Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60
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Gli “Archimede” della tavola Cibo e ristorazione, ecco le idee innovative made in Bergamo
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1, DCB 1, comma 46) art. in L. 27/02/2 004 n. 353/20 03 (conv. - D.L. Postale amento Abbon Spediz ione in S.p.A.
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SOMMARIO
Cibo ecco e ristorazion made le idee innove, in Berga ative mo
Italiane
MARZO 2015
Gli “A della trchimede” avola
4 IL PRODOTTO
in copertina il progetto “My Cooking Box” , idea innovativa di cui parliamo a pg 19 foto: Fox Eating Skyr
Ma quanto è difficile bere un buon caffè!
10 LA GUIDA
Bergamo e l’Expo, un alfabeto per riflettere
14 L’AZIENDA
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Vinitaly, Villa Domizia lancia il “Punto Zero”
17 STORIE
Gli “Archimede” della tavola
22 TRADIZIONI
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Quella cucina di Bergamo tra pesce e cibi di magro
24 FOCUS
I mille volti della pasta fresca
28 FACECOOK
Lanfranco, il pasticciere in pensione è un re di YouTube
32 PAUSA PRANZO
La Grecia che si... magna
34 L’EVENTO
InGruppo fa ancora centro. Novemila i piatti serviti in fiera
Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Giuseppe Mazzini, 24 - 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Giuseppe Mazzini, 24- 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - info@larassegna.it - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Riccardo Lagorio, Roberta Martinelli, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Rosanna Scardi, Giordana Talamona, Donatella Tiraboschi - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg
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IL PRODOTTO di Laura Bernardi Locatelli
Ma quanto è difficile bere un buon caffé!
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Diversi lettori ci hanno segnalato come sia spesso un’impresa gustare un espresso dal giusto aroma. Odello: «Sono ben 15 gli errori più frequenti compiuti da chi sta alla macchina. Il peggiore? La scelta della miscela». Sempre più decisiva la capacità dei torrefattori italiani di interpretare i cambiamenti sulla selezione della materia prima
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ere un buon caffè, come segnalato da diversi lettori di Affari di Gola, ha ormai quasi il sapore dell’impresa. Dietro al servizio della tazzina italiana dal gusto e dall’aroma che non trova ancora eguali al mondo, c’è un lungo lavoro di filiera che parte dalle piantagioni e, passando dalla tostatura e torrefazione, arriva in chicchi selezionati sul mercato. A chi sta dietro il bancone il compito difficile di selezionare miscele di qualità e di trasformare i chicchi pregiati nell’espresso italiano, secondo formule e regole inderogabili (25 millilitri in 25 secondi usando 7 grammi di caffè per tazza). Qualcosa in uno di questi passaggi, dalla torrefazione al servizio nei pubblici esercizi, deve pur andare storto se l’espresso non è all’altezza delle aspettative. E mentre torrefattori e baristi si rimbalzano responsabilità, arrivano notizie poco confortanti dalle piantagioni. La nostra tazzina di caffè, tanto al bar quanto a casa, potrebbe non essere più la stessa. Parola di Manuel Diaz, presidente della Conferenza Internazionale dei Caffè Naturali, che non ha dubbi in merito e ne ha riferito alla convention dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano (Inei) ospitata il 27 febbraio scorso da Vibiemme a Milano. «Il cambiamento climatico, con l’aumento della temperatura, potrebbe spingere la pregiata varietà Arabica verso maggiori altitudini o in territori più freschi - ha spiegato Diaz -. La risposta a questo cambiamento sta in nuovi ibridi, che però rendono l’Arabica meno ricca a livello aromatico». A ciò si aggiungono gli aumentati consumi di paesi emergenti, in cui una parte sempre maggiore della popolazione si rivolge al caffè, con la conseguenza di una ulte-
Luigi Odello
riore diminuzione di caffè di pregio circolante. In definitiva sarà fondamentale la capacità dei torrefattori italiani di leggere e interpretare questi cambiamenti. Luigi Odello, docente di Analisi Sensoriale presso università italiane e straniere, presidente dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè (oltre che segretario generale dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano e dell’International Academy of Sensory Analysis) ci aiuta a mettere in luce difetti ed errori nella filiera del caffè. Professore, il problema della qualità del caffè sta alla radice, nelle piantagioni? «L’Arabica vuole il freddo (anche se non troppo) e il cambiamento climatico vorrebbe che la coltivazione salisse di quo-
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IL PRODOTTO
Pubblici esercizi
Beltrami (Ascom): «Fondamentale non derogare mai dalla regola delle 5 “M”» G ta, ma questo non è possibile. Così, per evitare l’azione nefasta dei patogeni che distruggono le piantagioni si fa ricorso a ibridi resistenti. In effetti, in tempi non lunghi potremmo trovarci ad avere caffè molto diversi dagli attuali con cambio di personalità sensoriale delle miscele alle quali siamo abituati. Non solo, ma nuovi ibridi brasiliani, in questo caso di Robusta, potrebbero essere coltivati in Amazzonia. Il caffè troverebbe quindi nuovi territori di enorme estensione nel paese più progredito in fatto di meccanizzazione. Oltretutto il caffè cresce all’ombra di altre piante e questo consentirebbe di evitare disboscamenti. Se questo è ottimo per il pianeta lo potrebbe essere un po’ meno per la qualità dell’Espresso Italiano, la preparazione che più di ogni altra al mondo necessita di una materia prima eccellente». Quanto incide la torrefazione sul gusto? Quanto la mano del barista? «La qualità sensoriale è determinata dal valore di tutti gli step di filiera ed è sufficiente che uno di essi sia pari a zero perché il risultato finale sia nullo. La torrefazione ha indubbiamente il suo peso. Oggi ci troviamo di fronte a tendenze estreme che tendono, per motivi diversi, a tostare velocemente. È come cogliere un frutto acerbo: se non abbiamo la fornitura della giusta quantità di energia in un determinato tempo otteniamo miscele che originano espresso deformi in cui gli aromi non sono sviluppati e l’acidità è elevata. Caffè che possono avere un senso per filtro e altre preparazioni, ma non per la tazzina nazionale. Ovviamente il barista deve fare la sua parte: più una miscela è elegante, complessa ed evoluta e più difficile è il suo trattamento in macchina».
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iorgio Beltrami, presidente del Gruppo Caffè, Bar, Pasticcerie Ascom ha colto l’occasione per ribadire le regole che stanno dietro ad una tazzina di qualità e sottolineato come non ci si possa improvvisare mai dietro al bancone: “La formazione, che portiamo avanti ad elevati livelli presso la nostra Accademia del Gusto, è fondamentale
come per qualsiasi altra professione. È importante che chi si affaccia al mestiere sappia esattamente cosa deve affrontare in ogni aspetto gestionale, dai rapporti con i fornitori alla selezione dei prodotti, dal servizio all’amministrazione contabile. Bisogna sempre diffidare da contratti apparentemente vantaggiosi che non tardano a rivelarsi poi
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totalmente squilibrati e fuori mercato». La crisi senza dubbio pesa: «Fare scelte di qualità è sempre possibile, al di là della congiuntura economica, anche se contrariamente al resto d’Europa il prezzo del caffè in Italia ha da tempo abbandonato quello dei quotidiani, cui è sempre stato convenzionalmente legato. I margini sono senza dubbio ridotti all’osso se l’espresso in Europa viaggia sui 2,50 euro quando da noi costa 1 euro in quasi tutta Italia» continua Beltrami. La professione di barman deve essere sempre più valorizzata e deve tornare ad essere un mestiere da tramandare di padre in figlio: «Bisogna valorizzare il patrimonio di conoscenze attraverso la gestione familiare, un modello che resta sempre vincente. Oltre al confronto tra generazioni, il modello familiare abbatte costi che oggi sono diventati davvero insostenibili.
Giorgio Beltrami
Dietro ai grandi locali storici italiani ci sono sempre state le famiglie che hanno continuato a tenere fede ad una tradizione di qualità. In alcuni casi quando il passaggio generazionale si è interrotto non si sono mantenuti gli stessi standard qualitativi». Quali sono i segreti che stanno dietro ad un gran caffè? Le buone prassi per realizzare un buon prodot-
to, sottolinea Beltrami, sono sintetizzabili nella regola delle 5 M (Miscela, Macinatura, Macchina del caffè, Manutenzione, Mano): «La qualità della miscela è il punto di partenza, poi c’è l’abilità nella macinatura che deve rispettare e seguire il clima: in una giornata di pioggia, ad esempio, deve essere più sottile. La scelta della macchina conta, ma ancora di più la sua manutenzione: ogni sera bisogna investire una ventina di minuti nella pulizia. È imprescindibile poi l’uso del depuratore per scacciare il nemico principale di un buon caffè: il calcare. La macchina non va mai spenta: si accende quando si compra e si spegne a fine carriera. È un costo che ogni bar deve mettere preventivamente in conto. La mano del barman conta moltissimo, almeno quanto la sua passione e sensibilità, gli ingredienti più preziosi».
Come si riconosce un buon caffè? «Non serve essere esperti per riconoscere odori di muffa, medicinale, bruciato, fumo e simili... La qualità inizia dall’assenza dei difetti. Quando vi servono una tazzina di caffè non lasciatevi ingannare dalla vista: avvicinate la tazzina al naso e abbandonatevi alle sensazioni che vi procura. Cogliete sentori di fiori, frutta fresca, frutta secca ed essiccata, cacao e vaniglia, pepe e qualche altra spezia, o almeno alcune di queste? Al gusto è equilibrato (non molto acido e non molto amaro), sciropposo e setoso, senza un briciolo di astringenza? Perfetto, ora affondate la vostra mente nel piacere e aprite pure gli occhi. La crema è color nocciola con riflessi fulvi di trama finissima? Ci avrei scommesso». Quali sono le regole per prepararlo al meglio? “Per l’Espresso Italiano il barista è guidato da una formula inderogabile: 25 millilitri in 25 secondi usando 7 grammi di caffè per tazza. Quando la soddisfa ha buone possibilità di dare al cliente il caffè che desidera, sempre che abbia operato
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IL PRODOTTO
I torrefattori: «Se l’espresso è cattivo R
enzo Chinello, vicepresidente di Altoga (Associazione Lombarda Torrefattori e Importatori di Caffè e Grossisti Alimentari), ribadisce come risparmio non faccia mai rima con qualità: «Quest’ultima si paga sempre e non ci si improvvisa barman. Continua a crescere il numero di baristi che chiedono di risparmiare sul caffè, con evidenti e nefasti effetti sulla qualità della tazzina. Gli stessi clienti dovrebbero avere il coraggio di lasciare sul bancone ogni caffè cattivo e rifiutarsi di pagarlo». Non aiuta la scelta nazionalpopolare di proporre il caffè ad un euro: «Un conto è servire un caffè e un altro portare al tavolo una lattina. Purtroppo la scelta demagogica di tenere il prezzo del caffè ad un euro sta portando ad un abbassamento della qualità. Dietro ad una tazzina di caffè c’è sempre un grande lavoro, dal-
Il vicepresidente di Altoga: «Il risparmio sulle miscele alla fine non paga. E soprattutto non ci si può improvvisare barman» la macinatura all’uso corretto dell’addolcitore per eliminare il calcare, dalla pulizia della macchina alla giusta pressione. La macchina del caffè non andrebbe mai spenta, un po’ come lo scaldabagno a casa. Ma soprattutto richiede manutenzione costante e, prima di tutto, pulizia adeguata e quotidiana. I costi legati all’espresso sono elevati e quelli dello stesso caffè sono cresciuti negli ultimi tempi». Nonostante il prezzo all’origine sia cresciuto, sul mercato ci sono caffè che costano tanto quanto la segatura: «I prezzi di una buona miscela si aggirano attorno ai 18 euro al chilo,
eppure i discount propongono caffè anche a 5 euro al chilo, quando il prezzo medio del caffè va dai 15 ai 20 euro al chilo. Se un chilo di caffè arriva a costare meno della segatura impiegata per i lavori di bricolage, forse vale la pena farsi alcune domande. Non mi stanco mai di ricordare, specialmente ai ristoratori, l’importanza nella scelta di un buon caffè anche perché la tazzina lascia l’ultimo ricordo di un pasto». Anche la torrefazione deve seguire determinate regole se vuole distinguersi da quella industriale: «Ogni varietà di caffè ha le sue caratteristiche e la tostatura non può essere fatta
con attrezzature pulite e abbia scelto una buona miscela. Questa regola sembra una sciocchezza, ma se metteste alla prova il vostro barista come facciamo alla competizione “Espresso Italiano Champion” con un macinadosatore starato (che quindi fa granellini troppo piccoli o troppo grandi) vi rendereste conto che non è poi così facile. L’Espresso Italiano necessita sempre di un professionista per la sua preparazione». Quali sono gli errori più frequenti che fanno i baristi? «Ne commettono una quindicina almeno: scarsa pulizia delle attrezzature, mancanza di controllo della temperatura della macchina e del tempo di estrazione, pressatura del caffè nel filtro insufficiente, particelle di caffè sul bordo del filtro, abbandono dell’espresso sulla macchina per fare altre cose, servizio maldestro... Il peggiore errore negli ultimi tempi riguarda la scelta della miscela. Spesso il barista non giudica il caffè in base alle sue caratteristiche sensoriali, ma per
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bisogna lasciarlo sul bancone»
in fretta e furia ma a fuoco lento per facilitare i delicati mutamenti fisici e chimici che sprigionano aromi in tutta la loro varietà e complessità. Bisogna portare ogni singolo chicco al punto di tostatura perfetto che è quello a tonaca di frate, subito evidente dal colore». La scelta della
miscela è fondamentale: «Purtroppo sul mercato prevale la Robusta di prevalenza africana, dalla Costa d’Avorio al Togo. La Robusta fa molta crema, il metro di giudizio più ingannevole per valutare una tazzina. Miscele di qualità con base arabica fanno poca crema, mentre la
la facilità di ottenere un risultato che soddisfi la vista, dalla crema alla struttura. Ecco perché invitiamo tutti a non guardare la tazzina quando ci viene servita. E tantomeno a valutare il tempo che impiega lo zucchero ad affondare: una delle peggiori indicazioni che sia mai stata data per confondere il consumatore». Qual è il futuro dell’espresso italiano? «Nei giorni scorsi è stato rinnovato il consiglio dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano che certamente rappresenta l’organismo più operoso, determinato e coeso nella promozione e nella tutela della tazzina made in Italy. Il progetto di quest’anno ha come claim “Nel mondo, a fianco del barista”. Questo significa che si continuerà con la consueta fermezza a valutare la qualità delle attrezzature e delle miscele e ad abilitare baristi, per i quali sono previsti due concorsi: l’Espresso Italiano Champion e il Best Coffee Taster (il migliore assaggiatore). Ma parallelamente verrà aperta una finestra sui paesi produttori alla
Robusta ne fa moltissima, oltre ad avere un tenore di caffeina superiore fino a tre volte quello di un’ottima Arabica Santos, ad esempio». La base per una buona miscela di espresso non è difficile da tenere a mente: «Una base composta dal 40-50% da Arabica Santos rappresenta un eccellente punto di partenza, cui si può aggiungere solo che qualità o note particolari, dal caffè etiope come il Sidamo a note del Sudamerica, penso ad esempio al Costa Rica…». Non manca una nota di Chinello sui consumi di caffè: «Sono in crescita i consumi a casa e il mercato delle cialde non sembra conoscere crisi. L’interesse è forte per il caffè verde, non tostato, ma da ridurre in polvere e gustare come una tisana. Inutile dire che ha un gusto estremamente diverso dal classico caffè tostato, in cui prevalgono le note erbacee».
