Affari di Gola - novembre 2010

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novembre 2010

Supplemento al n. 40 de “La Rassegna” del 18 novembre 2010 - Giuseppe Ruggieri direttore responsabile Editrice: La Rassegna S.r.l. via Borgo Palazzo 137, Bergamo Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60

IN RASSEGNA SAPORI, GUSTI E PIACERI DEL TERRITORIO

BERGAMO Meno olio, ma di qualità Una giornata al frantoio di Scanzo insieme agli olivicoltori. Stagione favorevole, l’extravergine è più strutturato e stabile

L’INCHIESTA

IL PERSONAGGIO

SOMMELIER

IL BARMAN

Anche il vino cerca la sua anima “bio”

A Valtorta è nato un casaro di talento

Detti: «I vitigni autoctoni sono una risorsa»

«Ecco come nascono i drink molecolari»


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NOVEMBRE 2010

SOMMARIO www.affaridigola.it

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PENNA ALL’ARRABBIATA Perché la “Trattoria Caprese” è diventata subito un fenomeno

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SUL CAMPO Arriva l’olio nuovo: meno produzione ma di buona qualità

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TENDENZE E ora anche il drink diventa molecolare

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IL RISTORANTE Due Colombe, emozioni nel “Borgo”

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L’INTERVISTA Detti (Ais):“Puntiamo sui vitigni autoctoni, possono fare la differenza”

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QUELLI DEL FORMAGGIO Il talento del giovane casaro

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IL PUNTO Anche il vino cerca un’anima più “bio”

IN RASSEGNA SAPORI, GUSTI E PIACERI DEL TERRITORIO

Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 - 24125 Bergamo Presidente: Ivan Rodeschini Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. - via Giorgio Paglia, 26 24121 Bergamo - tel. 035 213030 fax 035 224572 affaridigola@larassegna.it Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri In redazione: Anna Facci Opinionisti: Pier Carlo Capozzi, Enrico Rota Pubblicità: S.P.M. srl - viale Papa Giovanni XXIII, 120/122 24121 Bergamo - tel. 035 358 888 fax 035 358 753 Abbonamenti: www.larassegna.it - tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 185 del 20 Febbraio 1950 Collaboratori: Michele Andreucci, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Pino Capozzi, Ettore Coffetti, Fulvio Facci, Roberta Martinelli, Roberto Morandi, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Giordana Talamona, Donatella Tiraboschi, Sara Vavassori Impaginazione: Videocomp, Bg Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg

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PENNA ALL’ARRABBIATA di Pier Carlo Capozzi

Perché la “Trattoria Caprese” è diventata subito un fenomeno

A

ll’inizio se n’è parlato per via del nome ingombrante. Già, perché di “Caprese” c’era già, e da un pezzo, il locale di Bruno Federico a Mozzo. Poi però, dopo una sfolgorante inaugurazione di fine settembre, la “Trattoria Caprese” di via Piccinini a Bergamo, negli stessi spazi eleganti del “Kristi”, ha continuato a far parlare di sé per il successo che da subito l’ha premiata e che continua imperterrito a premiarla. Breve antefatto per capire: si tratta di una società alla sua quarta apertura con la stessa insegna, dopo Capri, Napoli e Monza. Chiarissimo l’intento: visto che la formula, in “patria”, funziona alla grande, perché non attaccare il mercato proprio nel profondo ed agiato nord? Così è partita la sfida che pare stia portando soddisfazioni e riscontri davvero lusinghieri, segnatamente dalle parti del vecchio teatro Duse (di cui resta, ahinoi, solo il ricordo) e del monumento a Garibaldi (nel 150° anniversario della Spedizione dei Mille, di cui Piccinini fu grande protagonista). E siccome non ci piace pensare che certi accadimenti arrivino per i i p caso, ecco che questo incrocio tra volontari bergamaschi in camicia rossa e cucina tradizionale campana stimola la nostra fantasia e ci suggerisce, dopo un pranzo gustoso, la lettura di qualche pagina del diario “Da Quarto al Volturno”. Per rinfrescare la nostra memoria storica e rafforzare il nostro senso di appartenenza. Dunque la “Trattoria Caprese” è partita in quarta senza avere il tempo di trarre ispirazione dallo scoglio genovese: sicuramente la collocazione è di quelle favorevoli, proprio lì, nel baricentro di uffici, a un passo dal Palazzo di Giustizia, a un tiro di schioppo dal Sentierone. Però c’è dell’altro. E subito corre il pensiero ai prezzi contenuti, convenientissimi a pranzo, ma competitivi anche a cena. Coi tempi che corrono, certamente avranno un peso anche loro, ma ci sembrerebbe riduttivo ricondurre tutto ad una questione di portafoglio: probabilmente, in questo

nuovo fenomeno di costume del nostro panorama enogastronomico, è il caso di andare oltre, come si è fatto, per esempio, con Giuliana e la sua “Trattoria D’Ambrosio”. Non venitemi a dire che si va da Giuliana solo per i prezzi, con la clientela “importante” che vi ritrovate molto spesso vicina di tavolo e che non avrebbe problemi a spendere quattro volte tanto… Si va in via Broseta anche per l’atmosfera che si respira, perché ci si sente coccolati anche se non si è vips, perché un posto informale, molto spesso, ci mette di più a nostro agio. Credo che alla “Trattoria Caprese” stia accadendo qualcosa di tremendamente uguale e sarebbe difficile non fosse così davanti ad una lista che propone: “Misto di salumi, ricottine, po formaggi, fritturina e sfizioserie fo della casa”, “Pizza Ferdinando d IIV” (pomodoro, mozzarella, melanzane e basilico), “Spaghetti la Margherita” (pomodorini, parM migiano e basilico) e dove tutti m i piatti, carne e pesce, sono rigorosamente accompagnati da g verdure e sorrisi. v Materie prime semplici, quindi, M ma buonissime e servite con allegria. Per non parlare del carrello dei dolci, proposto con signorile abbondanza partenopea (e in questo ci ricordano bb d p t molto il nostro amico Bruno). Pare che il ristorante sia sempre affollato e non soltanto per pranzo, dove te la puoi cavare anche con un piatto unico, oltre alle pizze, cotte nei forni a legna e presenti mezzogiorno e sera. Un nuovo fenomeno di costume, a quanto pare, che si sta rincorrendo nel passaparola di tutta la nostra Provincia: da guardare con grande attenzione in un momento di generale difficoltà e di ripresa che stenta a carburare. Certo, ogni tanto ci capita di arrivare in qualche locale dove il buonumore e la gentilezza non sono precisamente le prime sensazioni che vi accolgono e ci sorprendiamo a pensare che, poi, è perfettamente inutile lamentarsi se la crisi ti schiaccia. Il “prezzo certo”, “le materie prime scelte”, “la cortesia non affettata” e i “sorrisi gratis” pare che siano formule tuttora vincenti. Peccato non approfittarne.

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SUL CAMPO di Anna Facci

Arriva l’olio nuovo: meno produzione ma di buona qualità Nell’unico frantoio della Bergamas Bergamasca, a Scanzorosciate, si prevede, al termine della campagna, una leggera diminuzione delle quantità, a causa delle gelate. Lussana: «Per il resto la stagione è stata favorevole e il prodotto risulta più strutturato e stabile»

T

ra gli appuntamenti che scandiscono l’annata agricola bergamasca, da qualche anno a questa parte c’è anche quello della spremitura delle olive, momento che l’immaginario colloca di primo acchito in altri scenari - dalle sponde del Garda alle cascine toscane, dall’irta Liguria alle spianate pugliesi -, ma che tra le colline della Tribulina di Scanzorosciate, ordinata-

mente disegnate dai filari delle viti e mosse dall’argenteo vibrare delle foglie degli olivi, trova una sua suggestiva collocazione. È qui infatti, all’interno dell’azienda agricola Il Castelletto, che è in funzione dal 2005 il primo e unico frantoio della Bergamasca, realizzato grazie ad un contributo della Provincia e gestito dalla Cooperativa Olivicoltori

LA SCHEDA

Così nasce il “nostro” extravergine

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uello di Scanzorosciate è un impianto a ciclo continuo che può lavorare 250-300 chili di olive all’ora. Una serie di macchinari tra loro collegati effettua le diverse fasi in modo automatico. Si comincia con il lavaggio e la defoliazione, dopodiché le olive

1 lavaggio e defoliazione 6

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vengono trasportate da un elevatore alla frangitura dove un apparecchio a coltelli con una velocità di 850 giri al minuto sminuzza le drupe in una “pasta” di polpa e nocciolo. Il composto passa nella prima gramola, una vasca con una coclea in movimento che lo im-

pasta dando così la possibilità alle microparticelle di olio di unirsi a formare delle goccioline più grosse. Dopo circa 20 minuti l’impasto passa alla gramola successiva dove viene lavorato per lo stesso tempo. La presenza di due vasche distinte permette al frantoio ber-

2 gramolatura


Sebino, Franciacorta e Montisola, dal 2009 diventata Cooperativa Olivicoltori Bergamaschi accentuando il carattere territoriale. L’impianto è presto diventato un punto di riferimento per aziende e hobbisti, catturati da una crescente “febbre dell’olio”, da quell’autentica magia che è la trasformazione delle drupe nel prezioso condimento. I macchinari fanno un po’ di fracasso, l’odore è un pregnante concentrato di olive triturate ed i produttori aspettano pazientemente a turno il momento in cui sgorgheranno dal decanter le prime gocce del loro extravergine. «Il frantoio non trattiene nessuna percentuale di olio – spiega Pietro Umberto Lussana, titolare del Castelletto che segue l’impianto -. Si fissa l’appuntamento, si portano le olive e si va via con il proprio prodotto pagando il servizio». Gli utenti sono in costante crescita. Si tratta di appassionati che hanno sco-

Pietro Umberto Lussana (a destra) e il collaboratore Gianbattista

gamasco di lavorare una dopo l’altra anche piccole quantità di olive. Attraverso una pompa dosatrice il prodotto viene poi mandato nel decanter, ultima tappa prima di veder sgorgare l’extravergine. È formato da un tamburo che gira ad elevata velocità (circa 3.500 giri al minuto) generando la forza centrifuga necessaria, all’interno c’è un altro cilindro che ruota anch’esso ma ad una velocità

3 decanter

LE TESTIMONIANZE

Il gusto dell’autoproduzione

È

sabato pomeriggio e i frequentatori del frantoio sono tutti produttori “casalinghi”, che si sono magari resi conto che gli olivi piantati in giardino non sono solo un complemento estetico ma possono regalare un gustoso e salutare plus o sono appassionati di natura ed apprezzano la possibilità di portare in tavola qualcosa di prodotto in proprio. Tanto più se si tratta di olio extravergine, su cui aleggiano spesso dubbi su provenienza e metodi di lavorazione. La quantità minima con la quale accedere al frantoio è 1,5 quintali di olive, un peso minore renderebbe antieconomica la lavorazione. Il raccolto ideale è fatto per metà da olive verdi e per metà scure (invaiate). Ferruccio Colleoni (foto 1) è arrivato con quasi due quintali, frutto delle 8/9 piante che ha in quel di San Rocco, frazione di Cenate Sotto. «Sono un po’ meno dello scorso anno – rileva – a causa del freddo. Ne ricaverò circa 25 litri di olio che consumeremo in famiglia. È prima di tutto una bella soddisfazione e una passione che si va affinando nel tempo». Di professione vende auto, ma ha imparato la potatura e la cura dell’uliveto. Per la raccolta ha fatto da sé a mano in quattro giorni.

minore (attorno ai 3.150 giri). La differenza di velocità, la forma ad imbuto del tamburo e il diverso peso specifico delle componenti permettono di separare la parte oleosa dalla sansa, composta da acqua e residui solidi. La sansa finisce direttamente in un’autobotte e viene utilizzata per produrre concime, mentre dalla bocca posta all’altro lato del decanter scende l’atteso flusso dorato. Dall’in-

serimento delle olive allo stillare delle prime gocce passa all’incirca un’ora. Le operazioni sono regolate attraverso un pannello di controllo che evidenzia velocità e temperatura. Caratteristica saliente dell’impianto di Scanzorosciate è la lavorazione a freddo, cioè al di sotto dei 27 gradi, modalità che garantisce la maggiore salvaguardia delle qualità organolettiche e nutritive dell’olio.

4 ... ed ecco il prodotto Affari di Gola novembre 2010

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SUL CAMPO

Costantino Pulcini (foto 2) di Alzano Lombardo nutriva già da tempo l’idea di farsi l’olio da solo. Aveva saputo in passato di altre iniziative in questo senso, di cui si è persa però traccia. Ha colto al volo l’opportunità data da un frantoio così vicino. Produce da quattro anni. «Attualmente la piante che fruttano, in un terreno a Villa di Serio, sono dieci – spiega -, ma ne abbiamo altre. Quest’anno il raccolto è stato di 3,4 quintali». L’olio è per la famiglia e ne è talmente appassionato che «quando è finito – dice – non condisco più niente fino a 1 che non arriva la nuova spremitu4 ra. Non vedo l’ora di assaggiarlo sulle patate bollite». Spigolatore si definisce, invece, Pierluigi Gotti (3), di Bergamo. Ha approfittato degli ulivi piantati in spazi pubblici e di quei frutti ignorati per farsi una scorta personale di olio. «Il Gleno ha tra belle piante – svela – che

mi hanno regalato un bel raccolto come anche degli olivi nella rotonda davanti alla Fiera». L’idea gli è venuta frequentando il Garda, dove l’usanza di fare l’olio è più diffusa. «Più in generale amo stare nelle natura e realizzare prodotti in casa che reputo più genuini, mi preparo anche marmellate e sughi per tutto l’inverno». Gruppetto allegro quello che viene da Foresto Sparso, con Isidoro Roggieri, artigiano, la moglie Chiara Zucchetti, e il genero Maurizio Rubini (4). Hanno una cascina con un 2 uliveto di vent’anni e da tre anni 3 fanno riferimento al frantoio bergamasco. Nella raccolta delle olive è coinvolta la famiglia e in due giorni e mezzo hanno raggiunto quota 3,7 quintali. Anche per loro utilizzare in tavola e in cucina il proprio extravergine è ormai un’abitudine irrinunciabile.

