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40009
Supplemento al n. 41 de “La Rassegna” del 13 novembre 2014 - Giuseppe Ruggieri direttore responsabile Editrice: La Rassegna S.r.l. - via Borgo Palazzo 137, Bergamo Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60
novembre 2014
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NOVEMBRE 2014
SOMMARIO www.affaridigola.it
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PENNA ALL’ARRABBIATA Ospitalità ed enogastronomia meritano più rispetto!
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L'APPROFONDIMENTO Tutto il fascino del gran bollito
10 LETTERE A proposito della pizza col buco...
12 TENDENZE
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Export, la difficile partita dei vini italiani
16 LA TAVOLA ALTERNATIVA Frutta e ortaggi, che fatica salvare la biodiversità
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20 L'INIZIATIVA Ritorna Trentacinqueuro.it ... e anticipa le feste! Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Giuseppe Mazzini, 24- 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Opinionista: Pier Carlo Capozzi - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Giuseppe Mazzini, 24- 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - info@ larassegna.it - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Riccardo Lagorio, Roberta Martinelli, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Rosanna Scardi, Giordana Talamona, Donatella Tiraboschi - Impaginazione: Videocomp, Bg - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg
22 TRADIZIONI Bergamo golosa, fasti e declino del "Cinamomo confetto"
24 FACECOOK Albergo e ristorante a due passi dal mare, a Creta la nuova vita di Isabella e Alessandro
26 L'EVENTO La Bergamo buona e sostenibile fa centro al Salone del Gusto
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Q U AT T R O E R R E
Ospitalità ed enogastronomia meritano più rispetto! di Pier Carlo Capozzi
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om’è possibile che ci abbiano ridotti così? Noi che siamo, da sempre, il punto di riferimento nel mondo per quanto concerne accoglienza e ristorazione. Eppure stiamo faticando un casino, sono troppe le aziende del comparto che da mesi stanno adoperando i risparmi di una vita di sacrifici per ripianare bilanci che non sorridono più. E, attenzione, non per improvvisa incapacità di chi manda avanti la baracca. Drammaticamente perché la gente (leggasi anche: la clientela) ha sempre più paura, esce sempre meno, spende quello che può, appare sinceramente frastornata. E mentre si aspetta che le promesse si traducano in fatti concreti, c’è da confrontarsi sempre con mille diavolerie legislative, pastoie burocratiche mai dipanate, editti che sembrano fatti apposta per scoraggiare qualsiasi imprenditore armato di buonissima volontà. Perché? Perché, per esempio, arriva una tassa pubblicitaria per un cartello che indica il parcheggio? Perché un ristorante deve pagare un’enormità di tassa per i rifiuti? Perché si continua a tassare le aziende dell’ospitalità con la vergognosa “gabella di soggiorno” e non si mantiene la parola data intensificando i controlli sull’abusivismo ormai imperante? Eppure i datori di lavoro del settore sono disciplinati e seguono, obtorto collo, anche i corsi per la sicurezza, il primo soccorso, l’antincendio. Sono obbligati a farlo. Le associazioni di categoria, e bisogna ascrivergliene il merito, organizzano corsi eccellenti, con docenti anche simpatici, aperti al dialogo. Si tratta di occasioni importanti, indubbiamente di crescita. Però ci si va, insisto, obtorto collo, non precisamente col cuore leggero e con lo spirito dei giorni migliori. Proviamo a chiedercene il motivo: forse, molto semplicemente, il datore di lavoro annota che gli obblighi si intensificano e gli sgravi mai. E questo non lo rende felice. Avrebbe bisogno di semplificazioni nell’assumere gente, anche solo nei periodi in cui serve. Abbiamo invece l’idea che aleggi sempre lo spettro dei controlli e delle sanzioni (terrificanti), quelle sì sempre in auge. Ma un ragionamento che tenga conto del momentaccio che si sta
passando tutti (imprenditori e mano d’opera) quello no, non ne vediamo la volontà di prenderlo in considerazione. Ciononostante, in giro, ci sono facce coraggiose. Da Nord a Sud. Sono stato in Puglia, ho fatto un salto a Gioia del Colle, terra natìa di mio padre e, per una combinazione davvero bizzarra, ho incontrato per strada mio cugino Germano. Sono stato immediatamente suo ostaggio e mi ha portato a pranzo all’Osteria del Borgo Antico, regno di Ottavio Surico, giovane chef, e di sua moglie Miriam, in sala. È stato un incontro, personale ed enogastronomico, straordinario: nella cucina di questo fenomeno c’è tutta la tradizione e la capacità di reinventarla in maniera delicata e vincente. Ha proposte per spostarsi altrove, Ottavio, ma noi speriamo proprio che non lo faccia, perché c’è bisogno di gente come lui nel suo paese. Però bisogna che il suo paese capisca l’importanza di avere nel proprio territorio un’opportunità del genere e che gli agevoli il più possibile la giornata lavorativa. Credo si possa chiamare meritocrazia. È per questo che c’è da indignarsi quando mettono i bastoni tra le ruote. E non lo fanno a chi ruba l’appartamento alla vecchietta momentaneamente all’ospedale. Lo fanno per chi lavora da una vita, magari seguendo le tradizioni di famiglia, cercando di portare avanti un messaggio fondamentale di tipicità. Al di là delle promesse più o meno sterili e delle aspettative per l’Expo che verrà, l’ospitalità e l’enogastronomia del nostro Paese, da sempre un fiore all’occhiello anche in termini di occupazione, merita più riguardo e maggiore attenzione. Non perché si debba essere raccomandati, ma perché queste sono professioni che storicamente ci riescono meglio di altre. E che hanno fatto dell’Italia il paese invidiato che è. Dove riusciamo perfino a gabbare due ragazze straniere che apprezzano un trancio di pizza orribile. Perché mangiato a Venezia. Ecco chi si dovrebbe perseguire, quei mascalzoni che ci offuscano la nomea. Ma gli altri no. Quelli come Ottavio e migliaia come lui, no. E cominciassero tutti gli enti locali, a partire dai nostri, a chiedersi cosa potrebbero fare per premiare i virtuosi. Che sono tanti. E sono la nostra luce in fondo al tunnel.
