Affari di Gola - maggio 2015

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Anno XV n.4 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60

maggio 2015

Cuochi, «è ora di fare ordine» La Federazione italiana ha scattato la fotografia della professione. Bergamo d’accordo: «C’è bisogno di certificare le competenze»


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www.affaridigola.it

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SOMMARIO

XV n.4

MAGGIO 2015

Cuoc «è orahi, di fare ordine »

La Fede razione la fotog italiana rafi Bergamo a della pro ha scattato fessio ne. di certifi d’accordo: «C’è care le compete bisogno nze»

4 L’INIZIATIVA

«Troppi cuochi improvvisati. È ora di mettere “ordine”»

10 L’INTERVISTA DOPPIA

L’Expo e i prodotti bergamaschi, le sfide del mondo agricolo

12 L’APPROFONDIMENTO

La nuova stagione dei grani antichi

17 L’ITINERARIO

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Lovere, un borgo da assaporare

22 TRADIZIONI

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Bergamo, le origini dei casoncelli tra notai, mercanti e imperatori

24 OLTREMANICA

«Che shock vedere come maltrattano la cucina italiana»

29 IL RICONOSCIMENTO

L’Ascom premia il pioniere della gastronomia

30 TENDENZE

Cocktail e drink, è tempo di cucina liquida

32 IL PREZZO FISSO

Mora, a Ponte San Pietro vuol dire ristorazione

Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Giuseppe Mazzini,24 - 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Giuseppe Mazzini, 24- 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - info@larassegna.it - N° ROC 5847 - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Riccardo Lagorio, Roberta Martinelli, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Rosanna Scardi, Giordana Talamona, Donatella Tiraboschi - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg


L’INIZIATIVA di Anna Facci

«Troppi cuochi improvvisati. È ora di mettere “ordine”»

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i fa presto a dire cuoco. Dietro l’immagine classica in divisa e tocque - e oltre la figura che spadella in tv o dispensa ricette più o meno creative da giornali e siti - c’è un universo di specializzazioni e mansioni in continua trasformazione, sotto la spinta di abitudini alimentari, stili di vita, offerta per il fuoricasa, ma anche tecnologie e prodotti, sempre più sfaccettati e nuovi. Un dinamismo che ha fatto crescere tra gli operatori l’esigenza di una qualche forma di riconoscimento dei diversi livelli di preparazione e delle diverse competenze, utile tanto al professionista che vuole valorizzarsi quanto al committente che cerca garanzie sui propri collaboratori. Su questo terreno ha scelto di muoversi la Federazione italiana cuochi (che raccoglie 120 associazioni sul territorio nazionale e 17mila associati) in collaborazione con Cna Professioni e il suo Osservatorio dedicato alle professioni non inquadrate in un Ordine. Lo ha fatto partendo da un’indagine dalla quale emerge innanzitutto la composizione del settore, presentata nel corso di un’audizione alla Camera. Se la maggior parte degli intervistati (78%) opera nella ristorazione commerciale e alberghiera o in quella collettiva ed industriale, c’è anche chi lavora come consulente o tecnico per lo sviluppo e ricerca del prodotto o come dimostratore di nuove tecnologie (più del 9,5%), mentre quasi un 8% fornisce prestazioni come docente di cucina, anche in strutture formative private, o esplora ambiti ristorativi non tradizionali, come le nuove tendenze del sevizio


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La Federazione italiana ha scattato una fotografia della professione, che mostra competenze sempre più sfaccettate e percorsi formativi differenti. «Un comparto disorganico e poco regolamentato. C’è la necessità di certificare l’effettiva competenza». Camer: «Aumentano i millantatori. E fanno disastri» “fast” o “light” dell’alta cucina o della banchettistica, o propone prestazioni su richiesta come chef personale o a domicilio. Anche i percorsi formativi sono piuttosto diversificati. È vero infatti che oltre il 70% dei cuochi dichiara di aver frequentato gli Istituti Alberghieri statali o provinciali, ma non manca chi ha proseguito gli studi con “corsi biennali di alta formazione” o “lauree triennali” e, per contro, cuochi che provengono da ambiti lavorativi diversi, in possesso quindi di titoli di istruzione che non sono quello alberghiero, oppure con scarsa scolarizzazione, che hanno avuto accesso alla professione attraverso corsi privati e scuole di cucina. Al di là dalla formazione scolastica, più del 76% dei cuochi professionisti dichiara comunque di aver seguito percorsi formativi particolari o alternativi per l’idoneità alla professione, per l’aggiornamento o il conseguito di titoli di studio integrativi o contigui al proprio ambito lavorativo. Quanto alla forma giuridica con la quale viene esercitata la professione, sebbene resti prevalente il lavoro dipendente (72%), non sempre si fa riferimento al Contratto Nazionale del Lavoro sul Turismo o alle normative regionali che regolano il lavoro stagionale. Nel questionario, poi, più del 25% del campione ha dichiarato di essere un lavoratore autonomo (libero professionista il 13%, titolare d’impresa il 12,4), inoltre quasi il 30% dei lavoratori con impieghi stabili o stagionali ha ammesso di esercitare saltuariamente in modo autonomo la professione, mentre il 50% ha ammesso d’averla esercitata in strutture di proprietà o in locazione.

«Tali percentuali registrano uno stato disorganico di un comparto che continua ad essere poco regolamentato e molto eterogeneo – è l’analisi della Fic presentata dal presidente uscente Paolo Caldana -. Di fatto nei professionisti c’è una tendenza in costante aumento verso l’iniziativa privata, la piccola impresa o il lavoro autonomo. Dall’altro versante si registra invece, soprattutto in settori ristorativi tradizionali, un costante aumento della domanda di personale scarsamente qualificato e disponibile

Fabrizio Camer a ricoprire le più svariate mansioni all’interno degli esercizi. Così, esistono da un lato professionisti che aspirano al riconoscimento ed attestazione delle loro competenze e altri, magari scarsamente qualificati, che si accontentano di trovare asilo in un mercato del lavoro oggettivamente caotico ed eterogeneo». Da qui la preoccupazione che il livello professionale medio delle cucine possa impoverirsi e la necessità di poter certificare attraverso requisiti minimi l’effettiva

competenza di un cuoco professionista, non sembrando sufficienti gli indicatori relativi alla formazione e scolarizzazione del cuoco. Una linea condivisa dalla base, se è vero che «più del 90% degli intervistati ritiene vantaggiosa l’introduzione di norme tecniche sulla professione che prevedano magari l’attestazione di una certificazione volontaria». «Per la nostra professione sono cresciute fortemente, in questi ultimi anni, le sollecitazioni – spiega Fabrizio Camer, segretario dell’Associazione cuochi bergamaschi, nonché vicepresidente dell’Unione Cuochi Regione Lombardia e, a livello nazionale, consigliere della Fic -. Siamo chiamati a confrontarci con prodotti e tecnologie che non immaginavamo nemmeno, a fare sempre più attenzione alla salute delle persone, a curare aspetti particolari della proposta. La vivacità del settore ha però fatto anche crescere i millantatori, persone senza le adeguate competenze, alle quali magari si sono affidati investitori che in poco tempo hanno visto naufragare il proprio progetto imprenditoriale. Inutile negarlo, abbiamo assistito a veri e propri disastri e poi recuperare l’immagine e la clientela è difficilissimo. Un curriculum fantastico non dà garanzie, con la Fic stiamo ponendo le basi di un percorso di riconoscimento della professione che preveda, perché no, anche un esame da parte di una struttura indipendente e qualificata, come succede in Germania». Sul piatto c’è anche l’introduzione di una suddivisione dei livelli e delle competenze. «Prendiamo uno chef stellato e il responsabile di

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L’INIZIATIVA IL PRESIDENTE DEI CUOCHI BERGAMASCHI una grande mensa – esemplifica Camer -, entrambi lavorano ad alto livello, ma in mondi che richiedono approcci e capacità differenti. Da qui a scendere c’è un’ampia varietà di attività e qualifiche sulle quali può essere utile portare un po’ di chiarezza». In provincia di Bergamo anche l’Associazione cuochi, che ha recentemente rinnovato il Consiglio direttivo con l’ingresso di forze nuove, ha l’obiettivo di intercettare tutte le forme in cui si articola oggi la professione. «Come è stato fatto con l’indagine nazionale – annuncia Camer – nei prossimi mesi cercheremo di fare un quadro simile per la nostra provincia. Oltre ai cuochi impegnati nella ristorazione commerciale vorremmo raggiungere quelli al lavoro nelle mense. Ma c’è

anche il settore delle gastronomie e dei take away che ci piacerebbe coinvolgere e poi la sfida dei cuochi etnici, con cui crediamo sia arrivato il momento di confrontarsi. Il panorama della ristorazione a Bergamo è ampio, non manca niente, non abbiamo la pretesa di fornire proposte per tutti i professionisti impegnati qui, vorremmo però con la nostra attività promuovere la consapevolezza del proprio ruolo, l’orgoglio di appartenenza alla categoria, di indossare la berretta bianca, e favorire il confronto e la condivisione, perché solo così si migliora. Purtroppo protagonismo, gelosia e competizione fanno ancora parte di questo mondo, ma le nuove generazioni li stanno superando, hanno voglia di mettersi in gioco e di imparare».

Benussi: «Ieri come è innamorarsi dello

«A

Grado, dove sono cresciuto, le scelte erano tre: o facevi il pescatore oppure il cameriere o il cuoco. Io mi sono innamorato di questa figura quando, ancora piccolo, consegnavo il latte in bicicletta ai ristoranti. La divisa bianca, il carisma… Mi sono messo ai fornelli a 14 anni e dopo 56 non sono ancora stanco». Non c’erano chef superstar né talent show quando Roberto Benussi, presidente confermato per il prossimo quadriennio dell’Associazione cuochi bergamaschi, ha cominciato, ma non crede che il cuore del mestiere sia cambiato più di tanto ed è certo che la passione resti l’ingrediente fondamentale per esercitarlo. Settant’anni, esule con la famiglia da Orsera, in Istria, dopo le esperienze nelle località turistiche del Friuli e della Venezia Giulia è approdato in Bergamasca a 22

ALTRI FORNELLI

«Anche nelle mense ci sono qualità e ricerca» Bruno Moretti, 24 anni, ha scelto di lavorare nella ristorazione collettiva

L’

idea comune è che nelle mense il cibo e i cuochi siano di serie B, ma non è così. Naturalmente gli obiettivi sono diversi rispetto a quelli di un ristorante, eppure non mancano sfide e soddisfazioni. Parola di un giovane cuoco, Bruno Moretti, 24 anni di Bergamo, che nella ristorazione collettiva ha trovato gli stimoli giusti per costruire la sua carriera. Diploma all’alberghiero di Nembro, esperienze nelle cucine dei ristoranti, è poi passato al “mondo parallelo” dei centri cottura e delle mense. Attualmente gestisce la mensa di due residenze sanitarie per anziani pubbliche a Dro, in Trentino, per conto della multinazionale Elior, ma ha già in vista un altro progetto. «L’aspetto che più mi appassiona

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di questo settore – svela – è che richiede un’impostazione gestionale impeccabile. I controlli sono continui, da quelli dell’Asl a quelli della struttura, e gli standard da rispettare sono altissimi». Non si parla di piatti succulenti e presentazioni ardite, ma «di preparazioni adatte alle persone ricoverate qui. Tutto, ad esempio, deve essere più morbido, per essere ingerito più facilmente. In alcuni casi i metodi di preparazione vengono rivisti, la cotoletta di merluzzo la facciamo croccante e dorata, ma poi la passiamo al vapore perché sia più morbida. Può sembrare un’anticucina – ammette – ma qualità, attenzione, ricerca e creatività sono presenti anche qui. Per dimostrarlo abbiamo organizzato per i parenti


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oggi, ciò che conta stare in cucina» anni, come insegnante alla scuola alberghiera al Passo della Presolana, e all’attività di docente ha sempre affiancato “extra” e stagioni, compresi incarichi sulle navi da crociera e all’estero «perché non bisogna mai perdere l’allenamento». Nel ’99, lasciato l’insegnamento, ha rilevato il ristorante la Bussola a Clusone, della famiglia della moglie, Silvana Balduzzi, che oggi porta avanti con l’aiuto dei figli Cristian, in cucina con lui, e Pamela. Proprio Benussi è stato uno dei fondatori, nel 1973, dell’Associazione cuochi di Bergamo, insieme al compianto Fiorenzo Baroni. Quattro anni fa è tornato in sella ed ora è al secondo mandato. «C’era bisogno di riallacciare un po’ i rapporti – dice - ed io con tutti gli allievi che ho avuto in 33 anni di insegnamento di contatti ne ho. Gli associati sono passati da 90 a quasi 250, stiamo crescendo». Che ruolo ha oggi l’Associazione? «Siamo innanzitutto un punto di riferimento per i giovani, a cominciare da chi esce dalla scuola alberghiera. Li aiutiamo nel trovare un posto di lavoro, anche all’estero,

Finger food frullati, adatti anche per chi ha problemi di deglutizione, come gli ospiti di una casa di riposo degli ospiti una serata con finger food dove tutto era frullato per essere consumato anche da chi ha problemi di deglutizione: ne sono uscite proposte gustose e belle da

e, sull’altro fronte, collaboriamo con i ristoratori in cerca di personale. Per favorire l’incontro tra domanda e offerta abbiamo pensato di creare una Roberto Benussi sezione apposita sul nostro nuovo sito (www.cuochibergamo.it), in fase di completamento». Che cosa vi chiedono gli associati? «Soprattutto corsi e incontri per stare sempre aggiornati. Ad esempio proponiamo ormai da alcuni anni una giornata a Schilpario per la raccolta di erbe spontanee, con le quali prepariamo poi direttamente un intero menù. Tra gli ultimi appuntamenti ci sono un corso sul cioccolato e uno sulla pasta frolla artistica, durante l’anno organizziamo anche visite a cantine ed aziende, per conoscere

vedere, che hanno stupito. Ci vengono richiesti anche piatti tradizionali, come gnocchi e canederli, che prepariamo a mano, e la qualità delle materie prime è definita da un capitolato rigoroso». Una ristorazione che è soprattutto organizzazione. «C’è il constante confronto con i dietologi per la redazione delle ricette e dei menù – ricorda – e poi l’attenzione al costo di ogni pasto, fondamentale sui grandi numeri, che va dalla gestione delle materie prime alla riduzione degli sprechi, all’organizzazione del personale e c’è da rispondere ai controlli, elementi sui quali probabilmente il cuoco di ristorante ha meno occasione di confrontarsi o almeno non in forma così serrata». «Nel nostro campo la bontà del piatto è solo uno dei parametri che entrano in gioco – fa notare -, se vogliamo il compito di chi lavora in una mensa è più difficile, anche

perché spesso le categorie per le quali si cucina sono delicate, come bambini, anziani o degenti». Moretti riconosce che il taglio manageriale del suo incarico lo ha allontanato dai fornelli. «Diciamo che adesso la mia professione è una via di mezzo – afferma -. Sono partito dalla cucina e credo che resti fondamentale avere competenze in questo campo, anche se poi si passa ad un ruolo di tipo più gestionale. Personalmente mi piace la possibilità di vedere il mondo della ristorazione a 360 gradi, è stata una grande crescita, una strada che ho scoperto in linea con le mie inclinazioni e che mi interessa seguire». E ci tiene a sfatare l’immagine del cuoco di una mensa come fratello minore della ristorazione. «Che si tratti di ristorazione scolastica, aziendale o sanitaria – sottolinea – c’è studio, ricerca, sviluppo e si lavora con intensità».

