016 sarà l’anno internazionale dei legumi. Lo ha stabilito la Fao che lancerà nei prossimi mesi una serie

di iniziative per far conoscere il loro valore a tavola e rilanciarne il consumo. Nei paesi industrializzati i legumi rappresentano, infatti, solo il 25% della dieta, anche se la produzione mondiale è cresciuta del 20%. Vediamo

SIMONETTA BARCELLA DI BOLGARE

La cuoca: «Siamo fatti per mangiare legumi»

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imonetta Barcella, cuoca diplomata alla scuola di cucina La Sana Gola di Milano, ha già raccolto l’invito della Fao. A fine gennaio, nel suo negozio Natural Bio, a Bolgare, ha promosso una serata per spiegare i benefici dei legumi e come si possono cucinare. E pochi giorni fa ha partecipato a un incontro a Brescia su questo tema insieme all’oncologo Franco Berrino, uno dei massimi esperti del legame fra alimentazione e salute. «Noi siamo fatti per mangiare legumi. La nostra alimentazione dovrebbe basarsi su alimenti vegetali, cereali, legumi e verdure di stagione» dice Simonetta. Oggi però sono relegati ai margini dell’alimentazione. Perché? «Un tempo i legumi erano una parte importante nella dieta delle famiglie perché costavano poco e davano un apporto proteico importante. Erano considerati la carne dei poveri. Basta pensare ai piatti popolari come la pasta e fagioli o le lenticchie in umido. Oggi si pensa che solo la carne possa

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apportare le proteine di cui abbiamo bisogno. È un errore: i legumi abbinati a un cereale integrale ci danno l’apporto di proteine corretto e tutti gli amminoacidi essenziali, in più si evitano i grassi saturi. Senza contare che hanno anche un costo decisamente più basso. Rientrano nella tradizione regionale in cucina, si tratta di riscoprirli. I legumi devono tornare nella tavola tutti i giorni». Molte persone però faticano a sopportarli… «Il 70% delle persone che vengono nel mio negozio mi dicono che non riescono a mangiare legumi perché hanno gonfiori e malesseri. Questo accade perché l’intestino è “sporco”, l’alimentazione occidentale moderna ha fatto sì che il nostro intestino funzioni male. Il primo consiglio è cercare di tornare a una alimentazione più naturale, il secondo di cominciare con piccole quantità. Al contrario di quanto si crede, non abbiamo bisogno di avere un apporto proteico importante. Se non siamo un bambino, un adolescente o uno sportivo, possiamo ac-

Simonetta Barcella contentarci di un cucchiaio di legumi a pasto». Quanti tipi ne esistono? «La varietà è quasi infinita. L’Italia è un grande produttore. Solo come lenticchie, abbiamo 200 varietà. Poi ci sono il cecio nero, il cecio fiorentino, fagioli di tutti i tipi. Il gusto cambia, quindi possono accontentare tutti i palati». In cucina come si possono impiegare? «Sono alimenti molto versatili. Entrano nelle zuppe, come paté su un crostino di pane integrale diventano un antipasto. Stufati e accompagnati con


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allora di scoprire un po’ di più su questi alimenti definiti buoni per la salute e per l’ambiente. Innanzitutto, va detto che il principale produttore al mondo è l’India, seguita da Canada, Myanmar, Cina e Nigeria. Ma anche l’Italia ha una produzione importante. Le varietà sono tante. Ogni regione, ogni territorio, ogni piccolo paese ha le sue. Anche a Bergamo c’è chi li coltiva con passione. Abbiamo parlato con due produttori che ci hanno raccontato i segreti della loro coltivazione e dato alcune dritte per sceglierli buoni e con una cuoca che ha spiegato come siano importanti a tavola. I legumi, inaffti, hanno un alto contenuto energetico grazie alla loro componente glucidica, ma sono poveri di grassi e ricchi di proteine vegetali. Sono ricchi di fibra alimentare, vitamina B1 e vitamina B3, calcio e ferro, potassio e selenio, micronutrienti importanti per il corretto funzionamento degli enzimi responsabili di molte reazioni metaboliche dell’organismo, nonché antiossidanti per prevenire l’invecchiamento cellulare. Sono inoltre degli ottimi alleati nelle diete ipolipidiche ed ipocaloriche, perché hanno un elevato potere saziante.

la polenta sono un ottimo secondo. I colori, poi, sono spettacolari, vanno dal chiaro allo scuro. Bisogna inoltre conoscere le giuste tecniche di cottura. Ad esempio, l’ammollo è indispensabile, soprattutto per i legumi grandi. Bisogna gettare l’acqua di ammollo e poi cuocerli a lungo con alloro, timo e rosmarino, per evitare gonfiori, e alga Kombu che permette di cuocere meglio

La curiosità - Ad Albizzate, in provincia di Varese, dopo anni di sperimentazione, è nata la prima pasta al mondo fatta con legumi. Si chiama Legù, è naturale al 100%, ha pochi carboidrati (una porzione di 60 grammi ne contiene solo 26 grammi, contro i 40 della pasta tradizionale), è senza additivi, ricca di fibre e sali minerali e senza glutine. Inoltre è trafilata al bronzo ed essiccata a bassa temperatura in modo artigianale e si cuoce in soli tre minuti. L’hanno inventata, due 30enni. Nel dicembre 2015 hanno lanciato con l’azienda ITineri il nuovo alimento che si colloca nel solco delle nuove tendenze alimentari salutiste e che getta la sfida a uno dei pilastri della cucina italiana. «Siamo partiti dalla considerazione che il cibo può e deve essere migliorato – afferma Monica Neri, ideatrice con il marito Andrea Zavattari della pasta di legumi –. Abbiamo iniziato a sperimentare varie ricette, prima con la farina di semi di quinoa, poi con quella di amaranto. Infine grazie alle farine di legumi abbiamo ottenuto degli ottimi risultati e, anche supportati dalle evidenze scientifiche, abbiamo deciso di andare in questa direzione».

e completa l’apporto nutrizionale del piatto». La nuova attenzione per il cibo salutare e l’aumento di persone che hanno scelto una dieta vegetariana o vegana non hanno fatto crescere il consumo di legumi? «Per chi fa una scelta vegetariana o vegana, i legumi non possono mancare e soprattutto non può mancare la varie-

tà. Non ci si improvvisa. Questa nuova sensibilità, che sia motivata da considerazioni etiche o di salute, obbliga a conoscere il cibo che si mangia; ad essere consapevoli di quello che si ha nel piatto».

LA RICETTA di Simonetta Barcella

Insalata tiepida di lenticchie Ingredienti: 1 tazza di lenticchie di Rodi o di montagna 2 tazza e 1/2 di acqua 5 cm di alga kombu una cipolla rossa media una carota un gambo tenero di sedano prezzemolo o foglie di sedano tritate olio evo 1 c di acidulato di umeboshi 1/2 c di aceto di mele 2 c di senape fine Tempo di cottura: 20 minuti

Preparazione: Lavare accuratamente le lenticchie. Cuocerle con la kombu, in pentola coperta e a fiamma bassa, per circa 25 minuti, salare leggermente e versarle in una pirofila ampia a raffreddare. Nel frattempo tritare la cipolla e condirla con l'acidulato di umeboshi e 2 cucchiai di acqua e lasciar marinare per tutto il tempo di cottura delle lenticchie. Grattuggiare la carota a fori grossi, tagliare finemente il cuore di sedano. Togliere l'alga e aggiungere carote e sedano alle lenticchie raffreddate. Strizzare la cipolla, aggiungerla alla preparazione e mescolare accuratamente. Emulsionare olio, aceto e senape e condire l'insalata con la salsina preparata. Servire cospargendo con le foglie di sedano tritate.

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I PRODUTTORI

IL PRODOTTO

SERIATE

“Marchesi Ernesto”, l’ex metalmeccanico con la passione per la campagna

Ernesto e Daniele Marchesi

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rnesto era dipendente in un’azienda, poi dieci anni fa ha deciso di dedicarsi al suo hobby, la coltivazione di fagiolini, piselli, zucche e patate. «Mio papà aveva un terreno che dopo il lavoro coltivavamo a frumento - racconta -. Era una passione. Quando sono andato in pensione ho piantato dei fagiolini di diverse varietà e ho fatto vendita porta a porta per un paio di anni. Poi mio figlio, che lavorava in un’azienda metalmeccanica, è stato messo in cassa integrazione. Allora insieme abbiamo deciso di tuffarci a tempo pieno in questa attività». Quante varietà di fagiolini coltivate? «Sei o sette varietà: fagiolini nani e rampicanti. Il Rampinello (anellino) bianco che ha un colore bianco-oro ed è un prodotto di nicchia bergamasco molto richiesto; è delicatissimo da coltivare perché viene attaccato dagli insetti e può prendere la ruggine. L’Anellino di Brescia che ha un colore verde chiaro ed è liscio, l’Anellino di Trento, verde striato di blu. Sono buonissimi, bisogna saperli cucinare, bolliti o al vapore. Sono carnosi e burrosi, non è il solito cornetto coi filamenti. Poi c’è la taccola (piattone) bianca, molto più grande dell’anellino, può arrivare a dimensioni di 3x20 centimetri quando è al top, anche questa varietà è burrosa e senza fili; infine coltiviamo i Boby: ce ne sono diverse varietà, da quelli piccolissimi di 3-4 millimetri di diametro a quelli di 10 millimetri; più sono piccoli, più sono buoni». Come avviene la coltivazione? «Si semina a fine marzo, con temperature sopra i 10 gradi, e si raccoglie dopo 80 giorni, fino a ottobre-novembre, se il tempo è bello». Avete una buona produzione? «Dipende dal tempo. Siamo sempre con gli occhi al cie-

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lo. Purtroppo la coltivazione è tutta all’aperto. Anche il prezzo dipende dal tempo: varia tantissimo in base alla richiesta e alla disponibilità. Oggi possiamo prendere 5 euro al chilo, domani 1 euro. Quando il tempo è brutto te li pagano a peso d’oro, ma non ci sono». E per quanto riguarda i piselli? «Ne coltiviamo pochi, circa mezzo ettaro perché sono delicati e non si possono raccogliere a macchina. Abbiamo la varietà Mezzarama, è meno impegnativa da seguire». A chi e dove vendete? «Prima facevo vendita diretta, poi sono passato al mercato ortofrutticolo. Vendiamo solo a fruttivendoli e negozianti la mattina durante la settimana. In azienda, solo su appuntamento la sera. Per noi il tempo è oro. Per vendere da noi dovremmo avere una persona dedicata, ma come si fa?». Come si conservano? «Nel frigorifero se li si compra al mattino e li si cucina la sera. Messi in una vaschetta, chiusi in un sacchetto di cellophane alimentare possono durare anche dieci giorni». C’è richiesta di legumi? «Si, ma i nostri prodotti hanno un prezzo tre volte più alto di quelli industriali. Il nostro mercato è fatto di fruttivendoli e negozianti che ci tengono e che hanno una clientela interessata alla qualità. I cornetti arrivano dalla Grecia e da Israele, nel viaggio perdono uno-due giorni. I miei li raccolgo giorno per giorno e li vendo la mattina dopo. Dopo averli raccolti a casa li selezioniamo tutti a manciate e li sistemiamo nelle cassette. Al negoziante che fornisce la mensa questi aspetti non importano, vuole prodotti che costano poco».

Fate coltura biologica? «Non usiamo diserbanti ed evitiamo pesticidi ma biologico è una parola grossa. Per fare biologico davvero bisogna tenere separate le diverse coltivazioni. Per noi è impossibile. Anche rispetto al chilometro zero bisogna


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stare attenti: uno ha vari prodotti ma non può averne mille. Io non ho carote e cipolle, se le vendo e non so da dove arrivano, non è chilometro zero». È un lavoro che dà soddisfazioni? «Siamo partiti quasi da zero, stiamo ancora ammortizzando le spese. È un lavoro che si fa se uno ha passione, sennò meglio scegliere altro. Io sono nato contadino e morirò contadino, anche se ero metalmeccanico. Ma se

dovessi contare le ore di lavoro… Mi alzo alle tre per andare al mercato e non vado mai a casa fino a che è buio, poi la sera bisogna sistemare. Se avessimo guadagnato 5 euro all’ora saremmo miliardari. Le spese sono insopportabili. Oggi il latte costa meno dell’acqua, ha lo stesso prezzo di dieci-vent’anni fa anni fa, ma il trattore allora costava 3mila euro, ora 25mila. Il lavoro a mano, per avere il prodotto genuino, non si ripaga».