PENNA ALL’ARRABBIATA
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piercapozzi@libero.it
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L'APPROFONDIMENTO di Laura Bernardi Locatelli
Tutto il fascino del gran bollito Al ristorante il rito del carrello non tramonta, ma anche in casa, spiegano i macellai, è una tradizione che vale la pena riscoprire, «perché non è necessario essere degli chef per riuscire a portare in tavola un ottimo piatto»
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on i primi freddi e le prime nebbie autunnali torna la voglia di bollito: diversi tagli di carne deliziosi e fumanti, brodi eccellenti oltre che corroboranti e salse che conquistano la vista ancor prima che il palato, poste come una tavolozza di colori a contrasto con il bruno di manzo e bue, il rosa della lingua e il candore di gallina e cappone.
I consigli dei macellai
«La scelta delle carni è essenziale per un I consigli dei macellai per l’acquisto delle carni sono il primo segreto alla base di un bollito misto di successo. «È un piatto di grande tradizione, che va riscoperto - sottolinea Ettore Coffetti, presidente del Gruppo Macellai dell’Ascom -. Purtroppo molti rinunciano a prepararlo perché richiede tempi lunghi. Per un buon bollito misto sono necessari il massimo rispetto dei tempi di cottura e l’impiego di tagli diversi dal manzo al vitello, oltre a gallina e maiale: lingua, cappello del prete, arista e vitello sono i più richiesti. Aggiungere ossi dà un gusto in più anche al
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brodo. La gallina, cucinata a parte, e il cotechino arricchiscono il “carrello”, e non è difficile organizzarsi per preparalo a casa». Elio Algeri, consigliere del Gruppo Ascom, titolare della storica macelleria di Nembro inaugurata nel 1958 da papà Luigi (per tutti Enrico), invita a mettersi ai fornelli e a riscoprire il gusto del ricco piatto autunnale: «Non bisogna essere grandi chef per preparare un gran bollito, basta scegliere con cura le carni e rispettare a fiamma dolce i tempi e le regole di cottura. È un piatto che tutti, anche i giovani, ripropongono in questa
Ettore Coffetti
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Il carrello principesco del bollito misto, con carni servite e tagliate in sala davanti al commensale secondo rituali e sequenze precise, ha contribuito a costruire la fortuna di diversi locali ed ancora oggi non mancano ristoranti pronti a dedicare alla ricetta serate speciali. Il piatto è presente, con diverse interpretazioni, in tutta la tradizione italiana, specialmente al nord, e si cucina da sempre in ogni casa. Oggi è la portata delle feste dati i lunghi tempi di cottura delle carni e la preparazione delle varie salse d’accompagnamento. Ma è un investimento “a lungo termine” perché ogni volta che si cucina il bollito si hanno altri pranzi e cene assicurate: il brodo è il massimo per preparare risotti e con gli avanzi di carne si possono inventare nuovi piatti, basta fare saltare i bocconcini in padella con della salsa di pomodoro oppure utilizzarli freddi in insalata con cipolla rossa
o, ancora, trasformarli in gustose polpette. Il primo pensiero, parlando di bollito, va alla sua interpretazione piemontese e ai buoi dalla stazza mastodontica che ogni anno si sfidano a Carrù e Moncalvo. In Piemonte la ricetta del bollito ruota attorno al magico numero sette. Una vera e propria cabala: sette sono i tagli di carne e sette le salse di contorno. Al di là delle differenze regionali, un bollito che si rispetti deve comunque sempre proporre del buon manzo - per i puristi il bue -, una gallina o un cappone e della carne di maiale, dal cotechino allo zampone. A tavola non deve mancare il sale, meglio se a scaglie o grosso, pronto ad insaporire la carne tagliata, magari innaffiata da un filo di brodo. Un filo di extravergine dal sapore deciso è l’ideale per chi voglia gustare al meglio la carne, anche solo prima di testare il connubio con le varie salse di contorno.
buon risultato»
Elio Algeri
Elio Cazzaniga
stagione, lasciandosi spesso consigliare». I tagli più indicati hanno venature di grasso: «Muscolo, testina, aletta, biancostato e pesce sono tra i più indicati - continua Algeri -. La lingua resiste nonostante la disaffezione alle frattaglie e la gallina dà sempre una marcia in più al brodo. Il cotechino o lo zampone sono fondamentali per servire un vero e proprio bollito misto». Elio Algeri, che si occupa direttamente della macellazione oltre che della lavorazione di carni suine, seleziona capi da piccoli allevamenti della Val Seriana e a volte riesce ad aggiudicarsi qualche capo eccezionale: «Ho appena macellato un bue ingrassato a lungo fino a raggiungere
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L'APPROFONDIMENTO la stazza di 570 chili: le carni sono uniche, ideali per un bollito davvero eccellente, che fortunatamente stanno andando a ruba», spiega con l’orgoglio di chi, assieme all’alleva-
Anche in Bergamasca c’è chi ha scelto di allevare il bue grasso di razza piemontese: la società agricola Kelig di Nembro, fornitrice della macelleria Algeri
tore, è riuscito a portare in Bergamasca un pezzo di quella tradizione ormai mandata avanti, in barba alle logiche iper-produttive, solo in Piemonte. Il bollito misto impazza anche nella Bassa: Elio Cazzaniga, titolare della storica macelleria che si appresta a compiere 120 anni di Canonica d’Adda, continua a servire grandi pezzi di carne, pronti a tuffarsi nell’acqua bollente: «Con i primi cenni d’autunno il bollito misto è tornato alla grande nei menù casalinghi – rileva -. Il mio consiglio contempla diversi tagli, ma manzo castrato (dalla coda all’aletta, dal biancostato al pesce, dal muscolo al geretto) e scottona non devono mancare. I veri gourmand ricercano parti più grasse e gelatinose, davvero eccezionali bollite, ma la maggior parte della gente ricerca tagli magri. La gallina ingentilisce il brodo come un pezzo di punta di vitello con l’osso. A fianco della pentola con il bollito misto non manca mai quella con il cotechino o il musetto o, ancora meglio, il piedino del maiale».