L’AZIENDA

E l’ex funzionario Telecom punta tutto sul biologico di Carlotta Plebani

F

ranco Vismara era funzionario Telecom. Da 10 anni è coltivatore diretto, avendo lasciato la posizione di dipendente e creato con la moglie Liliana un’azienda agricola, proprietaria di più di duemila ulivi, coltivati biologicamente sulle pendici del monte Misma, sopra Scanzorosciate, in un parco di 12 ettari. Gli ulivi sono stati scelti poiché richiedono impegno alternato rispetto a quello da dedicare alle api: si potano tra marzo e maggio (2.000 ulivi richiedono 2 mesi di lavoro) quando gli insetti sono ancora in letargo, l’erba nel campo si taglia 3 volte l’anno (l’ulivo vuole il piede pulito),

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le olive si raccolgono a novembre. Oggi è affiancato dal figlio Gianluca che, laureato in filosofia, ha scelto la professione del padre, pur conservando l’interesse per la materia speculativa. La signora Liliana si occupa di vendita, oltre a sostenere la famiglia come solo una donna sa fare. Coltura biologica significa rispettare la normativa europea riguardo l’applicazione di protocolli. In concreto, i fitofarmaci sono vietati: la lotta alla mosca è condotta non con esteri fosforici, ma con trappole ai ferormoni, più costose ma non chimicamente invasive. Nella concimazione del terreno, l’urea è proi-

Franco Vismara e, nell’altra pagina, la moglie Liliana

bita: l’ingrassamento avviene tramite stallatico proveniente da allevamenti biologici. Dopo la falciatura, l’erba tagliata è lasciata nel campo, pacciamatura che contribuisce alla composizione dell’humus. In più, la prima erba è fatta crescere fino ai semi, così da nutrire i cardellini. Anche i rami da potatura sono triturati in segatura e lasciati sotto le piante: dal campo infatti viene asportato il meno possibile. La raccolta delle olive è fatta a mano: stesi i teli sotto la


perto il piacere di produrre da sé il fabbisogno annuale per la propria famiglia e qualche omaggio alla cerchia degli amici o di aziende agricole che hanno trovato nell’olivicoltura una nuova opportunità. Il territorio bergamasco, del resto, risulta vocato a questa produzione, in particolare la zona dei laghi e quella collinare fino a Bergamo, 24 comuni in tutto, che rientrano nell’area prevista dal disciplinare della Dop Laghi Lombardi – Sebino, le cui caratteristiche sono quelle degli oli definiti “delicati”. «Arrivano al frantoio soprattutto produttori bergamaschi e bresciani – rileva Lussana -, quest’anno c’è stato anche il caso singolare di un brianzolo. Il bacino di utenza, comunque, va dal Lecchese al Bresciano». Per i soci della Cooperativa, presiduta da Vittorio Capitanio, sono previste condizioni particolari. «Ad un anno di distanza dalla costituzione – prosegue – contiamo su una quarantina di associati bergamaschi e su una trentina di bresciani, alla fine della campagna gli iscritti saranno una decina in più rispetto all’anno scorso. L’obiettivo della Cooperativa è promuovere l’olivicoltura e l’olio attraverso la collaborazione, nella convinzione che l’unione possa dare più forza all’attività. Il futuro potrebbe anche essere la commercializzazione da parte della cooperativa stessa». Quest’anno il frantoio ha cominciato a spremere le prime olive il 17 ottobre e continuerà fino agli inizi di dicembre. Nel 2009 ha lavorato circa 600 quintali di olive, per 110 quintali di olio. Le previsioni sull’annata in corso parlano di un leggero calo di produzione e di un aumento della qualità. «Le gelate – spiega il frantoiano - hanno penalizzato a macchia di leopardo le colture. pianta, si staccano i soli frutti (non le foglie!) con una pinza applicata manualmente ai rametti. La spremitura avviene entro 36 ore dalla raccolta presso frantoi certificati biologici, che garantiscono la pulizia della mola tra una coltivazione e la successiva. Lo stesso locale di imbottigliamento ha un certificato di conformità. Vismara produce così più di 12 quintali (2.000 bottiglie) di olio di extravergine d’oliva, biologico, che si fregia del riconoscimento Dop Laghi Lombardi, sottosezione di Sebino. È un blend di frantoio, leccino e pendolino molto delicato e digeribile, con profumo fruttato di oliva verde, un retrogusto di carciofo e sentori dolci di banana. In bocca fornisce un ottimo equilibrio amaro-piccante. Le api ci sono ancora, allevate biologicamente. Gli alveari variano tra

Più colpite sono state le zone collinari meno riparate e il cultivar leccino. Non è, quindi, un fenomeno generalizzato, anche se crediamo porterà ad un leggero calo, attorno al 10%, della produzione. Per il resto però la stagione è stata favorevole, le piogge non sono mancate e l’olio di quest’anno risulta all’olfatto più fruttato e al gusto più amaro e piccante, caratteristiche che lo rendono più strutturato e stabile e che garantiscono, se ben conservato, un’ottima durata». In prospettiva le quantità sono in ogni caso destinate a crescere, visto che negli ultimi anni in Bergamasca sono stati impiantati nuovi olivi. «Il frantoio – conclude Lussana – può arrivare a lavorare 2mila quintali di olive, ha perciò ampi margini di sviluppo». Tra gli olivicoltori bergamaschi c’è anche chi ha intrapreso il percorso della Dop, una certificazione che offre garanzie ai consumatori di precisi standard produttivi. Sono sei o sette le aziende, tra cui la stessa Il Castelletto, che fanno riferimento al frantoio che si sono sottoposte al disciplinare che prevede verifiche sul campo e analisi dei campioni da parte dell’organismo di controllo Certiquality di Milano. L’olio Dop deve essere imbottigliato in frantoio. Grande esperto di olivicoltura e punto di riferimento a vari livelli per la categoria, Pietro Lussana sta lavorando anche su oli monovarietali come il locale sbresa e il leccino.

i 300 e i 350 a seconda dell’annata, posizionati in siti fissi (le pendici del monte Misma nelle oasi Wwf, il parco del Serio e la proprietà dell’azienda sopra Cenate Sotto), da cui le api sono spostate stagionalmente, in notturna, con l’utilizzo di mezzi 4x4 per raggiungere locazioni montane ove si produce le varietà rododendro, flora alpina e tiglio. Acacia, tarassaco e mille fiori sono invece prodotti di campagna. Le api hanno quattro mesi di produzione (da aprile ad agosto) e richiedono otto mesi di sviluppo e conservazione della famiglia. Il signor Franco ha acquistato la sua prima regina 40 anni fa e ora le alleva in autonomia. Ha studiato ed educato il gusto: ora è assaggiatore certificato, tiene corsi e presentazioni. Olio e miele sono venduti per passaparola, a privati e ristoranti, e presso mercati della Coldiretti: la signora

Liliana per due volte alla settimana allestisce il banco di vendita con i vasetti di miele e gli altri prodotti dell’alveare, propoli, pappa reale e polline, caramelle, creme di miele e mandorla, nocciole sotto miele, aceto di miele. È presente nei mercati di Bergamo (piazza Pontida il venerdì mattina) e Treviglio (piazza Cameroni il mercoledì mattina).

Azienda agricola GIANFRANCO VISMARA via Loreto, 63 Cenate Sotto tel. 035 956050

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L’APPUNTAMENTO di Roberta Martinelli

Mei:“Il peccato più grave in cucina? Mangiare da soli” Il talent scout della gastronomia italiana spiega la sua filosofia, un perfetto equilibrio tra immaginazione, conoscenza, gusto, costruzione del piatto ed esperienza. “Anche dai miei allievi - ammette - ho imparato tanto”. E poi confessa:“Io condivido sempre il cibo. In compagnia è più buono” CONVIVIUM DI STELLE

Il 13 dicembre pranzo e lezione al Four Seasons Un pranzo e al tempo stesso una lezione dallo chef Sergio Mei. L’Accademia del Gusto, nell’ambito della rassegna “Convivium di stelle”, il 13 dicembre organizza “un dietro le quinte”, una mattina di cotture e consistenze, stimoli e racconti all’interno della cucina del Four Seasons Hotel di Milano. Un corso per “ascoltare” e al contempo un corso da “degustare” con un pranzo che racconterà la filosofia dello chef sardo. Si parte dall’Accademia a Osio Sotto alle ore 10.30. La giornata è aperta a cuochi e operatori della ristorazione. Per informazioni e prenotazioni: Ascom Formazione tel. 035 4120180/183 o 035 4185706 www.ascomformazione.it.

È

difficile trovare un personaggio nella cucina italiana a cui tanti chef devono così tanto, a parte Gualtiero Marchesi (che però dalla sua ha anche l’età). Sergio Mei, executive chef del Four Seasons Hotel Milano è uno dei maestri della cucina italiana, un “talent scout” della gastronomia che ha fatto scuola ai nuovi protagonisti della ristorazione. Portavoce della cucina Italiana nel mondo, ha lavorato a Parigi, Istanbul, Nuova Delhi, Tokyo, New York, San Francisco e collezionato riconoscimenti (tra gli altri come “Cuoco dell’Anno” nel 1998 e “Medaglia d’oro” alla Culinary World Cup). La sua bravura ai fornelli è tale che persino la francese Ecole Lenotre di Plaisir di Parigi l’ha voluto come suo docente. Trovare una definizione alla sua cucina non è facile. Perché se da una parte è un convinto sostenitore della tradizione e della cucina italiana (tanto da dedicargli un libro, uscito proprio in queste settimane), dall’altro è aperto alle culture gastronomiche estere e alle idee nuove, anche dei suoi stessi allievi. Gli abbiamo chiesto di parlarci del suo concetto di cucina, scopren-

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do così che per lui il peccato più grande in cucina... è mangiare da soli. Come nasce un suo piatto? «Nasce dall’esigenza del mercato o da una suggestione. Non per forza si deve inventare. Si viene sempre stimolati da qualcosa. Può essere la richiesta di un cliente che ti dice che vorrebbe assaggiare qualcosa di nuovo. In quel caso creo il piatto cercando di interpretare il suo pensiero. Oppure l’idea può venire da un prodotto. Ad esempio, vado al mercato per comprare del branzino, poi vedo un pesce vetro o un dentice imperiale, che si trovano solo in quella stagione e penso: “toh, è un po’ di tempo non lo vedevo più, come potrei cucinarlo?” Certo, quando si è condizionati da un menù non si crea qualcosa di nuovo, al più si interpreta. Se c’è scritto risotto alla milanese il mio lavoro è quello di interpretarlo e di farlo al meglio». La creazione di un piatto è più un atto di testa o di gusto? «Prima c’è l’immaginazione. Nella memoria di ciascuno di noi ci sono tante cose, tanti ricordi a cui si attinge come a un archivio per costruire la ricetta. Poi ci sono il gusto, la costruzione del piatto».


La cucina è più conoscenza o esperienza? «Esperienza e conoscenza vanno insieme. Devono andare insieme per forza». Il modello italiano dell’alta ristorazione è in crisi? «No, è in perenne evoluzione. E quando ci si evolve si fanno due passi indietro e uno avanti. L’importante è che in questo percorso non dimentichiamo la nostra cultura. Da lì si parte. Le tecniche poi aiutano, uno strumento piuttosto che un altro, una padella piuttosto che un’altra. Ma l’innovazione deve innestarsi sul filo storico che non può essere lasciato per ultimo». Il suo ultimo libro è dedicato alle ricette tradizionali italiane. Perché questa scelta? «All’estero tutti vogliono la cucina italiana ma quella originale, non creativa. Vogliono sapere come si fanno gli gnocchi, se con o senza uova, quali patate usare, come deve essere la cottura, quanto sale usare. Una sera uno scrittore francese importante di cui ero ospite mi ha detto che aveva quattromila libri, di cui 200 italiani e nessuno dava ricette complete. Mancava un volume che spiegasse i detta-

gli delle nostre ricette passo passo e così ho deciso di scriverlo. Altrimenti non avrei mai fatto un libro di cucina italiana. L’ho intitolato “La Cucina Italiana all’italiana” perché ho messo la mia interpretazione personale». Lei ha avuto tanti allievi di successo. Qual è l’insegnamento più importante che ha dato loro? «Non ho avuto tanti allievi. Ho avuto tanti maestri, che non sapevano di esserlo. Hanno lavorato con me e quello che avevano dentro, il loro talento, è uscito fuori» Chi di loro le ha dato più soddisfazioni? «Più di uno ma l’elenco è veramente lungo. Penso al bergamasco Marco Bax che ora è al Four Seasons Hotel di Londra, a Vito Mollica oggi al Four Seasons di Firenze, a Sebastiano Spriveri che è stato a Londra e ora è da me come souschef; a Alessandro Cartumini, che è executive chef del Four Seasons Hotel di Santa Barbara in America, a, a Elio Sironi, chef del Bulgari Hotel el di Milano». Cosa ha appreso dai suoi allieevi? «La voglia di mettermi in gioco, di stare in gruppo, di fare qualcosaa

insieme, di condividere certe emozioni. I ragazzi ti fanno crescere e ti mettono in competizione perché capita che in qualcosa siano più bravi di te». Qual è il riconoscimento o l’apprezzamento che le ha fatto più piacere ricevere? «Una volta Fredy Girardet (ndr. da alcuni considerato il più grande chef del pianeta) è venuto da me a mangiare. Gli ho proposto delle semplici triglie scottate con pomodoro fresco, olio e basilico. Quando gli ho chiesto come è andata mi ha risposto “Se avessi cucinato io non so se avrei fatto meglio”. Credo che sia il complimento più bello. C’è tutto». Qual è il peccato più grave ai fornelli? «Mangiare da soli. Io condivido sempre il cibo. Mangiare da solo il piatto più buono che ci sia non è lo stesso che mangiarlo in compagnia».