PALOSCO

“Sibari” e “Valentino” primeggiano all’azienda di Giovanni Liborio

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Palosco, Giovanni Liborio, 47 anni, coltiva due varietà di fagiolini, quella primaverile che si chiama Sibari e i fagiolini Valentino, che sono i più richiesti e più teneri; e cinque varietà di fagioli: Lingua di fuoco, Borlotto nani, Supremo, Stregonta e Etna. L’azienda agricola porta il suo nome e in origine produceva latte, formaggi e salumi tipici bergamaschi. Nel 1999 è stata aggiunta la coltivazione di verdure: fagiolini, fagioli, ma anche zucchine e zucche di Halloween. «Con le verdure c’è più margine, è un altro mondo, non c’è paragone - spiega -. Un animale è un bambino, con la verdura non puoi perdere tutti i raccolti, invece se perdi un animale oggi hai perso due anni di lavoro. Prima di due anni le bestie non danno reddito». In azienda insieme a Giovanni lavora la moglie Debora. Ogni tanto li aiutano il papà Battista, 83 anni, ex proprietario dell’azienda, e i figli. «Claudio - racconta Giovanni - ha 15 anni, studia Agraria e mi ricorda sempre che è l’occhio che vende. Mette i fagiolini alla perfezione nelle cassette. Mauro, va in terza media e mi aiuta nella raccolta». Quanti terreni coltivate a fagioli e fagiolini? «Per i fagiolini, all’incirca sette ettari. Seminiamo, riseminiamo e raccogliamo. La semina avviene dalla settimana di Pasqua fino al 15 agosto. Per i fagioli mezzo ettaro, perché sono molto più delicati e vanno raccolti a mano». Che produzione avete? «Prima facevamo anche 600/700 quintali di fagiolini, ora la produzione è scesa a 300 quintali. In media, sono 500 chili al giorno. La richiesta è diminuita, un tempo compravano la cassetta, ora acquistano il mezzo chilo. Da un certo punto di vista è anche una buona cosa, prima molti fagiolini finivano in pattumiera, ora invece consumano tutto. Poi dipende dal tempo. Il mese di luglio abbiamo avuto una produzione bassa. Quest’anno è stato terribile, abbiamo perso 40 giorni di raccolto. È una coltivazione delicatissima. Se c’è troppo caldo rischia di non nascere».

Giovanni Librorio con la moglie Debora Elvetico Dove vendete i vostri prodotti? «Al mercato ortofrutticolo. Il sabato mattina dopo le 9 ai privati, durante la settimana ai rivenditori e ai negozianti. Vengono da tutta la provincia, ma anche da Milano, Como, Sondrio». Come è il mercato? «Dobbiamo competere con produttori che vengono da altre città. La mia azienda è l’unica nella Bergamasca con raccolta a macchina. I fagiolini raccolti a mano sono più selezionati, ma la macchina permette di fare un prezzo più basso: dobbiamo accontentare il rivenditore». Per prezzo basso cosa intende? «Per i fagioli il prezzo minimo al chilogrammo è di 1,50 euro. I fagiolini costano un po’ meno, intorno a 1,20 euro, ma il prezzo può salire a 2 euro o scendere a 60 centesimi. Dipende. Abbiamo venduto anche a 4 euro al chilo, perché in quel momento non li aveva nessun altro. Di norma noi sotto l’euro non scendiamo. Se il fa-

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GLI EVENTI

IL PRODOTTO

giolino non lo compri almeno a 1 euro al chilo non va bene. Se devi andare a Bergamo per svendere, rovini il tuo mercato e quello degli altri e ti trovi con un margine di guadagno zero». Come si fa a capire se un fagiolino è buono quando lo si compra? «Se si rompe in due e dentro si trova la polpa, è buono, se invece si trova il seme, si mangia male. Bisogna essere un po’ sfacciati e fare questa prova anche al supermercato. Le dimensioni esterne non contano. I fagioli, invece, sono buoni quando sono pieni e ramati, con delle belle venature. Vedo ancora persone che comprano prodotti che costano poco pensando di fare un affare. Il negoziante spesso sfrutta l’occasione. Tutti vanno alla ricerca del prezzo migliore, ma se il prodotto è scadente non dura. La prima cosa da chiedere è la provenienza, è la cosa più importante. I fagioli vengono anche dall’Olanda. Bisogna stare attenti. Io faccio sempre presente la provenienza e vendo bene».

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Gaverina, a settembre la “Festa dei Fasoi di Trate”

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Gaverina i fagioli sono il simbolo gastronomico della frazione di Trate dove erano coltivati fin dal Medioevo dai monaci Benedettini. La terza domenica di settembre il paese gli dedica la sagra “Festa dei Fasöi di Trate”, tre giorni in cui si celebra il ringraziamento per il raccolto dei fagioli, con cui fino al XVII secolo si pagavano le decime per la mezzadria dei terreni di proprietà dell’Abbazia benedettina di Vallalta. La festa settembrina è un evento molto sentito e atteso dagli abitanti della piccola contrada, che unisce cucina e folclore (giochi, canti e musiche popolari) ma anche richia-

mi religiosi (la festa patronale della Madonna Addolorata ricorre proprio in quei giorni). Ma il leitmotiv della sagra è la degustazione di prodotti tipici locali: i fagioli, ma anche polenta taragna, formaggi, salami, cotechini e miele. Al fagiolo, tipica “carne dei poveri”, la domenica è riservato il concorso gastronomico “Il fagiolaro”, che vede un gran numero di cuochi e appassionati impegnati nella preparazione di piatti, dagli antipasti al dolce, rigorosamente a base di fagioli. Dopo la premiazione, i piatti in gara vengono distribuiti al pubblico nella famosa “Fagiolata”, che chiude la festa.

Pizzighettone, tutto esaurito alla sagra dei “Fasulin de l’òc cun le cudeghe”

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izzighettone, in provincia di Cremona, a cavallo tra ottobre e novembre, dedica al suo prodotto locale, i fagioli dell’occhio, una rassegna dal nome “Fasulin de l’òc cun le cudeghe”. Al centro della sagra c’è un piatto della tradizione che veniva preparato e servito nelle osterie il 2 novembre, in occasione delle celebrazioni dei morti. Il Gruppo volontari delle mura onlus l’ha riscattato dall’oblio e oggi è al centro di una maratona gastronomica che richiama in riva all’Adda ben 35mila buongustai provenienti da tutta Italia, molti dei quali in camper. I fagioli dell’occhio di Pizzighettone, qui chiamati fasulin, presentano una caratteristica macchiolina scura al centro della concavità e sono un prodotto biologico di nicchia: sono l’unico fagiolo autoctono del Vecchio mondo essendo originari dell’Africa e dell’Asia e non dell’America da cui sono invece stati importati tutti gli al-

tri legumi. La loro coltivazione sul territorio stava scomparendo, ma grazie alla sagra si è preservata: oggi ce n’è una piccola coltivazione a poche centinaia di metri dalle mura. Il piatto da qualche anno ha marchio e logo depositati ed è tornato anche nei menù di diverse trattorie e ristoranti del luogo. La preparazione si basa su un’antica ricetta, ancora oggi gelosamente conservata dalle mamme e nonne del paese: i fasulin vengono sottoposti a due cotture al giorno di quattro ore l’una, la prima alle 5 del mattino, la seconda alle 14, con cotenne di maiale, carni miste, brodo e verdure, quindi serviti in scodelle fumanti, con l’accompagnamento di pane e vino locale. «La sagra è nata quasi per scherzo 23 anni fa come una cena tra amici, con circa un centinaio di porzioni - raccontano gli organizzatori -. Oggi le scodelline di Fasulin sono salite a più di 16mila, per un totale di 62 quintali di prodotto».


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IL NEGOZIO

di Rosanna Scardi

Anche la carne ha la sua pasticceria “Gli sfizi di Giò”, a Pontirolo Nuovo, sono un inno all’estrosità. Nella macelleria si possono trovare “torte” con macinato, zuppe inglesi di carne e colombe pasquali prodotte con un impasto delicato di vitello, pollo, maiale e uvetta. «Ho affinato l’arte di assemblare i sapori spiega Giovanna Fenili - un’autentica passione»

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na macellaia con l’estrosità di una maitre patissier. Giovanna (Giò) Fenili ha ideato la pasticceria della carne, dolci dal colore rosso vivo con guarnizioni di frutta, verdura fresca e perfino fiorellini. La macellaia è titolare del negozio in via Gavazzi, a Pontirolo Nuovo, e chef di macelleria nel risto market Matè a Treviglio. Il suo ingrediente principale è la fantasia, quel tocco femminile che manca in una professione maschile e che l’ha portata a creare “Gli sfizi di Giò”, una linea dove spiccano torte con macinato, come quello di maiale, più dolce, che si abbina a albicocche, prugne, castagne, fichi e datteri secchi, o di vitello arricchito da ribes, uva, mirtilli o formaggi che non siano troppo forti da coprirne il sapore. Ci sono i bicchieri da cocktail traboccanti di alchechengi e ribes, torte di compleanno con fragole e ciliegie, il pianoforte con patate e spinaci, le zucchine ripiene a forma di tegame, i ghiaccioli, le capesante di tartare con una perla di formaggio, la zuppa inglese di carne dalla quale si tagliano tanti twister. «Mi è sempre piaciuto inventare - spiega Giò -. Non ha senso cucinare la solita scaloppina o arrosto, bisogna sperimentare, abbinando i sapori e usando tutte le parti dell’animale. È inutile acquistare il filetto da 40 euro al chilo per la battuta quando puoi fare un’ottima figura con

Giovanna Fenili

la punta di petto che costa un terzo». Non solo. La Fenili cucina il diaframma, per la tartare lavora il fusello di petto, sempre sotto gli occhi del cliente. Per hamburger, costate, polpette, sfilacci e bistecche usa il sottospalla, per la tagliata la bavetta o una copertina di spalla aperta a libro e lasciata marinare per un giorno e poi grigliata. Il suo regno è dietro al bancone, dove dispensa segreti sulla cottura e rivela ricette sui suoi preparati. Qualche esempio? Le tortillas spalmate con diversi strati: prima la carne macinata scottata, sopra le sfoglie alternate a una mousse di spinaci e patate, un’altra di patate e zucca e una di castagne. O la colomba pasquale: un impasto delicato di vitello, pollo e maiale con uvetta lasciata a bagno nel Brandy più pinoli, noci e castagne stufate. Anche gli arrosti sono ricercati nel gusto e nel colore: l’arista può essere esaltata da un carpaccio di carciofi aggiunto a crudo nel piatto e una crema di mirtilli frullati con la panna. «La macelleria non è un mestiere, è l’arte di assemblare i sapori, una passione. Se i giovani non ne sono convinti, è meglio che lascino perdere», afferma Giò. La sua storia è cominciata nella bottega di famiglia, avviata nel 1965 dal padre Cesare, che non c’è più ma le ha lasciato un’eredità di empatia e amore per il proprio lavoro. «A tredici anni mio papà mi ha portato al macello per la prima volta perché diceva che un buon macellaio deve essere prima di tutto un buon operatore – ricorda -. Lì ho imparato a riconoscere i vari tagli dell’animale, a sezionare, ho rubato la tecnica». Il suo è un mondo lontano anni luce da quello dei vegani. «Li rispetto. Ci attaccano, ma noi dietro al bancone abbiamo una filosofia: mettere a proprio agio e cercare di capire tutti, anche loro».