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QUI PIEMONTE
A CARRÙ IL BUE GRASSO È PERSINO UN MONUMENTO Ogni anno, da 104 anni a questa parte, Carrù rinnova il tradizionale appuntamento della Fiera del Bue Grasso, un mercato competitivo che porta in piazza i buoi piemontesi più mastodontici, veri e propri trattori delle Langhe. Perfino un monumento celebra “il Bue” a Carrù, porta d’la Langa: una scultura in pietra raffigurante un paio di buoi che trascinano un pesante aratro. Nessuna guerra, alluvione e carestia è riuscita ad interrompere nemmeno per un anno la fiera dedicata al “bue grasso” che dura dal 1910. Allora un veterinario di Carrù, Benedetto Borselli, riuscì a convincere alcuni allevatori a riservare ai buoi non più in grado di lavorare nei campi per ragioni di vecchiaia un paio di anni di riposo e di buon cibo affinché potessero ricostituire le masse muscolari ed ingrassare per essere vendute come bestie da carne. L’esperimento diede ottimi risultati e nacque così la fiera che da evento atteso da tutti gli allevatori si è ormai trasformata in un forte richiamo turistico. Il tempo in cui i campi si aravano con i buoi è passato da un pezzo, ma cresce il numero di allevatori che si dedicano a questi capi di bestiame, che crescono con cura anche per 4-6 anni, pronti a mettersi alla prova nella sfida con la loro montagna di muscoli.
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L’esperto del bollito
Cravero: «In cottura fondamentale il rapporto solido-liquido» Se il bollito di bue grasso si gusta ancora per le feste, specialmente a dicembre in concomitanza con la fiera, Carrù è riuscita nella difficile sfida di “destagionalizzare” il bollito. Grazie anche allo spirito di gruppo che anima l’associazione di ristoratori “Piacere Carrù, Manzi e buoi dei paesi tuoi” che promuove diverse iniziative e menù a prezzi convenzionati, nel paese di Luigi Einaudi il bollito si serve tutto l’anno. Al Vascello d’Oro - storico locale fondato nel 1887, da 32 anni gestito da Beppe Cravero, con la moglie Lidia, i figli Marco ed Elena e il cognato Carlo Bella ai fornelli - il pentolone del bollito misto «è sempre sul putagè». «La tipicità vince su tutto, anche sulle temperature primaverili ed estive - spiega Beppe Cravero -. Il turista non bada al termometro: chi fa chilometri per venire a Carrù vuole gustare il nostro bollito, che è in carta tutto l’anno». Il carrello qui non si ferma mai e non conosce crisi: «Negli
ultimi anni sono cresciuti la domanda e l’interesse per il bue grasso: ormai gli allevatori hanno anche sei buoi, quando per tradizione si dedicavano a farne crescere uno o al massimo due. I costi restano ancora davvero elevati, tanto da non garantire una totale remunerazione all’allevatore che è animato dalla passione e dalla tradizione più che dal business». I buoi di Carrù sono un vero e proprio richiamo turistico: gli allevatori custodiscono segreti per ingrassare i colossali bovini e i ristoranti si impegnano a valorizzare in cucina le carni pregiate. Non mancano alcune dritte per preparare al meglio la ricetta tradizionale: «Il bue è buono dalla testa alla coda, al punto che un bollito senza testina non è certo un vero bollito», continua Cravero. Anche al bue, come al cavallo, si guarda in bocca: «Il manzo ha solo sei denti. Un vero bue deve avere otto denti, la massima dentatura bovina, che si raggiunge attorno ai quattro anni e mezzo d’età. Un bue grasso da premio ha in genere non meno di cinque anni e mezzo». Quanto alla preparazione a casa, è fondamentale rispettare il rapporto solidoliquido: «La quantità di carne domina il potere della bollitura. Le proporzioni sono 1 di solido e 2 di liquido: un chilo di carne vuole al massimo due litri di acqua. I profumi vanno aggiunti, come la
carne, al momento dell’ebollizione: la carne deve essere quasi loggiata nella casseruola. I tempi di cottura sono più o meno gli stessi per i pezzi dello stesso animale. Un manzo di 15 mesi richiede un’ora e mezza, mentre il bue grasso ne esige ben quattro. La fiamma deve essere dolce». Per il gran bollito misto alla piemontese avremo sul fuoco un pentolone e tre pentole: «Biancostato, punta di petto, reale, testina, muscolo anteriore o stinco e cappello del prete andranno nella stessa grande pentola; la gallina o il cappone, il cotechino o il piedino e la coda saranno cotti in tre pentole separate». Il bollito viene servito sul classico carrello, accompagnato da due o tre contorni, dalle patate lesse a spinaci e carote, e dalle sette magiche salse della tradizione piemontese. «Le salse non vanno mai poste sopra la carne ma servite a lato – precisa il ristoratore -, in modo che ognuno possa comporre da sé una tavolozza di colori e sapori ad attorniare le carni. Il bagnetto verde e rosso sono imprescindibili, così come le salse piccanti, dalla senape al rafano. La tradizione cuneese propone poi salse particolari come la cugnà, a base di mosto di Dolcetto e pere Martin Sec, e la salsa d’avie a base di miele allungato con il brodo del bollito, impreziosito da noci e nocciole, e lasciata cuocere per dieci minuti sul fuoco».
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LETTERE
La vera sfida in tavola è rendere il consumatore più consapevole
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entile Pier Carlo Capozzi, scrivo riferendomi al Suo articolo “Report, non tutte le pizze riescono col buco” pubblicato su Affari di Gola di ottobre, ringraziandoLa per aver dato risalto alla triste realtà che vede non soltanto il nascere ed il sopravvivere, ma addirittura il proliferare di pizzerie condotte da improbabili pizzaioli. Tuttavia, secondo me, se si vuole valutare seriamente la questione, occorre ribaltare la prospettiva con la quale viene considerata, nel senso che le “nefandezze che ammorbano il mondo dei pizzaioli di poco scrupolo e di inesistente professionalità” di cui Lei scrive, ci sono e continueranno ad esserci fintantoché è il consumatore stesso che, con le sue scelte, ne decreta la nascita e la sopravvivenza, cioè fintantoché il consumatore non
sarà in grado di scegliere consapevolmente cosa si appresta a mangiare! Mi permetto di esprimere questa considerazione perché opero nel settore ristorazione da ormai trent’anni; non nasco pizzaiolo ma mi sono progressivamente avvicinato a questo mondo con grande passione e profondo rispetto per la tradizione. Dietro la mia pizza c’è un grande impegno: l’impasto, che da sempre produco con farina di tipo 1, viene ripreso più volte e lievitato per più di 48 ore. I condimenti sono scelti scrupolosamente, la pizza è quindi condita con pelati San Marzano e mozzarella fiordilatte acquistata quotidianamente da un caseificio a Km zero. Infine la pizza è cotta in forno a legna alimentato rigorosamente con ceppi di faggio.