ACCADEMIA DEL GUSTO / I CORSI DI DICEMBRE

Il menù di Natale

Corso base di cioccolateria

Laboratorio pratico in due incontri tenuto da Roberto Carcangiu per chi vuole festeggiare il giorno più importante dell’anno con ricette nuove e speciali. I piatti sono illustrati in ogni fase di preparazione e ripresi da un megaschermo che permette di vedere nel dettaglio le operazioni. Grazie alla presenza di postazioni attrezzate con fuochi e lavelli ciascun partecipante realizza le ricette in aula. 30 novembre e 7 dicembre – martedì dalle 20 alle 23

Corso pensato per gli appassionati assionati che desiderano imparare a realizzare cioccolatini, praline e altri prodotti rodotti di cioccolateria in modo artigianale. anale. Nel corso di due incontri, della durata di 12 ore complessive, si imparano, rano, con la guida di Gianluca Fusto, le tecniche di preparazione, stratificazione ne e presentazione di tartufi, praline, e, e altre dolcezze al cacao. Con tanto di degustazione guidata. Mercoledì 1 e giovedì 2 dicembre cembre – dalle 9 alle 13 e dalle 14 allee 18

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IL DIBATTITO

La Doc “Terre del Colleoni”? È una partita da giocare

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opo anni di sperimentazione con vini ad indicazione geografica, i produttori bergamaschi - restringendo rese ed elencando in un disciplinare le regole di produzione - hanno deciso di chiedere per alcune tipologie della Igt Bergamasca una nuova denominazione di origine controllata. Prenderà il nome di “Terre del Colleoni”, o più semplicemente “Colleoni”, ed accoglierà 14 tipologie. La richiesta è stata accolta lo scorso 13 ottobre dal Comitato nazionale dei vini a denominazione di origine. Da dove nasce l’esigenza di una nuova Doc da affiancare alla storica del Valcalepio? È presto detto. La “Terre del Colleoni”, oltre a comprendere il naturale impegno sul fronte della qualità, garantito da regole più chiare e restrittive, assicurerà ai produttori la possibilità di raggiungere ed accattivarsi una fascia più ampia di mercato e clientela. Questo essenzialmente per due ragioni. La prima è strettamente collegata con la nostra denominazione storica: abbiamo una identificazione del Valcalepio legata ad un vino rosso abbastanza strutturato e non a spumanti, vini aromatici o altro. Ciò sino ad oggi ha precluso la possibilità di una affermazione connessa a una forte identità territoriale di questi ultimi prodotti. Il secondo motivo riguarda il mercato estero. I vini venduti nel mondo che non godono di una denominazione di origine ben caratterizzata vengono troppe volte non considerati a livello qualitativo è diviene così difficile sostenere la loro quotazione economica: relativa la conseguenza di una drastica riduzione di valore. Dunque, una scelta, quella di una nuova Doc, ben ponderata e motivata. Provare nuove strade, valorizzando

di Enrico Rota consigliere delegato e responsabile vendite Italia della QUATTROERRE di Torre de’ Roveri (Bg) Per ulteriori informazioni scrivere a enrico@quattroerre.com

qualità e potenziando le armi per aggredire mercati sempre più competitivi (specie in una fase di crisi mondiale come quella che stiamo attraversando) è un diritto sacrosanto dei produttori, che rischiano sulla propria pelle e con i propri soldi. Se si ritengono maturi e pronti, dopo anni di prove e di mercato, per affrontare questa sfida, è giusto che ci provino. In barba agli scettici e a quanti negli anni, invece di appoggiare le cause dell’enologia bergamasca, hanno continuato a cambiare opinione a seconda del momento e delle mode, con motivazioni spesso lontane dalla realtà oggettiva. Inutile - quando le cantine restano spesso piene (perché vendere oggi è sempre più difficile) - parlare solo di vitigni, escludendo il territorio, la tradizione e la cultura, senza considerare anche le politiche commerciali che devono rinnovarsi in linea con i tempi. Consigli e critiche sono ben accetti, s’intende, ma quando sono costruttivi, quando aiutano la Bergamasca a diffondere il proprio prodotto, a rafforzare, correggere e migliorare i propri strumenti, anche di marketing. Evidenziare solo criticità senza guardare in prospettiva non serve a nessuno, serve solo a dar gloria momentanea a chi fa accademia. Quanto volte, negli anni, abbiamo letto gli inviti a fare vini grassi e concentrati, poi il contrario, a privilegiare il bianco al rosso, poi contrordine, con alcuni produttori a rincorrere i “maître à penser” dell’enologia, smarriti e alle prese con un mercato altrettanto disorientato. Ecco, per una volta proviamo tutti a fare uno sforzo, a sostenere una scelta imprenditoriale e territoriale. E aspettiamo che siano i consumatori, i numeri e i bilanci a dare il responso finale.


IL PRODOTTO

Il Moscato di Scanzo aumenta la produzione e guarda all’estero I

l numero di bottiglie (da mezzo litro) di Moscato di Scanzo prodotte ogni anno salirà da 60/65mila a 90mila unità. Un obiettivo che dovrebbe essere raggiunto nel prossimo quadriennio e che rappresenta uno dei cardini della nuova politica di promozione che il Consorzio di Tutela guidato da Giacomo De Toma ha deciso di pianificare per offrire alla Docg più piccola d’Italia un futuro ricco di maggiori soddisfazioni, anche fuori dai confini nazionali. Uno sforzo rinnovato che ha mosso i primi passi dal convegno che lo scorso 10 novembre, al Palazzo Maestri di Cenate Sopra, ha riunito numerosi esperti per parlare delle potenzialità e della valorizzazione del Moscato di Scanzo, anche in termini di volano turistico per il territorio.“L’importanza dell’incontro - puntualizza De Toma - sta nel messaggio che tutti i produttori, attraverso il Consorzio, hanno voluto inviare; ovvero la volontà di crescere nell’eccellenza e nella tutela del marchio come massima espressione di qualità”. L’occasione del convegno è servita anche per fare il punto sullo studio della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Milano, che attraverso gli strumenti della biologia molecolare sta valutando debolezze e potenzialità del vitigno in funzione di una sua migliore valorizzazione. Il professor Osvaldo Failla ha spiegato che i profili sensoriali di un vino sono il riflesso della sua

composizione chimica, che a sua volta dipende dalla composizione delle uve di partenza e dagli eventi microbiologici, chimici e fisici intercorsi nel processo di vinificazione e di affinamento. Ha poi aggiunto che il sequenziamento dell’intero genoma (Dna) di un vitigno è in grado di svelarne le peculiarità e ha quindi illustrato come l’analisi delle componenti del metabolismo cellulare nei singoli tessuti vegetali consentono di verificare come le specificità varietali si esprimano effettivamente e come le condizioni di suolo e clima, e quelle di tecnica colturale, possano incrementare i fattori qualitativi del vino e delle note di tipicità. Un passaggio importante, questo dello studio, per definire ulteriormente l’identità del Moscato di Scanzo e poter crescere con radici

solide. Il Consorzio crede in questa nuova stagione forte anche di risultati incoraggianti sul mercato (come il premio vinto ad Autochtona, a Bolzano) e di un marketing che guarda anche all’estero. Prova ne è la partecipazione a “Montecarlo Gastronomie”, dal 26 al 29 novembre prossimi, dove la Docg orobica si giocherà le proprie carte accanto a prodotti blasonati come caviale, Sauternes e altre prelibatezze. Certo, De Toma non nasconde che il lavoro da fare è tanto, paradossalmente proprio in casa, dove la ristorazione non sempre apre le porte al Moscato di Scanzo.“Per questo - spiega il presidente - puntiamo su un programma di forte promozione, anche attraverso sinergie con altre realtà, come il Comune di Scanzo o la Provincia di Bergamo. La nostra è sì una Docg piccola, ma ha un prodotto di valore che dà anche altri vantaggi, come la salvaguardia del paesaggio e l’occupazione”. Non solo. Come puntualizza l’assessore provinciale al Turismo, Giorgio Bonassoli, “il Moscato è in grado di accendere un piccolo faro sul nostro territorio e alimentare la complessa macchina del turismo”. Un concetto condiviso anche dal sindaco di Scanzorosciate, Massimiliano Alborghetti: “Certamente parliamo di un vino che dà risalto al nostro Comune, ma vorremo che fosse sempre più considerato anche uno stimolo per varare nuove iniziative”.

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TENDENZE di Roberta Martinelli

E ora anche il drink diventa molecolare Il mondo del beverage si lascia “contaminare” dalle tecniche e dai procedimenti lanciati dalle cucine d’avanguardia. Dario Comini, patron del Nottingham Forest di Milano, è un pioniere di questa filosofia. Arrivano anche dall’estero per seguire i suoi corsi. “Striscia la Notizia? Su questo tema è stata superficiale”

S

fatiamo un luogo comune. Non è vero che le nuove tendenze in tema di food and beverage nascono tutte oltre confine. Dopo la cucina molecolare, da qualche tempo si è affacciata la “molecular mixology”, tecnica d’avanguardia che fonde la moderna miscelazione con strumenti e procedimenti tipici della cucina molecolare. In altre parole, la versione applicata al bere miscelato delle tecniche e conoscenze acquisite dalla cucina. E pioniere di questa nuova “filosofia” è Dario Comini, patron del Nottingham Forest, uno dei locali più famosi di Milano e tra i dieci migliori bar al mondo. Sul suo top sfilano infusioni, gelatine, glasse e spume; drink d’avanguardia dai nomi più strani come l’“Igiene Orale” e l’“Infuso Molecolare”, realizzati con ingredienti della gastronomia molecolare come l’alginato (ricavato dall’essicazione e macinazione delle alghe brune), o il lecin (la lecitina di soia), l’isomalt (dolcificante usato per creare sculture in zucchero) e la metilcellulosa (impiegata per realizzare film commestibili).Al posto di shaker, blonder & c. ci sono fondine, pentolini, vasi di vetro, alambicchi, contagocce e boccali speciali rubati ai laboratori di chimica che consentono di creare due cocktail nello stesso bicchiere. Con le sue capsule riempite con una riduzione di Mojito o di altri drink, Comini ha fatto conoscere il suo nome e quello del Nottingham Fo-

rest oltre i confini nazionali ed è successa una cosa unica: il traffico dei barman in cerca di novità per una volta si è invertito. Da Londra in direzione Milano. La molecular mixology al momento è una moda mondiale. Decine di barman vengono dall’estero a seguire i suoi corsi e i suoi libri sono venduti in tutto il mondo. In Italia i bar-chef (questa la definizione per Comini) e i bartender d’avanguardia si contano sulle dita di una mano.

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Dario Comini

Come si riconoscono? Dalla casacca nera da cuoco. In stile “bar-chef” appunto. Come è nata l’idea di trasferire il molecolare nei drink? «Abbiamo voluto portare le tecniche e le conoscenze acquisite dalla ristorazione dietro il banco del bar. Così è nata la molecular mixology, un’evoluzione delle tecniche di cucina applicate all’alcol. In realtà è completamente un’altra tecnica ma il risultato è identico.


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buoni Abbiamo ripreso delle applicazioni di chimica che consentono di dare al prodotto diverse consistenze, di spuma, gelatina, di gelato. È un gioco di texture, di struttura». E ai clienti questi drink piacciono? «Sono entusiasti. Sui cinquecento cocktail che proponiamo in lista, il trenta percento è “molecolare” e le richieste sono cento volte superiori alla disponibilità del locale». Cosa pensa della polemica sulla cucina molecolare? «I giornalisti di Striscia la Notizia hanno fatto nascere polemiche su un argomento che non conoscevano a fondo, che non hanno approfondito. Molecolare non significa necessariamente chimico come è stato detto in televisione. Vuol dire, invece, intervenire sulla struttura del prodotto, che può essere un liquore o un filetto, per migliorarne il gusto e la consistenza. Tutti i prodotti che utilizziamo sono innocui. Non è niente di nuovo. Sono prodotti che si utilizzano da anni nella pasticceria e nell’industria alimentare. È solo l’applicazione che è diversa». Ci avviciniamo alla fine dell’anno. Quali saranno le nuove tendenze per il 2011? «Gli ingredienti orientali, cocktail a base di tè verde, zenzero, wasabi, utilizzati singolarmente o anche insieme. A fine anno nel nostro locale proporremo drink dedicati alle serie televisive. Ad esempio i drink ispirati alle serie Csi, una sorta di piccoli laboratori che permettono al cliente di interagire con i cocktail. Oppure i “Desperate housewives”, presentati in calici sormontati da mollette del bucato che trattengono perizoma che lasciamo in omaggio alle clienti. O ancora i “Dexter” e i “Colombo” con infuso di tabacco».

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Affari di Gola novembre 2010 15


La nuova sfida della 4R, al via la produzione di una birra artigianale Si chiamerà “Cuvèe Millesimata Birrificio Nazionale” e sarà commercializzata dal prossimo mese. Identità italiana e prezzi competitivi i punti di forza

L

e birre artigianali italiane stanno vivenendo un momento magico, generato d daa molteplici situazioni che, in poco oc co meno di 15 anni, hanno permesso al nostro comparto brassicolo di colmare, e, in buona parte, il profondo divario con i paesi che vantano una grande tra tradiadizione in materia. Il mercato oggi offre prodotti molto interessanti ed interviste, dibattiti, serate a tema, stimolano ulteriormente e di continuo l’interesse per questi prodotti. Anche all’estero si inizia a dare il giusto peso al prodotto italiano, vuoi per curiosità o più semplicemente perché è “made in”. Comunque sia, molto si è fatto e molto ancora si deve fare. Uno scoglio importante da abbattere però è il prezzo di vendita rispetto ai diretti competitori europei. Spesso birrifici di piccole dimensioni - in grado di produrre solo quantità ridotte, pregio impagabile ma che non deve diventare un alibi per prezzi elevati - soccombono nel confronto economico con le birre estere. Il progetto della 4R di Torre dè Roveri, dedicato alla birra artigianale italiana, vuole proprio abbattere questa barriera ed osare altro. I fratelli Rota da tempo stanno lavorando su una ricetta esclusiva che permetta la produzione di una birra di qualità e in linea con i prezzi delle belghe o tedesche, garantendo contemporaneamente quel valore aggiunto unico e intrinseco delle artigianali italiane. Progetto che vivrà di luce propria il prossimo mese e porterà il nome di “Cuvèe Millesimata - Birrificio Nazionale”. Con il marchio si vuole fin da subito evidenziare la valenza del territorio del nostro paese e della nostra cultura, sottolineando l’importanza della singola cottura (ecco il perché del nome). Presupposti necessari, ma non sufficienti per questo progetto. Secondo l’inter-

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pretazione dei Rota, la birra è e deve rimanere una bevanda popolare, accessibile bile a tutti sia nel gusto che nel prezzo, senza enza precludere le emozioni gustative. La Cuvèe Millesimata è una birra artigianale, integra, non filtrata e senza aggiunta di conservanti, rifermentata in bottiglia. È prodotta in un microbirrificio lombardo, iscritto alla Unionbirrai, che ha in dotazione un impianto di produzione della Kaspar Schulz di Bamberg che per la lunga tradizione ed innovazione tecnologica permette di produrre birra di qualità senza trascurare gli aspetti ecosostenibili, consentendo un risparmio del 60-70% di energia primaria. La Cuvèe Millesimata ha caratteristiche ben definite. Chiara opalescente, profumo fruttato ed agrumato, sapore delicato, gusto leggero con gradazione alcolica contenuta (poco più di 5 gradi): tutte peculiarità che la rendono estremamente piacevole e fresca. E con una sorpresa che gli addetti commerciali della 4R ci tengono a sottolineare: l’ottimo rapporto qualità-prezzo.


