Affari di Gola - giugno 2015

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Anno XV n.5 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - â‚Ź 2,60

giugno 2015

Pesce di lago, non è estate senza sagra!

Ecco gli appuntamenti da non perdere sul Sebino



Bergam 1, DCB 1, comma 46) art. in L. 27/02/2 004 n. 3 (conv. 353/200 - D.L. Postale mento Abbona one in Spedizi S.p.A. Italiane - Poste

www.affaridigola.it

Ecco gli da non appuntamenti perdere sul Se bino

XV n.5

SOMMARIO

Pesc non e di lago, senzaè estate sagra!

Anno

giugno 2015

o - € 2,60

giugno

foto Lara Abrati

4 EVENTI

Pesce di lago, che estate è senza sagra?

10 IL PERSONAGGIO

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Se il pane apre le porte dell’arte

12 L’INTERVISTA

Fava: «Sul latte l’industria stia attenta alle conseguenze irreversibili»

14 LA NoVItà

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I vini di Fendi firmati da un enologo bergamasco

15 FOCUS

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Quando il cibo è mobile

20 FACECOOK

Jack, «a Filadelfia inseguo il sogno americano»

23 IL PIATTO

La frittata è fatta

28 TRADIZIONI

La sovversiva minestra aristotelica del cocho bergamasco

30 In vetta

Escursioni di gusto

32 Il prezzo fisso

Nel Piave sguazzano le specialità di mare

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EVENTI di Roberta Martinelli

foto Patrick Merighi

Pesce di lago, che estate è senza sagra?

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Con la bella stagione, sul Sebino tornano le rassegne culinarie dedicate a coregoni, sardine, persici, tinche e alborelle. Ecco gli appuntamenti da non perdere

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state fa rima anche con pesce. Per gustare un buon piatto non è però d’obbligo andare al mare, nelle località più turistiche. Anche al lago, come il nostro Sebino, le occasioni per gustare un buon piatto sono tante e tutte molto goderecce. Coregoni, sardine, persici, lucci, trote, lessi, sott’olio, ripieni, al forno: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Poco conosciuto dai più, amato dai locali e da poco riscoperto dai ristoratori, il pesce di lago con l’estate ritorna protagonista in tavola, per la gioia degli appassionati. Da Sarnico a Tavernola, da Clusane e Riva di Solto ecco le sagre più tipiche e caratteristiche. Da non perdere.

Riva di Solto

Quest’anno un’edizione “storica” per festeggiare i vent’anni

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al 3 al 5 luglio, Riva di Solto propone la “Sagra del Pesce”, una delle rassegne culinarie più storiche e amate del Sebino. Quest’anno la tre giorni rivolese festeggia vent’anni e mette in scena un’edizione anniversario per celebrare la ricorrenza. «La sagra è nata su iniziativa della Commissione sport e turismo per il sostegno alle squadre di calcio del paese - spiega Giuseppe Zenti del comitato organizzatore “Amici della Sagra del Pesce” -. Abbiamo pensato a un’iniziativa che valorizzasse il pesce del lago d’Iseo e l’olio d’oliva di Riva di Solto». La rassegna negli anni è cresciuta, fino a diventare uno degli appuntamenti gastronomici più partecipati e attesi sul lago. «Siamo partiti con una manifestazione improvvisata e oggi i risultati sono stupefacenti. Abbiamo riscontrato che la sagra è conosciuta anche al di fuori delle province di Bergamo e Brescia, questo ci fa molto piacere, è un’occasione in più per far conoscere uno scorcio del lago d’Iseo caratteristico, Riva di Solto». La ricetta del successo è da vent’anni la stessa: menù dedicati al cento per cento al pesce di lago. È proprio questa la caratteristica peculiare della sagra; dare la possibilità ai

visitatori di assaggiare tutti i pesci del lago, cucinati con le ricette della zona: sardine, coregoni, persici, alborelle, lucci, lessati e conditi con olio d’oliva e verdure, al sale, marinati, in carpione, fritti, alla griglia, al forno. Tra i primi ci sono la pasta al ragù di coregone e la pasta alle sarde, preparata con cubetti di sardine essicate sott’olio, pomodorini e vari aromi; come antipasto viene proposta la bruschetta con l’olio di oliva extravergine di Riva di Solto e, tra i secondi, il piatto più caratteristico è la sardina con la polenta. Noi, per non rinunciare a nulla, consigliamo il “Menù del Pescatore”, composto da alborelle in carpione, bocconcini

di tinca fritta, trota marinata, sardine fresche alla griglia e pesce sott’olio alla griglia con polenta. La sagra si svolge nella bella e suggestiva piazza dei Giardini di Doana, affacciati sul lago, in uno scorcio del paese tra i più belli del Sebino ed è animata da musica e mercatini. Quest’anno per celebrare la ricorrenza ci sarà una mostra fotografica che ripercorre i suoi vent’anni di storia. Il ricavato da sempre viene devoluto alle associazioni presenti in paese e in collina e alle due parrocchie di Riva di Solto e Zorzino, solo una piccola cifra viene trattenuta per programmare l’edizione dell’anno successivo.

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EVENTI Tavernola Bergamasca

Nella frazione Gallinarga sei giorni dedicati alla sardina

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rati verdi, aria pura, il lago sullo sfondo, serate di musica, ma soprattutto tante proposte dedicate all’agone, o meglio, alla sardina, come viene chiamata qui, sul Sebino, per la sua forma affusolata e le squame argentate che ricordano la sarda di mare. Con più di un quarto di secolo di storia, la “Sagra della sardina” di Tavernola, promossa dalla Pro Loco del paese, è un appuntamento fisso delle estati sul Lago d’Iseo. Quest’anno si aprirà venerdì 10 luglio e proseguirà nelle giornate di sabato 11 e domenica 12, per riprendere di nuovo venerdì, sabato e domenica della settimana successiva, nell’area verde della frazione Gallinarga. Anche per questa 27esima edizione il piatto forte saranno le sardine con la polenta, sardine sott’olio, leggermente abbrustolite sul fuoco e servite con fette di polenta fredda tostata. Ma si potranno gustare anche alborelle fritte (richiestissime), filetti di persico saltati con burro e salvia, due tipi di pasta con pesce di lago e altri manicaretti, tra cui le sfongade, pagnottelle dolci preparate secondo la ricetta del paese, e la torta di amarene, dolce tavernolese per eccellenza la cui ricetta si tramanda da generazioni. La cucina è aperta la sera a partire dalle 19 circa e dome-

nica 12 luglio anche a pranzo (su prenotazione). I pesci sono forniti da pescatori di Clusane e di Montisola. «La sagra è nata come una festa di contrada - ricorda Giulio Foresti, uno degli organizzatori storici -. Siamo partiti con 80 coperti e negli anni sono più che triplicati». Potere delle sardine che ogni anno prendono all’amo tantissimi appassionati da tutta la provincia, ma anche da Milano e Vicenza. «Chiedono quasi tutti le sardine con la polenta, è un piatto molto amato – dice Foresti -. Ma credo che il successo della sagra sia dovuto anche al fatto che si svolge in una località molto bella, in mezzo al verde e con la vista sul lago. I bambini possono giocare in sicurezza e i genitori godersi la serata». Ogni anno la sagra registra il tutto esaurito e le strade del lungolago e del centro storico sono un continuum di auto. «Abbiamo pensato anche di spostarla nel centro storico del paese e di ingrandirla ma perderebbe il suo fascino, così abbiamo rinunciato» confida Foresti che per il futuro ha un desiderio: «passare il timone della sagra ai giovani del paese in modo che non vada persa questa bella e importante tradizione».

Il pescatore

Baiguini: «Servono più rispetto per il lago e

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anilo Baiguini è uno dei tre pescatori professionisti dell’alto Lago d’Iseo. Fa questo mestiere da venticinque anni e di pesca ha molto da raccontare. «Mio papà faceva il pescatore e anche mio nonno. Sono cresciuto tra canne da pesca e reti, così dopo il militare mi è sembrato naturale scegliere questo mestiere - raconta -. Quasi tutti i pescatori del lago che conosco sono figli d’arte, questo è un lavoro che se non ci cresci non lo fai». Negli ultimi trent’anni la pesca sul lago è cambiata molto, i pesci sono diminuiti e il lago, almeno

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per alcune specie, viene ripopolato artificialmente. «Anni fa si prendevano molte alborelle, ce n’erano davvero tante nel lago - spiega Baiguini -. Da cinque anni la loro pesca è proibita perché non ce ne sono quasi più e bisogna dare loro il tempo di ripopolarsi. Anche i lucci sono ormai rari. Vent’anni fa se ne pescavano tanti, poi sono stati colpiti da una malattia che li ha decimati. In quanto alle tinche se ne pescano di più sul basso lago dove l’acqua è più bassa e si stanno facendo più semine. Prima di arrivare ai livelli di un tempo ci vorranno ancora anni».

E quindi cosa si pesca oggi? «Trote, coregoni, sardine e anguille ci sono ancora in una buona quantità, e anche i persici non mancano ma sono piccoli, prima si nutrivano di alborelle, ora che le alborelle non ci sono più, si mangiano tra loro. Poi dipende dal periodo, i mesi più pescosi vanno da giugno a ottobre». Di che quantitativi stiamo parlando? «Nel mese di gennaio che è uno dei mesi meno pescosi prendo due-tre quintali di pesce, l’estate se ne prendono anche il doppio, cinque-sei quintali al mese. Poi di-

Danilo Baiguini


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clusane

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e a Tavernola la regina dell’estate è la sardina, a Clusane, sulla riva bresciana del lago, il piatto celebrato, che ha fatto conoscere la località lacustre e i suoi ristoranti in tutta la Lombardia è la tinca al forno. Più di Amatrice con l’amatriciana o di San Daniele o Sauris col prosciutto, Clusane ha legato il suo nome a questo piatto già dalla fine dell’800, arrivando ad avere negli anni quasi trenta ristoranti con questo piatto al centro della loro proposta, uno ogni 50 abitanti, e la maggior parte delle famiglie del

foto Patrick Merighi

La tappa obbligata? La “Settimana della Tinca al forno”

paese coinvolte tra rifornimento, cucina e, servizio. Da più di trent’anni la terza settimana di luglio, il paese dedica a questo strano pesce che popola i bassi fondali del lago la “Settimana della Tinca al Forno con Polenta”, una settegiorni intensa con un menù dedicato che richiama sul lungolago e nei ristoranti migliaia di persone. L’appuntamento, promosso dagli Operatori turistici clusanesi (Otc) e attesissimo dagli amanti delle tipicità, quest’anno è in programma dal 13 al 19 luglio: undici

meno licenze. Così la pesca avrà un futuro» pende che pesci sono, se pregiati o di poco valore, come carpe e coregoni». Com’è il mercato? C’è richiesta di pesci d’acqua dolce? «Pesco in media 20-30 chili di pesce al giorno ed è subito venduto. Nei mesi estivi se ne prendessimo di più lo venderemmo. In inverno se non lo vendiamo lo facciamo seccare. Vendo sia ai privati che ai ristoranti. Negli ultimi anni molti cuochi locali si sono buttati sul pesce di lago, anche perché lo pagano di meno e possono praticare più ricarico». Quanti pescatori ci sono sul Lago d’Iseo? «Una trentina e sono tanti. Le licenze andrebbero limitate. Invece uno si può

svegliare un giorno, decidere che vuole fare il pescatore, chiedere la licenza e ottenerla. Poi ci sono i pescatori dilettanti e non ci sono guardie a sufficienza per fare i controlli. Non è che non vogliamo altri pescatori perché ci fanno concorrenza. È che se in un bosco si tagliano tutte le piante poi non ce ne sono più, lo stesso è per il lago. Servono più rispetto e una limitazione delle licenze». Cosa significa fare il pescatore oggi? «Pescare tutti i giorni, anche il sabato e la domenica, anche se si ha la febbre o non si sta bene perché se si dice di no a un cliente che chiede il pesce si rischia di perderlo. Io esco a pescare due-tre ore la sera e cinque-sei ore di notte, poi di gior-

no pulisco e preparo il pesce e lo distribuisco. È un lavoro molto impegnativo». Cosa le fa scegliere ogni giorno il suo lavoro? «Ci sono tante cose belle in questo mestiere. Ci sono i rumori dell’acqua, degli uccelli, il lago, il cielo, le case affacciate sul lago, che ti portano a non sentirti solo. Io pesco sempre di notte ed è bello perché si vedono le prime auto sulle strade, il paese che si sveglia, è un insieme di tante sensazioni». L’anno prossimo che anno sarà? «L’anno scorso non abbiamo ripopolato per cui i prossimi anni pescheremo di meno. Bisogna aspettare che i pesci crescano».

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EVENTI

foto Patrick Merighi

ristoranti proporranno questo gustoso piatto a un prezzo fisso di 22 euro, comprensivo di dolce, acqua, vino e caffè. In considerazione della grandissima affluenza di persone, le tinche arriveranno anche da altri laghi, ma la qualità – assicurano gli organizzatori - è garantita. «La ricetta è la stessa in tutti e undici i locali ed è quella originale, che ci tramandiamo da almeno tre generazioni, solo un po’ alleggerita nei condimenti» dice Pierpaolo Martinelli, presidente di Otc. «Con gli altri ristoratori abbiamo creato un gruppo molto unito e il grande successo della sagra è dovuto anche a questo, oltre ovviamente alla bontà e particolarità del nostro piatto tipico». La sagra avrà un’anteprima il 21 giugno con una serata molto suggestiva, la “Cena sotto le stelle” preparata dagli stessi ristoratori, con una tavolata di cinquecento posti allestita sul Lungolago Capponi, un menù dedicato al lago (antipasti di lago, coregone al forno, polenta di castegnato realizzata sul posto, dessert, acqua e caffè a 30 euro) e uno spettacolo di luci e fuochi d’artificio.

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Sarnico

Qui si celebra il pesce fritto come negli Anni 50

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a tre anni Sarnico ha ripescato una sagra del passato, la storica “Sagra del pesce fritto”. L’antica festa è nata a metà degli Anni 50 su iniziativa della Pro Loco, allora guidata da Domenico Savoldi. L’intenzione era di offrire ai residenti e ai visitatori una frittura di alborelle (qui chiamate “oe”) e un bicchiere di vino bianco fresco locale. Questa godereccia tradizione è stata per più di vent’anni un importante momento di aggregazione per le famiglie e un’occasione per far conoscere il paese e il lago. Poi - chissà come e perché - si è persa. Nel 2013 il Kiwanis del Sebino e l’Avis Sarnico e Basso Sebino hanno deciso di riportarla in vita cercando di manternersi il più possibile fedeli alla formula originale. Detto fatto, la prima edizione della “Sagra del pesce fritto” si è chiusa con 5mila visitatori; un successo oltre ogni aspettativa. «La sagra veniva organizzata sulla piazza del paese il giorno di San Pietro, patrono dei pescatori – ricorda Mario Dometti del Kiwanis Sebino -. Le alborelle erano pescate dai pescatori di Clusane, venivano fritte e servite in un sacchetto di carta accompagnate da un bicchiere di Chiarello del Lago d’Iseo, un vino prodotto sul basso lago del quale negli anni si sono perse le tracce. Le ragazze ai tavoli erano vestite con gonnelloni e cappelli ed erano proposti momenti di musica e danze folcloristiche. Era una festa che richiamava tantissime persone». «Volevamo creare una manifestazione per raccogliere fondi da devolvere in beneficenza e ci è sembrato bello riprendere la vecchia tradizione e ricordare i sapori dimenticati del lago – dice Serafino Falconi, dell’Avis Sarnico e Basso Sebino –. Ci siamo informati, abbiamo visitato altre feste, interpellato un ambulante di pesce fritto per sapere che farina usare e come fare la frittura, ed è venuta fuori la festa, che è subito piaciuta molto». La sagra sarà sul Lungolago di Sarnico e in Piazza XX settembre sabato 27 e domenica 28 giugno: si potranno apprezzare le alborelle fritte e le sardine di Montisola, cotte alla piastra e servite con aglio prezzemlo e polenta fatta al momento. Con qualche nota fuori dalla tradizione: le alborelle provengono da altri laghi italiani perché nel Lago d’Iseo la loro pesca è proibita, al posto di gonnelloni e cappelli ci sono jeans e copricapi bianchi di carta e il ‘polentaio’ è Salèm, un ragazzo proveniente dall’Honduras.