Ed il risultato qual è? Nonostante il tempo e l’impegno che quotidianamente dedico (nonché ai costi che sostengo) per ottenere una pizza con certe caratteristiche (in termini di digeribilità, genuinità ed ovviamente di gusto), il mio locale si affolla, guarda caso, la serata in cui ho deciso di far pagare la pizza a metà prezzo! Nonostante i prezzi alla carta siano nella media. Personalmente Le dico che rattrista profondamente vedere che le persone che la sera della promozione mangiano la mia pizza apprezzandone le qualità, sono le stesse che nelle altre serate si rivolgono a quelle pizzerie “concorrenti”, che il più delle volte
di Everisto*
Dalla pizza "ciambella" alla capasanta virtuale
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aro Pier Carlo ti scrivo… sembrerebbe questo un incipit alla Lucio Dalla e, d’altra parte, la canzone del compianto genio bolognese che parla anche d’amicizia, ben si addice ad introdurre il mio testo in risposta ad un amico caro come sei tu per me. Ma andiamo oltre le attestazioni di stima e affetto e veniamo al punto. Leggendo il tuo articolo nel numero di ottobre dal titolo: “Report, non tutte le pizze riescono col buco”, nel quale commenti la puntata Rai incentrata su pizza e dintorni, hai stimolato i miei ricordi e mi è venuta voglia di contribuire alla causa. Il tuo resoconto di una scampagnata in Brianza con tanto di cena a base di pizza con il buco, mi ha riportato alla memoria un episodio capitato pure a me nella terra di Ariberto da Intimiano e Rosa e Olindo. Il mio file dei ricordi lo aveva fermamente censurato. Ora però dopo aver goduto della tua sagace e sempre autorevole penna, considero il veto caduto in prescrizione e mi addentro nel racconto di un convivio a dire poco problematico. Siamo nell’autunno 2012 e io e la mia compagna rientriamo di sera da un impegno in Oltrepò. Dopo aver scartato alcuni locali - perché “tanto sulla strada qualcosa di meglio puoi sempre
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trovare” - e aver esitato troppo a lungo in tempo limite infilo il veicolo nel parcheggio di un ristorante pizzeria ancora aperto e ben illuminato. Vista l’ora, sembra messo lì dalla provvidenza. Scendiamo speranzosi ed entriamo. L’accoglienza del patron è familiar-goliardica, non ci fa sentire il peso dell’ora tarda, tuttavia ci dice che il forno della pizza è già fuori servizio e per quanto concerne la parte ristorante sarebbe meglio lasciar fare alla cucina. Visto l’orario non dissentiamo e ci lasciamo guidare. Apriamo con un poco appetibile culatello, che mangiamo senza troppe ritrosie, vista la fame, e poco dopo ci viene solennemente annunciata la specialità del giorno: Capesante al gratin. Cerco di dimenticare il simil culatello e, pensando al nostro arrivo in zona Cesarini, non faccio storie, ma temo la mal parata. Infatti l’arrivo di due piatti con gusci colmi oltre il bordo di pane impregnato d’olio, strinato in superficie e dall’odore di Fantic Motor, confermano i miei timori. Ci guardiamo a dir poco perplessi nell’attesa che uno dei due si azzardi per primo a cercare nell’untuoso scrigno il mollusco jacobaeus. Ma già dopo
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impiegano un impasto a lievitazione diretta, prodotto con farina di tipo 0 quando non 00, strutto, additivi e migliorativi vari, condimenti scadenti e provenienti da chissà dove, etc. etc., solo perché le loro pizze costano 1 o 2 euro di meno! Nonostante questo sia professionalmente molto demotivante e da imprenditore mi porti inevitabilmente a pormi delle domande, io ho deciso di non piegarmi alla pura logica commerciale ma di continuare a crede-
re che da cose buone non possano che originarne altre altrettanto buone. Siamo quello che mangiamo. Non possiamo quindi prescindere da una sana alimentazione, se vogliamo godere di buona salute e benessere. Forse, se il consumatore avesse un’educazione alimentare tale da permettergli di scegliere e capisse o quantomeno si chiedesse cosa sta veramente mangiando, probabilmente “prezzo”e “gusto” non sarebbero più gli unici parametri a determinare la sua scelta. Se questo accadesse, ci sarebbe una
sorta di selezione “darwiniana” dei pizzaioli e la pizza, ovunque la si mangiasse, tornerebbe ad essere, meritatamente, patrimonio culinario (e culturale) dell’Italia. La passione per l’argomento in questione mi porterebbe a dire ancora tante cose ma credo che anche in questo caso la pratica valga molto più di tanta teoria perciò, qualora si trovasse a passare per Bergamo, sarei felice di poterLe far assaggiare la mia pizza. Un ristoratore (lettera firmata)
Caro ristoratore, il suo scoramento è anche quello di tanti altri colleghi ristoratori. L'educazione alimentare dei consumatori, anche per opera della stampa di settore, è in atto ormai da un bel po' e credo che, a questo punto, chi vuol restare "ignorante" lo faccia per scelta precisa. Concordo in pieno con lei: continui a credere che da cose buone non possano che nascerne di altrettanto buone. E prosegua imperterrito per la sua strada. Non se ne pentirà. Pier Carlo Capozzi
le prime titubanti incursioni con la forchetta dentro il misterioso scarbuntito composto, scopro che quest’ultimo deve essere rimasto altrove. Della capasanta ci han portato solo il guscio riempito di pane zuppo di un brodo che sa vagamente di vongole decongelate e olio d’officina! E il frutto di mare dov’è? Forse rapiti da estasi creativa alla Pietro Lemann, hanno ideato al posto dell’uovo la capasanta apparente? O magari nel tentativo di emulare Ferran Adrià, si sono elevati andando addirittura oltre. E, anziché la capasanta scomposta, hanno realizzato la capasanta scomparsa? Sono domande di non poco conto… Ora, che i nostri vicini pronipoti di Marco d’Oggiono, fossero degli industriosi ideatori non avevo dubbi, ma che, dopo l’invenzione del buco con la pizza intorno e della chiave a brugola (non scherzo! Andate a documentarvi sul meccanico Egidio Brugola da Lissone…), siano arrivati all’invenzione della capasanta virtuale, è il sigillo che attesta definitivamente un Dna dalla forte impronta creativa, un fatto d’elezione! Ma ritorniamo seri. No, non ce l’ho con quelli di là dell’Adda ovvio, anzi
mi stanno pure simpatici, e poi il dramma è che non ci sono differenze di area geografica. Dovunque, lungo il nostro stivale, si incontrano operatori del settore che si arrogano il diritto di pigliare per i fondelli l’utenza. E questo proprio mentre le tematiche sulla tutela dei prodotti italiani d’eccellenza, in casa nostra e nel mondo, è più che mai d’attualità. Pertanto a chi non volesse prestarsi ad essere buggerato, suggerirei di non indugiare nel rammentare a certi furboni della ristorazione che la conchiglia di San Giacomo non è solo un contenitore da rasare di pane bruno imbrombato di olio da carretto, o tutt’al più da gamberi liofilizzati e farci trecento servizi, come le gamelle di quando ero a Silandro nel 5° Alpini. A rigor di scienza, oltre che di gastronomia, lì ci dovrebbe essere un mollusco, e se mi dici capasanta ce la voglio vedere dentro! Diciamoglielo, sarà un monito per una prossima volta, oltre che tutela per avventori futuri. E allora caro Pier, dopo un bel po’ di tempo che non ci troviamo a tavola, sei ufficialmente invitato ad un convivio. Io e te. Andremo alla scoperta di cose buone, magari di una bella pizza fatta con farina integrale e lievito naturale e un piatto di capesante con il mollusco dentro, perché no, fresco e corrispondente al guscio stesso. Non mi riferivo certo ad altre scoperte come quelle per le quali abbiamo scritto, le risate sull’argomento ce le siamo già fatte al telefono, ma a pensarci bene ci sarebbe da piangere.