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L’INIZIATIVA da vicino i prodotti. Non mancano i concorsi, come quello alla Campionaria, per gli studenti delle scuole alberghiere e i professionisti, che piacciono perché sono occasioni per confrontarsi con i colleghi, così come i momenti conviviali, su tutti il nostro Natale del cuoco, senza dimenticare la solidarietà, con la cena che cuciniamo per i poveri. Molte attività sono possibili grazie alla collaborazione con aziende sponsor». Ora tutti vogliono fare gli chef, ma ce la fanno? «Purtroppo no. La tv e i media alimentano queste aspirazioni, ma le scuole alberghiere spesso non riescono a far sbocciare la passione perché si fa poca pratica, le ore di cucina sono state ridotte. Il cuoco non è la star che si crede, è in primo luogo colui che si lava le sue padelle, che tiene in ordine la sua cucina: solo se c’è l’amore per questo si può andare avanti, lavorare il sabato, la domenica e le feste e sopportare ritmi intensi. La mancanza di passione è alla base anche della carenza di camerieri. È sparita la collaborazione con la cucina, non si insegna più a porzionare, a cucinare alla lampada. Come si può amare il mestiere di “portapiatti”?». Meglio chef o cuoco come definizione? «Oggi con chef si intende uno scultore, un pittore di piatti, per me lo chef è invece quello propriamente inteso, colui

che guida una brigata di cucina, come quelle dei grandi alberghi, che la coordina e la tiene insieme e che dei piatti ha sotto controllo tutto, dalle grammature alle calorie». E delle tendenze in cucina cosa ci dice? «Mi sembra che si sia presa una piega un po’ troppo estetica, perdendo di vista la sostanza. La gente amerà sempre mangiare, non dobbiamo temere la crisi, a patto che si regalino sapori veri. Ogni cuoco deve sforzarsi di dare una propria cifra ai suoi piatti e la cucina regionale, secondo me, è la nostra vera ricchezza, altrimenti è tutto uguale, tutto filetti e verdurine». Sono in aumento i cuochi che si mettono in proprio, vero? «Sembra una strada facile, ma non è così. Bisogna diventare esperti anche nella gestione, nella contabilità, far fronte alle tasse e agli adempimenti. E poi c’è una forte concorrenza, tutti fanno da mangiare, anche i bar che scaldano i piatti al microonde. Ci si illude di costruirsi un percorso autonomo e invece tanti chiudono». Comunque i cuochi sono sempre richiesti... «Un bravo cuoco è la colonna di un locale, colui che lo fa rendere, che dà prestigio. Il fatto è che i giovani cambiano presto mestiere, mentre chi si appassiona e cresce prima o poi apre un locale suo».

GLI INCARICHI

L’Associazione Cuochi Bergamaschi ha rinnovato il proprio Consiglio direttivo confermando alla presidenza Roberto Benussi. Questi gli altri componenti e le cariche assegnate, con l’obiettivo di rafforzare la rappresentanza territoriale e le iniziative: Gaetano Verri, vicepresidente e delegato per la Pianura bergamasca; Fabrizio Camer, vicepresidente e segreteria; Valter Cervi, tesoriere; Gianfranco Lazzaroni, delegato Val Seriana; Santo Manetta, responsabile Creattiva e concorsi scuole alberghiere; Pippo Lavelli, delegato Isola e Val San Martino; Fabio Sanga, responsabile corsi e concorsi; Alessandro Pilatti, responsabile corsi e concorsi;

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Elvio Beretta, responsabile contatto con le scuole e Andrea Ragazzoni, delegato Bergamo e Valbrembana. Presidente onorario è Giovanni Cacciolo Molica, titolare dell’Orobica Pesca storicamente al fianco dell’Associazione. Bergamo è inoltre rappresentata in seno alla federazione da Fabrizio Camer sia a livello regionale, dove è vicepresidente, sia a quello nazionale, con la carica di consigliere. Lo chef Francesco Gotti, già portacolori della Nazionale italiana cuochi, è stato inoltre nominato manager del team Junior, del quale è entrato recentemente a far parte un altro bergamasco, il 21enne Andrea Tiziani.


maggio 2015 di Enrico Rota

Nel Padiglione Vino ci saremo, ma al prezzo di qualche delusione

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l tanto atteso Expo ha finalmente aperto i battenti. Per quanto ci riguarda, il Padiglione Vino accoglierà sino alla fine di ottobre i curiosi e soprattutto gli operatori del mondo enologico. Il visitatore entrerà dapprima in una sala nella quale verranno svelati i segreti e la storia di quella meravigliosa pianta che è la vite, dal suo genoma alle sue caratteristiche, da ciò che la rende così unica alle varietà di impianto e molto altro. Una seconda sala, invece, sarà interamente dedicata al prodotto che questa straordinaria pianta è in grado di produrre: il vino. Per raccontarlo al consumatore, Federdoc ha deciso di puntare l’attenzione sulle Doc italiane, vero fiore all’occhiello della nostra produzione enologica. La scelta di Federdoc di concentrare l’attenzione del visitatore sulle Denominazione di Origine è lodevole non solo da un punto di vista tecnico e teorico, ma anche da un punto di vista comunicativo: infatti, una volta raggiunta la Biblioteca del Vino, al piano superiore, il visitatore sarà in grado di selezionare il vino che intende degustare chiamandolo con il suo nome, ovvero con

quello della Denominazione di appartenenza. Portare i nostri vini, quelli bergamaschi, dentro al padiglione Vino non è stato però per nulla facile. Anzi, ha avuto un percorso “travagliato”. La Regione Lombardia ha di fatto abbandonato i produttori di vino lombardi a se stessi, dando come unica indicazione quella di andarci da soli se proprio lo volevamo. Non mi è molto chiaro però come la presenza di alcuni vini lombardi all’interno del Padiglione Lombardia - uno spazio di circa 40 metri quadrati offerto gratuitamente dalla Regione e concesso a rotazione giornaliera con altri produttori - possa sopperire alla curiosità di operatori internazionali che, molto probabilmente, il vino lo andranno a cercare nel padiglione dedicato e non in quello di chi ha organizzato l’Expo. Ribadisco quanto il Consorzio Tutela Valcalepio ha già sostenuto in un documento pubblico, dove si evince che non abbiamo mai criticato la scelta, giusta e pregevole, compiuta da Regione Lombardia, di riservare un intero padiglione, quello della Lombardia, appunto, al comparto produttivo della regione. Quindi, nessuna polemica; solo la mia grande delusione nell’apprendere che non è possibile avere il

“sistema Lombardia” all’interno anche del Padiglione Vino, come altre regioni chiamate Veneto, Toscana e Sicilia. Abbandonato definitivamente il sogno giusto e auspicabile di avere la nostra Regione quale capofila nel comparto

dedicato al mondo enologico, è stato solo grazie all’intervento e coordinamento del presidente del Movimento Turismo del Vino Lombardo, Carlo Giovanni Pietrasanta, se almeno una rappresentativa lombarda figura all’interno del Padiglione Vino. Bergamo sarà quindi presente, grazie alla volontà del Consorzio Valcalepio e di un’azienda di Scanzo. Non ci resta che darvi appuntamento alla Biblioteca del Vino di Expo 2015 dove il Valcalepio Doc, il Terre del Colleoni Doc e il Moscato di Scanzo Docg, saranno presenti in rappresentanza dell’enologia orobica.

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di Leo Bartoli

L’Expo e i prodotti bergamaschi, le nuove sfide del mondo agricolo S

Alberto Brivio

pesso hanno avuto visioni diverse, in alcuni casi ci sono state contrapposizioni anche aspre, ma ora le distanze sembrano essersi accorciate e anche il recente apparentamento in vista del rinnovo della Camera di Commercio lo dimostra. A Bergamo, Confagricoltura e Coldiretti sono concentrate sull’Expo e su questo terreno nascono differenze ma anche convergenze insospettabili, come dimostrano le parole dei presidenti Renato Giavazzi (Confagricoltura Bergamo) e Alberto Brivio (Coldiretti Bergamo).

Renato Giavazzi

Cosa si sta rivelando l’Expo finora per la Bergamo agricola? Una grande kermesse da sfruttare fino in fondo o un’occasione che rischiamo di mancare? Brivio: «Nonostante le vicissitudini che finora hanno caratterizzato Expo, sono convinto che questo appuntamento possa rappresentare un’opportunità per il nostro Paese e per la nostra agricoltura. Molto dipenderà dalla visione con cui lo affronteremo e soprattutto se riusciremo a considerarlo non una vetrina fine a se stessa ma un investimento per gli anni a venire»

Giavazzi: «L’evento deve lasciare nella memoria dei 20 milioni di visitatori un ricordo della straordinaria ricchezza del nostro Paese. All’interno di questa immagine Bergamo deve saper far emergere le proprie peculiarità: in un gioco di squadra anche le individualità devono essere indirizzate verso l’obiettivo comune».

Il cibo bergamasco, dai formaggi ai salumi, e il vino orobico avranno la forza di imporsi all’attenzione generale o la concorrenza “monstre” rischia di schiacciarli? B.: «La concorrenza degli altri prodotti sarà pressante, ma abbiamo le carte in regola per far valere le nostre eccellenze. È importante che i produttori comprendano la necessità di fare rete e sviluppare le giuste sinergie per presentarsi sul mercato estero, in modo strutturato».

G.: «Il nostro territorio è ricco di eccellenze enogastronomiche con fortissime peculiarità, per questo non dobbiamo avere nessun timore verso le produzioni di altre province e regioni. Se si pranza bevendo un Lugana non significa che a cena non si possa gustare un Valcalepio: quello che dobbiamo saper cogliere è l’opportunità di fare sistema. La conquista di mercati lontani quando è fatta in sinergia è molto più efficace e costa meno».

Le antiche varietà di mais orobico potrebbero essere uno dei punti di forza: sapremo sfruttare questo interesse anche per nutrire davvero il pianeta, come da titolo Expo, o tutto si ridurrà a uno spot commerciale? B.: «Sicuramente queste varietà rappresentano un interessante offerta di nicchia e un biglietto da visita per il

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G.: «Le nostre imprese agricole hanno dimostrato in un recente passato di saper inventare nicchie di mercato


maggio 2015 territorio dove viene prodotto, ma dal punto di vista della resa, il mais che viene coltivato oggi dà risposte produttive più soddisfacenti. Sbaglia però chi crede che il problema della fame possa essere risolto con gli Ogm, bisogna adottare politiche diverse per debellare questa piaga».

che nel tempo hanno interessato una platea di consumatori sempre più vasta. Da questo punto di vista il connubio tradizione-innovazione ha una forza strepitosa e viene esaltato dalla vitalità ed intelligenza delle nostre imprese. Oggi però sui mercati bisogna progettare, programmare, organizzare e nessuna di queste fasi sopporta l’improvvisazione».

Cosa ne pensate del Fuori Expo che è nato soprattutto in centro? Dalla Domus al Balzer, tante occasioni per parlare di prodotti e produttori…

Brivio (Coldiretti) e Giavazzi (Confagricoltura) a confronto sulle opportunità offerte dall’esposizione milanese e sulle azioni da mettere in campo per dare più slancio alla eccellenze enogastronomiche del territorio. Sotto i riflettori anche il rapporto con la ristorazione B.: «Ritengo siano positive tutte le iniziative volte a valorizzare il settore agricolo, i suoi prodotti e i suoi protagonisti. Come Coldiretti avremo un ampio spazio all’interno del Padiglione Italia dove il nostro patrimonio agroalimentare avrà la possibilità di farsi apprezzare».

G.: «Dentro, l’Expo non potrà che essere una grande Gardaland di rappresentazione del tema comune che è appunto quello del cibo, ovvero un prodotto pensato per stupire, nel contesto del quale sarà molto complicato fare business. Diverso è il ragionamento sul “Fuori” Expo dove i temi commerciali e i momenti di approfondimento tematico potranno essere molto più grandi perché rivolti a platee segmentate e selezionate. È per questo che Confagricoltura avrà un programma bene differenziato: dentro ad Expo, oltre ai nostri Grandi Eventi organizzativi nell’Auditorium di Padiglione Italia, cercheremo di farci ricordare con un “payoff” tutto nuovo e indirizzato al grande pubblico, fuori da Expo saranno Palazzo degli Atellani e la Vigna di Leonardo ad ospitare tutti i nostri eventi».

La battaglia del ministro Martina sul latte italiano, col nuovo marchio, la fine delle famigerate quote: cosa ci insegna il passato che non dobbiamo più ripetere per difendere il nostro comparto lattierocaseario, il più importante per la nostra provincia? B.: «Con l’introduzione del marchio facoltativo 100% italiano è stato compiuto un passo in avanti, ma resta ancora molto da fare per garantire la trasparenza e la tracciabilità di un prodotto di largo consumo come il latte, che rappresenta anche uno dei pilastri della nostra economia agricola. Per tutelare produttori e consumatori da tempo come Coldiretti ci stiamo battendo per rendere obbligatoria in etichetta l’origine del latte Uht visto che oggi tre cartoni su quattro contengono prodotto straniero così come è ancora incerta l’origine della materia prima di molti formaggi».

G.: «Il marchio per un latte e una gamma di derivati tutti italiani ci insegna che la nostra agricoltura, fatta di costi di produzione più alti di quelli degli altri Paesi europei, non può che giocarsi le sue carte puntando sulle eccellenze e sui mercati che ricercano queste eccellenze. Quando la crisi morde questo si fa più complicato ed allora diventa fondamentale andare ad aggredire e convincere i mercati più ricettivi in tal senso. In questa direzione è ormai irrinunciabile un nuovo patto di filiera dove mondo della produzione e mondo della trasformazione sappiano traguardare un obiettivo comune e non solo scannarsi per un centesimo in più o in meno riconosciuto per la fornitura della materia prima».

Bergamo è stata in grado in pochi anni di diventare una delle capitali della cucina: secondo lei l’agricoltura è abbastanza coinvolta oppure si potrebbe fare di più? In questo l’Expo può rivelarsi una chance? B.: «Il nostro patrimonio agroalimentare è uno dei più ricchi e variegati, renderlo sempre più protagonista in cucina è una delle sfide di Coldiretti. Sono stati fatti passi in avanti ma c’è ancora margine di miglioramento soprattutto per quanto riguarda i vini, i formaggi, le verdure e i salumi. Più i nostri prodotti saranno opportunamente valorizzati a tavola, più riusciremo a dare prospettive alle nostre imprese e al nostro territorio. A questo riguardo è interessante il lavoro svolto dalle nostre aziende agrituristiche finalizzato alla promozione del prodotto locale».

G.: «Certo che si può fare di più, anzi si deve fare di più. Da entrambi i lati della barricata. E lo si riesce a fare solo se nel ragionamento comune ci si spoglia dell’interesse particolare e si guarda un po’ più lontano».

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L’APPROFONDIMENTO di Laura Bernardi Locatelli

Abbandonati per lasciar spazio alle varietà più moderne, i frumenti del passato tornano nei campi e sulla tavola di un numero crescente di consumatori. Anche a Bergamo il fenomeno è in espansione, come nei casi di Astino e della Val Seriana

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La nuova stagione dei grani antichi oppiantati da varietà più moderne, sacrificati sull’altare dell’aumento della produttività per le esigenze dell’agro-industria e per la ricerca delle migliori caratteristiche reologiche per l’industria del pane e della pasta, i grani antichi tornano nei campi italiani, che dagli anni Settanta ad oggi hanno perso oltre duecento popolazioni di frumento tradizionali. Anche nella nostra provincia si stanno ripiantando i grani dei nostri nonni, dal farro monococco alle varietà create, in piena battaglia autarchica del grano, dal grande genetista marchigiano Nazareno Strampelli negli anni Trenta e Quaranta. Nella Valle della Biodiversità, sezione di Astino dell’Orto Botanico di Bergamo, sono spuntate le prime spighe. In campo 22 varietà fornite dal Cra di Sant’Angelo Lodigiano raccontano la

storia dell’addomesticazione del frumento: dall’Aegilops Tauschii, varietà selvatica progenitrice del frumento tenero e del farro grande, al Triticum Turgidum, al progenitore selvatico del Triticum monococcum, con spiga lunga e che si rompe a maturità, per citarne alcune. In campo anche il Grano Khorasan originario dell’Iran, il Triticum Timopheevii, sottospecie selvatica tuttora esistente in Turchia, Iran e Iraq, e lo Zhukovskyi, ancora presente nelle regioni del Caucaso. Al farro medio più coltivato in Italia, si affiancano il farro grande spelta e il farro piccolo monococco, nelle varietà Monlis e Monarca. In due passi sarà possibile ripercorrere ad Astino la storia millenaria del frumento, oltre a quella del mais con oltre cento varietà, e vedere crescere in campo circa 300

specie e oltre 1.000 varietà agricole. In Val Seriana sono tornati i campi di grano. Nella Valle dal paesaggio ormai “giacimento” di archeologia industriale e cattedrale del lavoro in rovina, con troppi capannoni deserti, tornano le spighe antiche nei campi, dopo più di mezzo secolo di assenza. Andrea Messa, manager per oltre trent’anni presso multinazionali, conquistata la pensione, ha deciso tornare alle origini, riportando, con zappa e aratro, i cereali minori in montagna. L’idea è nata nel 2012 recuperando in soffitta sacchi di sementi di San Pastore di nonno Antonio (per tutti “i segretare”, dato che veniva da una famiglia di notai, direttori di banca e segretari comunali) che nel 1934 vinse la medaglia d’oro della battaglia del grano di mussoliniana memoria. Richiesti