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TENDENZE di Laura Ceresoli

Facciamoli viola! Anche Bergamo non è immune dal purple food, l’utilizzo di frutta e verdure con colori che vanno dal violetto al porpora, ricchi di sostanze benefiche. Nascono così piatti dal nuovo look e le scelte cromatiche contagiano anche stoviglie e accessori

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uest’anno sulle tavole dei bergamaschi trionferà il viola. La nuova tendenza in fatto di cibi si chiama “Purple food” e arriva direttamente dall’Inghilterra dove già nel 2015 si è registrato un aumento del 10% nelle vendite di frutta e verdura con sfumature dal violetto al porpora. Non solo radicchio, melanzane e barbabietole ma anche broccoli, patate e persino carote viola si sono insinuate nella carta di moltissimi ristoranti orobici. Merito delle loro molteplici proprietà benefiche. I cibi che contengono questo pigmento – nato dall’unione virtuosa dei colori primari blu e rosso – sono infatti potenti antiossidanti, aiutano a combattere le malattie cardiovascolari, a prevenire il cancro e l’invecchiamento. Un vero toccasana, insomma. E in un’epoca in cui l’attitudine vegana-salutista va tanto di moda, anche gli chef di casa nostra si stanno scervellando per rendere questi ortaggi sempre più appetibili. Così anche frutti non propria-

mente amati dai più schizzinosi come prugne, bacche di sambuco e cavoli si sono trasformati in inedite delizie. I primi a lanciare il trend del “purple food” sono stati Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi che nel sontuoso menù del loro matrimonio hanno inserito una sella di capriolo alle bietole, con dressing di nocciole e gocce di ribes realizzata da Norbert Niederkofler. Lo stesso chef pluristellato che lo scorso autunno ha mandato in estasi i palati sopraffini del ristorante Da Vittorio con i suoi gnocchi alla rapa rossa, durante una serata benefica organizzata al noto locale di Brusaporto dei Cerea. «Quest’anno dovrò cominciare a coltivare qualche CAVOLO nero e viola in più – conferma Martino Bonacina che, insieme al fratello Giancarlo, gestisce un’azienda agricola in via San Martino della Pigrizia sui Colli di Bergamo –. Per il momento si tratta ancora di prodotti di nicchia, tuttavia i

bergamaschi stanno imparando a conoscerli e a richiederli. Merito, o colpa, della Clerici che nel suo programma “La prova del cuoco” propone spesso ricette con ortaggi alternativi». Fabio Eustachio dell’Orticola Eustachio di Levate, invece, preferisce la tradizione: «Che finiscano in tavola o vengano utilizzati con finalità ornamentali, gli ortaggi viola o blu ultimamente vanno molto. Attirano l’attenzione per il loro colore ma il sapore è più o meno lo stesso di quelli classici. Io personalmente preferisco non seguire mode che poi tramontano». Forma oblunga, buccia spessa di colore scuro e polpa viola intenso, le PATATE Vitelotte sono soprannominate “viole del benessere” proprio per la loro ricca concentrazione di antocianine e antiossidanti. Questi tuberi, diventati un marchio di fabbrica dell’azienda agricola Gatti di Martinengo, sono particolarmente indicati per la preparazione di piatti di grande effetto. Se fritte,


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le vitelotte si mantengono viola, mentre lessate danno un purè di una insolita tonalità azzurrina. È possibile assaggiarle al ristorante Carroponte di Bergamo dove lo chef Alan Foglieni ama abbinarle, morbide e croccanti, al polpo arrostito oppure, sotto forma di chips, insieme alla tartare di salmone. Da qualche tempo, accanto alle familiari CAROTE arancioni che, con la loro tonalità brillante spiccano da sempre tra i bancali del supermercato, sono disponibili anche varietà viola intenso, quasi nere. Nel 16esimo secolo questa specie era molto diffusa. Con gli anni, però, è sparita dalle tavole occidentali ed è stata relegata a mangime per animali. In un’epoca in cui la curiosità per le biodiversità si riaccende, anche la carota viola è tornata a farsi viva. Ne sa qualcosa il ristorante Cece e Simo di via IV novembre a Bergamo che propone un intrigante risotto alla

carota viola con cuori eduli al profumo di lime. E a proposito di viola, c’è chi usa la LAVANDA non solo per profumare armadi e decorare la casa, ma anche come ingrediente per pasta e dolci. È il caso della Bottega della Lavanda di via San Lorenzo, in Città alta, che oltre a creme per il corpo, detergenti e servizi di tazzine lillà vende barattoli di miele, muffin ma anche maltagliati, fettuccine e strozzapreti, tutti rigorosamente aromatizzati con una delicata essenza alla lavanda. In tema di PASTA, il purple food ha contagiato anche l’agriturismo Polisena di Pontida, dove si mangiano i tagliolini viola di bietola al ragù d’agnello, mentre l’osteria La Trisa di Valmaggiore propone nel suo menù le penne al farro con verze viola, salsiccia e scaglie di bagoss. Gettonatissimi anche i FRUTTI DI BOSCO: da segnalare il risotto mirtilli e

funghi porcini servito in alcuni locali di Città alta tra cui la Dispensa di Arlecchino e il ristorante San Vigilio. Quest’ultimo offre, in alternativa, anche un risotto mantecato alle fragole con carpaccio di spada affumicato. Per gustare al meglio queste leccornie tra le mura domestiche, durante un allegro pranzo in famiglia o un tè con le amiche, anche la TAVOLA dev’essere in tinta. E allora via libera a decorazioni, dettagli, stoviglie e fiori porpora. Basta dare un’occhiata al catalogo della TreP di Osio Sotto per scoprire un universo di accessori per la casa, tutti in tema con la moda del momento. Non solo piatti e bicchieri con delicate violette disegnate su sfondo bianco ma anche posate, salini e persino caffettiere color viola. Insomma, tante combinazioni per una tinta che, con il suo nome poetico, celebra un delicatissimo fiore.

Dall’alto in senso orario: gli gnocchi di rapa rossa di Vittorio, il risotto funghi e mirtilli del San Vigilio, le proposte della Bottega della Lavanda, il risotto alle carote viola di Cece e Simo, la sella di capriolo di Niederkofler e la tartare con chips viola del Carroponte

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LA STORIA di Giovanni Ponzoni

Da Alzano a Copenhagen «Così ho conquistato i Danesi»

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ra una ripresa economica che stenta a decollare e i proclami che, più o meno a giorni alterni e da più parti politiche, raccontano di un’economia ora in crescita, ora ferma al palo, la tentazione di uscire dai confini nazionali per farsi una nuova vita e trovare un lavoro è sempre molto forte, soprattutto tra i giovani. I quali non a caso lamentano in Italia una percentuale di disoccupazione piuttosto alta, che non lascia intravedere almeno nel breve periodo grandi opportunità, se non quelle, nella migliore delle ipotesi, del precariato o del lavoro a tempo determinato. Così vale, ovviamente, anche per il complesso mercato della ristorazione, dove però l’italiano, ai fornelli o in sala, può giocare su più fronti, essendo ancora oggi queste due tra le professioni più facilmente esportabili, non a caso presenti in forze in molti Paesi europei e non solo. Oltretutto con risultati che spesso sfiorano l’eccellenza, perché quando c’è un riconosciuto talento, spesso, all’estero, finisce per essere premiato, mentre all’interno dei confini italiani non sempre questo accade. Un bell’esempio ci viene fornito

La bella favola della bergamasca Francesca Parazzi, formazione all’alberghiero di Clusone, oggi sous chef allo stellato “Marchal”. «Il lavoro mi sta dando grandi soddisfazioni perché ogni giorno scopro nuove tecniche e materie prime con cui progettare ricette». «E ho imparato anche che differenza esiste con la cucina italiana» dall’avventura un po’ speciale capitata in sorte a Francesca Parazzi, ventottenne bergamasca originaria di Alzano Lombardo che fino a qualche anno fa serviva piattoni di stinco in una birreria bergamasca ed ora si trova a svolgere l’impegnativo ruolo di sous chef nella brigata del ristorante Marchal di Copenhagen, uno degli indirizzi emergenti della cucina nordica, ospitato all’interno dello storico e magnifico Hotel D’Angleterre. Un percorso a dire il vero non nato dal caso, ma che sembra essere un po’ la bella favola capace di far sgranare gli occhi, un po’ figlia della caparbietà e un po’ del pizzico di fantasia messo in campo da parte della protagonista.


febbraio 2016 Francesca Parazzi vanta trascorsi professionali piuttosto classici come lei stessa racconta: «Ho frequentato l’istituto alberghiero professionale di Clusone e all’ultimo anno di specializzazione seguivo gli insegnamenti di Mauro Elli (lo stellato de Il Cantuccio ad Albavilla, in Brianza), che mi ha introdotto al mondo del lavoro. La prima vera esperienza l’ho fatta in un piccolo albergo ad Onore, in provincia, durante le vacanze estive del penultimo anno scolastico. Poi, una volta finiti gli studi, ha lavorato come capo partita in pasticceria presso un ristorante italiano di un golf club a Glasgow in Scozia. In seguito, sempre in pasticceria come commis, sono finita durante l’estate al Castello di Velona, in Toscana e poi all’Hotel Milano di Bratto come commis di cucina, terminando dopo quattro anni come capo partita agli antipasti. La gestione di una cucina in prima persona però è stata quella della birreria Ein Mass a Montello”. E proprio qui scatta la “sliding door” che la convince, per crescere professionalmente, a cercare tramite il web un’opportunità a Copenhagen, dove il compagno Matteo sta effettuando un dottorato in fisiologia dell’esercizio fisico presso l’Università. «Devo dire - ricorda oggi Francesca - che trovare un lavoro in Danimarca è stato piuttosto semplice. E tra i tanti ristoranti che cercavano personale mi sono proposta al Kanalen, un bistrò situato non troppo distante dal famoso Noma che per anni è stato il miglior ristorante al mondo. Ho mandato un curriculum e dopo un breve periodo di prova ho subito iniziato a lavorare come capopartita e successivamente come secondo chef. Il tutto in un periodo che va dal settembre del 2013 al giugno 2014». Questi dieci mesi trascorsi a stretto contatto con la realtà emergente della cucina nordica si sono subito rivelati fondamentali, per conoscere una nuova materia prima, assimilare nuove metodologie di lavoro e mettersi in mostra grazie a una versatilità e a un rigore che è stato notato immediatamente anche da altri cuochi. Così due anni fa, nel momento di riapertura dello storico Hotel D’Angleterre, completamente rinnovato, si presenta l’opportunità di lavorare con Ronny Emborg, talentuoso cuoco danese che si prende in carico la cucina del Marchal, il nuovo ristorante dell’albergo. Per Francesca è l’approdo verso una cucina e un ambiente più professionali e di maggior spessore, che, tra l’altro prevedono il confronto con la difficile e più complessa ristorazione d’albergo. Il Marchal è un urban restaurant elegante e raffinato con una cucina che sfiora la classicità francese e la mescola alla geometria e all’essenzialità che è facile trovare a queste latitudini. Così il Baccalà viene cotto in tempura con midollo affumicato, spinaci e ribes nero, la Tartare di carne si presenta con rafano, pomodori, cipolle e nasturzio, e le Animelle sono fritte per poi incontrare una salsa al rabarbaro fermentato e un brodo di vitello. Ma allo stesso tempo qui si può vivere l’esperienza di un piatto grandioso e storico come la Chateaubriand, rigorosamente per due, così come la Rana pescatrice cotta all’osso con lardo, pepe

nero, patate reidratate e salsa alle cozze. Il Marchal al suo primo anno di apertura riceve una meritata stella Michelin (guida 2015) con Ronny Emborg in cucina. Poi il danese si trasferisce negli Stati Uniti per aprire il ristorante Atera a New York e il suo secondo, l’austriaco Christian Gadient, diventa l’executive chef. A scalare, i due junior sous chef, Francesca Parazzi e Alex Schonning Petersen vengono promossi a sous chef proprio dall’inizio di quest’anno. «I miei compiti sono ben precisi - racconta Francesca -. Gestisco il servizio sia a pranzo che a cena, ma anche gli ordini e la mise en place di ogni partita. Il lavoro mi sta dando grandi soddisfazioni perché ogni giorno scopro nuove tecniche di lavorazione o materie prime con cui progettare ricette o anche solo piccoli elementi che possono fare la differenza in un piatto. E poi vedo le grandi differenze sotto l’aspetto gerarchico tra quello che succede in Italia e quello che invece succede in Danimarca. In Italia la cucina è sempre più inquadrata, mentre quella danese è più elastica e si basa molto sul lavoro di squadra». Ma non ti manca un po’ Bergamo, viene da chiedere? «Certo, mi manca ammirare le montagne e quando torno cerco sempre di trovare una serata libera per trascorrere qualche ora a Città Alta, ma qui a Copenhagen devo dire che mi trovo benissimo. La città è vivibile e organizzata, poi tra la primavera e l’estate è ricca di eventi e la scelta dei locali è quasi infinita. Puoi trovare un kebab, vicino a un bistrò o a un ristorante stellato. Insomma, un po’ per tutti i gusti». Un bell’esempio di volontà, intraprendenza e talento.