* Dietro questo pseudonimo si cela un noto ristoratore bergamasco
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TENDENZE di Giordana Talamona
Export, la difficile partita dei vini italiani Parlano due operatori che stanno promuovendo il meglio della nostra enologia in Asia e Usa. "Siamo di fronte a due mercati complessi. Ci sono ampi margini per migliorare, ma paghiamo come sempre la nostra incapacità di fare sistema"
Da sinistra Marco Cassani e Giorgio Rodoni
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i sono conosciuti sui banchi di scuola dell'International School of Milan, in un ambiente multiculturale dove il motto “for a world without frontiers” è quanto di meglio possa esserci per sentirsi cittadini del mondo. Marco Cassani e Giorgio Rodoni, poco meno che trentenni, viaggiano da oltre due anni in lungo e in largo per gli Stati Uniti e l'Asia promuovendo l'export di food and wine italiano con la loro azienda, Italian Heritage. “Nel corso dei nostri viaggi e durante la nostra permanenza a Londra per gli studi universitari - spiega Cassani - abbiamo spesso notato la mancanza di prodotti italiani che rispecchiassero l’autenticità e la qualità che il nostro Paese può offrire. Quasi per scherzo ci siamo detti, perché non occuparcene noi?”. E così hanno fatto. Marco, una laurea in Economics and International Business e un master in Investment and Finance, si occupa del mercato americano, mentre Giorgio, laureato in Biology and Business Management, con un master in International Business, si è specializzato nell'export verso l'Oriente. Mercati complessi, nei quali non è facile orientarsi, non fosse altro che per le accise e le quantità minime richieste da ciascun importatore. “La difficoltà principale sta nel riuscire a collegare la domanda con l'offerta - spiega
Cassani a proposito del mercato americano -. È normale che una piccola cantina faccia molta più fatica a farsi notare negli Stati Uniti, senza contare che raramente vengono apprezzate produzioni di nicchia. Tra i vari ostacoli da superare, inoltre, c'è quello tecnico, ovvero il trasporto stesso e le varie registrazioni necessarie per l'esportazione negli Usa. Esiste, infine, una concorrenza spietata sui prezzi, in ragione della presenza non solo dei vini locali, ma anche di quelli francesi”. Se è complesso il mercato americano, quello asiatico si rivela ancor più articolato. “In Asia la conoscenza del vino italiano è più ridotta rispetto all'America - spiega Giorgio Rodoni -. Sono praticamente ignoti i vini italiani, eccetto i grandi nomi come Banfi, Zonin, Fontanafredda e pochi altri. I vini francesi la fanno da padrone sulla fascia alta, mentre per quella medio bassa sono gli australiani ad essere ben posizionati”. Il mercato a stelle e strisce - È chiaro che un viticoltore medio-piccolo rischi di fare la parte di Davide contro Golia, se paragonato ai numeri dei grandi brand industriali. Eppure nulla è perduto, sempre che si badi alla qualità. “Dipende tutto dal tipo di vino e dall'importatore per gli Usa
novembre 2014 zionali dei ristoranti. Questi distributori nazionali danno al ristoratore una soluzione completa di prodotti, dal sale da cucina alla frutta e verdura, sino al vino. Questo fa sì che nella carta dei vini siano presenti oltre dieci Cabernet Sauvignon, tutti della Napa Valley. E questo trend non può che incidere sul gusto del consumatore finale”.