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CASTRO

Al debutto anche il “Chiosco” per chi punta a uno snack veloce

FestambienteLaghi, torna la sagra che esalta i prodotti locali

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piatti di terra e di lago, tutti a chilometri zero. “FestambienteLaghi”, la rassegna di cucina di qualità promossa da Legambiente Alto Sebino di Castro e dedicata ai prodotti del Lago d’Iseo e della Valcamonica, torna con un’edizione, la sesta, ancora più legata al territorio. Dal 1° al 5 luglio, all’area feste, si potranno gustare piatti ‘buoni, belli e sani’, secondo la filosofia della sagra. «In menù compaiono solo prodotti locali – spiega Massimo Rota, presidente di Legambiente Alto Sebino -. Sarà un panorama rigoroso sui formaggi della Valcamonica e Valpalot con il re Silter e il Fatulì, i pesci di lago - salmerino, sarda, coregone -, le carni camune e alcune ‘perle’ come la patata viola, la polenta di mais blu, il gorgonzola di Endine e il farro camuno, tutti interpretati con preparazioni ripescate dal passato».

Le ricette sono state studiate e saranno realizzate con la guida dei cuochi Dario Tagliasacchi e Giovanni De Berti. Le proposte sono tutte golose e a prova di gourmet. Ritornano alcuni classici della manifestazione come la sarda alla piastra e il coregone grigliato con la polenta, ma la maggior parte dei piatti sono inediti. Tra questi, gli Gnocchi di patate con fonduta al blu di Endine, il Furmai parat coi pomm (piatto tipico della Valcamonica a base di soffritto di cipolle, mele e formaggio cotti al forno), la Lingua salmistrata con salsiccia di castrato di Breno, patate, salsa verde e cipolle in agrodolce, la Carbonara di lago con coregone sott’olio e le Linguine con bottarga di lago preparata da un pescatore sebino con il pescato. Da non perdere, i taglieri con i formaggi della Cooperativa sociale di Val Palot e i caprini della Valle Camonica e, tra i dolci, il gelato K2 su letto di spumiglie e sciroppo d’amarena e le biline al vino rosso: castagne secche cotte nel vino e poi servite fredde. Anche quest’anno ci sarà una proposta dedicata alle persone vegetariane e vegane. I tavoli saranno poi allestiti con raffinate tovaglie di cotone e piatti in porcellana. La rassegna ha anche un fine benefico: un euro del coperto sarà devoluto all’Associazione Angelman onlus per finanziare la borsa di studio di una giovane ricercatrice all’Erasmus MC di Rotterdam, uno dei centri più all’avanguardia nella ricerca di una cura per la Sindrome di Angelman. Debutta il “cibo da spiaggia” L’edizione di FestambienteLaghi 2015 porta con sé una novità: il cibo da strada, o meglio, da lago. Quest’anno insieme al ristorante ci sarà anche il Chiosco del lago, uno spazio dedicato al cibo “veloce”. Il chiosco sarà allestito sulla spiaggia verde del paese. La sera si potrà scegliere tra sette panini gastronomici, anche questi preparati con prodotti locali. A pranzo saranno proposti tre panini e due tipi di insalate miste; alle 16, per la merenda, ci saranno frullati di frutta fresca, coppetta di anguria a cubetti e muesli con yogurt naturale o di soya, mentre alle 17 scatterà l’aperitivo. Tutte le proposte si potranno consumare ai tavolini del chiosco oppure, in versione ‘prendi e vai’, sulla spiaggia.

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il personaggio foto Pasquale Giovanelli

di Anna Facci

Se il pane apre le porte dell’arte Panettiere da tre generazioni, inclinazione artistica spiccata, Ezio Tribbia ha trovato nel suo mestiere la chiave di un’espressione personale. Chiuso il forno a Scanzorosciate, oggi fa il pizzaiolo e intanto dà forma alle sue creazioni. La sua ultima installazione si può vedere all’Oratorio di San Lupo fino al 28 giugno

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are il pane è un’arte. Ma il pane può anche diventare un’opera d’arte, uscendo dal panificio e diventando allestimento che trasmette messaggi e sensazioni al di là dell’aspetto gastronomico. È quanto fa Ezio Tribbia, panettiere da tre generazioni che nella materia del suo lavoro ha trovato il mezzo più adatto per esprimere un’inclinazione all’arte che lo accompagna da sempre. La sua ultima opera si chiama “Dare da mangiare” ed è visitabile fino al 28 giugno all’Oratorio di San Lupo, in via San Tomaso a Bergamo, evento realizzato dalla Fondazione Adriano Bernareggi nell’ambito del festival Fare la Pace. Nell’architettura settecentesca di quello che è diventato uno dei più importanti luoghi per istallazioni di arte contemporanea della città, un telo di 9 metri per 2 sale dalla terra al cielo e porta impresse centinaia di

orme di pagnottelle. Il telo è quello dove, nel lavoro di fornaio, si appoggiano i panini per lasciarli lievitare. I segni - realizzati immergendo un pane in una colla di farina, acqua e olio, riscaldando l’impronta per renderla visibile e ripetendo l’operazio-

ne più volte – raccontano l’unicità di ogni gesto. A terra un campo di grano mosso dal vento è realizzato con steli che portano sulla loro sommità non una spiga ma un miniscolo panino, mentre in alto, sulle pareti, si aprono i classici sacchetti del pane, che diventano bocche in attesa. Le luci e i dettagli che ogni spettatore coglie e interpreta fanno il resto. «Il pane

«Sono cresciuto con il profumo del pane, la mia camera da letto era sopra il laboratorio. Il pane è nelle vene della mia storia e mi ha dato la possibilità di dare una mia impronta»


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LA MOSTRA

gratta e vinci attaccati a carta moschicida. Oggi ammette che l’etichetta di panettiere-artista sta cominciando a stargli stretta. «Manzoni ha intinto il pane nel cemento, anche se non era panettiere – evidenzia -. Io sono cresciuto con il profumo del pane, la mia camera da letto era sopra il laboratorio e quando tornavo da scuola era sempre un’emozione affacciarmi alla finestra del forno. Il pane è nelle vene della mia storia e mi ha dato la possibilità di esprimermi con sincerità, di dare una mia impronta. Ora sono pronto a cimentarmi anche con altre tematiche e forme», anticipa. Della panificazione mantiene una visione originaria, legata alla semplicità e a ritmi “umani”. «Ciò che mi dà più fastidio è vedere il pane venduto la domenica – confessa – e nei supermercati. Non è pane secondo me ed è un colpo basso per chi lo fa con cura e sacrificio durante tutta la settimana». Quanto alla sua lunga esperienza tra lievito e farine, cominciata a 13 anni, non ha avuto difficoltà a trasferirla nella pizzeria. «Ho sempre cercato di imparare e di migliorarmi», dice e lo conferma la vittoria del concorso Pizzatime di Bargiornale conquistato dalla Bisboccia proprio a ridosso dell’apertura, competizione con tanto di assaggiatori in incognito e premiazione a Montecarlo. Dalle pagnotte della pizza prepara anche il pane per il locale, che ama insaporire con cipolle, olive o quello che gli ispira la fantasia. «La Bisboccia non ha mai sottolineato di avere un’artista al forno ed io, del resto, non ho mai dato troppa enfasi a questa mia carriera. Ho sempre lasciato che le cose accedessero, le occasioni e i riconoscimenti sono arrivati ed ora il cammino prosegue».

foto Pasquale Giovanelli

è un segno positivo del fare umano – racconta Tribbia -, accompagna l’uomo dai tempi dei tempi, è il frutto del lavoro personale e collettivo per migliorare la natura ed è nutrimento del corpo e dell’anima». Per lui è stato anche la chiave di un percorso artistico personale. Cinquantacinque anni, ha portato avanti fino a una quindicina di anni fa il forno di famiglia a Scanzorosciate, aperto dal nonno Isaia a fine Ottocento e poi passato al padre Giuseppe. Non riuscendo proseguire l’attività da solo, ha aperto una pizzeria d’asporto ed è poi approdato alla Bisboccia di Seriate dove è il pizzaiolo sin dall’apertura del locale, nel 2005. «Il lavoro in pizzeria è quello che mi dà da mangiare – precisa -, l’arte è il mio percorso. Ho cominciato giovanissimo, dipingendo, e forse seguendo quella strada avrei anche potuto vivere d’arte, perché i quadri erano richiesti. Ma era sempre qualcosa di già visto, che somigliava a qualcos’altro. Mi sono trovato come davanti ad un muro ed è allora che mi si è presentato il pane: il mezzo per esprimermi era dentro di me ed è attraverso questa tematica che credo di essere riuscito a trasmettere qualcosa in più». Era il 2009 e da allora Tribbia ha realizzato una serie di mostre che gli hanno permesso di emergere e far conoscere la sua personale forma d’arte. A cominciare da “Pane di domani” nel matroneo e nei sottotetti di Santa Maria Maggiore in Città alta, per proseguire con “Finestra di pane” dove il sottofondo era dato dal rumore di un’impastatrice e “Manna”, allestita a Scanzorosciate come ultimo omaggio ad una fabbrica che sarebbe stata demolita, nella quale al pane si contrapponevano file di

“Dare da mangiare. Un panettiere diventato artista” Oratorio di San Lupo, via San Tomaso, 7 - Bergamo visitabile fino al 28 giugno sabato e domenica dalle 11 alle 19 (da martedì a venerdì apertura su richiesta con possibilità di prenotazione visite guidate) ingresso libero e gratuito www.fondazionebernareggi.it

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L’intervista di Leo Bartoli

Netto l’assessore regionale all’Agricoltura, Gianni Fava: «Certe chiusure rischiano di condannare a morte il made in Italy lattiero caseario». «Con la fine delle quote, produttori e consorzi devono fare sintesi, mantenere i prezzi alti e garantire redditività a tutti gli anelli della filiera». «Ai giovani? Consiglio di tornare a lavorare la terra. È uno dei mestieri più belli in assoluto»

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L’ assessore regionale all’Agricoltura, Gianni Fava

«Sul latte l’industria stia attenta alle conseguenze irreversibili» ono giornate campali per un assessore regionale all’Agricoltura che si ritrova l’Expo in casa. Cassa di risonanza mondiale, ma anche attenzione dei media al minimo passo falso. Eppure Gianni Fava va avanti per la sua strada, convinto che la qualità del sistema agroalimentare lombardo alla fine sarà la vera carta vincente della kermesse. Mantovano di Viadana, cresciuto nella terra dei meloni più buoni del mondo, il leghista Fava ha da sempre assaporato la genuinità dei prodotti della campagna: recentemente quando Parmigiano e Grana accusarono il colpo della crisi, con i prezzi in calo e l’embargo russo che tagliò le gambe ai produttori, propose al ministro Martina di ritirare migliaia di forme dal mercato per destinarle agli «indigenti e alla fasce più deboli della società». Solidale, ma non romantico, sa che l’agricoltura moderna deve soprattutto poggiare su una sostenibilità economica, su processi innovativi che pure non rinneghino la tradizione di prodotti secolari. Assessore, cosa l’ha colpita di più di queste prime settimane di Expo? «Il grande flusso di pubblico e l’interesse nei confronti dei diversi modelli produttivi del pianeta e le diverse culture, che raccontano i popoli e i loro territori. Le aspettative, anche da parte di Regione Lombardia, il cui padiglione è stato visitato con grande interesse, sono molto alte. Spero che l’intero semestre mi colpisca per i risultati raggiunti in termini di attenzione verso problematiche la cui risoluzione è imperativa, come la tutela dei prodotti tipici, la lotta agli sprechi alimentari, una maggiore sinergia in chiave internazionale che, declinata banalmente in chiave comunitaria, significa più Europa delle Regioni e mag-

giore conoscenza delle diverse agricolture. Se così fosse, sono sicuro che in futuro Bruxelles ci risparmierebbe alcune aberrazioni legislative e burocratiche che derivano, essenzialmente, dalla mancata conoscenza pratica del settore primario». Perché i nostri prodotti lombardi dovrebbero spiccare all’attenzione dei visitatori nella miriade di offerta Expo? «Per la loro unicità. Non sono riproducibili altrove, per quanto qualche esponente dell’industria si ostini ad affermare che alcune produzioni possono essere replicate in qualsiasi parte del mondo. I nostri prodotti raccontano storie, culture, modi di vivere a volte anche millenari. Expo sarà l’occasione per raccontare ai visitatori di tutto il mondo cosa produciamo, come lo facciamo, con quali vantaggi in termini di controllo sanitario e quindi di sicurezza. Dalle indagini emerge sempre con chiarezza che i consumatori apprezzano il made in Italy, vissuto come elemento distintivo di una qualità più elevata, ma allo stesso tempo richiedono informazioni ulteriori in termini di origine dei prodotti, coltivazione, modalità di allevamento, benessere animale, alimentazione. Su molti di questi aspetti siamo in grado di offrire risposte esaustive». Bergamo è stata definita dal ministro Martina città di punta per l’Expo: quali secondo lei le eccellenze migliori tra formaggi, vino, salumi e tipi di mais? «È tutta questa grande varietà a caratterizzare quella che l’amico ministro Martina ha definito città di punta di Expo. Oggi va di moda il termine biodiversità. Bergamo può vantare numerosi prodotti tra Dop, Igp e Doc ed è una delle grandi province lombarde dell’agroalimentare,


giugno 2015

«Bergamo può vantare numerosi prodotti tra Dop, Igp e Doc ed è una delle grandi province lombarde dell’agroalimentare, sia in termini di biodiversità che di gusto. Da lombardo sono orgoglioso di questa grande ricchezza»

