maggio 2012
IN RASSEGNA SAPORI, GUSTI E PIACERI DEL TERRITORIO
Supplemento al n. 19 de “La Rassegna” del 17 maggio 2012 - Giuseppe Ruggieri direttore responsabile Editrice: La Rassegna S.r.l. via Borgo Palazzo 137, Bergamo Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60
Confetture, alla ricerca della frutta perduta Crescono le aziende che riscoprono piante dimenticate da oltre un secolo. Viaggio tra i produttori bergamaschi
LA SPECIALITÀ
L’ESPERIMENTO
L’INTERVISTA
L’AZIENDA
Lo spiedo bresciano rilancia con la versione estiva
In Val d’Astino torna la produzione di olio d’oliva
Zanella: “Così il Franciacorta crescerà ancora”
Arredamenti Metalfrigor, una grande famiglia al servizio dei pubblici esercizi
MAGGIO 2012
SOMMARIO www.affaridigola.it
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PENNA ALL’ARRABBIATA I turisti chiedono poche informazioni sulla nostra enogastronomia? Proviamo a stuzzicarli meglio
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CONFETTURE Vasetti di bontà
10 IL PERSONAGGIO Pizzaballa, l’ex portiere con la passione per il vino
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12 L’INTERVISTA Franciacorta, “Così la nostra Docg crescerà ancora”
14 SAPORI IN CITTÀ In Val d’Astino torna l’olio d’oliva
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18 L’ESPERTO “Il numero dispari rende più appetibile il piatto”
24 LA SPECIALITÀ Lo spiedo bresciano sfida anche l’estate
28 L’AZIENDA Arredamenti Metalfrigor, una grande famiglia al servizio dei pubblici esercizi
Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Giorgio Paglia, 26 - 24121 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Opinionista: Pier Carlo Capozzi, - Pubblicità: La Rassegna srl - via Paglia, 26 - 24122 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - info@larassegna.it - Abbonamenti: www.larassegna.it - tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Michele Andreucci, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Riccardo Lagorio, Laura Bernardi Locatelli, Pino Capozzi, Fulvio Facci, Alex Gabbi, Roberta Martinelli, Roberto Morandi, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Giordana Talamona, Donatella Tiraboschi - Impaginazione: Videocomp, Bg - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg
I NOSTRI INSERZIONISTI
4R, Casera Monaci, F.lli Latini, Galateria la Mimosa, Hotel & Resort Delphina
PENNA ALLARRABBIATA ALL’ARRABBIATA
COMMENTI
STORIE
I turisti chiedono poche informazioni sulla nostra enogastronomia? Proviamo a stuzzicarli meglio di Pier Carlo Capozzi
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n bell’articolo, su “La Rassegna”, di Roberta Garibaldi, docente di marketing turistico dell’Università di Bergamo, dà lo spunto per qualche considerazione sull’offerta enogastronomica del territorio al turista che si presenta da noi. Il Centro Studi per il Turismo, organismo che può contare su personalità quali Andrea Macchiavelli e Rossana Bonadei, oltre alla stessa Garibaldi, ha realizzato una ricerca con le risposte di 90.000 visitatori che si sono affacciati agli sportelli turistici in città e all’aeroporto, in sei mesi. E ci sono riscontri interessanti, a partire dal-
la classifica aggiornata degli stranieri, che mette in fila Spagna, Regno Unito, Nord Europa, Est Europa, Germania e Francia. Una piccola rivoluzione, negli anni, da addebitare evidentemente alle nuove tratte aeree low cost, ma utile da acquisire per farci trovare più preparati alle risposte da offrire. Ebbene, il dato eclatante è quel miserrimo 1,1% di stranieri e 1,4% di italiani che richiede agli sportelli informazioni sulla nostra enogastronomia, nonostante possa vantare punte d’eccellenza.
L’Italia dimentica anche lo chef che h
di Luciano Della Vite
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obbiamo a Giampiero Zazzera, libraio artigiano di Lodi e fondatore della Bibliotheca Culinaria, la prima riedizione, nel 1999, dell’“Apicio Moderno, ossia l’arte di approntare ogni sorta di vivande” di Francesco Leonardi. Si tratta di una ristampa anastatica in 500 esemplari di un’opera, suddivisa in 6 tomi, che raccoglie oltre 3mila ricette, ancor oggi attualissime, e che si configura come una vera e propria enciclopedia del mangiar bene, ricchissima di riflessioni e spunti, anche filosofici, sull’arte della cucina, sul buon gusto e sulle regole igieniche che i cuochi debbono rispettare. Grazie alla meritoria iniziativa di Zazzera esce, dunque, da un lungo oblìo la figura di uno dei massimi cuochi italiani, sconosciuto perfino a molti addetti ai lavori. Leonardi, originario di Roma, attivo tra il 1740 e il 1800, dopo un lungo apprendistato a Parigi, fu chiamato a San Pietroburgo, nel 1778, al servizio del Principe
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Gregorio di Orlov, ove fu notato, per la sua maestrìa dall’imperatrice Caterina II, di cui divenne cuoco e scalco (lo scalco era colui che si occupava di ordinare il convito, di mettere in tavola le vivande e di trinciarle). La Sovrana era notoriamente dotata di straordinari appetiti e circondò di attenzioni il Leonardi che poteva disporre, per le sue preparazioni, delle più ricercate materie prime. Basti dire che la cucina poteva utilizzare frutta e verdura in abbondanza, coltivate nelle serre appositamente costruite per soddisfare i bisogni alimentari della corte e riscaldate artificialmente durante il rigido inverno russo. Proprio i rigori del clima, ch’egli non sopportava, convinsero il Leonardi a tornare in Italia, raggiungendo Roma, nel 1787, ove tre anni dopo fu pubblicato l’Apicio Moderno. Lavorò in seguito a Napoli, al servizio del Duca di Gravina, ma quando gli eserciti napoleonici invasero l’Italia, il nobiluomo
fuggì in Sicilia e Leonardi dovette provvedere a se stesso. Di lui si persero definitivamente le tracce. Ma il suo capolavoro gli sopravvive perché di autentico capolavoro si tratta. Da secoli, dopo lo Scappi, gli italiani non avevano più avuto un manuale di cucina che codificasse la grande tradizione gastronomica nazionale. Sì, perché Leonardi, pur ispirandosi liberamente a ricette straniere e subendo l’evidente influsso della cucina francese, adatta i piatti al gusto dei suoi compatrioti, utilizzando ingredienti tipicamente italiani, come la ricotta, il parmigiano. Egli sottolinea l’eccellenza dei prodotti del nostro paese, dalle cozze del Golfo di Taranto, al manzo toscano, al pesce squisito, reperibile ovunque. Sorprendente è l’attualità dell’invito ad accostarsi alla cucina
maggio 2012 Non è che le richieste per i percorsi culturali o gli avvenimenti facciano riscontrare percentuali bulgare, però è un dato da approfondire e, se possibile, da correggere per il futuro. Vero è che, nell’era di Internet e della prenotazione on-line, molti arrivano sapendo già dove andare a cenare e, successivamente, ad alloggiare perché, al momento della partenza, hanno già provveduto a tutto, noleggio eventuale dell’auto compreso. È altrettanto chiaro come il visitatore possa essere intercettato dalla segnalazione di qualche guida cartacea, nel caso fosse riuscito a schivarsi i feedback on line su questo o quel locale. Dopo aver usato il setaccio, bisogna però convenire che si potrebbe fare qualcosina di più. La nostra provincia, negli anni, si è ritagliata un invidiabile posto al sole nel panorama dell’offerta enogastronomica, grazie all’impegno di quanti ci hanno creduto (produttori, imprenditori, coltivatori, enologi, enti preposti, ristoratori), grazie all’aiuto di qualche sponsor speciale (pensiamo a Gino Veronelli) e anche per l’ottimo passaparola dei visitatori stessi. Tutto ciò è molto positivo, ma evidentemente non basta. Noi siamo, da tempo immemorabile, fautori di iniziative semplici, ma molto ben organizzate e non disdegniamo di ricordare che se un’idea funzionava bene anni addietro, non è detto che non si possa rivisitare e riproporre. Sono pochi i visitatori che chiedono notizie: però, probabilmente, anche gli addetti a fornirgliele non hanno in mano granché di
stuzzicante da proporre per le loro cene e per le loro tasche, oltre agli indirizzi stranoti, s’intende. Una volta, ed era Città Alta a farla da padrona, c’era (richiestissimo) il “menù turistico” con una scelta ristretta di piatti ed un altrettanto ristretto costo finale. Ma gli stranieri ci si buttavano a capofitto. Ora, la domanda è molto semplice: ci piace avere turisti che pranzano col trancio di pizza passeggiando per strada o preferiamo farli accomodare davanti ai casoncelli con un secondo piatto a seguire, ad un prezzo accattivante? La presenza di un “menù turistico” non dovrebbe essere lasciata all’iniziativa del singolo ristoratore: si potrebbe studiare per benino, magari trovare qualche sponsor e uniformarlo il più possibile nella scelta dei piatti e nel calcolo dei prezzi. E, in questo progetto, anche lui low cost, le associazioni di categoria potrebbero fare da apripista. E perché, poi, non tornare su rassegne di successo come l’antico “Invito a Tavola” o il più recente “Sosta d’arte”, manifestazioni che richiamavano buongustai dalle altre province e che si potevano proporre ai visitatori di passaggio? Gli uffici turistici (ma anche gli alberghi) avrebbero così qualcosa di originale da proporre, per tasche diverse e, soprattutto, “pensato” insieme. Iniziative da veicolare al meglio, sennò agli Iat continuerebbero a barcamenarsi intorno all’uno per cento. Che, con l’aria di elezioni che tira, non sarebbe davvero un buon risultato. piercapozzi@libero.it
e ha inventato la pummarola n’coppa con umiltà e dedizione. Leonardi precisa nella prefazione al suo trattato: “ … Per essere eccellenti in questa professione senza limiti e che si estende fin dove giunge una felice immaginazione, non basta saper fare un pranzo o una cena, bisogna saperlo fare bene. Mentre in tutte le professioni v’è il buono, il mediocre ed il cattivo, quel che v’è più di male è che ognuno suppone di essere un cuoco perfetto, nel tempo stesso che forse ne ignora i primi principi. Più un uomo ha talento e meno ha presunzione, essendo l’amor proprio un temibile ostacolo a qualunque avanzamento. Ecco una delle ragioni per cui in Italia l’arte della cucina da due secoli a questa parte è andata sempre più in decadenza. Un cuoco si crederebbe tacciato d’ignoranza se fosse sorpreso leggendo un libro che tratta della sua professione (...). Noi non abbiamo in Italia quei lunghi ed assidui lavori, onde colla pratica potersi istruire, né a tutti si presentano quelle occasioni di vedere il Mondo e di osservare nei paesi esteri la
maniera, diversa dalla nostra, colla quale preparano non solo gli alimenti a noi cogniti, ma eziandìo quelli da noi mai veduti; di modo che, volendo correggere questo difetto del caso, non solo bisogna abbracciare con avidità tuttociò che può istruire, ma di più bisogna andare in traccia di quanto può contribuire a perfezionarsi nella propria professione …”. Si tratta di un vero e proprio manifesto programmatico che meriterebbe di essere diffuso nei nostri Istituti alberghieri, come se fosse stato scritto per i giovani studenti di oggi: è giusto sentirsi orgogliosamente italiani, anche in cucina, ma non bisogna dimenticare di essere cittadini del mondo ed aprirsi con curiosità e senza preconcetti alle altre culture gastronomiche. Francesco Leonardi si è, tuttavia, guadagnato fama imperitura con una straordinaria intuizione. Egli è il primo che pensa di ottenere un sugo per la pasta asciutta utilizzando il pomodoro privo di semi, fatto sobbollire lentamente con aglio, cipolla e
sedano. È proprio così. La mitica pummarola n’coppa non è di origini napoletane, ma è frutto della creatività e dell’estro di un cuoco romano. Il suo ragù di pomi di terra prevede l’impiego di “… pomidoro nella quantità che avete bisogno, dategli una mezza spremuta e metteteli dentro una cazzarola con fusti di pretzemolo, basilico, qualche spicchio d’aglio, fette di cipolla, qualche scalogno. Ponete sopra il fuoco, fatelo bollire per un’ora dolcemente, poi passateli al setaccio, con una cucchiara a forza di braccia, dovendo passar tutto, alla riserva delle pelli e dei semi …”. Ed ecco pronto il condimento per la pasta che ha reso celebre l’Italia e Napoli nel mondo. Nessun plauso, onore o benemerenza furono ascritti per questo al Leonardi. Nemmeno Napoli gli ha dedicato una via, un busto o una targa commemorativa. Anzi amici napoletani, non sarebbe il caso di rimediare a questa ingiustizia?
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CONFETTURE
Vasetti di bontà di Laura Bernardi Locatelli
ANCORA OGGI INSOSTITUIBILE A COLAZIONE AN O IN PASTICCERIA, LA FRUTTA DA SPALMARE TUTTO L’ANNO TR TROVA SEMPRE PIÙ APPASSIONATI CHE DECIDONO DI PASSARE DAL CONSUMO ALLA PRODUZIONE DIRETTA. E A BERGAMO C’È CHI SCENDE IN CAMPO PER RECUPERARE PR PRODUZIONI DIMENTICATE LA SCHEDA
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ate dalla saggezza antica per conservare a lungo la frutta di stagione, le confetture sono ancora oggi insostituibili a colazione e in pasticceria. Ma c’è frutta e frutta da spalmare su una fetta di pane o su una crostata. Anche se conservanti e coloranti sono stati banditi da tutti i produttori (sempre meglio verificare in etichetta la loro assenza) e l’unico additivo che può essere presente è il gelificante (di solito la pectina, che è naturale e si ricava dalle mele), la qualità di una confettura è ovviamente legata alla percentuale di frutta utilizzata e, come per qualsiasi prodotto da portare a tavola, alla qualità della materia prima. Se i produttori dai grandi numeri si attengono agli standard minimi di contenuto di frutta (tetto fissato al 45% per legge), gli artigiani delle conserve impiegano dal 65 al 75% di frutta, realizzando in tutto e per tutto delle composte o quanto meno delle confetture extra con la “e” maiuscola (questa particolare preparazione prevede un contenuto di frutta pari ad almeno il 65%), bandendo conservanti, additivi e preferendo cotture rapide per mantenere il più possibile i preziosi ingredienti della frutta fresca, maturata sulla pianta. Ecco una serie di indirizzi dove acquistare confetture a chilometro zero che conservano tutto il sapore della frutta coltivata in modo rigoroso (dall’impollinazione dei fiori affidata all’operosità della api, ai dettami della coltura bio o della lotta integrata) e maturata al sole, con la sicurezza di assistere ad ogni fase del processo e perfino - è il caso dell’azienda Settimo Cielo - con lo smartphone grazie al Qr Code. Non mancano frutti dimenticati, riscoperti dalla paziente ricerca di alcuni agricoltori, come la pirola e le erde longhe coltivate da John Brignoli dell’azienda agricola Miriam, e nell’ambito di un progetto innovativo come i.Land, ideato da Italcementi nell’ambito di i.Lab al Kilometro Rosso e realizzato in collaborazione con la Condotta di Bergamo di Slowfood, presieduta dall’avvocato Raoul Tiraboschi. Affari di Gola ha voluto dare una sbirciata al campo prima della presentazione ufficiale, in programma a fine agosto: al Kilometro Rosso avranno nuova vita frutti, in particolare mele e pere, entrati da oltre un secolo nel dimenticatoio dal pom d’or al pom stela, dal pom diaulì al pir buter alla pirola - che saranno trasformati in confetture biologiche, pronte a sostituire le merendine “spazzatura” attraverso la distribuzione nelle scuole, dalla scuola materna alle superiori, e a diventare, a suon di gettone, snack sostenibili attraverso speciali distributori automatici che saranno installati nel territorio.
ATTENTI A USARE BENE IL TERMINE MARMELLATA Marmellata deriva dal nome portoghese della pianta di mele cotogne (il marmelo), ma nella terminologia moderna designa solo i prodotti a base di agrumi (limone, arancio, mandarino, pompelmo, clementina, cedro e bergamotto). Tutti gli altri frutti danno origine a prodotti che si dovrebbero indicare più correttamente - in base ad una direttiva comunitaria - con il termine di confettura. La differenza è nella percentuale di frutta utilizzabile. Nelle marmellate, gli agrumi possono arrivare anche a solo il 20%, mentre nelle confetture si arriva al 35%. La confettura è detta extra se la presenza di frutta arriva al 45%. La composta di frutta si distingue dalla marmellata per il maggior contenuto di frutta (superiore al 65%) e conseguentemente il minor quantitativo di zucchero aggiunto. La gelatina di frutta viene prodotta con zucchero e succo della frutta ed è largamente impiegata in pasticceria per apricottare i dolci prima di glassarli.