ricerca di caffè di alta qualità, una porta verso l’internazionalizzazione trasferendo la nostra cultura e un bacino di innovazione che non riguarderà solo la tecnologia, ma anche nuovi strumenti di marketing». Siamo arrivati al paradosso di dover imparare dall’estero a servire un caffè perfetto? «Direi proprio di no. Almeno per quanto riguarda l’Espresso Italiano che, quando fatto bene, vince. Alcune statistiche affermano che il canale dei caffè speciali rappresenta l’11% del mercato: l’Espresso Italiano si colloca in questo segmento. Sta a noi mantenerlo nella sua veste tradizionale che racchiude il perfezionamento di oltre un secolo prodotto da costruttori di attrezzature (macchine e macinadosatori) e di torrefattori che hanno saputo creare miscele in grado di sopportare forti rapporti tra polvere e acqua (7 grammi su 25 millilitri, contro 5 grammi su 100 o su 200 millilitri) e forti pressioni (9 bar) a temperature contenute».
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LA GUIDA di Leo Bartoli
Bergamo e l’Expo, un alfabeto per riflettere In vista del grande evento milanese, ecco l’Abc turistico-enogastronomico per valutare le potenzialità e limiti del nostro territorio
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meno di due mesi dal taglio del nastro, l’Expo prova ad accendere i motori, anche se come tutte le cose (belle e brutte) della nostra Italia, sapremo davvero di avercela fatta solo la mattina del 1° maggio: e dato che si dà il caso sia anche la festa dei lavoratori, l’auspicio è che davvero tutti per quella data abbiano svolto il loro compito al meglio. Anche perché poi per sei mesi saremo davanti a una lente d’ingrandimento mondiale: qualsiasi grande, fantasiosa iniziativa verrà salutata con applausi planetari, ma anche qualsiasi flop verrà pesantemente denunciato al pubblico ludibrio di mass media pronti a tutto pur di addentare l’osso. In quanto a Bergamo, in questi mesi di vigilia ha proceduto a strappi: per un po’ si è lasciata andare ad annunci roboanti, poi ha preferito procedere a fari spenti o quasi, anche se ora si sta tornando al momento degli annunci. Vedremo cosa succederà, intanto proviamo, con un classico Abc turistico-gastronomico dell’evento, a capire come il territorio intende rispondere all’appello.
A come Alimentazione Arrivare a un Expo su un tema universale come quello dell’alimentazione da un lato è molto affascinante, dall’altro nasconde più di un’insidia: il tema unisce tutti i popoli, perché porta il dibattito su due grandi argomenti, che gli inglesi chiamano “food safety”, ossia la sicurezza degli alimenti, e “food security”, cioè la certezza di un’adeguata nutrizione. Sia per l’Expo sia per il Fuori Expo sarà fondamentale avere sempre chiaro questi due filoni perché le derive consumistiche legate alla “grande abbuffata” sono sempre dietro l’angolo. Guai se questo grande evento venisse solo ricordato per i piatti di porchetta o gli ettolitri di vino venduti. B
come Balzer Con la cosiddetta DomusWine sarà uno dei crocevia (sorta di Gourmarte estivo) dell’offerta di eccellenza agroalimentare della città, versione Expo. L’idea del direttore Promoberg Stefano Cristini (con il placet della Camera di commercio) di un bar storico che diventa il cuore dell’enogastronomia nazionale, con degustazioni, incontri tra grandi produttori, eccellenze italiche da scoprire o riscoprire, può diventare vincente, ma ha bisogno di robuste sinergie
(e di poche gelosie…) per decollare. E soprattutto, visto che lavoreranno gomito a gomito, con l’augurio che non si pestino i piedi con la Domus dedicata ai vini voluta dal Comune.
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come Castelli (Malpaga) Forse è la volta buona che ci accorgiamo del grande patrimonio di castelli che Bergamo può offrire. L’iniziativa di creare un circuito è finalmente realtà e aiuterà a scoprire tesori nascosti. Su tutti Malpaga, che accanto alla vocazione storica di dimora colleonesca, ha saputo ritagliarsi negli ultimi anni una mis-
marzo 2015 sion agroalimentare e di energia ecosostenibile che ne fanno un esempio rarissimo in tutto il Nord Italia. Magari finirà che tedeschi e svedesi prenderanno d’assalto (stavolta il ponte levatoio resterà abbassato) le sue sale affrescate, le libagioni medievali, le tante piste ciclabili, mentre noi continueremo a pensare che si tratti solo di uno dei tanti castelli della Bassa.
D come Dopo che succederà? Non è ancora iniziato lo show, ma molti sono già a chiedersi cosa sarà del dopo Expo. Se l’evento sarà uno di quei soliti carrozzoni usa e getta, poco o nulla cambierà, se invece emergerà qualche buona idea magari riusciremo a risalire la china che ci ha visti un tempo (ma mica nelle guerre puniche, solo una manciata di anni fa) capitale mondiale del turismo, ora scesi al quinto posto, superati da Australia, Usa, Francia e Inghilterra (sigh) e ormai incalzati persino da Croazia ed Emirati Arabi. L’Expo, si sa, in passato ha già fatto fare il salto di qualità a tanti bacini, basta ricordare Siviglia ’92 e Lisbona ’98: se la Lombardia coglierà l’occasione, non essendo solo capitale della moda e del food, ma avendo laghi e montagne, storia e cultura quasi sempre inespresse, dal 2016 si potranno scrivere pagine nuove sul fronte dell’accoglienza.
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come Effetto Gori Il movimentismo del sindaco di Bergamo ha spiazzato gli altri enti che in alcune fasi della vigilia sono apparsi un po’ indietro se non nei preparativi, nella comunicazione. Lui invece sforna idee a ripetizione per il Fuori Expo e si è messo in testa di fare di Bergamo la capitale italiana del vino almeno per i sei mesi dell’Esposizione: impresa ardua, ma se ci riesce… In questo solco, sta cercando di ridare slancio ad Astino, rispolverando giustamente il nome di un mito mondiale come Veronelli (se non ora, quando?) e schiera un ex colonna SlowFood, molto competente e determinato, come Raoul Tiraboschi per fare da stratega dell’intera offerta che si concentra attorno alla Domus di Piazza Dante: dato che la struttura resterà in eredità anche dopo l’Expo, l’augurio è che possa finalmente ridestare dal torpore il Sentierone, facendolo tornare cuore pulsante della città.
F come Formaggi Inutile girarci attorno: sono loro la vera eccellenza della Bergamasca riconosciuta in tutto il mondo. Vanno bene i vini, sono ottimi i salami, ma è l’abilità dei nostri casari, la sapienza dei nostri affinatori, che dovremmo mettere in mostra, magari accompagnando qualche turista sugli alpeggi del Camisolo, in Val Taleggio o in qualche caseificio importante, per fargli capire che questo è un mondo non solo fatto di cose buone, ma soprattutto di grandi uomini, che hanno tramandato un tesoro culturale, prima ancora che gastronomico, ai figli e ai figli dei loro figli. E poi resta una risorsa economica preziosa: i numeri ci dicono che solo in Bergamasca il caseario si avvicina al miliardo di euro di fatturato, mica bruscolini… G come Giornalisti Voraci, onnivori, state certi che troveranno qualche magagna nell’organizzazione dell’Esposizione a livello milanese, ma anche locale. E il timore è che non facciano neppure una gran fatica a scovarne. Ecco perché la co-
municazione degli eventi Expo dovrà essere maneggiata con gran cautela. Altrimenti qualsiasi iniziativa potrà trasformarsi in un boomerang insidiosissimo da schivare. E più passeranno le settimane e più succulento diventerà sparare sul pianista. Quindi, lo diciamo contro i nostri interessi, da queste parti si prepara un Expo, molto ma molto “schiscio”.
H come Hotel La sfida dell’Expo passa anche attraverso l’ammodernamento dei nostri alberghi. Qui, anche il presidente della Camera di commercio Malvestiti assicura che si è lavorato molto per renderli più accoglienti e pronti a reggere l’urto per il grande evento. Ma sappiamo tutti che il giudizio degli ospiti si giocherà magari anche solo sui piccoli particolari, che però, specie per gli stranieri, fanno la differenza. Sapremo ad esempio offrire al visitatore cinese almeno una teiera nella sua camera? Avremo un frigobar con vodka sempre a disposizione per i russi? Potremo schierare idromassaggi per i patiti del wellness, o avere a disposizione biciclette per il turista scandinavo? Lo scopriremo solo vivendo. K
come Kilometro Rosso Ovvero la grande occasione perduta. Il flop della mancata organizzazione, per fondi insufficienti, della mostra mondiale della tecnologia agroalimentare ha già creato imbarazzi e portato a litigi e scaricabarile assortiti che hanno avuto persino qualche riflesso sulla composizione dei consiglieri per la nuova Camera di commercio. L’idea era bella, il progetto faraonico, la fine del sogno dolorosa. Il guaio è che alcuni soggetti non hanno mai elaborato del tutto quel “lutto” di non avercela fatta e Bergamo, anziché pensare in grande, ha distribuito le sue energie in mille rivoli. Vedremo se pagherà l’approccio minimalista…
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come Inferiority Complex È quello che Bergamo deve scrollarsi da dosso: uno degli sport più amati da queste parti è sempre stato il
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LA GUIDA O
come Ordini O commesse, come preferite. Qui Bergamo si è difesa assai: ha costruito padiglioni, creato persino la Porta dell’Expo come la Vitali o li ha rivestiti come ha fatto Gualini per Palazzo Italia, o ne ha creato i pavimenti come la Recodi per quello giapponese e della Coca Cola, o ancora li ha abbelliti con un’esplosione floreale come è avvenuto per il padiglione francese o kazako. La vera sfida sarà andare oltre, nel senso che è già avviato l’iter per l’Expo di metà mandato ad Astana in Kazakistan nel 2017 e per la prossima edizione di Dubai 2020: la vera abilità per i nostri operatori sarà quella di far fruttare i contatti e proseguire il percorso virtuoso iniziato quest’anno.
mugugno da battitori liberi: bene se è votato a migliorare se stessi, male se sfocia nel disfattismo a 360 gradi. Expo in fondo siamo noi: se mostreremo la nostra parte migliore, pur senza voler strafare, anche chi incontrerà la nostra azienda, il nostro locale, le nostre proposte gastronomiche, potrà alla fine esserne affascinato. Mai come stavolta il nichilismo potrà risultare indigesto.
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come Lingue straniere Tanto bello l’italiano, pittoresco il dialetto bergamasco, ma esistono ancora, ad oggi, fondati dubbi circa la capacità dell’intero sistema di sfoggiare non dico uno slang cinese o russo, ma almeno un inglese accettabile. Tutti, dal negoziante al conducente della funicolare di Città Alta, dal ristoratore-albergatore al personale dei musei, devono avere consapevolezza che le lingue straniere non possono più essere considerate un optional da un territorio che voglia fare del turismo una delle sue carte vincenti. L’Expo, come moltiplicatore di visitatori e di “questions” (o preguntas, fate voi), sarà una gigantesca centrifuga che su questo tema alla fine emetterà un verdetto (forse senza ritorno) circa le nostre aspirazioni.
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M come Maestri del Paesaggio Con l’Expo in contemporanea, Piazza Vecchia green diventerà a settembre il fiore all’occhiello dell’offerta Fuori Salone di Bergamo: forse a qualcuno può essere sfuggito, ma se accanto allo spettacolo green ci sarà un’offerta adeguata sul fronte food, Bergamo dovrebbe credere maggiormente in questo suo asso nella manica. Soprattutto adesso che la kermesse ha strizzato l’occhio all’agroalimentare di qualità, affidandosi a un’esperta di eccellenze sia in cantina che in cucina come Francesca Negri. Vediamo se il mix funzionerà: aspettative alte. N
come Navigare a vista Non aspettiamoci sfracelli dall’Expo. Non è la panacea dei nostri mali. Ma potrebbe aiutarci a capire quali sono i nostri difetti, dal punto di vista del turismo, dell’ospitalità e dell’offerta complessiva, forse più di un rapporto Ocse. Il consiglio è quello di non esultare al primo traguardo raggiunto, alla prima comitiva di cinesi che coprirà di elogi Città Alta. L’Expo è come una corsa a tappe che dura sei mesi: va bene vincere le volate, ma poi bisogna arrivare in fondo senza il fiatone.