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i semi all’Istituto di Cerealicoltura di Sant’Angelo Lodigiano, non senza aver prima consultato i saggi cerealicoltori dell’alta Valle - tutti over 80 - con la creazione dell’associazione culturale “Grani Asta del Serio”, Messa ha deciso di ripiantare Farro Monococco, Frumento Spada, Ardito, Mentana e Orzo, in contrada Beccarelli a Nasolino e alla Valzella di Ardesio. Il progetto di sperimentazione prevede, una volta raggiunto il regime delle colture, come evidenzia il logo dell’associazione, la produzione di farine, pane e pasta a chilometro zero. Le antiche spighe richiedono il più antico e insuperabile metodo di trasformazione, con la macinatura a pietra nel fiabesco mulino ad acqua Giudici di Cerete. «È bello veder ondeggiare le spighe mature dopo oltre sessant’anni dal definitivo abbandono delle coltivazioni

in quota - spiega il presidente e fondatore dell’associazione “Grani Asta del Serio” Andrea Messa -. Le nostre vallate sono state sempre autosufficienti nella produzione di grano per il loro sostentamento. Erano tempi in cui il grano si faceva per il consumo familiare e non per la “grana”. Lo scopo dell’associazione è quello di riscoprire e valorizzare elementi culturali e colturali delle nostre vallate, di cui ogni famiglia almeno fino agli anni Cinquanta era depositaria». Il progetto è al terzo anno dalle prime semine: «Nel 2012 abbiamo avviato le prime prove in campo con frumento Mentana e San Pastore, unitamente ad altri due tipi di grani creati dal genetista Nazareno Strampelli: l’Ardito e il Tiriamo diritto. Da Piario a Fiumenero oggi contiamo venti siti di sperimentazione in atto. Le prime semine hanno dato ottimi risultati, tanto

che il grano è cresciuto bene fino a 1.050 metri. Tra poco, a luglio, abbiamo in programma la prima mietitura, nei due ettari complessivi coltivati nelle nostre valli. Ci aspettiamo di cogliere 100 quintali di grano, di ottenere quindi 80 quintali di farina e ricavare circa 160 quintali di prodotti da forno». Oltre ai cereali propriamente detti, in Valle si torna a coltivare il formèt negher o grano saraceno: «Da sempre si coltiva in montagna, dall’Alto Adige alla Valtellina - continua Messa -. Non a caso la distanza tra Teglio, patria del grano saraceno, e Valbondione è inferiore a quella che separa l’Alta Val Seriana da Bergamo. È una coltivazione interessante tutta da recuperare: oggi l’85% del grano saraceno viene importato da Turchia e Marocco. Se dovessimo produrre anche solo il 5% in Italia avremmo fatto la felicità dei cerealicoltori».

Oltre alla campagna lanciata dall’Aspan, anche Raffaele Mattavelli e Ivan Morosini stanno puntando sui grani antichi Bergamo ha da qualche anno il suo pane grazie al progetto lanciato nel 2010 da Aspan, “Qui Vicino” per la coltivazione di grani selezionati e a kilometro zero, che ormai sta contagiando, a colpi di mietitura, tutta la Lombardia. «La produzione quest’anno sarà ancora più qualitativa, grazie ad un’ulteriore selezione in campo che porterà ad una riduzione di un terzo della produzione - spiega il presidente Roberto Capello -. A giugno ci sarà la prima mietitura dei grani bio coltivati dall’anno scorso a Treviglio per rispondere alle nuove esigenze dei consumatori». Oltre Ivan Morosini (Torre Boldone) alle farine coltivate nel territorio all’insegna della sostenibilità e della valorizzazione del lavoro di tutta la filiera, non mancano i panificatori che al grano di Bergamo affiancano frumenti antichi italiani. Raffaele Mattavelli, panificatore de “Il forno delle bontà” di Palazzago ha trasformato lo storico negozio di famiglia, fondato da papà Carlo e da mamma Lucia nel 1958, in un laboratorio certificato biologico dal 2001, dove si impastano

A Palazzago e Torre Boldone il recupero di farine e tradizioni

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L’APPROFONDIMENTO

La riscoperta delle antiche colture

L’

interesse per il grano antico non conosce crisi. «Negli ultimi due anni le richieste sono cresciute del 50%», spiega Laura Gazza, ricercatrice del Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – Unità di Ricerca per la Valorizzazione Qualitativa dei Cereali – CRA-QCE di Roma. Si stanno rimettendo in coltivazione grano monococco, eccezionale dal punto di vista nutrizionale, con 50 ettari nel solo Lazio, e si stanno reintroducendo grani antichi, dallo Zhukovskyi al Timopheevi. L’anno scorso abbiamo avviato un progetto per riportare il Teff, una specie di origine etiope, da sempre cereale di riferimento per la popolazione africana, ritenuto molto appetibile anche dalla popolazione italiana e privo di glutine». Anche in Lombardia crescono le richieste di grani che da sempre appartengono alla nostra tradizione: «Anche se la produzione di nicchia è importante per le piccole realtà, a coltivare “grani

antichi” non sono solo gli agricoltori, ma soprattutto i proprietari di terreni, magari dismessi da anni, che portano avanti con passione una scelta che si scontra con le logiche di produttività e resa di altre varietà di frumento» racconta Patrizia Vaccino, ricercatrice e responsabile della Banca del Germoplasma del CRA-SCV di Sant’Angelo

Lodigiano, che custodisce 5mila linee di frumento tenero, di cui 1.800 italiane dalle più antiche alle più recenti e oltre 1.700 campioni di monococco. «Ogni anno - aggiunge Vaccino - seminiamo in campo parte della collezione al fine di rinnovare il seme e di effettuare la caratterizzazione morfo-fisiologica delle linee». Negli ultimi anni si

grani dimenticati. «È stata una scelta e mandorle. Lavoriamo anche segale, farro e grano fatta con passione e convinzione, khorasan». che continua a premiarci ogni giorAlle pagnotte - dal mezzo chilo ai due chili di pezno, tanto che ormai quasi l’80% dei zatura - si affiancano pani con olive e uvette, dolci nostri prodotti da forno è certificata da ricorrenza, biscotti e torte, anche a prova di bio - spiega Mattavelli -. Da quasi 15 intolleranze, con farina quinoa e grano saraceno anni abbiamo optato per la lievitazie, su richiesta, vegani. «La domanda di prodotti di one naturale con lievito madre liquido nicchia è in continua crescita, tra intolleranze e la (licoli), per cui continua a crescere ricerca di prodotti dalla filosofia e dal sapore dil’interesse». Da anni Raffaele Matversi. Non è solo una scelta di gusto e salute: la tavelli seleziona e prova grani e farine filosofia di produzione e di filiera riconosce più vaantiche, provenienti principalmente lore in ogni singolo passaggio. Richiede tempi più dal sud: «Al grano Senatore Cappelli lunghi di lavorazione, anche 18 ore di lievitazione abbiamo affiancato il Farro Spelta Raffaele Mattavelli (Palazzago) tra rinfreschi e pieghe prima di infornare, e una e il Timilia siciliano. Per un pane maggiore cura nel campo e nella lavorazione delle semintegrale, tipo 2, impieghiamo una miscela di diversi farine, ma continua ad essere sempre più riconosciuta. grani creati da Strampelli: Rieti, Terminillo, Abbondanza e Se all’inizio vi era più curiosità verso prodotti diversi, negli Verna. Prepariamo anche un pane ghiotto aggiungendo ad ultimi anni per molti optare per farine antiche e lievitazione una farina tipo 1 bio una miscela di grano duro ed una tipo naturale è diventata una necessità». Ivan Morosini, viceZero, unitamente a semi di lino, girasole, crusca, nocciole presidente Aspan, dell’omonimo panificio di Torre Boldone,

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è ormai tendenza sta riscoprendo il grano monococco (Triticum monococcum), una specie primitiva di frumento, tra le prime coltivate nella Mezzaluna Fertile oltre 10mila anni fa e recuperata anche nelle viscere di Ötzi, l’uomo dei ghiacci trovato in Val Senales nel 1991, dove giaceva dall’Età del Rame, 5.300 anni fa. «Fino a venti anni fa era un illustre sconosciuto nonostante sia il primo cereale addomesticato dall’uomo - rileva Andrea Brandolini, ricercatore del CRA di Sant’Angelo Lodigiano -. Da base dell’alimentazione umana dalla notte dei tempi, è stato per anni degradato a foraggio, per poi tornare alla ribalta negli ultimi anni, grazie anche al suo valore nutrizionale. Non essendo mai stato sottoposto a programmi di miglioramento genetico, il monococco presenta una ridotta produttività, ma nonostante la resa sia bassa può rappresentare un’interessante coltura che ben si adatta anche a terreni poveri e a climi difficili».

Indiscutibili le proprietà: «Il contenuto proteico è molto superiore al grano tenero e duro (del 60-80% in più), così come i lipidi (maggiori del 60-75%), con un livello inferiore di acidi grassi saturi (dal 19 al 21% in meno) ed un livello maggiore di acidi grassi monoinsaturi (26-29% in più)». La granella di frumento monococco è particolarmente ricca di carotenoidi e tocoli (vitamina E) dal rilevante effetto antiossidante, presenti in una concentrazione dalle 3 alle 4 volte superiore rispetto ad altri frumenti» evidenziano i ricercatori Laura Gazza e Andrea Brandolini. Oltre al monococco tornano in auge antiche specie come i grani caucasici, dallo Zhukovskyi, coltivato in Russia,

sua patria di origine, al Timopheevi, al più celebre Turanicum, meglio noto con il marchio registrato Kamut Khorasan della multinazionale americana. Tra le varietà antiche, la più famosa è il Senatore Cappelli (Triticum turgidum ssp durum) tenuta a battesimo dal genetista Nazareno Strampelli. Le sue varietà, messe a punto a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, sono sempre più apprezzate per il loro ridotto contenuto di glutine e per il contenuto proteico molto elevato (circa il 16% per il Cappelli): «Danno origine a prodotti molto più digeribili e tollerati rispetto ai grani attuali, che negli ultimi 70 anni per rispondere ai processi di panificazione industriale hanno un glutine forte e tenace - precisa Laura Gazza -. In Sicilia i grani antichi sono entrati a far parte dei disciplinari per la produzione di pani tipici: il grano Timilia o Tumminia, la cui farina macinata in mole di pietra è alla base della ricetta del pane di Castelvetrano. La

impiega anche farro monococco Enkir, oltre a Kamut ed altre farine particolari introdotte ogni sabato: «Sta crescendo l’interesse per grani antichi, oltre che per farine meno raffinate - tipo 1 e tipo 2 -. Non fa più paura il pane scuro, ma anzi si può dire sia diventato un must. La clientela apprezza sempre più la lievitazione naturale, che io diversifico a seconda del prodotto che intendo realizzare: lievito liquido per pane alla francese e lievito mantenuto in acqua per pagnotte ed altre preparazioni». I pani dalla pezzatura più grande, da sempre parte della tradizione da Firenze in giù, hanno ormai conquistato anche Bergamo: «Il sabato prepariamo diverse pagnotte, dai 250 ai 500 grammi, che ben si prestano ad essere portate a tavola anche la domenica», dice Morosini.

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L’APPROFONDIMENTO

DOVE COMPRARLI

Dalla bottega bio le farine speciali hanno conquistato anche la Gdo I grani antichi hanno ormai iniziato a conquistarsi un posto negli scaffali della grande distribuzione organizzata. Qualche referenza compare infatti nei supermercati: Esselunga propone la farina bio Miracolo, tipo 1, realizzata con grani antichi coltivati nella provincia di Parma. I negozi specializzati nel biologico continuano ad inserire nuove referenze: alla Cooperativa Aretè di Torre Boldone si acquistano, oltre al farro monococco, farine di grano Russello. Nel negozio di Borgo Palazzo del marchio bio Naturasì c’è un intero scaffale dedicato a chicchi e farine di cereali dimenticati, una scelta inserita nel progetto Ecor che accompagna il marchio. La scelta tra le farine a grano duro spazia dal Russello al Timilia, dal Percia Sacchi (o buca-sacchi, dato che le spighe sono talmente dure da rompere le trame della juta) al Biancolilla siciliano dalla spiga alta e delicata e dal caratteristico colore grigio-nero. La celebre farina Senatore Cappelli si affianca alla farina Solina, al grano tenero Maiorca e alla farina di farro monococco. Un assortimento, arricchito in particolare quest’anno, che evidenzia una domanda sempre più forte. «C’è interesse crescente da parte dei consumatori verso i prodotti che recuperano le ricette della tradizione italiana - spiegano da Naturasì -. La produzione è di nicchia e capita che nel corso dell’anno il prodotto a scaffale finisca e il consumatore lo sa. Inoltre ci sono annate dove la produzione è scarsa a causa di fattori metereologici».

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popolazione dei frumenti antichi annovera anche il Russello, antica varietà siciliana, e il Sant’Agata». Inseriti quasi sempre in una filiera bio, i grani antichi vengono ancora macinati per lo più a pietra, anche se si stanno mettendo a punto tecniche di lavorazione innovative. «Il recente brevetto messo a punti dal CRA-QCE per il processo di decorticazione, micronizzazione e turboseparazione per la produzione di pasta elimina tracce di pesticidi e tossine mantenendo il maggior contenuto di fibre e polifenoli presente negli strati più esterni della cariosside» annuncia la ricercatrice. Le specie perse. Nel 1927 nel nostro paese - sottolinea la rivista Expo Net - si contavano 291 varietà di frumento, 98 di queste ampiamente coltivate. Nel 1971 è stata registrata la scomparsa di 250 di queste popolazioni di grani. Per combattere la perdita di biodiversità e per tornare a una produzione più sana e rispettosa, in molte delle regioni dedite alla produzione di frumento sono attivi dei programmi di recupero delle varietà cerealicole antiche. Per esempio in Abruzzo, in provincia di Teramo, e in Emilia Romagna si coltiva una varietà importata dall’Egitto nel 400 d.C., la Saragolla, che presto fu soppianta dai grani venuti dell’Africa e dal Medio Oriente. In Cilento viene coltivato un grano tenero semi selvatico già noto agli antichi romani, il Carosella, abbandonato per varietà più adatte alla trebbiatura meccanica. E ancora, nell’alta Maremma si trovano campi di grano Verna, Gentilrosso e Frassineto, prefetti per il clima, l’altitudine e la tipologia del suolo. In Sicilia, nell’entroterra catanese, si coltiva, come detto, il grano duro Timilia, già noto ai greci per la resistenza ai lunghi periodi di siccità e per questo particolarmente adatto al clima del bacino mediterraneo.


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L’ITINERARIO

di Lara Abrati

Lovere, un borgo da assaporare Dal manzo alle tagliatelle, rivisitati con ricette locali, per finire ai dolci tipici, la cittadina lacustre vale una tappa per gli amanti del buongusto

Giuseppe Speranza

Il cuoco “delle sagre” che ha rilanciato il “Manzo alla moda di Lovere”

G

P

erdersi tra le piccole stradine di Lovere è un vero piacere, al pari di una passeggiata sul classico lungolago. Nel piccolo borgo sono molte le opportunità di svago, come pure le botteghe dove è possibile acquistare prodotti locali. In particolare, nei panifici è facile trovare una focaccia dolce tipica della valle Camonica: la Spongada. La vicinanza con le diverse valli si può percepire da molti e diversi dettagli, anche quindi dalle specialità gastronomiche. I buongustai possono scoprire Lovere attraverso alcune golose preparazioni celebrate in occasione della sagra “Sapori d’ottobre”, organizzata dalla locale associazione Pro Loco. Tra le proposte spiccano tre preparazioni tipicamente loveresi, ognuna con una storia che vi raccontiamo.

iuseppe Speranza abita a Castro e, nel corso della sua vita, si è sempre speso per la comunità: dall’attività calcistica alla promozione turistica e locale, operando all’interno dell’Associazione Pro Loco sia di Castro che di Lovere. È una di quelle persone molto conosciute in paese e che ora, raggiunti gli 81 anni, Giuseppe Speranza ha molto da raccontare. «Ho lavorato all’interno dell’industria siderurgica locale – spiega Speranza – ma, grazie alla mia attività calcistica e a precedenti lavori, ho avuto la possibilità di viaggiare un poco. Per questo motivo ho avuto l’opportunità di appassionarmi alla cucina». Questa passione lo ha portato dietro le quinte delle varie sagre popolari ad aiutare i cuochi che venivano chiamati a cucinare. «Ho pian piano appreso fino a quando – dice ancora Speranza – ho deciso dedicarmi alla formazione, partecipando a diversi corsi di cucina». Ecco allora che Beppe diventa lo “chef delle feste”, collaborando a diverse sagre e feste popolari con i suoi golosi e sfiziosi menù.