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AZIENDA “CASCINETTO D’AGRO” Il tempietto di San Tomè domina dall’alto, dalle parti dell’Agro di Almenno San Bartolomeo. Appena sotto, il Ristorante “Giubì” e l’Azienda agricola biologica “Cascinetto d’Agro”, rispettivamente il regno di Beppe Locatelli e del fratello Giuliano, anche titolare dei fornelli allo storico locale di famiglia. Giuliano Locatelli è un coltivatore biologico, di quelli cioè di stretta osservanza naturale: non usa diserbanti né tantomeno pesticidi nelle sue coltivazioni, a cavallo tra il ristorante e l’azienda, dove coltiva i frutti per le sue confetture, che prepara con metodo artigianale, senza impiegare coloranti o conservanti. Giuliano segue scrupolosamente la stagionalità. A giugno avremo quindi le confetture di ribes e lamponi; a luglio quelle di albicocca, gelso e more; ad agosto mirtillo e sambuco; a settembre azzeruolo e prugna tardiva; a ottobre mele cotogne, nespole e mosto cotto con frutta. Nel periodo estivo Giuliano produce inoltre le confetture di peperoni e cipolle, strepitose nell’accompagnamento dei formaggi. Da segnalare, tra le altre produzioni, il “Vino rosso biologico della Bergamasca” ed una giardiniera in grado di esaltare un piatto di bolliti misti così come una semplice fetta di pane casereccio. Pur essendo un piccolo produttore, Locatelli s’è tolto una soddisfazione non da tutti: si sono innamorati delle sue confetture anche in Giappone, dove un sito le consiglia caldamente ai suoi utenti. “Nespole !”- verrebbe da esclamare per restare in tema. via Cascinetto, 4 - Almenno San Bartolomeo - tel. 035 548203
AZIENDA AGRICOLA MIRIAM John Brignoli, ingegnere ambientale, ha definitivamente attaccato al chiodo giacca e cravatta e abbandonato un posto sicuro come consulente in azienda, per “ritornare alla terra” e portare avanti l’azienda agricola della madre Miriam, in cui è cresciuto, a Trescore. 15 ettari di terreno coltivato, di cui sei dedicati alla coltivazione di piccoli frutti: lamponi, mirtilli, more, ribes, fragole e uva fragola, come evidente dal logo aziendale, una farfalla colorata con ali di frutti di bosco. Alla coltivazione di piccoli frutti, Brignoli ha voluto affiancare, dopo un lungo lavoro di ricerche e studi, frutti dimenticati come la “pirola” (pera da cuocere con vino e zucchero) e la Spadona d’Inverno o “erda longa” (piccola pera da lasciar maturare nel fieno) varietà
autoctone bergamasche ed ormai quasi scomparse. La Piröla è particolarmente indicata per essere consumata cotta, come ben sapevano le nostre nonne, mentre la Erda Longa, che viene raccolta a settembre quando il frutto è ancora verde e acerbo e poi lasciata riposare su di un letto di paglia, è un ingrediente imprescindibile del ripieno dei veri casonsei bergamaschi. Alla vendita di frutta, l’azienda ha affiancato recentemente anche un laboratorio di trasformazione per la realizzazione artigianale, secondo la ricetta della signora Miriam, di confetture, che vengono vendute direttamente in azienda e nei mercatini Coldiretti, ma che hanno conquistato piazze importanti come Milano e Genova, dove è possibile acquistarle in punti
vendita selezionati. C’è solo da sbizzarrirsi nella scelta del vasetto preferito: chi cerca sapori antichi può cercare di accaparrarsi uno dei 200 vasetti di erda longa prodotti ogni anno o ripiegare sulla mela cotogna; gli amanti dei piccoli frutti possono optare per lampone, mirtillo, ribes o uva fragola. Non mancano confetture di cachi e kiwi per completare l’offerta (il prezzo non cambia in base alla varietà ed è di 4,50 euro). Gli indecisi possono acquistare il formato mignon, declinato nelle 18 varietà proposte, al piccolo prezzo di 1 euro. Oltre alle confetture extra e senza zucchero, l’azienda vende succhi di lampone e mirtillo (33 euro la confezione da 12 pezzi). Ma i prodotti del laboratorio di casa Brignoli non si esauriscono qui: la novità, che sarà lanciata presto sul mercato celebra un prodotto antico in chiave moderna: per garantire a tutti la possibilità di scoprire la Piröla, saranno venduti sacchetti con la pera bergamasca cotta a vapore, pronta da gustare.
via Vallesse - Trescore tel. 035 94520
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CONFETTURE
AZIENDA AGRICOLA SETTIMO CIELO Alberto Sangalli ha lasciato una carriera nello sviluppo software per diventare il terzo abitante della piccola frazione Bretto di Camerata Cornello, ricominciando da zero nel paese eletto tra i borghi più belli d’Italia. L’azienda agricola Settimo Cielo, nata nel 2007, è specializzata nella coltivazione nei 4 ettari di terreno di proprietà e trasformazione di frutta, piccoli frutti, ortaggi ed erbe officinali che trasforma e utilizza per la preparazione di diversi prodotti, dalle confetture ai succhi, dal miele ai formaggi, dalle salse, erbe ed aromi ad una serie di prodotti innovativi a base di frutta e verdura disidratata, essenze, estratti e prodotti nutraceutici. La produzione di confetture è la principale specialità dell’azienda, realizzate con almeno il 70% di frutta fresca, senza additivi, conservanti o addensan-
ti. La scelta va dai frutti di bosco ai frutti rossi, alle fragole, ai lamponi, ai mirtilli al ribes e all’uva spina; non mancano prodotti più ricercati, come la confettura di rosa canina e di prugne selvatiche (prezzi dai 4 ai 9 euro a vasetto). Le confetture realizzate in modo artigianale vengono preparate con una cottura breve per conservare integralmente le proprietà della frutta; al metodo tradizionale si affianca la cottura sottovuoto a bassa temperatura che non prevede l’aggiunta di zucchero per un prodotto che conserva tutto il sapore della frutta maturata al sole. Alle confetture si affiancano le sfoglie di frutta disidratata da portare con sé in ogni occasione (3 euro) e le spremute di frutta, vendute in bottigliette da 20 cl (un concentrato medio 450 g di frutta fresco) a 4 euro. Ogni fase della produzio-
ne è sempre a disposizione sul vasetto, a prova di smartphone: l’etichettatura con aggiunta di codici QR e Tag permette la tracciabilità ma anche la descrizione dettagliata dell’intera vita del prodotto, dalla coltivazione alla vendita. I prodotti vengono venduti direttamente, on-line e si possono trovare in alcuni punti vendita selezionati, ma entro l’estate sbarcheranno all’estero grazie al progetto di internazionalizzazione della Camera di Commercio, che ha permesso all’azienda di prendere contatti con Paesi dell’Estremo Oriente, come Singapore, e di conoscere imprese in Australia.
via Bretto 18 Camerata Cornello tel. 339 4469996
“LE FRAGOLE” DI SABRINA TURINI Una fattoria in legno che ricorda quelle del Nord e della vicina Svizzera trapiantata nella Bassa, a Ciserano. Una scelta di stile quasi obbligatoria per chi, come Sabrina Turini, ha deciso di abbandonare il lavoro di interior designer per darsi all’agricoltura, inaugurando nel 2000 da giovane e coraggiosa mamma di tre bambini - Michele, Elisa e Filippo che
oggi danno un piccolo aiuto nella gestione - la sua azienda. In questi anni l’azienda si è distinta per la produzione di piccoli frutti, in particolare di fragole, nate da un incrocio tra il frutto più conosciuto e la fragolina di bosco, conquistando pasticceri, ristoranti rinomati e i migliori negozi di ortofrutta. Nel 2010 l’azienda ha scelto di destinare una piccola parte del raccolto (circa il 6%) alla trasformazione in confetture, affidata ad un laboratorio esterno. Mirtilli, fragole, frutti di bosco, ribes, more e lamponi, coltivati fuori-suolo per raddoppiare la superficie coltivabile e seguendo i dettami dell’agricoltura a lotta integrata, vengono trasformati in confetture extra con un contenuto di frutta del 70% (100 grammi di confettura senza zucchero sono realizzati con 200 grammi di frutta; 170 grammi nel caso delle confetture tradizionali). Ogni vasetto contiene una percentuale di mela Golden in virtù del suo contenuto naturale di pectina. La produzione è limitata - 1.000 vasetti in media l’anno -; le confetture e le conserve (senza zuccheri aggiunti e tradizionali) vengono vendute direttamente in azienda o nei mercatini. I prezzi vanno dai 4,20 ai 5,80 euro. L’azienda agricola è specializzata anche nell’allevamento di cavalli, una passione di famiglia. via Solferino 21 - Ciserano tel. 339 5975824
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LE TRUBINE DI MIRIAM PULCINI
IN COLLABORAZIONE CON SLOW FOOD
GRAZIE ALL’ I.LAND, ANCHE ITALCEMENTI FA LE CONFETTURE Nel parco tecnologico del Kilometro Rosso nasce l’orto delle colture dimenticate grazie alla volontà di Italcementi che, in collaborazione con la Condotta di Bergamo di Slow Food, ha realizzato I.Land, un orto sostenibile, nato all’interno dell’innovativo centro di ricerca e innovazione I.Lab. Su una superficie di 12mila metri quadri si coltivano varietà scomparse da un secolo dai nostri mercati e dalle nostre tavole, per dare vita a prodotti rigorosamente bio. Confetture extra e frutta essiccata saranno la merenda sostenibile di bambini e ragazzi dai 3 ai 18 anni, grazie alla collaborazione con gli istituti scolastici, e rappresenteranno un’alternativa a junk-food, dalle patatine agli snack, nei nuovi distributori automatici “Bio”. Nel frutteto Italcementi sono stati piantati oltre 300 arbusti di piccoli frutti, 400 meli e peri bergamaschi, dal pom d’or al pom diaulì al pom stela tra i filari di meli, al pir buter e alla pirola tra quelli dei peri (2.700 i metri quadri destinati a frutteto). Tra i piccoli frutti, la varietà di lamponi è quella autoctona, originaria dei Colli di Bergamo, il “Rossana” di Albenza, cui sono dedicati 280 mq. Nel raccolto i.Land non mancheranno nemmeno mele cotogne, prugne e nespole. Gli antichi frutti bergamaschi, scomparsi dal mercato perché non perfetti alla vista e recuperati grazie al lavoro di ricerca dell’azienda agricola “Antiche Delizie” di Cene da Slow Food, hanno un gusto tutto da scoprire. La trasformazione artigianale in confetture bio sarà realizzata dall’azienda agricola Matteo Moioli, che segue per la Condotta Slow Food in ogni fase il progetto I.land, dalla pianta al frutto al vasetto. L’obiettivo è raggiungere, a regime, da qui a 3/5 anni, 400 chili di vasetti e frutta essiccata di meli e peri. Il taglio del nastro di I.land, che consentirà di scoprire l’orto dell’ Italcementi, è previsto il 30 agosto. i.Land - Kilometro Rosso - via Stezzano - Bergamo
Nel 2006 Miriam Pulcini decide di lasciarsi alle spalle 17 anni di lavoro in un’industria metalmeccanica e di iniziare la coltivazione di piccoli frutti in una minuscola frazione di Locatello in Valle Imagna, dove ha acquistato una stalla con un terreno ideale per questa tipologia di coltivazione, selezionando varietà montane. Oggi l’azienda è un punto di riferimento in Valle per la coltivazione ad hoc di more, lamponi, uva spina, fragole e mirtilli, per una produzione che si aggira sui 20 quintali l’anno. La trasformazione in confetture e succhi di frutta viene affidata ad un laboratorio specializzato esterno, su indicazione e ricetta di Miriam. “L’obiettivo - anticipa Pulcini - è creare entro due anni un laboratorio ed un punto vendita per poter così realizzare in casa le confetture in una produzione a ciclo chiuso e venderle direttamente in azienda, mostrando tutte le fasi di realizzazione”. Le confetture, extra, con il 70% di frutta, maturata e colta al momento giusto e il restante 30% di zucchero di canna, senza conservanti e coloranti, sono il fiore all’occhiello dell’azienda agricola; non manca una produzione di composte senza zucchero per rispondere alle richieste di una clientela sempre più attenta. Alla coltivazione di piccoli frutti, l’azienda agricola affianca un piccolo allevamento di asini e capre e una piccola produzione di miele - millefiori, tiglio, castagno e tarassaco -, nettare prodotto dalle “api di casa” incaricate dell’impollinazione dei fiori e che quindi fanno la loro parte di lavoro per migliorare la qualità della frutta. L’azienda agricola partecipa ai mercati dei prodotti agricoli Coldiretti “Campagna Amica” e pratica la vendita diretta in azienda. I prezzi vanno dai 4 euro per le confetture extra ai 4,50/5 euro per le composte senza zucchero. Da provare anche succhi e nettari di frutta naturali al 100% e sempre senza zuccheri aggiunti, dai 2 ai 2,50 euro. Loc. Trubine - Locatello tel. 389 0725974
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IL PERSONAGGIO
SULLE COLLINE DI PONTERANICA, PRODUCE BARBERA, MERLOT E CABERNET. “LIMITATA LA PRODUZIONE, MA DEDICARMI AL VIGNETO È UN GRANDE PIACERE” di Fabrizio Pirola
Pier Luigi Pizzaballa con la moglie Lucia Rodeschini
Pizzaballa, l’ex portiere con la passione per il vino
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al vigneto sulle colline di Ponteranica si vede lo stadio. Con un binocolo, durante le partite, anche la sua maglia, la numero 1, quella di un “mito” atalantino. Parliamo di Pier Luigi Pizzaballa, personaggio genuino, nel calcio come nella vita. E così pure nel vino, che per hobby produce sulle colline intorno a Bergamo. Una produzione limitata di uve barbera, merlot e cabernet, bianco che offre una procon la “chicca” di un moscatino bi Tutti prodotti artiduzione di appena sessanta litri all’anno. all gianalmente gianalmen dalla moglie Lucia Rodeschini deschin e della sua mamma, la 93enne 93en Ancilla. ““La vera passione della mia vita è sempre stata il calcio, è ovvio. L’interesse nei confronti mondo enologico è invece nato durante le tre stagioni (dal ’66 al ’69) con la maglia romanista - confessa Pizzaballa -. Nella capitale, con mia moglie, durante la giornata libera del lunedì, andavamo a curiosare tra le bellissime cur cantine di tufo dei colli rocan mani nella zona di Frascati. man passione è sbocciata e si La pa ulteriormente rafforzata duè ulte rante i miei anni al Verona. AbiSan Floriano in Valpoliceltavo a Sa
la e abbiamo avuto il tempo e l’opportunità di innamorarci di grandi vini come il recioto e l’amarone”. L’inizio dell’esperienza di Pizzaballa nel mondo del vino è stata poi agevolata dagli eventi. “Per tenermi in forma - ricorda l’ex portiere atalantino - curavo il bosco e il vigneto della famiglia. Lì pian piano l’interesse per il vino si è trasformato, sono passato alla parte operativa. E nel ’73, con il fondamentale aiuto di mia moglie Lucia, una vera esperta, abbiamo iniziato i lavori in vigna e siamo partiti con una piccola produzione”. Che è rimasta limitata e purtroppo riservata solo a pochi palati, amici e parenti, che ovviamente richiedono di pasteggiare con il vino di famiglia nei lori convivi. Si parla, infatti, di soli 9/10 quintali, di cui 500 litri di rosso, settanta di bianco, da dividere anche con i tre fratelli. Tutto prodotto quando la vendemmia lo consente, perciò non tutti gli anni. Una volta effettuata la spremitura, il vino prende la strada di due contenitori in vetroresina e uno in acciaio. La sgranatrice e il torchio sono d’epoca, risalgono alla metà del ‘900. Mentre degustiamo insieme all’ex portiere il delizioso e leggermente frizzante rosso, non possiamo esimerci dal ricordare la passione nei confronti del buon bere di altri “personaggi calcistici. “Come il Paron Nereo Rocco, mio allenatore al Milan - ricorda Pizzaballa - oppure lo svedese Nils Liedholm, che è poi diventato un famoso produttore in Piemonte”. Ma il ricordo più forte è nei confronti di un altro svedese, Kurt Hamrin, “il quale - sottolinea ancora Pizzaballa dopo avermi ubriacato segnandomi 5 gol in un 7 a 1 per la Fiorentina, ha acquistato un vigneto sulle colline toscane”. Ora il nostro ex portiere, dopo averci regalato l’unico trofeo atalantino nel ’73, la Coppa Italia, dovrà parare le richieste per il suo vino, ma per un gran portiere…
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Pronta la Guida Enoturistica per rilanciare il Valcalepio IN USCITA A METÀ GIUGNO. SONO 245 I RISTORANTI E 18 LE ENOTECHE CHE SI IMPEGNANO A TENERE IN CARTA ETICHETTE LEGATE AI VINI DEL TERRITORIO
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i è conclusa lo scorso aprile la raccolta delle adesioni al progetto “Guida Enoturistica di Bergamo e dintorni” promossa dal Consorzio Tutela Valcalepio e in uscita a metà giugno. Grande la soddisfazione dei membri del direttivo per i risultati raggiunti dalla guida, che sarà stampata in 10mila copie e verrà distribuita gratuitamente presso le aziende e i locali aderenti, gli alberghi, i punti turistici della città e della provincia e tramite la rete Iat. L’obiettivo è quello di raggiungere un numero di persone, locali e turisti, il più ampio possibile perché tutti sappiano dove è possibile degustare i vini del territorio. Il ristorante aderente si impegna infatti a presentare in carta almeno tre etichette Valcalepio di tre aziende differenti aderenti al Consorzio, numero che sale a cinque per le enoteche. La guida ovviamente non si propone di giudicare il locale, il servizio, il cibo: nasce come semplice strumento per i bergamaschi e per i turisti che vogliono avere indicazioni sui locali che offrono i vini del territorio. Nelle schede dedicate ai locali verranno riportate indicazioni relative agli orari di apertura, ai giorni di riposo, alle ferie, al numero di coperti che il locale offre, al prezzo medio di un menù, curiosità e specialità della casa e, naturalmente, quali etichette del territorio propone nella sua carta dei vini.