sia in termini di biodiversità, appunto, che di gusto. Da lombardo sono orgoglioso della grande ricchezza di Bergamo e della Lombardia. Mi piace ricordarlo spesso, perché per troppo tempo la nostra regione è stata identificata come terra di industria, giornali, moda e design. Siamo la prima regione agricola d’Italia e anche la prima a livello europeo in termini di agroalimentare, con una produzione lorda vendibile che nel 2013 ha raggiunto i 13,3 miliardi di euro e nel 2014 ha registrato un incremento dell’1,3%. Bergamo è una delle città di punta, certo». Lei parlando di Dop, in particolare dei formaggi, ha detto che devono essere sostenibili e su certe produzioni troppo piccole ha parlato di romanticismi, di posizioni da rivedere… «In passato ho sottolineato che ottenere e mantenere una Dop comporta degli oneri finanziari e che, in alcuni casi, vi è sì da un lato la tipicità, la storicità e la qualità richiesta per fregiarsi del marchio, ma mancano le dimensioni per poter varcare i confini della regione stessa di produzione. La stessa Unione Europea si è dimostrata scettica a concedere il marchio di qualità quando poi l’esiguità delle produzioni rappresentavano un limite considerevole. Detto questo, credo che in questa nuova fase che si è aperta con la fine delle quote latte, produttori e consorzi debbano fare sintesi e muoversi con l’obiettivo di mantenere i prezzi alti e garantire redditività a tutti gli anelli della filiera. Ciascuno però, e mi ripeto, nel rispetto delle proprie competenze». Questione latte, a che punto siamo? Ci sono stati attriti forti non solo sul prezzo: ma questa diatriba finirà mai? E come? «Da un lato sono soddisfatto che i produttori, la co-

operazione e i consorzi del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano abbiano accolto favorevolmente la proposta che ho lanciato sulla possibilità di legare il prezzo del latte a un sistema indicizzato che tenesse in considerazione la valorizzazione conseguente al circuito delle produzioni Dop. Allo stesso tempo, mi preoccupa l’atteggiamento dell’industria di trasformazione. Questa chiusura rischia di condannare a morte il made in Italy lattiero caseario, con conseguenze irreversibili per la chiusura delle stalle, l’abbandono del territorio e la perdita di un patrimonio anche culturale. Se è questo che l’industria desidera, proseguano sulla linea del non dialogo. Ma a farne le spese saranno anche loro». Lei non nasconde mai di venire dalla campagna: il contadino di oggi sta meglio di quello di ieri? E un giovane, visti i sacrifici che si facevano un tempo in campagna, perché dovrebbe essere invogliato a lavorare in agricoltura? «Il contadino di oggi sta meglio in termini di fatica del lavoro. Le nuove tecnologie hanno rappresentato un notevole passo in avanti, anche se l’agricoltura ha i propri ritmi e i propri cicli, che dipendono dalle stagioni. In termini di burocrazia e redditività, non sono così sicuro che l’imprenditore agricolo di oggi stia meglio di quello di 30 anni fa. Negli anni Ottanta circa l’80% del bilancio comunitario era destinato alla Politica agricola comune, oggi la percentuale è scesa al 38%, con una platea di 28 paesi destinatari». Quindi un giovane, visti i miglioramenti dettati dalla tecnologia e qualche delusione maturata in fabbrica, dovrebbe essere invogliato a lavorare in agricoltura oggi? «Assolutamente sì, perché lavorare in campagna è tra i mestieri più belli in assoluto, con una grande responsabilità verso la società. Si produce per sfamare gli uomini e gli animali, in un mondo sempre più popoloso e con esigenze crescenti di sicurezza alimentare e qualità. Inoltre, gli agricoltori sono sentinelle dell’ambiente e del territorio. Un dato esemplificativo: gli agricoltori sono solo il 2% della popolazione lombarda, ma gestiscono l’80% del territorio. Dove mancano si innalzano in maniera esponenziale i rischi di catastrofe idrogeologica. Nel Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020 ai giovani assicureremo le giuste opportunità per l’insediamento e la crescita, ma è necessario che il mondo agricolo ritrovi margini di reddito, altrimenti suggerire ai ragazzi di diventare agricoltori rischia di essere un messaggio vuoto».

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la novità È Tiziano Vistalli ad aver impostato la cantina umbra Le Corgne che fa capo a un rampollo della celebre famiglia. A Porta Osio l’anteprima in città

I vini di Fendi? Firmati da un enologo bergamasco

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en conscio di avere sotto i piedi un terreno ricco di marne calcare, soggetto a forti escursioni termiche, quindi luogo ideale per la crescita e la maturazione di particolari vitigni, Andrea Formilli Fendi, rampollo di una delle più grandi famiglie italiane della moda, ha deciso di assecondare il “terroir”. E così, nel 2005, ha dato il via all’ambizioso progetto di ristrutturazione della tenuta umbra di famiglia, a Valfabbrica, tra Gubbio ed Assisi. A 750 metri sul livello del mare ha impiantato a vigneto 6 dei 35 ettari del podere e ha dato vita alla cantina vinicola “Le Corgne”, inaugurata nel settembre del 2013 con il lancio di un pugno di etichette curatissime, dal Sauvignon blanc, forte espressione del terreno, a due “perle” come il Pinot nero e il Merlot in purezza - che sfidano i palati con la loro eleganza e struttura - fino al rosso ottenuto da uve Merlot, Sangiovese e Pinot nero. Se l’obiettivo è centrato, il merito va senza dubbio anche all’enologo bergamasco Tiziano Vistalli. È a lui che il figlio della stilista Franca Fendi ha dato carta bianca al momento di elaborare il progetto della cantina. Laurea in viticoltura ed enologia all’Università Statale di Milano, Vistalli s’è costruito negli anni un bagaglio d’esperienze di tutto rispetto, prima in Sicilia, nella Cantina Calatrasi, poi in Umbria, alla corte di Arnaldo Caprai, quindi in giro per l’Italia anche tra Sardegna, Toscana, Friuli. Oggi vive a Greve in Chianti e offre consulenze a una quindicina di aziende vinicole. La persona giusta, secondo Andrea Formilli Fendi, per dare una forte identità alle Corgne, per studiare a fondo i terreni, scegliere i vitigni più adatti da impiantare e valutare nel tempo i risultati scaturiti nella cantina interamente realizzata sotto la collina, quindi ad impatto zero. «In poche aziende - ammette oggi Vistalli - ho trovato la disponibilità agli investimenti ed insieme l’umiltà necessaria per realizzarli senza fretta e superficialità». A distanza di un decennio dalla “posa” della prima pietra, Le Corgne ha già definito il programma di espansione. Gli ettari vitati da 6 saliranno a 15 con una produzione a regime di 60mila bottiglie all’anno, in buona parte destinate all’estero.

Da sinistra: Tiziano Vistalli, Pier Aresi e Michele Sana A Bergamo, i vini firmati da Fendi e Vistalli hanno fatto recentemente il loro esordio all’enoteca-ristorante Porta Osio di via Moroni, nell’ambito di una serata appositamente organizzata. Un “incontro” tutt’altro che casuale. La filosofia che anima il locale della famiglia Elzi, condotto da Pier Aresi, muove infatti da presupposti analoghi a quelli della cantina umbra, ovvero qualità costante e grande attenzione alle materie prime e alla loro trasformazione. Ed è qui che entra in campo il talentuoso chef Michele Sana, il quale, dopo aver maturato esperienze in diversi locali stellati, è approdato a Porta Osio mettendo in campo fantasia e voglia di sperimentare. Cinque le portate elaborate per affiancare i vini delle Corgne. Il “matrimonio”? Perfettamente riuscito.


giugno 2015

FOCUS

di Anna Facci

Quando il cibo è mobile La moda dei food truck ha riacceso l’attenzione su commercio e somministrazione ambulante. Tra attività storiche e nuove iniziative, ecco un viaggio tra rosticcerie e furgoni bergamaschi, al mercato o al seguito di eventi. Dolci (Fiva): «Opportunità solo se si è professionalmente preparati»

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a tendenza è in atto, almeno a giudicare dalla curiosità di media e buongustai. Quella del cibo viaggiante, che sale a bordo di mezzi colorati e originali – dal carretto dei gelati, anche a pedali, all’ape car fino ai furgoni personalizzati – e punta sulla riscoperta in chiave gourmet dei piatti da strada della tradizione regionale. Non si tratta però di una gran novità, semmai di una rilettura più attuale e accattivante del commercio ambulante che da sempre porta da mangiare e da bere nelle piazze o negli eventi. Punti di forza sono la possibilità di arrivare pressoché ovunque e la capacità di adattare l’offerta alle diverse situazioni, raggiungendo un pubblico ampio e diversificato. Le limitazioni sono date dagli spazi a bordo del mezzo e dalla disponibilità di acqua ed energia elettrica oltre che dai regolamenti dei comuni per l’occupazione del suolo pubblico. E poi c’è l’incognita delle condizioni meteo, che possono esaltare un’uscita o renderla un flop. A Bergamo cosa sta succedendo? La moda dei “food truck” sta risvegliando l’interesse su cucina e somministrazione on the road? Mauro Dolci, presidente provinciale della Fiva, la federazione dei venditori ambulanti che fa capo all’Ascom, invita a guardare il fenomeno con realismo. «Possono esserci delle opportunità – rileva – ma solo se si è preparati e si opera con professionalità. Che si tratti di gestire una rosticceria al mercato oppure

un bar o la somministrazione nell’ambito di fiere e manifestazioni occorre, come accade anche per le attività in sede fissa, saper fare il mestiere. Non è più semplice solo perché ci si trova in contesti meno formali». Sui possibili sviluppi, vede alcune possibilità nei servizi a favore delle manifestazioni che richiamano forti afflussi, mentre agli operatori che lamentano un po’ troppe restrizioni da parte dei comuni alle attività ambulanti e itineranti ricorda «che ci sono regole che tengono conto della viabilità, del contesto urbanistico e della presenza del commercio tradizionale: il senso del nostro lavoro è portare un servizio». L’aspetto più interessante che si sta facendo avanti nei mercati settimanali è invece la presenza di veri e propri bar, con posti a sedere. «Non sono molti – rileva – ma nelle aree in cui è possibile contare su servizi igienici, allacciamento all’acqua e all’energia elettrica si può realizzare un’importante integrazione che qualifica tutto l’appuntamento. La cosa bella è la speciale atmosfera che si crea. Non è un locale, non ci sono porte, resta uno spazio aperto dove prendersi una pausa e vivere le relazioni e gli incontri propri del giorno del mercato». Da quelli storici alle nuove iniziative, ecco allora un piccolo viaggio tra rosticcerie e furgoni bergamaschi. nella fotografia una scena del film Chef - La ricetta perfetta (2014)

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focus Rosticceria Merli

Tutta la famiglia è salita a bordo

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avventura della famiglia Merli a bordo di una rosticceria viaggiante è piuttosto recente ed è una risposta corale alla necessità di papà Pietro, muratore, di trovare un diverso sbocco lavorativo di fronte alla crisi dell’edilizia. «C’era questa esigenza ed abbiamo deciso di provare insieme con un’attività ambulante - racconta la figlia Marina, 29 anni –. Abbiamo cominciato cinque anni e mezzo fa. Io ho lasciato l’impiego in una tipografia, abbiamo rilevato un “giro” di mercati e siamo partiti, in pratica da zero. Ma non sen-

za aver ben ponderato l’investimento, che è significativo, e aver provato il tipo di lavoro, perché non è un impegno come tanti altri e deve piacere». «Le cose sono andate bene – dice soddisfatta –, siamo sempre cresciuti e se all’inizio eravamo in due, oggi siamo in cinque a lavorare qui». A lei e al padre si sono aggiunte la mamma Anna e la sorella Cristina, più un’altra persona a chiamata per le giornate più intense. Sede a Cenate Sotto, la Rosticceria Merli è presente nei mercati di Tagliuno, Carpenedolo, Ospitaletto e Grumello del Monte. «Oltre al mezzo, ci siamo dovuti dotare di un magazzino con celle frigorifere e freezer – ricorda Marina -. Non prepariamo noi i prodotti, li acquistiamo tenendo bene in considerazione la qualità. La giornata comincia attorno alle quattro del mattino, si carica, si preparano i forni e le friggitrici e si parte». Sul versante delle carni fresche arrostite, i must sono polli, cosce, ali e costine, ma ci sono anche arrotolati di pollo, di coniglio o di lonza di maiale con ripieni vari e di varie dimensioni e ancora stinchi, spiedini. I fritti vanno dalle patatine alle verdure, dalle crocchette alle mozzarelline, alle olive. «Il nostro segreto? Come detto la qualità dei prodotti, che ci costano un po’ di più ma la differenza si sente e i clienti ce lo dimostrano – rileva -. E poi il sorriso, la voglia di scambiare qualche parola, che fa sempre piacere, e il servizio. Sono sempre meno le persone che hanno tempo per cucinare e poter passare al mercato e prendere tutto pronto è una comodità. Molti oggi ordinano per telefono e passano a ritirare il loro pacchetto caldo all’ora di pranzo».

Eros Corradini

Il primo ad allestire il bar al mercato «E ora si fa anche l’aperitivo»

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ecuperando una licenza del padre chiusa in un cassetto, Eros Corradini di Azzano San Paolo è stato il primo in Bergamasca, nel 1989, a portare il bar al mercato, realtà che restano poco diffuse. È presente con i suoi 50 posti a sedere nelle piazze più grosse e attrezzate – come Dalmine, Osio Sotto, Trezzo, Calusco – per poi spostarsi nei fine settimana al seguito di manifestazioni, in primis quelle sportive, di ogni ordine e grado: dalla Formula Uno ai concorsi ippici, dalle gare di cani a quelle di frisbee. Insomma, in tutte quelle situazioni in cui serve un servizio di somministrazione temporaneo, arriva in soccorso con il suo camion bar. «L’attenzione al cibo e la riscoperta dello street food – dice – rendono

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l’attività ambulante un’opportunità di lavoro, ma anche per far conoscere piatti tipici e tradizioni. Ci sono giovani che si stanno interessando, peccato per le complicazione burocratiche, tra richieste di permessi e limitazioni». La sua offerta varia in base alla situazione. Caffetteria e brioche, panini, focacce, piadine e tost, salamelle, wurstel, verdure grigliate, ma anche polenta, funghi, formaggi. «Al mercato siamo i primi a essere operativi, attorno alle 5.30, per servire gli ambulanti. Cominciamo con caffè e colazioni, proseguiamo con i panini - e verso le otto c’è già qualche collega che ha bisogno di energia -, fino all’aperitivo con tanto di vini e stuzzichini. La mancanza dell’acqua ci costringe ad usare esclu-

sivamente contenitori usa e getta. Se è vantaggio dal punto di vista igienico, è un limite per l’aspetto sensoriale e qualitativo». A superarlo ci pensa lo speciale contesto. «Al mercato o nelle manifestazioni – spiega Corradini – si tratta sempre di situazioni attrattive e di svago. Ciò che caratterizza il nostro lavoro è un rapporto diretto e schietto. Noi facciamo del nostro meglio per trattare bene la gente, il resto lo fa l’atmosfera. Nel bar del mercato il clima è di amicizia, si parla un po’ tutti, è l’occasione per stare in mezzo alla gente».


giugno 2015 la pioniera

Marcelle, «così dal Belgio ho portato le patatine fritte a Bergamo»