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L’ITINERARIO

BAR CENTRALE

Quelle “Tagliatelle all’Oscarino” che esaltano il pesce di lago

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e Tagliatelle all’Oscarino nascono dalla fantasia e dall’intraprendenza di Giorgio Beltrami, titolare e chef del Bar Centrale di Lovere. Beltrami conduce il locale (la cui attività risale al 1881) da 40 anni. Attualmente è affiancato nella gestione dai figli Marco e Laura. Dal 1998, in una sala del bar, si riunisce il comitato organizzatore del festival internazionale del cortometraggio di Giorgio Beltrami Lovere: Corto Lovere. Fino al 2006 il festival stesso si chiamava l’Oscarino di Lovere.

«Nel 2004 dovevo cucinare per la serata di gala per i premiati del festival - racconta Beltrami -. C’erano persone da tutto il mondo e ho pensato di cucinare qualcosa che avesse a che fare con il pesce d’acqua dolce, del nostro lago appunto». Il primo piatto è nato proprio così. Vanta quindi una storia recente. Questo piatto si può gustare durante la sagra “Sapori d’ottobre” oppure presso lo stesso Bar Centrale, che lo propone in carta tutto l’anno. Gli ingredienti sono semplici ed essenziali: tagliatelle fresche all’uovo, pomodoro ciliegino, scalogno tritato, filetti di salmerino e di persico, capperi, olive del Sebino, prezzemolo e olio extravergine di oliva. «Inizio con il far soffriggere lo scalo-

Tra i tanti piatti proposti, è curioso il Manzo alla Moda di Lovere. «Quando nel 2008 è iniziata la festa della Pro Loco – ricorda Giuseppe - abbiamo fatto una ricerca storica rispetto all’esistenza di piatti tipicamente loveresi. Nella Storia sul bacino del lago d’Iseo, di Gabriele Rosa, si può leggere che a Lovere verso la fine del XVIII secolo si serviva un piatto a base di manzo, cipolla e sidro con contorno di polenta». Per questo motivo il piatto è stato preso in considerazione dalla Nuova Pro Loco e proposto alla sagra dei “Sapori d’ottobre”. Il taglio di carne utilizzato è il cappello del prete che viene tagliato a bocconcini, passato leggermente nella farina bianca e messo a rosolare in olio extravergine di oliva e poco burro. Subito dopo si aggiunge la birra. Si procede alla cottura a fuoco basso per un’ora. In un’altra padella si fa scottare la cipolla, per evitare che la più lunga cottura necessaria alla carne la disintegri totalmente, la si unisce alla carne e si fa cuocere il tutto ancora per 15/20 minuti. In ultimo si può aggiungere un poco di sidro oppure di vino bianco. Questa è la ricetta di Beppe: «L’abbiamo riconsiderata

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gno e i capperi - spiega lo chef - poi aggiungo i pomodori e faccio cuocere il tutto per circa 10 minuti. Unisco quindi le olive e i filetti di pesce tagliati grossolanamente, facendoli poi cuocere per pochi minuti. Infine aggiungo una bella manciata di prezzemolo fresco tritato. Nel frattempo lesso le tagliatelle che, una volta pronte, faccio saltare in padella con il sugo». È un piatto davvero semplice, ma dai dettagli da scoprire e considerare: dalle olive locali, piccole e molto saporite, ai filetti di persico e salmerino cucinati quasi interi, permettendo così di assaporare e gustare al meglio il pesce di lago. Semplicità ed equilibrio.

al fine di rilanciare i piatti della tradizione gastronomica loverese». È possibile assaggiare questo piatto in occasione della sagra “Sapori d’ottobre” che si svolge tutti gli anni ad inizio ottobre.


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PASTICCERIA WENDER

AGRICOLA ALBA

Non solo “La Loer”, in vetrina anche i biscotti Baci e Pulintì

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a pasticceria Wender si trova nella pittoresca piazza di Lovere e, per i loveresi, rappresenta una vera “autorità” quando si parla di arte pasticcera. È nata nel 1929 dal volere di Luigi e Giuseppe, entrambi pasticceri. Attualmente l’attività è condotta da Pier Luigi Vender, figlio di Luigi. «Nonostante il mio cognome inizi con la “V”, la scelta di mio padre e mio zio era stata quella di chiamare la pasticceria Wender, con la “W” per sottoliPier Luigi Vender neare il fatto che fossero in due - spiega Pier Luigi -. Mio zio nel 1977 ha lasciato l’attività e quindi la mia famiglia ha continuato. Ho cinque sorelle, che hanno scelto altre strade lavorative, quindi mi sono specializzato io nell’arte pasticcera nonostante la contrarietà di mio padre». E dai risultati sembra che Pier Luigi abbia fatto una buona scelta nel continuare! Diverse sono le produzioni della pasticceria, da quelle tradizionali ad alcuni prodotti specifici studiati per la promozione

territoriale. Ecco due tipologie di biscotti nati nel locale loverese: i Pulintì, soprannome anche dei loveresi, preparati con l’utilizzo di farina di mais e gocce di cioccolato, dei frollini che all’assaggio regalano una piacevole sensazione croccante data dall’utilizzo della farina di mais; i Baci di Lovere, frollini normali, oppure a base di cacao, con all’interno uno strato di cioccolato fuso fondente. Da sottolineare la produzione della torta La Loer, ricetta della Nuova Pro Loco. «È preparata da tutte e tre le pasticcerie di Lovere - spiega Pier Luigi - ed è nata in seguito ad un concorso indetto nel 2011 dalla Pro Loco; al concorso avevano presentato circa 15 dolci che sono stati valutati da una giuria formata dai pasticceri e altri membri». È una torta da forno molto semplice a base di mais e nocciole. L’utilizzo del mais è motivato dal fatto che esso sembra sia stato importato in terra bergamasca per la prima volta da Pietro Gaioncelli nel 1636 e sia stato poi impiantato nella vicina Costa Volpino. Le colline che sovrastano Lovere invece sono coperte da noccioli selvatici. È una torta senza creme, adatta anche al trasporto da parte del turista in visita al borgo.

L’olio dedicato al nonno è segnalato anche da Slow Food

L’

olio extravergine di oliva è una produzione tutelata dalla denominazione d’origine nelle zone lacustri del nord Italia, tra queste anche quella del lago Sebino. «Nella nostra zona tuttavia l’olivicoltura è stata pian piano messa in secondo piano e abbandonata», spiega Marco Tullio Pedrinola, socio della Società Agricola Alba di Lovere. Marco, 29 anni, ha iniziato da qualche anno a dedicarsi a questa azienda con una storia breve, ma interessante. «Mio padre Mauro possedeva questo uliveto con un centinaio di piante secolari in stato di semi-abbandono – racconta -. Quando mio nonno materno Renzo andò in pensione, iniziò con il recupero dell’uliveto, lavorando intensamente e con passione». Passione che ha travolto anche lo stesso Marco, che decide di immergersi in questa avventura. Sono stati eseguiti quindi dei lavori ulteriori, con l’impianto di nuove piante e la messa in produzione degli ulivi allo scopo di produrre olio extravergine di qualità. L’uliveto è a Costa Volpino, in una zona protetta dall’umidità del lago a circa 300 metri sul livello del mare e dove l’aria calda del bacino lacustre incontra l’aria fredda proveniente dalla vicina Val Camonica. Attualmente l’uliveto conta circa 500 piante, di cui un centinaio secolari di varietà Sbresa. Le altre varietà coltivate sono Leccino, Frantoio, Pendolino e Casaliva. Nonno Renzo non ha potuto vedere e godere dell’attuale uliveto, per questo Marco ha deciso di dedicargli tutta la sua produzione. L’Olio di Renzo è un olio extravergine di oliva – Dop Laghi Lombardi – Sebino. È inserito nella “Guida agli extravergini 2015” di Slow Food , che scrive: «Il Dop Laghi Lombardi - Sebino Olio di Renzo offre all’assaggio una pasta dolce, fluida e leggera, lasciando spazio piano piano a sorprendenti sensazioni lievemente amare e piccanti, nel finale gradevoli note di foglia verde e una delicata dolcezza chiudono l’assaggio con garbato dinamismo che ben rappresenta la tipicità del territorio di provenienza». L’olio extravergine è direttamente acquistabile scrivendo a info@agricolalba.it oppure chiamando Marco al numero 328 9346993.

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LE AZIENDE INFORMANO

Quattroerre e Otus, alleanza strategica in nome della birra L’azienda di Torre de’ Roveri è azionista e distributore del nuovo birrificio artigianale di Seriate. Rota: «Piena sintonia con la filosofia del nuovo marchio». Due le linee distribuite in esclusiva nel canale Ho.re.ca: la Classic Collection e la Special Collection

Giampietro Rota

OS7

Stile artigianale Golden Strong Ale - gradazione alcolica 7° Note degustative: la ricetta elaborata per questa birra vede l’impiego di tre malti quali Pilsner, Torrefied Wheat e Biscuit, e di tre tipi di luppolo, Challenger, Perle e Hallertau Hersbrucker. L’impatto non è molto intenso, ma sprigiona interessanti profumi: frutta matura e agrumi canditi, l’erbaceo di un luppolo aromatico e una speziatura (cannella, chiodo di garofano). Di corpo strutturato, al palato è ben equilibrata. Profilo visivo e olfattivo: la schiuma è fine e compatta, aderente e persistente. L’aspetto è ovviamente velato per la presenza dei lieviti, di colore è giallo oro molto carico tendente all’aranciato. Al naso si percepiscono i profumi dei malti usati che ricordano sentori di frutta e spezie, con particolari note aromatiche erbacee e sentore di luppolo per niente aggressivo.

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a poco più di un mese, sul mercato è possibile trovare le birre del nuovo birrificio artigianale Otus di Seriate. La Quattroerre di Torre de’ Roveri, guidata dai fratelli Rota, ha percepito sin dall’inizio l’importanza di stringere una strategica alleanza con questa nuova realtà territoriale, che con grande determinazione ambisce a risultati produttivi assai importanti. Alleanza fortemente voluta da entrambe le compagini sociali, siglata a più livelli, partendo dalla presenza nella quota capitale e arrivando a dare il proprio contributo all’interno del Consiglio di Amministrazione grazie alla presenza di Giampietro Rota, presidente della 4R. «È facile comprendere come sia nata questa ‘unione’ - commenta lo stesso Rota -. Costituire un birrificio legato al territorio bergamasco, in grado di sviluppare una produzione di qualità, con ingredienti e procedure naturali, che valorizzino l’appartenenza orobica, mantenendo uno sguardo ed un’attenzione aperti anche all’esterno, non è che un primo cardine in comune tra le due aziende. I principi etici poi, fortemente caratterizzati dall’impegno costante nella tutela dell’ambiente e nell’inserimento di lavoratori svantaggiati, nonché nella promozione di una cultura


maggio 2015 del bere consapevole, si integrano perfettamente con i nostri obbiettivi aziendali. Per noi era un’occasione da non perdere. A fianco del marchio Birrificio Nazionale, nato nel 2011, sentivamo la necessità commerciale di affiancare una produzione più diversificata, in grado di completare la nostra proposta birrofila nel canale della ristorazione e dei bar, diventando contemporaneamente attori e artefici della produzione di birra artigianale italiana». Se il Birrificio Otus vuole promuovere una cultura del bere che ritorna al territorio di cui è origine, grazie a birre artigianale di spessore, la 4R vuole affiancare a questo concetto la possibilità di impreziosire l’offerta dei pubblici esercizi grazie alla propria rete distributiva così capillare non solo nella nostra provincia. Due sono le linee distribuite in esclusiva nel canale Ho.re.ca: la Classic Collection e la Special Collection. La prima prevede, ad oggi, due birre di largo consumo quali la bionda B5 e la rossa speciale R5.5, nel formato da mezzo litro e in fusto Polykeg da 24 litri. La seconda è composta dalla bionda doppio malto OS7, nei formati da 33 e 75 cl e in fusto PolyKeg da 24 litri. Proprio l’utilizzo del fusto PolyKeg di ultima generazione, munito di sacca ed asta di pescaggio totalmente riciclabile, permetterà ai gestori dei pubblici esercizi di offrire un prodotto non ‘contaminato’ da anidride carbonica aggiunta, mantenendo per un periodo maggiore, rispetto ai tradizionali fusti in acciaio, la freschezza della birra. Questo consentirà di preservare le caratteristiche organolettiche dei prodotti, esaltandone quindi profumi e aromi. Alle linee Classic e Special, già in commercio dalla fine di marzo, si affianca la linea denominata Art Collection, che comprende in questo momento le tre birre dedicate al Palma il Vecchio. «Come mi piace ripetere - conclude Giampietro Rota - la grande attenzione sugli ingredienti, sul sociale e QUATTROERRE sulla eco sostenibivia Marconi, 1 Torre de’ Roveri (Bg) lità fanno di questo Lombardia - Italia birrificio qualcosa di tel. +39 035 580701 fax +39 035 580782 nuovo, da provare e info@quattroerre.com sperimentare». www.quattroerre.com

R5.5

Stile artigianale Red Ale gradazione alcolica 5,5° Note de gustative: la ricetta elaborata per questa birra vede l’impiego di ben cinque malti quali Mari Otter Pale Ale, Monaco 2, Aromatic, Cara Aroma e Torrefied Wheat, e di tre tipi di luppolo, Challenger, Cascade e Fuggles. Un caleidoscopio di sensazioni fa riconoscere la frutta rossa matura e note di confettura: un tutt’uno con note di malto tostato e di caramello. Morbidezza e rotondità, difficili da ottenere in queste tipologie di birra dotate di tenore alcolico moderato, sorprendono piacevolmente. Profilo visivo e olfattivo: la schiuma è fine e compatta, persistente e aderente. Di aspetto chiaro e di colore ambra carico con riflessi aranciati. Al naso si percepiscono la leggerezza dei profumi floreali e citrici. L’intensità è elevata e la finezza è gradevole.

B5

Stile artigianale Blond Ale gradazione alcolica 5° Note de gustative: grazie all’interessante ricetta elaborata, questa birra vede l’impiego di ben tre malti (Pilsner, Monaco 2 e Cara Pils) e di due tipi di luppolo (Perle e Saaz) che ne determinano un sapore facile ed armonico, con profumi piacevolmente erbacei e dal sapore leggermente mieloso. Non impegna e non stanca. Profilo visivo e olfattivo: la schiuma è fine e compatta, aderente e persistente. L’aspetto è ovviamente velato per la presenza dei lieviti. Il colore è giallo oro carico con delicati riflessi aranciati. Al naso si percepiscono la leggerezza dei profumi del malto Cara-pils, ricordanti il pane fresco ed il miele millefiori, sono rinfrescati dalle note aromatiche e delicate del luppolo.