I numeri: 245 i locali che hanno deciso di aderire all’iniziativa del Consorzio, dimostrando che oltre un quarto dei ristoranti di Bergamo e provincia propone nella propria carta dei vini almeno 3 etichette Valcalepio di 3 aziende differenti aderenti al Consorzio (questa infatti era la condizione essenziale per rientrare nella guida); 9 i ristoranti che offrono nella propria carta dei vini una selezione di 10 o più aziende aderenti al Consorzio Tutela Valcalepio, a dimostrazione del fatto che è importante credere nel nostro territorio e presentarlo in maniera quanto più esatta e variegata possibile al pubblico; 18 le enoteche di Bergamo e provincia che propongono 5 o più etichette di aziende del territorio ai propri avventori; 31 i locali in città e oltre 200 quelli sparsi per la provincia e le valli che si fanno fieri araldi del vino del territorio 24 le aziende del Consorzio Tutela Valcalepio che fanno parte del Circuito dell’Ospitalità, al quale sarà dedicata un’apposita sezione della guida che raccoglierà le informazioni relative alla possibilità di organizzare tour delle aziende, degustazioni e acquisto di prodotti tipici.
Il commento del presidente
Rota: “Un segnale forte per il vino del nostro territorio” “Un’operazione di grande rilievo sottolinea Enrico Rota, presidente del Consorzio Tutela Valcalepio -. Il messaggio che vogliamo inviare chiaro e forte è che il Valcalepio dimostra sempre più di essere il vino di Bergamo e dei bergamaschi e come tale viene valorizzato dai nostri ristoratori. Il risultato ottenuto da
questa prima edizione della guida è assolutamente soddisfacente, lavoreremo con i nostri soci per migliorarlo ancora. Ci piacerebbe che tutti i ristoranti e i locali di Bergamo e provincia proponessero in carta una selezione quanto più rappresentativa possibile dei vini del nostro territorio. Il Consorzio - prosegue il pre-
sidente - promuove il vino di Bergamo, il Valcalepio, ed è sempre felice di poter appoggiare le sue aziende in iniziative di questo tipo che dimostrano quanto a Bergamo è già stato fatto in favore del Valcalepio e della sua diffusione e fa riflettere su quanto ancora possiamo fare per il futuro”.
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L’INTERVISTA
PARLA MAURIZIO ZANELLA, PRESIDENTE DEL CONSORZIO DI TUTELA. “IN 20 ANNI ABBIAMO CAMBIATO CINQUE VOLTE IL DISCIPLINARE DI PRODUZIONE ALZANDO SEMPRE PIÙ L’ASTICELLA DELLA QUALITÀ”. “LA NOSTRA REPUTAZIONE È SOLIDA, MA SIAMO GIOVANI E DOBBIAMO DIVENTARE ADULTI”. “I MERCATI ESTERI SARANNO UNO SBOCCO IMPORTANTE” di Riccardo Lagorio
Franciacorta, “Così la nostra Docg crescerà ancora”
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aurizio Zanella guida come presidente da tre anni il Consorzio per la Tutela del Franciacorta, vino ottenuto esclusivamente con il metodo della rifermentazione in bottiglia e primo ad avere ottenuto, nel 1995, la Denominazione di Origine Controllata e Garantita (Docg). Una sola espressione, Franciacorta, che definisce un territorio, un metodo di produzione e un vino. È vero, presidente? “Certamente, come Consorzio negli ultimi anni abbiamo voluto coinvolgere Comuni, Provincia e Regione Lombardia affinché i nostri obiettivi di tutela del territorio incrociassero gli interessi dei vari Enti. Per un Consorzio, e per un territorio come la Franciacorta, è necessario che si condividano progettualità e i minimi comun denominatori per creare un piano di lavoro coerente con gli obiettivi”. Quali sono? “In sintesi si devono cercare indirizzi collettivi per valorizzare il territorio. Per individuare quali sono i punti di forza e quindi utilizzare le risorse nella direzione della valorizzazione del territorio abbiamo approfondito molti aspetti: quello demografico analizzando le dinamiche evolutive, quello urbanistico capendo come si sono sviluppati i 19 paesi che compongono il territorio Franciacorta dall’epoca del catasto napoleonico ad oggi, quello industriale. Così avremo un quadro dell’evoluzione degli ultimi 40 anni e da lì partiremo per progettare il futuro. Abbiamo già organizzato cinque seminari in proposito, istituendo anche un’apposita ricerca sul nome Franciacorta”. Proprio questo è un aspetto interessante: il Franciacorta è nettamente diverso e più riconoscibile che la Franciacorta. “Sì. Ci troviamo di fronte ad una duplicità di significato a seconda che si voglia intendere l’area geografica o il vino. E
proprio per questo bisogna fare in modo che il territorio sia configurabile come vocato e propenso alla produzione di bollicine. Da parte nostra ce la stiamo mettendo tutta. La Docg Franciacorta ha cambiato cinque volte il disciplinare di produzione in vent’anni, spostando sempre più in alto l’asticella della qualità e chiedendo ai consorziati grandi sacrifici che nessun altro consorzio al mondo fa per accrescere la propria reputazione”. Il tutto in tempi relativamente brevi... “Direi di sì. Il Franciacorta ha solo 50 anni, altre aree in Europa hanno una tradizione che rimonta a 300 anni fa e oltre. C’è poi un altro aspetto che richiede da parte dei produttori del Franciacorta un grande rigore: i concorrenti degli altri Paesi si possono esprimere con più facilità sul mercato internazionale grazie a posizioni più consolidate negli anni e quantitativamente più grandi. Per questa ragione dobbiamo dare del Franciacorta un’idea di coesione e crearci un’elevata reputazione tramite regole rigorose e severe che nessun altro ha”. Quindi convivono ancora punti di forza e di debolezza in grande vino del Made in Italy? “È ovvio. Ma proprio perché il Consorzio viene gestito più come un’azienda, siamo in grado di definire punti di forza e di debolezza, che ci permettono di gestire le scelte che dobbiamo fare nel prossimo futuro. Come ho ricordato, ci siamo imposti regole severe e rigorose per la produzione del Franciacorta”. Il punto di forza più significativo? “È l’oggettiva qualità che abbiamo costruito nel corso dei decenni” E quello debole? “Nonostante appunto la qualità, ci possiamo considerare ancora inesperti: in cinquant’anni, poiché ciascuna vendem-
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Maurizio Zanella
mia ha una storia diversa dalle altre, abbiamo accumulato poca pratica, se la paragoniamo ad altre esperienze. L’attuale ridotta dimensione del numero di bottiglie prodotte, intorno agli 11 milioni e mezzo, è un punto di debolezza che si potrà tradurre in elemento positivo se cresceremo mantenendo gli stessi attributi di oggi. Eppure non potremo mai superare i 25 milioni di bottiglie, in quanto il territorio si estende su un’area ristretta”. Quindi anche in futuro ci dobbiamo aspettare un vino prodotto su piccola scala, lontano dall’idea di gigantismo che ha caratterizzato e caratterizza altre realtà… “Oggi sono 2.800 gli ettari vitati a Franciacorta Docg e le aziende associate sono 189, di cui 83 viticoltori e 106 aziende produttrici. Il 5 marzo 1990, giorno di fondazione del Consorzio, eravamo 29 produttori con il solo scopo di controllare il rispetto della disciplina di produzione del vino Franciacorta. Del 1995 è il riconoscimento della Docg e nel 2010 abbiamo eseguito l’ennesima revisione del disciplinare di produzione per rendere ancora più restrittive le regole per elaborare il Franciacorta. In questi numeri sta anche il valore del nostro lavoro. La sintesi del lavoro che abbiamo fatto in questi anni sta anche nel periodo di produzione: si impiegano almeno 18 mesi per ottenere il brut, 24 mesi per il satèn ed il rosé, 30 mesi per i Franciacorta millesimati e ben 60 mesi per i Franciacorta Riserva, che rappresentano l’1,1% della produzione totale”. Nella scala commerciale quali sono i più venduti? “Ovviamente il brut, con il 68,6% sul totale. Segue il millesimato con quasi il 13%, il satèn con il 9,3% ed il rosé con l’8,1% del complesso”.
Soddisfatto del giudizio delle Guide? “Enormemente. Gratificazioni le otteniamo dalle pubblicazioni più autorevoli del settore vinicolo: Veronelli, Duemilavini, Gambero Rosso, L’Espresso, tanto per citarne alcune. Su 103 realtà premiate che producono metodo classico, oltre il 50% fa capo al Franciacorta. Il gradimento è emerso anche da una ricerca Cermes-Bocconi del 2011: in un mercato degli spumanti positivo del 4,7%, la crescita delle vendite registrata dai nostri associati è stata dell’11%”. E per quest’anno che previsioni fate? “Prevediamo un ulteriore incremento delle vendite, anche grazie all’inserimento in Svizzera, Germania e Gran Bretagna, con una tendenza positiva anche in Giappone e Stati Uniti. Tutto ciò dimostra che il Franciacorta non deve avere timore reverenziale nei confronti di nessuno”. Il consolidamento delle esportazioni è un obiettivo prioritario? “Che ciascuna azienda associata cerca di risolvere con gli strumenti a sua disposizione. Dal 2013, sperimenteremo invece un osservatorio economico che monitorizzerà le cantine in maniera cumulativa. Mantenendo l’anonimato dei singoli dati, si saprà in tempo reale quante bottiglie vengono vendute, il prezzo medio e il canale di destinazione”. Per fare cosa? “Sono dati che aiuteranno la singola azienda a capire se si colloca all’interno delle dinamiche consortili o se deve aggiustare la propria posizione. In particolare vorremmo proseguire a sviluppare la nostra presenza su quei canali distributivi che più di altri richiedono un’intermediazione tra prodotto e consumatore, nello stile Franciacorta. La promozione è un elemento distintivo per il prodotto. Non a caso, dopo Bologna il 14 maggio, il Festival Franciacorta si ripeterà anche a Forte dei Marmi il 23 giugno, in Piazzetta a Capri a luglio e settembre e il 15 ottobre a Milano”.
L’ULTIMA BATTAGLIA: basta usare il nome “bollicine” Uno stop in piena regola a uno dei termini più utilizzati per indicare il Franciacorta, piuttosto che lo Champagne o gli spumanti in genere. L’appello viene dal Consorzio Franciacorta, che si rivolge soprattutto a chi comunica il vino, ma anche ad operatori, appassionati e produttori. “Chiamiamo il vino con il proprio nome e non con termini che ne generalizzano e ne uniformano le peculiarità, appiattendone, di fatto, la qualità percepita - spiega Maurizio Zanella, presidente del Consorzio Franciacorta -. Bollicine è un termine obsoleto e senza futuro. Il tempo presente ci offre una nuova occasione per affermare i nostri vini di qualità, cominciando dal consolidare la cultura di base in materia e da un appropriato linguaggio”. “È neces-
sario - aggiunge Zanella - iniziare un nuovo percorso per valorizzare i grandi vini anche dal punto di vista nominale. Con impegno e passione il Franciacorta ha raggiunto il traguardo dei 50 anni; a questo punto, credo sia maturo per un passo successivo, importante per poter definitivamente trovare, a livello nazionale ed internazionale, un posizionamento coerente e rispondente all’eccellenza che esprime”. “E che non si chiami più spumante - continua il presidente -. Non per velleità o principio, ma per decreto ministeriale” (il riferimento è al disciplinare di produzione del Franciacorta, ndr). “Oggi il Franciacorta, come anche altri vini di qualità, esige più rispetto, eleganza, identità, che il termine bollicine, or-
mai, non è in grado di dare - conclude Zanella -. Franciacorta, Champagne e Cava: in Europa, solo questi tre vini possono utilizzare un unico termine per identificare in modo preciso un vino, un territorio e il metodo di produzione. Ecco l’identità di cui parlo. Chiamiamo il vino con il proprio nome e quindi: Spumanti, i vini senza Denominazione specifica; Franciacorta, il Franciacorta”.
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SAPORI IN CITTÀ di Lara Abrati
In Val d’Astino torna l’olio d’oliva
Una piccola valle piena di grandi sapori ALLE PORTE DI BERGAMO SI PUÒ GODERE DI UN LUOGO SUGGESTIVO E RILASSANTE, DOVE PASSEGGIARE MA ANCHE SCOPRIRE PIACERI GASTRONOMICI.
L’ITINERARIO
ECCO UN PERCORSO CON LE PRODUZIONI E LE AZIENDE DA VISITARE
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La valle di Astino, caratterizzata e conosciuta per la presenza dell’omonimo monastero, regala ai suoi visitatori un paesaggio decisamente agricolo e boschivo, benché parte della città. In passato, la zona era abitata da contadini che coltivavano i seminativi e i vigneti con contratti di mezzadria. L’attività agricola è stata favorita dalla sua esposizione al sole, dalla fertilità dei terreni data anche dalla presenza della roggia Curna e dalla protezione dai venti. Nell’area si sta sviluppando anche un progetto di riqualificazione agricola che coinvolgerà alcuni produttori d’eccellenza. Per le sue ottime caratteristiche ambientali è da sempre meta di escursioni, grazie a percorsi alla portata di tutti. L’itinerario pedonale ed enogastronomico che proponiamo ai nostri lettori parte lasciando il mezzo di locomozione vicino alla trattoria Lozza, all’incrocio tra via Astino e via Madonna del Bosco. Qui si imbocca la via Astino e subito dopo s’incontra l’azienda agricola Beatrice Arrigoni, produttrice di piccoli
frutti, all’angolo con via Ripa Pasqualina. Successivamente si prosegue verso il Monastero di Astino e ci si imbatte nelle aziende agricole di Roberto Bonacina, orticoltore, e di Giovanni Locatelli, viticoltore. Si arriva poi in via dell’Allegrezza, strada panoramica che porta all’omonimo bosco. Qui ci si imbatte in due sentieri, uno più alto e l’altro in basso, entrambi raggiungono Sella di Madonna del Bosco dove si trova l’agriturismo Marco e dove ci si può fermare per gustare le sue prelibatezze per un pranzo all’insegna della cucina bergamasca. Una volta sfamati, si scende da via Madonna del Bosco e ci si immette in via della Bagnada e la si percorre fino ad incrociare via Rabaiona. La strada si districa tra campi coltivati e vigneti. Tramite via del Coppo, si raggiunge e si imbocca via Castello Presati, una caratteristica strada ciottolata che ci porta verso la Chiesa parrocchiale Madonnina del Bosco. Si svolta quindi a destra in via Madonna del Bosco e la si percorre fino a ritornare al nostro punto di partenza, la trattoria Lozza.
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Agriturismo Marco e l’Engim sono i promotori di un progetto che prevede l’impianto di un uliveto delle dimensioni di 5000 mq in Val d’Astino. L’ulivo era storicamente coltivato nella piccola valle alle porte di Bergamo. Il recupero vede coinvolto anche il Parco dei Colli, uno dei soggetti promotori della sopraccitata scuola, che punta a ripristinare sia la coltivazione degli olivi sia delle infrastrutture necessarie alla lavorazione e frangitura. La collaborazione ha come responsabile l’agronomo Luciano Levati, docente della scuola, che ha spiegato come l’opportunità sia utile per entrambi i soggetti: per gli studenti perché possono mettere in pratica le nozioni legate agli studi intrapresi, per l’azienda agricola perché si trova una presenza tecnica non indifferente che può aiutarla a migliorare le sue produzioni. Il gruppo di venticinque studenti che frequentano la classe seconda infatti è stato chiamato in causa anche nelle altre colture frutticole dell’azienda, avendo quindi la possibilità di seguire l’intero ciclo di allevamento. Gli ulivi verranno invece impiantati nel terreno a balze e il periodo di impianto sarà a settembre. Il progetto è stato creato da Levati e altri docenti della scuola, con l’aiuto e la manodopera degli studenti. La cultivar impiantata sarà il Frantoio, allo scopo di produrre nei prossimi anni olio extravergine di oliva monovarietale che andrà a incrementare e completare l’offerta dell’agriturismo che auto-produce già i molti alimenti che ne costituiscono l’offerta. Inizialmente l’idea era di recuperare la Sbresa, cultivar autoctona della provincia di Bergamo e molto simile alla cultivar che sarà invece impiantata, ma purtroppo per motivi di reperibilità non è stato possibile mantenere la scelta. In provincia la Sbresa assume anche il nome di Sbressa o Bresa.
A SETTEMBRE LA MESSA A DIMORA DELLE PIANTE SU UN’AREA DI 5MILA MQ. LA CULTIVAR SCELTA SARÀ IL “FRANTOIO”. LA SVOLTA GRAZIE ALLA COLLABORAZIONE TRA L’AGRITURISMO MARCO ED ENGIM
Gustavo Battaglia
BEATRICE ARRIGONI L’azienda è nata nel 2001 e produce piccoli frutti in 5mila mq seguendo le indicazioni dell’agricoltura biologica (non ancora certificata). Coltiva lamponi, more, mirtilli, uva spina e ribes. Viene prestata molta attenzione alla sostenibilità delle produzioni. Infatti, oltre all’adesione ai principi dell’agricoltura biologica, è stato predisposto un bacino idrico per l’accumulo di acqua per l’irrigazione. Oltre ai piccoli frutti, l’azienda ha dei terreni a prato e seminativo e coltiva erbe aromatiche. Le produzioni vengono commercializzate direttamente, prevalentemente tramite i Gas o ai ristoranti. La raccolta viene effettuata previa prenotazione per garantire la freschezza del prodotto, importante per questi frutti, facilmente deperibili. Non vengono ancora prodotte confetture, ma tra i progetti probabilmente c’è anche questo. La si può trovare in via Astino, all’angolo con via Ripa Pasqualina. L’azienda è visitabile previo contatto con la Signora Beatrice Arrigoni (338/9840219). E-mail: beaarrigoni@gmail.com.