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n Italia non vengo perché non ci sono le patatine fritte», aveva detto a mo’ di provocazione 47 anni fa la giovane Marcelle Gibert al marito che progettava di rientrare in patria dal Belgio, dove - lei belga, lui figlio di emigranti bergamaschi - si erano conosciuti e sposati. Invece in Italia ci è venuta, ma ci ha portato anche le patatine fritte dalla sua terra, che si vuole (la disputa con i francesi è aperta) abbia dato i natali ai famosi bastoncini, oggi il più abituale dei contorni o degli snack ma una cinquantina di anni fa pressoché sconosciuti all’ombra delle Orobie. Da quella battuta l’idea del lavoro che insieme avrebbero potuto fare nel nuovo paese. «Avevo 24 anni ed avevo studiato da cuoca, mio marito era perito meccanico – ricorda –, abbiamo intuito che poteva essere un’opportunità e ci siamo costruiti da soli il mestiere». Gli esordi sono stati su un furgone al Ponte del Costone in Val Seriana e, in Val Brembana, a Zogno ad intercettare il flusso di gitanti di ritorno dalla montagna la domenica (come non ricordare l’acquolina e la tentazione di una sosta?). Poi sono arrivati i mercati e la proposta si è ampliata con polli allo spiedo, wurstel e spiedini. Oggi Marcelle, la pioniera delle patatine, ha 71 anni e dirige con piglio deciso e la parlantina schietta di chi è abituato a vivere la piazza la rosticceria ambulante La Casalinga, con sede a Torre Boldone, che arriva ad impiegare anche sette persone, tra cui la figlia Fulvia Colombi, il genero e il socio Mario. Mentre il marito ha preso la via della Spagna portando anche lì le patatine on the road. «Ora le domeniche non lavoriamo più – spiega -. Siamo presenti in sei mercati settimanali (nell’ordine da lunedì a sabato: Bergamo, Calolziocorte, Alzano, Nembro, Ponte San Pietro e Gazzaniga) e l’offerta si è moltiplicata. Abbiamo ben 56 prodotti diversi, tra polleria arrosto e fritti». Davanti al bancone c’è l’imbarazzo della scelta: polli, arrotolati di vario genere, cosce, spiedini, ali, anche piccanti alla messicana, quaglie. E sul versante dei fritti, accanto alle classiche patatine e crocchette, ogni sorta di verdura pastellata, bocconcini, fagottini, panzerotti. L’evoluzione del gusto e dei tempi ha portato anche le carni certificate halal, per rispondere ai dettami religiosi dei clienti musulmani. «Si tratta di prodotti già pronti per la cottura, fresche le carni, surgelate le fritture, che poi cuociamo direttamente sul furgone e facciamo trovare sempre caldi - racconta -. La gamma si è ampliata grazie a ditte specializzate che offrono grande scelta e, per certi versi, hanno semplificato il lavoro». Gli inizi, infatti, sono stati tutt’altra cosa. «Utilizzavamo patate fresche – ricorda Marcelle -. Siccome sul

Marcelle Gibert furgone non c’era l’acqua le pelavamo in sede, prima a mano, poi è arrivata una macchina, e le trasportavano in contenitori appositi immerse nell’acqua. Una volta sul posto le tagliavamo e le friggevamo». La tecnica è quella belga: una prima frittura, si levano dall’olio, si lasciano asciugare e si ributtano per alcuni minuti al momento di consumarle per ottenere lo speciale mix tra esterno croccante e interno morbido. Un procedimento che la signora consiglia a chi vuole prepararle in casa. «Nella ristorazione invece – evidenzia – non c’è più nessuno che parte dal fresco, le patatine surgelate hanno avuto la meglio. Sono una comodità ed è inutile negarlo. Tutto sta nello scegliere prodotti di qualità e nel friggerle al meglio». «Come va l’attività? Lo scorso anno un po’ di crisi l’abbiamo sentita, adesso i consumi sembrerebbero in ripresa. Speriamo che quest’estate ci sia bel tempo...».

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focus Pink Cafè

«Troppe spese nel bar tradizionale, ho scelto le ruote»

Fabio Nisoli e Angelica Ferrari

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al bar in sede fissa a quello su ruote. È stata la scelta di Fabio Nisoli, 46 anni, per alleggerire costi di gestione che erano diventati insostenibili. «Per otto anni ho avuto un

bar a Caravaggio, il Pink Ciok – racconta – ma le spese, tra aumento dell’affitto, utenze, costi per il personale e tasse, affossavano i ricavi e non aveva più senso andare avanti. Fare il barista mi piace, salendo a bordo di un furgone ho cercato un modo un po’ più agile per continuare a lavorare». Dal Pink Ciok è passato così al Pink Machine Cafè. «Riusciamo a gestire l’attività io e la mia compagna, senza dipendenti, e non abbiamo più un affitto, anche se spese e oneri non mancano neanche in questa versione». «Siamo partiti da un anno – prosegue – e dobbiamo ancora costruirci il nostro giro. Per ora siamo nei mercati di Seriate, Cassano e Inzago. A Seriate il bar al mercato è stato una novità e sta diventando una piacevole abitudine. Facciamo prevalentemente colazioni. I primi ad arrivare sono gli ambulanti, poi i clienti del mercato, tutti apprezzano la possibilità di sedersi ai tavoli e fare una pausa. D’inverno chiudiamo la veranda e si sta un po’ più al caldo. Caffè, cappuccini e brioche fresche sono ciò che va di più, ma anche panini, più che altro per gli ambulanti». Come nei bar di vicinato, c’è anche la tessera fedeltà che regala una consumazione ogni dieci. «Ampliare la proposta o introdurre qualcosa di nuovo non è così semplice – fa notare la compagna Angelica Ferrari -. Lo spazio sul furgone è limitato e poi bisogna fare i conti con la disponibilità di energia elettrica. Se non c’è l’allacciamento alla rete e si usa il generatore non si possono attaccare troppe attrezzature». Ciò che il gestore può fare, semmai, è capire i gusti di ciascuna piazza e organizzare di conseguenza l’offerta. «In pratica è come gestire tanti bar quante sono le piazze in cui si è presenti e anche pratiche e incartamenti si moltiplicano», conclude Angelica.

La curiosità sul banco

E l’ambulante si inventò la pizza in

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Massimo Cremonesi

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a furgoni e autonegozi arrivano le soluzioni per chi non ha tempo per cucinare, ma anche idee per riscoprire il piacere del fatto in casa. Capita al banchetto di Massimo Cremonesi, 46enne di Fontanella, da 23 al lavoro nei mercati della Bergamasca. Accanto ai formaggi, salumi, latte, uova e confezioni alimentari hanno fatto la comparsa “strane” lattine che assomigliano a quelle della vernice. Dentro c’è la speciale miscela di farine e lievito che lui stesso ha messo a punto per realizzare con successo la pizza in teglia “Milano style”, ossia quella alta e soffice con bordo e base croccanti. L’ha chiamata Pizza Paatz. «In realtà non ho inventato nulla – dice -, esistono già da tempo confezioni

che contengono l’occorrente già dosato per fare la pizza. Ciò che ho fatto è stato selezionare materie prime di qualità e trovare il giusto rapporto tra loro per un prodotto finale buono e digeribile». «Sono partito da una mia esigenza – ricorda -, tra le pizze che mangiavo in giro mi era sempre più difficile trovarne di digeribili. Così mi sono messo a provare il mio mix ideale». Nel barattolo sono finite farina 00, 0 e integrale macinate a pietra e anche da agricoltura biologica e lievito di birra naturale: un totale di 480 grammi per un impasto che riempie tutta la teglia del forno. Dalla ricetta “ad uso personale” alla condivisione con i clienti il passo è stato breve. «È un ritorno alla semplicità, di cui


giugno 2015 Gaetano Giavarini

«Oggi lavorare in piazza è diventato più difficile»

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iere e manifestazioni sono la specialità di Gaetano Giavarini, di Osio Sopra, 51 anni, da 24 nel settore. Quando lo raggiungiamo è appena rientrato dalle tappe di Cervinia e Sestriere del Giro d’Italia. Tra le fiere, la più lontana che frequenta è quella di Tirano. Dal suo furgone sforna panini con porchetta toscana e verdure grigliate al momento, hot dog, wurstel con crauti e senape, piadine, patatine fritte e caffè. Di ogni piazza conosce i gusti. «Nelle fiere della Bergamasca non c’è la tradizione di mangiarsi un panino, si preferisce la frittella, ma basta passare l’Adda che la merenda si fa più sostanziosa», svela. E non nasconde nemmeno le difficoltà del mestiere. «Purtroppo oggi la gente guarda sola al prezzo e non tiene conto di altri aspetti, come la qualità e la freschezza delle materie prime, la pulizia e l’ordine con cui si preparano i piatti. Basta un euro di differenza e tutti questi elementi passano in secondo piano»,

dice un po’ sconsolato. A ciò si aggiungono veti e limitazioni. «A San Siro, per esempio, capisco che ci sia una regola per le partite di calcio, ma per eventi come grandi concerti potrebbero esserci un po’ più di opportunità per tutti». Discutibile anche la scelta del Comune di Bergamo per la fiera di Santa Lucia di utilizzare solo gazebo tutti uguali. «Che senso ha chiedere di scendere da un autonegozio che ha tutte le strutture e le attrezzature adeguate secondo le previsioni dell’Asl per la sicurezza e l’igiene alimentare e portare l’attività a terra? – si domanda Giavarini -. Significa rendere meno sicura la somministrazione in nome di un puro effetto estetico. Il veto agli autonegozi mi ha fatto perdere quel lavoro dopo dieci anni di presenza». «Sembra che ci sia un accanimento generale contro le attività, dal fisco alla burocrazia – conclude -. Basta sbagliare di un giorno nel presentare una domanda e si perde un’opportunità».

barattolo oggi si sente l’esigenza – fa notare -, una pizza genuina, fatta con farina, lievito, sale, olio e acqua. I clienti apprezzano, forse perché si sta riscoprendo il piacere di fare in casa». Il risultato è pressoché assicurato: «Dipende un po’ dalla manualità di ciascuno – rileva -. Magari servono una o due lattine di prova per calibrare esattamente il procedimento, ma poi ci riescono tutti». Il suggerimento è di farcirla con pomodoro e mozzarella, che, tra l’altro, si posso trovare sul banco del mercato dove Pizza

Paatz ha avuto l’effetto di vivacizzare l’offerta e solleticare la voglia di provare qualcosa di nuovo in cucina. La si può trovare nei mercati in cui Cremonesi è presente, nell’ordine, dal martedì al sabato, Azzano, Osio Sopra, Brignano, Ranica e Mariano di Dalmine. Ma l’obiettivo è ampliare la commercializzazione anche attraverso il web. «Intendo registrare la ricetta, per tutelarla, e poi sviluppare la presenza su internet. Una cosa che farò è un video su Youtube che mostra l’intero procedimento, così sarà ancora più chiaro come prepararla». Per aggiornamenti e contatti la pagina Facebook è Pizzapaatz.

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FACECOOK

alla scoperta del social chef

di Laura Ceresoli

Jack, «a Filadelfia inseguo il sogno americano» Soprannome yankee, Matteo Donadoni ha alternato esperienze negli Stati Uniti a ritorni alle radici orobiche. Da gennaio è manager all’Osteria Philly. «All’estero si hanno più opportunità di carriera»

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ameriere, che piatto mi consiglia?», chiede indeciso un robusto cliente statunitense nel leggere con attenzione il ricco menù dell’Osteria Philly. Porchetta tonnata, ravioli alla robiola, polenta e coniglio o pizza al taleggio sono una forte tentazione per il suo stomaco affamato. Difficile biasimarlo, d’altronde. Abituato com’è a tutti i prodotti industriali e confezionati propinati dalle grandi ca-

tene di distribuzione, l’americano medio sembra spaesato quando si trova di fronte a un vero ristorante italiano dove la qualità enogastronomica regna incontrastata. È in questo locale di Filadelfia, in cui i classici della cucina mediterranea si mischiano ai sapori più strutturati del nord Italia, che il 40enne bergamasco Matteo Donadoni ha trovato casa da pochi mesi. Sono stati gli chef Jeff Mi-

chaud e Marc Vetri a volerlo come manager in uno dei loro locali. Nato e vissuto a Pontida, Jack (come tutti lo chiamano negli Usa) ha iniziato a muovere i primi passi nell’ambito della ristorazione all’età di 15 anni per pagarsi gli studi. Finita la scuola, tra il 1994 e il 1997 ha lavorato per il ristorante Frosio e poi è partito per la California dove lo chef siciliano Piero Selvaggio gli ha offerto un

L’INTERVISTA

«Qui tutto viaggia sul web. Il 90% delle prenotazioni è on line» Con quali piatti cerca di far conoscere la cucina bergamasca agli americani? «All’Osteria serviamo piatti di cucina nord italiana tra cui polenta e coniglio, schissol, casoncelli. Insomma, cerchiamo per quanto possibile di comunicare la tradizione e la cultura bergamasca». Quanto è importante internet per promuovere la sua attività? «Qui in America il 50% del business è basato sui social media. Ogni giorno dobbiamo mettere un post in Facebook, Twitter, Instagram. Tutto viene comunicato via internet, sia usando il sito sia tramite email. Il 90% delle prenotazioni viene fatto via web». Cosa ne pensa delle recensioni di Tripadvisor? «Penso che Tripadvisor sia utile, ma va preso con le pinze. Non credo a tutto quello che si dice, la recensione di un ristorante è

Matteo “Jack” Donadoni

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giugno 2015 posto nel suo locale di Valentino, a Santa Monica. Nel 2001 è ritornato alle radici orobiche, dapprima al Donizetti in Città Alta, poi all’enoteca cittadina Vini e Spiriti di via Paglia, allora di proprietà di Pellegrini Distribuzione. Ma la nostalgia per gli Stati Uniti è tornata ben presto a farsi sentire. A fine 2006, Matteo si è trasferito a Filadelfia dove alcuni amici americani lo hanno voluto come manager e sommelier per il loro ristorante. Tra il 2009 e il 2015, Donadoni ha alternato una serie di lavori come manager, gestore di cucina e chef in alcuni locali orobici tra cui la Cafeteria a Treviolo e la Cantina di Via Colleoni in Città Alta. Dopo aver gestito per due anni la nuova salumeria gastronomia di Ol Fà di Osio Sotto, a gennaio di quest’anno Jack ha deciso di inseguire ancora il sogno americano. E così ora è manager all’Osteria di Filadelfia: «All’estero – spiega Donadoni – si hanno più opportunità di crescita in carriera. Puoi gestire in full un ristorante e interagire con molte persone. All’Osteria dove lavoro attualmente si contano circa 35 dipendenti. A Bergamo, invece, le realtà prevalenti sono piccole imprese o famiglie, il che rende vana la possibilità di gestire in pieno qualsiasi cosa. Inoltre mettersi in proprio oggi è molto difficile, richiede troppi soldi». Forte dei suoi 3.502 “mi piace” su