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TRADIZIONI di Leonardo Bloch

Bergamo, le origini dei casoncelli tra notai, mercanti e imperatori

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Recenti contributi storiografici fanno nuova luce sulla data di nascita del famoso “tortello”, ben anteriore a quella bresciana intreccio delle vicende di tre singolari personaggi medievali, ricostruito grazie a recenti contributi storiografici e lessicologici, contribuisce a fare nuova luce su alcuni degli arcani che si celano nella misteriosa notte dei tempi del casoncello. L’eccentrico trio si compone di un notaio, pedante quanto si conviene ad un appartenente alla sua categoria professionale, di un mercante dalle pratiche commerciali tutt’altro che irreprensibili e di un imperatore appassionato di gastronomia. Il notaio, che di nome faceva Castello Castelli, visse a Bergamo in quell’autentico parapiglia che fu seconda metà del quattordicesimo secolo. Al pari di molti altri colleghi dell’epoca, cui tra le altre incombenze era affidata quella di registrare i principali eventi locali dei quali erano stati testimoni, attraverso i suoi scritti ci ha trasmesso una gran copia di informazioni sulla cultura materiale di quei giorni. Tra queste compaiono appunto due dei più antichi cenni reperibili in letteratura a riguardo del nostro tortello. Il primo dei passi riferisce che il 13 maggio 1386 in Città Alta si tenne una gran festa, allietata da musiche e danze, cui presero parte più di 2.000 abitanti - ovvero almeno un quarto della rada popolazione urbana di quel periodo. Il cronista riporta puntigliosamente che nell’occasione furono offerte agli astanti più di cento torte - termine che allora designava un timballo salato - e trecento taglieri di artibotuli, altrimenti detti casoncelli. La seconda citazione, a tinte ben più fosche, allude invece ad una tresca rusticana il cui tragico epilogo si consumò a Stezzano nel 1393. Quivi un malcapitato villico, la cui consorte era stata concupita da un rampollo della casata dei Suardi, venne assassinato su commissione dell’aristocratico per mano di certo Tonolo. Colpiscono le modalità di esecuzione del delitto, perpetrato tramite la somministrazione di artibotuli, ossia casoncelli, avvelenati. Dal testo apprendiamo inoltre che all’omicida venne comminata la

pena di morte, mentre il mandante - forte del proprio titolo nobiliare - se la cavò con il bando dalla città. Non sfugge che in entrambi gli incisi Castelli abbia deliberatamente accostato al vocabolo casoncello, ancor oggi di agevole intelligibilità, l’oscuro sinonimo di artibotulo. Quest’ultimo è un raro termine di conio medievale, decifrabile come insaccato in sfoglia di pane. L’articolazione semantica prescelta dal cronista induce peraltro a presumere che la voce lessicale a noi più familiare designasse una pietanza ampiamente diffusa nella Bergamasca, come documentato dal fattaccio avvenuto nel contado, ma apparentemente ignota ai lettori residenti altrove. Ulteriori dettagli sull’originaria morfologia della vivanda sono forniti proprio dalla decriptazione del termine artibotulo. Da questa si ricava che, più che un raviolo da sottoporre a bollitura, il casoncello dei primordi dovesse essere una sorta di panzarotto rassodato tramite frittura o infornatura. Tale deduzione pare avvalorata dalle modalità di servizio riferite dal Castelli: il tagliere menzionato dal notaio è un piatto da portata sprovvisto di bordatura, inadatto dunque a raccogliere un alimento cotto in mezzo umido e generosamente irrorato di burro fuso. Il passaggio dal tortello in crosta trecentesco al raviolo da lessare giunto sino ai nostri giorni pare quindi essersi realizzato nel corso del XV secolo: risale infatti alla prima metà del cinquecento la menzione nel Baldus di Teofilo Folengo di cento calderoni pieni di casoncelli, maccheroni e folade, che ad ogni evidenza presuppone il perfezionamento della transizione. Il secondo dei personaggi cui siamo debitori delle rivelazioni ricevute è un mercante del quale in realtà sappiamo assai poco. Ne conosciamo il nome di battesimo di Giovanni; ci è inoltre noto che fosse originario della nostra città, e dovesse aver visto la luce qualche decennio prima del notaio Castelli. Consta infine che per qualche tempo


maggio 2015 avesse risieduto a Venezia, in contrada Sant’Apollinare, ma fosse poi dovuto repentinamente riparare a Mantova. Le ragioni della precipitosa dipartita sono esposte un paio di missive inviate tra il 1366 ed il ’67 dal doge Marco Cornaro a Francesco Gonzaga, provvidenzialmente recuperate dal brillante linguista Alessandro Parenti. In esse il reggente della Serenissima lamentava di essere stato raggirato dal faccendiere bergamasco il quale, dopo aver carpito la sua fiducia, gli aveva preso a credito una grossa partita di tessuti ed altre mercanzie da rivendere in Lombardia. Superfluo soggiungere che il notabile veneziano non rivide indietro il becco di un quattrino, lagnandosi con il Gonzaga dell’aver appreso che il truffatore potesse scorrazzare impunemente nel centro sulle rive del Mincio. Tra le pieghe di quella che parrebbe una tutt’altro che memorabile frode commerciale si cela nondimeno un dettaglio di considerevole importanza: all’imbroglione, identificato come Johannes de Pergamo, è appioppato l’insolito epiteto di Casoncellus. Il prof. Parenti è indotto a ritenere che il soprannome sottendesse una certa tendenza alla pinguedine dell’assegnatario, ma non sfugge come molti dei nomignoli appiccicati alle enclavi culturali siano storicamente derivati dalla singolarità dei loro usi alimentari. Se ne ricava dunque che già nel cuore del XIV secolo il tortello bergamasco dovesse rappresentare una ben distinguibile icona gastronomica del nostro territorio. Vale qui soggiungere che le prime testimonianze bresciane a riguardo della pietanza datano ad un’epoca ampiamente posteriore, risalendo alle cronache di Giacomo Melga sulla pestilenza del 1478. Pur non rappresentando una prova risolutiva, è comunque innegabile che l’ampio divario temporale tra le fonti documentali finisca per sminuire l’attendibilità della tesi secondo cui la vivanda possa aver visto la luce sulla sponda orientale dell’Oglio. L’ultimo componente dell’imprevedibile trio di méntori gastronomici risponde nientemeno che al nome di sua maestà Federico II di Svevia, timoniere del Sacro Romano Impero nella prima metà del XIII secolo. È risaputo che il vulcanico monarca, oltre a doti di impareggiabile stratega, mostrasse un’incorreggibile inclinazione a stili di vita piuttosto eccentrici per i suoi tempi. Affascinato dalla cultura araba tanto da infarcire il proprio seguito di eunuchi mammalucchi e di danzatrici saracene, l’imperatore era perennemente accodato da uno strampalato caravanserraglio di saltimbanchi mori e di animali esotici - tra cui elefanti, dromedari, scimmie e leopardi. Tra quelle che all’epoca dovevano apparire come incomprensibili stravaganze per un sovrano, risalta l’interesse per le arti conviviali, profondo al punto da tradursi nella codificazione di proprio pugno di diverse ricette di cucina. Nel Liber de coquina - testo redatto intorno al 1300 presso la corte Angioina di Napoli a compendio dell’eredità gastronomica federiciana - compaiono infatti le indicazioni per la preparazione di una pietanza di cavoli secundum usum Imperatoris, che risultano personalmente dettate

dal monarca. Se un francamente incolore stufato di verze e finocchi non può trarre immortalità che dall’universale rinomanza del suo ideatore, assai più convincenti paiono le fritelle da Imperatore magnifici riportate nel Libro di Cucina redatto a Venezia nel XIV secolo, il cui approntamento prevede che del formaggio fresco venga fritto in pastella di chiara d’uovo montata a neve con l’aggiunta di pinoli. Sempre il testo veneziano racchiude due ricette di timballi che rimandano a re Manfredi di Sicilia, figlio prediletto dello Svevo nonché suo designato successore gastronomico: la torta manfreda bona e vantagiata e la torta di re Manfredi da fava frescha. E proprio grazie al rampollo cadetto dell’Imperatore, ed alla traduzione dall’arabo del _ Taqwim al Sihha di Ibn But.lan eseguita su suo impulso verso la metà del XIII secolo, è finalmente dato di chiudere il cerchio gastro-lessicologico che congiunge Federico II al casoncello. L’accostamento per affinità del sembusuch moresco - un raviolo fritto del califfato di Bagdad - all’italico calizon panis, decifrabile come calzoncello di pane, rende infatti perspicua la stretta parentela intercorrente tra quest’ultima vivanda, ad evidenza affermata presso la corte federiciana, ed il pressoché speculare artibotulo del notaio Castelli. Resta infine da chiarire come sia riuscita a prender piede dalle nostre parti una pietanza che in realtà rivela precipui addentellati con la tradizione gastronomica meridionale. Ancor oggi nelle aree del mezzogiorno - segnatamente Puglia e Campania - che più profondamente subirono l’influsso della corte Sveva, si registra invero una profusione di tortelli fritti, morselletti e focacce imbottite denominati kalzoni, calcioni, calcioncelli e cazuncielli, tutti accomunati dall’involucro di pasta lievitata che caratterizzava anche l’artibotulo bergamasco. In assenza di evidenze documentali a tale riguardo, balza comunque all’occhio che Bergamo e Cremona fossero schierate al fianco di Federico nella contesa che lo opponeva ai riottosi rimasugli della Lega Lombarda. E pro- Federico II di Svevia prio a Cremona, storicamente legata alla nostra città da una ferrea alleanza, sono documentati prolungati soggiorni del monarca con il suo bizzarro seguito di eunuchi, odalische e giocolieri. È dunque suggestivo lasciarsi blandire dalla lusinga che il casoncello possa aver rappresentato un simbolico lascito dell’Imperatore ai nostri avi a riconoscimento della fedeltà dimostrata. Se l’antica preparazione non rappresenta pertanto sola farina del sacco bergamasco, è pur vero che per l’ammutinata Brescia la principale memoria legata allo Svevo resti quella della disfatta patita a Cortenuova nel 1237, resa ancor più agra dal risolutivo apporto prestato dalle milizie di Bergamo al trionfo dei lealisti.

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OLTREMANICA

«Che shock vedere come di Laura Ceresoli

«Q Alessandro Gianati

Alessandro Gianati è in Inghilterra per fare esperienza. «Qui vige la meritocrazia: se sei bravo e fai sacrifici, verrai sicuramente ripagato». «Ma manca la cultura del cibo e per un professionista è difficile convivere con questo»

ui in Inghilterra vige la meritocrazia: non importa che tu sia il primo o l’ultimo arrivato, se sei bravo e fai sacrifici, verrai sicuramente ripagato». A dirlo è Alessandro Gianati, 28enne bergamasco che da nove mesi ha lasciato Gromlongo, la piccola frazione di Palazzago in cui è cresciuto, per cercare fortuna a Londra. Nonostante la giovane età, ha alle spalle un curriculum di tutto rispetto dietro i fornelli di rinomate cucine orobiche e non solo, dapprima come commis de partie, poi come capo partita per primi e dessert. Finiti gli studi all’Ipssar di San Pellegrino Terme, ha cucinato per tre anni al ristorante Fro-

sio, ha soddisfatto i palati di clienti esigenti offrendosi come cuoco per una residenza privata in Sardegna, ha lavorato al Trussardi alla Scala a Milano e per una piccola osteria in Brianza. Ora Alessandro ha trovato casa a Swindon nello Wiltshire, dove la vita è meno costosa e caotica rispetto al centro di Londra. E le occasioni professionali non gli sono mancate: «Appena ho messo piede nel Regno Unito – racconta – ho lavorato in un ristorante italiano per quattro mesi, ho iniziato come capo partita ai primi e, nel giro di due mesi, mi è stato chiesto di diventare chef, offerta che ho rifiutato per riprendere gli studi della lingua e per iniziare a pianificare un progetto futuro in Italia. Ora sto valutando una

«Ma gli inglesi ora ci stanno apprezzando di più» Andrea Cirino, head chef del “Massimo Restaurant”: «Fino a una decina d’anni fa erano i francesi ad essere i più quotati nell’alta ristorazione. Oggi, al contrario, la nostra cucina è molto richiesta». «Qui a Londra, l’italianità è sinonimo di calore, estro e fantasia» di Giordana Talamona

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ino a qualche decennio fa si poteva dire tutto di Londra, fuorché fosse una città dalla grande cucina. Eppure la city tutta “fish & chips” in pochi anni si è scrollata di dosso questa etichetta, grazie alla nascita di migliaia di locali dalle più svariate cucine internazionali. Sono oltre 50 i ristoranti stellati a Londra (su circa 10mila, tra ristoranti di vario livello e take-away), nei quali è possibile mangiare senza spendere cifre da capogiro. Londra è infatti piena di chef e di ristoratori in perenne competizione tra loro, disposti a offrire dei menù degustazione a

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Andrea Cirino

pranzo per sole 30 sterline, prezzo ben al di sotto di quello che potreste pagare à la carte per la cena. Nella capitale inglese questa rinascita gastronomica ha avuto in questi anni un impatto positivo nel mercato della ristorazione, tanto che sono molti gli “chef italiani (e non solo) in fuga” che trovano a Londra nuove opportunità lavorative. D’altra parte questa è la terra delle opportunità dove la meritocrazia conta più di conoscenze e parentele e dove non è insolito conoscere persone che da semplici camerieri, in meno di dieci anni, sono diventate head manager di importanti ristoranti. A confermare questa realtà dinamica è Andrea Cirino, head


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maltrattano la cucina italiana» nuova opportunità a Swindon». Quali sono gli aspetti positivi di lavorare all’estero nel settore della ristorazione? «Con un minimo di esperienza (e meglio ancora se il curriculum è buono), in Inghilterra è molto semplice trovare un posto di lavoro nel nostro settore. Qui le cose cambiano molto velocemente, il personale va e viene e quindi si creano molte opportunità». E i salari come sono? «Sono mediamente più alti che in Italia, anche perché la vita è un po’ più cara». È stato difficile adattarsi a una nuova cultura? «L’organizzazione, i ritmi e i clienti sono diversi. L’Inghilterra in fatto di cibo pecca abbondantemente di cultura ma è

comunque un’esperienza che ti apre la mente. Un qualsiasi cuoco italiano deve superare lo shock iniziale nel vedere ciò che qui spacciano per piatti e come li preparano. Da non dormirci la notte! Per un professionista non è assolutamente facile convivere con questo modo di concepire il cibo ed è uno dei motivi per cui non ho accettato di diventare chef nel ristorante dove lavoravo». Insomma, la cucina italiana viene un po’ maltrattata dagli inglesi, secondo lei? «Credo che il 95% delle persone nel mondo non abbia idea di cosa sia la cucina italiana. Ho sentito definire bolognese la passata di pomodoro o chiamare “pepperoni” il salame piccante sulla pizza. Ho visto fare carbonare

senza uovo, ma solo con panna da cucina, bacon e champignon. Ma la cosa incredibile è che se proponi a qualcuno la vera carbonara ti rispondono che a loro piace la panna e la preferiscono così, senza aver mai provato la ricetta originale. Quello che mi fa più rabbia è che le persone che hanno più appeal e che possono insegnare qualcosa sono sempre quelle sbagliate». Si riferisce a qualcuno in particolare? «In Inghilterra la cucina italiana è rappresentata dallo chef inglese Jamie Oliver e non da veri professionisti italiani che possano insegnare ad altri Paesi la nostra cultura culinaria». Lei a quali chef si ispira? «Mi ispiro e ammiro tutti quegli chef

chef del Massimo Restaurant, tempio della cucina italiana, uno dei cinque locali del prestigioso 5 stelle Corinthia Hotel, la cui bella facciata vittoriana del 1885 dà proprio sul Tamigi. Andrea Cirino, napoletano, oltremanica da circa dieci anni, ci accompagna nella sua cucina, durante un servizio “tranquillo” - a suo dire - per sole settanta persone. «Questa serata è piuttosto calma - commenta, mentre la sua brigata di circa venti elementi lavora freneticamente come il battaglione di un esercito, e dalla sala continuano ad arrivare incessantemente comande. - Ci sono certe sere in cui abbiamo 150 persone da servire contemporaneamente, ma non è questo il caso, quindi possiamo farci due chiacchiere». Passando da una sezione all’altra della cucina, presenta tutta la brigata, dagli chef de partie che si occupano dei primi e dei secondi, all’unica donna, la chef pâtissier che sta preparando un dessert. Ogni minuto e mezzo tutta la brigata risponde allo chef de cuisine, che sta coordinando tutte le comande, un fragoroso e potente “sììì”, che serve per cadenzare i tempi della cucina. «In questo modo - spiega Cirino - ognuno di loro si rende perfettamente conto del tempo che passa e, nel caso di ritardo nella preparazione di una portata, possono porvi rimedio accelerando il loro ritmo». Gli domando se a Londra sia possibile fare carriera velocemente. «Assolutamente sì. Io stesso, per arrivare a questi livelli, ci avrei messo il doppio del tempo in Italia. Qui è tutto molto più dinamico e veloce, tanto che difficilmente ricopri lo stesso ruolo per molti anni, perché - se sei valido e lo dimostri - le offerte di lavoro ti piovono dal cielo». Non a caso Andrea Cirino dal 2013 ad oggi è stato a capo di ben tre cucine di alta ristorazione, finché è

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OLTREMANICA

che portano avanti con convinzione, amore e follia le proprie idee». Anche i ristoranti italiani veraci hanno dovuto adattarsi ai gusti degli inglesi per avere successo? «Tutti quei ristoranti “ex italiani” nel mondo degli anni 70/80 si sono adattati al Paese dove si trovavano e hanno così contribuito alla creazione degli stereotipi della cucina italiana all’estero. Un piccolo aneddoto: prima di rientrare per le vacanze in Italia ho chiesto a due nonnini ingle-

si molto carini e cordiali, miei vicini di casa, se gli fosse piaciuto ricevere qualche prodotto italiano e la loro risposta è stata: «No grazie, a noi non piace l’aglio». Come se noi italiani vivessimo con teste di aglio appese per casa per difenderci dai vampiri...». Le piacerebbe far conoscere la cucina bergamasca agli inglesi? «Per il momento non ne ho avuto la possibilità ma mi piacerebbe molto portare qui qualcosa delle mie origi-

approdato nell’agosto dell’anno scorso al Corinthia dove dice di sentirsi come a casa. Gli domando come riesca a creare un piatto italiano, nella grigia e fredda Londra. «Le materie prime sono essenziali – rileva – ed ormai è facile riuscire ad averle, anche quelle più ricercate e rare come il tartufo bianco d’Alba. Solo pochi anni fa era più complicato, ma da quando la cucina italiana è diventata di tendenza a Londra, i canali si sono moltiplicati». Gli chiedo se sia un caso che la brigata sia composta tutta da italiani. «Non lo è, e non solo perché qui facciamo cucina italiana, ma perché il personale di sala e gli chef italiani sono tra i più richiesti nella ristorazione londinese. Fino a una decina d’anni fa erano i francesi ad essere i più quotati nell’alta ristorazione, mentre gli italiani ricevevano offerte di lavoro prevalentemente come pizzaioli e camerieri nei fast food. Oggi, al contrario, avere del personale italiano è un valore aggiunto per un grande ristorante, non solo perché la cucina italiana è molto richiesta, ma anche perché noi italiani abbiamo