P come Palma il Vecchio Il maestro è lì, da ammirare, con tutta la magia che ne consegue. Visitatori ne verranno tanti, molti solo per le sue opere (e c’è qualcuno che ha pensato di abbinare un menù, una ricetta, alla mostra più importante dell’anno, altri vorrebbero sposare l’evento a un ristorante: ma i pacchetti dovranno esserci tosti, fantasiosi e abbondanti per rubare clienti all’immaginifico palinsesto milanese…). Resta però un fatto (e attendiamo smentite): in tempi così cupi e impopolari per le banche, l’evento più importante di Bergamo è stato ideato e finanziato da un istituto di credito. Meditate… Q
come Qualità Ci siamo riempiti la bocca per decenni su questo concetto, un tempo un po’ labile, ora sempre più stringente e obbligato. Qualità però vuol dire tante cose, spesso si crede possa rispondere a determinati canoni piovuti dall’alto. Giusto, ma anche sbagliato: la vera qualità, addirittura l’eccellenza, è decretata dal cliente. È lui il giudice supremo di quanto andremo a proporre dentro e fuori l’Expo: potremmo dirci bravi dieci volte, fare tutto a puntino, organizzare per il meglio, ma se poi arriva dall’altra parte del mondo un visitatore e comincia
marzo 2015 a far le pulci su un particolare che noi abbiamo trascurato, allora sarà giusto fare autocritica. Senza però far drammi assoluti: anche in questo caso sarà la maggioranza a decretare successi e fallimenti.
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come Ristoranti Mai come alla vigilia dell’evento sono fiorite nuove aperture in città e fuori. Locali di cucina regionale, etnica, di tendenza hanno moltiplicato l’offerta, quasi a esorcizzare una crisi che invece aveva fatto strage d’insegne negli anni passati. Vediamo se almeno alcuni ristoranti (e non ci riferiamo solo ai “mostri sacri”) sapranno cogliere l’occasione, scegliendo un tema, un accostamento, un binomio che possa premiare anche altre vocazioni del turista: dall’arte alla cultura, fino all’ecoturismo. E chissà che, puntando a valorizzare le materie prime del territorio, all’ombra di quest’annata in cui un po’ tutti saremo sotto esame, possa spuntare qualche nuovo locale stellato…
S come Spinato E i suoi fratelli. In conclusione, finirà
per essere il mais il cuore dell’offerta bergamasca a Milano. Dal centro di Stezzano capiremo forse come, grazie alle nuove varietà, saremo in grado, nel nostro piccolo, di nutrire il pianeta. In fondo non era questa la vera mission alla base dell’Esposizione universale? Qui invece qualcuno vorrebbe trasformare la rassegna in una sorta di Disneyland all’italiana, o peggio, in una Sagra della porchetta grandi firme. A quel punto a vincere sarebbero solo il colesterolo e qualche commerciante con tanto di pelo sullo stomaco.
T come Turismo Bergamo L’Expo è una grande sfida sul fronte agroalimentare, ma per la nostra provincia diventa la prova del fuoco per capire se davvero questo territorio potrà vantare in futuro una vocazione turistica sincera, riuscendo finalmente a capitalizzare parte di quei milioni di passeggeri che annualmente sforna lo scalo di Orio e che di solito ci lasciano le briciole. Poi c’è l’approccio culturale da non sottovalutare: il presidente di Turismo Bergamo, Luigi Trigona, si è infatti spinto oltre, parlando per il centro città, negli ultimi anni sempre meno vivo e perdente nei confronti dei faraonici centri commerciali, di “un nuovo Rinascimento, che leghi l’arte, la cultura e il piacere di stare a tavola”. Una sfida difficilissima, ma se arrivasse qualche risultato, specie legato all’aggregazione di questa comunità, sarebbe di per sé già un successo. U
come Ultima occasione Forse è esagerato, ma in tanti pensano che quella dell’Expo sia davvero l’ultima chiamata per capire se Bergamo può diventare, come meriterebbe per tante eccellenze (nei formaggi, nella quarta gamma, persino per i ristoranti stellati) una delle terre a più alta vocazione turistica legata all’enogastronomia. Se l’esame sarà superato potremo prepararci a questo Progetto Erg: no, non è un prodotto petrolifero, bensì il coronamento di un percorso che nel 2017 vedrà Bergamo capitale delle Regioni gastronomiche
d’Europa, vetrina invidiabile, da sfruttare “senza se e senza ma”.
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come Valcalepio L’Expo potrebbe far fare il salto di qualità definitivo al nostro vino principe. Il presidente Medolago Albani e il delegato Expo Enrico Rota ce la stanno mettendo tutta, favoriti dall’imprimatur enologico che il sindaco Gori, attraverso Bergamo Wine e la direzione Tiraboschi, hanno dato all’intero palinsesto. L’importante è che, ospitando in questi mesi tanti Cru celestiali sul territorio (leggi Barolo, Barbaresco, Amarone, Brunello e compagnia), il nostro taglio bordolese non finisca per fare la fine del vaso di coccio tra i vasi di ferro. Ci vuole originalità e autorevolezza per imporsi, ma il direttore Cantoni è uomo navigato: ce la si può fare…
W come Web Inutile negarlo: gran parte dell’offerta Expo del nostro territorio passerà attraverso le piattaforme on line: molteplici, variegate, coloratissime. Sono già operativi molti siti, alcuni davvero utili alla causa, altri che funzionano bene sul piano estetico, meno su quello pratico. La domanda è sempre la stessa: siamo sicuri che remino tutti nella stessa direzione, o a forza di link e di rimandi, di ripetizioni e di traduzioni in lingua un po’ troppo banali, il gioco di specchi non finisca per rendere strabici i visitatori? Z come a Zonzo Nel senso di girovagare senza una meta fissa. Si annuncia un Expo talmente immaginifico e dispersivo che il visitatore rischia di vagare un po’ alla cieca, stordito dalle tante offerte, dagli odori e dai sapori che potrebbero distrarlo o addirittura disarmarne le velleità. I territori limitrofi come Bergamo dovranno quindi essere pronti a raccogliere le migliaia di visitatori in fuga da Milano: attenzione però, il passaparola straniero funzionerà solo se avremo qualcosa di diverso e più interessante da dire rispetto alla faraonica offerta. In quel caso potrà davvero succedere di tutto…
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L’AZIENDA
Vinitaly, Villa Domizia lancia il “Punto Zero” Dopo il bianco Punto Uno, la 4R apre un nuovo percorso con il rosso ottenuto da uve Incrocio Terzi n°1. Un vino intenso e morbido che tiene conto anche della salute, grazie alla scelta di limitare la concentrazione di solforosa aggiunta in ogni bottiglia
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illa Domizia è il segno distintivo con cui la passione e l’esperienza dei fratelli Rota, titolari della 4R di Torre de’ Roveri, interpretano il desiderio di rivalutare i vini del territorio lombardo. Nei primi anni Novanta iniziarono a valutare l’ipotesi di creare una linea apposita di vini che riuscisse a comprendere al meglio questo sentimento, sfida che non ha mai conosciuto tregua. Nell’aprile dello scorso anno, presentarono il primo vino con la denominazione ‘Terre del Colleoni’, l’Incrocio Manzoni PUNTO
marzo 2015 UNO, nato dal desiderio di dare origine ad un vino dal carattere fresco, morbido e piacevole, tutto bergamasco. PUNTO UNO è quindi l’inizio di un ennesimo nuovo percorso. Ottenuto con uve Incrocio Manzoni 6.0.13, questo interessante frutto del matrimonio fra Pinot Bianco e Riesling Renano è il risultato della ricerca di un prodotto che avesse una vocazione per la convivialità. Proprio durante il Vinitaly di quest’anno verrà presentato l’ultimo vino pensato da Villa Domizia: l’Incrocio Terzi PUNTO ZERO, sempre con la denominazione di origine Terre del Colleoni. “PUNTO ZERO è espressione di tipicità, intesa come legame tra prodotto e ambiente - affermano i fratelli Rota - e arricchisce la varietà dei vini locali. In questo caso, la nostra ricerca approda ad un gusto inedito, interessante per coloro che cercano nuove coniugazioni di tradizione e innovazione.” PUNTO ZERO è ottenuto con uve Incrocio Terzi n° 1, originate dalle ricerche del vignaiolo bergamasco Riccardo Terzi che ha saputo, è il caso di dirlo, mettere a frutto il matrimonio fra uve Barbera e Cabernet. “Vino dal portamento vigoroso - specificano i titolari della 4R - decisamente interessante in fase sensoriale, si presenta con un bel colore rosso rubino carico e profumo caratterizzato da piacevoli note fruttate riconducibili ai frutti rossi. Al gusto è intenso e morbido con una lunga persistenza”. Non sono solo i vini innovativi a determinare la filosofia dell’azienda bergamasca. Da tempo alla 4R ricercano - come tengono a sottolineare i quattro fratelli - emozioni inedite basate su una ricercata attenzione al benessere quotidiano, anche tramite la limitazione della presenza di solforosa aggiunta in ogni loro vino. Durante la kermesse veronese, verranno messi in evidenza questi dati. “Anche se la nor-
I vini di Villa Domizia Valcalepio Bianco Gaudes doc 2014 anidride solforosa totale pari a 85 mg/l Valcalepio Rosso Gaudes doc 2012 anidride solforosa totale pari a 42 mg/l Valcalepio Rosso Riserva Gaudes doc 2010 anidride solforosa totale pari a 31 mg/l Terre del Colleoni Incrocio Manzoni .UNO doc 2014 anidride solforosa totale pari a 58 mg/l Terre del Colleoni Incrocio Terzi .ZERO doc 2013 anidride solforosa totale pari a 44 mg/l Terre del Colleoni spumante millesimato doc 2011 anidride solforosa totale pari a 80 mg/l
mativa europea ha fissato valori massimi abbastanza contenuti di solforosa, sia per i vini tradizionali che per quelli biologici, noi abbiamo voluto ottenere risultati che fossero pari a un terzo di quelli consentiti. Se nulla è facile, nulla è anche impossibile. La solforosa è lo strumento principale per stabilizzare il vino; si tratta di un antiossidante e un antisettico/antimicrobico che si lega alla molecola dell’acetaldeide. Alcuni viticoltori la utilizzano in fase di raccolta per la conservazione delle uve anche se vi sono metodi alternativi per conservare i grappoli freschi, come ad esempio quelli da noi usati come il trattamento con ghiaccio secco (CO2)”. Alla 4R ricordano come il limite massimo di solfiti presenti in un vino tradizionali vanno 150 mg/l per i rossi e 200 mg/l per i bianchi, mentre in un vino biologico il limite si abbassa a 100 mg/l per i rossi e 150 mg/l per i bianchi. Vista l’insistenza con cui confrontano certi parametri con il vino biologico, logico pensare che a breve arriveranno altre sorprese.
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VERSO L’EXPO di Enrico Rota*
Vinitaly, non solo Valcalepio ma anche specialità del territorio
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ome anticipato, ad aprire il 2015 enologico del Consorzio Tutela Valcalepio sarà la partecipazione al Salone Internazionale del Vino e dei Distillati Vinitaly che vedrà i produttori bergamaschi a Verona da domenica 22 a mercoledì 25 marzo. Un appuntamento importantissimo per il vino italiano al quale il Consorzio Tutela Valcalepio partecipa in forma congiunta per la 18esima volta. Quest’anno Piazza Valcalepio ospiterà 14 aziende: Il Calepino, Il Cipresso, La Rovere, La Tordela, Tallarini Angelo, Tosca, Medolago Albani, Cascina del Bosco, Cantina Sociale Bergamasca, Celinate, Locatelli Caffi, Quattroerre, Vignaioli Bergamaschi e Castello degli Angeli.
Come ci piace ricordare, il Consorzio non sposa solo la causa dell’enologia bergamasca ma ama anche parlare di Bergamo come un territorio fatto di tradizioni e cultura. Ecco quindi spiegata la scelta di portare con noi a Verona tutta una serie di realtà ed iniziative importanti per la città e per il territorio. Prima fra tutte la rinnovata collaborazione con il marchio camerale Ristoranti dei Mille Sapori di Bergamo, che ci consentirà di avere con noi quattro ristoratori (Ristorante Steak di Curno, Ristorante La Torre di Trescore Balneario, Ristorante Da Mimmo in Bergamo e la Trattoria Falconi di Ponteranica) che delizieranno il pubblico di Vinitaly con una serie di
piatti della tradizione orobica reinterpretati in chiave contemporanea. Il tutto affiancato dalle specialità delle aziende IBS – Cà del Botto, Casera Monaci, Latteria Sociale di Calvenzano in abbinamento al Pane del Palma creato dai panificatori dell’Aspan Bergamo. Il Valcalepio è anche social e dopo il titolo di “Consorzio più social” ottenuto nel corso della seconda giornata di fiera lo scorso anno, è stato deciso di replicare #ValcalepioBloggerTasting, una formula che consente l’incontro e il confronto tra Wine e Food Bloggers, produttori e ristoratori. È stato deciso poi di dedicare un tema ad ognuna delle quattro giornate di fiera e così domenica 22 marzo si terrà l’evento “Valcalepio presenta “Domus Bergamo – Bergamo Wine 2015”, lunedì 23 marzo “Aspettando il Concorso Enologico Internazionale Emozioni dal Mondo: Merlot e Cabernet Insieme 2015”, martedì 24 marzo “Al Vinitaly con Palma il Vecchio” e mercoledì 25 marzo “Veronelli & il Valcalepio”, grazie alla collaborazione con il Comitato Decennale Luigi Veronelli. Non mancheranno poi notizie, sorprese e novità che sarà possibile seguire in tempo reale sui profili social del Consorzio (Facebook, Twitter e Instagram) con l’hashtag #ValcalepioaVinitaly. Per tutti quelli che saranno a Verona l’appuntamento è al PalaExpo Lombardia Spazi B8-C8. *Delegato Expo per il Consorzio Tutela Valcalepio
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STORIE
di Anna Facci
Gli “Archimede” della tavola Anche per cibo e ristorazione, cogliere le tendenze e proporre soluzioni innovative è sempre più importante. Ecco cosa bolle in pentola a Bergamo, tra valorizzazione dei vegetali, rilettura delle tipicità in chiave moderna e attenzione alla salute e alle scelte alimentari
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onostante crisi e calo dei consumi, cibo e ristorazione sono settori in cui si continua ad investire. Basta fare un giro in città per notare ogni volta un’insegna nuova. Ma anche i numeri lo confermano. Per Bergamo, i dati dell’Ascom evidenziano, ad esempio, un balzo dell’11,3% nella somministrazione negli ultimi cinque anni e una ripresa dal commercio alimentare (+6,8%) dopo anni di flessione. Le statistiche parlano però anche di un alto indice di sostituzione, il cosiddetto turn over, spesso dovuto ad una debolezza di fondo dell’idea imprenditoriale o all’improvvisazione. Sembra infatti cosa semplice gestire un locale o inventare una nuova formula per un negozio (ammettiamolo, ognuno ha in testa la propria ricetta vincente!), ma non è così. Soprattutto oggi che la concorrenza è altissima e i clienti, costretti dalle necessità del por-
tafoglio ma probabilmente anche più preparati, non regalano il proprio consenso con facilità. Cogliere sul nascere esigenze e tendenze diventa quindi fondamentale, così come proporre soluzioni originali e innovative. Siamo andati alla ricerca di ciò che bolle in pentola tra città e provincia, indirizzati anche dai servizi di orientamento e formazione d’impresa che la Camera di Commercio mette a disposizione attraverso l’azienda speciale Bergamo Sviluppo. Abbiamo trovato giovani che hanno scelto di imprimere una svolta nella propria carriera o nell’attività già avviata. Le tematiche emergenti? Quella green (ossia la valorizzazione dei vegetali), l’attenzione alle tipicità rilette in chiave moderna (ad esempio racchiuse in una scatola o in viaggio a bordo di un mezzo attrezzato) e la risposta alle intolleranze e alle scelte alimentari.