Facebook, la pagina dell’Osteria Philly conta 341 recensioni. Merito dei continui aggiornamenti e delle numerose foto che immortalano i succulenti piatti che escono dalla cucina del locale. «Cibo eccellente e ben servito da staff competente», scrive Linda Chill Ellis. «Osteria è la miglior esperienza gastronomica di Filadelfia», dice Susan Matthews. E anche su Tripadvisor i giudizi positivi non mancano: «Ristorante molto raffinato che ricorda molto le osterie tipiche dell’Umbria e della toscana. Il cibo è ottimo. Ovviamente non puoi aspettarti di mangiare come in Italia, ma vista la distanza e il cibo americano, questa è da considerare un’oasi nel deserto», commenta Giorgio Magnio di Avellino. «Il locale ricorda le vere trattorie italiane, con tavoli rustici e tovaglie in carta. È ben frequentato e parecchio affollato, quindi non proprio ideale per una cena di lavoro nella quale si vuole parlare in tranquillità. L’offerta culinaria è discreta, ma risulta di media qualità per i gusti a cui è abituato un vero italiano. Carta dei vini molto buona», spiega invece Lorenzo B di Voghera. Su 275 recensioni, 136 utenti lo giudicano “Eccellente”, 71 “Molto buono”, 46 “Nella media”, 12 “Scarso” e 10 “Pessimo”. E così attualmente l’osteria è al 98esimo posto su 3.851 locali presenti a Filadelfia (www.osteriaphilly.com).

molto personale e soggettiva. Io preferisco provare di persona». Com’è cambiata la ristorazione e il rapporto con i clienti grazie ai nuovi media? «Per me è peggiorata, non si ha più la sorpresa di andare in un ristorante, si sa già tutto prima e a volte si esagera. Troppi post o tweet diventano noiosi. Penso anche che non si debba sempre per forza scrivere una recensione. A volte il ristorante non è perfetto, ma, se si è in ottima compagnia, si passa comunque una felice cena». Un difetto dell’America? «La mancanza di cultura enogastronomica. Molti clienti non capiscono cosa ci sia dietro un piatto di pasta o un secondo. Tuttavia le cose stanno un po’ migliorando col passare del tempo». Gli stranieri hanno ancora una visione stereotipata della cucina italiana? «A Filadelfia è così. Qui ci sono molti italiani immigrati negli anni Trenta dal sud e per loro cucina italiana significa ancora spaghetti e polpette, veal scaloppini, chicken con marsala, funghi o vino bianco. E soprattutto aglio in abbondanza!» Cosa le manca di Bergamo? «La famiglia, gli amici, il vivere contadino, la polenta e i prodotti artigianali. Qui quasi tutto è industriale, bisogna leggere bene le etichette dei prodotti per valutare al meglio gli ingredienti. In Italia, invece, si va sulla fiducia perché di media è tutto più sano».

Gromoil quarto il quarto concorso AA Gromo concorso

Formaggi, ecco i campioni dell’Alta Val Seriana La sfida in quel di Gromo tra i formaggi locali ha emesso anche quest’anno i suoi verdetti premiando i migliori produttori di Formaggella della Val Seriana, stracchino e formaggio di monte nella quarta edizione del concorso caseario “Gromo sempre in forma”. La manifestazione, promossa per favorire il confronto e promuovere i prodotti del territorio, ha sottoposto i campioni ad un duplice giudizio, quello degli esperti assaggiatori dell’Onaf e quello di una giuria popolare. La giuria Onaf ha premiato nella categoria formaggella Marco Del Bono dell’Azienda Agricola Prat di Bus di Ardesio e, seconda classificata, Claudia Riccardi (Azienda Agricola Riccardi di Gromo). Tra gli stracchini ha avuto la meglio Luigi Nicoli (Società Agricola Clusven di Gandino) mentre Claudia Riccardi si è nuovamente piazzata al secondo posto. Per il formaggio di monte la palma del migliore se l’è guadagnata l’Azienda agricola Bosio Loredana di Casnigo precedendo Giulio Baronchelli (Bottega degli Antichi Sapori di Oltressenda Alta). Per la giuria popolare invece il miglior formaggio è stato lo stracchino di Luigi Nicoli (Società Agricola Clusven), seguito dal formaggio di monte dell’Azienda agricola Bosio Loredana e dalla formaggella di Giulio Baronchelli. Il concorso si è svolto sabato 30 maggio nel corso della manifestazione che nel bel borgo di Gromo ha offerto diverse occasioni per conoscere ed assaggiare i formaggi e le produzioni agricole.

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L’intervento di Enrico Rota

Il ruolo del Consorzio Tutela Valcalepio e della Vignaioli Bergamaschi a supporto dei produttori che vogliono esportare

Facile parlare di mercati esteri. Più difficile compiere il grande passo

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n questi ultimi anni sono state frequenti le voci che hanno invitato i produttori italiani a rivolgersi al mercato estero, a sfruttare le potenzialità che il made in Italy offre in molte aree del pianeta. Essendoci di mezzo il vino, il gioco - dicono consulenti e addetti ai lavori - dovrebbe essere tutto più facile, visto il successo raggiunto da molti produttori italiani oltreconfine. Tuttavia, è piuttosto frequente constatare come tali inviti si limitino a semplici frasi propagandistiche, quasi alla stregua di facili espedienti per rispondere a chi si interroga sui limiti del mercato interno. Il più delle volte, infatti, chi parla non sembra tener in giusta considerazione il grosso impegno che l’ingresso nel mercato estero richiede a ogni produttore, soprattutto se medio-piccolo. Per affrontare i mercati internazionali, infatti, è necessario vantare determinati requisiti in termini non solo di quantitativi (assurdo pensare di rivolgersi ad un mercato enorme come la Cina se la nostra produzione non è in grado di rispondere alla richiesta dei clienti che, è facile da immaginare, nella maggior parte dei casi si attesterebbe su quantità piuttosto consistenti) ma anche di struttura interna e disponibilità di determinati asset: tanto per citare alcuni esempi, vanno considerate la capacità di relazionarsi con l’estero attraverso proprietà linguistiche adeguate; va approfondita la conoscenza di necessari strumenti burocratici e finanziari, come il deposito fiscale; va valutato il rapporto

con distributori locali. Il tutto senza tralasciare l’indispensabile conoscenza del mercato che ci si propone di affrontare. Non si può andare negli Stati Uniti, in Germania o in Giappone senza conoscere i gusti dei consumatori, le opportunità e le difficoltà di quei mercati, le legislazioni in materia e via a seguire. Ciò detto, è innegabile che l’estero rappresenti un’interessante e affascinante opportunità e che sia importante per le aziende del nostro territorio strutturarsi e adeguarsi ai requisiti di tale avventura. Ecco perché già da alcuni anni il Consorzio Tutela della Valcalepio e la Vignaioli Bergamaschi si sono messi al fianco dei produttori vitivinicoli bergamaschi per quanto riguarda i progetti legati all’estero. In particolare, le attività sono legate a piani di supporto economico regionali e/o europei definiti Ocm Vino che si concentrano sui cosiddetti Paesi Terzi, ossia che escludono i paesi dell’Unione Europea. Tanto per citare un esempio davvero significativo, la Vignaioli Bergamaschi ricopre attualmente la presidenza di un’associazione chiamata “Dop in the World” che ha proprio lo scopo di gestire fondi legati all’Ocm Vino per i prossimi anni. Estero sì, quindi, ma cum grano salis, adeguando la propria struttura e i propri mezzi alla sfida che si decide di affrontare affinché gli sforzi non vadano sprecati e gli obiettivi siano meglio delineati e più facili da raggiungere.


giugno 2015

IL PIATTO

di Laura Bernardi Locatelli

Versatile e veloce da preparare, accompagna con gusto anche aperitivi e pic nic. Chi vuole, può dar sfogo alla creatività e reinterpretare a piacimento uno dei piatti da sempre presente in cucina. Ecco qualche consiglio

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La frittata è fatta! on l’arrivo dell’estate esplode il desiderio di gettare un plaid sull’erba e di godersi la pausa pranzo spiluccando - meglio se in ordine sparso alla faccia di protocolli e regole che vigono a tavola - specialità portate da casa nel mitico cesto di vimini o, per i più sportivi, nello zaino. Una ricetta perfetta da infilare nel pranzo al sacco è la frittata, piatto da sempre cucinato in casa, per troppo tempo bistrattato e snobbato, che sta tornando in auge nella versione anche gourmet. Dalla sua ha la versatilità, la facoltà di essere gustata anche fredda o tiepida, la velocità di preparazione e la possibilità di interpretare con creatività un alimento basilare e neutro come l’uovo, spesso messo in ombra da ingredienti più costosi. È tempo di concedere uno sguardo moderno su uno degli alimenti più antichi, dalle alterne fortune, e di rispolverare ricette delle nonne, anche di riciclo, come la frittata di spaghetti, o di grande gusto come quella con fave e pecorino. Con l’arrivo della bella stagione le galline chiocciano e le uova nella loro perfetta forma sono uno scrigno di sostanze fondamentali, dalle proteine ai lipidi, dal ferro allo zinco, vitamine A e B, e l’elevato contenuto di colesterolo che spaventa molti è mitigato dalla presenza di

La Chef

Marsetti: «Mille modi per prepararla, ma attenti alle dosi e agli strumenti di cottura»

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on esiste pic nic o pranzo al sacco senza frittata. Ne è convinta Francesca Marsetti, chef che si è guadagnata sin da ragazza un posto nella Nazionale Italiana Cuochi. Ha fondato la sua Officina del Gusto, che la vede impegnata come consulente e chef a domicilio, insegna all’Accademia del Gusto e tiene alta la nostra ristorazione anche in tv, partecipando a trasmissioni seguitissime

Francesca Marsetti

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IL PIATTO

Quaglia Bergamasca via Diaz, 41 Ponte San Pietro

L’ALLEVAMENTO lecitine e fosfolipidi, tanto da essere riabilitato da diversi nutrizionisti. E l’uovo di gallina può essere alternato a quello di gallinella, anatra, oca, struzzo, tacchina, anche se di non facile reperibilità. Si trovano invece senza difficoltà tra gli scaffali le uova di quaglia, insostituibili per chi soffre di allergia e uno dei capisaldi dell’alimentazione asiatica che ora si sta facendo largo anche nelle nostre cucine, dopo esser state proposte solo nell’alta ristorazione. A pochi chilometri da Bergamo, a Ponte San Pietro, abbiamo uno dei pochi allevamenti italiani, punto di riferimento per tutta la Lombardia. Frittate e quiche sono da sempre una delle preparazioni gastronomiche base: non mancano alcune dritte su dove gustarle al meglio in città, oltre ai consigli dello chef, Francesca Marsetti, e del gastronomo Jean Dominique Verdier.

Il boom delle uova di quaglia sempre più bergamaschi appassionati L

a storia dell’allevamento “Quaglia Bergamasca” risale ad oltre cinquant’anni fa, quando nel 1964 Pietro Manzoni decide di rilevare da un vicino di casa i primi capi e di avviare così una piccola attività imprenditoriale in Valle Brembana, prima a San Pellegrino e poi a San Giovanni Bianco. L’attività fornisce il Grand Hotel di San Pellegrino, all’epoca ancora meta di una clientela internaPietro Manzoni zionale, dell’aristocrazia e alta borghesia europea, oltre che sede prescelta dell’Inter di Mago Herrera per il ritiro della squadra e buen retiro per Federico Fellini e Giulietta Masina. Le uova di quaglia sono apprezzate soprattutto nell’alta cucina e nella Bergamasca faticano ad affermarsi, anche se Manzoni inizia a fornire negozi e pollerie in tutto il territorio. E tutti i lunedì alla Borsa Merci in

come “La prova del cuoco”. «La frittata non può mancare nel cestino da pic nic, come la polenta con le sarde nella versione più autentica del pranzo da scampagnata - spiega Marsetti, che prepara cestini gourmet pronti ad essere abbinati a visite e vini delle cantine della Franciacorta -. La frittata è estremamente versatile e si possono mettere a punto diverse ricette, da quella più tradizionale con radicchio selvatico a sapori più ricercati e complessi. Preparata al forno risulta più leggera, oltre ad essere decisamente più facile da realizzare». È importante come non mai rispettare proporzioni e dosi, a partire dalla scelta dello strumento di cottura: «Un errore comune è quello di usare padelle o teglie troppo grandi. La frittata deve essere bella alta e pronta ad

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essere tagliata a cubetti. Se risulta troppo bassa, allora suggerisco di utilizzarla alla stregua di un tramezzino da farcire: con crescenza e rucola, ad esempio, il successo è garantito. La frittata poi può essere ancora più leggera - oltre che proteica - se preparata con soli albumi. E perché limitarsi alle sole uova di gallina? Se quelle d’oca, anatra e struzzo non sono facili da trovare, si possono sempre impiegare quelle di quaglia». C’è solo l’imbarazzo della scelta per preparare una frittata gourmet: «Basta aggiungere a metà cottura su un’ottima base di uova e scalogni appassiti dei cubetti di taleggio per ottenere una frittata di grande gusto. D’autunno e inverno mi piace sempre preparare anche una frittata con champignon e patate, un abbinamento classico, ma che sorprende sempre al gusto. Ci


giugno 2015 Piazza della Libertà scambia e riceve ordini con i commercianti nel corso di frenetiche e incrociate trattative. L’attività inizia a svilupparsi anche nel resto della Lombardia e nei mercati si gettano le basi per forniture in tutta la regione, dal Milanese ai laghi, in particolare negli alberghi e nei ristoranti nella stagione di villeggiatura. Oggi l’allevamento di Ponte San Pietro, che gestisce ogni fase, dalla fecondazione dell’uovo all’incubazione, dallo svezzamento all’ingrasso, alla macellazione di quaglia gigante, alla vendita di quaglie selvatiche per addestramento cinofilo e ripopolamento, è un punto di riferimento per tutta la Lombardia. La gestione produttiva è a ciclo chiuso; è posta molta attenzione all’alimentazione e al mantenimento degli animali con mangimi di qualità. «Le quaglie vengono macellate non prima dei 45 giorni di vita, contrariamente ai 25-26 giorni degli animali destinati all’ingrosso e alla grande distribuzione - spiega Pietro Manzoni che gestisce l’attività con il prezioso aiuto dei figli, a partire da Marco, attuale titolare dell’azienda agricola -. Se le carni sono da sempre apprezzate e le ricette non mancano nei più classici manuali di cucina, le uova stanno vivendo una stagione d’oro. Il consumo è cresciuto enormemente: gli ordini hanno un incremento all’ingrosso e cresce anche il numero di privati che ci visita in azienda. Le proprietà della quaglia sono note da millenni in Asia, mentre in Italia il consumo è iniziato solo nel Dopoguerra. A Bergamo ha faticato a farsi

strada: ricordo in oltre trent’anni di mercato alla Celadina che a svuotare le ceste di uova erano soprattutto cinesi. Ora, grazie anche a medici e nutrizionisti che ne raccomandano il consumo, consigliato soprattutto ai bambini e a chi soffre di allergie, le uova di quaglia - gustate a crudo per mantenerne le proprietà - sono diventate la colazione per moltissimi bergamaschi. Come le altre uova si possono cucinare in mille modi, anche naturalmente in frittata: basta solo avere la pazienza di rompere molti gusci, dato che cinque uova corrispondono ad un uovo di gallina».