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ni. Bisogna trovare il giusto compromesso e, talvolta, non è facile». Cosa le manca di Bergamo? «Non è da molto che sono via ed è anche abbastanza semplice tornare, anche solo per un saluto. I nuovi media sono un aiuto importante per tutte le persone che si trovano lontane, aiutano a sentire meno la mancanza di amici e famiglia. Sicuramente mi manca poter pranzare come si deve. A Bergamo si casca sempre in piedi, ovunque si vada a mangiare».

portato la nostra professionalità e la nostra italianità». Già, l’italianità. Suona strano che all’estero apprezzino la nostra italianità, che spesso in casa nostra è sinonimo di cialtroneria, caos e poca serietà. Ma per fortuna - e dico per fortuna - nella Londra della ristorazione “l’italianità” è sinonimo di calore, estro, fantasia e di quell’innata simpatia che rende tanto amata la nostra bella (e ferita) terra. È immediatamente chiaro cosa intenda Cirino, non appena varchiamo la porta della cucina per andare nella sala ristorante, dove un corpulento signore inglese gli si avvicina con calore. «You’re the best, belive me! - gli dice quasi abbracciandolo -. Every time we come here it is fantastic food and lovely friendly staff. Ohoo I love Italy». I due continuano a parlare dell’Italia e dei piatti italiani per qualche minuto, mentre mi allontano per incontrare il personale di sala. Ci sono Adriana, head sommelier, Alfredo, sommelier in secondo e Raffaella, chef de rang, età compresa tra i 25 e i 35 anni. «Tutto è possibile a Londra - commenta Adriana, che è a Londra da meno di un anno - purché tu dimostri di valere. A loro (gli Inglesi, ndr) non interessa se sei italiano, indiano, spagnolo o arrivi dalla Luna: l’importante è che tu porti qualcosa che loro non hanno. Nel nostro caso si tratta della professionalità, tutta italiana, riguardante il vino e il cibo». Alfredo, campano, da oltre quattro anni in Inghilterra è più timidamente misurato. «Alla fine rimani pur sempre un “ospite” a casa di altri - commenta con una certa amarezza - nel senso che non vivi nel “tuo” Paese, che nel bene e nel male rimane pur sempre il “tuo”, ma sei un italiano che sta a Londra per necessità e non per scelta. Io qui ho un figlio, quindi non credo che tornerò, e in tutta onestà sto facendo un lavoro che in Italia non potrei fare». A Raffaella, giovane siciliana che non tradisce le sue origini quando parla un inglese dal perfetto accento british, chiedo come si trovi a lavorare a Londra. «Benissimo, ma non nego che mi manchi l’Italia e la famiglia. Tornare? Ogni tanto ci penso, ma in Italia non c’è futuro».


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IL CONCORSO

Salame bergamasco, ecco i migliori All’agriturismo Villa Delizia di Mornico il primo posto nella gara promossa dall’Associazione Norcini

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n agriturismo, un norcino ed una macelleria si sono aggiudicati le prime tre posizioni alla quinta edizione del concorso provinciale del salame tradizionale bergamasco, organizzato il primo maggio dall’Associazione norcini bergamaschi nel corso della Fiera agricola della Bassa bergamasca a Treviglio. La competizione era aperta ad amatori che preparano per il consumo familiare il proprio salame, norcini e laboratori artigianali di macellerie o spacci agricoli. Ad imporsi sui 44 campioni presentati alla gara sono stati nell’ordine il salame dell’agriturismo Villa Delizia dei fratelli Dolci di Mornico, quello preparato dal norcino Davide Merisio di Mozzanica e, al terzo posto, quello della macelleria Riccardo Giuliani di Almè. In quarta e quinta posizione due produttori privati, Lauro Medici ed Ernesto Maffeis, ottentenne di Seriate che si era già classificato al primo posto nel 2011, forte di una valida

cantina per la stagionatura e del lavoro del maestro norcino Giuseppe Pezzotta. Mentre nel salame vincitore, preparato con le carni allevate in proprio nell’agriturismo e stagionato in loco, c’è la firma di Paolo Luisoni, presidente dei Norcini bergamaschi, che ha curato la produzione e l’asciugatura. Il distacco tra i “concorrenti” è stato comunque minimo, nemmeno trenta punti tra il primo (arrivato a quota 694) e il quinto (668). «Anche gli altri esemplari in concorso si sono ben comportati – evidenzia Gualtiero Borella, responsabile dei corsi di formazione dell’Associazione -. Abbiamo riscontrato una qualità eccellente in tutti, l’assenza di grandi difetti, il che testimonia una crescita dell’attenzione e della qualificazione nella produzione tradizionale del salame bergamasco. Pur differenti per aspetto, i salami hanno risposto agli standard previsti dal disciplinare, lasciando però anche spazio alla personalizzazione». La giuria era composta da dieci esperti, tra cui assaggiatori Onas, che hanno seguito una serie di incontri per assicurare criteri di giudizio omogenei. Sono in miglioramento, quindi, le competenze del settore, uno degli obiettivi dell’Associazione con sede a Calcinate, nata per salvare la figura tradizionale e il mestiere del norcino (ol masadur) e promotrice di numerose occasioni di formazione e aggiornamento.

Agriturismo Villa Delizia

Davide Merisio

Macelleria Riccardo Giuliani

Lauro Medici

Ernesto Maffeis

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NEWS CITTÀ ALTA

, “La latteria della Manu” devoluti ora è anche caffetteria 16.500 euro Lo stile del negozio è cambiato, l’anima no. È sempre quella della Manu, al secolo Emanuela Carenini, alla “Casa tanta cordialità e simpatia da vendere. Cuore pulsandella storica Latteria Locatelli di Città Alta, sulla del Bambino” teCorsarola, un tempo all’angolo con via Salvecchio, È di poco più di 16.500 euro il ricavato della Festa di Beneficenza promossa da Ingruppo e svoltasi il 10 marzo scorso in Fiera a Bergamo. La somma è stata consegnata lunedì nelle sale dell’Azienda Agricola Sant’Egidio di Sotto il Monte a Francesco Gattinoni del Rotary Club di Bergamo e sarà destinata a sostenere la creazione della “Casa del Bambino”, una nuova struttura del Centro d’Ospitalità e Formazione Paolo Belli - La Nuova Casa del Sole. Alla consegna dei fondi erano presenti Petronilla Frosio, Antonio Lecchi, Giuliano Pellegrini del consiglio direttivo di Ingruppo e Carlo Ravasio, presidente dell’Associazione Sette Terre che ha collaborato con il gruppo di ristoratori nell’organizzazione della festa benefica. L’iniziativa ha visto come partner solidali anche Promoberg, Aspan, Caffè del Caravaggio, Acqua Bracca, Associazione italiana sommelier, Metro e BB Band. Ingruppo riunisce sedici ristoratori, molti dei quali insigniti da una, due e perfino tre stelle Michelin: A’Anteprima (Chiuduno), Al Vigneto (Grumello del Monte), Antica Osteria dei Camelì (Ambivere), Colleoni & dell’Angelo (Bergamo), Collina (Almenno S. Bartolomeo), Da Vittorio (Brusaporto), Devero (Cavenago), Frosio (Almè), Il Saraceno (Cavernago), La Caprese (Mozzo), Lio Pellegrini (Bergamo), LoRo (Trescore Balneario), Osteria della Brughiera (Villa d’Almè), Posta (Sant’Omobono Terme), Roof Garden (Bergamo) e Villa Patrizia (Sorisole).

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la “Manu” da poche settimane armeggia dietro al bancone del nuovo negozio, al civico 36, negli spazi una volta occupati dalla rivendita di scarpe Narciso by Serafino. L’arredamento lo ha voluto in stile provenzale ed è un bel salto rispetto al passato, al negozio al civico 22/c lasciato per sfratto dopo la decisione dei proprietari di vendere lo stabile. Città Alta ha dunque sventato il pericolo di rimanere senza la storica attività (oltre 70 gli anni di esercizio) e Manu è tornata ad esser un punto di riferimento. Con in più un’offerta commerciale potenziata. Già perché ora la Latteria è anche caffetteria. Un passo per nulla avventato. La Manu, infatti, per far propri i “segreti” del buon espresso e prendere le giuste misure a macchina, macinature e miscele si è affidata a due volti noti dei locali bergamaschi, Marco Riva e Sergio Tribbia, già gestori dell’Hemingway e del Caffè di via Paglia a Bergamo e del Barrino a Seriate, e prossimi a una nuova avventura imprenditoriale a Dalmine. A loro, Emanuela ha deciso di regalare la storica insegna del negozio.

La “Trattoria Bologni” festeggia 70 anni e rinnova il locale

La Trattoria Bolognini di Mapello festeggia quasi settant’anni di attività con un locale completamente rinnovato, dagli arredi minimal dal design moderno, dal bianco al tortora, con pareti a strisce bianche e grigie e un mix ben congegnato di legno, acciaio e vetro. L’inaugurazione del bar e della sala ristorante si è svolta il 4 maggio ed ha rappresentato l’occasione per festeggiare con la clientela più affezionata i quarant’anni di gestione della terza generazione della famiglia Bolognini, con Giambattista e la moglie Maria Grazia Panzeri. La storia del ristorante, a due passi da Sotto il Monte e da sempre punto di riferimento per la cucina bergamasca dell’Isola, affonda le sue radici nel secondo dopoguerra, quando i bisnonni Pietro Bolognini e Caterina Donadoni aprono un locale, fino al 1963 Circolo Arci Enal. Il locale cambia in quell’anno insegna in trattoria con il nonno Natale e la moglie Felicità Roncalli. Dal 1975 Giambattista, dopo anni di lavoro a fianco di mamma Felicità, prende le redini del bar trattoria con a fianco, insostituibile supporto nella gestione, la moglie Maria Grazia. Ora il locale, che da anni conta sul prezioso aiuto della figlia Romina, guarda al futuro senza perdere di vista le tradizioni che lo ancorano al territorio, continuando a portare avanti una cucina che esalta prodotti tipici- da non perdere i salumi della casa, i formaggi e le carni -, la maggior parte dei quali proviene dalla “Fattoria e Allevamento Bolognini”, portata avanti dal figlio Cristian. Garanzia in più di genuinità, a chilometro zero.


maggio 2015 A Piergiorgio Salvi, fondatore dell’azienda di distribuzione di Gorle, il riconoscimento di “benemerito del commercio bergamasco”

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L’Ascom premia il pioniere della gastronomia l nuovo volto dei negozi di alimentari e le abitudini in tavola del boom economico sono passate dai suoi furgoni. Quelli che all’inizio degli Anni 60 hanno cominciato a distribuire in Bergamasca pasta fresca e ripiena e le prime specialità di gastronomia - a cominciare dall’insalata russa -, portando nel quotidiano piatti un tempo riservati ai giorni di festa. Lui è Piergiorgio Salvi, fondatore della Fratelli Salvi di Gorle, da più di cinquant’anni un punto di riferimento per le forniture alimentari, e non è azzardato definirlo un fine precursore dei tempi, capace com’è stato di cogliere l’evoluzione dei consumi e aprire un nuovo mercato. Proprio per questo, oltre che per la fedeltà associativa, l’Ascom lo ha premiato nel corso della sua settantesima assemblea, insieme ad altre due personalità (di altri settori) definite “eccellenze del commercio bergamasco”. Salvi oggi ha 83 anni. Quando ne aveva 28 ha deciso di mettersi in proprio, lasciando la Knorr, nella quale aveva fatto carriera. «Per la multinazionale ero stato un po’ in tutto il mondo – ricorda – ed avevo voglia di tornare a stare a casa mia. I mercati li avevo studiati, così sono partito, con l’aiuto di mia moglie Elena, che si è sempre occupata dell’amministrazione e alla quale devo gran parte del successo dell’azienda. Gli esordi sono stati in un appartamento in zona Loreto, con una stanzetta per il freddo e sei furgoncini. Nel giro di sei mesi avevo già una mia piccola rete di venditori. Abbiamo cominciato con i tortellini Fioravanti e l’insalata russa Vogliazzi, nel bicchiere da 100 grammi, che era il formato più vendibile. I negozi prima vendevano soprattutto prodotti secchi e confezionati, come pasta e riso, la nostra azienda ha impresso una svolta». Lo sviluppo è stato continuo, in società sono entrati i tre fratelli e la sede si è trasferita e ingrandita, fino all’attuale spazio in via Roma di 3mila metri quadrati. A caratterizzare sempre l’attività è, accanto alla gestione tradizionale degli ordini, la formula della “tentata vendita”. Sul furgone sono cioè disponibili prodotti freschi in pronta consegna,

così che il venditore durante la visita al cliente a cadenza fissa possa effettuare direttamente la fornitura. Un modello che resta vincente anche dopo tanti anni, che velocizza e snellisce la gestione da parte del negoziante e rappresenta un servizio su misura. Altre cose invece sono cambiate. A cominciare dalla geografia del commercio, con l’avvento della grande distribuzione: «Quelli che un tempo erano i titolari dei negozi che servivamo sono andati a lavorare nei supermercati», sintetizza Salvi. L’azienda è stata però in grado di mantenere le posizioni, restando tra la poche del settore. E se da un lato lavora con la distribuzione organizzata dall’altro continua ad assicurare un servizio capillare e completo ai negozi specializzati, che siano in cima alle Valli o nei paesini della Bassa. Dall’assetto societario, nel frattempo, sono usciti alla fine degli anni Novanta i fratelli ed è entrato il genero Dante Alborghetti che porta avanti l’attività insieme alla moglie Manuela Salvi. Oggi la Fratelli Salvi serve tutta la Bergamasca, parte di Milano Ovest e attraverso la filiale di Marnate il nord Milano e la zona di Varese e Novara, selezionando partner che assicurano la qualità dei propri prodotti. La seconda generazione è addirittura passata sul versante della produzione, confermando l’inclinazione del fondatore a stare sul mercato da protagonisti. Nel 2003 è nata infatti Al.ma, azienda che produce pasticceria fresca, secca e salata, dolci tradizionali e stagionali, alla quale si è affiancata nel 2010 la bella pasticceria caffetteria Almadolce, sempre nell’area della sede aziendale, in via Roma, che offre l’indiscutibile plus dei prodotti di produzione propria, dalla ricca colazione allo snack veloce, all’aperitivo. E anche la terza generazione è già parte integrante delle imprese, con i nipoti Fabio, impegnato nella società di distribuzione, e Giorgia che si occupa del locale.