GUSTAVO BATTAGLIA E L’AGRITURISMO MARCO O L’azienda agricola è affiancata dall’agriturismo Marco che, oltre a cene e pranzi domenicali, offre possibilità bilità di alloggio. Presto verrà impiantato un uliveto per un progetto con la scuola Engim San Giuseppe di Valbrembo. brembo. Ha una stalla in cui alleva bovini e suini. Previa comuniomunicazione è possibile visitare l’azienda. Con il Parco co dei Colli ha intrapreso il progetto legato alla coltivazione zione della “Patata dei Colli”. In particolare, con altri due produttori e attraverso l’aiuto del Parco e di alcunii tecnici, si è iniziata la coltivazione di tre varietà adatte atte alle condizioni pedoclimatiche della zona: la Spunpunta, la Daifla e la Stempster. Si possono acquistare tare in sacco da 5 e 10 chilogrammi. L’azienda contribuiribuisce al recupero anche di due varietà di mais bergamagamasche antiche coltivando il Rostrato rosso e lo Spinainato di Gandino. Le fa macinare a pietra. La farina prodotta viene utilizzata per l’attività ristorativa dell’agriturismo e viene venduta in sacchetti da 1 Kg al costo di 3 euro. L’agriturismo offre piatti della cucina bergamasca, si possono gustare infatti ottimi taglieri di salumi prodotti in loco nel laboratorio aziendale, casoncelli, paste fresche e vari secondi piatti. È aperto il giovedì, venerdì, sabato sera e la domenica a mezzogiorno. È gradita ed essenziale la prenotazione. Il prezzo medio è di 25-30 euro, mentre il “menu me cucciolo” per bambini con meno di 10 anni ha un costo pari a 10 euro. L’azienda si trova in via Madonna del Bosco. Tel. 320 1565350 www.agriturismomarco.com
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SAPORI IN CITTÀ
GIOVANNI LOCATELLI TRATTORIA LOZZA La trattoria è nata negli anni 70 per iniziativa di Giancarlo Lozza. Originariamente era una cantina dove veniva servito il vino che la famiglia Lozza produceva in valle d’Astino. Successivamente l’offerta è stata ampliata e si è trasformata prima in trattoria e infine anche in pizzeria. La trattoria-pizzeria è gestita dalle tre sorelle Lozza, figlie di Giancarlo, la cui moglie è ancora in cucina. Accanto al locale c’è anche un’azienda agricola, gestita dall’altro figlio, Elis. Nell’azienda agricola vengono prodotti ortaggi, vino e vengono allevati bovini, ovini, suini e animali da corte destinati all’attività ristorativa. Anche le carni vengono lavorate e trasformate in salumi. La cucina, a parte le pizze, è legata al territorio. A mezzogiorno offrono un menu a prezzo fisso a 10 euro, mentre alla sera e nei giorni festivi la spesa per pranzare o cenare va dai 15 ai 30 euro, in base alle portate. La trattoria è aperta tutti i giorni tranne il lunedì. Si trova in via Madonna del Bosco, 21. Tel. 035 252580
Originariamente guidata da Giovanni, ora l’azienda è gestita dai suoi due figli, Luigi e Valentino. Ha sede nella cascina “La Schesa” in via Astino 27/e. Il terreno coltivato a vite è circa 4mila mq. Le varietà da cui ricavano il vino sono il Merlot ed il Cabernet. Producono esclusivamente vino rosso da tavola composto da circa 90% Merlot e 10% Cabernet mantenuto solo in botti di acciaio o vetroresina. Valentino e Luigi continuano con l’attività di produzione di vino iniziata dal padre per passione, infatti entrambi hanno un altro lavoro. Per questo motivo per eventuali visite in azienda o acquisti è necessario concordare un appuntamento attraverso un contatto telefonico. Il vino viene venduto sfuso, attraverso damigiane o dame da 5 litri al costo di 9 euro, e imbottigliato, venduto in cartoni contenenti sei bottiglie al prezzo di 14 euro (circa 2,30 euro/cad.). Contatti: Luigi 338 7494636, Valentino 338 2242396
BONACINA ROBERTO L’azienda si trova in via Astino, prima del monastero. Coltiva ortaggi con metodo convenzionale. In particolare produce porri, zucchine, fagiolini, peperoni e, in alcuni anni, zucche. Lo spazio coltivato è di circa 10mila mq, tutto viene coltivato in campo aperto. Purtroppo, non è possibile la vendita diretta, ma potete vedere la coltivazione passeggiando per la valle Astino.
LA SCAROLA DEI COLLI
NEI DINTORNI
Fuori dalla Valle d’Astino, ma sui colli attorno alla città di Bergamo si possono visitare le aziende: Angelo Viscardi, Franco Viscardi e Giuseppe Bonacina. Si trovano in via San Martino della Pigrizia e in Borgo Canale e producono la pregiata Scarola dei Colli, diventata presidio Slow Food. Coltivata da secoli vicino alle mura attorno a Città Alta, si distingue dalle altre varietà in commercio per il processo di imbiancatura delle foglie. Viene seminata da inizio luglio in campo aperto e a ottobre viene legata affinché le foglie interne non prendano la luce. Con i primi freddi i cespi vendono trasferiti in scantinati bui dove maturano. Angelo Viscardi - via Borgo Canale, 80 - tel. 035 251955 Franco Viscardi - via San Martino della Pigrizia, 24 - tel. 035 259312 Giuseppe Bonacina - via San Martino della Pigrizia, 18 - tel. 035 251592
AGRITURISMO LE SORGENTI L’azienda agricola si estende per 15 ettari ed è formata da due cascine ben ristrutturate, l’azienda offre ospitalità in termini di alloggio. Produce inoltre vino Valcalepio Doc rosso che viene imbottigliato direttamente all’origine. L’azienda si trova in via Fontana, ma vi si accede da via Colle dei Roccoli 33, Bergamo. Cell. 349 7130270, www.lesorgentibergamo.it
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LA SFIDA
Laura Ceresoli
Sergio Cotti
Si avvera il sogno di due giornalisti bergamaschi: ristoratori in Francia LA SCOMMESSA DI SERGIO COTTI E LAURA CERESOLI, DUE CRONISTI CHE HANNO DECISO DI LASCIARE L’ITALIA PER ANDARE A VIVERE A NIZZA
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iornate frenetiche trascorse a rincorrere le notizie per arrivare prima di qualunque altro. E come costante compagno di avventura un cellulare che, in certi momenti, non smette mai di squillare, neppure a tarda sera. Era questo il lavoro di Sergio Cotti fino a qualche giorno fa. Adesso però tutto sta per cambiare. Il destino, a un certo punto, lo ha messo di fronte a un bivio: continuare a fare il giornalista, barcamenandosi tra innumerevoli collaborazioni (tra queste anche l’Ansa e il Corriere della Sera) o inseguire il sogno di una vita: vivere nella sua amata Francia? La moglie Laura Ceresoli, anche lei giornalista, non ha avuto esitazioni: serviva un cambiamento. Bisognava però farlo in fretta, prima che Margot, la loro bimba di quasi 3 anni, iniziasse a frequentare la scuola materna a Bergamo. Allora perché non dar sfogo a quella indomabile passione per la cucina che da un paio di anni a questa parte i due coniugi stavano coltivando attraverso il loro blog “Cotti e mangiati”? E perché non farlo nel cuore delle Alpi Marittime, nei luoghi che li hanno fatti innamorare? Così l’idea di trasferirsi in Costa Azzurra negli ultimi mesi è diventata sempre più concreta. Già, perché Sergio e Laura quelle zone le conoscono bene. Quattro anni fa si sono sposati proprio a pochi chilometri da Montecarlo, nella chiesetta di un paesino medievale chiamato Eze Village. Sarà che l’amore viscerale di Cotti per la Francia non è mai stato un mistero. Nella libreria del suo studio sono stipate centinaia di libri in lingua francese e una collezione assai rifornita di Tour Eiffel di ogni forma e colore. “I tasselli del puzzle si sono ricomposti quasi per magia lo scorso aprile - spiegano Sergio e Laura -. Abbiamo trascor-
so quattro giorni in Costa Azzurra per vedere se il progetto di aprire un locale Oltrealpe fosse fattibile o meno. Se fossimo riusciti a trovare un appartamento in affitto e un negozio in quel lasso di tempo voleva dire che era destino, altrimenti avremmo lasciato perdere, non ne avremmo parlato più e avremmo continuato a fare il nostro lavoro di giornalisti senza più lamentarci”. Detto, fatto. A tempo di record, Sergio e Laura, su suggerimento di una agente immobiliare italiana, hanno trovato sia la casa dove trascorreranno i prossimi mesi sia un delizioso locale dove iniziare la loro nuova attività. “Via Montenapoleone” è il nome ambizioso scelto per il loro ristorante, un omaggio alla celebre strada del pret-à-porter milanese ma anche alla città natale di Cotti. Appuntamento, quindi nel carré d’or di Nizza, nel quartiere Gambetta. Lì, dove la vita scorre veloce e la moda dell’aperitivo comincia a fare il suo timido ingresso, Sergio e Laura vogliono portare una marcia in più. Nel loro locale di rue Dalpozzo nelle prossime settimane si potranno degustare, a buffet o seduti, taglieri di salumi e formaggi italiani, dal culatello di Zibello al lardo di Colonnata, dal crudo di Parma al salame nostrano, passando ai formaggi, in primis il parmigiano reggiano che, all’estero, è da sempre un peccato di gola assai ricercato. Il tutto accompagnato da buon vino, pane casereccio e, perché no, da un po’ di polenta. E, dulcis in fundo, una selezione di torte fatte in casa con ingredienti di stagione. “Lasciare tutto non è stato uno scherzo - concludono Sergio e Laura -. A Bergamo avevamo tutto, una bella casa, una famiglia, un lavoro che ci piaceva. Ma essere riusciti a trasferirci nel luogo dei nostri sogni non ha prezzo”.
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L’ESPERTO
PARLA FABIO CAMPOLI, FOOD DESIGNER, REDUCE DAL SET DELL’ULTIMO FILM DI WOODY ALLEN. “È SEMPRE MEGLIO UTILIZZARE LA REGOLA DELL’UNO-TRE-CINQUE QUANDO SI SERVONO DELLE PORZIONI, FOSSERO ANCHE DELLE FETTE DI PROSCIUTTO. L’EFFETTO VISIVO È DI MAGGIOR PIACEVOLEZZA”. “L’ERRORE DEGLI CHEF? TALVOLTA CUCINANO PER SE STESSI E NON PER IL LORO OSPITE” di Giordana Talamona
“Il numero dispari rende più appetibile il piatto”
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stato chiamato da Woody Allen sul set del suo ultimo film “To Rome with Love”, in qualità di food designer, curando personalmente l’ambientazione, la mise en place e la realizzazione di tutto il cibo di scena della pellicola. Fabio Campoli, chef e fondatore del Circolo dei Buongustai a Roma, non è nuovo a esperienze di questo tipo. Da oltre dieci anni realizza il cibo di scena per il cinema e la televisione, luoghi dell’ingegno e della fantasia, dove la finzione raggiunge l’impensabile e l’occhio vuole molto più della sua parte. “Il food design per il cinema è un’esperienza totalmente diversa dalla cucina in cui lavori, dietro le quinte, solo con la tua creatività, le forme e i colori - spiega Campoli -. Quando ho iniziato a lavorare per la televisione e per il cinema, ho capito che quello che si vede, non è sempre quello che si mangia”. Dopo l’esperienza con Woody Allen, dove ha lavorato a stretto contatto con le stelle di Hollywood preparando, tra le altre, la scena del party interpretata dalla bella Penelope Cruz, lo incontriamo per capire quanto design si nasconda tra i fornelli per fare di un cuoco, un grande chef. Televisione, cinema, ricettari, pubbli-
cità, il cibo è onnipresente e deve fare quasi più gola alla vista che al palato. Di cosa di occupa esattamente un food designer? “Esistono, innanzitutto, tre specialità differenti nelle quali uno chef può essere impiegato lavorando sull’immagine di un cibo. C’è lo Still Life dove lavora a stretto contatto col fotografo, predisponendo delle nature morte per riviste e libri. C’è l’Home Economist, termine molto antico riutilizzato nella pubblicità, dove si preparano dei piatti di scena per delle riviste o delle telepromozioni, lavorando su un progetto già stabilito dell’agenzia pubblicitaria. Ed, infine, c’è il Food Design, dove lo chef, assieme allo scenografo e all’arredatore, è l’architetto nella costruzione di una scena televisiva o cinematografica, come elemento integrante della parte artistica”. Esiste un rapporto tra design e cucina? “Certamente, curare un piatto prima di servirlo, stare attenti alle geometrie, ai colori e al servizio può fare la differenza. Guardando un piatto, si capisce almeno l’80 per cento della formazione di chi l’ha cucinato, se ne percepisce lo stile, se è più raffinato, pacchiano, naif,
maggio 2012 chic, se ha avuto certi tipi di esperienze, se è stato all’estero”. Qualche regola da rispettare? “Partirei innanzitutto dal piatto, che è per lo chef importante, al pari della tavolozza di un pittore. È chiaro che ogni chef sceglie le porcellane in base al proprio gusto, quindi è difficile generalizzare, tuttavia consiglio di prestare molta attenzione alla luminosità del piatto e alla sua bordatura, che può essere di diverso tipo, satinata, liscia o raffinata. A me piace la tavolozza bianca, la brillantezza della porcellana
“CERTAMENTE CURARE UN PIATTO PRIMA DI SERVIRLO, STARE ATTENTI ALLE GEOMETRIE, AI COLORI E AL SERVIZIO PUÒ FARE LA DIFFERENZA”
lungo la bordatura, per cui quando preparo un piatto evito di predisporre il cibo sui bordi”. C’è qualche trucco che visivamente può rendere più appetibile una pietanza? “Il dispari è più efficace per l’occhio, dà un effetto visivo di maggior piacevolezza. Anche in un piatto con del semplice prosciutto, ad esempio, è sempre meglio utilizzare la regola “uno, tre, cinque”, adagiandovene delle fette in numero dispari”. Perché? “È una questione di proporzioni, le quattro fette danno un senso di “piatto”, e tecnicamente ricordano la croce, mentre la regola “uno, tre, cinque”, esalta la forma e la morbidezza della pietanza. In genere si preferisce o il pezzo singolo o il tre, ma mai il pari”. La disposizione della pietanza sul piatto può influenzare il modo in cui verrà mangiata dall’ospite? “Certo, l’esempio più banale sono i formaggi disposti sul piatto dal più tenero al piccante, partendo da mezzogiorno, ma questo vale per qualunque pietanza. Prendiamo del filetto, ad esempio, quando lo impiatto penso già a dove si trovano coltello e forchetta, quindi nella mia testa ho in mente che la carne dovrà stare a sinistra
e le patate a destra. Così, dunque, chiedo che vengano serviti”. Anche il rapporto tra chef e cameriere, dunque, è importante? “Direi che è fondamentale, perché se ho strutturato un piatto in un certo modo, non è solo per far mangiare più comodamente il mio cliente, ma anche per esaltare il gusto di quella pietanza. È una questione di comunicazione del cibo, senza stress, dettata dalla consapevolezza che anche il servizio, al pari della cucina, è fondamentale. Per questo prima di una serata occorre fare un briefing ai camerieri, dando loro tutte indicazioni che riteniamo importanti. Ad esempio, ho recentemente preparato una rana pescatrice coperta da patate di colori differenti, che era disposta esattamente al centro del piatto e così ho voluto che arrivasse al tavolo”. Trova che il servizio sia stato tralasciato in questi anni? “Senza dubbio, anche per questo ho fondato il “Circolo del Buongustai”, per rilanciare l’arte del servizio, perché come “cuocere e cucinare sono differenti”, anche “mettere un piatto a tavola e servire”, sono due cose ben diverse”. Quali sono gli errori che più frequentemente commettono gli chef? “Talvolta cucinano per se stessi e non per il loro ospite. Questo è un errore che ha rovinato molti chef, tipico della mia categoria. Io prediligo la semplicità e la pulizia, nella presentazione di un piatto, il che non significa essere essenziali, ma avere cura degli alimenti, servirli in un modo da renderli mangiabili, senza troppi eccessi”. Le regole del food design sono applicabili in cucina? “Non esattamente, un conto è il food design, un altro è un piatto edibile. Questo è
un errore che molti giovani chef commettono, facendosi influenzare dai piatti di scena che realizzo. Cercano di rifarli al ristorante, ma poi mancano di quelle caratteristiche gustative che esaltano il gusto, come la succulenza, ad esempio. Certamente, qualche piccola indicazione sulla presentazione è utile trarla anche dal food design, ma senza mai dimenticare che sono due mondi ben distinti”. I piatti di scena devono essere spesso molto invitanti, ma sono anche commestibili? “Nel 70% dei casi no, perché si utilizzano dei prodotti che permettono di preservarli a lungo o che, addirittura, si utilizzano abitualmente nell’edilizia. Certo, la mia formazione da chef mi permette di applicare a questi materiali le stesse tecniche che uso in cucina, ma il risultato è ben diverso. In questi dieci anni d’esperienza sui set cinematografici, mi è capitato di “costruire” di tutto”. Ci faccia qualche esempio. “Qualcuno crede che io stia preparando della panna montata, ed invece sto usando della calce per l’edilizia. Qualcun altro vorrebbe provare degli invitanti tiramisù, e non sa che si tratta di prodotti chimici. Ricordo ancora quando ho preparato, per il telefilm storico “Roma”, dei finti testicoli di capra e l’attore si è rifiutato di mangiarli credendo fossero veri, cosa che gli è costata una bella ramanzina da parte del regista”. Non lo erano? “No, si trattava di gustose caramelle. E che dire delle anguille fatte di liquirizia o di quei pesci, veri in quel caso, che dovevano rimanere sul set per molti giorni? Io li misi in salamoia per così tanto tempo, che nessuna mosca ebbe il coraggio di avvicinarvisi!”.