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IL LOCALE di Leo Bartoli

Il ristorante guidato dai fratelli Rodeschini si sta guadagnando spazio nel panorama della ristorazione in Città Alta. Oltre ai piatti della tradizione bergamasca, in evidenza le chicche casearie. Sono nate così due ricette con l’Alben di Vedeseta e l’Agrì di Valtorta create apposta per Affari di Gola

Roby e Alex Rodeschini

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“La Tana”, l’arte di valorizzare il formaggio ravi sono bravi da tempo: basta vedere il continuo afflusso di appassionati, con tantissimi turisti che l’hanno eletto tra i “luoghi del cuore” (e del palato) di Città Alta. Ma che il ristorante La Tana si trasformasse in una sorta di “laboratorio”, dove, accanto ai piatti della tradizione bergamasca e a quelli della grandeur italiana, nascono felici intuizioni, da aggiungere in un menù tutto scoprire, ecco questa è la vera sorpresa. Che diventa doppia quando scopriamo che i due patron, i fratelli Rodeschini, Alessandro, 35 anni, sommellier Ais e direttore di sala, e Roberto, 27 anni, chef creativo diplomato a Nembro (c’è un terzo fratello, Dario, che fa il pasticcere

a Stezzano: un trio addestrato da quella cuoca sopraffina di mamma Isa), sanno esaltare quello che in provincia è il protagonista assoluto: sua maestà il formaggio. E di chicche casearie, i due ne hanno scovate in questi anni davvero tante: l’ultima, in Piemonte (un po’ la loro seconda patria, se consideriamo le sempre abbondanti scorte di carne e vini che arrivano da lì in via San Lorenzo) una celestiale forma di Maccagno che hanno proposto “in purezza” alla clientela. Ma gli amori caseari partono naturalmente dai “tesori” di casa nostra: «Bergamo è davvero un giacimento di grandi formaggi, più o meno conosciuti spiega Alessandro -, a noi il compito di esaltarli attraverso assaggi mirati con gli appositi taglieri, ma anche ideando ricette originali che arricchiscono il loro utilizzo in cucina». Ecco allora che i due fratelli si mettono spesso prima a tavolino e poi ai fornelli e sfornano idee a ripetizione. Così sono nate le due ricette create appositamente per Affari di Gola e che dal 1° marzo entreranno ufficialmente in menù: «Ci piaceva stupire con qualcosa che andasse al di là del solito risotto o sformato - aggiunge lo chef Roberto -. Ci auguriamo che possano piacere a chi verrà a trovarci». Il primo piatto è una Creme Brulée salata (per i nomi ufficiali c’è ancora tempo e si accettano suggerimenti dalla clientela), sorta di fonduta in


febbraio 2016 tazza, con sopra un crumble croccante di nocciola Tonda gentile del Piemonte Igp, che al posto della fontina vede protagonista assoluto l’Alben, vaccino a latte crudo della Val Taleggio, pasta cotta, stagionatura media, gusto asciutto e dolce, che i fratelli Rodeschini hanno deciso di “adottare”. «In cucina l’Alben è un formaggio dalle grandi potenzialità ma poco conosciuto anche dai bergamaschi - spiega Alessandro -, l’intento della ricetta è anche divulgativo, nel senso che chi lo assaggerà sarà invogliato a saperne di più di questa nostra piccola chicca brembana». Una entrée raffinata, abbinata al delizioso Cru piemontese, Rossi Contini, nettare vellutato tra i principi della famiglia dei Dolcetti. La seconda proposta è ancora più intrigante: una millefoglie di grano saraceno e caffè “Quintessenza” Mogi (altra gloria locale, che ormai spopola anche Oltreoceano) con mele saltate al burro, menta e soprattutto Agrì di Valtorta. È proprio il formaggino di Valtorta, presidio Slowfood a rendere questo piatto sorprendente e originale al tempo stesso, equi-

RISTORANTE LA TANA via San Lorenzo, 25 Bergamo Alta tel. 035 213137 www.tanaristorante.it

librando con la sua acidità e sapidità le note dolci delle mele brembane e del miele di robinia, mentre i croccanti anelli biscottati sono senza glutine e quindi consumabili anche dai celiaci. «Piatto più complesso - aggiunge Alessandro - che però diventa centrale in un menù per le sue caratteristiche nutritive, esaltate da un Agrì che è una delle perle del nostro patrimonio caseario, originalissima chicca che in molti ci invidiano e che il mondo Slowfood ha contribuito a riportare agli onori delle cronache». E a proposito di cronache, il locale di Roby & Alex trova ammiratori anche dall’altra parte del globo, se è vero che la rivista Food&Travel, diretta da Michelle Koh Morollo, giornalista e scrittrice specializzata in food and beverage, con redazioni a Singapore e Hong Kong, è stato recensito nel numero dello scorso dicembre. Ma il respiro internazionale viene anche incoraggiato fin dal momento di sedersi al tavolo, grazie alle tovagliette con ricette stampate in italiano e inglese e gli abbinamenti con i grandi vini. È facile capire perché qui gli stranieri si sentono a casa: l’edificio è storico (sedicesimo secolo), c’è il fascino delle pietre antiche, del camino sempre acceso, col braciere in cui grigliare a piacimento tagliate, filetti, costate e fiorentine. Ma prima antipasti sfiziosi con titoli ammiccanti sul menù, come quel “Spagna-Italia 1-1” che mette a confronto in una sorta di derby culinario polenta bergamasca e acciughe del Cantabrico. E ancora la sfilata di paste e risotti: il più convincente ha come protagonista un altro grande formaggio di casa nostra, quel blu di bufala, qui abbinato al mosto di uva fragola, che Bruno Gritti de I Quattro Portoni esporta ormai in ogni angolo del pianeta.

Live Wine / Dal 5 al 7 marzo

Milano, torna il Salone internazionale del vino artigianale

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al 5 al 7 marzo torna, a Milano, l’evento dedicato alle produzioni vinicole artigianali, italiane e internazionali. In collaborazione con la storica manifestazione “Vini di Vignaioli” di Fornovo e con l’Associazione Italiana Sommelier Lombardia, più di 100 produttori provenienti da tutta Italia e dall’estero presentano i loro vini con banchi d’assaggio. Dopo il successo della prima edizione del 2015, Live Wine 2016 ritorna al Palazzo del Ghiaccio di via Piranesi 14 con un programma ancora più ricco, per far conoscere al vasto pubblico di operatori e di privati il sempre più apprezzato livello delle produzioni artigianali di qualità. I produttori selezionati sono aziende di piccole e medie dimensioni, che praticano un’agricoltura biologica, biodinamica o naturale e che producono il vino senza l’utilizzo di additivi. I solfiti, se aggiunti, sono utilizzati in dosi minime. Il risultato è un vino autentico, espressione massima del territorio, dell’annata e del lavoro dell’uomo. Durante Live Wine 2016 sarà inoltre possibile partecipare agli incontri e alle degustazioni a tema guidate da Samuel Cogliati, editore e divulgatore italo-francese. Le degustazioni guidate sono a numero chiuso e prenotabili online da febbraio attraverso il sito www.livewine.it. Da non perdere anche le serate Live Wine Night. Venerdì 4, sabato 5 e domenica 6 marzo, nelle enoteche, ristoranti e altri luoghi selezionati della città si può approfondire la conoscenza dei vini e dei territori in compagnia dei vignaioli presenti, con l’accompagnamento di musica dal vivo. Il programma delle serate sarà consultabile in prossimità dell’evento sul sito www.livewine.it

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IL FENOMENO di Lara Abrati immagini fornite da WelcHome Restaurant

All’insegna della socialità, prendono piede anche a Bergamo le cene in casa organizzate da privati. L’attività è però ancora senza leggi. Le domandano i ristoratori, allarmati dalla crescita delle proposte, e gli stessi “homer”, che vogliono operare con trasparenza

L’home restaurant si fa largo. E tutti chiedono regole

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rmai da anni la sharing economy sta entrando nella quotidianità di sempre più persone. È una tendenza che coinvolge molti settori e in grado di offrire diverse tipologie di servizi. A volte è il prezzo del servizio stesso, altre volte invece è proprio l’originalità della proposta ad attirare chi si approccia a questo mondo da fruitore. La sharing economy si sta sempre più affermando come un “nuovo modo” di usare, di consumare, di operare. Un modo molto vicino ai recenti stili di vita, che utilizza gli strumenti delle nuove generazioni, diretto e facilmente comprensibile, immediatamente fruibile, per l’appunto… social! Sicuramente una modalità operativa molto vicina al mondo web, alla semplicità che lo stesso ha stimolato nel raggiungere informazioni, in un mondo in cui, tradizionalmente, è sempre più difficile operare, intraprendere, agire. La sharing economy e il suo corollario di scambio e socialità rappresentano forse l’espressione di un insieme di bisogni, sia da parte degli utenti che dagli stessi operatori. Un fenomeno sempre più radicato, che ha la necessità di essere considerato, compreso, capito e, di conseguenza, normato. Impossibile, se non deleterio, sarebbe tentare di fermarlo o addirittura ignorarlo. Anche nel mondo del cibo qualcosa è cambiato. Il cibo e tutto quello che ruota attorno al mondo dei fornelli è sempre più social, sempre più ricercato e condiviso. È cambiato l’approccio nei confronti dello stesso, è cambiato il modo in cui si consuma. Il buon cibo è diventato interesse di molti e, probabilmente, prima di questi ultimi anni, tra le cose più fotografate e celebrate. Il bisogno di condividere, l’essere tornati a dare questo valore simbolico al cibo, probabilmente ha stimolato la diffusione e la ricerca di questo tipo di fruizione. Ecco che case private diventano Home Restaurant, luoghi in cui consumare informalmente del cibo preparato dai proprietari, in compagnia di persone sconosciute, oppure con gli stessi “homer”. La logica è quella di condividere le


febbraio 2016 spese, consumando cibo preparato ad hoc, in compagnia e in totale condivisione e conoscenza reciproca. Il metodo è molto simile a quello di un’informale cena con amici, compresa la caratteristica di occasionalità dell’attività. Ma dal momento che l’home restaurant si rivolge a persone spesso non conosciute, non sono ben chiari e compresi quali possano essere i limiti di questa attività, per evitare di concorrere in maniera sleale a quelle attività di somministrazione, in primis i ristoranti, spesso schiacciati tra burocrazia, normative da rispettare e fisco. L’home restaurant manca completamente di regolamento anche per quel che riguarda la sicurezza alimentare, dal momento che non sono semplici cene tra amici, ma vi è la chiara possibilità di creare dei veri e propri micro business.

A Chiuduno l’iniziativa di tre amici «Per noi è divertimento e condivisione» Anche in Bergamasca si possono trovare diverse occasioni per una cena in casa. A Chiuduno, da un piccolo gruppo di amici è nato WelcHome Restaurant (welchomerestaurant.wordpress.com), che non manca di considerare i problemi che questo buco legislativo crea a tutti coloro che volessero intraprendere questa attività, ma anche a chi svolge la tradizionale attività ristorativa. «Io - dice Giancarlo, uno dei tre fondatori – ho tentato più volte di capire come praticare questa attività, ho cercato di informarmi, ma ovviamente le istituzioni non mi sanno dare delle risposte perché in effetti delle risposte non ci sono». L’home restaurant è una pratica che per la legislazione italiana non esiste, nonostante ormai da tempo si sia diffusa e stia diventando sempre più popolare. «Sono molti quelli che mi contattano chiedendo come si fa – racconta ancora Giancarlo – questo vuol dire che c’è interesse a riguardo». Per i tre ragazzi di Chiuduno questa è una grande passione che non fa pensare ad alcuna intenzione di fare business eludendo la normativa. Infatti organizzano,

quando riescono, al massimo una cena al mese e tutto è pubblicizzato sul loro sito web e sulla loro pagina Facebook. Giancarlo, Barbara e Daniele hanno altre occupazioni: commerciante il primo, educatrice all’asilo nido la seconda e operaio il terzo. «Ci conosciamo da alcuni anni – racconta Barbara – e abbiamo sempre fatto delle cene con gli amici, siamo un numeroso gruppo. Come in tutti i gruppi, noi tre eravamo quelli appassionati di cibo e cucina e…è andata a finire che cucinavamo sempre noi». Ma anche la location non è banale, «io abito qui e questo spazio l’ho sempre messo a disposizione dei miei amici - spiega ancora Giancarlo -. I cuochi c’erano, lo spazio anche, ecco che amici, amici di amici, hanno iniziato a chiederci di organizzare delle cene, proponendocele anche loro stessi: dal compleanno da festeggiare tra amici a quello con i parenti, alle cene a tema per passare una serata in compagnia, etc. e il gioco è fatto. Barbara aveva sentito parlare di questa nuova cosa, gli home restaurant e quindi perché non provarci? Noi organizziamo anche una festa in paese e ci piace, appunto, darci da fare: goliardicamente abbiamo iniziato a pensare ad alcune proposte e siamo entrati a far parte di alcune piattaforme di social eating». Da qui la ricerca delle materie prime a km zero, quasi tutti gli ingredienti principali (nei limiti del possibile) utilizzati sono prodotti a Chiuduno e dintorni. «Il tutto è più uno sfizio nostro – racconta ancora Barbara –, gli amici ci facevano i complimenti e, attraverso la condivisione con estranei, ci siamo messi alla prova. Ovviamente i menù e le cene rispecchiano molto i nostri gusti: cuciniamo quello che ci piace, dal filetto di maiale in crosta di pancetta con i profumi, alle pere caramellate al miele, fino alle tagliatelle al cacao fatte in casa». «È una vera esperienza sociale – conclude Giancarlo –, per noi divertimento e condivisione. Non è un ristorante e non deve esserlo. A noi piacerebbe che questa pratica venisse considerata, riconosciuta e di conseguenza normata e tutelata». Dalla sua definizione e regolamentazione probabilmente inizia la tutela stessa anche di questa pratica che, non avendo definizione, potrebbe essere facilmente attaccata nonché snaturata per fini diversi da quelli per cui è nata.