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TENDENZE di Roberta Martinelli

Cocktail e drink, è tempo di cucina liquida Nell’arte della bere miscelato irrompono nuove tendenze. Mixer e shaker fanno posto a piastre a induzione, pentole e omogeneizzatori. Nasce la figura del barchef e sul bancone arrivano ricette nuove come il Blue Cheese Martini, il Celery Mary o lo Smoke Lavander

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el mondo del bere mixato arriva una nuova tendenza che mischia le due arti portando tecniche, ingredienti e attrezzature dei ristoranti dietro il bancone dei bar. Si chiama “Cucina liquida”, arriva dagli Stati Uniti, spopola a Londra e Parigi, ed è la tendenza più trendy del momento. Niente paura, non troveremo nel nostro bicchiere una porzione di risotto allo zafferano centrifugata: semplicemente, i cocktail vengono preparati secondo le tecniche di cucina e non quelle classiche da bar, e con prodotti destinati a un piatto e non a un bicchiere. I cocktail tradizionali come i Martini e i frozen vengono reinventati in ricette nuove dove compaiono gelatine, spray, essenze, riduzioni, glasse, aromi e spezie. Il mixer e lo shaker fanno posto a piastre a induzione, pentole e omogeneizzatori. Il risultato sono proposte davvero insolite: Martini alle spezie, drink flambé, Margarita agli agrumi, Collins a base di centrifugati di verdura e frutta, cocktail con pomodori e persino con il cioccolato, il burro e la ricotta. In Italia il precursore di questa nuova filosofia è Dario Comini, pluripremiato patron del Nottingham Forest di Milano, uno dei barman più quotati al

Nicola Mor mondo proprio per il suo estro innovativo. In “Mix and drink”, libro mastro della cucina liquida, spiega come ha adattato le tecniche della cucina molecolare alla stazione del bar e creato nuovi cocktail con glasse, spume e gelatine, tutte realizzate in casa. Gli accoliti di questa nuova filosofia sono ogni giorno di più: ciascuno ci “mette del suo” e dà vita a interpretazioni personali. C’è chi, come Comini, usa shaker e pentole per mixare marmellate, salse e puree e dare vita a sciroppi aromatizzati, riduzioni di

liquori, infusi di distillati, spezie e puree; chi si rivolge agli amanti del bio con germogli ed erbe da coltivazioni organiche; chi si ispira alle ricette della pasticceria e della cultura locale; e chi, addirittura, abbina liquori e vegetali in base a un’attenta analisi molecolare. Il panorama spazia in tutta la Penisola: in Sicilia, a Castelvetrano, Gianluca Nardone all’Area 14 dà della Cucina liquida-Mixology l’interpretazione più golosa con i suoi “dessert drink” ispirati ai dolci tipici siciliani, il canno-


maggio 2015 lo, la cassata siciliana e la cucchitedda. Gli ingredienti? Oltre a vodka e liquori vari, scaglie di cioccolato, ricotta di pecora, cubetti di latte, cannella e infusione di canditi. A Brescia, Stefano Sabatti al Box&co Officine dello Spirito estrae dal cilindro ricette sempre nuove e su Facebook i clienti si propongono in massa per fare da cavie, mentre a Bergamo Fiorenzo Colombo, barman formatore, ha inserito la Mixology nelle sue materie di studio. Milano, come sempre, è ancora più all’avanguardia: al Carlo e Camilla in Segheria (il locale di Cracco), Filippo Sisti alza il livello della sperimentazione con il Foodpairing, ovvero la creazione di cocktail a partire da un ingrediente a cui vengono abbinati, in base alla loro analisi molecolare, elementi del tutto insoliti. Qualche esempio? Il Blue Cheese Martini, una rivisitazione del classico Dry Martini, preparato con formaggio erborinato, vermouth, gin e un macerato di salvia e olive; lo Smoke Lavander, con noci pestate, burro caldo e whisky; e due versioni alternative del Bloody Mary, il Louisiana Soul (gin, carne salata, succo di pomodoro concentrato, pomodorini pachino, aglio, capperi, coriandolo, paprika affumicata e peperone) e il Celery Mary (centrifuga di sedano, cetriolo, pepe rosa, basilico, sale, erbe e pomodoro al naturale). La proposta più strana è però l’Easter-

ismo, un drink servito nelle uova di struzzo. Con la nuova tendenza si definisce una nuova figura professionale, il barchef, e nascono corsi che insegnano i segreti per diventarlo. Con una sorpresa inaspettata: la mixologymania sta catturando anche i bar dei piccoli paesi. Spiega Nicola Mor, docente della scuola Cefos di Brescia che il 25 maggio sarà all’Accademia del Gusto di Osio Sotto per un corso sulla Mixology: «Oggi, anche nel mondo del bere si tende a stancarsi presto e a cercare continue novità e nuovi gusti. Si beve e si mangia più per curiosità che per bisogno. I clienti vanno a Parigi, a Londra, assaggiano questi nuovi cocktail e quando tornano li chiedono ai loro baristi. Complici la crisi economica e i controlli alcolemici tendono a rimanere nel bar di paese, e così anche molti baristi di locali in provincia si stanno avvicinando a questa nuovo modo di lavorare». «Rispetto agli anni bui 80-90 quando il barman era lo studente universitario che lavorava per pagarsi gli studi - prosegue Mor - oggi c’è una riscoperta di questo mestiere, si cerca di essere sempre più preparati dal punto di vista tecnico e di creare nuovi sapori. Il nome di barchef è nato per differenziarsi, per far capire che si sta facendo qualcosa di diverso e nuovo. Dietro la tendenza della cucila liquida c’è il desiderio di preparare tutto da sé, di dare un’im-

pronta personale al proprio lavoro». «Fare Mixology - chiarisce - significa lavorare con maggiore attenzione e ricerca, puntare sulla qualità delle materie prime utilizzate nella miscelazione. A partire dal bicchiere, dalla qualità del ghiaccio e degli altri ingredienti. Ad esempio, invece di usare il sale tradizionale sul bicchiere del Margarita si impiega il sale dell’Himalaya o il sale aromatizzato al pistacchio e i drink vengono accompagnati da gelatine o Lime essiccato, secondo la moda più in voga in questo momento all’estero. Il concetto chiave che sottende questa nuova filosofia è la possibilità di preparare le basi necessarie per i cocktail, e questo implica che si apprendano tecniche di erboristeria e di cucina». Potrebbe essere una tendenza temporanea (ma Mor è pronto a scommettere il contrario); una cosa è certa, si offrono nuove frontiere per il mondo dei bar, la via alla sperimentazione è aperta e i risultati sembrano piacere. In attesa di vedere cosa accadrà, vi offriamo un’anticipazione: il cocktail dell’estate, destinato a soppiantare lo spritz, sarà uno e uno solo, il “Moscow Mule”, letteralmente “mulo di Mosca”, drink miscelato a base di ginger-ale o ginger-beer. Anche se in realtà in questo caso non si tratta di una novità, ma di un ripescaggio dagli annali dei cocktail che hanno impazzato in America più di cinquant’anni fa.

Fiorenzo Colombo: «Tra i barman c’è tanta curiosità e passione» A Bergamo, per ora, la nuova tendenza è ancora agli albori. Di bar votati alla cucina liquida non ce ne sono, al più si possono trovare dei barman che propongono cocktail al rosmarino o al basilico, drink speziati o Bloody Mary preparati con del pomodoro filtrato. L’abbinamento cucina e cocktail nella nostra provincia non è però una novità. Già in passato in un locale gelateria di Brembate (l’Albatros) il barman Fiorenzo Colombo proponeva frozen al cappuccino e drink preparati con i prodotti di gelateria. «La cucina liquida diventa credibile solo se il locale fa ricerca e se il cliente è preparato e richiede queste novità» dice Colombo, cofondatore dell’associazione Abi Professional e da anni formatore nel campo della miscelazione. «Per applicare le tecniche della cucina liquida - spiega - ci vuole tempo, pratica e una buona preparazione. Alla fine un barman è sempre un barman. Già deve occuparsi di mille prodotti, conoscere

le tecniche del proprio lavoro e trovare il tempo per tenersi aggiornato, imparare anche le tecniche di cucina diventa molto difficile». Rimane che tra i barman c’è grande curiosità per le novità e voglia di conoscere nuovi prodotti, nuove tecniche. «Soprattutto - rileva Colombo - c’è tantissimo entusiasmo e bisogno di affermare la propria professionalità attraverso la preparazione e questo si traduce nell’apertura alle novità. A volte dico che nell’offerta c’è più scena che prodotto, ma il prodotto di qualità va presentato in un certo modo per farlo capire al cliente, quindi anche la scena è importante».

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IL PREZZO FISSO di Fulvio Facci

Prende il nome da un ritrovo storico in centro al paese il locale della famiglia Borsatti, che oggi schiera al lavoro la terza generazione. Dal 2003 la sede è affacciata sul Brembo

Mora, a Ponte San Pietro vuol dire ristorazione

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arra la storia che un tempo, a Ponte San Pietro, si dicesse “andiamo a mangiare dalla mora”, una signora mora, appunto, che gestiva una trattoria in centro. Nel 1959, quando Mario Borsatti e Giuseppina Castelli (ora rispettivamente di 80 e 76 anni e ormai ritirati dall’attività) rilevarono il locale, decisero di conservarne il nome, perfezionato in “Ristorante pizzeria Mora” con sede oggi in via Garibaldi 36 sempre in centro a Ponte, dopo che in precedenza si erano già spostati una volta rispetto al locale originale, restando comunque in posizione centrale. L’attuale location è collocata sulla riva destra del fiume Brembo, con una sala che si affaccia sul corso d’acqua, un’altra più interna ed un bel dehors, per un totale di 120 coperti. Oltre alla continuità del nome c’è anche quella della gestione. Ora sono infatti i figli della coppia BorsattiCastelli - Giovanni (46 anni), Patrizia (59) e Rosanna (53) - che mandano avanti il locale mentre si fa avanti anche la terza generazione con il figlio di Patrizia, Paolo, che se la cava molo bene in sala. «Quando ci siamo trasferiti qui nel 2003 – racconta Giovanni Borsatti che ha frequentato l’Istituto Alberghiero e segue la cucina – abbiamo aggiunto la pizza. Per il resto abbiamo mantenuto una cucina tradizionale, con casoncelli, brasati, arrosti, funghi porcini, polenta taragna. Nella stagione estiva serviamo delle tagliate di manzo

Giovanni e Patrizia Borsatti e Paolo, figlio di Patrizia e qualche piatto in più di pesce. Discendiamo da una famiglia di ristoratori e alla fine il lavoro diventa anche passione. Il nonno ha gestito per qualche anno durante la seconda guerra mondiale l’Agnello d’oro in Città alta mentre i genitori della mamma avevano un ristorante a Seriate e poi abbiamo ancora altri parenti nella ristorazione. Si può parlare veramente di un’attività tramandata di padre in figlio». Pur mantenendo fede ad una proposta tradizionale e genuina, il ristorante Mora si è tenuto al passo con i tempi promuovendo dei menù sia per la pizzeria sia per la cucina. Dal martedì al giovedì sera c’è il menù pizza che per 10 euro offre la scelta tra una quindicina di pizze tradizionali, una birra piccola, il sorbetto ed il


LA PROVA

maggio 2015 In un panorama nel quale la tendenza del prezzo per il pranzo di lavoro di mezzogiorno è al rialzo mediamente di uno o due euro, come primo dato positivo il ristorante pizzeria Mora di Ponte San Pietro mantiene, con buona qualità, il costo a dieci euro per primo, secondo con contorno a buffet ben assortito, vino, acqua e caffè. Questo probabilmente in relazione anche al fatto che il pranzo di mezzogiorno è sempre stato un cavallo di battaglia del locale prima che arrivasse la crisi a ridurre la clientela dei lavoratori. Curata e ben articolata la proposta. Tagliatelle gamberi e zucchine, gnocchetti con ricotta e funghi porcini, penne all’arrabbiata e farfalle agli champignon per quanto riguarda i primi. Pepata di cozze, petto di tacchino al vino rosso, fritto misto (calamari e gamberi) e polenta con uova al bacon la lista dei secondi piatti, ai quali abbinare verdure cotte e crude dal buffet. La nostra scelta va sul pesce, quindi sui tagliolini con gamberi cotti a puntino e sul fritto misto, veramente fragrante. Un’ottima combinazione per un rapporto qualità prezzo più che soddisfacente.

caffè. Per 20 euro c’è invece il menù di pesce che comprende i tagliolini ai gamberi e porcini, il fritto misto, le patatine fritte, il sorbetto, le bevande ed il caffè. Costa invece 25 euro il menù di carne composto da penne taleggio e rucola, tagliata di manzo, patatine fritte, sorbetto, bevande e caffè. «Cerchiamo sempre di inserire qualcosa di nuovo – aggiunge Giovanni Borsatti - specialmente per completare la proposta per la clientela che sceglie la pizzeria, ad esempio gli antipasti di terra e di mare. Il nostro è un locale per famiglie e per compagnie ed abbiamo sempre avuto un buon giro di clientela senza mai proporre dei cambi radicali rispetto a quello che facevano i nostri genitori». Ristorante pizzeria Mora via Garibaldi, 36 Ponte San Pietro tel. 035 611341 chiuso il lunedì tutto il giorno e il sabato a pranzo

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APPUNTAMENTI FINO AL 30 GIUGNO

Laboratorio a vista, incontri, workshop: in centro vanno in scena le mille forme del gelato Expo Gelato 2015 è la manifestazione, promossa e sostenuta dalla Camera di Commercio, che porta nel centro di Bergamo tutta la filiera dal gelato, rappresentata nella nostra provincia da numerose imprese leader del mercato. L’evento si svolge tra il Sentierone e il chiostro di Santa Marta dal 15 maggio al 30 giugno ed è articolato in tre aree, quella del conoscere con la presenza delle aziende, quella del fare, ovvero il laboratorio a vista attivo tutti i giorni, e il mangiare, zona living e relax dove gustarsi coni e coppe. Il laboratorio è gestito dal Comitato Gelatieri Bergamaschi dell’Ascom e prevede l’alternarsi dei gelatieri che proporranno, tra gli altri, il proprio gusto del giorno. Il programma prevede anche numerosi workshop e showcooking sulle tematiche più innovative legate al gelato. Dopo la giornata inaugurale del 15 maggio, lunedì 18 ci si occupa di “Torte e bouquet di fiori in gelato” con Pierpaolo Magni, campione del mondo e allenatore della squadra italiana alla Coppa del Mondo di Gelateria, e con Riccardo Magni (Coppa del Mondo di Pasticceria). Giovedì 21 tocca a “Gelato ad occhi chiusi” con la Scuola italiana di Gelateria, lunedì 25 a “I gelati, le spezie e…” con il maestro gelatiere Sergio Dondoli, mentre venerdì 29 c’è ancora un appuntamento sensoriale, “Quando la musica si fa gelato”, con il campione del mondo Leonardo Ceschin. A seguire “Gelato artigianale fusion: sushi e sashimi (4 giugno, con Filippo Novelli), “Torte gelato e decorazioni in zucchero” (8 giugno, con Maurizio Alessi), “Gelato o animaletti?” incontro per i più piccoli con Beppo e Elena Tonon (11 giugno), “La salute viene mangiando… gelati” con la Fondazione Veronesi (15 giugno), “Le forme del ghiaccio” (19 giugno, con Francesco Falasconi), “Il gelato gastronomico” (22 giugno, con Sergio Colalucci e lo chef tristellato Chicco Cerea), “Gelato per ogni stagione: erbe, radici e fiori” (26 giugno, con Giancarlo Timballo). Martedì 30 giugno si terrà l’evento di chiusura. www.expogelato2015.it

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Sul Garda bresciano è tempo di rassegne enologiche Sul Garda bresciano è tempo di rassegne enologiche. Dal 29 maggio al 2 giugno a Polpenazze arriva alla 66esima edizione la Fiera del Vino, la più antica e conosciuta vetrina della produzione vitivinicola della Valtènesi. La manifestazione si compone delle “piazze” del Garda Classico, Doc Valtènesi e dei Sapori nostrani, di un “borgo” del bio, di una “corte” degli assaggi che propone la degustazione comparata dei formaggi bresciani e dei vini presenti in fiera e del ristorante “La dispensa del gusto” dove vengono preparati lo spiedo bresciano e piatti tipici locali. www.comune.polpenazzedelgarda.bs.it Da venerdì 5 a domenica 7 giugno a Moniga del Garda tocca all’ottava edizione di Italia in Rosa, giro d’Italia tra cento vini rosati, presentati secondo le zone geografiche, oltre ad ospiti francesi. La manifestazione quest’anno trasloca nel parco della rocca medievale di Moniga, dove si potranno degustare i vini circondati da olivi e godendo della vista lago. Per i professionisti sono invece organizzate nel pomeriggio di sabato degustazioni tecniche riservate, nell’altrettanto suggestivo scenario dei giardini di Villa Bertanzi. Il costo dell’ingresso è di 10 euro (sconto del 50% per i soci Onav, Ais e Fisar). www.italiainrosa.it

24 E 25 MAGGIO

Stresa, al congresso della pasticceria le testimonianze di dieci star Il mondo della pasticceria si sta evolvendo da una dimensione artigianale ad una professionale e industriale di altissimo livello, con sfide che partono dai prodotti e arrivano alle capacità gestionali e di comunicazione. Dallo scorso anno l’alta pasticceria ha in World Pastry Stars un prestigioso momento di confronto. L’appuntamento è a Stresa il 24 e 25 maggio con dieci star di caratura mondiale: il giapponese Norihiko Terai, il lussemburghese Jeff Oberweis, il belga Jean-Philippe Darcis, uno dei re del cioccolato, Frédéric Cassel, presidente dell’Associazione Relais Dessert, Ehsan Hosseini, Pierre Hermé, considerato l’inventore della pasticceria di lusso nelle sue oltre 25 boutique, lo spagnolo Miguel Moreno e gli italiani Santi Palazzolo, Luca Montersino, Gino Fabbri con il coordinamento del Maestro Iginio Massari. www.worldpastrystars.com


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DAL 29 MAGGIO AL 2 GIUGNO

Le birre artigianali bergamasche si danno appuntamento a San Pellegrino Cinque giorni per degustare oltre 40 birre alla spina. Sono i numeri della quinta edizione di BeerGhèm, la rassegna dedicata alla birra artigianale prodotta in Bergamasca, organizzata dal birrificio Via Priula di San Pellegrino in collaborazione con La Compagnia del Luppolo. L’appuntamento è nel centro di San Pellegrino per un lungo ponte brassicolo - dal 29 maggio al 2 giugno – che permetterà di conoscere un mondo sempre in fermento, dove si affacciano nuove birre e nuove realtà produttive. I birrifici partecipanti sono Via Priula di San Pellegrino Terme, Valcavallina di Endine Gaiano, Endorama di Grassobbio, Del Lago di Sarnico, Kaos di Gru-

mello del Monte, Della Ghironda di Brusaporto, Hop Skin di Curno, Birra Orobia di Gorle, Otus di Seriate, Dom Byron di Clusone, AR Brewing di Nembro, Elav di Comun Nuovo. La formula prevede l’acquisto del bicchiere (3 euro) e di gettoni per gli assaggi (2 euro). Sarà anche allestito un beershop per l’acquisto delle birre in bottiglia dei birrifici presenti. C’è anche la cucina, curata da Pier Milesi del ristorante Bigio. Venerdì 29 maggio la rassegna è aperta dalle 18 alle 24, da sabato al martedì dalle 11 alle 24. Non mancano musica ed eventi collaterali. Per gli aggiornamenti c’è la pagina Facebook BeerGhèm.