IL CIRCOLO DEI BUONGUSTAI Il Circolo dei Buongustai, nato nel 2006 da un’idea di Fabio Campoli, chef di fama internazionale, ha come obiettivo la riscoperta del “convivio” intorno alle buone cose attraverso la grande cucina. Nel corso degli anni, il Circolo si è affermato come espressione della cultura della buona tavola, sinonimo non solo di gusto, ma di qualità e benessere. Forte di un suo comitato scientifico, l’Associazione è presente in manifestazioni e convegni, si occupa di formazione attraverso corsi e stage, si propone come consulente nel mondo della ristorazione e dell’alimentazione, organizza eventi culturali ed enogastronomici. IL CIRCOLO DEI BUONGUSTAI DI FABIO CAMPOLI via Tenuta del Cavaliere, 1 - Guidonia (Roma) - www.ilcircolodeibuongustai.net
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IL RISTORANTE
MENTRE AI FORNELLI DEL LOCALE DI CLUSONE “GOVERNA” CON ESPERIENZA CONSOLIDATA LO CHEF TOMMASO BARZASI, A DARE FORMA E SOSTANZA AL LOCALE SONO LE DONNE DI CASA. LA PROPOSTA GASTRONOMICA È ANCORA QUELLA IMPRONTATA DAL PAPÀ ANGELO di Lelia Parisi
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Mas-cì, il buon gusto declinato al femminile embra una nemesi, una legge del contrappasso, una hybris che entra trionfante nelle sale del ristorante quasi a voler sparigliare le carte. Perché al Mas-cì (“maschietto” in bergamasco) di Clusone sono le femmine di casa Barzasi a dare forma e sostanza al locale. Donne al comando che si dividono tra gestione dell’attività e mise en place dei tavoli, tra servizio in sala e cucina, con una leggerezza e disinvoltura che ti lasciano senza parole. Non le vestali di un tempo sacrificate al culto esclusivo della cucina, ma mogli e madri che riescono in quell’equazione fino a poco tempo fa impossibile di conciliare lavoro e famiglia, figli e femminilità. à. Belle (di una bellezza fresca e spontanea), longilinee, creative eative e soprattutto determinate, sono queste le donne del el “Mas-cì”, un nuovo tipo antropologico, prototipo di una donna na in mutazione assai più veloce rispetto alla controparte maschile aschile ancorata ai pochissimi geni presenti sul povero cromosoma mosoma Y. Eppure, raccontano Vittoria e Savina, «ancora oggi gi in paese ci chiamano Mas-cì, anziché Barzasi», segno che e i fatti sopravanzano le parole. “Mas-cì”, perché un secolo o fa quando dopo un’infornata di femmine insperatamente e arrivava il maschio (il mas-cì) era un evento, un dono del Cielo. Allora bastava dire “maschio” e dicevi tutto: sostentamento, mento, protezione, sicurezza economica, posizione sociale, insomma, nsomma, un’assicurazione sulla vita. Oggi invece i maschi del Mas-cì (anzi l’unico maschio schio di casa rimasto al ristorante, dopo la scomparsa del padre dre Angelo nel 2002) son chiusi in cucina a fare il lavoro “duro”, uro”, a spadellare ai fornelli e a controllare il paiolo. Quello di rifinitura
e supervisione spetta alle donne. Sono loro a impiattare, a dare l’aggiustamento finale, a fare in un certo senso l’editing del piatto, a scrivere il finale della storia. Senza quel tocco di creatività i piatti resterebbero buoni piatti, ma in qualche modo incompiuti, l’occhio privato del piacere estetico. Piatti che, a dispetto del taglio moderno della presentazione, sono in buona parte ancora quelli di papà Angelo, un lascito prezioso per il figlio Tommaso, che, con le sorelle, rappresenta la terza generazione di ristoratori del Mas-cì. Ed ecco allora i tagliolini al fumé, uno dei piatti cult, che visti lì per lì sul menù magari non fanno una grande impressione, ma
ALBERGO COMMERCIO RISTORANTE MAS-CÌ piazza Paradiso, 1 - Clusone - tel. 0346 21241 - chiuso il giovedì (luglio-agosto: sempre aperto) - www.mas-ci.it
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IL GIUDIZIO così ben calibrati nel loro condimento a base di pancetta, pomodoro, peperoncino e panna, da strappare elogi ai vari commensali che li ordinano. Non temono rivali nemmeno i rustici tagliolini (piuttosto spessi e fatti in casa come tutte le altre paste fresche) al tartufo nero di Bracca, di buona fattura pur nella loro quasi scontata semplicità. Buoni anche gli spaghettoni di castagne con funghi, oppure quelli ai pistacchi mantecati alla panna, mutuati da una ricetta siciliana. Tra gli antipasti, la palma va allo speck in sfoglia con insalatina di finocchio e taleggio fuso, seguito dalla carne salata del Trentino con caprino fresco locale e pera cruda con salsa alle noci, mentre la coreografica pasta fillo con trevisana grigliata, miele e fonduta, dopo un primo assaggio, risulta un po’ stucchevole (predomina la nota dolce del miele). Un piccolo menù è dedicato alla polenta, cotta nel paiolo di rame, con farina di Cerete mista a quella di Storo. La più ricca è quella con salame nostrano, porcini e stracchino fuso, molto sapida, ma non manca la versione con tartufo nero e Branzi fuso. Al formaggio fuso, presente in diverse altre proposte, sarebbe tuttavia preferibile talvolta una fonduta leggera che del formaggio trattiene comunque profumi e aromi, con il vantaggio di non appesantire il piatto. Ampia la scelta tra le carni, tra i punti di forza del menù, per lo più di razza barbina piemontese, come le fiorentine e le costate alla griglia, oppure australiane come la tagliata di angus proposta in più mise. Spiccano, in particolare, un succulento filetto di manzo ai porcini con polenta e un degno controfiletto di vitello in crosta di spezie miste, grigliato e poi passato in forno. Fuori lista, l’ottimo capretto al forno al burro e aglio. I dolci, curati interamente da Savina, sfoderano tutta la grazia e l’abilità di queste ragazze, esibendosi in fantasiose, e irresistibili, creazioni, dove delicate composte di frutti esotici e di bosco si alternano a deliziose creme chantilly, sottili meringhe, frutta secca e suadenti gelati di crema. Tra i tanti, la torta soffice di pere con gianduia e cesto croccante di gelato, la composta di tiramisù, la praline di noci, la sfoglia con chantilly e frutta fresca mista. Un conto medio (da 2 a 3 piatti) si aggira sui 40 euro, vini esclusi.
AMBIENTE Posto nel centro storico di Clusone di fronte all’imponente chiesa del Paradiso, l’Albergo Commercio e relativo ristorante è inserito in un elegante stabile d’epoca, il cui nucleo originario (la parte del pianoterra occupata dal ristorante) risale al XV-XVI secolo. Il ristorante si compone di tre salette, due con camino, per un totale di 100 coperti. Mattoncini a vista, travi in legno, finestre basse, mura spesse creano un ambiente di avvolgente intimità pervaso da una luminosità calda. In estate, la terrazza pergolata è il luogo ideale per pranzi e cene. CUCINA Ai fornelli il primogenito Tommaso (classe 1961) è l’unico maschio di casa Barzasi a tenere alto il nome del Mas-cì, dopo che il papà Angelo è scomparso nel 2002, benché in suo nome continuino a parlare i tanti piatti elaborati in 40 anni di cucina, che si sono conquistati ormai un posto d’onore in carta, in primis i tagliolini al fumé. La proposta è di terra (solo negli antipasti fa un timido ingresso il pesce, per lo più affumicato), ricca e di sostanza, con radici “miste”, che dal territorio (evocato dall’ampio ricorso ai formaggi delle valli, ai porcini e a paste rustiche) si diramano nelle vicine regioni. Presenti richiami alla cucina transalpina (quella che negli anni Settanta faceva sentire il suo peso in una Valle Seriana che andava arricchendosi, sensibile dunque ai richiami della cucina internazionale) nel frequente uso della panna per ammorbidire i sapori, specialmente nei primi, talvolta magari da moderare, e in una nutrita offerta di formaggi francesi. La Chateubriand, tuttora la regina delle carni alla griglia del Mas-cì, appare quasi un simbolo di quell’eredità. CANTINA Un centinaio le etichette in una carta dei vini non troppo corposa, ma in compenso ben curata, che copre tutto il territorio enologico italiano e si appresta ad accogliere un congruo numero di rossi francesi. E dove, caso unico o quasi, compaiono le foto delle etichette per una più immediata riconoscibilità, oltre a una descrizione delle caratteristiche (tipologia, vitigni, zona di produzione, gradazione alcolica) di ogni bottiglia. Buoni i ricarichi. ESPERIENZA Tommaso ha appreso l’arte e la tecnica della ristorazione lavorando per 20 anni a fianco di papà Angelo. «Ho lasciato subito la scuola alberghiera per imparare sul campo la cucina, quella vera». Quella che il padre ha costruito passo passo sudando per 40 anni ai fornelli, proseguendo il lavoro iniziato nel lontano 1927dal nonno Tommaso, capostipite di questa famiglia di ristoratori-albergatori. La tradizione che Tommaso mette in tavola è dunque soprattutto un patrimonio gastronomico familiare consolidato nel tempo. L’impiattamento è opera delle due sorelle, mentre i dolci, superlativi, sono affidati all’estro e al buon gusto (è proprio il caso di dirlo) di Savina. SERVIZIO Savina si destreggia elegantemente tra cucina e tavoli, coadiuvata in sala da Terry Baronchelli, da anni un supporto prezioso per la famiglia Barzasi in questa macchina ben oleata che si muove senza intoppi. Servizio ottimo, veloce, cortese, sorriso sempre sulle labbra, lo stesso che ogni piatto porta in tavola, grazie a una mise en place curata in ogni dettaglio, senza però diventare maniacale. La gestione alberghiera (4 mini-appartamenti e 14 stanze) è in carico a Vittoria, che si occupa anche dell’allestimento del menù. Alla cassa mamma Giannina. RAPPORTO QUALITÀ/PREZZO Molto buono il rapporto qualità prezzo, in particolare negli antipasti e primi. I primi viaggiano tra i 7 euro degli gnocchi alla parigina e i 12 dei tagliolini al tartufo, gli antipasti tra i 9 e i 12. Generose le porzioni. Presente peraltro un intero menù dedicato al tartufo (nero di Bracca e bianchetto d’Alba) a prezzi più che ragionevoli. Risulta un po’ anacronistico solo il coperto, a 3 euro. p.s.
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LA NOVITÀ
L’AZIENDA DI ALMENNO SAN SALVATORE RIVOLUZIONA LA GAMMA DEI FRESCHI CON DUE PRODOTTI DALL’OTTIMO RAPPORTO QUALITÀ-PREZZO. IL PRESIDENTE ROBERTO MONACI: “VOGLIAMO TRASMETTERE A RISTORATORI, CHEF E ALBERGATORI IL MESSAGGIO CHE LA PROMOZIONE DI UN TERRITORIO, E IN PRIMO LUOGO DELLE NOSTRE MONTAGNE, COMINCIA PROPRIO A TAVOLA”
di Leo Bartoli
Casera Monaci cala due nuovi assi: yogurt e budini
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radizione e innovazione sono i valori su cui si fonda da sempre l’attività di Casera Monaci. Tradizione perché l’azienda di Almenno San Salvatore opera nel pieno rispetto delle antiche lavorazioni del latte, privilegiando soprattutto qualità e freschezza. Innovazione perché non si è mai adagiata sulla scia del successo dei suoi prodotti di punta, Branzi e Formaggella Valle Imagna innanzitutto, ma ha sempre cercato strade nuove, per allargare una gamma che col tempo è diventata sempre più ricca e variegata. Sopra queste due qualità c’è un altro aspetto che prevale su tutto: la passione. Per quello che si fa, per come si lavora il latte declinandolo in decine di creazioni, per la cura che ci si mette in ogni fase delle lavorazioni, per la ricerca maniacale della perfezione e della qualità del prodotto. Proprio la passione è alla base della rivoluzione della gamma dei freschi, destinata a proiettare Casera Monaci in una dimensione ancora più ampia rispetto al passato, ma sempre con l’ambizione di rappresentare un punto di riferimento per il proprio territorio. “Creando questa nuova gamma di prodotti, da un lato gli yogurt, dall’altro i budini, abbiamo voluto mandare un duplice segnale - spiega il presidente Roberto Monaci -: in
primo luogo offrire alla clientela tradizionale e a quella di ristoranti e alberghi un prodotto di alta qualità a prezzi contenuti che riteniamo non abbia nulla da invidiare, anzi, agli yogurt tanto reclamizzati di altre parti d’Italia. Inoltre quello che vorremmo far capire ai ristoratori, chef e albergatori è che la promozione di un territorio e in primo luogo delle nostre montagne, comincia proprio a tavola. E come si propongono piatti di richiamo per i primi e i secondi, occorre anche offrire al turista alternative locali valide sul fronte dei dessert: ci piacerebbe che chi gusta un nostro yogurt o un nostro budino immediatamente pensasse al latte vaccino che viene dai pascoli delle nostre montagne, alla nostra storia, alle tradizioni della Bergamasca”. La rivoluzione del dessert è un invito quindi a non prendere scorciatoie controproducenti: “La qualità deve andare dall’antipasto al dolce: non esiste che un locale curi magari all’estremo un risotto o un secondo e poi vada ad acquistare un budino per i suoi clienti alla grande distribuzione. Ecco perché la nostra linea valorizza il fine pasto con materie prime di grande qualità, in grado di terminare un pranzo all’insegna della genuinità”. Nata a San Giovanni Bianco nel 1973 e trasferitasi ad Almenno dal
maggio 2012
Luca Monaci
2003, Casera Monaci è sempre stata un’azienda a dimensione familiare, con Roberto che ha raccolto il testimone di papà Giovanni, il patriarca, ancora oggi onnipresente come mamma Rina, e gestisce l’azienda con i fratelli Luca, responsabile della produzione, e Clara, a capo di amministrazione e contabilità. Con loro un team di nove dipendenti, molto affiatato, che segue tutta la filiera del latte e che ha contribuito con i Monaci ad ottenere la certificazione per il Branzi legata al marchio “Bergamo Città dei Mille Sapori” della Camera di Commercio (ente certificatore CSQA). Ma non è l’unico riconoscimento ad aver premiato l’azienda di Almenno, che in passato è stata premiata anche con la medaglia d’oro per la Formaggella Valle Imagna al Trofeo San Lucio di Pandino (Cremona). E con altrettanto entusiasmo la “squadra” di Casera Monaci si è buttata in questa nuova avventura legata ai “freschi”. Cremoso, gusto avvolgente e accattivante, lo yogurt di montagna di casera Monaci si può già trovare in tanti gusti: dal naturale a quello ai frutti di bosco (il più gettonato in assoluto), poi alla fragola, ciliegia, albicocca, banana, pesca, mela verde, arancia, nocciola e caffè, mentre dal prossimo mese e per tutta l’estate è previsto anche quello rinfrescante la menta. Cinque invece i budini già in commercio: da quelli al cioccolato e alla vaniglia, al creme caramel, panna cotta e crema catalana. “Fin da subito la nostra clientela ha dimostrato di apprezzare la qualità dei nuovi prodotti - conclude Roberto Monaci -: ci auguriamo che diventino un’abitudine alimentare per un sempre maggiore numero di consumatori che vogliono mantenersi in forma senza però rinunciare al bontà e alla qualità di un prodotto genuino e 100% made in Bergamo”.