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STORIE MY COOKING BOX
In un’unica confezione tutto ciò che serve per un piatto coi fiocchi Accade spesso. Dopo aver fatto la spesa per preparare un piatto speciale, ci si rende conto al momento di mettersi ai fornelli che manca ancora quell’ingrediente! A risolvere l’inconveniente ci ha pensato Chiara Rota con “My Cooking Box”, speciali confezioni che contengono tutti – ma proprio tutti – i prodotti, compresi olio e sale, necessari a realizzare la ricetta, nel giusto dosaggio, in modo da evitare sprechi e avere l’ulteriore garanzia di rispettare l’apporto calorico e nutrizionale specificato. Trent’anni, laureata in ingegneria gestionale, impegnata nell’azienda di famiglia, la Omr di Torre Boldone attiva nel settore metalmeccanico e plastico, Chiara Rota ha unito l’attitudine professionale ad ottimizzare i processi produttivi con la passione per la cucina e soprattutto per la ricerca di prodotti enogastronomici artigianali d’eccellenza lungo la Penisola. Quelli che ora sta inserendo nelle sue box, progetto imprenditoriale che ha anche vinto la selezione per accedere all’incubatore Speed Mi Up (di Università Bocconi, Comune e Camera di commercio di Milano), dove è presente da febbraio. «Stiamo ultimando i prototipi delle confezioni, che non vogliono essere semplici scatole – racconta -. Contiamo di essere pronti per maggio, quando Expo aprirà le porte». Pensata per i turisti che si vogliono portare a casa la reale possibilità di realizzare una ricetta tipica, My Cooking Box si rivela un valido aiuto per tutti. «Capitava - ricorda Chiara – che alcuni rappresentanti stranieri della ditta di famiglia mi chiedessero di tradurre loro le ricette di alcuni piatti italiani, ma mi sono resa conto che non bastava che portassero con sé in patria uno o due ingredienti, come una confezione di spaghetti o di salsa di pomodoro, per avere la certezza di riproporre la vera cucina italiana. Anche dettagli come la qualità dell’olio o la giusta quantità di sale nell’acqua Chiara Rota della pasta, infatti, possono fare la differenza ed è così che è nata l’idea di racchiudere tutto l’occorrente in un unico “pacchetto”». Che si propone come “kit di pronto soccorso” anche per chi straniero non è, ma non ha molto tempo per fare la spesa e rincasando sa di poter avere già tutto a disposizione per un pranzo o una cena coi fiocchi o per gestire senza sprechi il soggiorno nelle seconde case. Al momento le ricette finite nelle box sono cinque e si tratta di primi piatti. «Siamo partiti con prodotti non de-
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peribili, come pasta, riso e sughi – spiega Rota -, anche perché è necessario che tutti gli ingredienti abbiano le medesime modalità di conservazione. Sono tutte specialità selezionate: pasta di Gragnano Igp, salsa di pomodori Pachino, filetti di tonno, pesto alla genovese, pinoli di San Rossore e ancora Vialone Nano e Carnaroli da abbinare rispettivamente ai funghi secchi di Borgotaro e ai pistilli di zafferano. Le ricette sono tutte testate da uno chef e da un nutrizionista e sono descritte passo dopo passo. Nel box sono inserite anche informazioni sui singoli ingredienti, sulle aziende che li realizzano e le caratteristiche peculiari di ciascuno, un modo anche questo per valorizzare il vero made in Italy». Il costo? «Sono tutti prodotti di alto livello – precisa l’ideatrice -, possiamo però dire che la spesa per il box è inferiore a quella che si sosterrebbe acquistando separatamente i medesimi ingredienti». Per la distribuzione Chiara Rota punta in primis su negozi in località turistiche, aeroporti, tour operator, hotel, dove My Cooking Box si propone come un’evoluzione del souvenir gastronomico. Un prossimo passo è “inscatolare” anche una ricetta bergamasca: «È la mia terra – conclude -, mi piacerebbe far conoscere i produttori locali».
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BE TYPICAL
La tradizione “on the road” Ha saltato una generazione la vocazione per la ristorazione. Dopo il nonno, che ha gestito fino a metà degli anni Novanta sulle colline di Chiuduno la trattoria Bilofer, è riaffiorata nei fratelli Andrea e Matteo Gavazzeni, che hanno scelto di dargli una veste in linea con le tendenze del momento. Puntando sullo street food nel senso più pieno della parola. Il loro è, infatti, cibo da strada non solo perché facile da consumare all’aperto o portar via, ma perché cucinato a bordo di un automezzo che si sposterà tra piazze ed eventi. «Non si pensi al furgone che attende i clienti all’uscita della discoteca – precisa Andrea -. Quello dei food truck è un movimento già affermato all’estero e in fase di espansione anche in Italia. Rispetto alle esperienze già in atto, abbiamo scelto di spingere sul pedale della qualità, intesa sia come selezione dei prodotti sia come nuova modalità di servire piatti classici». L’azienda si chiama Be Typical, denominazione che ben sintetizza la volontà di rileggere in chiave moderna la tradizione. I due fratelli hanno cominciato a lavorare al progetto un
anno fa e prevedono di essere “on the road” tra circa quattro mesi. Non è stato infatti semplice allestire un mezzo che rispondesse alla loro idea. «Ci sono tanti aspetti da coniugare – rilevano -, dall’organizzazione degli spazi alle attrezzature, che abbiamo voluto fossero tutte elettriche, meno rischiose rispetto a quelle alimentate con gpl, e naturalmente l’immagine, che è un punto chiave per attività come questa. È stata una ricerca e una sperimentazione continua di soluzioni. In attesa di mostrare il mezzo, quello che possiamo dire è che sarà qualcosa di particolare e innovativo per l’Italia». Quanto alla proposta, si va dall’utilizzo di prodotti tipici della Bergamasca, come i salumi Ca’ del Botto e i formaggi Presidio Slow Food, a piatti ispirati alla tradizione ma serviti in forme e packaging nuovi. Le mete saranno il Nord Italia ma anche l’estero, il viaggio dei due fratelli diventerà, quindi, occasione per portare le specialità nostrane fuori dai confini provinciali. «Pensiamo di organizzare alcuni eventi mirati su strada, anche locali, per farci conoscere – annuncia Andrea – e di partecipare a fiere e manifestazioni di carattere
Andrea e Matteo Gavazzeni internazionale con un pubblico interessato alle tipicità». Andrea ha trent’anni e lavorava nella società edile del padre, Matteo, 27enne, è perito elettronico. Entrambi hanno frequentato corsi di formazione per mettersi ai fornelli della loro cucina itinerante e realizzare «la svolta e fare qualcosa di nostro». Non li spaventa la prospettiva di macinare chilometri, anzi. «Non siamo partiti con un locale – rilevano – e può sembrare insolito. L’idea di spostarci però ci affascina, perché ci dà la possibilità di entrare in contatto con un pubblico variegato e trasversale e con situazioni diverse ogni volta».
A TREVIGLIO
Germogli di bambù, due sorelle avviano la coltivazione “Rapite” dal mondo della ristorazione, le sorelle Cinzia e Marianna Ziliati di Castel Rozzone hanno deciso di cominciare per tempo a mettere le basi di quello che sperano in futuro sarà il loro locale. La prima ha 26 anni, è laureata in lingue e sta ora seguendo il corso di Sommellerie di Alma a Colorno, del rettore Gualtiero Marchesi. Marianna, 23 anni, si è invece già diplomata alla stessa prestigiosa scuola ed è capopartita del tristellato Massimiliano Alajmo a Rubano (Pd). Entrambe sanno che dovranno accumulare ancora un bel po’ di esperienze prima di cimentarsi in una gestione in proprio, ma hanno già un’idea chiara di ciò che vorranno proporre. «L’ipotesi è di un ristorante che utilizzi prodotti biologici cresciuti in un orto curato da noi – spiega Cinzia – ed abbiamo deciso di partire dai germogli di bambù. È un ingrediente che ho conosciuto e apprezzato durante il mio soggiorno per studio in Cina e al ritorno in Italia mi sono resa conto che è richiesto anche qui. Non solo nei ristoranti orientali, ma
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STORIE anche in quelli che puntano con decisione su piatti a base di vegetali. Abbiamo pensato che poteva essere un’opportunità offrire a questo mercato un prodotto fresco, biologico e a chilometro zero». Forti anche dell’aiuto di nonno Abramo, che da ex vivaista le ha supportate sugli aspetti agronomici, hanno trovato gli spazi – in una zona alla quale i trevigliesi sono molto legati, il “Roccolo” - e scelto la varietà di bambù più adatta alle condizioni di terreno e clima e più vocata all’uso alimentare. Rimandata per le eccessive piogge dello scorso autunno, la messa a dimora delle piantine dovrebbe essere effettuata proprio in questi giorni. «Il primo raccolto è previsto dopo due anni, ma se la stagione procede bene potrebbe essere anche un po’ prima», dice Marianna, che nel frattempo ha già esplorato le potenzialità gastronomiche dei germogli di bambù. «Sono un’alternativa interessante per variare piatti vegetariani e vegani sempre più richiesti – rileva –. Dal sapore non troppo ingombrante e di buona consistenza, si prestano a diverse cotture: alla griglia, fritti in tempura in chips, in purea. Qui alle Calandre sono proposti in un piatto vegetale con rapa rossa e topinambur e in crema con cubi di triglia scottati a vapore, conditi con semi croccanti. Non contengono glutine, ma hanno vitamine e sali minerali che li rendono degni di attenzione anche per le qualità nutrizionali». Il bambuseto si presta, tra l’altro, ad una impostazione multifunzionale. Le due sorelle vogliono farlo diventare anche un luogo di visita per le scolaresche e di educazione ambientale e quando i fusti saranno maturi potranno essere un’ulteriore risorsa, vista la molteplicità degli usi (costruzioni, arredamento, tessile solo per citarne alcuni). Quanto ai germogli, «l’obiettivo sono forniture su misura per chi ricerca prodotti bio e di qualità», rimarcano.
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HAPPY SALAD
Il take away che rende protagonisti Appassionati di alimentazione “alternativa”, loro per primi erano alla ricerca di una pausa pranzo o di una cena da asporto diversa, che potesse essere veloce e gustosa, ma anche sana e leggera. Alla fine ciò che cercavano se lo sono creati da sé, aprendo nel settembre scorso a Bergamo, in via Masone 3, Happy Salad. Un locale che
rende protagonisti verdure, frutta e cereali, cucinati senza grassi e con la volontà di esaltarne i sapori e le proprietà naturali. È così che Antonio Tornitore, 40 anni, e Davide Reposo, 39, già impegnati nel commercio ma in qualità di dipendenti, rispettivamente nel settore abbigliamento e auto, sono passati dall’altro lato dell’impresa.
PASTICCERIA BONATI GLUTEN FREE
«Fare dolci per chi ha Può intraprendere strade innovative anche chi porta avanti un’attività classica e consolidata. Come Andrea Bonati, erede dell’arte pasticciera di papà Tiziano, per 15 anni presidente del Capab e presidente nazionale della Confederazione dei pasticcieri italiani, scomparso nel 2005. Andrea, 33 anni, è impegnato dal 2007 nell’azienda di famiglia, a Paladina, autentico punto di riferimento per tanti golosi. La sua esperienza lo ha portato anche in tv, niente meno che sulla rete ammiraglia della Rai, alla trasmissione “Dolci dopo il Tiggì” condotto da Antonella Clerici. Dallo scorso 27 ottobre ha aperto un ramo tutto nuovo, con tanto di marchio autonomo - “Pasticceria Bonati gluten free” – e spazi (spogliatoi, laboratorio, magazzini e punto vendita) completamente separati dalla pasticceria tradizionale, che escludono in partenza ogni rischio di contaminazione. La specializzazione nel senza glutine non l’ha cercata, se l’è trovata davanti nel desiderio di rispondere alle crescenti richieste di prodotti adatti a questa o quella intolleranza. «Non accettavo l’idea che alla sua festa di compleanno un bambino al quale era stata scoperta da poco la celiachia non potesse mangiare la stessa torta dei suoi amici – ricorda -, così mi sono preso l’impegno di realizzare un torta che fosse buona per tutti. E ce l’ho fatta. La pasticceria è un piacere ed è diventato una sorta di dovere etico per me fare in modo che possa goderne anche chi ha particolari esigenze o problemi di salute». Si è preso a cuore una fetta di mercato «che nessuno vuole» e vi ha dato una risposta personale, che non usa miscele già pronte, «dove spesso le alter-
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verdura e frutta Lo spazio è piccolo, circa 30 metri quadrati con 7/8 posti, e l’attività è improntata sul take away, con confezioni pensate per il consumo immediato e per essere riscaldate. C’è anche il servizio di consegna a domicilio in centro. La scelta di campo è per frutta e ortaggi biologici, di cui principale fornitore è la cooperativa Aretè di Torre Boldone. In primo piano ci sono le insalate, che ognuno può comporre da sé selezionando, anche tramite l’ordine on line, gli ingredienti a disposizione, oppure scegliendo tra due proposte “della casa” diverse ogni settimana. Ma ci sono anche tramezzini (già diventati un cult del locale), estratti di frutta, insalate di cereali, zuppe e vellutate, piatti unici come il cous cous con pollo e verdure e ancora polpette di riso o caponata di verdure e via con le varianti di sta-
gione. Il segreto per rendere gustose proposte che ai più scettici potrebbero sembrare noiose è la semplicità. «Cuciniamo con un forno a vapore – evidenzia Tornitore -, che permette di esaltare al meglio i sapori e conservare le proprietà nutrizionali. Le ricette le mettiamo a punto personalmente, anche se, in realtà, non c’è gran che da inventare quando la qualità della materie prime è buona e si rispettano gli ingredienti». «Recentemente – nota - abbiano preparato al vapore i pizzoccheri e sono stati un successo. Questa cucina, insieme con la scelta di prodotti biologici, è alla base di una rieducazione e riscoperta dei sapori originari che la clientela oggi dimostra di ricercare e apprezzare. Sale, burro e altri grassi e condimenti non fanno che appiattire il gusto e appesantire i piatti. Apren-
Davide Reposo e Antonio Tornitore do Happy Salad ci siamo resi conto di non essere i soli a coltivare questa idea di alimentazione e che la gente era pronta per una proposta di questo tipo. Siamo soddisfatti dell’avvio, felici di proporre pasti nutrienti, appaganti e leggeri». E riprendere il lavoro in ufficio è più facile!