L’ossobuco alla milanese tiene banco a Porta Osio

O

ttenuta la De.Co (Denominazione Comunale) nel 2007, l’ossobuco alla Milanese - ricetta tipica del capoluogo lombardo, semplice da preparare e soprattutto molto gustosa - è ormai diffusa in tutta Italia. L’ingrediente fondamentale per la preparazione dell’“oss bus a la milanesa” è, ovviamente, l’ossobuco, ovvero lo stinco del vitello attorno al quale, una volta tagliato e cucinato, resta la polpa del muscolo tutta da spolpare! Non sappiamo esattamente quando l’ossobuco sia entrato a far parte della cucina milanese, ma sappiamo con certezza che nel ‘700 era già uno dei piatti

tipici ed era considerato una prelibatezza. Chi vuole può apprezzare la ricetta il prossimo 25 novembre, alle 20,30, all’Enoteca Porta Osio, in via Moroni a Bergamo. Il menù prevede de lo stuzzichino dello chef , il musetto con lenticchiee di Castelluccio, l’Ossobuco con risotto alla milanese e lo strudel in pasta fillo con gelato allo zabaione. Il costo della serata è di 27 euro (vini esclusi). Info: tel. 035 219297

Il Castello di Clanezzo

La cucina sarda approda al Castello di Clanezzo Prima tappa del gemellaggio gastronomico col ristorante del Carlos V di Alghero

O

rganizzato dall’associazione Ristoranti Regionali - Cucina Doc (www.ristorantiregionali.it), il 13 novembre scorso, al Castello di Clanezzo di Ubiale si è tenuta una serata gastronomica con la cucina del ristorante del Carlos V Hotel di Alghero. La cena è stata preceduta dalla presentazione dell’iniziativa nella sala congressi del castello, dove è stato proiettato un breve filmato dell’ hotel situato sulla passeggiata lungomare Valencia, a 20 metri dal mare, con una splendida vista panoramica sul golfo della riviera del corallo, a pochi passi dal centro storico della cittadina catalana del nord-ovest della Sardegna. La serata ha permesso di gustare piatti e prodotti tipici della gastronomia sarda abbinati ai vini della Cantina Santa Maria la Palma di Alghero che, con i suoi 700 ettari di superficie vitata, 480 dei quali di uve Doc, è la maggiore Cantina

dell’isola per estensione di vigneti, che producono 3 milioni e mezzo di bottiglie l’anno. Il menù è stato aperto da una degustazione di salumi dell’Azienda Puddu di Oliena, produttori artigianali. Poi, la cena preparata da Giancarlo Onidi, executive chef del Carlos V Hotel, con la collaborazione di Marco Marcionni, executive chef del Castello di Clanezzo, è proseguita con il Malloreddus allo zafferano con ragù di cinghiale, il Porcetto al forno con crudità e patate al rosmarino e il Culurgiones di ricotta dolce con miele di liquirizia. Il gemellaggio gastronomico fra la cucina del Castello di Clanezzo e quella del Carlos V si riproporrà la prossima primavera, questa volta con base Alghero. Il tutto facilitato dal collegamento aereo tra le due città, entrambe ben servite dall’aeroporto Splendida cornice della prima par-

te del gemellaggio, il Castello di Clanezzo è stato edificato verso la prima metà del X secolo in posizione strategica tra le Valli Brembana e Imagna e per questo utilizzato come “fortezza” sino al XV secolo. Dopo quest’epoca, il castello è diventato la dimora di diverse nobili famiglie bergamasche. Oggi, con la ristrutturazione del 1989, il Castello è stato convertito in albergo con annesso centro benessere, mentre le belle sale affrescate e il parco di pini secolari ne fanno un luogo scelto da molte coppie per festeggiare il loro matrimonio. Il Carlos V di Alghero

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“Il Calepino” lancia il Merlot Annata Storica “M

a sì, al Kalòs mancava un “fratello”. Così ci siamo decisi a darglielo”. Franco Plebani scherza presentando il nuovo vino rosso che da poche settimane arricchisce il catalogo di etichette dell’azienda vitivinicola “Il Calepino”, di Castelli Calepio. Non scherza, invece, il nuovo prodotto, un Merlot in purezza con tutte le carte in regola, che va ad affiancare il Kalòs (100% Cabernet Sauvignon) quasi a ricomporre idealmente l’ “accoppiata” bordolese. Porta un nome impegnativo questa nuova Igt: M.A.S, acronimo di Merlot Annata Storica. Quella in etichetta è il 2005.“Parliamo - annota Franco, insieme al fratello Marco alla guida dell’azienda - di un vino di grande personalità, dal bouquet elegante, che dovrebbe incontrare sicuramente i favori del pubblico”. Le uve pigiate dopo 20 giorni di appassimento in cassetta, due anni di affinamento in botte di rovere e uno in bottiglia, regalano a M.A.S. un colore rosso rubino carico con riflessi porpora, profumi complessi ed evoluti che ricordano frutti a bacca rossa (ciliegia, marasca, prugna matura) e spezie ed essenze orientali, nonché

sapori intriganti che ben si abbinano a carni rosse, salumi, arrosti tradizionali e formaggi stagionati. Un vino di struttura, ben disposto all’invecchiamento, che sarà prodotto solo nelle annate ritenute migliori. Circa 6mila le bottiglie del 2005, commercializzate a un prezzo in cantina di circa 15 euro l’una. I canali privilegiati saranno ovviamente ristorazione ed enoteche. Una perla in più quindi per l’azienda fondata da Angelo Plebani, che nel 1972 rilevò i 13 ettari di vigneti in posizione ideale lungo le balze che scendono all’Oglio, dando vita ad un’azienda oggi di sicuro livello. Con Merlot e Cabernet, vitigni tradizionali della zona, sono state via via piantate barbatelle di Pinot e Chardonnay, le cui uve hanno dato vita, nel 1978, alla prima produzione di spumante metodo classico. Oggi la produzione si attesta sulle 200mila bottiglie, un terzo delle quali di bollicine.

Un francobollo celebra le bollicine Berlucchi

È

da oggi in vendita in tutto il Paese il francobollo della serie tematica “Made in Italy” dedicato alla Guido Berlucchi & C., storica azienda di Borgonato in Franciacorta cui si deve la creazione, grazie al patron Franco Ziliani, del primo metodo classico del territorio bresciano. Una produzione che ha dato avvio all’importante sviluppo enologico della Franciacorta, oggi tra le aree leader del settore vitivinicolo.Alla cerimonia di presentazione del francobollo, tenutasi nei giorni scorsi nella sede dell’azienda, sono intervenuti, tra gli altri, Stefano Saglia, sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Marisa Giannini, responsabile settore filatelia di Poste Italiane, Giulio De Capitani, assessore regionale all’Agricoltura.

Franco Ziliani e il sottosegretario Stefano Saglia

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Saglia ha sottolineato il valore simbolico di questo riconoscimento per l’economia italiana:“Celebriamo il genio di Franco Ziliani, che rappresentando il genio italiano ci fa guardare con più ottimismo al futuro”. La Guido Berlucchi, con oltre 4,6 milioni di bottiglie vendute, corrispondenti al 26% del mercato italiano dello spumante, e 40 milioni di euro di fatturato nel 2009, in crescita rispetto all’anno precedente, non sembra toccata dalla crisi e per fine 2010 prevede risultati altrettanto positivi. Rinnovata nel tempo, l’azienda ha sposato la ricerca e l’innovazione in vigna e in cantina e il suo futuro è nelle mani dei tre figli di Franco Ziliani, già in azienda con ruoli di responsabilità: Arturo, Paolo e Cristina.


La Montina festeggia il ventennale con un “Vintage” pluripremiato

I

l 2010 è per le Tenute La Montina di Monticelli Brusati (Franciacorta) una data importante: una nuova fase della storia iniziata nel 1987 con la prima vendemmia commercializzata nel 1990, per giungere a quella del Ventennale 2007, in degustazione dal 2010. Per celebrare le prime 20 vendemmie, la famiglia Bozza ha rinnovato non solo l’immagine grafica aziendale, ma anche il design delle bottiglie nei formati Classico, Magnum e Jeroboam. La nuova immagine è stata creata dall’artista Paolo Menon, membro del Museo della Permanente di Milano. Elegante e austera, la nuova bottiglia ha fuso nel vetro un cammeo raffigurante due leoni che reggono una tiara, per legare la cultura bresciana del territorio all’orgoglio leonino de La Montina radicata nella settecentesca tenuta di campagna bresciana, che appartenne a Benedetto Montini - avo di Papa Paolo VI - da cui prese il nome anche la collina retrostante. Nuova anche l’etichetta a punta, che s’incastona in una nicchia nella parte bassa della bottiglia e, con la retro etichetta, la cinge a mo’ di corona. Ogni etichetta è stata declinata nei sei colori che contraddistinguono i Franciacorta delle Tenute La Montina, che per quanto riguarda le tipologie più complesse, saranno definiti anche da un nuovo nome: il color avorio per i Brut, l’oro per i Brut Millesimato Aurum, l’argento per i Brut Satèn Argens, il verde per gli Extra Brut, il rosa melograno nelle versioni Rosé Demi Sec e Rosé Extra Brut Rosatum, per concludere con l’etichetta di colore nero e logo in oro per denominare le Vintage, le grandi Pas Dosé Riserva, orgoglio di famiglia. E proprio in occasione del Ventennale, la Montina ha presentato la sua prima Riserva, il Vintage 2004, un Extra Brut affinato sui lieviti in bottiglia per almeno di 60 mesi, elegante e avvolgente al naso, complesso al palato, ampio e di grande personalità. Riserva che ha fatto l’en plein aggiudicandosi i 3 bicchieri della Guida del Gambero Rosso e i 5 grappoli di quella dell’Ais. È prodotto da 45% Pinot nero e 55% Chardonnay e le sue uve provengono da vigneti selezionati, con una resa per ettaro non superiore agli 85 quintali.“Quando, in occasioni veramente rare, i vigneti, l’esperienza e le scelte lo consentono, nasce una Riserva” ha commentato Michele Bozza, direttore commerciale e marketing dell’azienda.

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IL RISTORANTE di Lelia Parisi

Due Colombe, emozioni nel “Borgo” Lasciato Rovato e approdato in un complesso medievale a Cortefranca, il locale stellato guidato da Stefano Cerveni conferma tutto il suo valore, con una cucina che onora il territorio e mantiene un perfetto equilibrio tra gusto ed estetica

N

on poteva scegliere migliore location, Stefano Cerveni, chef stellato del Due Colombe di Rovato, per alloggiare le sue idee e la sua cucina, di questo borgo alto-medievale sottratto alle insidie del tempo da un restauro durato sette anni. E si badi, non uno di quei restauri che modellano un luogo più sui bisogni del proprietario che su quelli della Storia. Qui c’è stato l’imprimatur della Soprintendenza archeologica della Lombardia e del Comune di Cortefranca, che hanno avviato i lavori, presi poi in carico dai Gozio (onori e oneri), distillatori di Franciacorta dal 1901. Da pochi mesi il Borgo Antico San Vitale ospita la distilleria artigianale della famiglia Gozio (titolari delle Distillerie Franciacorta), dove si distillano esclusivamente vinacce di aziende franciacortine, e un percorso museale nei meandri dell’alambicco, con splendidi esemplari in rame che raccontano vita e gesta di un’arte minore (non tale per tutti, ovviamente…). E poi, la nuova sede del Due Colombe, inaugurata lo scorso settembre, lasciando ai genitori la gestione del locale di Rovato (ora Trattoria al Vecchio Mulino), con un entusiasta Stefano Cerveni, Cerve rinato anche lui a nuova vita insieme a n questo borgo, dove q vive v e medita la sua arte e chissà, forse attende (perché

Stefano Cerveni

no) la seconda stella. A sfiatare da questi ambienti non solo fumi e profumi di alcol e vinacce, ma anche le tante anime che nei secoli hanno abitato queste mura (il papiro della storia si srotola qui sino al IX-X secolo), liberate finalmente dalla loro petrosa prigionia. E ora la storia torna a narrare ordinarie fatiche quotidiane di genti anonime, coloni e villani, che però fecero la Franciacorta. “Questo luogo, con la sua storia, è la rappresentazione fisica della mia idea di fare territorio”, chiosa Cerveni. E potrebbe essere altrimenti? Qui il territorio è forte, si impone, non puoi far altro che assecondarlo. E lui sa come prenderlo.Anche se non sono solo prodotti locali ad animare la sua eccellente tavola,“la materia prima poderale è scarsa e non basta a imbastire una proposta, bisogna attingere fuori”, la sua cucina ha una parola passepartout per onorare degnamente il territorio, ed è il simbolo per eccellenza di queste terre. La vite, di cui la Franciacorta va fiera da oltre duemila anni, e il suo vino, decantato da Virgilio, elogiato dal re longobardo Teodorico. “Tutti i miei piatti sono abbinabili con il Franciacorta e hanno una componente acida”. È qui l’appiglio, il legame con il territorio, il giusto tributo pagato alla storia. Il retrogusto, semantico e gustativo, di ogni piatto di Cerveni è in quelle bollicine, di cui son spesso dolce-acido ingrediente. E poi semplicità e leggibilità, le stesse che dimorano in questi spazi. Esempio della perfetta convergenza di mare e terra nel segno del Franciacorta è il gambero rosso su patata viola


IL GIUDIZIO e ristretto di bollicine. Difficile trovare tanta perfezione, gustativa ed estetica, in un solo piatto ed equilibrio tra note dolci, salate e acide. Perfezione doppiata dall’insalata di germogli e fiori su crème brulée di foie gras. Un cuscino di petali e germogli, dove sprofondare dentro una mousse di foie gras dolce-salato con velo croccante. E anche dal nido di spaghetti, omaggio della semplicità alla bontà, con mazzancolle e ricci di mare serviti a 40°C per non alterare il riccio crudo. Tradizione locale “riformata” e creatività oscillano come un pendolo sulla proposta del Due Colombe, difficile stabilirne il confi onfine. Per esempio, i ravioli di ricottaa dell’Adamello con castagne, che paiono il più tradizionale dei piatti, hanno una liturgia un po’ ereticale che li sottrae a questa vocazione: cotti a vapore (e quindi un po’ più duri ri sulle giunture) e sommersi da tartufo f bianco d’Alba, ricevono la benedizione del consommè di parmigiano solo a piatto in tavola. La versione “revisionista” del manzo all’olio (piatto storico del Due Colombe), a sua volta, è tradizione ricreata, con rosolatura in aglio e acciughe asciugata con amido di mais anziché pangrattato, e alleggerita dei grassi, con l’olio aggiunto a crudo anziché a inizio cottura. Puro godimento. Il desiderio di andare oltre alla bontà per veicolare un’esperienza più totale è l’energia oscura che percorre la cucina di Cerveni, forse memore della lezione di Marchesi, che la differenza tra un buon piatto e un grande piatto è l’emozione di chi lo pensa. Circa 70/80 euro ben spesi per un pranzo completo, vini esclusi.