DAL 29 AL 31 MAGGIO

DAL 28 AL 31 MAGGIO

Il festival dello street food fa tappa a Sesto San Giovanni

A Milano la prima fiera mondiale del commercio equo e solidale

È di certo una delle nuove frontiere della ristorazione, il cibo da strada preparato a bordo di speciali veicoli e interpretato in chiave gourmet. Una tendenza che ha una manifestazione tutta sua, lo Streeat Food Truck Festival, nato a Milano e diventato, come da Dna, itinerante. Dopo le tappe di Roma, Firenze e Bologna, le prossime sono a Sarzana (dal 15 al 17 maggio), Milano (dal 29 al 31 maggio e poi dal 18 al 20 settembre) e Padova (dal 5 al 7 giugno). Il festival è a ingresso gratuito e permette di assaggiare specialità regionali e internazionali dal dolce al salato nella praticità del cibo di strada. Si può spaziare dalle maisse con farina di mais di Farinel on the road alle diverse proposte di hamburger, dagli arancini al risotto alla milanese, da pizza e mortazza ai panuozzi e alle melanzane alla parmigiana. Dall’Apescottadito si può attingere ad arrosticini, fritto misto di pesce e olive ascolane o continuare il viaggio tra le regioni con gnocco fritto, trippa alla romana e porchetta, farinata, puccia, mozzarella di bufala, senza dimenticare le proposte veg, quelle dell’agriturismo viaggiante e i dolci, su tutti il più street food di tutti, il gelato. Il festival è accompagnato da una serie di eventi collaterali come workshop, presentazioni, musica e intrattenimento. L’appuntamento milanese è al Carroponte di Sesto San Giovanni. www.streeatfoodtruckfestival.com

Nominata Capitale mondiale del Commercio Equo e Solidale, Milano ospita dal 23 al 31 maggio la World Fair Trade Week, un’intera settimana dedicata all’economia solidale. L’evento principale, insieme alla conferenza mondiale delle organizzazioni del fair trade, è Milano Fair City, prima fiera mondiale del settore alla “Fabbrica del Vapore” dal 28 al 31 maggio. Saranno presenti 200 espositori da quattro continenti e 30 Paesi, dal food all’artigianato, dai progetti nel Sud del mondo al “domestic fair trade”, dalla cooperazione internazionale alle realtà dell’economia solidale in un’iniziativa che vuole fare incontrare al pubblico i produttori, con la possibilità di fare acquisti ma anche di vivere esperienze dirette, partecipando a laboratori e incontri. Il primo giorno – 28 maggio – è dedicato agli addetti ai lavori, ai giornalisti e agli incontri di B2B. Dal 29 al 31 la mostra mercato è aperta al pubblico con ingresso gratuito. I prodotti del commercio equo e solidale – dalla quinoa alle spezie - saranno protagonisti anche nei menù dei ristoranti, di Milano ma anche nel resto d’Italia, in un percorso che vuole promuovere i consumi etici anche nel campo della ristorazione, e quindi il concetto di giustizia sociale oltre che di qualità e rispetto ambientale. www.fairtradeweek2015.org

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LA STORIA di Fabrizio Pirola

Zim, l’albanese che abbatte le frontiere con la cucina

Ristorante pizzeria “Al Vecchio Pozzo” piazza Camozzi, 6 Grumello del Monte tel. 035 833619 chiuso il martedì sera www.vecchiopozzo.com

Dall’odissea in gommone ad un ristorante tutto suo a Grumello del Monte: Gezim Prekaj ha vinto i pregiudizi con pizze e piatti di mare

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uando una deliziosa e ricca crudité di pesce abbatte i confini e unisce i popoli. Dall’Albania post comunista in gommone, 36 ore in balia delle onde del mare per approdare nel “Bel Paese”. Era il 1997, il viaggio di Gezim Prekaj è stato un’odissea dal lieto fine. Dal 2004 gestisce, con successo, il ristorante pizzeria “Al Vecchio Pozzo”, in piazza Camozzi al numero 6, nel centro storico di Grumello del Monte, dove i primi suoi sostenitori sono stati, ironia della sorte, i leghisti del paese. «Come dite voi, lo ho presi per la gola sorride Zim –, ma non è stato per nulla facile, ho iniziato come classico ristorante specializzato nel pesce, ma solo dopo aver inserito la pizza qualcosa se è mosso. Poi, dopo aver partecipato alla prima festa della Lega Nord, il locale ha cominciato a riempirsi e ora mi posso ritenere soddisfatto del mio lavoro». La realizzazione di un sogno? «Ho imparato un pochino d’italiano guardando le vostre televisioni in Albania. Quando sono arrivato i pregiudizi verso di noi erano forti, ma devo dire che questo non l’ho riscontrato a Grumello: io ho pensato solo a lavorare con professionalità e passione, sapendo che prima o poi la clientela avrebbe

apprezzato la mia cucina». Nel menù propone tantissime tipologie di pizza la scuola è quella del fratello Pashko, pizzaiolo che ora gestite un avviato locale ad Albano Sant’Alessandro -, ma la soddisfazione maggiore proviene da coloro che arrivano per concedersi una vera abbuffata di piatti di pesce. «Il mio piacere è vedere un amico, un cliente, che si dice entusiasta dopo aver assaggiato una spaghettata al granchio reale, dei medaglioni di tonno in crosta di semi di papavero, sesamo e pepe nero con carciofi trifolati oppure una millefoglie di orata con spinaci – sottolinea Zim –. Vogliamo dare il massimo della qualità, pesce fresco ad un prezzo giusto». Il ristoratore è pure diventato un tifosissimo della Grumellese, che

quest’anno ha esaudito il suo desiderio espresso in uno striscione esposto allo stadio, quello della promozione (in serie D). «Posso dire di essere stato adottato da questo paese che mi ha accolto con affetto – afferma -, oggi festeggio non solo il successo della squadra di calcio ma anche il mio, brindando con un profumato pinot nero, che consiglio sempre anche a coloro che mangiano pesce. Un abbinamento vincente che condivido con tutto il mio staff, a partire dal fondamentale contributo dello chef Giambattista Oldrati, senza dimenticare il tocco di dolcezza di mia mamma File, maestra nei dolci». Intanto Zim ha portato la sua formula anche fuori dal locale di Grumello, sviluppando l’attività di catering.


maggio 2015

Al “Cipresso” tre medaglie d’oro a Pramaggiore. E in cantina arriva Warren Mosler Alla 54esima edizione del concorso enologico di Pramaggiore (Venezia), uno dei più antichi a livello nazionale, i vini bergamaschi hanno ottenuto ben sette medaglie d’oro. Tre sono andate al Cipresso di Scanzorosciate, azienda guidata da Angelica Cuni, presidente del Consorzio del Moscato di Scanzo. Da sinistra: Elizabeth O’Toole, Warren Mosler, Hanno ottenuto la medaglia il ValcaleAngelica Cuni, Oscar Fusini e Ivan Invernizzi pio Doc Rosso Dionisio 2012, il Valcalepio Doc Bianco Medardo 2013 e il Moscato di Scanzo Docg Serafino 2011. Le stesse tre etichette, ma dell’annata precedente, avevano meritato la medaglia d’oro anche nel 2014. Due medaglie sono andate alla Bertoli Angelo di Castelli Calepio, grazie al Valcalepio Doc Rosso Montecroce 2011 e al Brut Rosé Metodo Classico Carillon 2010, e altre due all’azienda Cascina del Bosco di Sorisole che ha meritato le medaglie d’oro per il Valcalepio Bianco Doc 2014 e il Valcalepio Rosso Doc 2012. Il Cipresso, tra l’altro, nei giorni scorsi ha ricevuto la visita di Warren Mosler, economista statunitense fondatore della Modern Money Theory, ospite come visiting professor all’Università di Bergamo. Mosler accompagnato dalla moglie Elizabeth O’Toole e dallo studente Ivan Invernizzi, presente anche il vicedirettore dell’Ascom, Oscar Fusini, ha visitato la cantina di Scanzorosciate apprezzandone, oltre allo splendido scenario naturalistico, il modello aziendale e la produzione. In particolare la moglie ha rimarcato la sua preferenza per i vini rossi bergamaschi.

Oscar del Vino 2015, l’“Enoteca Al Ponte” candidata al premio Il prossimo 6 giugno torna “L’Oscar del Vino 2015”. Giunto alla diciassettesima edizione, l’ evento - promosso da Bibenda e dalla Federazione Italiana Sommelier guidata da Franco Maria Ricci - ogni anno distribuisce premi a diverse categorie: vini, aziende, enologi, ristoranti, scrittori e giornalisti. Quest’anno i vincitori saranno annunciati nel corso della cerimonia che si terrà al Teatro dell’Hotel Rome Cavalieri di Roma con tanto di telecamere Rai che manderà in onda l’evento registrato. Da voci non confermate, pare che l’Enoteca Al Ponte sia candidata all’Oscar come “Migliore Enoteca”. Sarebbe un bis, dal momento che l’attività di Ponte San Pietro guidata di Luca Castelletti ha già vinto l’Oscar nel 2012. Il diretto interessato non conferma l’ indiscrezione. Non resta pertanto che attendere il 6 giugno. Certo è che, nell’anno dell’Expo, sarebbe un premio importante per il mondo enologico bergamasco.

L’INTERVENTO

A proposito di coltelli della Sakai Takayuki Spettabile redazione Intervengo in qualità di presidente dell’Associazione Arrotini e Coltellerie in relazione all’immagine pubblicata a pagina 37 del numero di aprile di Affari di Gola. Nella pagina spicca la foto dei coltelli Sakai Takayuki. Al riguardo mi preme fare alcune puntualizzazioni. Da sinistra a destra spiccano: • Il coltello da cuoco di forma occidentale (knife significa coltello in inglese). • Il coltello per affettare salumi ed arrosti di dimensioni medie (in iglese si usa slicer per definire: affettare) • Il coltello “Satoku” con lama da cm 17,5 considerato l’equivalente

giapponese del coltello da “Cuoco” quindi molto versatile • Il “Nakiri” coltello tendenzialmente utilizzato per taglio vegetali (in Italia nel modo dei vegetariani viene spesso chiamato “Caddie”) • Il più a destra è, invece, una dimensione maggiorata del nostro “spelucchino”. Questi coltelli sono realizzati con la tecnica del “San mai con damasco” che consiste in un simil sandwich, dove le fette esterne sono un insieme (variabile) di strati d’acciaio morbido mentre quella centrale è in acciaio molto ricco di carbonio e duro, per garantire un tagliente duraturo. Solitamente i giapponesi elaborano i coltelli con la sezione dell’impu-

gnatura a “castagna” che mortifica un poco l’utilizzo con mano sinistra, anche quando l’affilatura è simmetrica; per facilitare l’utilizzo a tutti, le impugnature vengono spesso modificate con sezione ottagonale per le abitudini occidentali di destrorsi e sinistrorsi. I coltelli di questo tipo, con manico in legno di magnolia e collare in corno bovino o di bufalo non devono essere lavati in lavastoviglie. Evitare le spugnette abrasive, comode ma dannose alla superficie del coltello. Grazie per l’ospitalità Eligio Ambrosioni

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Gli spaghetti con il pangrattato INGREDIENTI PER 1 PERSONA 80 grammi di pasta 1 cucchiaio abbondante di pangrattato 1 cucchiaio di ricotta stagionata 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva 1 cucchiaio di marsala un pizzico di pepe nero

PREPARAZIONE Cuocete e scolate la pasta, che deve essere rigorosamente al dente. In una padella antiaderente unite il marsala, il pangrattato, la ricotta salata (precedentemente grattugiata) e abbrustolite il tutto, facendolo saltare e mescolandolo fino a quando il pane sarà ben dorato e la ricotta si sarà perfettamente miscelata coi granelli di pane grattugiato. Condite la pasta con il cucchiaio di olio e con il composto di pangrattato, spolverandoglielo sopra proprio come fareste con il formaggio grattugiato. Aggiungete un po’ di pepe nero e gustatatevi questa delizia.

CURIOSITÀ Chi mi conosce lo sa: amo spassionatamente la Sicilia e tutto ciò che me la ricorda, cibo compreso; ed è un “amore” che va avanti da qualche anno e che difficilmente si esaurirà. La prima volta che ho assaggiato il piatto che propongo questo mese non ero però in Sicilia, ma in provincia di Bergamo, a cena da un’amica siciliana, attenta a non perdere usi e costumi della tradizione culinaria della sua regione. Tra una forchettata e l’altra mi ha spiegato che esistono molte varianti della pasta con il pangrattato e che quasi tutte in verità hanno in comune l’uso della “muddica”, cioè la mollica di pane, che però può essere sostituita con il pangrattato, come accade per questa ricetta e per altri piatti simili. Per prepararla io di solito utilizzo gli spaghetti, ma vanno bene tutte le paste “lunghe” come i bucatini, i bigoli o i pici, che riescono ad avvolgere il condimento, ottimizzandone il sapore. La pasta corta, invece, lasciamola per altre pietanze. Per quanto riguarda la ricotta, è necessario trovare il tipo “stagionato”, chiamata anche “ricotta salata”. È una varietà prodotta ed apprezzata in particolare nell’Italia meridionale, che si differenzia dalla ricotta fresca, per essere più “secca” (e quindi facile da grattugiare) e per un sapore ed una consistenza più marcati. Non è un prodotto “raro”, ma

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mi è capitato di non trovarla nei supermercati più piccoli. Quindi se volete andare a colpo sicuro, recatevi in una gastronomia. Infine il marsala, uno dei vini più versatili in commercio, non solo ottimo come vino da dessert o come vino da meditazione da sorseggiare lontano dai pasti, ma anche come ingrediente prezioso per la preparazione di molte pietanze. In commercio si distingue nelle tipologie “Fine” (conciato, invecchiato almeno un anno), “Superiore” (conciato, invecchiato almeno due anni), “Superiore Riserva” (conciato, invecchiato almeno quattro anni), “Vergine” o “Soleras” (non conciato, invecchiato almeno cinque anni) e “Vergine Riserva” o “Soleras Stravecchio” o “Soleras Riserva” (non conciato, invecchiato almeno dieci anni). Per “conciato” si intende un vino dalla lavorazione del tutto particolare, al quale sono stati aggiunti mosto cotto, sifone ed alcool (o acquavite). Ma per coloro che non hanno il palato particolarmente difficile o più semplicemente sono poco interessati ad acquisire competenze su questo vino liquoroso, è sufficiente conoscere che è venduto nel tipo “secco”, “semisecco” o “dolce”. Per questa ricetta io consiglio di usare il marsala secco. Non solo perché mi è stato consigliato fin dall’inizio, ma perché il sapore finale che regala al piatto è davvero gustoso. Non mi resta che auguravi buon appetito.


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