intolleranze è la mia nuova sfida» native al glutine sono chimiche o hanno controindicazioni di altro tipo», ma combinazioni messe a punto in proprio, ricorrendo ad amidi, farine e addensanti naturali. «La base è un mix di otto ingredienti – spiega – che va ribilanciato per ogni ricetta. È il frutto di mesi di sperimentazione che ora intendo tutelare come segreto aziendale». La produzione “in casa” delle miscele permette anche di contenere i prezzi finali dei prodotti, «che sono solo leggermente più alti della pasticceria tradizionale – rileva - soprattutto perché le lavorazioni sono più complesse, ma che avrebbero costi ben più alti se utilizzassimo mix preconfezionati». Nel punto vendita sfilano così golosità dolci e salate rigorosamente senza glutine. Dai pani, anche con farine alternative Andrea Bonati come quelle di grano saraceno,
ceci o quinoa, ai grissini, ai cracker, alle pizze, alle focacce, alle torte salate. Sul versante dolce, biscotteria, torte da banco, muffin, pasticceria mignon e mousse. E siccome le intolleranze non sembrano mai finite, di alcuni prodotti gluten free ci sono anche le varianti senza zucchero e senza latte e, a richiesta, senza uova («l’ingrediente per il quale è più difficile trovare un sostituto all’altezza», ammette). «Ma non manca chi ha ulteriori richieste – svela –. Il lavoro artigianale mi permette di non dire di no a priori, ma di tentare, nei limiti del possibile, di soddisfare esigenze specifiche. Per rispetto del cliente, non propongo però prodotti che non rispondono ai requisiti di qualità che mi sono posto. La sfoglia, ad esempio, non la faccio perché dovrei usare la margarina e la chimica. Finché non avrò trovato alternative naturali, quindi, niente cannoncini senza glutine». L’approccio al “mondo del senza” ha rivoluzionato l’intera visione del lavoro, «costringe a “deglutinarsi” – dice con un temine coniato da sé -, a non ragionare più nei termini consueti del pasticciere». Sua autentica passione è poi quella per i lievitati (sta anche lavorando ad un lievito madre senza glutine). Per Pasqua è, quindi, assicurata la produzione di colombe senza glutine, ma anche senza zucchero e latte.
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TRADIZIONI di Leonardo Bloch
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Quella cucina di Bergamo tra pesce e cibi di magro ll’assiomatica ineluttabilità del “facta lex, inventa fraus” pare non riescano a sottrarsi neppure le sacrali direttive della Chiesa. Ne è impareggiabile attestazione il singolarmente ottemperante regime quaresimale cui nel tredicesimo secolo, secondo le cronache di Salimbene da Parma, si atteneva il Patriarca di Aquileia. Il mercoledì delle ceneri l’alto prelato usava celebrare l’avvio del percorso penitenziale facendosi imbandire un banchetto di ben quaranta portate - tutte rigorosamente di magro. L’ineffabile presule procedeva poi a depennare dal pantagruelico menù una vivanda al giorno, giungendo in tal modo a santificare la vigilia della Pasqua con una claustrale refezione consistente in un’unica pietanza. Se lo spirito del precetto di continenza alimentare durante i tempi di espiazione risulta di inossidabile chiarezza, la lettera della regola ha invece subito profonde mutazioni nel corso del tempo. La dieta paleocristiana di magro rispondeva infatti a canoni che oggi sarebbero classificati come strettamente vegani, dato che da essa era bandito non solo ogni cibo di origine animale, ma addirittura il pesce. Il consumo di quest’ultimo - destinato a divenire indiscusso emblema della cucina quaresimale - fu consentito a partire dal VII secolo, mentre uova e latticini vennero sdoganati solo nel 1365 dal concilio di Angers. E non è troppo distante dal vero chi insinua che una delle chiavi di successo della riforma luterana fu rappresentata dalla soppressione dell’obbligo di astensione dalle carni, a quell’epoca vigente almeno per un terzo dell’anno, particolarmente inviso alle voraci popolazioni di ceppo germanico. È dunque assodato che la suddivisione dell’anno religioso in tempi “di grasso” e “di magro” abbia dato origine a due distinti filoni alimentari, nettamente scissi per natura delle proteine e dei grassi utilizzati. Per quasi quindici secoli alla cucina della carne e del lardo si è così alternata una cucina ittica e dell’olio, con una cadenza puntualmente scandita dalle partizioni del calendario liturgico. All’interno di questo sistema di riferimenti, desta stupore che, in una parcella di cristianità di stretta osservanza quale il distretto di Bergamo, la tradizione gastronomica
locale assegni al pesce una collocazione tutto sommato marginale. Scorrendo l’esauriente ricettario bergamasco compilato da Silvia Tropea Montagnosi per le edizioni Bolis, si riscontra ad esempio che, delle 333 pietanze illustrate, soltanto una quindicina - tra le quali più d’una di evidente origine allogena - recano una chiara impronta ittica. La cucina di magro risulta semmai più compiutamente rappresentata nella gran copia di preparazioni di impianto distintamente vegetariano - dalle zuppe montane di erbe spontanee ai capù magher, da bardéle e foiade condite di soli burro e cacio alle innumerevoli declinazioni della polenta. Eppure molteplici riscontri indicano con univocità che in più di una fase storica il pesce - e segnatamente quello d’acqua dolce - abbia rappresentato una risorsa tutt’altro che secondaria nel sistema alimentare dei nostri antenati. Già in età medioevale gli statuti della nostra città disciplinavano il commercio delle derrate ittiche con un grado di dettaglio che ne sottendeva lo status di prodotto di lar-
marzo 2015 go consumo. La compravendita doveva essere anzitutto tassativamente concentrata presso l’area a ciò deputata nell’antica Piazza di San Vincenzo, prospiciente il Fontanone, per consentire ai Giudici delle Vettovaglie di esercitare con sollecitudine i prescritti controlli sul rispetto delle normative sanitarie. I prezzi erano inoltre assoggettati ad un regime amministrato - denominato calmedrio - che regolava le quotazioni dei generi di prima necessità, tra cui anche grani e carni. I diritti di pesca nelle acque del contado erano infine contingentati così da assicurare al capoluogo approvvigionamenti quanto più regolari. V’è peraltro evidenza che a quei tempi i pescatori bergamaschi stentassero a stare al passo con la sostenuta domanda urbana. Le autorità municipali dovettero quindi far a diverse riprese ricorso anche a fornitori forestieri, come attestato dal contratto con un pescatore di Olginate - tale Pietro Testori - stipulato nell’aprile del 1553. Questi si impegnava per un anno a recare in città prefissati quantitativi di pesce (trenta pesi il venerdì, quindici le vigilie delle festività di precetto e venticinque ogni giorno di quaresima) da vendersi a tariffe convenute nell’accordo, con l’avvertenza che non si trattasse di pescato “di fossa, ma di buoni laghi, & Adda”. Dalle rilevazioni del calmedrio riportate nell’Effemeride di Donato Calvi, si ricava comunque che nel XVI secolo i prezzi per unità di peso delle derrate ittiche andassero da due - per le varietà a più buon mercato quali barbi, cavedani e lucci - a tre volte - per i generi più prelibati quali trote, tinche e persici - il costo della più dispendiosa tra le carni, quella di vitello. Da ciò traspare che il pesce non fosse certo cibo per tutte le tasche: il suo consumo era semmai appannaggio dei ceti cittadini più abbienti. Nel contado ci si doveva invece contentare - si fa per dire - di gamberi, bisséte (le piccole anguille di roggia) e rane, di cui allora abbondavano i corsi d’acqua della campagna. E siccome, a prestar fede a Gabriele Rosa, l’aristocrazia bergamasca di quell’epoca usava soggiornare assai più lungamente nei poderi in villa che nelle dimore urbane, non sorprende affatto che il pescato di fosso finì per spopolare anche nella cucina nobiliare e borghese. Su di esso fa infatti perno la seicentesca suppa quaresimata del Cocho Bergamasco, nel cui retrospettivo brodo, dalla medievaleggiante tendenza agrodolce, finiscono a mollo anche le lumache. Gamberi e rane conferiscono inoltre nerbo al fumetto dell’ottocentesca versione di magro della minestra di pasta alla bergamasca proposta dall’anonimo estensore de “Il cuoco economico moderno”, e animano diverse tra le ricette che al tramonto del secolo romantico il concittadino Giuseppe Riva dedicò ai tempi di astensione dalle carni nel suo pur esterofilo “Trattato di cucina semplice”. Non ve ne sarà forse a sufficienza per cavarne un menù per il mercoledì delle ceneri degno del Patriarca di Aquileia, ma certo neppure per decretare che dall’associazione alla cucina di pesce del gastrotoponimo “alla bergamasca” debba giocoforza promanare l’ambiguo sentore dell’ossimoro.
Anche la patata di Martinengo sbarca sul web È una piccola produzione di nicchia, di grande qualità e legata a un preciso territorio della provincia bergamasca, ma grazie alle potenzialità della rete è facilmente reperibile da tutti. La pregiata Patata di Martinengo infatti non conosce confini e sta raggiungendo ogni parte d’Italia. Le richieste arrivano tramite web, grazie al canale di e-commerce avviato dall’Azienda agricola Gatti di Martinengo. «Poiché grazie al nostro sito Internet ci pervenivano molte richieste anche da fuori provincia - spiega Franco Gatti, titolare dell’azienda con le cugine Maria Grazia e Gabriella - abbiamo deciso di sperimentare questa modalità di vendita, sfruttando le nuove tecnologie informatiche. I risultati non hanno tardato ad arrivare. Abbiamo mandato le nostre patate praticamente in tutte le regioni, anche in Sicilia e Sardegna. C’è grande interesse per la Patata di Martinengo con il marchio De.Co. (Denominazione Comunale) ma anche per la Viola del benessere, che con il suo colore particolare suscita molta curiosità». Expo è ormai imminente e il mondo agricolo si sta attivando per farsi conoscere e presentarsi con tutte le sue eccellenze, anche di nicchia, ai numerosi visitatori che arriveranno nel nostro Paese. La Patata di Martinengo, dopo essere stata dimentica per molto tempo, sta ora vivendo un momento di forte rilancio. Attualmente sono 5 le aziende che la coltivano con una produzione annua di circa 2.500 quintali. «Abbiamo iniziato alcuni anni fa riproporre questa varietà di patata strettamente legata alla realtà del comune dove risediamo – precisa Gatti – e subito abbiamo riscosso non solo il consenso dei consumatori ma anche del mondo dell’enogastronomia, che l’ha eletta protagonista tra i fornelli, favorendone la conoscenza. L’avvio del canale e-commerce ha rappresentato un ulteriore tassello del progetto messo in campo dalla nostra azienda per ampliare il panorama produttivo».
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FOCUS di Lara Abrati
I mille volti della pasta fresca S
ono molte le tipologie di pasta fresca che si possono trovare in Bergamasca. Per quanto riguarda le paste ripiene, possiamo partire dai comuni e conosciuti casoncelli con ripieno di carne, per poi passare agli scarpinocc di Parre, fino ad arrivare ai meno noti Bertù di San Lorenzo di Rovetta. Ma non solo. La tradizione in Lombardia è caratterizzata dalla produzione di paste fresche e ripiene all’uovo, che assimila anche modi e usi della vicina Emilia. Si tratta di formati molto semplici: partendo dalla classica sfoglia si producono tagliatelle, pappardelle, tagliolini, foiade e molto altro. È curioso e affascinante inoltrarsi in questo mondo frequentando le piccole botteghe. Diviene quasi scontato cambiare le premesse e, ad esempio, iniziare a parlare di casoncelli come una produzione variabile da bottega a bottega, in nome dell’artigianalità del prodotto. Risulta interessante ricercare le differenze impresse da ciascun pastificio, nello spessore della pasta, nella sua ruvidità o nell’aroma del ripieno. Se si va più a fondo, è possibile notare differenze nella quantità di uova utilizzate per la sfoglia, nel rapporto tra la semola di grano duro e la farina di grano tenero utilizzate miscelate. E ancora, capire le scelte relative alla tipologia di ripieno. In generale, come per uno stesso vino Valcalepio Doc rosso ogni assaggiatore è solito chiedersi chi l’abbia prodotto e quindi ricercare le differenze con lo stesso vino di altre cantine, allo stesso modo potrebbe avvenire nel mondo della pasta. Non servono intenditori, semplicemente consumatori più attenti e curiosi, ma anche ristoratori che si impegnino a valorizzare anche in questi termini i prodotti che solitamente vengono considerati in modo scontato. Raccontare il territorio e le sue produzioni richiede la conoscenza e la successiva valorizzazione anche di quei prodotti, molto conosciuti e molto consumati, ma che spesso assumono una posizione di secondo piano rispetto ad altre produzioni a cui viene prestata molta più attenzione. Questi artigiani sono dotati di piccoli spazi e pochi
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Viaggio nei piccoli laboratori artigianali, dove sfoglie e formati sono personalizzati e ogni casoncello ha il suo segreto
macchinari, attraverso cui impastano, “tirano” la sfoglia e formano la pasta. Il lavoro è parzialmente meccanizzato, ma l’impronta artigianale si percepisce più che mai. Piccole produzioni destinate alla vendita quasi istantanea al pubblico, basse quantità che permettono comunque la sopravvivenza di questi piccoli artigiani del gusto, che andiamo a scoprire.