Roberto Monaci
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LA SPECIALITÀ TIPICA PROPOSTA INVERNALE, ORA È STATA DESTAGIONALIZZATA PRIVILEGIANDO L’OLIO AL BURRO E SOSTITUENDO ALCUNI TIPI DI CARNE. ZANOLA (CASTELLO DI SERLE): “ANCHE LA RISTORAZIONE DEVE STARE AL PASSO CON I TEMPI. NON POSSIAMO INGESSARE UN PIATTO PERCHÉ FA PARTE DI UNA TRADIZIONE, MA DARE AL CONSUMATORE LA POSSIBILITÀ DI TROVARE QUEL CHE DESIDERA TUTTO L’ANNO” di Riccardo Lagorio
Lo spiedo bresciano sfida anche l’estate
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o spiedo con uccelli sta ai bresciani come la pasta sta agli italiani. Un’equazione nient’affatto licenziosa! Non esiste altra preparazione gastronomica più rappresentativa e quasi innata in ciascuno degli abitanti di una provincia conosciuta forse più per la sua attività economica e (quella che era) la supremazia industriale. Ma anche a tavola, attraverso un piatto ancestrale e fonte di innumerevoli inibizioni proprio per la presenza dei piccoli uccelli, Brescia ha un’identità. A dire il vero le varianti, le difformità più o meno marcate, le peculiarità di una determinata zona non mancano. Numerosi lavori di ricerca hanno evocato il nascere della tradizione dello spiedare legandola alla tradizione dell’estrazione del ferro e, successivamente, alla nascita dell’attività armiera, in particolare in Valtrompia e Valle Sabbia. Tuttavia l’attività dello spiedare il cibo non nasce certo con lo sviluppo dell’attività armiera nelle valli: è di gran lunga precedente e rappresenta una modalità di cucinare e mantenere il cibo nella sua forma essenziale, ancestrale. Originariamente infatti lo spiedo era cucinato con soli uccelli: ciò permette di collocare la nascita dello spiedo nel contesto dei cibi disponibili gratuitamente, quindi anche per le classi sociali più basse e legato al periodo delle migrazioni, l’autunno in particolare. Un’ipotesi che non è stata sufficientemente percorsa per spiegare l’esisten-
za di questo piatto così singolare nel bresciano riguarda, infatti, la presenza di numerosi specchi d’acqua ancorché di boscaglia. Acquitrini, laghi, rogge: situazioni geografiche e climatiche oggi per gran parte scomparse ma che caratterizzavano il territorio bresciano prima delle bonifiche o delle cementizie canalizzazioni. Queste circostanze geografiche rappresentavano, insieme ai boschi, pure presenti, la condizione indispensabile per l’inizio della tradizione della caccia, soprattutto di uccelli. Al tempo stesso, rappresentavano una, talvolta l’unica, fonte di proteine per un gran numero di persone, al pari del pesce d’acqua dolce, delle rane, dei gamberi, che erano diffusi nei ruscelli e nei laghi, ottenibili pressoché gratuitamente. Agli uccelletti, solo in tempi relativamente recenti, si sono aggiunti i lombi di maiale, la faraona, il pollo, il coniglio, le anguille, le patate a seconda dell’area geografica di preparazione dello spiedo bresciano. Se allora lo spiedo è lo specchio di una cultura come quella bresciana che si realizzava un tempo nei campi e nelle rogge, e nel terzo millennio neanche più nell’industria ma nelle banche, parlare di ingredienti per lo spiedo vuol dire caratterizzarne la storia. In tutta la provincia di Brescia spiedo è sinonimo di uccelli. Vale la pena ricordare come sino a pochi anni fa le macellerie ed i negozi di alimentari (o, in certi casi, anche i pri-
maggio 2012 vati) proponessero ai loro clienti, durante il periodo delle migrazioni, gli uccelli confezionati a dozzine in caratteristici mazzi legati tra di loro con uno spago infilato nel becco o intorno al collo. A dispetto delle recenti normative sulla conservazione degli alimenti, venivano esposti all’esterno delle vetrine, bene in vista, ed il fresco autunnale ne permetteva la salvaguardia dalle ultime ondate di insetti. Anche i contenitori che servivano a riparare da ragni e insetti formaggio o salumi, le moscaröle, erano utilizzati per mantenere qualche tempo, al fresco, gli uccelletti. Tra gli uccelli più apprezzati per lo spiedo, a prescindere dalla possibilità di cacciarli, vanno ricordati il pettirosso (sbesèt), il fringuello (franguen), il codirosso (carusì), la balia nera (alì), la peppola (frasaröla), l’allodola (sarlodö) e il lucherino (lögherì), e in misura minore, la cesena, il bottaccio, le quaglie e il merlo. Ai nostri giorni l’evoluzione di un piatto legato ad antiche pratiche non si è fatta attendere e, in ossequio alle istanze del mercato che richiedono cibi light e il più possibile freschi, soprattutto in estate, c’è chi ha pensato di rivedere alcuni degli ingredienti tradizionali. Emilio Zanola, patron della Trattoria Castello di Serle (telefono 0306910001) e sommelier, ha cercato di destagionalizzare questo piatto abituale
delle fredde giornate di novembre, sostituendo alcune materie prime. “Anche la ristorazione deve stare al passo con i tempi. Non possiamo pensare di ingessare un piatto semplicemente perché fa parte di una tradizione che viene da lontano nel tempo. Ma soprattutto è utile dare la possibilità al consumatore che viene sino a Serle di trovare quello che si attende tutto l’anno. Tuttavia è altrettanto vero che quando ci è data la possibilità, cioè da metà settembre a tutto marzo, lo spiedo che proponiamo è quello tradizionale…”. In effetti Serle è diventata una piccola grande capitale dello spiedo dopo che l’Amministrazione comunale ha adottato la Denominazione Comunale (DE.CO.) proprio sulla preparazione di questo piatto. In effetti l’Amministrazione si è adattata ad un dato di fatto: la ristorazione è il motore portante dell’economia serlese grazie al piatto che viene servito in oltre una trentina di locali. Così non si poteva far mancare ai visitatori che salgono fin quassù dalla città o dalla umida bassa alla ricerca di refrigerio il piatto serlese, rivisto. “Dopo numerose prove abbiamo trovato il modo per salvaguardare sia parte della tradizione, sia l’innovazione - continua Zanola -. Al burro abbiamo sostituito l’olio extravergine d’oliva del Garda, al suino e agli uccelli
Emilio Zanola
carni considerate più magre ed accessibili a tutti: pollo, coniglio ed agnello. Anche la polenta gialla è stata sostituita con quella bianco perla e il tempo di cottura è sceso a “sole” 4 ore… Carni bianche e polenta bianca rappresentano la nostra risposta per fare in modo che lo spiedo non manchi mai nei locali di Serle. E sta avendo un ottimo successo”. Tradizione deriva dal latino tradere: trasmettere e tradire. Proprio per la trasmissione di una tradizione talvolta questa deve essere tradita, insomma…
DECISIVI LA SCELTA DELLE CARNI E LA CAPACITÀ DI UTILIZZARE LA BRACE Per l’esecuzione di un buono spiedo, essenziale è la scelta del burro, la parte grassa non può essere inferiore all’82%. Ciò consente di rimarcare il gusto robusto delle carni e degli uccelli. Nella fascia costiera del lago di Garda si utilizza l’olio per irrorare lo spiedo. Anche la brace è elemento fondamentale. Apprezzata giustamente è quella che deriva dalla combustione lenta e senza fiamma e fumo al momento che si coprono con una velatura biancastra di carpino, vite, olivo, rovere, nocciolo che procurano calore intenso e duraturo. L’arte di spiedare richiede che la brace sia estratta quando è arroventata al punto giusto e sia disposta ad arte con la paletta sotto le bacchette. I tagli di suino che possono essere utilizzati sono la coppa, che deve garantire la giusta morbida succosità; la costina, che conferisce onferisce la corretta croccantezza; il lombo che, con gli uccelli, è l’ingrediente indispensabile pensabile per ottenere lo spiedo bresciano sciano e all’interno del quale viene posizionata una foglia di salvia. Poii quello che viene chiamato lo spiedo piedo vero e proprio. In antichità à era un’arma fatta di un ferro acuto posto sulla cima di un’asta e veni-
va usata per la caccia grossa, i cacciatori si servivano dell’arma, al termine della battuta, per infilzarvi la selvaggina ed arrostirla, all’aperto, al fuoco di legna. Col passare del tempo, il termine spiedo ha finito, così, per indicare principalmente lo strumento di cucina all’interno del quale vengono infilzate le carni per essere abbrustolite. Nella cultura bresciana il termine spiedo è passato a significare anche l’oggetto in cui vengono cotte le carni: uno scatolone metallico che ha al suo interno una base su cui poggiare le braci e delle bacchette su cui s’infilzano le carni e che ruotano intorno a se stesse. Le bacchette vengono mosse meccanicamente affinché la velocità sia costante e le carni siano cotte uniformemente. Da sopra viene colato il burro (e inizialmente il lardo) per mantenere morbide le carni; viene raccolto e utilizzato sino al termine della cottura dalla leccarda, una padella allungata che consente pad di riprendere, ancora caldo, l’intinripre golo colato. In parte la meticolosità c (pulizia (puliz delle carni, abilità di accendere e mantenere il fuoco, capacità di cuocere omogeneamente i vari cuo ingredienti) ed il tempo necessario ingred
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LA SPECIALITÀ alla preparazione del piatto (non meno di cinque ore), oltre alle stringenti norme relative alle specie cacciabili, sono condizioni che hanno penalizzato negli ultimi anni la realizzazione del piatto in molti ristoranti o trattorie. Tuttavia, la soddisfazione di servire gli uccelli e gli altri ingredienti sfilati dalle bacchette e raccolti in un piatto di portata, conditi con l’intingolo raccolto nella leccarda e arricchito di minuscoli saporiti frammenti di uccelletto o
LO SPIEDO DE.CO. DI SERLE E DI GUSSAGO Dove la tradizione è più radicata, le amministrazioni comunali hanno ritenuto opportuno stabilire delle regole per tutelare i saperi di vecchia data. I Comuni di Serle e Gussago hanno in serbo per l’autunno iniziative per mantenere viva la tradizione dello spiedo e valorizzarlo nel migliore dei modi. Dal 2010 il Comune di Gussago organizza “Lo Spiedo Scoppiettando…”, un’iniziativa che coinvolge 15 locali della cittadina. Tutti i giovedì sera si può degustare lo spiedo tradizionale di Gussago a Denominazione Comunale (De.Co.) accompagnato da fumante polenta ed abbinato al vino Cellatica superiore Doc. Nel Comune di Serle il mercoledì i ristoranti ospitano a rotazione artisti musicali e servono lo spiedo accompagnato ad altre pietanze tradizionali a prezzi promozionali. Come si prepara: • Si formano degli involtini con coppa o lonza di maiale, arrotolandovi una foglia di salvia ed insaporendo con sale; • si spiedano le carni alternando nelle bacchette uccelli, involtini, costine e sottili fette di lardo; • le bacchette sono fatte cuocere nello spiedo tamburato, inserendo nell’apposito spazio braci di legna o carbone; • i primi grassi che colano vengono eliminati; • le carni vengono salate e si inizia a raccogliere il grasso ed il burro che colano. La carne viene irrorata con questi condimenti, raccolti nella leccarda; • a cottura ottimale (di solito cinque ore) si smette di irrorare la carne e per qualche tempo viene fatto girare lo spiedo senza condire. Lo spiedo di Gussago e Serle De.Co. si presenta morbido internamente e croccante esternamente, di colore ramato-dorato e dal palato che riconduce al persistente amarognolo degli uccelli e della cottura alle braci. Va servito caldo con la polenta (gialla), che va inondata dal burro caduto nella leccarda.
di carne caduti dallo spiedo, è tanta e tale che qualsiasi fatica viene alla fine ampiamente ripagata. Cibo robusto e poderoso, pieno di carattere e poco consono alle frigide abitudini alimentari di molti connazionali di oggi, lo spiedo con gli uccelli è appunto il riflesso della società che lo ha generato: accondiscendente alla fatica, ma che — con caparbietà — vuole festeggiare la vita.
POSTO CHE VAI, SPIEDO CHE TROVI
Nella provincia di Brescia esistono almeno quattro modi di preparare gli uccelli allo spiedo. Questa classificazione di tipo geografico è lo specchio delle condizioni sociali e di mercato che si sono create nel corso di anni in cui la mobilità non era facile come lo è oggi. Queste quattro aree parlano in sostanza delle abitudini alimentari di un mondo in parte seppellito sotto la patina dell’omologazione, ma che si rintraccia facilmente investigando proprio il mondo dello spiedo. Sommariamente, si può stabilire che a Brescia e in Valtrompia è consuetudine utilizzare gli uccelletti dal becco gentile come tordi, allodole, fringuelli, pispole che, essendo di piccole dimensioni, non andrebbero (condizionale d’obbligo…) puliti ma solo spennati, bruciacchiati e secondo alcuni neanche privati degli occhi e delle zampine. Nella pianura centrale non è inconsueto l’utilizzo di uccelli di maggiore dimensione. Nella zona del basso lago di Garda e nell’entroterra sino a Salò lo spiedo si arricchisce di altre carni: coniglio, costine di maiale, tocchetti di pollo o altri pennuti, addirittura anguille o fette di patata. In Valle Sabbia e a nord di Salò nell’Alto Garda lo spiedo si prepara tutto l’anno indipendentemente dalla presenza delle diverse specie cacciabili, poiché, oltre agli uccelli, si utilizzano tanti altri tipi di carne: di maiale (preferibilmente la coppa fresca perché più grassa e gustosa del lombo), di pollo, di coniglio, d’anitra e fettine di fegato di maiale avvolte nella reticella.
APPUNTAMENTI
PORTE APERTE IN 14 CANTINE
27 MAGGIO
Cantine Aperte è il più importante appuntamento in Italia – arrivato al traguardo della ventesima edizione - dedicato ad appassionati e intenditori che vogliono conoscere il vino attraverso i suoi luoghi di produzione e la sua gente. Organizzata come da tradizione l’ultima domenica di maggio dal Movimento Turismo Vino, la manifestazione coinvolgerà circa mille aziende su tutto il territorio nazionale, accogliendo, si stima, un milione di enoturisti interessati a vivere un’esperienza diretta in cantina. In Bergamasca sono 14 le aziende vitivinicole che domenica 27 maggio apriranno le porta per visite e degustazioni: Lurani Cernuschi (Almenno San Salvatore); a Scanzorociate La Brugherata, Fejoia e il Cipresso; La Tordela (Torre de’ Roveri); a San Paolo d’Argon Cantina sociale bergamasca e Pecis; Medolago Albani (Trescore Balneario); Castello degli Angeli (Carobbio degli Angeli); Locatelli Caffi (Chiuduno); Tenuta Castello di Grumello (Grumello del Monte); Tallarini (Gandosso); La Rocchetta (Villongo); Le Mojole (Castelli Calepio).
DAL PRIMO AL 3 GIUGNO
SAN PELLEGRINO “CAPITALE” DELLA BIRRA BERGAMASCA Non solo acqua minerale. Dal primo al 3 giugno a San Pellegrino sarà protagonista l’effervescenza della birra artigianale per la seconda edizione di Beerghèm, la rassegna dei micro-birrifici della provincia di Bergamo organizzata dal birrificio Via Priula di San Pellegrino e dalla Compagnia del Luppolo. L’evento riunisce nel prestigioso scenario del Casinò i sette birrifici presenti nella nostra provincia: oltre ai padroni di casa del Via Priula, Elav di Comun Nuovo, Endorama di Grassobbio, Maspy di Ponte San Pietro, Maivisto di Sedrina, Valcavallina di Entratico e Sguaraunda di Pagazzano, offrendo la possibilità di conoscere le diverse realtà aziendali ed i loro prodotti e di degustarli in accompagnamento ai piatti del territorio, curati da uno chef e dagli allievi dell’Istituto alberghiero. A fare da contorno, una serie di iniziative legate dal fil rouge della birra, come performance artistiche, filmati, la degustazione di birre artigianali provenienti da fuori provincia, senza dimenticare la musica dal vivo. L’appuntamento vuole anche essere un momento di confronto per gli operatori, chiamati, ad esempio, a ragionare sull’idea di consorziarsi per migliorare gli acquisti e la promozione o sui rapporti con i distributori. Insomma, quello che è partito come un fenomeno di nicchia si sta consolidando e vuole crescere ancora.
6 GIUGNO
TRA STORIA E GENETICA, A GRUMELLO UNO DEI MASSIMI STUDIOSI DI VITICOLTURA “Roma Caput Vini” è un libro scritto da Giovanni Negri che non è solo una ricostruzione storica sulla diffusione della vite in Europa, ma anche il luogo di una clamorosa scoperta genetica basata sul lavoro più che trentennale del professor Attilio Scienza (nella foto), cattedra di viticoltura dell’Università di Milano, sull’origine della vite. Mercoledì 6 giugno l’enoteca Vino Bvono e la Biblioteca di Grumello del Monte, in collaborazione con la Condotta Slow Food del bergamasco, presenteranno il volume e ne approfondiranno i contenuti grazie alla prestigiosa presenza dello studioso, riconosciuto tra i massimi esperti di viticoltura al mondo. L’incontro, moderato da Roberto Zadra, si terrà alle 19 nella sala civica comunale (in piazza Camozzi) di Grumello del Monte. A seguire un buffet in biblioteca preparato dall’Enoteca Vino Bvono. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.
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L’AZIENDA
TUTTA LA SECONDA GENERAZIONE È AL LAVORO NELL’AZIENDA DI ARREDAMENTI DI SERIATE, ATTIVA DA PIÙ DI CINQUANT’ANNI. TUTTE LE FASI SONO SEGUITE DIRETTAMENTE PER SOLUZIONI SU MISURA. «ORA PUNTIAMO A SVILUPPARE LA RETE COMMERCIALE»
Arredamenti Metalfrigor, una grande famiglia al servizio dei pubblici esercizi
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Le realizzazioni sono di grande effetto. Basta dare un’occhiata alle fotografie presenti sul sito per rendersene conto. Ma poiché oggi, nell’era dei semilavorati forniti già pronti dalla grande industria, «niente è come sembra» è bello scoprire cosa ci sta dietro. Dietro la Arredamenti Metalfrigor - azienda di Seriate che da oltre cinquant’anni progetta e produce arredamenti per bar, ristoranti, pasticcerie, gelaterie e negozi -, c’è una famiglia. È questo che fa la differenza e che, per ammissione stessa dei protagonisti, ha permesso di resistere in un settore in cui la Bergamasca è stata regina, ma che ha visto negli anni perdere la maggior parte delle imprese. Che sia qualcosa di scritto nel Dna lo dimostra il fatto che tutta la seconda generazione ha seguito le orme dei fondatori, i fratelli Giuseppe, Guglielmo e Ilario Cortinovis, partiti con l’attività nel 1959 a Bergamo e dopo pochi anni passati nell’attuale sede di Seriate, in via Paderno 58, ampliata con tre interventi successivi. «È grazie ad un’attenta gestione dei costi – dicono Stefano e Ornella, in rappresentanza dell’intera compagine familiare – che siamo riusciti ad affrontare anche i momenti più difficili del mercato». Ma, ovviamente, non c’è solo questo. C’è l’esperienza, respirata fin da piccoli nei laboratori nei momenti di pausa. Sopratutto c’è un sistema di produzione ancora di tipo sartoriale. «Seguiamo il lavoro in ogni aspetto – racconta Stefano -, dall’idea del cliente e dal sopralluogo per visionare gli spazi arriviamo al progetto chiavi in mano dell’intero locale e da qui alla produzione (dalla falegnameria, acciaieria alla verniciatura), al preallestimento nei nostri laboratori e al montaggio finale. Ogni fase è interna, il che significa, ad esempio, che chi ha costruito il mobile spesso è anche colui che curerà il montaggio, si ha quindi la precisa conoscenza di ogni passaggio ed è questo che permette di realizzare sempre una proposta su misura». Anche i dipendenti della Arredamenti Metalfrigor, come i titolari, sono cresciuti in azienda «e sono anch’essi orgogliosi– sottolinea Ornella - di veder nascere ogni volta qualcosa pensato e
creato interamente qui, molto spesso unico». L’ultimo lavoro realizzato in Bergamasca è il Caffè del Largo, in largo Belotti in centro città. I più conosciuti sono probabilmente A.I. Giardini San Marco e American Bar Le Iris, sempre a Bergamo. Tra gli allestimenti più recenti ci sono anche il bar Il Nome di Alzano Lombardo, una cartoleria ancora in largo Belotti, l’Enoteca Marchesi di Seriate, il Bar Numero Primo di Albino e a Milano la pasticceria Scaringi e il ristorante Langosteria n. 10. Se invece si vuole avere un’idea di come anche una macelleria può diventare una boutique, la Seveso di Grandate in provincia di Como è un bell’esempio. «Bergamo e la Lombardia sono il bacino di riferimento – afferma Stefano Cortinovis -, ma stiamo lavorando bene anche con l’estero, Svizzera, Spagna, Germania e Olanda. La cosa ci gratifica non solo perché ci permette di ampliare gli orizzonti, ma perché ci vengono riconosciuti serietà,, accuratezza,, p precisione e stile,, mentre in Italia, forse per er via del periodo davvero critico perr l’economia, si fa sempre più faatica a vedere apprezzati questi valori». «L’aspetto che in questo momento ci interessa sviluppare – conclude – è quello commerciale. Siamo alla ricerca di rappresentati, collaboratori, studi di architettura che possano presentare lla a nostra realtà e metterci in contatto con potenziali clienti».