- prosegue Cassani -. Per un vino dal prezzo contenuto, l'importatore ha bisogno di un certo volume, mentre per prodotti di pregio si può parlare anche di quantità limitate. Nel nostro caso, per esempio, non c'è un minimo perché consolidiamo prodotti di diverse cantine. Va da sé, ovviamente, che la registrazione presso la Fda (Food and Drug Administration, ndr) comporta dei costi, sia per l'importatore che per la cantina influenzando, di fatto, le potenziali quantità”. Per lavorare nel mercato Usa, infatti, ogni importatore dev'essere in possesso di una licenza per ciascuno Stato, lo stesso dicasi se vuole distribuire anche i prodotti. “Come quasi tutto negli Stati Uniti, le tasse variano da Stato a Stato e non incidono in maniera esponenziale precisa Cassani -. Non ci sono accise, ma quello che incide maggiormente è il cambio euro-dollaro. Ad esempio, una bottiglia che costa 5 euro in Italia, costerebbe 6,72 dollari negli Stati Uniti, escludendo il trasporto e un eventuale ricarico dell'importare (del potenziale distributore) e dell'enoteca. Di massima, bisogna considerare che il vino costa all’importatore, tenuto conto i costi di import, quasi il doppio per i vini sotto i 10 euro. Va da sé che salendo di prezzo i costi incidono meno, ma allo stesso tempo c’è meno mercato per quella fascia di prodotto”. A conti fatti, dunque, la qualità media dei vini italiani presenti nel mercato americano è prevalentemente bassa o medio-bassa, soprattutto negli Stati centrali molto meno cosmopoliti. “In genere quello che troviamo nella nostra Gdo è praticamente equivalente a quello che si può trovare nella maggior parte delle enoteche Usa. Ovviamente esistono delle eccezioni che si concentrano su prodotti di nicchia e sull'alta qualità. Fortunatamente, infatti, il mercato si sta evolvendo e apprezza sempre di più vini particolari e di fasce più alte. Questa evoluzione è anche dovuta alla crescita del mercato delle microbreweries, che hanno innalzato la ricerca del prodotto autentico e di qualità”. Nella fascia medio-alta sono i Supertuscan, i Barolo, Brunello e i vari Prosecchi a fare la parte del leone. Anche i vitigni internazionali sono molto apprezzati, soprattutto perché i prodotti francesi prima, e quelli della Napa Valley adesso, agiscono da trend setter. “I prodotti della Napa sono incentivati sia dallo Stato che dai grandi fornitori na-
Il mercato d'Oriente - Se posizionarsi nel mercato americano sembra un'impresa titanica, la situazione diventa ancor più complicata in Asia. Per non perdere tempo e denaro, dunque, è bene affidarsi a professionisti che conoscano direttamente il complesso mosaico commerciale d'Oriente. Secondo Rodoni per i prodotti di nicchia, ad esempio, è più strategico concentrarsi su mercati già affermati come Giappone, Taiwan, Hong Kong e Singapore, perché la clientela media è più disposta ad accettare prodotti particolari, non necessariamente di marchi noti. In quei mercati, infatti, la qualità media dei vini italiani è superiore a quelli presenti nel mercato a stelle e strisce. In Cina, considerato da molti il nuovo Eldorado per i vini made in Italy, la lotta si fa ancor più agguerrita. “Le potenzialità in Cina sono praticamente infinite, ma non è come dirlo - prosegue Rodoni -. È necessario, infatti, trovare il canale e il segmento di mercato giusti, prima di lanciarsi a capofitto nell'impresa, soprattutto se si mira ad avere un rapporto consolidato e duraturo. Inoltre, non è semplice lavorare con il mercato cinese perché le nostre culture commerciali sono estremamente diverse. D'altra parte la Cina è un mercato giovane, nel quale solo un piccolo segmento di popolazione è preparato ad accettare prodotti occidentali, e anche quella nicchia si concentra principalmente sui grandi brand”. Penetrare il mercato cinese si rivela un'impresa complicata anche per le regolamentazioni, le dinamiche “particolari” e le accise che nei mercati più maturi sono assenti. Senza contare che in Cina la qualità dei vini italiani è, in genere, medio-bassa con picchi di livello alto, dov'è facile trovare nomi altisonanti come Gaja. “I vini francesi sono di gran lunga quelli più popolari, - continua Rodoni - assieme a quelli australiani che, da qualche anno a questa parte, stanno crescendo in popolarità”. Nella carta dei vini dei ristoranti asiatici è tutto un fiorire di Bordeaux, Champagne, Cabernet Sauvignon e Syrah sia australiani che della Napa Valley, oltre qualche vino cileno e sudafricano. “Molto raramente si trovano dei vini italiani, se non i Chianti e Brunello di grandi marche”. Come invertire il trend? Se come abbiamo visto i mercati asiatici e americani sono estremamente complessi e frammentati, per riuscire a spingere il made in Italy in maniera credibile occorrerebbe il “famoso sistema Italia”, che sulla carta piace tanto alle Istituzioni e ai territori vinicoli, ma che di fatto stenta a decollare. “Purtroppo l'Italia è molto più individualista rispetto ad altri Paesi, come ad esempio la Francia - spiegano Cassani e Rodoni - e per questo motivo il lavoro di Consorzi e Camere di Commercio non riesce a difendere l'autenticità del prodotto italiano, rendendo più difficile la penetrazione del mercato”.
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IL PROGETTO
Un nuovo modo per scoprire le cantine, grazie alla collaborazione tra Consorzio di Tutela, Turismo Bergamo e Promoisola
Valcalepio, ora c'è anche il wine tour in pullman
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l Consorzio Tutela del Valcalepio, Turismo Bergamo e Promoisola hanno deciso, in collaborazione con la Regione Lombardia e con la Camera di Commercio di Bergamo di creare una nuova opportunità per tutti gli appassionati di enogastronomia, siano essi residenti in Bergamasca o turisti, italiani e stranieri. Ogni sabato, dalle 14 alle 19, verrà organizzato un Wine Tour in pullman che porterà gli ospiti in visita a due aziende vitivinicole del territorio. Le aziende si alterneranno nell'ospitare i visitatori con un calendario che sarà pubblicato e aggiornato di settimana in settimana sulla pagina facebook “Consorzio Tutela Valcalepio” e mensilmente sul sito www.valcalepio.org. Il pullman par tirà dal piazzale della Malpensata, a Bergamo, e rientrerà nello stesso punto alle 19. In tutto cinque ore di visita che permetteranno di conoscere da vicino il mondo del Valcalepio, assaggiare i vari prodotti e comprendere l'evoluzione di un territorio. Il progetto del wine tour nasce del resto proprio allo scopo di coinvolgere nella vita enologica bergamasca il maggior numero possibile di turisti e appassionati. Per raggiungere tale obiettivo il tour sarà disponibile in doppia lingua (italiano e inglese) e sarà guidato da un sommelier Ais, un esper to che accompagnerà gli ospiti alla scoperta del panorama vinicolo bergamasco, spie-
gherà la sua storia enologica e scenderà nello specifico dei singoli prodotti. Un’idea che assume una rilevanza ancora maggiore se si pensa a quel che accadrà l'anno prossimo, al palcoscenico che una kermesse come Expo, a Milano, sarà in grado di offrirà ad un territorio limitrofo come quello orobico. È un’occasione da non perdere, quindi, e la sfida è quella di coinvolgere nel tour enogastronomico il maggior numero di appassionati e turisti che arriveranno da tutto il mondo. Ad inaugurare l’iniziativa sono stati la Cantina Sociale Bergamasca di San Paolo d’Argon e l’azienda agricola Tallarini di Gandosso, entrambe oggetto di viste lo scorso 25 ottobre. Partecipare al wine tour è semplicissimo: è sufficiente iscriversi attraverso l’indirizzo e-mail winetour@valcalepio.org o contattare il Consorzio al numero telefonico 035.953957 e si riceveranno tutte le informazioni necessarie. La partecipazione è aperta anche a gruppi di persone, previo contatto con il Consorzio per poter organizzare al meglio le esigenze dei visitatori. Il costo del tour è stato fissato a 25 euro a persona.