PASTIFICIO MIGLIORINI – TORRE BOLDONE
In arrivo i ravioli di carne suina cotta nel Moscato di Scanzo
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robabilmente è uno dei piccoli pastifici artigianali storici della provincia di Bergamo. L’attività è nata nel 1870 a San Pellegrino da Giacomo Migliorini. Il pastificio si trasferì a Bergamo dopo il primo cambio generazionale, quando l’attività passò ad Alessandro, figlio di Giacomo e bisnonno dell’attuale gestore Maurizio. «In quel periodo – dice Maurizio Migliorini – la produzione della pasta era totalmente manuale». Affermazione che trova conferma nella presenza in laboratorio di alcuni dei macchinari che il trisavolo utilizzava per la formazione dei ravioli: totalmente manuali. Ecco che la gestione del pastificio passa ad Andrea, nonno di Maurizio. Erano gli anni Sessanta ed è in questo periodo che vennero introdotte le prime piccole attrezzature semi– automatiche. Giungiamo quindi al penultimo cambio generazionale: Andrea lascia la gestione del pastificio a suo figlio Luigi, padre di Maurizio, che, oltre a spostare la sede da Bergamo a Torre Boldone, introduce nuovi formati, nuovi ripieni e nuove tecnologie, aiutato dalla moglie e dai figli. «Nel 2007, l’attività passa in mano mia – prosegue Maurizio Migliorini –, ho scelto di rimanere in questo picMaurizio Migliorini
via Mirabella, 23 Torre Boldone tel. 035 341283 www.pastificiomigliorini.it
colo laboratorio, continuando a sperimentare e infatti siamo prossimi al lancio di un nuovo prodotto, creato e ideato in collaborazione con l’agriturismo Cascina del Francès di Scanzorosciate. Si tratta di ravioli a base di carne suina cotta nel Moscato di Scanzo Docg». Il laboratorio è affiancato da una piccola rivendita al dettaglio in cui «sono riuscito ad attirare le persone, nonostante non sia una zona di passaggio, anche con l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, in particolare il web: mezzo che da quando utilizzo con consapevolezza mi ha portato notevoli risultati», sostiene ancora Maurizio. «Non voglio e non mi interessa produrre di più – rileva -, non vogliamo entrare nella grande distribuzione, ma continuare a produrre pasta fresca e, in piccola parte, secca partendo da materie prime fresche, lavorate al momento». Lo si può percepire appena entrati nel suo negozio leggendo la lista delle paste e i relativi ingredienti: come se fossero prodotti in casa! Nel negozio si possono trovare casoncelli, scarpinocc, ravioli con ripieni a base di zucca, i classici ricotta e spinaci, tortellini, cappelletti, sfoglie fresche, tagliatelle, pappardelle, foiade, ma anche gnocchi di patate rigorosamente prodotti a partire da patate fresche.
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FOCUS IL PASTAIO - SCANZOROSCIATE
PASTIFICIO “LA CONTRADA” PASTA & PASTICCI
«Il ripieno dei casoncelli? L’abbiamo scelto con un gioco»
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l negozio e il laboratorio si trovano a Scanzorosciate e hanno una conduzione tutta al femminile: le sorelle Cinzia e Simona Gilardi. Oltre che punto vendita della pasta, il negozio è diventato una piccola rivendita di pane, ma anche di primi piatti pronti, preparati, ovviamente, con le materie prime provenienti dal piccolo laboratorio. Il pastificio è stato avviato nel
Simona e Cinzia Gilardi 1982 da papà Roberto e mamma Franca. «È nato per caso – dice Roberto Gilardi –, infatti io avrei voluto aprire una rosticceria. Un amico, mentre gli esponevo il mio progetto, mi consigliò di provare a fare i ravioli e, fidandomi e prendendola come una sfida, ci ho provato». La ricetta del ripieno dei casoncelli è la stessa dal 1982, «l’abbiamo scelta attraverso un gioco – ricorda –: in più persone abbiamo preparato i ravioli con 5 o 6 ripieni diversi e poi li abbiamo assaggiati. Il ripieno che ha vinto era il mio!».
Come è fatto lo spiega prontamente: «utilizziamo carne di manzo stracotta con verdure, maciniamo il tutto aggiungendo anche della mortadella e delle spezie, infine il pane secco grattugiato e il brodo. Non aggiungiamo né insaporitori né conservanti». La sfoglia è all’uovo, preparata con una miscela di semola di grano duro e farina “00”. Attualmente l’attività è affidata a Simona e Cinzia, che si dividono i compiti. «Simona si occupa prevalentemente della vendita e della produzione della pasta, mentre io – dice Cinzia – mi occupo più della cucina e della preparazione dei piatti pronti». «A me piace di più il rapporto con i clienti – conferma infatti Simona – e l’obbiettivo è quello di continuare su questa strada: mantenerci nel piccolo, in fondo siamo solo in due. In passato abbiamo lavorato molto per la grande distribuzione, probabilmente è anche grazie a questo che l’attività è sopravvissuta per tutto questo tempo, ma ora la direzione che abbiamo scelto è un’altra». In negozio, oltre al pane, è possibile acquistare la pasta fresca, ripiena e non, fusilli, primi piatti pronti: lasagne di carne e vegetariane preparate a partire dalla sfoglia prodotta in loco, crespelle, pizzoccheri, gnocchi di patate e molto altro ancora.
La maestra di Madrid n pastificio dalla storia particolare, o meglio, con una storia recente molto interessante e ancora tutta da scrivere. I protagonisti sono due: Ivan e Maria Luisa, i due attuali giovani conduttori di questa piccola attività. «Io ho fatto per anni l’operaio metalmeccanico – spiega Ivan Bosio – e, durante le vacanze estive tre anni fa, mi sono recato in Sardegna. Nell’ostello dove pernottavo ho incontrato Maria Luisa, originaria di Madrid, in vacanza per fare trekking. È stato un colpo di fulmine. Sono tornato a casa e per un anno abbiamo viaggiato entrambi per vederci il più possibile, poi, un anno e mezzo fa circa, ci siamo sposati in Andalusia». E in tutto questo cosa c’entra
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bicato nel centro storico di Gandino, questo pastificio è gestito da ormai otto anni da Pierluigi Parolini con la moglie Mila, di origine filippina. Il fondatore del pastificio è Tarcisio, lo zio di Pierluigi, che una volta raggiunta la
via Roma, 24 Scanzorosciate tel. 035 661236 Pierluigi Parolini
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marzo 2015 via Donatori di sangue Zogno tel. 0345 93645
– ZOGNO
ora ha le mani in pasta il pastificio? La madre di Ivan da tempo gestiva il pastificio e, quando i due giovani dovevano decidere in quale luogo stabilirsi, se in Italia oppure in Spagna, non si sono lasciati sfuggire l’opportunità di gestire il pastificio di famiglia, mettendosi in gioco totalmente. «Io lavoravo come maestra alle scuole elementari – dice Maria Luisa – e, se qualcuno anche solo 4 o 5 anni fa mi avesse detto che avrei imparato a cucinare per professione, probabilmente l’avrei preso per pazzo». Un po’ di incoscienza, la voglia di fare qualcosa insieme e poco tempo per imparare: Ivan alla pasta e Maria Luisa in cucina. Entrambe le attività sono funzionali alla richiesta della piccola riven-
dita. La produzione di pasta si dedica essenzialmente al fresco: casoncelli, ravioli ripieni di ricotta e spinaci, tortellini e poco altro. Poi la sfoglia, con cui produrre i vari formati di pasta lunga. In negozio si possono acquistare anche gnocchi, torte salate e dolci preparati in proprio. Tra i primi piatti si trovano le lasagne, le crespelle e i pizzoccheri che Maria Luisa ha imparato a preparare dalla madre di Ivan. Un’esperienza appena iniziata, tutta da costruire. L’impegno, la creatività, il coraggio e, come detto, quel pizzico di incoscienza sono gli ingredienti che, se mescolati bene, possono portare a grandi risultati.
Maria Luisa e Ivan Bosio
PASTIFICIO BERGAMELLI – GANDINO
Qui nascono i Camisoc con mais Spinato pensione ha ceduto l’attività al nipote. Pierluigi proviene da un altro settore, quello tessile, che lo portava a viaggiare per il mondo. Faceva infatti il meccanico tessile e, ormai più di 15 anni fa, ha conosciuto Mila a Taiwan. Anche lei era lì per lavoro. Ora entrambi fanno con passione e dedizione i pastai a Gandino, in Valle Seriana. «Ci dedichiamo in particolare alla pasta ripiena - spiega Pierluigi –, nelle nostre zone non vanno molto altri formati di pasta fresca». I tre cavalli di battaglia sono infatti i casoncelli, «preparati a partire da farina di grano tenero e uova, mentre per il ripieno utilizziamo carne fresca bovina, miscelata a formaggio, pan grattato e spezie» spiega Pierluigi che aggiunge: «prima mio zio li preparava utilizzando la pasta per fare i salami, ma purtroppo non era sempre uguale, quindi abbiamo scelto di utilizzare la carne fresca che ci fornisce quotidianamente la macelleria qui accanto». La forma dei casoncelli non è quella classica, infatti vengono “formati” a mano uno per volta. Il pastificio propone anche altre paste ripiene, come gli Scarpinocc e i Camisocc, quest’ultima è una preparazione esclusiva del pastificio. «Questi ravioli – ricorda Pierluigi – sono stati creati dal ristorante Centrale di Gandino per il centesimo anniversario dell’Unità d’Italia. A Gandino furono tinte di rosso le camicie utilizzate da Garibaldi; questo raviolo vuole unire tutto questo». Il ripieno è preparato con ricotta e radicchio rosso, mentre la pasta è all’uovo pre-
via IV Novembre, 19 Gandino tel. 035 746089
parata con una miscela di ben cinque tipologie di farina: semola di grano duro, farina di mais Spinato di Gandino, farina di mais (fumetto), farina integrale e farina di grano saraceno. Nel piccolo negozio, il fine settimana Pierluigi vende anche lasagne e crespelle. Ma non solo: si possono acquistare diverse tipologie di sugo, sempre “fatte in casa”: «Io sono un artigiano – ribadisce – e tutto quello che vendo lo preparo io e, anche se faccio poco, sono sicuro di proporre prodotti di qualità, anche perché ci metto la faccia». La bellezza di un piccolo laboratorio è anche che «quando viene qualcuno e mi chiede pappardelle oppure tagliatelle, gliele preparo al momento, a seconda delle esigenze». Pochi sprechi e freschezza della materia prima sono perciò le parole d’ordine.
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FACECOOK
alla scoperta del social chef
di Laura Ceresoli
Lanfranco, il pasticciere in pensione è un re di YouTube Classe 1945, chiusa la storica attività a Colognola, Villa ha portato in rete le sue ricette ed è stato un boom. I suoi filmati hanno raggiunto quasi 8 milioni di visualizzazioni. E ora spopola anche con le app
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er quarant’anni ha servito dolci, pizzette e torte dietro il bancone della sua pasticceria di Colognola. Ma da quando ha raggiunto l’età della pensione, Lanfranco Villa ha trasformato la sua tradizionale e antica arte bianca in un universo moderno dove la tecnologia regna sovrana. Grazie alla collaborazione di suo figlio Giulio, esperto informatico, ha infatti dato vita a un mondo virtuale dove i
clienti in carne e ossa lasciano spazio a mail, app per cellullari e blog con videoricette da lui create. Classe 1945, Villa ha sempre vissuto a Bergamo a contatto con farina e lievito. Fin da piccolissimo dava una mano nella panetteria di famiglia, attiva da generazioni. Poi, dopo aver frequentato la scuola di pasticceria a Milano e qualche anno di gavetta, negli Anni 70 ha aperto una bottega
tutta sua a Colognola. La pasticceria Lanfranco, in quasi mezzo secolo di storia, ha conquistato il plauso di moltissimi golosi che accorrevano per assaggiare prelibatezze di ogni sorta. «I miei dolci hanno viaggiato parecchio, sia in città e provincia sia all’estero – racconta Villa –. Molti clienti sbarcavano all’aeroporto di Orio al Serio per venirmi a trovare e gustare i miei famosi Cigni
«Così ho l’opportunità di non far morire la mia arte» Com’è iniziata la sua passione per pane e dolci? «Nasco in una famiglia di panificatori e tra i miei sette fratelli ho avuto la fortuna di frequentare una scuola di pasticceria. Prima ho lavorato nel panificio di famiglia, poi negli Anni 70 ho aperto una mia pasticceria a Colognola». Oggi lei è un ex pasticciere in pensione ma, di fatto, non ha mai abbandonato la sua passione… «Quando è arrivato anche per me il tempo della pensione, non è stato affatto semplice all’inizio. Grazie alla passione di mio figlio per l’informatica, ho avuto l’opportunità di non far morire la mia arte. Abbiamo incominciato, quando ancora avevo la pasticceria, con un blog (blogdolci.com) ed è stato subito un successo». Com’è nata l’idea di sfruttare le nuove tecnologie per condividere le sue ricette? «Mio figlio mi ha convinto a metterci la faccia e a condividere i miei segreti. Il focus principale del blog erano le fotografie, una sorta di Instagram sui dolci. Abbiamo coinvolto gli utenti in prima persona e nel giro di pochissimo abbiamo ricevuto centinaia di fotografie di torte artistiche che mai avrei immaginato. Inizialmente sul blog c’erano solo le ricette con le foto dei dolci. Poi, attraverso un canale YouTube, abbiamo introdotto anche le mie videoricette».