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IL FENOMENO

La Fipe: «Attività fuori da ogni controllo, un’escalation da contrastare» Chi non vede di buon occhio gli home restaurant sono i ristoratori e le associazioni di categoria che, per tutelare le attività, chiedono a gran voce che si legiferi in merito. La Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi, lo scorso 19 gennaio ha presentato in Parlamento un’audizione chiedendo così la regolamentazione degli home restaurant. L’associazione denuncia «l’enorme diffusione, anche attraverso canali on line e social network» di queste attività e il rischio di costruire un canale alternativo a quello della ristorazione, ma completamente fuori controllo. L’allarme è per la possibilità che l’abusivismo finisca col prevalere sull’attività occasionale e saltuaria, generando così dei meccanismi di concorrenza sleale. «Infatti, si è notato – riferisce l’associazione - che mentre nel passato esistevano pochi operatori che effettuavano tale attività nell’ambito della cerchia delle proprie conoscenze, ora l’abusivismo si è “ingegnerizzato” con la nascita di associazioni o enti similari che raggruppano tali operatori». Non solo, l’attività di somministrazione delle bevande è soggetta a numerosi e complessi adempimenti, a tutela della salute pubblica, ma anche ad esempio per il controllo rispetto alla somministrazione di bevande alcoliche. Per questo motivo, ad ora, la Fipe chiede che le autorità contrastino gli home restaurant, dal momento che in molti casi sono diventate delle vere e proprie attività, completamente fuori controllo. In realtà, il Ministero dello Sviluppo Economico ha fornito una parziale risposta all’assenza di regolamenti, con la risoluzione n. 50481 del 2015, affermando che la disciplina commerciale applicabile agli home restaurant è quelle relativa alle attività di somministrazione di alimenti e bevande al pubblico sia per quanto riguarda il possesso dei requisiti necessari (morali e professionali) sia per l’obbligo di presentazione di una Scia per l’inizio dell’attività, ma nulla di più.

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Senza dimenticare la tutela dei consumatori... Per concludere, entrambe le parti ritengono fondamentale un regolamento. È necessario al fine di tutelare innanzitutto il consumatore per quanto riguarda la sicurezza alimentare, dal momento che le tossinfezioni alimentari sono di natura prevalentemente domestica. Inoltre risulta necessario al fine di tutelare le attività ristorative, sottoposte a rigidi controlli e norme severe, onere che ha un peso economico e non solo. Infine, una precisa regolamentazione risulta necessaria per tutelare anche chi si dedica con passione e dedizione a questa attività occasionale, avendo come fine ultimo il creare una vera esperienza sociale e conviviale, in cerchie più o meno ristrette, con una vera condivisione di esperienze, tempo e spese, senza che diventi un business, rimanendo così un’attività profondamente diversa da quella ristorativa. Probabilmente qualsiasi divieto potrebbe stimolare la diffusione segreta degli home restaurant, completamente fuori controllo, con la minaccia di seri rischi in materia di sicurezza alimentare pubblica, nonché di concorrenza sleale a chi, giorno dopo giorno, si adopera per il rispetto delle normative in materia fiscale e di sicurezza alimentare.


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Pubblici esercizi e home restaurant, obblighi a confronto Poiché propone un servizio di somministrazione nei confronti di un pubblico, l’home restaurant, secondo la Fipe, non può essere esercitato in luoghi privati e dovrebbe essere sottoposto ai medesimi obblighi dei pubblici esercizi. Per dare un’idea delle norme di legge e dei requisiti a cui è assoggettata la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, soprattutto alcoliche, la Federazione ha stilato un elenco, che diventa, di conseguenza, quello delle violazioni imputate agli home restaurant. La serie conta 22 voci, ma non esaurisce, precisa la Fipe, l’intera gamma delle prescrizioni: somministrazione di cibi e bevande anche alcoliche senza autorizzazione; comunicazione al Questore, in caso di circoli; licenza Utf per prodotti alcolici; mancato accertamento della sorvegliabilità dei locali (di competenza della autorità di Pubblica Sicurezza per quelli posti a livello superiore a quello stradale); violazione delle disposizioni urbanistiche e sulla destinazione di uso degli edifici; assenza di certificazione dei requisiti professionali e morali del titolare; somministrazione di alimenti e bevande senza comunicazione alla autorità sanitaria; assenza piano Haccp; certificazione formazione dipendenti in materia igienico sanitaria; nomina responsabile Haccp ed attestato del relativo corso; inidoneità sanitaria attrezzature; formazione sanitaria addetti; iscrizione Cciaa; iscrizione Inps titolare; eventuale presenza lavoratori in nero; rispetto del divieto di fumare; tabelle alcolemiche in caso di chiusura dopo le ore 24; etilometro a disposizione dei clienti in caso di chiusura dopo le ore 24; indicazione allergeni presenti nei prodotti somministrati; abbonamento speciale Rai per tv o altro apparecchio diffusione musica; versamenti diritti di autore e connessi Siae ed Scf; tracciabilità e rintracciabilità alimenti; sicurezza sul lavoro; corresponsione tassa sui rifiuti a livello di privato e non di pubblico esercizio.

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NEWS

Albino, il Moroni ispira anche la tavola La rassegna dedicata al pittore fa spazio a iniziative golose, come la cena rinascimentale, il concorso per il dolce ufficiale e la birra “del Sarto”

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è anche uno spazio dedicato al cibo nella rassegna “Io sono Giovan Battista Moroni. Albino e il suo pittore. Una storia da raccontare”, promossa sino a fine aprile dall’Associazione culturale “Percorsi albinesi”, in occasione del ritorno a Bergamo, dopo oltre 150 anni, del “Sarto”, l’opera più conosciuta al mondo del pittore albinese. L’iniziativa è realizzata nel territorio del Distretto del commercio “Insieme sul Serio” in collaborazione con l’Associazione Storica Città di Albino sotto l’egida del Comune di Albino “Città del Moroni”. In programma, oltre a visite guidate ai luoghi moroniani e laboratori artistici, ci sono diverse occasioni per stuzzicare il gusto: sabato 23 aprile dalle ore 18 nella cornice del Convento della Ripa a Desenzano di Albino, è previsto “A tavola con il Moroni’” cena rinascimentale a lume di candela con

figuranti in costume d’epoca e spettacolo teatrale. In tavola verranno serviti i prodotti del Mercato Agricolo locale, cucinati secondo ricette di una volta. La manifestazione propone anche un concorso, in collaborazione con Aspan, aperto a tutti per la creazione di un dolce originale che rappresenti la città di Albino nel mondo. La ricetta del “Dolce del Moroni” dovrà avere come ingredienti i prodotti tipici del territorio e verrà premiata da una giuria nel corso della cena rinascimentale. Il dolce non sarà l’unico prodotto creato in omaggio al pittore e legato alla rassegna. Il microbirrificio Dom Byron di Clusone, aperto nel 2014 dall’albinese Marco Birolini, ha realizzato un’edizione speciale con etichetta la birra “del Sarto” della sua Icarus, stile Golden Ale dai sentori agrumati, prodotta con un ingrediente fondamentale come l’acqua di Clusone e con l’utilizzo

L’ etichetta della birra “del Sarto” su disegno di Damiano Nembrini di 6 tipologie di malto e 4 di luppolo in processo artigianale tutto made in Val Seriana. E la Pizzeria Fantasy ha ideato la coloratissima “Pizza del Moroni”. www.percorsialbinesi.it

DAL 6 ALL’8 MARZO

Identità Milano, grandi chef a confronto sulla libertà creativa

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intensificare gli scambi culturali e tecnici arà “La forza della libertà” il tema che avvengono nelle cucine e nelle sale della dodicesima edizione di Identiristorante di tutto il mondo». A raccontatà Milano, il congresso internazionale di cucina, in programma dal 6 all’8 marzo re la loro libertà di espressione saranno al MiCo - Milano Congressi, in via Gattacome sempre grandi chef italiani e stramelata - Gate 14, a Milano. nieri, come Davide Scabin, Enrico Crippa, «In questa edizione – spiega Paolo Massimiliano Alajmo, Ricard Camarena, Marchi, ideatore e curatore dell’evenCarlos Garcia, Josean Alija, Matias PerIl piatto di Cristina Bowerman to - portiamo al centro dell’attenzione domo e molti altri. La manifestazione è l’immagine di quest’anno dell’opinione pubblica, e di chi ci ammifarà spazio anche alla prima edizione di Identità di Gelato e di Identità di Fornistra e governa, la voglia di conoscenza e curiosità che animava ogni visitatore di Expo 2015, maggio oltre che alle novità di Identità Naturali. Debutto aprendo una riflessione a 360° sul valore della libera creanche per Identità di Champagne con due speciali appunatività e della libera convivialità, messe così a dura protamenti dedicati all’abbinamento dello champagne con le creazioni dei grandi chef. va dalle tensioni che attraversano il mondo. Regolare i www.identitagolose.it consumi non vuole dire non sedersi più a tavola, ma anzi

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“Villa Patrizia”, protagonisti i vini rossi dal mondo

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l nuovo mondo enologico è una realtà con grandi potenzialità. È il chiaro concetto emerso dal primo incontrodegustazione dell’anno “Vini rossi dal mondo”, organizzato dalla delegazione di Bergamo dell’Associazione Italiana Sommelier. L’evento si è tenuto a Villa Patrizia, il ristorante gestito da un sommelier “storico” come Antonio Lecchi. Introdotto dalla delegata provinciale dell’Ais, Roberta Agnelli, Guido Invernizzi, docente Ais - alle spalle numerosi viaggi nel mondo per visitare i territori vinicoli - ha presentato i nuovi vini, le loro sensazioni olfattive e gustative. Le produzioni servite sono state spiegate con il supporto video per far meglio comprendere anche il contesto geografico visto Antonio Lecchi e Roberta Agnelli

che le 6 cantine selezionate sono sparse in mezzo mondo. La degustazione ha confermato la qualità, anche a prezzi interessanti, di molte di queste nuove realtà, oltre alla tipicità unica di alcuni vitigni. Abbinati ai piatti preparati dalla brigata di Villa Patrizia, sono stati serviti: Malbec Norton Barrel (Argentina), Karasi Areni (Armenia), Jura “L’ami Karl” Domaine de la Pinte (Francia), Syrah Sula (India), St. Clair Pinot noir (Nuova Zelanda) e Diemersfontein Pinotage (Sudafrica).