AMBIENTE

8,5/10

Le sale del ristorante, poste al primo piano, di cui la più grande in passato fungeva da fienile, accolgono 45 coperti a cui, in estate, se ne aggiungono altrettanti nel giardino interno.Al ristorante è annesso un elegante salottino, adibito a zona-aperitivo. Le doti di semplicità e leggibilità del Due Colombe albergano anche in questi spazi luminosi e minimali, privi di decori se non quelli disvelati dal restauro, con arredi che paiono come “risucchiati” nei colori naturali degli ambienti, quasi a non voler perturbare l’austera bellezza che pervade l’intero complesso. Gli spazi della chiesa di San Vitale, ormai sconsacrata, sono stati adibiti a centro eventi. La sala è dotata di un servizio ristorazione con 150 coperti, con cucina espresso a pari livello del ristorante.

CUCINA CU

25/30

TTradizionale e insieme creativa, quella del 41enne bresciano Cerveni è una cucina che eccelle sia nella linea di terra sia in quella di mare, con prodotti di primissimo livello. Stella Michelin al vecchio Due Colombe di Rovato, che ha lasciato in gestione ai genitori Beppe e Clara, per lo chef bresciano “non è solo l’ingrediente a fare il territorio, ma il m modo in cui lo si utilizza e lo si mette in relazione con il patrii storico e culturale della Franciacorta. È quel tipo di legame monio unico che lo chef ha con il suo territorio a costituirne anche l’originalità della proposta”. Per Cerveni, la tradizione stessa è qualcosa in divenire e calato nella storia, non di statico o museale. Da qui la sua riformulazione di piatti storici, come il manzo all’olio, all’insegna di una leggerezza e digeribilità che nulla toglie al sapore.

CANTINA

16/20

Cantina corposa, con 600 etichette, di cui una novantina provenienti dalle aziende della Franciacorta. Presente anche la produzione Castello di Gussago della famiglia Gozio. Ricarichi in linea con il prestigio del locale.

COMPETENZA

9/10

Fondamentale la lezione di Gualtiero Marchesi, che anni fa indirizzò Cerveni sulla retta via, trasmettendogli un intero sapere con la gravità di una sentenza apodittica, quasi oracolare,“fai dell’uno tre”.“Quell’invito a fare tre piatti di uno solo (perché troppo carico di ingredienti), che in realtà era un’esortazione a semplificare la mia cucina e lavorare sulle essenze, mi ha cambiato la vita. Da quel momento il mio faro sono diventati la pulizia dei sapori, il dosaggio dei grassi e delle spezie, l’attenzione alle cotture e alle scansioni temporali nell’impiattamento degli ingredienti”. Leggibilità, semplicità e leggerezza, dunque, e poi “i contrasti, la riconoscibilità dei sapori e la presenza in ogni piatto delle quattro note: acido, salato, piccante, dolce”.

SERVIZIO

9/10

Impeccabile direttore di sala è Giovanni Pizzurro, che coordina il servizio svolto ottimamente ai tavoli, con efficacia ed eleganza, dai giovani Maria Rosa e Gabriele.

RAPPORTO QUALITÀ/PREZZO DUE COLOMBE Ristorante al Borgo Antico via Foresti 13 Cortefranca (Bs) tel. 030 9828227 chiuso il lunedì

8/10

Sulla ristorazione Cerveni ha le idee chiare.“Il futuro è nella semplificazione: meno oggetti d’arredo e meno vaissellerie costosa e investimento invece nella qualità delle materie prime, che è ciò che il cliente chiede. Il mio stesso locale, nella sua semplicità ed essenzialità, è un manifesto della mia cucina”. Difficile non essere d’accordo. Lui è già su questa linea, niente coperto, e buon rapporto qualità/prezzo.Anche nei corposi menù degustazione,“I classici delle Due Colombe” a 55 euro, e “La nostra creatività” a 80 euro vini esclusi. Presente anche il menù “Bollicine”, sei portate e due dessert con degustazione di Franciacorta, a 120 euro. p.s.

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L’INTERVISTA di Giordana Talamona

“Puntiamo sui vitigni autoctoni, possono fare la differenza” Fiorenzo Detti da luglio è il nuovo presidente dei sommelier lombardi. “Dobbiamo prestare attenzione alla qualità ma anche riscoprire il nostro patrimonio viticolo, che altri Paesi non hanno”.“Non sono contro la barrique, se serve, ma il vino non va snaturato. Oggi, per fortuna, si sta riscoprendo l’importanza del vitigno e della sua riconoscibilità”

L

e idee chiare sul mondo del vino non gli mancano. E non potrebbe essere altrimenti per uno che, come Fiorenzo Detti, è in questo settore da tutta una vita ed è arrivato, nel luglio scorso, alla presidenza di Ais Lombardia,Associazione Italiana Sommelier, dopo 25 anni di impegno nel gruppo. Il suo curriculum contiene una sfilza interminabile di competenze che ne fanno un professionista, a tutto tondo, del comparto food & beverage. Pavese d’origine, assaggiatore di grappe e relatore Ais, ha gestito per 19 anni un bar-enoteca che ha lasciato, nel 2007, per dedicarsi maggiormente all’associazione lombarda. Oggi che ne è diventato il presidente, facciamo con lui il punto della situazione su questo settore che, in pochi decenni, ha vissuto cambiamenti epocali e che, oggi più che mai, è di fondamentale importanza per l’economia dello stivale. Il comparto ha mosso, nel 2009, un fatturato complessivo di 13,5 miliardi di euro attestandosi al primo posto, nel comparto alimentare delle esportazioni, con 3,5 miliardi. Come commenta questi dati? “Sono dati confortanti, non c’è che dire. Abbiamo superato anche la Francia nelle esportazioni, ma credo che questo settore possa fare di più aprendosi ad altri mercati esteri, come quello cinese e russo, per esempio”. Non c’è il rischio che oggi il vino, caricato com’è di sovrastrutture (guide, associazioni, esperti, marketing e quant’altro), rischi di non essere più il vero protagonista? “In certi casi il rischio si corre, ma credo, per fortuna, che nel complesso rimanga ancora il primo attore di tutto questo mercato”. Oggi il pubblico è comunque più attento e competente rispetto a una volta.. “Certamente, c’è maggiore promozione e di vino se ne parla sempre di più. L’editoria e i mass media, per esempio, si occupano da anni del settore, mentre gli Enti hanno capito che il vino può essere un traino importante per la promozione del territorio. Tutto questo ha creato un nuovo consumatore, più attento e curioso”. Come sceglie una bottiglia il consumatore medio? “Non si può generalizzare. In alcuni casi, infatti, sceglie

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un vino basandosi sul prezzo, altre volte decide in base alla marca di cui ha sentito parlare. Il consumatore più evoluto invece si spinge sempre più verso il vino sconosciuto, quello autoctono, o va alla ricerca del produttore di nicchia”. Esistono “grandi vini” che oggi sono sopravalutati, il cui prezzo non è giustificato dalle loro caratteristiche? “Ci sono. In certi casi sono vini che vivono del nome che si sono fatti nel passato, ma è altrettanto vero che esistono, al contrario, vini che per qualità valgono l’alto prezzo che costano”. Venendo ai nostri cugini d’Oltralpe, possiamo dire che il divario è stato ormai colmato? “Dal un punto di vista qualitativo direi di sì, abbiamo fatto molto, ma non possiamo dire di aver raggiunto i francesi. Vede, loro hanno saputo promuovere al meglio i loro vini e territori. È su questo aspetto che dobbiamo lavorare ancora molto”. Quale potrebbe essere la nostra carta vincente? “Prestare attenzione alla qualità e riscoprire il nostro patrimonio viticolo. Dalla nostra abbiamo una cosa che


un produttore tra i quali etichetta, bottiglia, tappo e traloro non hanno, una lo sporto. Se pensiamo a questo è possibile orientarsi”. varietà di vitigni autocvar Oltre alla crisi, crede che anche i limiti alcolemici toni, dalla Valle d’Aosta abbiano giocato un ruolo fondamentale nel calo Sicilia, che se coltivati alla Sic dei consumi? meglio potrebbero fare la al megli “Direi di sì, hanno penalizzato soprattutto i ristoratori differenza, diventando vera espresdif che, forse più di altri, stanno vivendo una doppia crisi. sione del nostro territorio”. Naturalmente condivido le campagne di sensibilizzazioVenendo ai canali di vendita del vino, la parte del V ne contro le “stragi del sabato sera”, anche se non bisoleone oggi la fa sempre più la grande distribuziognerebbe fare di tutta l’erba un fascio. Per questo noi di ne che incide per oltre il 45% nelle vendite nazioAis siamo in prima linea per fare cultura del bere responnali. Il cliente che acquista vino al supermercato è sabile”. diverso da quello che va in enoteca? Cosa ne pensa del limite di 0,50? “Non credo, penso che sia lo stesso se si indirizza verso “Credo sia eccessivo. Oggi chi va al ristorante non può le etichette classiche dei produttori più noti”. più bere serenamente del buon vino perché il terrore del Quali sono allora le differenze tra i due canali? ritiro della patente, in molti casi, lo fa desistere a priori. “Naturalmente la grande distribuzione ha una forza ecoIo sarei per ripristinare il limite di 0,80, come nel Regno nomica che le permette di avere, oltre alle produzioni Unito, che permette di bere, un po’ più di un bicchiere in classiche, anche delle “private lebel”, ossia dei vini che tutta tranquillità, senza per altro essere sbronzi”. etichetta come sue selezioni che, generalmente, provenChe soluzioni si possono ipotizzare? gono da note aziende. Dall’altra parte abbiamo l’enoteca “Beh, noi di Ais abbiamo promosso la campagna “Portache è fatta, nella grande maggioranza dei casi, da espermi via” cercando di cambiare un’abitudine, tutta italiana, ti del settore che scelgono personalmente ogni singolo che sfavorisce il consumo del vino nei locali, anche alla prodotto”. luce di quello che dicevamo”. Anche il settore vitivinicolo non è esente da mode Di cosa si tratta? e tendenze che ne condiziona“Della possibilità di portarsi via no i consumi. Quali sono state “L’etilometro sta la bottiglia non terminata, messa quelle degli ultimi anni? in un’elegante wine bag. Abbia“Qualche anno fa andava per la penalizzando il comparto. mo coinvolto molti proprietari e maggiore il Nero d’Avola, per Sarei per ripristinare gestori di locali italiani proprio esempio, poi abbiamo assistito il limite di 0,80, che permetta con l’intento di trovare delle spinall’affermazione della Sardegna di bere un po’ più te nuove che promuovessero la col suo Vermentino di Gallura”. cultura del bere bene con modeEd oggi? di un bicchiere in tutta razione”. “Va moltissimo il Prosecco, soprattranquillità, senza essere Venendo all’Ais, la Lombardia tutto tra i giovani che lo consusbronzi” conta su 4.500 iscritti, il 75% mano come aperitivo. Non credo dei quali semplici appassionaperò che si debba avere una visioti, attestandosi ad oggi come la prima regione per ne negativa di queste tendenze, al contrario. In fondo, i numero di soci Ais. gusti cambiano e si ha un’evoluzione dei consumi che “Questi numeri ci danno il polso di quanto sia cresciuto determinano il successo e l’affermazione di un vino piutl’interesse per il vino. Il fatto che ci siano più appassionatosto di un altro”. ti che professionisti è un bene perché se la percentuale Parlando ancora di mode. La barrique ha imperato fosse invertita ci sarebbe meno mercato, è evidente inper anni, omologando molti prodotti. Oggi è torfatti che i consumatori siano più dei ristoratori e degli nata in discussione, cosa ne pensa? enotecari. Detto questo, credo che per il futuro occorra “È vero, per un periodo tutti hanno fatto vini barricaavvicinare sempre più professionisti alla formazione Ais”. ti sconfinando, in alcuni casi, in “vini da falegnameria”. Per quale motivo? Non sono contro la barrique, se un vino ne ha bisogno “Perché sono loro i veri divulgatori della cultura del vino per essere ingentilito va bene, ma non deve esserne snaed occorre, anche in vista dell’Expo, che siano correttaturato. Oggi, per fortuna, si sta riscoprendo l’importanmente formati”. za del vitigno, della sua riconoscibilità, senza che il vino Come si immagina questo settore tra qualche rimanga per forza appesantito dai profumi terziari del anno? legno”. “Credo che ci sarà un’internazionalizzazione dei consuNel mare magnum di produttori, vini e vitigni non mi, già oggi vediamo che altre culture si stanno avviciè facile per il consumatore orientarsi. Che consigli nando al mondo del vino. Giappone, Corea e Cina popuò dare? trebbero essere i mercati del futuro e credo che, a lungo “Partendo dal presupposto che nessuno regala niente, andare, il vino si fonderà anche nella cultura e nella cuciconsiglio di diffidare dai vini che costano troppo poco. na di questi popoli”. Si tenga sempre presente che esistono dei costi fissi per

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QUELLI DEL FORMAGGIO di Leo Bartoli

Il talento del giovane casaro Luca Regazzoni da Valtorta, 23 anni, abbandonati gli studi di ragioneria per seguire la sua vocazione, ha sbaragliato colleghi esperti ai concorsi grazie al suo piccolo allevamento. “Questa è un’arte dove senza passione non si fanno buoni prodotti”