Lanfranco Villa
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marzo 2015 alla panna, le brioche, gli ottimi panettoni e colombe». Una passione che oggi si mantiene viva grazie a blogdolci.com, una manna per chi proprio non riesce a fare a meno dei peccati di gola e ama cucinarli a casa propria. Il sito di Lanfranco pullula di ricette sfiziose e di video in cui l’ex pasticciere svela tutti i segreti per cucinare una trionfale merenda con lo spontaneo accento orobico che lo contraddistingue. In più, fornisce le basi per la preparazione di creme, frolle e pasta per pizza. Accanto a ricette locali o classiche come i biscotti di San Pellegrino e i croissant – le più cliccate dagli internauti – il blog è un trionfo di torte decorate, ciambelle, cannoncini, biscotti senza glutine con riso e cocco. Ma anche pizzette, focacce e brioche salate. Lanfranco è inoltre un esper-
to di torte per Comunioni, Cresime, Battesimi, con tanto di decorazioni e disegni di ogni tipo. Anche gli utenti vengono coinvolti attivamente: è infatti possibile inviare fotografie dei propri dolcetti casalinghi e le migliori vengono pubblicate sul blog. Il vulcanico ex pasticcere è sbarcato anche su iPhone e Android grazie a due app per cellulari: prima con “Ricette dolci” e poi con “Video ricette dolci” nel giro di un mese è arrivato nella top ten dell’app store, davanti a giganti come il Corriere della Sera e Facebook, con oltre 100mila download. Ha aperto anche un canale YouTube che ha raggiunto quasi 8 milioni di visualizzazioni. E con oltre 3.600 “mi piace”, anche la sua pagina Facebook continua a riscuotere consensi. Insomma, Lanfranco non somiglia proprio a tutti quegli chef che custodiscono gelosamente le loro ricette, quasi fossero rarissime formule magiche. Le sue alchimie da forno sono un regalo che ama offrire gratis a chi con dedizione lo segue da anni o, più semplicemente, ama la buona cucina. Un modo originale e al passo coi tempi per tramandare ai posteri un’antica tradizione.
I suoi video riscuotono molto successo tra gli utenti? «Sì, sono stati visti da quasi 8 milioni di visitatori. Quando vado al supermercato mi riconoscono e mi fanno i complimenti. I vecchi clienti mi scrivono in continuazione per dirmi che grazie alle videoricette rivivono i vecchi gusti e i sapori della pasticceria Lanfranco». Lei è un pasticcere molto tecnologico. Ha anche un’app per telefonini… «Un giorno mio figlio mi disse che aveva letto che i blog stavano morendo e che il futuro erano le app per cellulari. E così abbiamo dato il via a una nuova avventura. Prima con “Ricette dolci” e poi con “Video ricette dolci” siamo sbarcati su iPhone e Android e nel giro di un mese siamo arrivati nella top ten dell’app store, davanti a giganti come il Corriere della Sera, Facebook...». Se quarant’anni fa ci fosse stato Internet, pensa che la sua attività avrebbe riscosso più consensi? «Penso che l’app e il blog sarebbero stati un bello strumento per farsi conoscere e costruire una comunità. Ritornando indietro nel tempo, mi sarebbe veramente piaciuto avere tutti questi strumenti tecnologici, chissà che belle cose avrei potuto fare». Cosa ne pensa del boom di programmi televisivi culinari? «Penso che il futuro sia su Internet e che tra poco raggiungerò la Parodi! Scherzi a parte, secondo me l’Italia dovrebbe rilanciarsi sulla base di queste cose. Dovremmo investire nella promozione del nostro Paese sfruttando questo enorme bacino di sapienza che è la cucina».
Sito rinnovato e social media, Affari di Gola si fa più interattivo Con il lancio del nuovo portale di informazione www.larassegna. it anche Affari di Gola, che fa capo alla medesima società editrice, La Rassegna, potenzia la propria presenza sul web. Lo fa con uno spazio fisso nell’homepage del sito, che affianca alle notizie della cronaca della città e della provincia le novità legate al mondo dell’enogastronomia. Una finestra costantemente aperta su prodotti, personaggi, locali ed eventi della Bergamasca, ma anche un osservatorio più ampio sul dibattito e gli avvenimenti che toccano il settore. Per chi vuole addentrarsi, la sezione interna (raggiungibile anche dall’indirizzo consueto www.affaridigola. it) si arricchisce di ulteriori notizie, anche tematizzate in categorie per facilitare la ricerca. Novità per chi ama andare alla scoperta di serate, corsi, rassegne e manifestazioni è la rubrica “Appuntamenti di Gusto”, in forma di calendario. Uno spazio utile anche per i ristoratori e gli organizzatori che possono far conoscere gli eventi in programma inviando le proprie segnalazioni all’indirizzo affaridigola@ larassegna.it. L’interattività e l’immediatezza della comunicazione trovano poi il proprio canale privilegiato nei social media. Con un “mi piace” sulla pagina Facebook “Affari Di Gola” si ha accesso agli aggiornamenti in tempo reale, si possono commentare e condividere informazioni e immagini. Sul sito resta inoltre possibile sfogliare l’edizione cartacea del mensile.
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NEWS
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Giornata europea e concorso, riparte la stagione del Comitato Gelatieri Gelato ad 1 euro per la Giornata europea del Gelato artigianale che si celebra domenica 22 marzo. Per l’edizione 2015, il gusto scelto dall’assemblea di Artglace - la Confederazione che promuove l’evento e riunisce le associazioni nazionali di gelatieri dell’UE - è il Cioccolato d’Austria, cioccolato variegato con marmellata di albicocca, a ricordare la Sacher Torte. Anche a Bergamo non mancano le gelaterie che partecipano all’evento internazionale proponendo la speciale offerta. Sarà invece il Mielgot (gelato di latte, miele e biscotto di mais spinato di Gandino) il tema del 3° Concorso di Gelate-
ria Artigianale promosso dal Comitato Gelatieri di Bergamo e rivolto ai gelatieri artigianali della provincia di Bergamo e agli studenti delle scuole alberghiere. Il concorso si svolge lunedì 23 marzo all’Istituto alberghiero di San Pellegrino Terme. Il tema è l’interpretazione del Mielgot nella combinazione con i prodotti d’eccellenza del territorio: latte, miele, formaggi, vini, frutta, vegetali, cereali; ma anche reinterpretazioni di ricette di pasticceria e gastronomia del territorio bergamasco. Una nuova occasione per scatenare la fantasia del settore e proporre ai golosi idee originali tutte da provare.
Il presidente del Co.Gel. Massimo Bosio, Luciana Polliotti, presidente della giura del concorso e la gelatiera Giorgia Mologni
«Mystervino», il piacere di bere, viaggiare e giocare
VINI E PRODUTTORI SELEZIONATI I bianchi Roero Arneis «Recit» Cantina Monchiero Carbone (Piemonte) Gewürztraminer Cantina Elena Walch (Trentino Alto Adige) Verdicchio dei Castelli di Jesi «Macrina» Cantina Garofoli (Marche) Fiano di Avellino Cantina Villa Raiano (Campania) Vermentino di Sardegna «Cala Silente» Cantina Santadi (Sardegna) I rossi Barbera d’Asti «L’avvocata» Cantina Coppo (Piemonte) Ripasso Valpolicella Cantina Tommasi (Veneto) Chianti Classico Cantina Castello d’Albola (Toscana) Primitivo di Manduria «Villa Santera» Cantina Leone de Catris (Puglia) Nero d’Avola «Sherazade» Cantina Donnafugata (Sicilia)
Dal Nord al Sud, passando per il Centro e naturalmente per le Isole: un godibile viaggio nell’Italia del vino, per scoprire i segreti del buon bere e divertirsi con gli amici a tavola. Ecco l’idea geniale di MysterVino, un gioco che è molto più di un gioco: cinque vini (bianchi o rossi), di cinque regioni italiane, con cinque tipicità da scoprire, insieme a schede, notizie e tutto quel che occorre per sfidarsi piacevolmente a tavola, in un appassionante «torneo di sommelier» fra amici. Sapete riconoscere i profumi speziati del Gewürztraminer o le morbide note del Vermentino di Sardegna? La robusta personalità della Barbera o il temperamento vigoroso del Primitivo di Manduria? Gusto e scoperta: ecco il bello di MysterVino, un gioco che si basa sulla degustazione alla cieca di 5 vini (bianchi o rossi, a seconda della tipologia prescelta) con l’obiettivo di riconoscerli uno per uno e abbinarli correttamente alle 5 rispettive schede, fornite a ciascun giocatore. MysterVino si presenta come un gioco in scatola, ma è di fatto un viaggio nella cultura e nel piacere del bere. Il kit completo, fornito in un apposito box, comprende: 5 bottiglie da 375 ml. di vini diversi (con le etichette previamente coperte); cards individuali con schede tecniche dei vini selezionati; tovagliette utili per la valutazione sensoriale; brochure informativa sui vini selezionati e rispettive cantine; guida agile alla degustazione. Il tutto per un numero di giocatori fino a 6. Disposto l’occorrente sul tavolo, vengono serviti a ogni giocatore i 5 vini, affinché ciascuno possa riconoscerli sulla base delle caratteristiche di colore, olfatto e gusto, aiutandosi con le apposite schede informative. Vincerà chi avrà correttamente realizzato tutti gli abbinamenti. Info: www.mystervino.com
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PAUSA PRANZO di Fulvio Facci
Una sosta al fast food Odissea, aperto dal luglio scorso in via Previtali, tra sapori mediterranei e ricordi delle vacanze. «In arrivo anche la consegna a domicilio e nuovi piatti»
La Grecia che si... magna
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l panorama dei ristoranti etnici della Bergamasca si è arricchito recentemente di nuove presenze e nuovi sapori. Ai locali cinesi, giapponesi, indiani, thailandesi, brasiliani, messicani, solo per citare i più conosciuti presenti da tempo sul territorio, si è infatti aggiunta una proposta greca, che oggi si può trovare in città al Cafe Egeo in via Masone e al fast food Odissea in via Previtali. Per sperimentare una pausa pranzo diversa dal solito abbiamo fatto tappa in quest’ultimo. È aperto dalla fine di luglio e si definisce fast food, anche se l’ambiente e il servizio sono “da ristorante”, con due sobrie salette da 45/50 posti ciascuna, una delle quali, che nella bella stagione costituisce il dehors, è stata recentemente ristrutturata. L’iniziativa è di Kola Arben, 46 anni, di origini greche, in Italia da 23 anni e proveniente da un settore diverso rispetto alla ristorazione. «Sapevo che a Bergamo non c’era un ristorante greco – racconta il titolare del locale –, conoscevo un cuoco del mio paese e siamo partiti per questa avventura che per il momento ci sta dando delle buone soddisfazioni al punto che presto introdurremo altre novità, come la consegna a domicilio, la pasta greca, il riso greco e il pesce fritto». Le materie prime sono strettamente di origine greca (esiste un centro di distribuzione a Bologna), mentre la clientela è molto variegata. Si va dai membri della comunità greca residenti a Bergamo alle persone che hanno trascorso vacanze in Grecia per arrivare
agli studenti del vicino polo universitario e del Liceo Aeronautico. In effetti molti piatti si prestano anche al consumo tipo street food e quindi vanno bene per gli studenti, ma anche per chi non ha molto tempo e deve tenere d’occhio la spesa o semplicemente per chi vuole variare la pausa pranzo o trascorrere una serata diversa. La lista è molto ampia e ben illustrata con la fotografia e l’indicazione degli ingredienti per ciascun piatto, oltre naturalmente al prezzo, che nella
Odissea fast food greco via Previtali, 43 Bergamo tel. 035 400374 sempre aperto www.odissea-fastfood.com
marzo 2015 media si può considerare contenuto. Impossibile qui fare l’elenco di tutte le pietanze, che sono molte. Ci limitiamo quindi a ricordare quello che abbiamo assaggiato e alcuni dei riferimenti fondamentali. Si parte dalla pita che è il pane greco di forma circolare, tipo piadina se vogliamo, ma leggermente più spesso e morbido. Arrotolata a cono, la pita accoglie i Kola Arben gyros, una sorta di kebab ma fatti con un solo tipo di carne, a scelta tra il maiale e il pollo, ai quali si aggiungono pomodoro fresco, patatine, cipolla e salsa tzatziki che è a base di yogurt, cetrioli e aglio. Poi ci sono gli spiedini - souvlaki - che possono essere di maiale, pollo e agnello, e quindi una lunghissima serie di piccoli piatti, dal costo medio di 3/4 euro ciascuno, costituiti da crocchette, polpette, dolci e chi più ne ha più ne metta. Nella lista ci sono poi insalate (quella greca con pomodoro, cetrioli, peperoni, cipolle, olive e feta, ma anche di pollo o di tonno) e piatti vegetariani. Tra tanta scelta, abbiamo tenuto fede al nostro ruolo di clienti del prezzo fisso di mezzogiorno e non abbiamo avuto difficoltà ad orientarci. Abbiamo scelto infatti il piatto unico con carne di pollo proposto a 10 euro a testa se l’ordine è per due persone e a 11,90 se per una. Ci siamo trovati di fronte a una abbondante portata con pita, spiedini souvlaki, gyros, crocchette, feta (l’unico ingrediente che forse non necessita di eccessive presentazioni), pomodori, insalata, olive kalamata (nere, greche) e patatine fritte con formaggio. Tutto in dose non certo parsimoniosa ed in grado senz’altro di saziarci. La spesa è stata di 13 euro, dei quali 1,10 per l’acqua minerale. E il gusto della cucina greca? Beh, questa è una bella domanda e dovrebbero essere gli autentici esperti a dare una risposta. Innanzitutto abbiamo assaggiato solo una piccolissima parte del repertorio e non possiamo dare perciò un giudizio globale. Di certo ci ha soddisfatti, questo è vero, e se vogliamo tentare degli accostamenti pensiamo ad una cucina mediterranea estesa, con qualche sapore e aroma in più rispetto al nostro meridione ma senza trovarci di fronte a degli eccessivi sbalzi di gusto. Si può provare tranquillamente senza restare delusi. «L’idea sta funzionando – ha concluso Kola Arben –, ci stiamo facendo conoscere sia col take away che con il servizio al ristorante. Vogliamo mantenere la nostra caratteristica e per questo abbiamo, oltre ad una buona selezione di vini italiani, sei vini greci e la birra greca Mythos. Siamo pronti ad ampliare anche l’offerta di piatti vista la buona accoglienza».