La ricetta di Francesca Marsetti

Frittata con fiori di zucchina e bottarga di tonno Ingredienti per un tortino 1 uovo grande 4 fiori di zucchina 20 g di panna fresca

30 g di parmigiano 20 g di bottarga

Usare i fiori di zucchina precedentemente puliti per foderare lo stampo. Sbattere bene le uova e aggiungere il resto degli ingredienti compresa la bottarga. Cuocere in forno caldo a 170 gradi per circa 18 minuti e da tiepida servire decorano con poca bottarga e insalatine novelle. Se lo stampo non è in silicone abbiate cura di imburrarlo leggermente. si può sbizzarrire tutto l’anno con le verdure, ma d’estate si può servire con dei pomodorini confit, aggiunti sempre a metà cottura in forno, un escamotage per evitare che sprofondino nel composto di uova altrimenti ancora liquido». Spazio alla fantasia e alla bella stagione con ricette che portano col pensiero in riva al mare: «Una frittata dal sapore ricercato, ma al tempo stesso delicata e di grande equilibrio, può essere a base di fiori di

zucchina e bottarga di tonno. È una ricetta che mi piace realizzare spesso. Può essere preparata tranquillamente anche a casa, avendo però cura di rinunciare del tutto o quasi al sale, data la sapidità della bottarga. Solo alla fine si aggiungono i fiori di zucchina, che vanno anche a decorare il piatto. Per un tocco da chef basta una grattugiata della scorza di un limone bio sopra, un attimo prima di servire a tavola». Sarà per effetto della crisi, ma la frittata si sta

rivalutando, come amouse-bouche o aperitivo, o ancora come finger-food nei buffet: «I piatti poveri non hanno mai avuto i riflettori così puntati addosso - continua la chef -. Impazzano street-food e piatti di antica tradizione, rivisitati in chiave moderna. Il desiderio di andare alle radici della nostra cultura alimentare non è mai stato così forte, come testimonia anche la valorizzazione dei prodotti tipici e del territorio. Non esiste ingrediente più semplice, versatile e basilare dell’uovo: Cracco ne ha fatto un manifesto con la sua versione marinata. Si è fatta molta strada e ricerca dall’occhio di bue all’uovo sodo delle nonne. La stessa frittata ha tutte le carte in regole per essere riportata in auge: dalla sua ha anche i valori nutrizionali che ne fanno un pasto completo, da consumare con tranquillità una volta alla settimana». www.francichef.it

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IL PIATTO La gastronomia

Verdier: «Peccato che l’uovo non sia L

a gastronomia Verdier di via Palazzolo, a Bergamo, è la sintesi felice di due cucine che da sempre si guardano da vicino, si inseguono e a volte si rinnegano a vicenda, come quella italiana e francese. Jean Dominique Verdier, originario di Limoges, forte di un’esperienza internazionale che lo ha portato da Bordeaux alla Svizzera, per approdare poi da Peck a Milano nel ristorante prima e poi nel tempio italiano della gastronomia, gestisce con la moglie Ornella Sironi, bergamasca, l’indirizzo gourmet italo-francese a due passi dal centro della città. Oltre ad essere gastronomia d’asporto, il locale è un luogo dove concedersi una pausa pranzo o dove darsi appuntamento con gli amici la sera per gli eventi a tema. Le “Serate in gastronomia”, in programma almeno una volta a settimana, regalano viaggi golosi alla scoperta di materie

Jean Dominique Verdier prime e ricette provenienti da tutto il mondo. L’uovo non ha segreti per Verdier, che elenca innumerevoli punti di cottura e ricette: «C’è l’uovo barzotto, in camicia, al tegamino, l’ouefs sur le plat, strapazzato, al forno,

in cocotte, al vino, marmorizzato nel tè nero…- continua ad elencare lo chef-gastronomo francese -. L’uovo è l’alimento più completo e spettacolare che la natura ci ha regalato, ma è sottovalutato e non ha lo spazio

DOVE Sweet Irene via Sant’Orsola, 22 Bergamo

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Da Sweet Irene anche quiche e flan. E quel che avanza si porta a casa

weet Irene, pasticceria e caffetteria di via Sant’Orsola e indirizzo consigliato per una pausa pranzo a tutta salute, da un anno abbraccia, con l’entusiasmo e la passione che accompagna Luca e Irene Gibertini, la filosofia vegetariana. Non manca una proposta vegana, con tanto di organizzazione di serate con l’associazione Lav e l’inserimento di alcuni piatti in menù che bandiscono grassi e proteine di derivazione animale: tofu e seitan vengono preparati rigorosamente in casa. Frittate, quiche e flan sono sempre presenti nella proposta giornaliera che varia a seconda della disponibilità del momento e della stagione. Da non perdere la frittata con radicchio e olive taggiasche, d’autunno con zucca e zenzero, con i primi freddi con indivia belga e patate, mentre tutto l’anno viene riproposta

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con porri e cipollotti. Le verdure, rigorosamente bio, vengono fornite dalla Cooperativa Aretè. Il sedano rapa si presta ad essere usato come addensante, oltre che a dare una marcia in più alle ricette, mentre chi non rinuncia ai formaggi può lasciarsi conquistare da frittate e flan che alle verdure abbinano feta e formaggio di capra. I più convinti possono optare per ricette con farina di ceci e besciamella di soya, a prova vegana. Tutte le specialità - disponibili se non in menù previa ordinazione - possono essere consumate nel locale o portate via. E, dato che le porzioni sono tutt’altro che striminzite, tutto ciò che avanza nel piatto viene proposto nell’apposita scatola da portare a casa, grazie anche all’adesione al circuito “Il buono che avanza”, la prima rete di ristoranti contro lo spreco alimentare.


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valorizzato come merita» che meriterebbe in cucina. E molti lo evitano, dato che come il burro è stato messo alla gogna per il contenuto in colesterolo del tuorlo, quando l’industria ci propina ogni giorno grassi trans e idrogenati». Omelette, frittate, tortilla e quiche non hanno nulla da invidiare ad altre ricette quanto a gusto. Nel locale si possono acquistare - e prenotare - diverse quiche: dalla Petatù, a base di patate lessate e formaggio di capra, alla classica Lorraine, dall’Honfleur con salmone e porri a quella di cipollotti: «L’omelette, preparata a regola d’arte, con burro e dalla forma perfetta ovale, dorata all’esterno e “baveuse” all’interno, si presta ad accogliere ripieni e farciture varie, dal tartufo nero ai porcini, dagli champignon alle erbe. Si può tagliare per lasciare intravedere il ripieno o decorare in diversi modi per stupire anche gli ospiti più esigenti».

E con mano sicura ne prepara una in diretta, con fiori di zucchina ed erba cipollina, smuovendo la padella fino ad ottenere un ovale perfetto. Le verdure di stagione offrono sempre spunti interessanti: «In questo periodo barba dei frati e fiori di zucchina regalano ottimi risultati in cucina sia per omelette che per frittate o qui-

Gastronomia Verdier via Palazzolo, 35 Bergamo

che», continua Verdier. Non mancano versioni internazionali della solita frittata: «La versione thai, molto sottile, è buona da sola o arrotolata, tagliata a striscioline e aggiunta ad un brodo di pollo. C’è poi la tortilla spagnola, quasi identica ad una frittata, ma di solito più alta e rustica: la versione classica ha patate e chorizo».

GUSTARLE

Mimì, da provare la frittata di spaghetti all’isolana

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ella bottega di gastronomia “Mimì - La casa dei Sapori”, che tenta sin dalla vetrina con specialità di ogni sorta, non c’è giorno in cui non si possano trovare frittate o quiche interpretate con creatività dalla famiglia Amaddeo nella versione d’asporto - o di consumo sul posto ad uno dei tavolini - proprio di fronte allo storico ristorante Da Mimmo. La frittata è proposta sia nella versione monoporzione, che in quella più rustica e tradizionale, pronta per essere condivisa in famiglia o per finire in un cestino da pic nic. Alle frittate a base di verdure di stagione - spesso e volentieri bio, mentre le uova lo sono sempre e di allevamento all’aperto - si affiancano quelle di spaghetti, o meglio “frittat e mac-

Mimì via Colleoni, 26 Città Alta Bergamo

carun” come insegna la cucina tradizionale al sud. Tutta da provare la frittata di spaghetti all’isolana con acciughe e olive, dai sapori decisi. Da non perdere la frittata di gianchetti - un vero piccolo grande evento quando si trovano al mercato del pesce - una ricetta che valorizza con semplicità una prelibatezza come i piccolissimi del mare. Non mancano frittate più ricche come quella a base di scamorza, prezzemolo ed erbette, un classico pronto a fare anche da piatto unico. Alla proposta si affiancano frittelle, quiche, polpette di verdura, piatti che esaltano i presidi Slow Food e molte altre specialità, incluso il pane cotto nel forno a legna, semplicemente perfetto.

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Tradizioni di Leonardo Bloch

La sovversiva minestra aristotelica del cocho bergamasco

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Nel ricettario dell’anonimo concittadino vissuto tra Sei e Settecento, un piatto brodoso a base di riso e “sostanze” di lumache riscrive il rapporto tra ingredienti selvatici e “addomesticati” al pari della cucina d’avanguardia oche tradizioni gastronomiche locali serbano un trasporto verso la sfera del selvatico - che nella sua accezione alimentare può definirsi per negazione come il microcosmo del non coltivato e del non allevato - profondo quanto quello che intride la cucina del distretto di Bergamo. Ancor oggi, nell’era dell’indiscriminata manipolazione industriale di ogni risorsa nutrizionale, è tutt’altro che inusuale assistere dalle nostre parti alla colta primaverile delle erbe campestri, o alla paziente cernita dei germogli del loertis che si celano tra siepi e rovi. Per non menzionare le nutrite schiere dei cercatori di chiocciole che battono il contado ai primi acquazzoni, o le folle di appassionati che in autunno si riversano nei boschi in cerca di funghi e castagne. La lista delle materie prime di chiara connotazione selvatica cui è assegnato un ruolo di assoluto rilievo nella cucina delle nostre lande non si esaurisce certo qui: come trascurare gli uccelletti, o lo stesso coniglio, la cui domesticazione risale solo ad un’epoca relativamente recente (XVI/XVII secolo)? È fuor di dubbio che tali predilezioni affondino le loro più remote radici in un sostrato antropologico del tutto ancestrale. Si tratta di quella che la scuola storiografica francese definisce économie de la cueillette - un sistema alimentare addirittura antecedente l’avvio delle prime forme organizzate di attività venatoria ed agro-pastorale. In tale contesto, la nutrizione era infatti integralmente fondata su risorse di immediata disponibilità in natura:

erbe, radici, frutti e graminacee spontanee, insetti e piccoli animali di agevole cattura. La transizione a schemi di approvvigionamento più evoluti ha successivamente trasfigurato in un fattore di gusto condotte che ai primordi dell’umanità rispondevano ad inderogabili esigenze di sussistenza. Nel caso della cucina della nostra terra, è altresì indiscutibile che questa atavica affezione si sia consolidata su un assai più recente fondo altomedievale e barbarico. Con il declino dell’impero romano, al classico modello alimentare della civiltà latina, di matrice inequivocabilmente agricola, si sovrapposero infatti i più arretrati usi alimentari dei conquistatori longobardi, fondati per contro sullo sfruttamento delle risorse silvestri e della caccia. La peculiare morfologia del territorio bergamasco, per gran parte poco propizio alla coltivazione, unitamente alla proverbiale parsimonia dei nostri antenati hanno peraltro provvisto condizioni singolarmente propizie all’attecchimento dei costumi degli invasori. Non è infatti da tacere che la nozione di spontaneo corrisponda il più delle volte a quella di gratuitamente disponibile. E che, nelle ricorrenti fasi di crisi produttiva che sino alla prima metà del secolo scorso hanno colpito con implacabile regolarità il settore delle attività rurali, all’economia della raccolta sia stato sistematicamente affidato l’importante ruolo di bacino nutrizionale di riserva. Proprio perché mediata dal gusto e non più strettamente


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indotta dalla necessità, la “cucina del selvatico” ha finito per attingere livelli di articolazione tecnica inusualmente elevati. È assai raro il caso di preparazioni - quali una misticanza di erbe di campo o un’insalata di porcini crudi - il cui approntamento preveda che le materie prime dell’incolto e del non allevato si mantengano sostanzialmente intonse. La regola prevede piuttosto manipolazioni complesse e laboriose. Si pensi alla tortuosa procedura di elaborazione delle pietanze a base di lumache, che richiede un prolungato spurgo dei molluschi e la loro bollitura preliminarmente ad ogni altro passo. O al protratto ammollo in marinate aromatiche cui sono sottoposte le carni della selvaggina. Si afferma di centrale importanza non tanto la questione del rendere fruibili al consumo alimentare ingredienti di ostico utilizzo, quanto quella dell’omologare le pietanze che se ne ottengono ai dominanti riferimenti gustativi della “cucina del coltivato”. In definitiva il selvatico è ammesso nel piatto a condizione che passi attraverso un quantomeno sommario processo di addomesticamento gastronomico. Questi tentativi di ammansire in padella le vivande di tempra troppo marcatamente ferina sono il più delle volte realizzati per copertura o per contrapposizione. Da un canto, l’impeto degli afrori che promanano dagli ingredienti più problematici viene sovente rintuzzato dall’impiego di condimenti e di spezie particolarmente vibranti. Dall’altro, nell’assemblaggio delle preparazioni, le materie prime dell’incolto trovano usuale contrappeso nell’esorcizzante associazione ad alcune delle pietanze più emblematiche della sfera del coltivato. È ad esempio il caso della polenta, prototipo della cucina agricola delle nostre lande, che viene canonicamente maritata agli uccelletti ed a tutte le principali portate di selvaggina. All’interno di questo ferreo sistema di riferimenti del gusto, lascia addirittura sbigottiti per la sua portata sovversiva una ricetta bergamasca vecchia ormai di trecento anni il cui autore - un anonimo concittadino operante nel periodo a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo - è noto sotto l’epiteto di Cocho Bergamasco. Si tratta di una minestra brodosa di riso, profumata allo zafferano, che potrebbe ingannevolmente figurare tra i progenitori del risotto alla milanese. In realtà l’abbinamento degli stigmi del croco alla graminacea era già in voga almeno tre secoli prima del Cocho - e con certezza non esclusivamente nel capoluogo lombardo. Altri ed assai più singolari sono gli autentici tratti di originalità della pietanza, tirata a cottura in un del tutto inu-

suale fumetto di lumache. Colpisce anzitutto l’inatteso esercizio di aristotelismo cui indulge un umile cuciniere il quale, in un impeto di understatement, ammette di aver compiuto i propri studi di belle lettere tra le padelle piuttosto che sui banchi di scuola. Il brodo di molluschi è qualificato dal redattore della ricetta come sostanza, e lo stesso Aristotele converrebbe che il sapore di un alimento - che Brillat-Savarin, agli inizi del XIX secolo, avrebbe dimostrato poter essere veicolato ai recettori del gusto solo attraverso un mezzo liquido - ne costituisca in metafisica gastronomica lo stretto fondamento ontologico. Tutto il resto, per dirla con il filosofo greco, è semplice accidente. Nel contesto della decadente cucina barocca di fine seicento, la questione del sapore è tutt’altro che stucchevole. In aperta ribellione allo zuccheroso guazzabuglio di spezie che confondeva la haute cuisine dell’epoca, il Cocho effettua infatti un’aperta scelta di campo a favore di un profilo gustativo delle vivande ben stagliato e lineare. A ben vedere, si tratta della stessa svolta che in Francia l’incipiente rivoluzione gastronomica della cuisine bourgeoise avviata dalle opere di La Varenne e De Bonnefons, di cui il nostro concittadino non poteva aver cognizione in quanto al tempo ancora inedite in Italia - stava iniziando ad imprimere. Da questa prospettiva, al Cocho spetta la palma del primo autentico interprete della cucina borghese nel nostro paese - anche se lui l’avrebbe designata, con maggior pertinenza e modestia, cucina casalenga. Ma non è tutto qui. La minestra di riso e sostanze di lumache segna il sovvertimento dei riferimenti culturali su cui si fonda la gastronomia dell’incolto e del non allevato. Nella ricetta del Cocho il selvatico non è più una categoria gustativa da domare ed addomesticare, ma diviene anzi il profumo di cui provocatoriamente intridere gli ingredienti di più stretta ortodossia. Si badi bene: s’è parlato deliberatamente di profumo, dato che la ricetta prevede che la polpa delle lumache sia dirottata ad altri utilizzi culinari, alla maniera del trancio di manzo che cede i propri umori al pomodoro del classico ragù napoletano per poi essere servito come distinta pietanza. Inselvatichire una vivanda è una nozione che ancor ai nostri giorni suona di pura avanguardia: si pensi al celebre risotto al pino mugo di Norbert Niederkofler. Innovatività cristallina, in barba a quanti sentenziano che la cucina bergamasca sia da sempre riuscita ad essere al più retrospettiva.