maggio 2012 LE TENDENZE
«NETTO RITORNO AI MATERIALI E AI COLORI NATURALI» «Non è raro che un cliente arrivi con un’idea e che esca con un’altra - racconta Stefano Cortinovis -. O che dall’incontro con l’architetto professionista del cliente nasca una collaborazione che porta a risultati particolari, come è avvenuto per Civus a Bergamo, progettato dall’architetto Erika Tirloni, per Time Break di Azzano San Paolo dell’architetto Pievani e per l’enoteca Di Vino in Vino di Gorlago, progettata dall’architetto Rosa Locatelli. Anche dire la propria in termini reali e non assecondare per forza il committente fa parte della professionalità di un’azienda di arredamento». Del resto, non riesce difficile pensare che in fatto di pubblici esercizi i titolari della Arredamenti Metalfrigor possano consigliare chi si lancia per la prima volta nel settore. «Spesso proponiamo soluzioni che permettono di migliorare la gestione del lavoro - prosegue -, talvolta l’introduzione di piccole novità si rivela col tempo una grande svolta». Se il tipo di proposta, lo spazio in cui è inserita e le richieste del cliente dettano la linea generale, le tendenze fanno il resto. «Oggi la direzione è ben chiara – spiega Cortinovis – c’è un ritorno ai materiali e ai colori naturali, l’esigenza è di situazioni più rilassanti, anche nelle gradazioni, e informali, come avviene un po’ nei locali spagnoli. Il tutto non disgiunto dall’attenzione all’ambiente, perché non si può fare diversamente. Il legno è perciò sostenibile, se le sedie sono in plastica sarà riciclabile, la pelle sarà “eco”. E poi, visto che oggi le attività sono sempre più polifunzionali, è fondamentale l’illuminazione, per il cambio di atmosfera nel corso della giornata». Tra nuovi locali e restyling, in Bergamasca c’è una certa vivacità. «Le aperture sono legate al fatto che il bar viene visto come un’opportunità di lavoro – rimarca -. L’aggiornamento dell’arredamento è invece una prassi in voga da qualche tempo. In un difficile contesto competitivo, i locali sentono infatti il bisogno di ravvivare l’interesse proponendosi con una nuova immagine». Quanto alle scelte, non mancano le soluzioni originali. «Non siamo sulla Riviera romagnola, dove l’imperativo è stupire nei tre mesi della stagione – commenta -, com ma, grazie anche alle possibilità date ai dehors, c’ c’è qualcuno che rivede l’impostazione e osa un po’ di più». Il tutto detto nella consapevolezza ch che «l’arredamento ha il suo pes peso, ma per il successo di un locale sono dete determinanti qualità dell’acla a coglienza e dei coglie prodotti». pro
ARREDAMENTI METALFRIGOR SRL via Paderno, 58 - Seriate - tel. 035 294386 - fax 035 294497 www.arredamentimetalfrigor.com info@arredamentimetalfrigor.com
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FUORI PORTA
DAL 19 AL 27 MAGGIO
MILANO INVASA DAL CIBO. ALLA FOOD WEEK ANCHE LO SCAMBIO DI RICETTE Milano Food Week è un contenitore di più di 200 appuntamenti legati dal comune obiettivo di diffondere la cultura enogastronomica. Per rafforzare questo messaggio, la manifestazione, alla quarta edizione, quest’anno parte il 19 maggio, Food Revolution Day, la giornata mondiale ideata e promossa dallo chef Jamie Oliver, occasione internazionale per scambiarsi informazioni ed unirsi nel nome di una miglior educazione alimentare. Motore dell’iniziativa, che si conclude il 27 maggio, sono proprio lo scambio, l’interazione e la condivisione tra i professionisti e gli appassionati, nella convinzione che i portatori della conoscenza in campo food non sono solo i grandi nomi ma ciascuno di noi. Per esemplificare questo spirito, tra le tante proposte, citiamo il Recipe Market, un “mercato”, allestito all’esterno di Palazzo Giureconsulti, dove il pubblico potrà “barattare” la propria ricetta, prendendone una in cambio e dando così via al recipe crossing. O la Public Kitchen, una cucina temporanea allestita in un ex container navale, nella quale chiunque potrà prenotare il proprio spazio per esibirsi ai fornelli. Anche otto ristoranti stellati partecipano con menù speciali: Al Pont de Ferr, D’O, Devero Ristorante, Il Luogo di Aimo e Nadia, Innocenti Evasioni, Joia, Tano passami l’Olio e Unico. Altrettanti gli chef che si esibiranno in show cooking ispirati dall’idea della grande cucina aperta a tutti: Fabio Baldassarre, Massimo Bottura, Haruo Ichikawa, Ernst Knam, Pietro Leeman, Gualtiero Marchesi e Daniel Canzian, Aimo Moroni con Alessandro Negrini e Fabio Pisani, Claudio Sadler. Per trovare l’evento preferito: www.milanofoodweek.com
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A MALPENSA DECOLLA IL FESTIVAL DEL CAKE DESIGN Promette di essere una festa per gli occhi ancor prima che un attentato alla linea la seconda edizione del Cake Design Festival, la kermesse dedicata all’arte di decorare i dolci che da tendenza tipica del mondo anglosassone sta contagiando il nostro Paese, declinandosi in uno stile proprio, capace di coniugare tradizione, fantasia e innovazione. Ad ospitare l’evento, organizzato dall’agenzia Silovoglio, sabato 26 e
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domenica 27 maggio, sarà lo Sheraton Hotel nei pressi dell’aeroporto di Milano Malpensa. L’esposizione si svilupperà su tre piani offrendo spazio sia alle aziende specializzate (una trentina, italiane e internazionali) sia ai maggiori cake designer. La manifestazione offre poi una serie di strumenti, dai corsi alle dimostrazioni, dagli incontri alle competizioni, alle consulenze, per gli appassionati che voglio-
no migliorare le proprie creazioni ma anche per chi vuole trasformare la passione in un’attività. Da quest’anno, con la sezione Pastry Pro, il Festival si occupa anche delle tematiche legate all’introduzione e gestione di questa tipologia di prodotto all’interno di un laboratorio di pasticceria, grazie a conferenze e dimostrazioni tenute dai maestri dell’Accademia Pasticceri. Info: www.cakedesignitalianfestival.com
maggio 2012
Garda bresciano ALLA FIERA DI POLPENAZZE IN CONCORSO ANCHE LA NUOVA DOC VALTÈNESI CHIARETTO
I ROSATI D’ITALIA IN PASSERELLA A MONIGA
Nata nel 1947 ed ancor oggi appuntamento atteso, la Fiera del vino Garda Classico Doc di Polpenazze del Garda è la più antica e conosciuta vetrina della produzione vitivinicola della Valtènesi, che torna per la 63esima edizione dal 25 al 28 maggio. Sede ufficiale del concorso enologico nazionale della Doc Garda Classico istituito dal Ministero per le Politiche Agricole, la Fiera allarga quest’anno l’area dei concorsi al Valtènesi Chiaretto 2011, primo frutto della Doc entrata in vigore lo scorso anno con la vendemmia 2011. Muniti di sacca e bicchiere, i visitatori potranno degustare i vini proposti dalle cantine, in un percorso nel quale non mancheranno assaggi di prodotti tipici. Nella Piazzetta del Biologico spazio ai sempre più numerosi produttori che hanno scelto il bio come alternativa, in una terra dove è già biologico il 25% del vigneto iscritto all’albo, mentre la Corte degli Assaggi offrirà degustazioni guidate e comparate abbinate ai migliori formaggi del territorio come Stracchino, Tombea e Bagoss. Nel programma anche un’esposizione dei migliori extravergini Garda Dop e il concorso dedicato al miglior salame della Valtènesi, mentre in piazza si servirà il tradizionale ed immancabile spiedo gardesano.
A Moniga del Garda, città natale del Chiaretto “il vino di una notte”, torna per il quinto anno “Italia in rosa”, manifestazione che permette di conoscere e assaggiare centinaia di vini provenienti da tutta Italia e anche qualche “chicca” transalpina. Per la nuova edizione sono salite a tre le giornate di apertura al pubblico (1, 2 e 3 giugno) ed è stata creata una nuova giornata (lunedì 4 giugno) riservata agli operatori. Palcoscenico è la seicentesca Villa Bertanzi, nel centro storico del paese. Al costo di 10 euro (sconto del 50% per i soci Onav, Ais e Fisar) si riceveranno bicchiere da degustazione e tasca portabicchiere e sarà possibile degustare tutti i vini presenti in manifestazione e accedere, su prenotazione, a degustazioni guidate tematiche. Domenica 3 giugno convegno internazionale sui rosati nel mondo. Info: www.italiainrosa.it
DALL’8 AL 10 GIUGNO
TERRA MADRE ORA È ANCHE UN EVENTO REGIONALE Dall’8 al 10 giugno la Villa Mirabello ed il parco di Monza ospiteranno il primo incontro regionale della rete di Terra Madre, il progetto di Slow Food che vuole promuovere, dare visibilità e tangibilità ad un’agricoltura di prossimità e di scala ridotta, rispettosa di cicli, ambienti e territori, memore di storie e tradizioni, testimone di dignità, diritti e benessere di chi ci lavora. “Per non mangiarci il futuro – Un nuovo patto con la terra” è il significativo titolo dell’iniziativa, organizzata da Slow Food Lombardia in collaborazione con il Consorzio Villa Reale e Parco di Monza, che presenterà le piccole produzioni agricole
di eccellenza che ancora popolano il territorio lombardo, compresi gli otto Presìdi Slow Food della regione, tra cui Stracchino all’Antica delle Valli Orobiche, Agrì di Valtorta e Bitto Storico. Le diverse proposte sono raccolte attorno a parole chiave: Dire (conversazioni attorno al cibo, teatro e
musica), Fare (atelier artigiani), Mangiare (Osterie di Terra Madre, cucina di strada, Laboratori del gusto, Enoteca e birreria), Vedere (cartoline dai Presìdi Slow Food, installazioni, opere d’arte, video e documentari), Acquistare (Mercato della Terra con prodotti buoni, puliti e giusti di territorio e di stagione). Tra gli operatori bergamaschi chiamati a portare la propria testimonianza, l’allevatore Angelo Santinelli nell’incontro “Parla come mungi: allevare bovini senza ricorrere ad insilati ed ogm” e il frutticoltore Romano Micheletti con “Una tira l’altra: l’esperienza contagiosa della autoraccolta in frutticoltura”.
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IL LIBRO
C’È QUELLO CHE HA ORDINATO “L’INGUINE ALLO SCOGLIO” O QUELLO CHE HA CHIESTO “UN MEZZO POLLO INTERO”: C’È DI TUTTO E DI PIÙ NEL TRATTATO SEMISERIO PER BUONGUSTAI SCRITTO DA UN APPASSIONATO DI CUCINA, MARIO BIANCO. CHE HA ACCESSO I RIFLETTORI ANCHE SULLE CUCINE MONDIALI E SULLA MODA DI MANGIARE INSETTI di Giordana Talamona
Tra menù e clienti è un festival di strafalcioni
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n delizioso, è il caso di dire, trattato semiserio per buongustai, giocato molto, o tutto, sull’ironia, con un pizzico di doppisensi, un chilo di cultura enogastronomica, che lascia “lievitare” la mente per qualche ora, lentamente, giusto il tempo di gustarsi, in santa pace, le sue pagine. “Via col Ventre” di Mario Bianco è idealmente un libro happy hour, da spiluccare saltando da un capitolo all’altro, trovando consigli utili, massime storiche, strafalcioni dei menu, battute comiche, aneddoti e molto altro ancora, perché, si sa, se la fame vien mangiando, la cultura vien leggendo. “Sono sempre stato un buongustaio - racconta Mario Bianco -, mia madre gestiva un ristorante, così la mia passione per la cucina è cresciuta negli anni. Viaggiando molto per lavoro, sia in Italia che all’estero, ho avuto la possibilità di raccogliere una serie di strafalcioni contenuti nei menù, oltre ad una serie infinita di errori commessi dai clienti dei ristoranti. Un esempio su tutti? Cameriere, ho ordinato l’inguine allo scoglio! O come quel tale che chiese, un mezzo pollo intero, o ancora, quell’altro che ordinò un petto di pollo d’anatra!”. Ancora: “Con i wurstel ci vuole un bel boccaglio di birra tedesca”. “Prego un caffè con latte macchiato”, “Dopo questa bella mangiata non ti senti rifucilato?”, “Non ho digerito, non ha del bicarbonato di soia?”, “Mi porti delle pesche sciroccate con l’uva passera”, “Non avete il pus pus? (leggi cous cous). “Vorrei un brasato al Barolo senza vino perché sono astemio”, “Il ristorante era così zeppo che la gente rigurgitava per la strada”. Dalle pagine di questo libro si scoprono, inoltre, fatti semisconosciuti sulle nostre origini culinarie. Chi conosce l’etimo di aperitivo? Aperire come aprire o spalancare la porta al de-
siderio di dissetarsi: etruschi, romani e greci avevano già l’abitudine di consumare “una bevanda aromatica, più o meno alcolica, per stuzzicare l’appetito – spiega Mario Bianco dalle pagine del suo libro – Caterina de’ Medici introdusse a corte l’aperitivo chiamandolo “Aperitif” (…), mentre a Milano, nel 1900, questo rito si trasforma in un fenomeno sociale”. Un capitolo ironico, che strappa qualche risata a denti stretti, è senza dubbio quello sulle affinità tra l’uomo e il pane. “Crudo: di poche parole, rosso e privo di gentilezze, insapore, meglio eliminarlo. Sfilatino: si identifica con la sua protuberanza e la ostenta, pensa sempre a una sola cosa. Biscotto: ciapel sot che l’è un biscot (allusione dialettale milanese che non richiede particolari approfondimenti). Lievitato: altezzoso, pieno di sé, supponente. Toscano: casalingo, genuino, rustico, affidabile, rassicurante, ma sciocco”. Qualche riflessione sui ristoranti etnici, che negli ultimi decenni hanno spopolato nel Bel Paese, vien proprio alla mente, dopo aver letto questo libro, anche se la cucina rivisitata per noi occidentali è ben diversa da quella originale locale. “Mi è capitato di mangiare in diverse parti del mondo – spiega Bianco – ma la nostra cucina è la migliore che esista,
maggio 2012 nonostante non mi sia mai rifiutato di provare anche quella estera”. E vien da chiedersi se l’autore abbia provato o no qualcuno dei piatti asiatici che cita. “I menù cinesi sono tra i più difficili da comprendere ed esistono piatti unici al mondo che se agli indigeni fanno venire l’acquolina in bocca, - prosegue - a noi occidentali a volte procurano il voltastomaco come ad esempio: zampe palmate di uccelli, zampe di orsi, topi, stelle di mare in olio di squalo, bisce di fiume al vapore, stringa di serpente crudo, fegato di cane con verdure, polmoni di capra con peperoncino, scorpioni predatori, lucertole spellate impanate con uovo, spiedini di calamari e iguane, zuppa di cervello di cane, cavallucci marini, scorpioni ne-
LE MIGLIORI Gli esempi, tutti godibilissimi, di quante papere si commettano con la forchetta in mano o predisponendo un menù Nei menù • Filetto di rambo • Zimbello di culatello • Pizzaccheri della Valtellina • Uova al burro con tantufo • Favette al brodo vegetabile • Baccalà mantecatto • Insalate: carrucola con uova, tonno. • p.s. il pesce asterisco è surgelato • Stinco di prosciutto al forno • Panettone astronomico • Orata al forno con aceto aromantico di Parma • Spumante metodo Champignon • Fisco di vino: euro 10 I clienti • Come contorno vorrei i topini al bur. • Mi porta quelle tartine con il parquet di tonno? • Mangio poco perché faccio una vita sedimentaria. • Vorrei un piatto di calamai fritti. • Mi porta una coca e un’acqua atomica? • Prego, una frittura di crampi (e calamari). • Mi porti della bresaola con delle scorie di parmigiano. • Io ordino polenta con funghi traforati. • Il timpallo di maccheroni è pesante”.