La storia del vino a Bergamo. cantinabergamasca.it
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L’EVENTO
fa ancora centro Novemila i piatti serviti in fiera Com’era nelle previsioni, anche il secondo evento di InGruppo alla Fiera di Bergamo è stato un successo. Nel corso della serata di martedì 10 marzo, sono stati oltre 9mila i piatti serviti dai 16 chef appartenenti al sodalizio nelle altrettante postazioni allestite nel corridoio centrale del padiglione fieristico. Ben 820 i bicchieri utilizzati per degustare le oltre 500 bottiglie offerte dall’associazione dei produttori Sette Terre. Oltre 800 i partecipanti, che
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hanno potuto degustare le deliziose proposte gastronomiche, dagli antipasti ai dessert. Un evento dove non è certo mancata la solidarietà. Il ricavato - che sarà ufficializzato nei prossimi giorni - andrà, al netto dei costi, a supportare il progetto promosso dal Rotary Club Bergamo per sostenere la realizzazione della Casa del bambino della “Paolo Belli”. La festa ha avuto come cornice musicale il concerto live della Bb-band. Con questa iniziativa i risto-
ratori di InGruppo hanno dato il via alla promozione che durerà durante per tutto il periodo dell’EXPO, dal 10 marzo fino al 31 ottobre. La formula è immutata, a parte il prezzo che ha subito un leggero rialzo. Sarà pertanto possibile consumare menù completi (antipasto, primo, secondo e dolce) comprensivi di vino, bevande e caffè, al prezzo prestabilito che quest’anno passa da 99 a 110 euro a coppia. Cifra che sale a 220 euro, sempre per due persone, sia Da Vittorio (3 stelle
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Michelin) sia dal bistellato “Devero” di Cavenago, nuovo “acquisto” di InGruppo. La promozione è valida a pranzo e cena e in tutti i giorni di apertura dei locali, esclusi San Valentino, Pasqua e lunedì Dell’Angelo. Si può prenotare via telefono o e-mail, ma specificando che si intende prenotare il menù “InGruppo”. Le proposte dei ristoranti verranno aggiornate periodicamente sul sito www.ingruppo.bg.it. (foto Ciak Sposi)
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L’OSPITE di Rosanna Scardi
E Cracco esorta: «Dobbia
Carlo Cracco
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Lo chef alla fiera del Libro a Calusco d’Adda. Nonostante il successo del cibo in tv puntualizza: «Occorre formare i ragazzi già nelle scuole, spiegando loro cosa c’è dietro a un piatto»
a cultura alimentare è importante, serve per capire la storia di una località e apprezzarla di più, il cibo ti apre la mente, a patto di non rimanere in superficie e approfondire». Queste le parole di Carlo Cracco, intervenuto alla Fiera del libro a Calusco d’Adda per presentare il suo volume “Dire, fare, brasare”, edito da Rizzoli. Lo chef televisivo ha costretto gli organizzatori di PromoIsola a spostare gli spettatori da una stipatissima sala del centro civico al vicino cinema con più posti. Gli ammiratori, soprattutto signore e famiglie, l’hanno accolto tra gli applausi, dimenticando i 90 minuti di ritardo. Il cuoco ha dato la sua ricetta per vivere bene: «Dobbiamo mangiare meglio, formare i ragazzi già nelle scuole, spiegando loro cosa c’è dietro a un piatto, tutti sanno che una melanzana è più buona se gustata
nella sua stagione, ma va tenuto conto anche di chi lavora nelle serre, sono tanti gli aspetti legati all’alimentazione». Spesso gli chef non amano svelare i propri segreti in cucina. Una scelta che Cracco non condivide affatto: «Non si tratta di veri segreti, ma di tentativi. A forza di sbagliare, arriva il momento che ci indovini, allora è giusto aiutare gli altri a fare prima», spiega. Patron di due ristoranti a Milano, il cuoco, 49 anni, ha lavorato con Gualtiero Marchesi e in prestigiose cucine francesi. Oggi, grazie anche alla popolarità di “Masterchef”, dove veste i panni di giudice, è diventato un personaggio. «In realtà, io svolgo la professione di imprenditore, devo supervisionare 30 persone in una cucina, 27 nell’altra, la tv è solo un hobby – precisa lui -. È come se facessi uno sport, certo apparire in un pro-
All’Antica Osteria dei Camelì il premio intitolato a Francesco Arrigoni
Vescovi: «I talenti non mancano, ma spesso si perdono per strada»
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oredana Vescovi, chef dell’Antica Osteria dei Camelì di Ambivere, affiancata dal marito Camillo Rota in sala, è stata insignita il 7 marzo scorso del Premio in memoria di Francesco Arrigoni, promosso da PromoIsola in collaborazione con Ascom e Camera Commercio di Bergamo. Il premio, giunto alla sua quarta edizione e nato per rendere omaggio a Francesco Arrigoni, noto giornalista enogastronomico bergamasco scompar-
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so nel 2011, è stato consegnato nell’ambito della Fiera del Libro, organizzata a Calusco d’Adda. «Con Francesco Arrigoni c’è sempre stato un rapporto di grande vicinanza ed è un onore in più ricevere un premio che porta il suo nome. Arrigoni è stato il primo a pranzare nel nostro ristorante all’indomani del riconoscimento della Stella Michelin», ha raccontato con affetto Loredana Vescovi. Non è mancata una riflessione sulla cucina femminile,
La moglie di Arrigoni, Antonella, consegna il premio a Loredana Vescovi e Camillo Rota. L’iniziativa è promossa da PromoIsola in collaborazione con Ascom (a destra il direttore Luigi Trigona) e Camera di Commercio
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mo mangiare meglio» gramma è meno salutare, ma copre comunque una parte importante del mio tempo». Il successo dello show televisivo è confermato dagli ascolti: oltre un milione e 400mila nella finale. «La cucina è come il calcio, appassiona, ognuno sceglie il suo giocatore, tifa e si va anche oltre – considera -. A casa tutti possiedono un fornello, una piastra e una pentola, con poco ti puoi divertire, è come prendere un pallone e giocare in mezzo alla strada, ognuno fa come gli pare e piace». Nel talent culinario di Sky si sono fatte conoscere anche due bergamasche, Maria Acquaroli di Scanzorosciate, che Cracco definisce «molto brava», e Rachida Karrati, marocchina che vive a Sorisole, reduce ora dall’Isola dei famosi. Secondo il suo giudizio «sa cucinare le sue specialità, nel resto se la cava, ma non direi che avesse un talento». Gli ingredienti per diventare un grande chef sono: forza di volontà, umiltà e capacità di sacrificio. «A scuola non ero certo uno dei più bravi, mi sono iscritto all’istituto alberghiero senza provenire da una famiglia di ristoratori né conoscere la differenza tra fare il pasticcere, il panettiere o il barman. L’ho capita a 15 anni, stando ai fornelli, la pratica conta molto di più dello studio». A Bergamo apprezza la cucina dei fratelli Cerea, tre stelle Michelin, «da generazioni un’eccellenza» e i formaggi delle valli come il Taleggio. Chi non potesse permettersi un pranzo nel suo ristorante stellato, può sempre aspettare la nuova edizione di “Masterchef”. «Ci sarò? Così dicono».
per la Festa della Donna: «La cucina nasce al femminile, ma la professione di chef continua ad essere per poche. I sacrifici sono davvero molti, doppi per una donna che passando ore e ore in cucina non riesce a seguire come vorrebbe i propri figli. La nostra fortuna è quella di lavorare tutti insieme, in famiglia, ma non manco mai di ricordare i nostri collaboratori che trascorrono feste comandate e momenti importanti lontani dalle loro famiglie». Quanto ai riflettori puntati sulla cucina e al paradosso che si trascorrano più ore davanti al piccolo schermo a vedere grandi chef-star piuttosto che ai fornelli di casa, Loredana Vescovi ribadisce l’importanza dell’educazione: «Ogni volta che si portano in tavola piatti pronti o surgelati rinunciamo ad un pic-
colo pezzo della nostra cultura. L’educazione alimentare deve iniziare dalle famiglie, dalle scuole e nelle mense». In un momento in cui la cucina è al top della popolarità e tutti vogliono fare lo chef, ci si immagina che il livello di espressione ai fornelli sia massimo, ma la chef allarga le braccia: «Forse vedremo risultati nei prossimi anni. Per ora non vedo tutto questo entusiasmo e motivazione alla prova dei fatti. Un tempo si rubava il mestiere con gli occhi, oggi bisogna spesso guidare e accompagnare i ragazzi. I talenti non mancano comunque, ma tanti ragazzi si perdono per strada, il più delle volte perché non vogliono sacrificare tempo libero e feste per un mestiere. Li ritroviamo così a lavorare nei catering, nelle gastronomie, nelle mense».
L’APPUNTAMENTO
CibArs, la cena si accompagna a jazz e testi inediti sul cibo Non un teatro o un auditorium. E neppure la sala di una biblioteca. Ma lo spazio caldo e accogliente, decorato da mille sapori, di un ristorante. Questa la nuova e inusuale location scelta da Alessandro Bottelli, poeta e scrittore bergamasco, nonché ideatore e promotore di eventi culturali, per CibArs, iniziativa poetico-musicalgastronomica che intende valorizzare il territorio attraverso i suoi prodotti e abbinare due particolari tipi di cibo: quello più comune adibito al nostro sostentamento corporale e l’altro, non meno importante, che contribuisce alla crescita culturale e allo sviluppo della mente. Si tratta di una cena con menù a prezzo fisso (euro 48, prenotazione obbligatoria), cui si affiancherà la lettura di poesie e brevi racconti inediti di natura alimentare realizzati appositamente da alcuni noti scrittori italiani. Le varie portate saranno inoltre accompagnate dall’esecuzione di buona musica jazz eseguita da Guido Bombardieri (saxofoni e clarinetti) e da Marco Gamba (contrabbasso), due musicisti attualmente molto attivi sulla scena nazionale. La recitazione sarà invece affidata all’attrice Federica Cavalli. I poeti e i narratori che hanno inviato i loro scritti sono: Roberto Amato, Alberto Bertoni, Marina Corona, Maurizio Cucchi, Marco Ferri, Milli Graffi, Jolanda Insana, Tomaso Kemeny, Valerio Magrelli, Franca Mancinelli, Giulia Niccolai, Guido Oldani, Elio Pecora, Elena Petrassi, Roberto Piumini, Cristiano Poletti, Silvio Ramat, Claudio Recalcati, Davide Rondoni, Tiziano Rossi, Giuliano Scabia, Tiziano Scarpa, Gabriella Sica, Giancarlo Sissa, Luigi Socci, Maria Luisa Spaziani, Alberto Toni, Marco Vitale, Luca Zanini, Edoardo Zuccato. L’iniziativa, prodotta dall’agenzia di spettacolo e cultura “Come un fior di loto”, si terrà mercoledì 25 marzo 2015 alle ore 20.15 nei locali di M1.lle Storie & Sapori - Bistrò, (viale Papa Giovanni XXIII, 18). Per informazioni e prenotazioni: 340 7280347; comeunfiordiloto@gmail.com Durante la serata sarà possibile acquistare e indossare simpatici copricapo artigianali ispirati a frutti e vegetali creati per l’occasione.
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NEWS
“Cuvette 2007”, la dedica di Villa all’Expo U
n’immagine stilizzata, dal significato profondo e in stretto legame con il tema di Expo 2015. È l’etichetta scelta da Villa Franciacorta per vestire Villa Franciacorta Cuvette 2007 per Expo, un millesimato nobile ottenuto da uve Chardonnay (85%) e Pinot Nero (15%) e soggetto a un prolungato periodo di affinamento sui lieviti di almeno 77 mesi. La creatività della grafica è stata individuata in seguito a un concorso che ha coinvolto gli studenti dell’Accademia
di Belle Arti di Brera, coordinato dal professor Felice Martinelli, artista, e dal professor Guido Pertusi, artista e scultore. Al concorso hanno partecipato ragazzi da tutta Italia e dal mondo, in perfetta coerenza con l’anima di Expo: Cina, Giappone, Iran, Perù, Ucraina. Non è stato semplice scegliere fra le numerose proposte presentate, tutte molto interessanti e creative. Ha vinto una giovane studentessa del corso di decorazione dell’Accademia di Brera, Valeria Pozzi (della provincia di Varese): per lei un premio in denaro dal valore di 500 euro e la soddisfazione di vedere la propria opera
raffigurata sulla bottiglia e riportato il proprio nome in retroetichetta. Una special edition, dunque, che sarà realizzata in 2015 esemplari. «L’idea di un progetto dedicato a Expo - spiega Roberta Bianchi, che insieme al marito Paolo Pizziol si occupa di Villa Franciacorta - è stata ispirata dalla sensibilità che da sempre la nostra azienda ha nei confronti dell’ambiente proprio in un’ottica di sostenibilità. Questa etichetta, dunque, riassume quella che è la filosofia di un’azienda che ha da sempre perseguito una crescita non secondo logiche di mercato, ma di sostenibilità ambientale».
Chianti e Lambrusco i vini più venduti nella Gdo. In crescita il Vermentino S
egnali di miglioramento nel 2014 per le vendite di vino nella Grande Distribuzione, che invertono la tendenza negativa del 2013 e degli ultimi anni e fanno ben sperare per il 2015. Il dato globale del vino confezionato fino a 75cl segna un +1,5%. Le bottiglie doc spuntano un +1,3%. Queste le prime anticipazioni della ricerca dell’IRI, che verrà presentata al Vinitaly e che indica anche quali sono i vini più amati dagli italiani nel 2014, grazie alla classifica di quelli più venduti nella Grande Distribuzione. In vetta troviamo Chianti e Lambrusco, che da anni conquistano le prime posizioni del podio, ma che mostrano una flessione delle vendite a volume. Al terzo posto il Vermentino, un bianco che continua a crescere di anno in anno. Buone le performance del Prosecco, del Nero d’Avola, del Muller Thurgau e del Traminer. Tra i vini
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“emergenti”, cioè con maggior tasso di crescita nel corso del 2014, troviamo ai primi posti i vini marchigiani/abruzzesi Pecorino e Passerina, e il siciliano Inzolia. Entra in questa classifica, per la prima volta, il laziale Orvieto. «La questione fondamentale per il 2015 ed i prossimi anni è la difesa del valore da parte delle cantine e della Grande Distribuzione - ha commentato Virgilio Romano, Client Service Director IRI -. La rincorsa dei volumi come prevalente obiettivo di crescita rischia di rivelarsi controproducente. Quindi sì alle promozioni, ma con intelligenza strategica». «La difesa del valore - ha spiegato ancora Romano - passa dalla difesa dei prezzi. Ogni prezzo deve riflettere un sano equilibrio di bilancio, in cui alle principali voci di costo deve aggiungersi sempre più quello della comunicazione, che deve avere tra i suoi obiettivi anche quello di trovare i consumatori di vino del domani».
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