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a appena cominciato e ha già fatto incetta di premi con il suo piccolo allevamento di 12 vacche brune alpine e pezzate rosse. Il suo sogno è quello di poterne accudire (sì, usa proprio questo verbo) “il doppio, il triplo e soprattutto metterle in condizione di pascolare libere, con tanto spazio attorno”. Lui è Luca Regazzoni da Valtorta, 23 anni, ragioniere mancato, ma allevatore e casaro di talento. A settembre, quasi per scommessa, ha provato a partecipare per la prima volta alla celebre Fiera Zootecnica del suo paese e da allora la gente in piazza o in strada non lo guarda più allo stesso modo.Al primo colpo infatti ha sbaragliato anche i colleghi più esperti facendo un filotto di riconoscimenti che non ha precedenti, se si considera un concorrente all’esordio. Nell’ordine si è classificato 1° nella categoria vitelle da 6 a 10 mesi; 3° per le vitelle dai 14 ai 21 mesi; 1° per le manze dai 24 ai 27 mesi e soprattutto ha conquistato l’ambito titolo di “Reginetta” della Mostra, grazie alla sua Kristal, manza della categoria dai 24 ai 27 mesi. Così in lui è cresciuta di colpo la consapevolezza di aver fatto bene a seguire il cuore, lasciando il quarto anno l’istituto di ragioneria di Zogno e rompendo il salvadanaio.“Con quei primi risparmi e l’aiuto di mio padre ho cominciato ad acquistare i primi capi - spiega lui -. Poi qualche mese dopo mi sono iscritto alla scuola Casearia di Pandino dove ho imparato i mille segreti pratici e teorici per far nascere un formaggio”. Diplomato con il massimo dei voti, Luca approda alla Latteria Sociale di Valtorta, dove viene assunto e comincia la sua avventura nel mondo del latte. Fa di tutto, da magazziniere a commesso nello spaccio fino al gradino più alto:“Mi sono ritrovato casaro senza accorgermene: mi hanno dato fiducia e anch’io ho visto

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nascere tra le mie mani, agrì, stracchini, formaggelle e formai de mut. La mia passione è stata ripagata anche grazie alla pazienza di mio zio, Silvano Busi, presidente della Latteria di Valtorta, che mi ha insegnato tutte le malizie di un casaro navigato, preziose integrazioni agli ammaestramenti pandinesi”. Così ha scoperto ben presto che i momenti cruciali per far nascere un buon formaggio, a parte il latte di qualità, sono due. “Il primo - racconta - è la caseificazione: bisogna essere molto delicati e la rottura della cagliata deve avvenire lentamente. Il secondo riguarda la stagionatura: ogni giorno spazzolo e capovolgo centinaia di forme. Lì si decide il loro destino: ci vuole una cura metodica e quasi amorevole: da noi si dice che se non ci metti passione il formaggio non può venire buono”. E tra i Cru che lavora c’è un formaggio che ama particolarmente: “Naturalmente l’Agrì. È un formaggino freschissimo, che si può consumare appena nato, dopo soli 2-3 giorni, oppure avere pazienza e farlo stagionare. Con un filo d’olio sopra e un po’ di pepe è straordinario e lo consiglierei a tutti i bambini per una pausa di mezza giornata davvero speciale e nutritiva, che non teme la concorrenza di nessuna merendina industriale al mondo…”. Ragazzo moderno e integrato, la parabola di Luca smentisce tutti quei luoghi comuni del casaro ombroso e solitario, taciturno e selvatico, che hanno accompagnato spesso le vecchie generazioni:“Io lavoro duro, è vero, ma poi non mi faccio mancare nulla. Ho tanti amici, esco, vado in discoteca, a mangiare la pizza, a tifare a San Siro per il mio Milan.Amo viaggiare e sono appena stato due settimane in Portogallo, conoscendo luoghi e persone davvero speciali”. Ma poi si torna


alle lunghe giornate in valle, che il giovane Regazzoni trascorre tra caseificio e il suo mini-allevamento:“Certo, non si può dire che abbia tanto tempo da perdere: alle 5,30 del mattino sono già in piedi per la mungitura e la pulizia degli animali, poi corro in cooperativa per fare il formaggio e al pomeriggio torno a curare le mie brune alpine e pezzate rosse. Non lo baratterei mai con un lavoro d’ufficio perché ho sempre desiderato stare all’aria aperta, a contatto con la natura. E poi facendo il formaggio ci metto anche la giusta dose di creatività che non guasta”. Sembra quasi uno spot a tanti coetanei che senza pensarci troppo lasciano la montagna per un lavoro sicuro più a valle. “A parte che oggi anche in città un’occupazione è tutt’altro che sicura, ma davvero dico a tutti: pensateci! Anche i nostri amministratori dovrebbero però fare di più per trattenere le nuove leve: qualcosa si sta sbloccando, vedo qualcuno addirittura che ci ripensa e torna in quota, magari cominciando ad allevare qualche capra, che è un modo anche economico di fare impresa. Certo, per noi brembani, molto dipenderà dal progetto San Pellegrino: se davvero si potesse avere tra qualche anno un polo termale di livello mondiale, anche tutto l’indotto verrebbe trascinato al rialzo”.

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AGENDA NOVEMBRE

Sapori d’olio in Franciacorta, dal manzo alla nuova spremitura

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on solo bollicine. La Franciacorta celebra un altro prodotto d’eccellenza della propria terra come l’olio d’oliva in due manifestazioni. La prima è legata ad una ricetta della tradizione contadina, il manzo all’olio, autentico vanto di Rovato, in passato uno dei mercati di bestiame più importanti e affollati del Nord Italia ed ancora oggi sede di storiche e accreditate fiere zootecniche ed agricole. Fino alla fine di novembre nei ristoranti e agriturismo che aderiscono al “Mese del Manzo all’Olio” è possibile assaggiare il piatto tipico e altri sapori della tradizione locale a prezzo convenzionato. Ricetta semplice, che lascia “parlare” gli ingredienti genuini (carne scelta, olio extravergine d’oliva, vino bianco e aromi), il manzo all’olio si presta come tale anche alle diverse interpretazioni dei cuochi: la rassegna è perciò un’occasione per scoprire e mettere a confronto le variazioni sul tema. A base d’olio è anche la due giorni (27 e 28 novembre) in programma in riva al lago a Marone, comune che aderisce all’Associazione Nazionale Città dell’Olio. Protagonista di “Pane e Olio in Frantoio” è la nuova spremitura, da degustare sul pane e in abbinamento ad altri prodotti tipici. Nel corso della manifestazione – che da quest’anno rientra nella rassegna nazionale GirOlio d’Italia -, sono possibili visite guidate agli uliveti e ai frantoi, frant dove scoprire tutti i passaggi che ch conducono dall’oliva all’olio. Viene inoltre proposta la rievocazione del rito della raccolta e della molitura. A fare da corollario, spettacoli folkloristici e figuranti in costume. Per informazioni: Iat Iseo, e-mail iat.iseo@tiscali.it

FINO AL 10 DICEMBRE

Artway, i bar della città fanno spazio ai giovani artisti

A

rtway è un tour tra i locali serali li di Bergamo che dà spazio della creatività dei giovani e promuove il divertimento responsabile. “No Alcol, Sì Party!” è lo slogan della manifestazione, organizzata dall’assessorato orato alle Politiche Giovanili del Comunee di Bergamo e dall’assessorato provinciale alle Politiche sociali in collaborazione con l’Asl e le associazioni di categoria, tra cui l’Ascom. Fino al 10 dicembre sono in programma serate dedicate all’arte, alla musica, alla pittura durante le quali i locali proporranno cocktail analcolici a un prezzo massimo di tre euro, spazi con alcol test e un concorso a estrazione che premierà chi consuma almeno quattro bevande senza alcol. Questi i prossimi appuntamenti: martedì 23 novembre all’UD Concept Bar di via Moroni spazio al djset con Francesco Previtali aka don Franke Previtali e alle creazioni grafiche di Fabrizio Terzi; giovedì 25 il Ritual Pub in via San Francesco d’Assisi proporrà una mostra fotografica di Giampiero Ghislandi, mentre mercoledì 1 dicembre al Caffè della Funicolare, in Città alta, si potranno vedere gli scatti di Marianna Preda e ascoltare cover di Fabrizio De Andrè interpretate da Alex Lazzari e canzoni d’autore di Logan Laugelli. Giovedì 2 dicembre all’Agorà del Polaresco triplo appuntamento, con il folk dei 3 metri sotto il kilt, il punk rock degli Ac Knup e le illustrazioni “Il Male Abile” del Laboratorio Gattoquadrato. Martedì 7 alla Birreria di Città Alta in via Gombito Daniele Lavagna presenta il suo libro “Scarface, una storia violenta” e Maddalena Bianchetti espone le sue fotografie. Venerdì 10 dicembre gran finale alla Stazione autolinee con l’evento conclusivo: alle 18.30 verranno offerte degustazioni di aperitivi analcolici e dalle 20.30 alle due di notte ci sarà una festa con djset, musica dal vivo, mostre e tutti i protagonisti di Artway. Gli appuntamenti si terranno a partire dalle 21.

27 E 28 NOVEMBRE

Milano celebra Re Panettone

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ista la bontà, la tipicità e l’apprezzamento, è stato proposto di farlo diventare un dolce per tutto l’anno, ma è durante il periodo natalizio che il panettone regala senza dubbio le emozioni più intense. Per arrivare preparati ai pranzi e alle cene delle feste, a Milano,

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sabato 27 e domenica 28 novembre c’è la terza edizione di Re Panettone, una rassegna che mette in mostra le specialità dei pasticcieri più rinomati d’Italia. I visitatori potranno assaggiare gratuitamente ed acquistare ad un prezzo speciale


DAL 27 AL 29 NOVEMBRE

A Lambrate la prima fiera dei vini “naturali”

N

ell’ultimo decennio, all’interno del mercato enologico si è spesso sentito parlare di vini cosiddetti “naturali” o “diversi”. È una realtà molto concreta che si sta diffondendo, soprattutto all’estero, e che sta prendendo piede anche nelle carte dei ristoranti di alto livello: una tendenza che rispecchia l’esigenza di tornare all’essenza della pratica vitivinicola.A questa speciale filosofia del vino è dedicata la prima edizione di “Semplicementeuva”, manifestazione nata da un’idea del gastronauta Davide Paolini e organizzata dall’azienda Piaceri d’Italia. La fiera, in programma da sabato 27 a lunedì 29 novembre al Milano, vuole dare voce alle principali associazioni, consorzi, gruppi nazionali e internazionali, alle più importanti etichette indipendenti e ai maggiori esponenti del vino “naturale”. I prodotti presentati avranno una garanzia di qualità, ovvero un’autocertificazione che assicura il rispetto di tre condizioni fondamentali nella produzione: l’esclusione dell’uso di concimi chimici, diserbanti e trattamenti antiparassitari sistemici in vigna, l’esclusione dell’uso di sostanze chimiche in cantina e l’uso di lieviti indigeni. Semplicementeuva è un evento al tempo stesso commerciale e culturale, di degustazione e di contatto diretto tra pubblico e produttori. Oltre al vino sarà presente uno spazio dedicato all’alimentazione naturale con i suoi migliori rappresentanti. L’appuntamento è in via Ventura 15, in zona Lambrate, in una suggestiva location in un’area riqualificata e oggi tra quelle architettonicamente e artisticamentee più interessanti della città. L’ingresso sso costa 30 euro e comprende un carnet di 15 degustazioni. Ulteriori ri gettoni di degustazione possono ssono essere acquistati all’interno della manifestazione a 1,50 euro ciascuno. Info: www.semplicementeuva.it

panettoni artigianali, tradizionali, innovativi o farciti e conoscere di persona grandi interpreti delle paste lievitate. La manifestazione ha esordito nel 2008 al Teatro Litta, si è poi trasferita nelle sale del Museo Diocesano e quest’anno approda al Teatro Franco Parenti (via Pier Lombardo 14). L’iniziativa, organizzata da Amphibia, è una festa – si legge nella presentazione - per celebrare la grandezza di un “re”. Info: www.repanettone.it

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IL PUNTO di Giordana Talamona

Anche il vino cerca un’anima più “bio” Nel mondo dell’enologia cresce l’attenzione alle colture rispettose dell’ambiente, del prodotto e dei consumatori. Ma su biologico e biodinamico resta un quadro di regole ancora incerte sui processi di vinificazione. E anche l’Ue ha le sue colpe

I

cosiddetti vini naturali, prodotti da agricoltura biologica e biodinamica, si stanno ricavando, in questi anni, un posto di tutto rispetto nel mondo dell’enologia italiana. Il rifiuto di concimi chimici, diserbanti, di trattamenti antiparassitari sistemici in vigna rappresentano un approccio culturale diverso dall’agricoltura convenzionale, mettendo al centro il rispetto per la natura e per i suoi cicli vitali. Attenzione però a non fare confusione tra biologico e biodinamico perché, pur condividendo certe pratiche, hanno approcci e origini diverse. Se nel biologico infatti si recuperano pratiche tradizionali come il sovescio o la rotazione delle colture, si utilizzano le leggi naturali per aumentare le rese e la resistenza alle malattie; nel biodinamico si fa qualcosa in più. Potremmo dire che si va “oltre la natura” aiutando la fertilità del terreno con degli starter di vitalità, come il corno-letame o il corno-silice, che funzionano da medicine omeopatiche, creando le migliori condizioni possibili per il raccolto. Il biodinamico, inoltre, trae origine da un movimento filosofico legato all’antroposofia di Rudolf Steiner, pensatore austriaco nato nella seconda metà dell’Ottocento che, forse per questo, l’ha fatto ritenere, per molti anni, un metodo oscuro e lontano, legato a una dottrina quasi esoteri-

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ca. Oggi infatti questo metodo, come pure il biologico, ha assunto un’alta credibilità data, prima di tutto, dalla sua crescente applicazione e dalle certificazioni che ne garantiscono la metodologia. Chi vigila in Italia sono gli Enti del Ministero delle Politiche Agricole per il biologico, mentre per il biodinamico l’associazione internazionale Demeter. Sinora siamo stati sostanzialmente in vigna e c’è un motivo. Ad oggi, infatti, un paradosso europeo non permette di parlare ancora di vino biologico, ma esclusivamente di “vino ottenuto (o prodotto) da uve da agricoltura biologica”, poiché il processo di vinificazione non ha ancora una normativa che ne disciplini la produzione. La questione, lunga e complessa, è iniziata nel 1991 quando l’Ue varò il primo regolamento sull’agricoltura biologica escludendo il vino dal capitolo riguardante i prodotti trasformati. Nel 2005, poi, prese l’avvio il progetto di ricerca Orwine che avrebbe dovuto offrire le basi tecniche necessarie per creare una normativa condivisa. Tutto lavoro sprecato perché, nel giugno scorso, a causa dell’opposizione di alcuni Paesi sui limiti dei solfiti nel vino, l’Ue ha dovuto necessariamente rigettare la bozza buttando all’aria le speranze di molti Paesi, tra cui l’Italia e la Francia, che da anni si battono per la nascita di questo regolamento.