IL CASO DELLA “CAMPAGNOLA” DI LOVERE

Il video della goliardata finisce in rete. E il ristorante perde i clienti

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apita che in una notte in cui si è un po’ alzato il gomito, dopo che gli ospiti se ne sono andati, in cucina ci si lasci andare a una goliardata. Per fare il simpatico, per ottenere l’attenzione e le risa degli amici. Capita di fidarsi di una persona, che un amico evidentemente non è, che registra tutto con il cellulare. Capita che il giorno dopo il filmato “compromettente” venga postato in rete e si diffonda nei social network: lo vedono amici, clienti e il passaparola (ma forse in questo caso è più corretto parlare di passavideo) diventa virale. Il ristorante, frequentatissimo, comincia a perdere clienti. È quanto è successo alla “Campagnola” di Lovere. Per vent’anni è stato “il ristorante” dell’Alto Sebino e della Valcamonica. Ci hanno cenato tutti: operai, coppie, compagnie di amici, ragazzini e anziani. A pranzo e a cena il locale era sempre pieno. Piaceva a tutti, per la cucina sempli-

ce e di qualità, ma soprattutto per la simpatia del titolare. Angelo Bozzetti è un ristoratore esuberante, vulcanico, talvolta esagera. Se sei suo amico o anche solo compaesano lo sconto è assicurato, e di questa generosità qualcuno ne ha anche approfittato. Scrive su Facebook Giovanni, suo amico: «Angelo è brillante, ma soprattutto ci mette il cuore. Ogni tanto magari nell’euforia dei suoi show ha esagerato un po’, ma le risate da piangere se le sono fatte tutti. Ricordo episodi degni del miglior teatro comico. Una cliente inglese voleva il formaggio coi buchi, lui l’aveva finito e gli ha trapanato davanti, con tanto di trapano e prolunga, un pezzo di Parmigiano Reggiano. Oppure i famosi bicchierini di vodka che incendiava e si attaccava sul petto, sulla faccia e sulle gambe, per far divertire o semplicemente perché in quel momento gli andava così. E ancora

le cantate a squarciagola con spogliarello finale. Ne potrei raccontare a milioni di serate goliardiche. Mi rendo conto - continua Giovanni - che ha fatto una cazzata, ma quante ne abbiamo fatte noi e voi nella vita? Quello che vi chiedo è di passare a trovarlo, mangiarvi qualcosa e farvi una serata diversa. Il posto è bello, la cucina dello chef Natale è ottima e soprattutto il clima è diverso dai soliti ristoranti: “Buona sera, volete ordinare?” Se ci siete già stati in passato tornateci, se non ci siete mai stati andateci per favore. Giuro che non ve ne pentirete...». Noi non abbiamo voluto vedere il video. Ma ci uniamo all’invito di Giovanni, perché un errore lo possono commettere tutti, perché crediamo che tanti anni di impegno, di lavoro e di successi non possano essere cancellati da una bravata, anche se di cattivo gusto, e perché la privacy è un diritto involabile.

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TRADIZIONI di Leonardo Bloch

Catone e il mistero dello zampone La storia del celeberrimo insaccato andrebbe riscritta, spostandone più a settentrione la località di origine e ben più indietro nel tempo la data di nascita

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Varrone, da cui si traggono sorprendenti ridispetto dell’aura di austerità da cui è avvolta, la figura di Marco Porcio Catone velazioni sui primordi della norcineria lom- ai più noto sotto l’epiteto di Censore - è barda. In esso Catone celebra la succututt’altro che immune da quelle che, a dilenza delle conserve in salagione dell’Instanza di ventidue secoli, appaiono come subria - distretto che all’epoca copriva la ilari eccentricità. V’è ad esempio da preporzione centro-occidentale della nostra sumere che i braccianti del suo podere in regione con inclusione del circondario di Sabinia dovessero essere piuttosto restii a Bergamo - riferendo che dalle lande tra Tilamentare un attacco di emicrania. Nell’incino ed Oglio ogni anno venivano esportati disponibilità degli odierni cialdini, i malcaverso la Città Eterna salumi in numero di Marco Porcio Catone pitati si sarebbero infatti visti applicare tre/quattromila unità. Più che di un com(il censore) sulla fronte bendaggi imbevuti delle minmercio di generi di prima sussistenza, si zioni di un collega reduce da una scorpacciata di cavoli. doveva trattare di un vero e proprio archeomercato delle Non sorprende che al singolare rimedio, raccomandato delikatessen: l’allevamento del maiale era infatti diffuso dall’arcigno questore nel De agricultura, la moderna faranche nell’agro romano, e lo stesso Censore, tra le ricette macopea non riconosca alcuna proprietà lenitiva. Dalle del De agri cultura, forniva istruzioni su come conciare un pagine dell’antico trattato pare inoltre trasparire che lo prosciutto. È dunque assai plausibile che a Roma gli instatista - in politica sordo propugnatore della necessità di saccati provenienti dal settentrione si facessero preferire radere al suolo Cartagine - dalle cucine strizzasse invece a quelli prodotti localmente principalmente in virtù del loro l’occhio agli acerrimi nemici d’oltremare. Nell’opera sono più elevato profilo qualitativo. infatti riportate, non senza una punta di malcelata ammirazione, le indicazioni per preparare una polentina punica a base di semola di farro, formaggio fresco e miele. Se v’è una breccia nella corazza di severità dietro cui si trincerava il draconiano amministratore, questa è appunto rappresentata dalla sottaciuta passione per cibo e gastronomia. Ancorché firmatario della Lex Orchia, promulgata per porre freno agli eccessi di sibaritismo nei banchetti della Roma repubblicana, Catone non perdeva occasione per smettere la toga da senatore piazzandosi ai fornelli. Più che quelle di un breviario di agronomia, il suo De agricultura ha difatti le sembianze di un ricettario di cucina, prodigo di dettagli che svelano una perizia tecnica sorprendente per un dilettante. Diverse tra le pietanze più care al Censore sono peraltro sopravvissute pressoché inalterate sino ai nostri giorni: valga il caso della scriblita, una rustica focaccia sfogliata farcita di cacio, che nei Balcani e nel vicino oriente è ancor oggi assai diffusa sotto la denominazione di borék. O quello dei globi - frittelle di formaggio da intingersi nel miele - in cui non è arduo intravedere i progenitori delle celebri seadas sarde. Tra le annotazioni gastronomiche dello statista spicca un frammento, riportato nel De re rustica di Marco Terenzio


febbraio 2016 È ancora Varrone a fornire maggiori dettagli circa la morfologia delle salagioni anticamente elaborate dalle nostre parti: l’illustre filologo fa infatti menzione di pernae tomacinae, taniacae et petasiones. La decifrazione dell’inciso pone ben più di una complicazione, anche a motivo delle corruzioni subite dal testo nei secolari passaggi di mano tra copisti non sempre meticolosi. Non v’è anzitutto dubbio che alla voce petasiones corrisponda la nozione di prosciutto. Di più ardua identificazione sono le taniacae, cui alternativamente potrebbe venire associato il filetto stagionato o quelle che nel Lazio sono oggi conosciute come coppiette. Ma il vero rompicapo è rappresentato dalle pernae tomacinae. C’è chi tra i due vocaboli interpone una virgola, glossando come prosciutti e mortadelle. Ma di prosciutti Varrone fa già menzione nel medesimo passaggio, e si tratterebbe di un doppione piuttosto improbabile per una penna tanto minuziosa. C’è chi, come il prof. Paolo Braconi dell’Università di Perugia, vi vuole leggere pernae comacinae, ovverosia “prosciutti alla maniera di Como”. In realtà l’autorevole voce di Plinio il Vecchio, nato per giunta in riva al Lario, obietterebbe che anticamente la Comacina era una colonia dei Volsci Tectosagi nella Gallia Narbonense, e non certo un distretto dell’Insubria. L’interpretazione più suggestiva è fornita da Filippo Re, indiscusso primattore su base nazionale delle discipline agronomiche a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Questi, considerando che il termine tomacina o tomaculum designava una composta di carni suine al cui interno il fegato dell’animale aveva un ruolo preponderante, azzarda che l’arcaico salume potesse essere un lontano progenitore nientemeno che dello zampone. Leggenda vuole che quest’ultimo sia stato ideato nel 1511 nel centro emiliano di Mirandola, in quei giorni cinto d’assedio dalle truppe del papa-guerriero Giulio II. Se l’eminente botanico reggiano avesse ragione, la storia del celeberrimo insaccato andrebbe dunque riscritta, spostandone più a settentrione la località di origine - e ben più indietro nel tempo la data di nascita. Forzare una conclusione definitiva sarebbe decisamente inavveduto. Non sfugge comunque che la tomacina di cui parlano Catone e Varrone abbia lasciato tracce chiaramente distinguibili nella norcineria della discendenza degli antichi Insubri, dei quali gli Oròbi, fondatori di Bergamo, rappresentavano uno dei principali sottogruppi. È infatti indiscutibile che, se non già lo zampone, quantomeno la mortadella di fegato sia ancor oggi una presenza fissa tra i salumi del territorio che dalle valli ossolane si spinge sino alla sponda occidentale dell’Oglio.

Il punto della Fipe

Bambini al ristorante, «il divieto è legittimo»

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ultimo in ordine di tempo a salire alla ribalta della cronaca è stato un ristoratore romano – titolare de “La Fraschetta del Pesce” in zona Casalbertone – che con un eloquente cartello all’entrata dichiara: «A causa di episodi spiacevoli dovuti alla mancanza di educazione, in questo locale non è gradita la presenza di bambini minori di 5 anni, nonché l’ingresso di passeggini e/o seggioloni per motivi di spazio». Il tema dei bambini al ristorante e delle limitazioni al loro accesso si ripresenta ciclicamente (qualche anno fa, ad esempio, la discussione era partita per il divieto ai pargoli dopo le 21 di una pizzeria nel bresciano) e così la Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi del sistema Confcommercio, ha colto l’occasione per fare il punto sulla possibilità di un titolare di pubblico esercizio di selezionare la clientela. La fonte normativa è nell’articolo 187 del regolamento di esecuzione del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, che risale al 1940 e che recita: «Salvo quanto dispongono gli articoli 689 e 691 del codice penale (divieto di servire alcoolici a minori ed ubriachi), gli esercenti non possono, senza legittimo motivo, rifiutare le prestazioni a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo». «Per fornire una interpretazione esatta occorre identificare i legittimi motivi che possono consentire ad un esercente di rifiutare la prestazione – spiega la Federazione -. Sicuramente non possono essere addotte motivazioni di carattere sessuale, politico, religioso e razziale, in quanto in contrasto con disposizioni di ordine pubblico. Ciò premesso, si deve ritenere come, in assenza di una specifica giurisprudenza, eventuali limitazioni (ad esempio sul modo di vestire) debbano essere, in ogni caso, oggettive e predeterminate e portate preventivamente a conoscenza della clientela». Sono pertanto ritenute legittime prescrizioni concernenti l’abbigliamento (richiesta di giacca e cravatta, ad esempio) o l’obbligo di prenotazione del tavolo. Per quanto riguarda l’accesso di minori (ferme restando le limitazioni connesse ad una eventuale attività in contrasto con la loro presenza ed imposte per legge o per atto della Pubblica Amministrazione, come topless bar, lap dance), la Federazione ritiene «legittimo l’operato di chi nel proprio locale limita l’accesso di bambini che si possono, con tutte le probabilità, rivelare fastidiosi ed indisponenti per il resto della clientela anch’essa meritevole di tutela, sulla base dell’assioma per il quale il proprio diritto finisce dove inizia quello dell’altro». «Obiettivamente esistono, inoltre, motivazioni connesse alla sicurezza degli stessi bambini che consigliano di evitarne la presenza in locali dove vi sono apparecchiature o altre occasioni di pericolo che sfuggono alla sorveglianza dei genitori».