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in vetta di Lara Abrati

Escursioni di gusto I rifugi sulle Orobie ormai da tempo hanno ampliato l’offerta gastronomica, introducendo prodotti biologici e materie prime selezionate. Gli addetti ai lavori: «Chi arriva in montagna oggi si aspetta una proposta più varia»

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alle valli bergamasche sono molte le possibilità di accesso alle alte quote delle nostre montagne. Vasta e curata è la rete di sentieri che permette di assaporare itinerari più o meno difficoltosi e di raggiungere rifugi e luoghi di ristoro. Ce n’è davvero per tutti i gusti. Col tempo, i rifugi si sono adeguati alle esigenze dei nuovi frequentatori della montagna, non più esclusivamente escursionisti con scarponi e zaino grande, ma anche appassionati che all’ambiente, ai panorami e alla natura amano affiancare anche un buon piatto. Come spiega Maurizio Nava, rifugista storico dei Laghi Gemelli «un tempo l’escursionista arrivava in montagna, si fermava in rifugio, cenava, pernottava e il giorno dopo ripartiva alla volta di nuove mete. Il cibo passava in secondo piano, primeggiava la convivialità, legata ai racconti, agli scambi di esperienze». Oggi molto è cambiato. Tra chi frequenta la montagna è cresciuta la quota di appassionati che arriva sui sentieri con l’obbiettivo di godersi la giornata insieme alla famiglia o agli amici, magari gustando anche un buon pranzo. Cucina curata e selezione delle materie prime stanno quindi diventando un must per i rifugisti, sempre più orientati verso prodotti locali e di qualità e consapevoli di non poter più proporre solo minestrone, polenta e selvaggina, come un tempo, ma di dover allargare la proposta con formaggi Dop, paste e dolci fatti in casa e molto altro.

laghi gemelli

Pasta fresca e dolci fatti in casa sono sempre in carta

Maurizio Nava e Stefano Brignoli Il rifugio si trova in Alta Valle Brembana, a 1.968 metri sul livello del mare, ed è un must per gli escursionisti bergamaschi. Cade nel territorio comunale di Branzi e prende il nome dai laghi, ora inglobati in un unico lago artificiale. Al rifugio Laghi Gemelli è possibile pernottare, ma anche pranzare e cenare. La struttura è condotta da Maurizio Nava dal 1989: «Prima salivo solo a dare una mano, infatti avevo un altro lavoro in valle, poi ho deciso di condurlo in società con un altro rifugista. Nel 2005 è infine arrivato Stefano Brignoli,

cuoco, e con lui abbiamo fatto il salto di qualità per quel che riguarda la cucina. Proprio in questo periodo abbiamo percepito la necessità di adeguarci alle nuove richieste gastronomico con l’obbiettivo di offrire una maggiore qualità e di valorizzare le risorse locali». Ecco quindi che anche la cucina del rifugio Laghi Gemelli si diversifica e la proposta non è più basata solo sulla preparazione dei classici piatti come il minestrone, la pasta, la polenta e il brasato. «La normativa – spiega ancora Nava – impone delle regole in mate-


giugno 2015 curò

Per chi ama i primi, spazio a pizzoccheri e scarpinocc Angelo Ghiraldini Il Curò è un rifugio molto conosciuto e frequentato perché è facilmente raggiungibile da Valbondione. Si trova a 1.915 metri sul livello del mare. È condotto da 9 anni da Fabio Arizzi e Angelo Ghiraldini. «Io ho sempre frequentato la montagna - spiega Arizzi - e ho visto un grande cambiamento per quel che riguarda lo stare in montagna. Ora anche i classici alpinisti hanno l’esigenza di mangiare bene e posso affermare che le priorità in quota in un certo senso sono

ria sanitaria e ci siamo pian piano adeguati, anche se le difficoltà restano perché siamo in montagna e alcune comodità non è possibile averle». «Principalmente da noi – racconta Nava – arrivano famiglie e giovani. Nella maggior parte dei casi entrano a mangiare anche solo un piatto». Varia è la proposta gastronomica che parte dalle zuppe alla pasta fresca preparata in rifugio, come ad esempio i tagliolini allo Strachitunt Dop e paruch, raccolto direttamente dai gestori. Non mancano la polenta accompagnata dai salumi locali oppure dai formaggi Principi delle Orobie e neppure i vari tagli di carne e i dolci fatti rigorosamente in casa, come quello alle pere con riduzione di Valcalepio o la torta con farina di grano saraceno e marmellata di mirtilli. Il tutto affiancato da una selezione di vini locali. «Cerchiamo di fare e preparare il più possibile nella nostra cucina, - sostiene ancora Nava - così siamo sicuri di proporre piatti di qualità ad un prezzo corretto».

Fabio Arizzi

cambiate». Nella cucina del rifugio Curò vengono proposti piatti tipici delle province di Bergamo, di Brescia e della vicina Valtellina. Dai pizzoccheri agli scarpinocc di Parre, dalla classica selvaggina ai piatti a base di funghi. «Ho notato - spiega ancora Arizzi che sia gli sci alpinisti che arrivano dall’inizio della primavera, sia gli escursionisti del periodo più turistico, apprezzano sempre più la buona cucina, in misura uguale e senza differenze».

brunone

Marco Brignoli

La proposta tiene conto anche di vegani e vegetariani È uno dei rifugi più difficili da raggiungere. Si trova a 2.297 metri ed è raggiungibile da Fiumenero, frazione di Valbondione, dopo circa 3/4 ore di salita con un dislivello di 1.500 metri. Dal 2007 è gestito da Marco Brignoli che ammette di aver «iniziato a ricercare la qualità nella proposta gastronomica e che questa viene compresa ed apprezzata». «Stiamo cercando di orientarci anche all’acquisto di materie prime provenienti da agricoltura biologica e siamo attentissimi ai problemi legati alle intolleranze, ma anche alle scelte dei vegani o vegetariani. Oggi più che mai chi viene al nostro rifugio è molto attento anche alla proposta culinaria e quindi ricerca piatti gustosi: dalle zuppe di legumi ai formaggi Dop». Brignoli racconta che «l’escursionista ha più voglia di essere ben servito rispetto al passato. Si aspetta una proposta culinaria diversificata, benché in un rifugio. Sicché oggi l’attenzione da parte nostra è cresciuta, c’è attenzione anche alle intolleranze alimentari, rispetto per chi è vegetariano o vegano. Sono cambiati anche gli orari di servizio. Un tempo, alle 19, si cenava, tutti insieme. Ora non ci sono più orari. La cucina è sempre aperta e si lavora più come un ristorante vero e proprio, anche se le attrezzature e le possibilità nei rifugi non sono cambiate! L’approvvigionamento di prodotti freschi rimane sempre un problema, per questo una volta la settimana, il martedì, scendiamo a valle al mercato di Valbondione e acquistiamo i prodotti freschi per tutta la settimana portando tutto a spalla».

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il prezzo fisso di Fulvio Facci

Ristorante pizzeria Piave via Arici, 86 Telgate tel. 035 831557 chiuso il mercoledì

È il pesce la proposta principale del ristorante di Telgate, gestito dal 1988 dalla famiglia Pastore. E papà Alfonso, in cucina, non smette mai di studiare: «Una passione che va oltre l’interesse lavorativo» Alfonso Pastore con la moglie Tiziana e i figli Nicholas e Alessandro

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Nel Piave sguazzano le specialità di mare ncora una volta il modello della gestione familiare si conferma funzionale nell’attività di ristorazione. Certo al ristorante pizzeria Piave di Telgate in via Arici 86 le prestazioni dei due coniugi e di un figlio non sono sufficienti per le esigenze del locale vista la dimensione (circa 150 coperti) e l’affluenza, ma le redini sono ben salde in mano ad Alfonso Pastore (49 anni) e alla moglie Tiziana Serra (53), con il maggiore dei figli, Nicholas 22 anni, che collabora con loro a tempo pieno - a mezzogiorno in sala e alla sera al forno della pizza - mentre il figlio minore, Alessandro, sta andando ancora a scuola. «Siamo qui dal 1988 – racconta Tiziana che cura la sala – e in precedenza il ristorante era stato gestito per sei anni da mio zio Fulvio Serra. Siamo ben radicati, quindi. Tra i nostri habitué abbiamo diversi imprenditori della zona, anche se la maggior parte della clientela viene da fuori paese». Che la specialità della casa sia il pesce balza subito all’occhio osservando il menù. Una lista molto semplice, composta da due sole pagine (a parte c’è una ben selezionata carta dei vini) nella quali le voci ittiche occupano un buon ottanta per cento dello spazio. «Non trascuriamo i piatti di terra – precisa Alfonso Pastore che si occupa della cucina – ma la mia predilezione è per il pesce. Il filetto, la tagliata, la fiorentina, le costate, il risotto ai funghi porcini e bagos o il tagliere di salumi

li abbiamo anche noi, ci mancherebbe, ma chi viene lo fa per il pesce, che proponiamo secondo quanto ci consente il mercato giornaliero. La scelta delle materie prime è fondamentale per noi e non riguarda solo gli ingredienti principali, ma anche i condimenti». La “storia” di Alfonso nella ristorazione, a dire il vero, è abbastanza anomala. La sua carriera nasce infatti nel


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LA PROVA

servizio in sala a Roma ma è mossa da un’irrefrenabile passione per la cucina che cova dentro di lui. L’incontro con Tiziana farà poi il resto. «È una passione che va al di là del dovuto interesse lavorativo – confessa Alfonso –. Avrò letto più di mille libri di cucina, non mi lascio scappare nessuna novità sotto questo profilo e non mi sono certo improvvisato cuoco. Penso siano poche le cose che non conosco della cucina – dice -. Ho seguito anche lezioni con chef stellati, sì, mi piace proprio stare davanti ai fornelli e faccio sempre qualche esperimento cercando di mettere in pratica quello che ho appreso». Per quello che potrebbe essere invece un menù ideale, ovviamente a base di pesce, ci lasciamo consigliare da Tiziana. «Siamo soggetti a quello che offre il mercato – ricorda – ma un antipasto misto possiamo sempre proporlo. Poi come apertura abbiamo la tartare di tonno o il polipo al vapore. Come primo piatto, tra gli altri, si potrebbe puntare sugli spaghetti allo scoglio o sul risotto alla gallinella mentre per i secondi le grigliate, quella di crostacei o quella imperiale, vanno per la maggiore. Per chiudere i dessert che prepariamo tutti noi. Il prezzo? Con tre portate si arriva sui 50 euro a testa se si è parsimoniosi nella scelta dei vini». Proposta invitante se si tiene conto della qualità della cucina e anche dell’ambiente, che è stato totalmente rifatto nel 2010.

Un buffet pratico e bene in vista che propone una quindicina di verdure tra cotte e crude accoglie il cliente del Piave per la pausa pranzo con il menù fisso. Ai tavoli la lista del giorno, che nell’occasione proponeva: maccheroni alla castellana, bavette allo scoglio e la classica pasta al pomodoro e basilico, molto gettonata anche per le sue porzioni abbondanti. Tra i secondi piatti, la altrettanto classica bistecca di manzo, il tacchino freddo, la scamorza con prosciutto e polenta, la carne equina con cipolle rosse, rucola e grana e la caprese. Come detto i contorni sono molti e a buffet. Il prezzo è fermo a dieci euro per primo, secondo, contorno, vino, acqua e caffè. Trattandosi di un locale specializzato nella cucina di pesce, non potevamo lasciarci sfuggire le bavette allo scoglio, ottime. Per il secondo piatto, invece, abbiamo puntato sulla scamorza al prosciutto e polenta per un rapporto qualità/prezzo ampiamente soddisfacente.

Oscar del Vino, l’enoteca Al Ponte fa il bis Al locale di Ponte San Pietro il premio di Bibenda, già ottenuto nel 2012

Enoteca Al Ponte via Roma, 9 Ponte San Pietro tel. 035 611428

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rinda ad un altro successo l’Enoteca al Ponte di Ponte San Pietro. E trovare la bottiglia giusta per farlo non è certo un problema vista l’ampiezza delle etichette e le chicche storiche alle quali attingere. Lo scorso sabato 6 giugno ha ottenuto il suo secondo Oscar del Vino, il premio promosso da Bibenda e dalla Fondazione italiana sommelier guidata da Franco Maria Ricci che elegge i migliori rappresentanti di numerose categorie del mondo vino, tra prodotti, aziende, professionisti, Luca Castelletti ristoranti ed enoteche. Al teatro dell’hotel Rome Cavalieri, la cerimonia in smoking e abito da sera – ripresa dalla Rai, che la trasmetterà il primo luglio – ha consegnato al patron Luca Castelletti il riconoscimento per la migliore enoteca, che bissa quello ottenuto nel 2012 e fa dell’insegna bergamasca l’unica enoteca ad aver ottenuto per due volte il premio. «La valutazione prende in considerazione la storicità, l’offerta dei prodotti, la professionalità – ricorda Castelletti -. Ricevere il premio per la seconda volta è un traguardo prestigioso e soprattutto una preziosa conferma». A dare un significato in più alla premiazione la coincidenza con il giorno in cui papà Italo avrebbe festeggiato il compleanno. Tra i primi sommelier d’Italia, è stato infatti lui ad aprire l’enoteca nel 1959 trasformando la drogheria di famiglia, attiva dal 1937, e a promuovere con passione e competenza la conoscenza del vino a Bergamo, fondando negli anni Settanta delegazione dell’Ais, Associazione italiana sommelier, e organizzando iniziative quando degustazioni e corsi non erano certo “di moda”. Su quell’impronta Luca prosegue nella ricerca di aziende in grado di produrre vini e distillati di grande qualità e nell’impegno per la diffusione della cultura enologica. Forte di un altro pezzo importante della sommellerie orobica, Nives Cesari, già presidente provinciale dell’Ais, l’Enoteca al Ponte si conferma quindi un punto di riferimento a livello nazionale per la selezione di vini provenienti da tutto il mondo e distillati italiani e francesi mentre nella cantina storica vengono custoditi vini antichi, alcuni dei quali sono vere e proprie rarità.