PARLA IL DIRETTORE GENERALE SILVANO BRESCIANINI

Barone Pizzini tra i pionieri: “Per noi è un grande valore aggiunto” È stata una delle prime aziende a credere nei vini naturali, con terreni biodinamici a Jesi e biologici in Franciacorta e a Scansano. La storica Azienda Barone Pizzini, di queste pratiche, ne ha fatto una questione di principio. “Il valore aggiunto della viticoltura bio? Avere un prodotto esente da residui di pesticidi - spiega il direttore generale Silvano Brescianini - e piante che, lavorando in equilibrio con la natura, sono meno stressate.”Vediamo dunque, con lui, quanto lavoro e tecnica si nascondano dietro queste pratiche alternative. Come avete scelto tra biologico e biodinamico? “In base ad esigenze legate alla piovosità e al clima. Demeter, l’organo che a livello internazionale certifica il biodinamico, mette dei limiti piuttosto rigidi per la difesa fitosanitaria, con un utilizzo massimo di 3 kg di rame per ettaro. Nelle Marche riusciamo ad utilizzare il biodinamico, mentre in Franciacorta, il clima continentale e l’alta piovosità, ci consentono di rientrare nella soglia prevista dal biologico”. Il bio è molto dispendioso? “Oh sì enormemente.Vede è proprio l’approccio alla calendarizzazione del lavoro nei terreni che cambia”.

Nello specifico? “In base alle precipitazioni, per prevenire il più possibile le malattie della vite, dobbiamo decidere se trattare con lo zolfo e, soprattutto, dove procedere. Sta ai nostri periti la responsabilità di monitorare attentamente tutte le particelle di terreno verificando, caso per caso, se e come intervenire”. Cosa risponde a chi dice che la contaminazione accidentale da pesticidi è possibile anche su terreni biologici? “Che è vero, si chiama CAI, contaminazione accidentale incrociata, ma è altrettanto vero che esistono dei protocolli che permettono di prendere precauzioni molto serie a riguardo”. In che modo? “Ad esempio con delle barriere naturali tra terreni biologici e convenzionali, oppure attraverso valutazioni sulle distanze tra filari. Nel nostro caso procediamo addirittura con delle vendemmie e vinificazioni separate in quei terreni che risultano esposti a particolari condizioni come, per esempio, la poca distanza dalla strada”. La vinificazione non ha ancora una normativa comunitaria, come mai?

BARONE PIZZINI via S. Carlo, 14 Provaglio d’Iseo (Bs) tel. 030 9848311 www.baronepizzini.it “Lo scoglio più importante è il livello di solfiti presenti nel vino che, nel giugno scorso, ha visto l’opposizione di Germania ed Austria costringendo l’Ue a rigettare la bozza di legge”. Non si è forse tutelato l’interesse di un piccolo gruppo di loro produttori? “Purtroppo sì ed apparentemente senza motivo visto che la ricerca di Orwine ha messo in luce come già circa il 90% dei produttori biologici tedeschi ed austriaci, rientrino ampiamente nel limite per l’utilizzo di solfiti. Questo disgraziatamente ostacola tutti noi perché un regolamento condiviso sarebbe ormai auspicabile”.

L’AUTORE DEL LIBRO “PANE E BUGIE”

Ma Bressanini sfata il mito: “Il biodinamico non ha basi scientifiche di ricerca” Ha toccato il biologico, gli Ogm, i miti legati al mangiar sano ed il suo libro, “Pane e Bugie”, pubblicato ad aprile da Chiarelettere, è arrivato già alla sesta ristampa. Lui, Dario Bressanini ricercatore del dipartimento di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Insubria di Como, questo successo se lo spiega per l’approccio scientifico, ma accessibile,

che ha utilizzato per smontare i tanti luoghi comuni che ruotano attorno a questi temi. Primo mito da sfatare, gli alimenti biologici non sono più nutrienti di quelli ottenuti da agricoltura convenzionale. “Sono partito da una ricerca della Food Standard Agency (Fsa), che ha messo in luce - spiega Bressanini che su L’Espresso cura il blog “La scienza in cucina”

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IL PUNTO

- come molti nutrienti, tra cui la vitamina C, il calcio e il potassio, siano presenti in modo simile nei prodotti di entrambe le coltivazioni senza particolari differenze per l’apporto nutritivo”. Seconda idea da rivedere, non c’è prova scientifica che i solfiti nel vino facciano venire mal di testa.“In letteratura non è stato dimostrato che ne siano i diretti responsabili - afferma -. Certo, sono additivi ed è meglio tenerli sotto controllo, ma ricordiamoci che una piccola parte di solforosa viene prodotta in fase di fermentazione e la ritroviamo anche in altri alimenti, come nei sottaceti”. Altra visione difforme secondo lui: l’approccio rigoroso.“Se il biologico ha basi scientifiche di ricerca - spiega - lo stesso non basi può dire del biodinamico che, al contrario, si ba sa su pratiche astrologiche e filosofiche che poco o nulla hanno a che fare con la scienza. Che poi certi vini siano buoni è altra cosa, ma direi

che lo sono, nonostante questa agricoltura. Per averne prova scientifica, infatti, occorrerebbero delle comparazioni su terreni simili nei quali utilizzare l’agricoltura convenzionale o biologica, da un lato, e quella biodinamica dall’altra.” Sulla valenza scientifica del biologico, al contrario, Bressanini non nutre dubbi, ma il discorso si complica se gli chiedete cosa ne pensi del suo impatto ambientale. Secondo il ricercatore, infatti, se si estendesse il biologico a livello globale si avrebbero altre incredibili conseguenze, non ultima la necessità di coltivare nuova terra mettendo, paradossalmente, a rischio la biodiversità animale e vegetale.“Questo è un dilemma che la scienza si sta ponendo: sarebbe meglio limitare i terreni coltivabili utilizzando un’agricoltura c intensiva, nonostante l’utilizzo di pesticidi sintetici, nono oppure sarebb sarebbe meglio usare il biologico che, per le basse rese, avrebbe bisogno di altri terreni coltiav vabili che metterebbero a rischio la biodiversità?”, mett si chiede Bressanini. Una domanda amletica a cui Bress pochi, se non gli g addetti ai lavori, avevano mai pensato.“Esistono terreni non coltivati, molti dei quali nei Paesi in via di sviluppo, Cina in testa - prosegue il ricercatore - che garantiscono, oggi, la sopravvivenza di molte specie animali e la salvaguardia della biodiversità. Per questo spero che si arrivi, senza pregiudizi, ad a un’agricoltura integrata, tra quella biologica e convenzionale, che possa di volta in c volta utilizzare utilizza la tecnica migliore di produzione col minor mino impatto ambientale”. Il tema, si sarà capito, è tutt’altro che chiuso. cap

Dario Bressanini

L’AZIENDA DI PONTIDA DAL 2000 PRODUCE VINO CON METODO BIO

Tosca: “Ma il consumatore è ancora poco sensibile su questo fronte” La filosofia che anima l’Azienda Tosca di Pontida è quella di fare vini che siano espressione diretta del territorio, dell’annata e del vitigno. Marco Locatelli, con la moglie Tosca Comi, ha messo su nel 2000 l’azienda di famiglia e non ha dubbi a riguardo: “Nel biologico uno ci deve credere, è un’attenzione che si ha per la campagna, ma non credo che faccia implicitamente il successo di un vino”. Quasi a dire che, dietro la gradevolezza del nettare di Bacco, si nasconda in realtà tutto un mondo fatto di tradizione, prati-

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che di cantina ed apprezzati vitigni storici.“Non so se il biologico sarà il futuro dell’enologia italiana - commenta Locatelli - io naturalmente lo spero, ma noto che il consumatore di vino non sceglie in primis una bottiglia perché viene da un’agricoltura eco-compatibile. Al contrario, vedo un’attenzione maggiore quando si tratta di acquistare frutta e verdura provenienti da agricoltura biologica”. Locatelli, sommelier dell’Ais, questa sensazione ce l’ha fin sottopelle, come pure la convinzione che, nonostante tutto, valga la pena

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L’ENOTECA DIAPASON

Luraghi (sommelier): “Chi li prova difficilmente torna indietro” Simone Luraghi, sommelier e proprietario dell’Enoteca Diapason di Milano, nei vini naturali ci crede, eccome. Dei 600 vini presenti nel suo negozio, il 40% sono bio, così come tutta la selezione di oli e cioccolati che dimostrano quanto tenga davvero all’integrità dell’ambiente. Non si creda, tuttavia, che questa filosofia abbia offuscato il suo spirito critico, tutt’altro. “Oggi il biologico va di gran moda - commenta - così si assiste, sempre più spesso, a riconversioni di terreni che nulla hanno a che fare con l’attenzione per la natura. Ci sono molte aziende che operano nell’agricoltura convenzionale, a volte tra le può inquinanti, che per ricavarsi una nuova fascia di mercato hanno iniziato a produrre vini naturali.” Un J’accuse senza mezzi termini contro gli assertori bio dell’ultima ora, quelli che, saliti sul carro del vincitore, seppur più piccolo rispetto al convenzionale, stanno cercando di

allargare la propria fascia di mercato. “Credo nel rispetto della tradizione continua - che non equivale, tuttavia, ad un “elogio dell’imperfezione” del vino. In passato, infatti, i primi vini naturali avevano, in certi casi, degli odori sgradevoli che si giustificavano per l’utilizzo della metodologia bio. Oggi, per fortuna, non è più così, la tecnica è cambiata e la qualità dei vini naturali è la stessa di quelli convenzionali, ma con qualcosa in più. Questi vini, infatti, ci parlano del territorio che li ha prodotti, hanno un carattere che li preserva dall’omologazione imperante delle produzioni super-industrializzate, fatte di vitigni internazionali, muscolosi, che ricordano, per aroma, le marmellate”. Una scelta di campo, quella di Luraghi, come quella di chi partendo da vini potenti, ma tutti uguali, si avvicina al bio cercando qualcosa di diverso.“Il cliente tipo va, di norma, dai 30 ai 50 anni, è mediamente scolarizzato

Marco Locatelli e Tosca Comi

continuare con questa che per loro è diventata una vera filosofia agricola. L’azienda Tosca si estende su cinque ettari, di cui tre vitati, producendo tre rossi e due bianchi che sono espressione di una terra, quella di Pontida, vocata per la produzione vinicola sin dal Medioevo.“Non utilizzando i prodotti di sintesi,

Simone Luraghi e la moglie

ed ha, dalla sua, delle caratteristiche fondamentali: è curioso e interessato - conclude -. Dalla mia esperienza chi prova vini naturali, chi li capisce fino in fondo, difficilmente torna indietro”.

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le ore di lavoro in vigna non finiscono mai - spiega -. Per i trattamenti si usa il solfato di rame fino a un massimo, per stagione, di 6 chili per ettaro. La ricerca, a riguardo, ci sta venendo incontro con nuovi prodotti nei quali la presenza di questo metallo è ridotta ormai al 15% rispetto al 30% del passato”. Questo fuga qualche dubbio a chi sostiene che, nel biologico, l’utilizzo di rame al posto dei diserbanti chimici possa inquinare, a lungo andare, la falda acquifera.“Molto di ciò che fa un buon vino dipende da come si lavora in cantina - prosegue -. Noi non usiamo mosti rettificati, ne correttivi o acidificanti. La solforosa che utilizziamo è minima, 15 volte in meno rispetto a quella consentita”. Sulle caratteristiche organolettiche dei vini biologici Locatelli esprime, in ultima battuta, quello che sembra essere un parere condiviso anche da altri produttori.“Ogni annata è diversa perché quest’agricoltura segue davvero i cicli della natura. A lungo andare abbiamo notato una particolarità nei nostri vini: non sempre sono pronti subito - conclude - ma anche se non sono fatti per il lungo affinamento, migliorano col tempo.”

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IL PREZZO FISSO di Fulvio Facci

Teresina, «ricetta vincente non si cambia» Attivo da sessant’anni, il locale di Fornovo San Giovanni non ha aggiunto né rivisitato nulla rispetto alle abitudini culinarie delle nostra terra, con proposte che si snodano tra pochi capisaldi come salumi, ravioli e carni con polenta. «Forse è proprio questa la ragione del successo» Alberto Comandulli con la moglie Angela e i figli Luciano e Teresa

C

olta al volo tra i tavoli del pranzo di mezzogiorno: «Al venerdì non possiamo mancare perché ci sono gli gnocchi». Ma non si tratta di violazione della privacy, siamo alla trattoria Teresina in piazza San Giovanni, la piazza del comune e della chiesa, a Fornovo San Giovanni. Il locale è piccolo - due graziose salette e quando serve si utilizza anche lo spazio del bar, per una quarantina di posti in tutto, mentre la cucina è al piano di sopra - ed è inevitabile ascoltare anche non volendo. Non possiamo dire di essere arrivati alla meta, ma la tanto ricercata trattoria tradizionale c’è: una l’abbiamo trovata. «Non so quante ce siano ancora – racconta Alberto Comandulli che con la moglie Angela Rivoltella ed i figli Teresa e Luciano manda avanti l’attività – ma noi resistiamo bene. In zona qualcuno ha dovuto aggiungere la pizzeria od offrire qualcosa di diverso, noi proseguiamo con la stessa linea proposta a partire dal 1950 da mia suocera». È lei la Teresina che, con il marito Avellino, ha iniziato l’attività; Alberto e la moglie sono titolari dal 1990. All’origine il locale si chiamava Trattoria Roma, ma si racconta fosse d’uso corrente dire «andiamo a mangiare dalla Teresina», così è nata l’insegna attuale. E se è vero che si

fa presto a dire “trattoria tradizionale” e “piatti tipici della tradizione” (situazioni che peraltro abbiamo riscontrato anche in tante altre realtà interessanti), la particolarità della “Teresina” che non è stato aggiunto nulla, non è stato rivisitato nulla rispetto alle abitudini culinarie delle nostra terra e il menù è tanto avaro di proposte in termini numerici quanto invece è ricco in termini di gusto. «Negli antipasti abbiamo degli ottimi salumi piacentini mentre per il salame ho la mia ricetta – ha proseguito Alberto Comandulli, Bertino per gli amici –; per i primi proponiamo ravioli fatti in casa sia di carne sia di magro, con ricotta e spinaci. I secondi sono sempre accompagnati dalla polenta e facciamo il brasato, il coniglio, l’arrosto di vitello, lo spinacino ed il salamino con le lenticchie. È tutto qui. Su ordinazione prepariamo anche altri piatti, come la casöla». E per dolce torta di mele o crostate, altri emblemi della cucina casalinga. Raccontata così la ricetta del successo sembrerebbe facile, in realtà, pur in un contesto sostanzialmente semplice, nessun particolare viene trascurato. La Teresina è sì una tipica trattoria di paese, intendendo la definizione un pregio, e quindi l’arredamento è in linea con questa realtà e può essere tranquillamente

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definito essenziale se non addirittura spartano, ma il locale è accogliente, vivace, con tovagliati e mise en place di buon livello. In sala, oltre a Bertino, c’è il figlio Luciano che ha frequentato l’Istituto Alberghiero e garantisce un servizio professionale, mentre la cucina è lo spazio delle donne, con Angela e Teresa ai fornelli. Di rilevante nella proposta del locale c’è anche una buona selezione di vini, non molto ampia ma impostata con competenza ed un occhio di riguardo al prezzo. «Andiamo avanti con la nostra linea – ha concluso Alberto Comandulli - e siamo molto soddisfatti. Siamo un’azienda a conduzione familiare e ci integriamo bene nei ruoli. Quando serve, ad esempio, viene a darci una mano anche l’altra figlia,


Laura. La clientela è affezionata. Abbiamo un buon giro per il pranzo di mezzogiorno e nelle tre sere in cui siamo aperti, mentre nelle altre lavoriamo su prenotazione. Il motivo di un consenso costante? Forse è perché non abbiamo cambiato nulla rispetto a quello che faceva la Teresina». Un’ultima nota di assoluto merito: il locale è una trattoria con prezzi da trattoria.