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IL PREZZO FISSO di Fulvio Facci

Angelica Cukon con il marito Lin ha aperto in via Palazzolo un take away di piatti cinesi e giapponesi. «Cerchiamo di attenerci alle ricette originali, ma alcuni gusti li abbiano dovuti adattare ai palati italiani» Take away Asian Mix via Palazzolo, 40/42 Bergamo tel. 035 0279274 chiuso la domenica

Lin Haijin e Angelica Cukon

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La mediatrice culturale che fa scoprire il gusto dell’Asia n un momento in cui l’imprenditoria cinese nel settore della ristorazione sta occupando sempre più spazio anche nella nostra provincia con abbinamenti di cucine sempre più fantasiosi (si passa dalla cinese alla giapponese per giungere all’italiana e alla brasiliana), è abbastanza singolare, almeno così riteniamo, incontrare una giovane bergamasca che si è data alla ristorazione cinese e giapponese, con forti presenze di piatti vegetariani e vegani in linea con la tendenza attuale. Il cognome Cukon ne tradisce l’origine straniera ma lei, Angelica, figlia di genitori croati, è nata a Seriate 29 anni or sono. Laureata in lingue orientali, con particolare riferimento a quella cinese, oltre a continuare a svolgere l’attività di mediatrice culturale in alcune scuole della nostra provincia, dal novembre del 2014 ha aperto con il marito il take away Asian Mix in città, in via Palazzolo 40/42. «Ho viaggiato a lungo per studio e lavoro tra l’Italia e la Cina ed ho frequentato molto i ristoranti cinesi e così mi è nata questa passione per la cucina cinese che non può comunque intendersi come un unico stile di preparare il cibo – racconta -. In effetti in Cina, come del resto avviene anche in Italia con le nostre cucine regionali, ci sono delle differenze anche sostanziali a seconda della collocazione geografica. A Bergamo ho incontrato quello che sarebbe poi diventato mio marito, Lin Haijin (38 anni ndr.), che aveva alle spalle una notevole esperienza come cuoco sia in Italia sia all’estero, ed è nato il nostro progetto».

Asian Mix funziona come un take away ma offre allo stesso tempo la possibilità di consumare sul posto i piatti scelti: si ordina, le posate e gli accessori per la tavola sono a disposizione su un bancone, ci sono i distributori di bevande e le portate arrivano in tavola nella sobria saletta adiacente che può ospitare 22 coperti. Naturalmente c’è anche il servizio di consegna a domicilio. «Cercavamo un locale in centro – prosegue Angelica – ed abbiamo trovato questo che ci è piaciuto ma era troppo grande per il solo asporto e troppo piccolo per il ristorante. Abbiamo quindi escogitato questa via di mezzo e la soluzione funziona. C’è chi prenota per


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LA PROVA

telefono e poi passa a ritirare il cibo in modo di non fare code e c’è invece chi preferisce accomodarsi in saletta. Per la sosta di mezzogiorno portiamo diversi piatti negli uffici vicini. La nostra clientela? Oltre al personale degli uffici abbiamo imprenditori, studenti, artisti, attori, Giorgio Pasotti ad esempio è un nostro affezionato cliente. Spesso alla sera abbiamo anche sportivi, soprattutto di arti marziali, che cenano dopo aver concluso gli allenamenti. Facciamo anche serate a tema ed eventi con associazioni di vegetariani e vegani» Per quanto riguarda la cucina, «cerchiamo di attenerci il più possibile all’originale – spiega - anche se certi piatti abbiamo dovuto adattarli per forza al palato degli italiani. Abbiamo scelto quelle che ci sembravano le proposte migliori nel gran panorama delle diverse cucine territoriali cinesi cercando di salvaguardare al massimo la tradizione. Con mio marito abbiamo recuperato anche delle ricette cinesi con dei sapori particolari». Le portate sulla carta, che è anche il volantino pubblicitario del locale, sono in totale 174, delle quali 32 possono essere richieste in versione vegetariana o vegana. Zuppe, antipasti, riso e spaghetti, pollo, manzo, maiale, anatra, gamberi e frutti di mare, tofu, verdure e contorni sono proposti in vari sapori nel menù cinese, mentre il menù giapponese conta una decina di piatti particolari di questa cucina oltre alle più conosciute combinazioni di sushi, sashimi e tempura.

La struttura del menù fisso di mezzogiorno all’Asian Mix è abbastanza particolare. A seconda del prezzo, si può scegliere un piatto o abbinarne due dei 95 della carta della cucina cinese con l’esclusione di alcune portate più costose. Si parte dal costo minimo di 6 euro per un secondo a scelta accompagnato da riso bianco. Con 8 euro si possono avere un primo e un secondo di carne o verdura mentre con 9 euro non ci sono limiti sul costo dei piatti e quindi, sia per il primo sia per il secondo, la scelta è estesa alle portate con frutti di mare o anatra. È compresa l’acqua minerale. Per le proposte della cucina giapponese, in particolare per sushi e tempura, il prezzo è di 10 euro bevande escluse. Abbiamo scelto gli spaghetti di soia ai frutti di mare ed il pollo al curry. Poiché apprezziamo questo tipo di cucina possiamo ritenere il rapporto qualità-prezzo molto buono.

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FACECOOK

alla scoperta dei social chef

di Laura Ceresoli

Originario di Leffe, è stato scelto dal presidente degli esercenti per il suo nuovo locale in riva al Lago di Lugano, il ristorante della Torre a Morcote

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Salvatore Sanfilippo

Salvatore, 25 anni e una missione: prendere per la gola il Canton Ticino

a bambino, quando andava a fare la spesa con i suoi genitori, Salvatore Sanfilippo non faceva i capricci. Non piangeva né si dimenava per la noia, come erano soliti fare i piccoli della sua età. Arrivato alla cassa del supermercato, si divertiva piuttosto a passare il tempo spiando nel carrello delle persone in coda, provando a

immaginare che cosa avrebbero potuto cucinare con gli ingredienti che stavano per acquistare. La passione per il cibo, insomma, ha sempre fatto parte della sua vita. Al punto che oggi è riuscito a convertire il suo estro creativo culinario in un vero e proprio lavoro. Nonostante la giovane età, questo 25enne originario

L’INTERVISTA

«Anche in Svizzera ci sono prodotti validissimi, che mi fanno rimpiangere un po’ meno l’Italia» Come nasce la sua passione per la cucina? «È nata quando ero molto piccolo. Io sono di origini siciliane, quindi in casa mia c’è sempre stata un’attenzione particolare per il cibo. Devo dire grazie soprattutto a mia madre, maestra di scuola materna, se oggi faccio il lavoro più bello del mondo. Non c’era cosa più bella, durante le domeniche d’agosto, che svegliarsi la mattina col profumo della conserva di pomodoro pronta per essere imbottigliata. Di qui la decisone di iscrivermi alla scuola alberghiera di Nembro. Dopo il diploma, in attesa di una sistemazione, mi ritrovai a lavorare alla casa di riposo del mio paese. Ad accogliermi alla “Casa Serena” c’erano due

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cuochi formatisi niente poco di meno che nel ristorante tre stelle Michelin “Da Vittorio”». È così che ha iniziato a farsi le ossa? «Per assurdo sì, anche se inizialmente non è stata una passeggiata. Tra una minestra e l’altra, mi hanno fatto capire quanti sacrifici comporta questo mestiere. Con impegno e lavorando sodo, piano piano sono riuscito a inserirmi in realtà ristorative di alto livello. Ricordo soprattutto “Al Vigneto” di Capriate, “Il Pianone” di Città alta, “Da Vittorio” a Brusaporto, “Cracco” a Milano, nonché numerosi alberghi 5 stelle lusso del milanese». Come è arrivato fino in Svizzera? «A ottobre 2013 ho deciso di sta-

bilirmi definitivamente nel Canton Ticino. Non passarono nemmeno sei mesi che un giorno arrivò la chiamata di Massimo Suter, attuale presidente di Gastroticino e membro del consiglio di Gastrosuisse, che mi chiese se me la fossi sentita di intraprendere la mia prima avventura da chef nel suo nuovo ristorante a Morcote». Un bilancio di questi primi due anni alla Torre? «Sono molti i politici, i giornalisti e le associazioni gastronomiche per cui ho cucinato. Per citarne alcune: il Gambero Rosso che ci scelse come ristorante dopo un viaggio per scoprire le tradizioni ticinesi; il club “Prospere Montagne”, storica associazione gastronomica Svizzera; l’Accademia della cu-


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di Leffe vanta già numerose esperienze in alcune delle cucine più rinomate della Lombardia tra le quali il tristellato Da Vittorio a Brusaporto. E da quasi due anni è lo chef di punta del Bistrot della Torre di Morcote, un affascinante locale tipicamente svizzero con terrazza sul lungolago di Lugano dove si possono bere caffè o distillati e gustare alcune specialità tratte da una carta selezionata di ottimi cibi, dalle L’incontro con Gualtiero Marchesi moules frites alla busecca, dal risotto ai porcini alla entrecôte di Fassona. È stato Massimo Suter, presidente di Gastroticino nonché il più importante personaggio a livello gastronomico del cantone e non, a volerlo come chef nel suo nuovo locale. La cucina internazionale e creativa di Sanfilippo è improntata alla qualità e alla stagionalità dei prodotti e alla valorizzazione del meglio del patrimonio agroalimentare ticinese. E i commenti positivi su Tripadvisor lo confermano: «Ristorante gestito con esperienza e professionalità – scrive Pietro F –. Lo chef cucina molto bene anche nei momenti di stress

cina italiana, venuta a farci visita dopo un’escursione sul lago di Lugano. Ho inoltre partecipato alla terza edizione del festival del risotto di Locarno e, nonostante fossi il più giovane concorrente in gara, mi sono classificato al quarto posto su 17». Il momento più bello della sua vita lavorativa? «Quando sono stato selezionato per far da spalla al resident chef di “Palazzo Parigi” nell’evento “Le Soste”. In quella meravigliosa sera ho avuto la possibilità di conoscere in un colpo solo i top chef della cucina Italiana, tra i quali Davide Scabin, Enrico Bartolini, la Famiglia Santini, Pietro Leemann, Moreno Cedroni, Massimo Bottura e niente di meno che il maestro Gualtiero Marchesi». Cosa ne pensa del proliferare continuo di programmi televisivi che parlano di cucina? «Ormai, per colpa dei programmi culinari, la gente crede che il mestiere del cuoco sia quello che si vede in tv. Molti

(quando mi sono recato al ristorante c’era un matrimonio e tutti i tavoli erano pieni). Tutto buono, dall’aperitivo al dolce». Soddisfatto anche Elleavva di Lugano: «Ottima e ben servita, il piacere di assaporare una sella ben cucinata completa di contorni classici in un ambiente curato in riva al lago con personale preparato ed educato». A dirigere la sala della Torre ci sono Monica Suter, moglie di Massimo, e Christian Clementi. Il ristorante ha sede in un’antica casa sul lungolago di Morcote, proprio accanto alla Torre del Capitano da cui deriva il nome. Il legno del soffitto e i colori pastello delle pareti rendono accogliente l’ampio salone dove c’è spazio anche per banchetti.

pensano che per fare un piatto basti poco meno di un’ora e se quest’ultimo non soddisfa il palato del giudice questo sia autorizzato a prenderlo e lanciarlo per aria. Invece no. Vorrei che la gente capisse quello che c’è veramente dietro a un piatto: studio, ricerca, passione, sacrifici, innumerevoli tentativi, anni di esperienza. Ecco la risposta a tutti quelli che si domandano come mai certi piatti costano tanto. Nel prezzo è compreso anche tutto questo». Riesce a proporre qualche specialità bergamasca ai ticinesi? «Sì, anche perché le tradizioni non sono tanto distanti. Ad esempio qui va molto la selvaggina, nel periodo tra ottobre e dicembre è un pilastro della nostra carta. Preparo sella di capriolo, stufati e salmì di cervo e cinghiale, cucinati sottovuoto a bassa temperatura, accompagnati dall’immancabile polenta. E poi il pesce di lago come persico, coregone, lucioperca e trota. I risotti sono apprezzatissimi soprattutto dalla clientela tedesca che spesso li

richiede come contorno dei piatti forti. Anche la rassegna della “Cazzoeula” che si è tenuta nei giorni della merla ha riscosso un grande successo». È importante Internet per farsi pubblicità? «In questo lavoro, a mio avviso, la miglior pubblicità è il passaparola! Ma in un paesino di poco più di 800 anime come Morcote, che ha per lo più un’affluenza turistica e dove sono presenti ben 13 ristoranti, TripAdvisor, Facebook e qualsiasi altro mezzo di comunicazione giocano un ruolo fondamentale per la nostra attività. Abbiamo infatti un sito e una pagina Facebook sempre aggiornata». Tornerebbe a lavorare Bergamo? «A due anni di distanza posso dire che lavorare all’estero ha il suo perché. Certo, la materia prima italiana è famosa in tutto il mondo e tutti ce la invidiano ma devo ammettere che anche qui in Svizzera ci sono prodotti validissimi che mi fanno rimpiangere un po’ meno il fatto di essere lontano da casa».