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LA MANIFESTAZIONE
Gli artisti del gusto protagonisti a GourmArte Appuntamento dal 29 novembre al 1° dicembre alla Fiera di Bergamo. La regione ospite quest'anno sarà la Sardegna
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livicoltori che commissionano opere da tenere tra gli olivi, artisti come Ugo Nespolo che creano installazioni da ammirare tra le vigne, ristoranti che diventano gallerie di quadri e chef che si ispirano a tele d'autore per creare nuovi piatti. L'arte cerca sempre più la compagnia del cibo e del vino. Perché i buongustai, oltre al buono cercano il bello. Cucina e arte riunite in un unico spazio: succede nei grandi musei, dove si punta al palato del visitatore, stuzzicandolo con piatti prelibati che riecheggiano la mostra in corso in ambienti che corredano la struttura museale. Ma dove troviamo questo binomio vincente? Nel mondo ci sono ristoranti di livello che operano nei musei di rango a partire dal Guggenheim di New York, ma quello che Promoberg propone rappresenta qualcosa di unico. Giocando sull’acronimo: gourmet e arte, si propone la terza edizione di GourmArte, la fusione perfetta tra il bello dell’arte e il buono della cucina dal 29 novembre al 1° dicembre alla Fiera di Bergamo. Il format della parte “gourmand” dell’evento darà la possibilità a ghiottoni e gourmettari di alternare la degustazione di specialità enogastronomiche lombarde ad altre, provenienti da terri-
tori extra, ma “naturalizzate lombarde” o ancora di assaggiare vini che fanno parte del patrimonio vitivinicolo della regione Lombardia. Un programma nutritissimo, appositamente ideato per consentire a tutti i cultori della buona tavola di assaggiare il meglio della proposta enogastronomica a prezzi accessibili, ma anche un “educational tour” tra le cose buone che potrà concludersi anche con l’acquisto dei prodotti degustati con un comodo sistema di asporto, predisposto all’uscita del percorso. La zona ristorante, attrezzata con cucine a vista, è invece dedicata agli “Interpreti del Gusto”: cuochi e ristoratori che hanno contribuito a elevare e divulgare il buon nome della ristorazio-
ne lombarda in Italia e nel mondo. Qui, con una selezione di piatti e di cuochi ogni giorno diversa, si potranno gustare le specialità che hanno reso celebri Felice Lo Basso di Unico (Milano), Stefano Masanti del Cantinone di Madesimo, Marco Sacco del Piccolo Lago di Verbania, e molti altri. In un contesto di eleganza e relax, degno di un ristorante stellato. Un’altra grande novità golosa dell’edizione 2014 è rappresentata dalla regione ospite: ad animare GourmArte ci saranno i migliori produttori e gli chef di un territorio dalla tradizione enogastronomica straordinaria: la Sardegna. Accanto a GourmArte, un altro evento tutto da gustare: artisticamente parlando, s’intende. Bergamo Arte Fiera, dove si avrà la possibilità di ritrovare, tra le molte opere che saranno esposte, la modernità degli artisti che, spesso e volentieri utilizzano elementi relativi al cibo e alla tavola creando opere originali e di tendenza. È il caso delle tavole di Daniel Spoerri con la sua “Eat Art”, che rappresenta in questo senso una delle più geniali creazioni. Uno capace di rendere immortali e famose tavole apparecchiate e piatti sporchi.
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LA TAVOLA ALTERNATIVA di Laura Ceresoli
Frutta e ortaggi,
che fatica salvare la biodiversità Non sono solo le logiche della produzione industriale e della grande distribuzione ad aver portato sulla soglia dell’estinzione tante varietà. «Anche i consumatori non sono così propensi ad assaggiare ciò che si allontana dai gusti standard», dice il seed saver Giambattista Rossi. E pensare che tra i prodotti dimenticati ci sono pomodori più ricchi di vitamina A e C e un fagiolo che non provoca gonfiori
C'
era un tempo in cui le pesche si raccoglievano liberamente dagli alberi, nelle minestre dei contadini faceva capolino il fagiolo monachello e il basilico non era solo un’insipida foglia verde, ma una piantina capace di solleticare le narici con il suo intenso profumo. Un’epoca in cui i pomodori conservavano ancora il loro originario colore giallo paglierino simile all’oro e le civiltà contadine sapevano far festa per un buon raccolto di frumento. Oggi, di quegli anni resta solo un lontano ricordo. I vasti
Lo chef
terreni agricoli hanno lasciato spazio ai bancali dei supermercati dove la scelta di frutta e verdura è limitata a una nicchia selezionata di marchi. A decretarne il successo sono state le industrie alimentari che hanno privilegiato la coltivazione di alcune varietà a scapito di altre che, seppur gustose e saporite, sono andate via via scomparendo. A svelare questi retroscena è Giambattista Rossi che nel suo orto conservativo riproduce in purezza biodiversità
che corrono il rischio di estinguersi. Il coordinatore del gruppo Civiltà contadina di Bergamo è un salvatore di piante rare o, per dirla all’inglese, un “seeds saver” la cui missione è quella di ricercare e diffondere sementi rare di varietà primitive legate alle coltivazioni locali. Relatore a un incontro formativo organizzato all’iSchool di via Ghislandi a Bergamo, Rossi ha guidato gli studenti attraverso un viaggio nel passato alla riscoperta di quei valori contadini, ormai sopiti, basati sulla condivisione e la li-
CORNALI: «I CLIENTI DOVREBBERO FARSI QUALCHE Cotte, crude o alla griglia, anche le varietà dimenticate potrebbero contribuire a rendere un piatto insolito. Ma solleticare i palati dei bergamaschi, così attaccati alle loro radici e ai gusti tradizionali, non è una missione sempre possibile. A spiegare l’evoluzione di frutti e ortaggi alternativi, dall’orto alla padella, è Mario Cornali. Chef del ristorante Collina di Almenno San Bartolomeo, ma anche scrittore, appassionato d’arte e docente dell’iSchool di Bergamo, questo cuoco orobico è un profondo conoscitore del territorio, della cultura e dei prodotti locali. Cosa ne pensa dell’utilizzo delle biodiversità per creare piatti alternativi? «Non c’è un ortaggio o un frutto che non possa essere cucinato, secondo me. Le biodiversità dovrebbero essere inserite in un contesto di normalità. L’unico problema è la reperibilità e la conservazione di queste varietà. Bisogna fare educazione e formazione sui prodotti. Pensiamo, ad esempio, al mais di rostrato rosso di Rovetta. Slow Food ha dimostrato come la