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NEWS Onorificenza a Dino Rota

Il titolo di Cavaliere al “papà” della Quattroerre C’

mere la svolta verso il versante delle forniture, intuendo lo sviluppo del fuori casa e coinvolgendo in prima persona i quattro figli, fin da giovanissimi. Lungimiranza, capacità di promuovere responsabilità e lavoro di squadra e una filosofia aziendale che mette la persona al centro sono le doti che gli vengono riconosciute, basi sulle quali la Quattroerre è potuta crescere nella sua storia di oltre trent’anni e che continuano a rappresentare una precisa linea guida. Il contributo di Dino Rota nel mondo imprenditoriale bergamasco era già stato sottolineato con la “Benemerenza per lo sviluppo economico” assegnata dalla Camera di Commercio.

è anche Dino Rota, presidente onorario della Quattroerre di Torre de’ Roveri, tra i 24 bergamaschi che il 2 giugno, nel corso della cerimonia ufficiale commemorativa della Fondazione della Repubblica in piazza Vecchia, hanno ricevuto dal prefetto Francesca Ferrandino e dal sindaco di Torre de’ Roveri Francesco Lebbolo il diploma di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Ottant’anni, Rota ha posto le basi dell’azienda di distribuzione di vini, birre, bevande e distillati diventata punto di riferimento per il mondo della ristorazione e dei pubblici esercizi bergamaschi e lombardi, fondata dai figli nel 1982. Cantiniere per 25 anni, si è messo in proprio nel dettaglio per poi impri-

L’attribuzione del titolo di Cavaliere è avvenuta alla presenza dei rappresentati delle forze armate e delle autorità militari e civili, tra cui in ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina. L’inno nazionale e la lettura del messaggio del presidente della Repubblica tra gli altri momenti solenni della cerimonia.

Rockit, parte in Valtellina la produzione della piccola mela neozelandese

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l consorzio Melavì della Valtellina si è assicurato l’esclusiva per la produzione in Italia e la commercializzazione in Italia, Svizzera, Spagna e Russia della mela Rockit, già candidata nel 2011 al premio innovazione di Fruit Logistica. Rockit dal 2015 è coltivata anche in Valtellina con la messa a dimora di oltre 30mila piante e dal 2016 sarà disponibile sul mercato sotto l’egida del Consorzio Melavì della Valtellina. La mela Rockit, originaria della Nuova Zelanda, è un frutto di piccole dimensioni (1 volta e mezzo le dimensioni di una pallina da golf) dalla lunga conservabilità, con un sapore dolce, un colore rosso acceso e una consistenza croccante. È perfetta per i bambini che desiderano una merenda golosa, per gli adulti che cercano una pausa veloce e nutriente dal lavoro così come per gli sportivi che vogliono uno spuntino buono e sano. Rockit sta innovando il mercato alimentare delle mele e quello degli snack in tutto il mondo con un frutto unico, allevato e coltivato per rimanere piccolo e per poter essere confezionato in un tubo trasparente, igienico e facile da trasportare. Non è un caso che la mela Rockit sia arrivata in Valtellina. Nella provincia tra le più montuose d’Italia sopravvivono eccellenze agroalimentari tramandate da generazioni e tra formaggi, vini, bresaola, pizzoccheri e miele, emerge anche la mela. Tutte tradizioni enogastronomiche che oggi sono tutelate dal Distretto Agroalimentare di Qualità “Valtellina che gusto” che riunisce i Consorzi di Tutela, le associazioni delle produzioni tipiche e molte aziende produttrici.

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la degustazione

I vini piemontesi “sposano” la ristorazione bergamasca Riuscito incontro tra la cucina della Trattoria Manzotti di Canonica e i vini di Bera. La regia? Affidata all’associazione “Ristoranti regionali - Cucina Doc”

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buongustai lombardi hanno da sempre riservato una particolare attenzione ai vini piemontesi. È un dato di fatto che ha trovato conferma nei giorni scorsi, con la collaborazione tra il ristorante bergamasco Terrazza Manzotti di Canonica d’Adda e il produttore di Langa, Bera. Insieme, con la regia di Marinella Argentieri di Ristoranti Regionali – Cucina Doc (www. ristorantiregionali.it) hanno messo a punto nei giorni scorsi un intrigante menù degustazione. I protagonisti dell’evento vantano una storia famigliare emblematica della migliore tradizione enogastronomica italiana: Francesco Manzotti rappresenta la terza generazione alla guida dello storico locale nato nel 1907; Umberto e Riccardo Bera, a loro volta, sono la terza generazione dell’azienda vitivinicola di Neviglie. Giovani capaci, che possono contare sull’esperienza dei genitori che, ancora attivamente presenti, danno loro sempre più spazio nelle rispettive realtà imprenditoriali. Francesco Manzotti, ristrutturando completamente il locale alcuni anni fa, ha creato un lounge bar per la clientela più giovane, quella che ama gli aperitivi, la cucina abbinata ad ingredienti esotici, ma che ritrova le proprie radici nei piatti del territorio e della tradizione sempre presenti nei menù del ristorante, che propone anche pizze e una serie di dolci preparati dall’insostituibile mamma

Da sinistra, Diego Martinelli, Riccardo Bera, Marinella Argentieri, Enrica e Francesco Manzotti Enrica. Il locale, con la bella terrazza sul fiume Adda - da cui si ammira Villa Melzi e lo spettacolare ponte di ferro che unisce le provincie di Bergamo e Milano - vanta da sempre tra i suoi clienti anche personaggi del mondo dello spettacolo. Umberto e Riccardo Bera affiancano il padre Valter che, alla fine degli Anni 70, ha dato un nuovo corso alla secolare tradizione viticola della famiglia, iniziando a vinificare per l’imbottigliamento e la vendita diretta con la propria etichetta. La mamma Alida è la “padrona di casa” che accoglie gli ospiti in visita alla cantina, recentemente completata da un sala degustazione, che si affaccia sull’incantevole paesaggio collinare delle Langhe, uno dei territori di eccellenza enogastronomica apprezzati nel mondo.

L’azienda si estende su trenta ettari, ventidue dei quali vitati e produce circa 140mila bottiglie l’anno. Sempre menzionata nelle più autorevoli guide enologiche, Bera ogni anno mette in archivio premi e riconoscimenti. Tra i più recenti, nel 2014, l’Ordine dei Cavallieri e del Tartufo di Alba ha attribuito la classifica di Eccellente a: Barbera d’Asti Doc Superiore 2011, Langhe Nebbiolo “Alladio” Doc 2010, Piemonte Brachetto Doc 2013, Moscato d’Asti “Sureimond” Docg 2013, Moscato d’Asti Docg 2013. L’Annuario dei Migliori Vini Italiani di Luca Maroni indica il Moscato d’Asti 2012 come il miglior spumante dolce d’Italia e la rivista austriaca Merum, sul vino italiano per gli operatori di lingua tedesca, attesta un riconoscimento a Langhe Nebbiolo Doc Alladio 2009.


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la rassegna

La percezione nei consumatori non è ancora corretta, dicono i produttori. A Italia in Rosa dibattito sul futuro di un vino che piace sempre più ai giovani. In forte crescita l’interesse per il Chiaretto

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Rosé, una sfida ancora tutta da giocare è ancora molto da lavorare per affermare il concetto del rosé come vino vero: una percezione assolutamente non scontata, sulla quale è necessario lavorare per fare in modo che i Chiaretti della Valtènesi si affermino correttamente nell’immaginario dei consumatori. Questo il messaggio emerso dal convegno di Italia in Rosa 2015, svoltosi sabato 6 giugno nella sede del Consorzio Valtènesi a Puegnago del Garda, nel corso del quale sono stati presentati i risultati del primo anno di studi del progetto sulla caratterizzazione dei Chiaretti affidato dal Consorzio al Centre de Recherche e d’Experimentation sur le vin rosé di Vidauban. «È necessario dare una continuità a questo cammino di studi per arrivare ad un vocabolario comune dei territori fatto di storia e descrittori scientifici – ha detto il direttore del Consorzio Valtènesi Carlo Alberto Panont -. Anche noi siamo nel pieno del percorso per arrivare a quei risultati di tecnica e di valore di mercato che in Provenza sono stati già raggiunti da tempo». Tre gli obbiettivi indicati da Panont: arrivare, già con la prossima vendemmia, ad una sintesi unica per le denominazioni che insistono sul territorio; difendere il vitigno autoctono Groppello per favorirne la crescita («Siamo a 400 ettari, ma abbiamo spazio e forza per raddoppiarli»); ed infine, comunicare una «identità produttiva fatta di certezze». La parola è poi passata a Gilles Masson, direttore del Centre du Rosé, un centro all’avanguardia che analizza ogni anno un migliaio di campioni di vini rosé provenienti da tutto il mondo grazie ad un concorso che ha consentito al Centro di costruire una banca dati unica. Sono 30 i campioni di Valtènesi Chiaretto 2013 analizzati da Masson e dalla sua équipe con rigorosi criteri scientifici in questa prima fase della collaborazione. «Abbiamo riscontrato una diversità abbastanza marcata, e questo può essere un aspetto positivo a patto che venga gestito all’interno delle caratteristiche di tipicità della de-

nominazione - ha spiegato Masson -. I punti comuni sembrano girare intorno a parametri di alcolicità e acidità e quindi a caratteristiche proprie del territorio. Vi sono caratteri di differenzazione soprattutto per quanto concerne gli zuccheri residui, l’acido malico e gli aromi, ma soprattutto sul colore, che comunque rispetto alla totalità delle produzioni italiane è risultato nella parte superiore della tavolozza dei colori, quella cioè caratterizzata da tonalità scariche e stabili. L’aspetto positivo in vinificazione è che non tutti cercano di fare la stessa cosa. La classe dominante tuttavia è costituita da vini caratterizzati da freschezza e finezza aromatica, con nota vegetale (carattere positivo per le classificazioni francesi a differenza di erbaceo che è negativo), pochi zuccheri residui, particolarmente secchi e con buona rotondità». Di certo c’è che, come dimostrato dai risultati di questa ottava edizione di Italia in Rosa, l’interesse per il Chiaretto ed i rosé in genere è in continua e forte crescita. «Siamo riusciti anche quest’anno a centrare l’obbiettivo di realizzare una manifestazione davvero importante per la valorizzazione del territorio – ha spiegato il presidente di Italia in Rosa, Luigi Alberti -. Bisogna continuare su questa via insistendo sulle sinergie tra realtà istituzionali per costruire un tessuto capace di fare una promozione forte sui nostri prodotti». Alberti non ha dubbi: la fisionomia del visitatore di Italia in Rosa sta cambiando ed il pubblico è costituito oggi soprattutto dai giovani, con una percentuale che arriva ormai al 60%, ed una componente femminile sempre più elevata. E tenendo in mente questi parametri già si comincia a pensare ad Italia in Rosa 2016, per la quale, ha dichiarato Alberti, «nella nuova location del Castello avremo a disposizione un’area da 11mila metri quadrati sulla quale vorremmo introdurre novità significative come ad esempio un mercato di vini rosé e di prodotti della terra».

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Il cous cous alla menta Ingredienti per 1 persona 140 grammi di cous cous olio extra-vergine di oliva mezzo cetriolo 50 gr di ceci 1 pomodoro piccolo 1 carota 1 zucchina 1 manciata di foglioline di menta mezzo limone

Preparazione Mettete sul fuoco 200 ml di acqua con 1 cucchiaino di sale. Versate in una ciotola 140 grammi di cous cous e 2 cucchiai di olio di oliva extra vergine, quindi mescolate con una forchetta in modo da separare i grani. Quando l’acqua comincia a bollire, spegnete il fuoco, versate il cous cous e lasciate riposare per 10-15 minuti con il coperchio. Con una forchetta ravvivate il cous cous (che avrà assorbito tutta l’acqua), poi versatelo in una ciotola. Tritate grossolanamente mezzo cetriolo (pulito, lavato e liberato dei semi) e sminuzzate un pomodoro, una carota e una zucchina. Mescolate la verdura con il cous cous, aggiungete i ceci e una manciata abbondante di foglioline di menta. Condite il tutto con qualche goccia di limone e 1 cucchiaio di olio di oliva extra-vergine.

CURIOSITà Il cous cous alla menta è un piatto colorato, fresco e leggero, perfetto per risolvere una cena all’ultimo momento e sfizioso da portare al lavoro per la pausa pranzo. La prima volta che l’ho assaggiato mi trovavo in Marocco e, sebbene siano trascorsi più di 20 anni, ricordo ancora come fosse ieri il suo sapore e il suo aroma inconfondibili. Con gli anni sono ritornato più volte in Africa e ho voluto degustare le sue varianti in Egitto, in Tunisia e in Libia: con l’aggiunta di mandorle, cannella e zucchero ho sperimentato un gustoso dessert, servito con latte aromatizzato all’acqua di fiori d’arancio, ma l’ho anche assaggiato con il brodo di carne per una buonissima zuppa o accompagnato alle verdure per un piatto unico delizioso. Alla fine ho scoperto che mi piace sempre e quindi è stato naturale “ospitare” il cous cous nella mia cucina, anche perché è davvero facile da preparare. In realtà per cucinarlo secondo la tradizione, bisognerebbe mettere il cous cous in un colino a maglie fitte e reidratarlo sotto l’acqua corrente; quindi, dopo averlo lasciato in ammollo per circa 10 minuti, andrebbe mescolato con le dita per sbriciolarlo e fargli assorbire tutta l’acqua; e alla fine sistemato in un cesto per la cottura a vapore, coperto e lasciato cuocere per 20 minuti. Qualche

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anno fa mi sono cimentato anch’io in questa pratica, che però ho smesso immediatamente con l’avvento del cous cous sugli scaffali dei supermercati e dei negozi alimentari; oggi infatti è possibile acquistarlo dappertutto precotto a vapore. Il segreto per la riuscita della ricetta è la qualità delle verdure: se sono fresche, non trattate e magari acquistate dal vicino di casa che ha l’orto, il loro sapore esalterà al massimo l’incontro con i grani del cous cous. Ugualmente importante è la qualità della menta: io tengo sempre una piantina in un vaso sul terrazzo perché non bisogna per forza avere il pollice verde, ma solo un po’ di buon senso. Posizionata in una zona a mezz’ombra, resiste bene al caldo e al freddo, anche se in caso di temperature troppo rigide deve essere protetta, portandola in casa o coprendola. Due accorgimenti importanti: quando la si annaffia, bisogna evitare i ristagni idrici che fanno ammuffire la pianta e non bisogna bagnare le foglie, altrimenti l’evaporazione elimina i suoi oli essenziali. Quando invece le foglioline di menta sono pronte per essere gustate, è necessario fare il contrario, come per la nostra ricetta: lavatele con acqua fredda, asciugatele leggermente con della carta e poi cospargetele sul piatto. Sono sicuro che il risultato vi sorprenderà.


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