ri, cicale e scarafaggi merdaioli fritti, serpentelli e bachi da seta scottati, tranci di boa al vin panato, bollito di viscere di cavallo e vacca. Comunque a parte questi cibi particolari, la cucina cinese non ha eguali e non sperimentarla sarebbe un vero peccato”. Dalla Cina il passaggio al Sol Levante è breve, come un voltar pagina. “Elementi di questa cucina sono la naturalezza e la perfezione estetica. (…). Le donne non possono preparare il sushi nei ristoranti perché secondo la tradizione le loro mani potrebbero essere troppo calde e deteriorare il sapore del pesce. I vari ingredienti non vengono mai mescolati tra loro: i sapori devono mantenersi distinti. Tale cucina, basata su precetti buddisti e ispirata alla filosofia Zen, è prevalentemente vegetariana (con soia e verdura in quantità) ad esclusione del pesce che viene servito crudo. Non si utilizza il burro, poco il formaggio a parte il tofu (formaggio di soia) perché viene considerato un prodotto ammuffito”. Sull’India gastronomica, e non solo, scopriamo tradizioni quanto meno curiose. “Religioni e credenze differenti spiegano cose che ai nostri occhi potrebbero sembrare originali. Ci sono cuochi che non si sognerebbero nemmeno di lavorare senza avere una cordicella legata agli alluci e altri che si rifiutano di lavorare se la cucina non si trova nella posizione adeguata. I colori che prevalgono sono il marrone e il giallo. (…). I pranzi indiani sono prevalentemente composti da curry e miscugli di spezie (dette masala) accompagnati da verdure, carne, riso e pesce, preparati in contenitori di terracotta. Il ghee, o burro chiarificato, è per gli indiani considerato il massimo della bontà”. Sulla cucina a stelle e strisce, in quanto a stranezze macabre, ne scopriamo delle belle. “La casa madre della catena fast food Roy Rogers ha dovuto, a titolo di risarcimento, sborsare ben 30.000 dollari a due clienti perché al posto di una doppia porzione di pollo, sui rispettivi piatti, fu servito un topo. Nell’Ohio a Jackson Township, in un ristorante della catena Red Robin Gourmet Burger, un cliente trovò la punta di un pollice di un inserviente”. Tra il serio e il faceto, parlando di “vino ed altri alcolici” scopriamo che le affinità tra Bacco e Venere non solo poi così lontane, persino nella terminologia dei sommelier. “Beverina: pronta da consumarsi subito. Brusca: di carattere deciso. Franca: di carattere ben deciso. Inacidita: vecchia (se non si ha fretta si può condire l’insalata). Soave: gentile. Spumeggiante: gasata, allegra con brio. Stagionata: da consumarsi subito. Vecchia: fa sempre buon brodo”. Un tema per stomaci forti è quello sull’entomofagia, la moda di mangiare insetti. “Una nuova cucina sta prendendo piede in Italia - prosegue Bianco - per chi ama scoprire i nuovi sapori che riservano gli insetti. Ragno docet. (…). In Romagna, patria di buongustai, è presente una società per studi naturalistici che ci fa notare come ogni anno, nel corso della nostra vita e in modo inconsapevole, mentre dormiamo o quando siamo in corsa con il motorino, ingeriamo circa 80 insetti, per non parlare dei loro frammenti presenti nei cibi! Chi si nutre di cavallette, tarme, bachi da seta, locuste, larve, camole, ecc. dichiara che hanno un sapore gradevole e, per di più, posseggono qualità alimentari sorprendenti, perché ricchi di vitamine, sali minerali e proteine. I piatti più apprezzati sono gli spiedini di cavallette caramellate infilzati su fette d’anguria, il fritto misto di bachi da seta, tarme della farina, camole del miele e della farina. Il tutto bagnato da vini rossi o bianchi ad alta gradazione. I sapori di questi insetti ricordano quelli delle patate, delle noci, delle mandorle e del miele. Le zanzare, le mosche, gli scarafaggi non vengono contemplati, ma forse i cinesi la pensano diversamente”.
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IL PREZZO FISSO
Breve Respiro, la sosta dal sapore antico di Fulvio Facci
LA TRATTORIA DI ZOGNO DEVE IL NOME AL FATTO CHE LÌ SI “TIRAVA IL FIATO” PRIMA DI IMBOCCARE LA RIPIDA MULATTIERA PER ENDENNA. NEL BEL PALAZZO AFFRESCATO ATMOSFERA D’ALTRI TEMPI E CUCINA CLASSICA
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ur correndo il rischio di apparire banali, ci sembra giusto dare la priorità alla domanda che suggerisce il nome del locale, “Antica Trattoria Breve Respiro”, che si trova in via Romacolo 28 a Zogno. È un’insegna per certi versi enigmatica, che lascia aperto il campo alle più svariate interpretazioni. La risposta, del resto, spiega in modo chiaro e razionale l’origine non solo del nome ma della trattoria stessa,
Marco Maffi e Sara Moretti
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proiettandoci di colpo in un passato anche abbastanza remoto. Lo scenario è, ovviamente, quello delle nostre valli, delle nostre montagne. La trattoria è collocata nell’unico e breve tratto in discesa che si incontra a Romacolo prima di imboccare la ripida mulattiera che portava, e porta, ad Endenna. Ecco risolto l’enigma: un breve respiro alla locanda prima di intraprendere un’impegnativa salita. pratiE la locanda ha resistito - in prati ca sembra ci sia sempre stata - in un bel palazzo affrescato che è stato ristrutturato nel 2006. Dal 2008 Marco Maffi in cucina e la moglie Sara Moretti in sala, con la collaborazione del papà di Marco, Claudio, che si occupa prevalentemente degli aspetti amministrativi, gestiscono l’attività con risultati soddisfacenti. «Siamo a Zogno, non dobbiamo dimenticarlo – racconta Marco Maffi – e cer-
co di offrire una cucina in linea con la clientela della zona. Quindi una cucina equilibrata, non esuberante. Penso sia il sogno di tutti gli chef poter proporre una cucina più ricercata, ma il territorio è questo, non dobbiamo dimenticarlo. Le novità hanno una certa difficoltà a passare e non vorrei trascorre più tempo a illustrare il piatto ai clienti che a cucinarlo. Non per questo mi sento un cuoco in tono minore. Facciamo bene la cucina tradizionale sia di carne sia di pesce variando il menù su base stagionale tre o quattro volte all’anno». Non molte cose ma fatte con cura sembra essere l’impostazione alla quale si ispira la conduzione dell’Antica Trattoria Breve Respiro: una scelta che ben si coniuga con le caratteristiche del locale, veramente molto accogliente con due piccole sale quasi intime al piano terreno e una bella sala più grande e affrescata al piano superiore. «Oltre i più classici piatti della tradizione come il brasato d’asino o gli stracotti – dice ancora Marco - abbiamo anche noi le nostre specialità. I casoncelli innanzitutto e poi la costata di manzo cotta sull’ardesia oltre alla “maialata” che è uno dei nostri fiori all’occhiello. Lo consideriamo un piatto unico. Si tratta di due braciole che vengono impanate, quindi cotte e servite come una tagliata, con i funghi. Difficile poi ordinare qualche altra portata. Per i piatti di pesce abbiamo le trenette alle vongole veraci e le ricette più classiche». Marco e Sara se la cavano bene, han-
maggio 2012
IL CONCORSO
PRAMAGGIORE, NUOVI PREMI AI VINI DEL “CIPRESSO” no diviso con attenzione i compiti e riescono far funzionare il locale con successo. C’è da saltare, come si suol dire, ma i risultati non mancano. «Si tratta di un vecchio locale – racconta invece Claudio Maffi – con un’attività consolidata. La gente arriva magari da Zogno ma anche da più lontano per il passaparola, oppure si tratta di milanesi che hanno la seconda casa in zona. Fondamentale è che coniughiamo un buon ambiente e una cucina apprezzata a prezzi accessibili. Da parte nostra cerchiamo anche di vivacizzare un po’ l’atmosfera, soprattutto nella buona stagione. Abbiamo completamente rifatto il campo per il gioco delle bocce, ci sono dei tavoli, vorremmo fare delle grigliate o delle altre iniziative magari per i gruppi. Vedremo».
ANTICA TRATTORIA BREVE RESPIRO via Romacolo, 28 - Zogno tel. 0345 91006 chiuso nelle sere di lunedì e martedì
LA PROVA Ci sono anche due piatti, un primo e un secondo, un po’ diversi dal solito nella lista del pranzo a prezzo fisso del “Breve” di Zogno. Il costo è di 10 euro da lunedì a venerdì e di 12 il sabato, per il menù completo che comprende primo, secondo, contorno, acqua, vino e caffè. C’è anche la possibilità di prendere solo il primo per 6.50 euro oppure solo il secondo per 7.50 euro. Nel giorno della nostra visita le proposte per i primi erano rappresentate da pasta al pomodoro, al ragù, alle vongole e alla siciliana quindi con melanzane e scamorza. Tra i secondi piatti ricordiamo invece il roastbeef all’inglese, un soutè di cozze, l’arrosto di vitello, il pollo arrosto ripieno, la caprese e la braciola. Insalata verde, pomodori e spinaci i contorni. Siamo tentati dai piatti di pesce ma alla fine, tenendo conto della collocazione montana del locale, andiamo sui classici dei menù a prezzo fisso e quindi farfalle condite con un ottimo ragù e roastbeef all’inglese fresco di cottura con spinaci per contorno. Buon servizio e cucina decisamente apprezzabile per un rapporto prezzo-qualità più che buono.
Il Concorso Enologico Nazionale di Pramaggiore (Venezia) - giunto quest’anno all’importante traguardo dei 51 anni - si è confermato un importante banco di prova per i vini tranquilli, frizzanti e spumanti Docg, Doc e Igt. La competizione, inserita nell’ambito della Mostra Nazionale Campionaria dei Vini, ha ancora una volta riservato risultati più che lusinghieri all’azienda agricola “Il Cipresso” di Scanzorosciate. Ben tre vini - il Valcalepio Doc rosso Dionisio 2009, il Valcalepio Rosso Riserva Doc Bartolomeo 2007 e il Moscato di Scanzo Docg Serafino 2008 - hanno infatti ottenuto il diploma di “Medaglia d’oro 2012” unitamente al premio speciale regionale “Oscar d’argento Pramaggiore”. Poco più di quattro ettari di vigneto sulle colline alle porte di Bergamo (celebri per il Moscato di Scanzo Docg), l’azienda guidata da Angelica Cuni si caratterizza per una produzione limitata ma di alta qualità, in tutto circa 16mila bottiglie tra Valcalepio bianco, rosso, riserva e Moscato di Scanzo. «La scelta aziendale - spiega Cuni - è quella di contenere i numeri della produzione per poter privilegiare i fattori qualitativi». A giudicare dai premi, la scelta pare azzeccata.
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L’INTERVENTO
Le tante battaglie che devono combattere i pubblici esercizi di Alfredo Zini*
P
er il 90 per cento degli esercenti è abbastanza, se non addirittura molto, rilevante la presenza di realtà che somministrano alimenti e bevande senza essere pubblici esercizi. La quasi totalità degli imprenditori nella ristorazione individua nella concorrenza cosiddetta “sleale” la fonte di tutti i propri guai. Il problema del calo dei fatturati dipende, dunque, dalla presenza sul mercato dell’offerta parallela che è talmente tanto parallela da sconfinare in un unico mercato fatto oltre che dai pubblici esercizi anche dagli agriturismo, pizzerie a taglio e kebab per non parlare delle tanto vituperate sagre e feste paesane di vario genere. In effetti, esistono oggettivamente delle agevolazioni per alcuni rispetto ad altri che la Commissione europea ha configurato addirittura come aiuto di Stato. E poi, diciamolo chiaro: spesso e volentieri alcuni circoli privati nana scono proprio propr l’intento con l’intent effettuare di effettuar un’attività da d
pubblico esercizio, eludendo tasse e vessazioni. A chi non è capitato di entrare in un locale dove al momento dell’ordinazione viene presentata la classica tesserina da firmare per diventare socio del circolo? Magari pure… enogastronomico! Correggere queste distorsioni significa lavorare sicuramente nei confronti degli esercenti associati, visto che solo un 10% non considera predominante questo problema. Ma siamo proprio sicuri che tutti i mali della ristorazione italiana dipendano solo dalla concorrenza sleale di circoli e sagre? Perché mai un’offerta gastronomica da consumare su uno scomodo tavolaccio di legno, con il cibo servito in un piatto (e posate) di plastica e senza neanche troppe garanzie igienico-sanitarie, può mettere in difficoltà il 90% dei ristoratori forti della loro qualità e professionalità? Se un cliente sceglie una sagra invece che un ristorante spesso è spinto da una ridotta capacità di spesa. Gli italiani hanno meno soldi in tasca. Lo sappiamo tutti. Allora dobbiamo insistere sulle battaglie politiche che portino il paese verso l’uscita dalla crisi. E non è solo accanendoci contro le sagre o contro i circoli (ma ripeto che le situazioni di agevolazioni vanno contrastate) che si può rilanciare l’economia del paese. Dobbiamo continuare a battere di più i pugni sul tavolo per una riforma del lavoro che ci vede penalizzati. Abbiamo titolo per chiedere al Governo una programmazione del turismo. Ci tocca insistere sulla patrimoniale più volte evocata
anche dal nostro presidente Stoppani. Dobbiamo ragionare sulla Tobin Tax per reperire risorse dalle transazioni finanziarie che pure hanno contribuito fortemente a portare il nostro paese sull’orlo del baratro. Va alzata ancora la voce contro un aumento dell’Iva che penalizzerà tutti i consumi. Dobbiamo richiedere al Governo qual è il piano strategico a cui sta pensando per le risorse energetico. Siamo in grado di proporre l’introduzione di un’aliquota molto più alta solo per i beni di gran lusso, anziché penalizzare quella al 10% della ristorazione. Dobbiamo rivoltarci contro corruzione e criminalità organizzata che costituiscono il vero freno del sistema Italia (con soldi riciclati nei ristoranti mafiosi). E soprattutto dovremmo cercare di sgominare e mettere alla gogna tutti quegli sprechi economici che sottraggono fondi da destinare proprio a quelle imprese come le nostre in grado di rilanciare la produttività. Alcuni di questi sprechi sono ben descritti nel libro di Mario Giordano dove si legge che, con un conto a spanne, la provincia di Oristano, tanto per portare un esempio, sarebbe riuscita a spendere in un solo anno oltre trentamila euro per sagre a vario titolo. Mi domando, al di là della concorrenza sleale delle suddette sagre, quante cose si sarebbero riuscite a fare se questi trentamila euro fossero stati messi a disposizione delle imprese di ristorazione. Allora sì che la battaglia della Fipe diventerebbe una “Sagra Battaglia”.
*vicepresidente Fipe e presidente dell’Ente Bilaterale del Turismo
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L’ANGOLO
DEL SINGLE di Marco Bergamaschi
Ricette facili e veloci per chi vive da solo, ma non rinuncia alla buona cucina
Capita a tutti nella vita di vivere per un certo periodo di tempo da soli. E spesso ciò coincide con la rinuncia ai piaceri della buona tavola ed è sinonimo di cibo congelato, essiccato, imbustato. Ecco allora qualche idea per preparare ricette “monodose” da mangiare seduti a tavola o rilassati sul divano, a seconda dell’umore, per non sentirsi mai più soli ai fornelli... perché é anche mangiare da soli può essere piacevole.
Orata al forno con patate e pomodorini INGREDIENTI PER 1 PERSONA 1 orata 1 patata tagliata a fettine sottili 5 pomodori ciliegini 20 g circa di pecorino romano grattugiato
olio extravergine prezzemolo mezzo spicchio d’aglio sale e pepe
PREPARAZIONE Ungete una teglia con un cucchiaio di olio e ricoprite il fondo con uno strato di sottili fettine di patata. Spolverate il tutto con prezzemolo, pecorino e un pizzico di sale. Adagiate l’orata (già pulita e sciacquata) sul fondo appena preparato e quindi ricopritela con le fettine di patate rimaste. Aggiungete quindi i pomodori ciliegini tagliati a metà, il prezzemolo, il pecorino, sale e pepe a piacere e mezzo spicchio d’aglio. Versate altri due cucchiai di olio e infornate a 200 gradi per circa 30 minuti. CURIOSITÀ Una delle abitudini più sbagliate di chi “è sempre di corsa” è la rinuncia a sperimentare nuove pietanze, preferendo così andare sul sicuro con la preparazione dei soliti quattro piatti. Ciò che non si conosce, infatti, è sempre percepito come difficile o complicato (so di cosa parlo, perché ci sono passato) e l’idea che si sprechi del tempo prezioso, magari per pulire anche una padella in più, uccide quel poco di vena creativa che alberga in ognuno di noi. Tra i cibi che un single abituato alla cucina veloce evita solitamente di considerare, c’è il pesce, che richiama subito a parole come “lungo nella preparazione” e “laborioso da pulire”, divenendo automaticamente una pietanza da gustare solo al ristorante. Ma è una credenza priva di fondamento che va smentita: oggi infatti è possibile acquistare dell’ottimo pesce già pulito, pronto per essere cucinato in tanti modi semplici e veloci. La ricetta in questa pagina ne è l’esempio lampante. L’orata è un secondo piatto prelibato dalla polpa pregiata e dal sapore delicato che piace a tutti, anche ai palati più difficili; e non è solo buona, ma fa anche bene: è infatti ricca di proteine nobili, contiene vitamine B1, B2 e vitamine PP e tra i sali minerali in essa contenuti spiccano fosforo, iodio, ferro e una discreta quantità di calcio. Quando la si acquista, è importante fare attenzione che la carne sia soda al tatto e che le squame aderiscano bene al corpo. Se avete dei dubbi, non compratela, optate per un menù alternativo e soprattutto cambiate pescheria. Se non la cucinate subito, va conservata in frigorifero per 1 o 2 giorni al massimo, coperta da una pellicola alimentare o chiusa in un sacchetto da freezer. E prima di cominciare a cucinarla, sciacquatela sempre. Una volta “rotto il ghiaccio”, provate a cucinarla anche in altri modi perché è un pesce versatile che si presta a tanti esperimenti, tutti squisiti. “La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella” era solito dire il famoso gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin. Sono sicuro che non potrete che essere d’accordo. Vi auguro buon appetito.
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Cuvèe Millesimata, birra artigianale Italiana.
Q U AT T R O E R R E