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LE AZIENDE INFORMANO

Orobica Pesca, il valore della formazione

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uando si parla di pesce di prima qualità a Bergamo è inevitabile rivolgere il pensiero a Orobica Pesca. La fama di “eccellenza ittica bergamasca” non è venuta dal nulla, ma è il frutto di un percorso impegnativo intrapreso 50 anni fa dai proprietari e ancora in atto. Vendere il pesce non consiste solo nel preparare il banco, ma nel saperlo acquistare, conservare e poi spiegare ai clienti. La formazione degli operatori per l’azienda è sempre stato un tassello indispensabile per fare la differenza sul mercato. Nei confronti dei propri clienti, l’azienda è impegnata su due fronti formativi. All’ingrosso, con l’organizzazione di eventi di degustazione per promozionare e spiegare alcuni prodotti, e corsi su tematiche igieniche sanitarie legate al mondo ittico; al dettaglio con l’organizzazione di corsi di cucina sul pesce. L’idea di rivolgersi anche ai privati prende il via da Matteo Cacciolo, a seguito di richieste avanzate dai clienti. Non si tratta di corsi tradizionali, ma di serate di degustazione dove vengono spiegati dettagli tecnici sui prodotti, abbinati poi ad una ricetta. Poter sfruttare personale tecnico interno (ai corsi partecipano in prima persona Matteo, figlio e responsabile dei negozi al dettaglio, affiancato da Tiziana Casali, veterinario, responsabile qualità dell’azienda) offre la possibilità ai clienti di arricchire le loro conoscenze sul panorama ittico. Il 19 febbraio scorso ha preso il via il corso base, con la presenza di un insegnate dell’AICI, Manila Foresti. Prima dell’assaggio finale si è parlato molto anche degli aspetti Matteo Cacciolo e Manila Foresti nutrizionali del pesce, spesso

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sottovalutati. Eppure il pesce è una valida alternativa ad altri cibi proteici, perché fornendo allo stesso modo proteine di elevata qualità, apporta un elevato tenore in elementi minerali e acidi grassi polinsaturi (“grassi buoni”). Proprio questi fanno la differenza rispetto ad altre carni, non perché tutto il pesce ne sia povero, infatti la percentuale a seconda della specie oscilla dallo 0.5% (Nasello) al 20-22% (Sgombro), ma perché contiene acidi grassi polinsaturi a lunga catena della serie omega 3. L’assunzione di questi grassi è un toccasana per la prevenzione delle malattie cardiovascolari perché favorisce la produzione del cosiddetto “colesterolo buono” (HDL), e contrasta la formazione del “colesterolo cattivo” (LDL e VLDL) e dei trigliceridi del sangue. Diminuendo la formazione di placche e trombi, si dimezza la possibilità di infarti. È stato infatti valutato che 30 g di pesce al giorno riducono del 50% la mortalità coronarica. Ovviamente l’alimentazione equilibrata deve poi essere associata ad un buon stile di vita. In conclusione il pesce, oltre ad essere buono, rappresenta un alimento strategico, alleato del cuore, per cui il suo consumo va valorizzato.


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LA RASSEGNA

Selvaggina, un mese di proposte nei ristoranti bergamaschi Dal 20 febbraio al 20 marzo la 14esima edizione di “Caccia in Cucina”, organizzata da Ascom e Anuu in collaborazione con il Consorzio Valcalepio

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er gli amanti della selvaggina e dei sapori di terra torna la rassegna “Caccia in Cucina”, organizzata dall’Ascom di Bergamo e dall’Anuu (associazione di cacciatori che a livello provinciale conta più di 5.000 iscritti) in collaborazione con il Consorzio di Tutela del Valcalepio e giunta alle 14esima edizione. Per un mese, dal 20 febbraio al 20 marzo, i ristoranti aderenti propongono nel proprio menù due piatti a base di cacciagione con l’obiettivo di valorizzare una tradizione culinaria diffusa sul territorio. La manifestazione, che negli anni scorsi aveva respiro regionale e si svolgeva in diverse province lombarde, quest’anno, complici le difficoltà delle Amministrazioni provinciali nel garantire il sostegno, viene portata avanti solo in Bergamasca, dove ha sempre riscosso grande successo in termini di adesioni e gradimento. Rispetto al passato ci sarà più tempo per gustare le diverse proposte, l’iniziativa dura infatti un mese, anziché una settimana, in tutti i locali. La mappa è ampia e va dalla montagna alla pianura, al lago, senza dimenticare l’hinterland cittadino. Anche i piatti spaziano interpretan-

do le diverse carni in abbinamenti e cotture classici o innovativi. Alcuni ristoratori hanno anche scelto di condividere le proprie ricette con gli appassionati, che potranno trovarle pubblicate sulla rivista dell’Anuu. Questi i locali che partecipano e i piatti che propongono: Isola Zio Bruno, Albino (Risotto con pernice al profumo di tartufo; Stufato di capriolo al Valcalepio), La Trattoria del Brugo, Alzano Lombardo (Tortelli al cinghiale in salsa di verdure brasate; Bocconcini di cervo in salmì con polenta “r ustida”),V illa Cavour, Bottanuco (Terrina di fagiano con misticanza e aceto di mele; Lepre in salmì con polenta), Corona, Branzi (Tortelli di selvaggina ai mirtilli; Polenta taragna con capriolo in salmì e cervo alle erbe alpine), Osteria da Mualdo, Capriate San Gervasio (Bottoni di pasta fresca ripieni al cinghiale selvatico, bietola appassita, Strachitunt fondente e melograno; La quaglia: coscette brasate lentamente con polenta rustica e petto arrostito, servito con zucca e sedano appena cotto allo zafferano), Ubaldo, Grumello del Monte (Gnocchi di polenta con ragù di selvaggina; Stracotto di cinghiale con polenta di Rovetta), Trattoria Bolognini, Mapello

(Tagliatelle con la lepre; Bocconi di cinghiale al rosmarino), Ristorante Piazzatorre, Piazzatorre (Pappardella fresca all’uovo con ragù di camoscio; Sminuzzato di cervo alle erbe di montagna), Da Tandy, Ponteranica (Risotto alla fagianella e timo limonato; Bocconcini di capriolo al cioccolato amaro e composta di mirtilli), Trattoria del Moro, Ponteranica (Foiade al sugo di lepre; polentina con cinghiale e verdurine), Bellavista, Riva di Solto (Cinghiale con polenta), San Marco, Schilpario (Le Pappardelle fresche al nostro ragù di cinghiale al coltello; I Bocconcini di cervo stufati alle bacche di ginepro e polenta grezza), Al Centro, Seriate (Tagliatelle di castagne e ragù di cinghiale; Polenta taragna con bocconcino di cervo), La Fenice, Serina (Bocconcini di cervo panna e noci; Ravioli di cinghiale con stufato di cipolle), Da Pacio, Spinone al Lago (Tris di selvaggina con polenta taragna; Cervo, canguro, antilope, cinghiale), Della Torre, Trescore Balneario (Terrina di fagianella ai profumi del bosco in pasta sfoglia su Porto rosso ristretto; Costoletta di cervo alla Maria Stuarda con spuma di castagne e topinambur), Quadrifoglio, Urgnano – fraz. Basella (Tagliatelle di pasta fresca al salmì di lepre; Polpa scelta di cinghiale con funghi porcini e polenta), Da Gianni, Zogno (Polenta taragna con bocconcini di cervo). L’elenco, con eventuali aggiornamenti, sul sito www.ascombg.it

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PAGINE di

GOLA

di Roberta Martinelli

Anche a Bergamo e Brescia si scrive di food&drink. I bergamaschi Davide Manzoni e Gianfranco Di Niso, dopo la felice esperienza di “Cocktail. 180 ricette con sfiziosi abbinamenti gastronomici” e “Cocktailmania”, ritornano in libreria con un accattivante volumetto che racconta i drink portati al successo dal grande cinema. Mentre Grigio Chef, conduttore televisivo bresciano, pubblica il suo primo e atteso ricettario. E poi, ancora, la storia di un popolarissimo cuoco televisivo e, per operatori e appassionati, i segreti e pregi dei formaggi.

I DRINK PROTAGONISTI DEL GRANDE CINEMA Dal Vesper Martini di James Bond in 007 – Casino Royale, al White Russian ne Il Grande Lebowski dei fratelli Cohen. Dal Cocktail Champagne di Humphrey Bogart in Casablanca al super trendy Cosmopolitan, adorato dalle protagoniste di Sex and The City. E poi ancora i drink di Arma letale, Colazione da Tiffany, Funny girl, Ritorno al futuro, Shining, Star Wars, The Blues Brothers. Manzoni, esperto di cinema, e Di Niso, barman dalle mille iniziative, hanno raccolto 60 ricette di cocktail celebrati sul grande schermo. Alcune classiche, altre inedite perché realizzate solo per i film. E insieme a ingredienti e preparazione, gli autori regalano tante curiosità su attori e registi. Davide Manzoni e Gianfranco Di Niso

MOVIE & COCKTAIL 128 pagine - Sovera Edizioni

LA CUCINA A PORTATA DI TUTTI Andrea Bellicini, in arte Grigio Chef, simpatico conduttore di una rubrica di cucina sull’emittente bresciana Teleboario, firma 50 ricette alla portata di tutti. La semplicità è il filo rosso di un viaggio che accompagna alla conoscenza della buona tavola all’italiana, con gustose deviazioni tipicamente regionali, a cominciare dalla terra natia, la Valle Camonica. Andrea Bellicini

INGREDIENTI SEMPLICI, GRANDE EFFETTO 120 pagine - Ab Building Editore

STORIA DI UNA FAMIGLIA DI EMIGRANTI CELEBRI In libreria è appena uscito il suo ultimo libro, “Te la do io l’America”, volume di ricette sui must dell’American style, ma noi vi consigliamo “Giuseppino” (Premio Bancarella della cucina 2015), scritto a quattro mani da Joe Bastianich e la giornalista Sara Porro perché rende interessante la ristorazione anche a chi non ne fa parte e perché dentro c’è tutto: l’emigrazione forzata dall’Italia degli istriani, la vecchia New York degli italoamericani, l’avventura di fare i ristoratori, Masterchef dietro le quinte, Eataly, vino, cibo, Slowfood e una consapevolezza di sé illuminante. Un romanzo intimo e divertente che racconta la storia di Bastianich e della sua famiglia, di un modo di lavorare e di fare televisione, di un’Italia che lo ha accolto e che gli ha insegnato a bere e i sapori di certi ingredienti. Joe Bastianich e Sara Porro

GIUSEPPINO 201 pagine - Utet

TUTTO QUELLO CHE C’È DA SAPERE SUI FORMAGGI Un libro dedicato al formaggio in tutti i suoi aspetti: storia, legislazione, informazioni tecniche, classificazioni, descrizione approfondita di tutti i prodotti caseari italiani Dop e Igp, ma anche la gestione di banchi e carrelli nell’ambito di negozi e locali, le tecniche e gli strumenti per la conservazione e il taglio, le modalità di servizio e i criteri per la scelta, le quantità e gli abbinamenti. Un’opera fondamentale sia per il professionista che per l’appassionato che vuole saperne di più e acquistare in modo più consapevole. In fondo al volume ci sono una serie di ricette della tradizione con il formaggio come ingrediente principale. Renato Brancaleoni

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CASEUS - IL GRANDE LIBRO DEI FORMAGGI ITALIANI 264 pagine - Edizioni Plan


Sostegno ai LAVORATORI Assistenza per figli disabili Contributo straordinario ai dipendenti in malattia/infortunio oltre il 180° giorno Concorso spese libri di testo, mensa scolastica e abbonamento trasporto pubblico per i figli dei lavoratori Concorso spese testi scolastici per lavoratori dipendenti pantone 3395C

Concorso spese asili nido

pantone 7725C

Concorso spese abbonamento traspoto pubblico ai lavoratori Spese sostenute per modello 730

pantone 2995C pantone 7461C

Sostegno alle IMPRESE pantone 1485C

pantone 3395C

pantone 166C

pantone 7725C

Formazione e apprendistato

pantone 2995C

Certificazione contratti di lavoro

pantone 7461C

D. Lgs 81/08 sulla sicurezza

pantone 1485C

Corsi sostitutivi libretto sanitario

pantone 166C

Promozione dei sistemi di qualità Concorso spese libri di testo, mensa scolastica e abbonamento trasporto pubblico per i figli dei datori di lavoro Incentivi alle imprese per l’assunzione di giovani disoccupati

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