LA PROVA

Il piacere della semplicità Così come lo è il menù alla carta, altrettanto essenziale - e non poteva essere diversamente vista l’impostazione del locale - è la proposta per il pranzo a prezzo fisso di mezzogiorno. Medesima, peraltro, la qualità. Primo, secondo, contorno, acqua, vino e caffè per dieci euro. Conchiglie e gnocchi fatti in casa i primi piatti, conditi con ragù, sugo al pomodoro o pesto, anche questi rigorosamente preparati in proprio; cotoletta di pollo impanato e lesso i secondi, cui si aggiungono, sempre disponibili come seconda portata, bresaola e grana o prosciutto cotto con mozzarella. La proposta per i primi piatti è pressoché standard, può capitare comunque di trovare gli straordinari ravioli in brodo oppure il condimento all’arrabbiata, mentre tra i secondi ruotano anche il fegato e le valdostane, il carpaccio e il vitello tonnato. Non ci siamo lasciati sfuggire gli gnocchi con un ottimo ragù di carne e dopo qualche indecisione, data dall’ammiccante piatto di lesso che ci è sfilato dinnanzi, abbiamo optato per la cotoletta, con una panatura perfetta. Coste lesse il contorno, ottimo il vino e molto buono il rapporto qualità/prezzo.

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IL LOCALE di Michele Andreucci Da sinistra: Valentina Moretti, Alessandra Rocchetti e Alfred Jaku (foto Gianni)

Il bar “Vanilla” e la passione di Alfred È aperto da 8 anni nel quartiere Santa Lucia di Bergamo ed è un punto di riferimento

A

nzitutto, è bravo e simpatico. E il clima familiare e professionale ben si sposa con il locale e il suo titolare. Alfred Jaku, 32 anni, albanese ma nato in Italia, circa 8 anni fa ha aperto il bar “Vanilla”, in via Statuto, nel quartiere di Santa Lucia. Da allora il successo è andato via via crescendo. Il motivo è semplice: oltre alla tecnica, Alfred ci mette il cuore. E si vede. Al “Vanilla” tutto gira comme il faut: dall’accoglienza al servizio, che mescola la professionalità a una sapiente discrezione. Tutto questo è merito anche di due brave collaboratrici: Alessandra Rocchetti, 22 anni, e Valentina Moretti, 27 anni. Ale e Vale, come le chiamano i clienti, assicurano un servizio accurato, sfoggiando competenza nel consigliare e spiegare i piatti o i vini da consumare. Insomma al “Vanilla” il clima che si respira è questo: relax e tanta attenzione al cliente a partire dall’originalità dei piatti, semplici ma sempre con un tocco d’innovazione e di originalità. Un luogo dove ci si riempie oltre che lo stomaco anche lo spirito, rallegrato da Alfred, Alessandra e Valentina e dalla clientela che lo frequenta. “La nostra - spiega Alfred - è variegata: dagli artigiani che pranzano a mezzogiorno, ai professionisti che arrivano per il doppio turno del pranzo (in realtà è un incessante turnover), alle compagnie di amici che, soprattutto all’ora dell’aperitivo

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serale (imperdibile, ndr.), arrivano qui per trascorrere alcune ore in allegria. La mia filosofia della tavola, infatti, è quella di mangiare bene e stare rilassati in un ambiente accogliente. Magari bevendo un bel bicchiere di vino. Da noi si possono trovare discrete bottiglie a prezzi contenuti: Refosco, Morellino di Scansano, Nero d’Avola e qualche Valcalepio”. “Certo - ammette Alfred - questo è un lavoro faticoso, che richiede sacrifici e per il quale devi avere una grande passione. Ma dà anche grandi soddisfazioni. Come quando il cliente ti avvicina per farti i complimenti. Io adoro preparare da mangiare, sbizzarrirmi con le varie pietanze. Anche nel privato cucino per tutti e la mia casa è sempre aperta agli amici. Amo i piatti semplici, quelli che ricordano la tradizione, ma realizzati sempre con ingredienti selezionati e di qualità. Cucinare per me significa voler bene, perché mentre preparo penso a quello che mangeranno i miei clienti e cerco di assecondare i loro gusti. Cucinare è mettere l’energia che si ha in un piatto e la buona tavola è quella serena e godereccia, che ti fa stare bene con il mondo. Nonostante il lavoro mi stia dando grandi soddisfazioni, non ho mai smesso di studiare per imparare e proporre sempre qualcosa di nuovo. Perché io sono un curioso e la curiosità serve per crescere”.


IL 29 NOVEMBRE

Ristoratori Ascom a cena per gli auguri

S

i rinnova lunedì 29 novembre, nel rispetto di una tradizione consolidata portata avanti dal presidente onorario Pino Capozzi, la Cena degli Auguri dei ristoratori aderenti all’Ascom. L’appuntamento, alle 20.30 al ristorante Gourmet di Città alta (via San Viglio 1), è un incontro informale e gioioso tra colleghi prima delle festività natalizie. Naturalmente si svolgerà all’insegna della buona tavola, con un menù che vedrà cimentarsi ai fornelli più ristoratori che compongono l’associazione. L’apertura sarà affidata a Bruno Federico della Caprese di Mozzo, il primo a Pino Capozzi dell’Agnello d’oro di Città alta, il secondo di pesce a Roberto Gambirasio del ristorante Cadei di Villongo, il secondo di carne allo stellato Paolo Frosio dell’omonimo locale di Almè ed il dessert alla cucina del Gourmet dei padroni da casa Aldo Beretta e Gianni Cornacchia. L’invito è rivolto ai ristoratori, ai loro familiari e ai collaboratori. Per ragioni organizzative è necessaria la prenotazione. Per informazioni e prenotazioni è a disposizione la segreteria del Gruppo ristoratori Ascom (tel. 035 213030).

Bergamo-Valencia, il legame si rinnova Il legame tra la Bergamasca e la Spagna, in particolare la regione di Valencia, è consolidato da una lunga tradizione di incontri e scambi reciproci di ospitalità e cultura gastronomica, favoriti dallo speciale rapporto che Pino Capozzi, presidente onorario dei ristoratori Ascom, intrattiene da anni con quella comunità. Un nuovo capitolo di questa bella amicizia è stato scritto in Valcalepio nel comune di Villongo, al ristorante Cadei dove è stata organizzata una cena che ha fatto incontrare in piatti della ristorazione bergamasca e la famosa “paella” valenciana realizzate dall’infaticabile chef e patron Roberto Gambirasio. Hanno presieduto all’evento il presidente della Confraternita Internazionale del Riso della Comunità Valenciana signor Ximo Saez e il sindaco di Villongo Lorena Boni. Per l’occasione Gambirasio ha ricevuto il diploma d’onore di appartenenza alla Confraternita Valenciana, mentre Pino Capozzi è stato insignito del titolo di Ambasciatore della Confraternita del Riso per l’Italia.

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L’ANGOLO

DEL SINGLE di Marco Bergamaschi

Ricette facili e veloci per chi vive da solo, ma non rinuncia alla buona cucina

Capita a tutti nella vita di vivere per un certo periodo di tempo da soli. E spesso ciò coincide con la rinuncia ai piaceri della buona tavola ed è sinonimo mo di cibo congelato, essiccato, imbustato. Ecco allora qualche idea per preparare ricette “monodose” da mangiare seduti a tavola o rilassati sul divano, a seconda dell’umore, per non sentirsi mai più soli ai fornelli... perché anche mangiare da soli può essere piacevole.

Che nozze tra gli gnocchi e il “leggendario” gorgonzola! Ingredienti per 1 persona 150 g di gnocchi di patate 80 g circa di gorgonzola una manciata di noci sale a piacere Preparazione Mettete l’acqua a bollire, poi salatela e buttate gli gnocchi.Togliete laa buccia al gorgonzola, tagliatelo a pezzettini e mettetelo in una fondina. Fate scaldare il tutto nel microonde a potenza media. Scolate gli gnocchi, versateli nella fondina insieme alle noci precedentemente sbucciate e sminuzzate. Mescolate bene e accompagnate con delle fette di pane al latte.

LA CURIOSITÀ Un piatto saporito, gustoso e molto semplice nella realizzazione, anche per chi ne capisce poco di fornelli o è alla ricerca di idee veloci. In commercio si possono acquistare tipi differenti di gnocchi (confezionati nelle apposite vaschette oppure freschi), come quelli di frumento, di riso, di semola o di ceci, ma i più diffusi sono sicuramente gli gnocchi di patate, costituiti da amido e ricchi di sali minerali tra cui zinco, fosforo, ferro, magnesio e potassio. Il gorgonzola è un formaggio a pasta cruda di colore bianco paglierino le cui screziature verdi sono causate da quel processo denominato “erborinatura”, cioè la formazione di muffe. È un delizioso alimento che da sempre caratterizza primi e secondi piatti, ma perfino antipasti o spuntini sfiziosi, tanto è vero che sono davvero pochi quelli a cui non piace. Ma non è solo buono, il gorgonzola fa anche bene poiché apporta proteine di elevata qualità biologica, calcio altamente assimilabile e vitamine B1, B2, oltre a sodio, potassio e fosforo. E, anche se molti credono il contrario, è un prodotto altamente digeribile in quanto i fermenti lattici in esso contenuti hanno un’influenza positiva sulla flora batterica intestinale ed esercitano un’attività batteriostatica ed antibiotica. Quando lo utilizziamo in cucina, se non lo si consuma subito, è meglio conservarlo in contenitori chiusi ermeti-

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camente, avvolto nella carta stagnola; in questo modo siamo sicuri che il sapore si manterrà integro. Infine non dimentichiamo che, per esaltarne il gusto e la cremosità, è consigliabile tenerlo a temperatura ambiente almeno mezz’ora prima di consumarlo. Intorno al gorgonzola circola una serie incredibili di leggende e una delle più diffuse riguarda la sua origine a dir poco “casuale”. Si racconta che nel IX secolo, durante il periodo di transumanza dalle malghe alpine lombarde a quelle della pianura padana, come tradizione, le mandrie e i mandriani si concessero una meritata sosta nel paese di Gorgonzola; pare che uno dei mandriani, preso da altri pensieri, dimenticò l’usuale attrezzatura per lavorare il latte della sera destinato a diventare crescenza o quartirolo. Lasciò perciò la cagliata in un recipiente, riservandosi di unirla a quella più abbondante del mattino e poi di lavorare il tutto con gli attrezzi recuperati. Quando poi lo fece, non ottenne né crescenza né quartirolo, ma un alimento nuovo; l’unione delle due “paste” aveva dato origine al gorgonzola. Ma la leggenda non finisce qui: da quel giorno si cominciò a credere che il nuovo formaggio fosse un elisir di lunga vita e che chi ne mangiava, oltre che godere di ottima salute, avrebbe allungato la propria esistenza di molti, molti anni. Buon appetito a tutti.


FINO AL 28 NOVEMBRE

Crema, sapori tipici in tavola

N

el cremasco è tempo di rassegne gastromoniche. Fino al 28 novembre “A Tavola con la Tradizione Cremasca” è un’occasione per far incontrare la ristorazione con i prodotti tipici. Nei nove locali aderenti si possono trovare alcuni dei cavalli di battaglia della gastronomia locale, che la manifestazione, iniziata nel 1993, ha contribuito a riportare all’attenzione: i Tortelli Cremaschi, il Salva Cremasco Dop, i piatti a base di pollame nobile da cortile (anatra, faraona, oca), i salumi locali, vere chicche diverse per stagionatura e impasto a seconda del paese di produzione. Le proposte di menù completi vanno dai 30 ai 35 euro, vini compresi. Tra i partecipanti figura anche l’Osteria del Chiurlo di Ripalta Cremasca, premiata con il “Diploma di Miglior Tortello della Rassegna na 2009”, 2009 , riconoscimento speciale dell’Accademia del Tortello Cremasco. L’elenco dei ristoranti e il dettaglio dei menù è disponibile sul sito www. nonsolovino.it. È necessaria la prenotazione.

Il Piano della Regione

L’educazione alimentare entra anche in classe La Regione Lombardia punta sull’educazione alimentare nelle scuole, università comprese, per l’anno 2010-2011. E’ quanto ha deciso nei giorni scorsi la Giunta su proposta dell’assessore all’Agricoltura, Giulio De Capitani, e di quello alla Semplificazione e Digitalizzazione, Carlo Maccari.“Per modificare le abitudini alimentari, per maturare una piena consapevolezza al consumo e una vera libertà di scelta - ha detto De Capitani - non è sufficiente informare, occorre invece educare nel senso pieno del termine, ecco perché ci rivolgiamo innanzitutto alle scuole e ai bambini. Con l’anno scolastico 2010-2011, attraverso “Scuola e cibo”, lanceremo un piano di educazione alimentare quinquennale. Obiettivi di questo programma: promuovere la conoscenza e l’importanza dell’agricoltura e dei prodotti agroalimentari, stimolare l’adozione di corretti comportamenti nella nutrizione, sostenere l’interdisciplinarietà dell’educazione alimentare, educare al gusto, a partire dalle eccellenti produzioni lombarde, voci autentiche del nostro territorio e garanzia di elevati controlli”.

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