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Mario Cornali
farina di questo mais, rigorosamente macinata in un mulino a pietra con certificazione biologica, si presti alla preparazione dei più svariati piatti. È una farina meno collosa ma che ha più sapore perché ha determinate caratteristiche. Eppure molta gente ancora non la conosce». Gli chef dovrebbero cambiare il loro approccio verso la cucina? «Sì, altrimenti si rischia di cadere in operazioni commerciali dove si cucina un piatto
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Giambattista Rossi
bertà. Tuttavia, la progressiva scomparsa di questa infinita varietà di ortaggi, cereali, legumi e frutti dalle tavole dei bergamaschi non è solo attribuibile alle scelte commerciali della grande distribuzione ma anche all’attitudine del consumatore, sempre più appiattito verso gusti standard: «Non tutti i clienti, quando vanno al ristorante, amano la sorpresa – spiega Rossi –, la maggior parte della gente non è pronta a mangiare un pomodoro che ha un giusto diverso da quello che si compra al supermercato. Quando uno chef si ingegna per cucinare piatti con le biodiversità non è detto che il successo sia assicurato. Serve curiosità da parte del commensale e una certa propensione a sperimentare e a scoprire la novità, altrimenti è inutile. Ricordo che qualche anno fa la nostra associazione aveva fornito a un noto cuoco di Bergamo una particolare varietà di mandarini siciliani. Avrebbe voluto farne una salsa ma poi ha rinunciato perché quegli agrumi erano troppo saporiti e i suoi clienti non
avrebbero apprezzato un sapore così diverso da quello a cui erano abituati». Aprire la mente verso nuove frontiere del gusto consente di scoprire un mondo parallelo dove non sono soltanto i pomodori Cuore di bue, i Ramati e i San Marzano a farla da padrone. I peperoncini sono verdi, gialli, rossi, viola, a campana, a forma di cornetto e tra i fagioli borlotti e cannellini sono soltanto una minima parte di quanto la natura può offrire. Pensiamo per esempio al fagiolo del Tone. Trovato in località Rova del comune di Gazzaniga da Antonio Ghilardini, detto Tone, da cui ha preso il nome, questo legume è l’ingrediente principe della trippa dei morti, piatto tradizionale di Caravaggio. Negli orti conservativi dei seeds savers si possono trovare ortaggi talmente sorprendenti da sembrare il frutto delle più moderne ibridazioni: un pomodoro con quattro volte più vitamina A degli altri e uno con il doppio di vitamina C; una zucca capace di conservarsi a temperatura ambiente per oltre due anni; un fagiolo che non provoca sgradevoli gonfiori; un cocomero di grandi dimensioni immune a tutte le comuni malattie della sua specie; una melanzana che cresce anche in montagna ed è priva del suo caratteristico gusto amarognolo. E la lista è ancora lunghissima. Insomma, i semi devono tornare alla terra per poi riempire le nostre tavole e nutrire con
gusto. Per far sì che non si estinguano e possano essere passati ai posteri, è necessario continuare a condividerli e a tramandarli. Serve, però, una costante attenzione alla loro tutela: «Salvare rare varietà di ortaggi italiani tramandate da generazioni può permetterci di affrontare le manipolazioni senza controllo – conclude Rossi –. La tutela delle biodiversità può però diventare un grosso problema nel momento in cui la coltivazione degli ogm avviene all’aperto e può esserci contagio da una pianta transgenica a una autoctona. È necessario mantenere una distanza significativa fra i campi coltivati con biotecnologie e quelli biologici, l’impollinazione casuale infatti rischia di danneggiare e far sparire le colture biologiche, rendendo impossibile la coesistenza fra le due diverse colture». Essere conservatori di semi è un compito spesso impegnativo e richiede assistenza e preparazione. Civiltà contadina fa prestiti di semi ai soci che vogliono diventare custodi di vecchie varietà. A fine stagione i semi vanno restituiti con il doppio della quantità prestata affinché si possa continuare a elargire ad altri soci. Il coltivatore deve restituire un seme pulito, sano, e, naturalmente, senza ibridazioni.
DOMANDA IN PIÙ SU CIÒ CHE C’È NEL PIATTO» alternativo solo per scopi promozionali. Pensiamo alla moda del Kamut. Ce lo hanno propinato come una varietà alternativa. Ci hanno fatto credere che hanno scoperchiato un sarcofago e hanno trovato una mummia con in mano un seme di kamut, ma alla fine è solo un marchio». Lei ama dialogare con i suoi clienti? «Quando si parla di terra mi piace usare il termine “alleanza”. Io ho bisogno dell’alleanza di chi frequenta il mio ristorante affinché capisca le caratteristiche del prodotto. Non è un fatto solo tecnico ma anche etico, culturale e rurale. Nel mio piccolo ho sempre cercato di coinvolgere il cliente. Qualcuno, anni fa, mi ha persino chiesto: “Ah, ma nel lago ci sono ancora i pesci?”. Oppure: “Esiste un mais in natura che non è quello che trovo al supermercato nel pacchetto già macinato?”. Questo la dice lunga sul grado di consapevolezza dell’utenza». Cosa si può fare per sensibilizzare di più i clienti sul tema delle biodiversità? «C’è bisogno della partecipazione di più soggetti: cuochi, scuole, ristoratori, produttori ma anche e, soprattutto, del cliente. Dob-
biamo diventare tutti protagonisti del cerchio. Se uno produce ma non c’è chi cucina, manca un tassello. Idem se uno produce, c’è chi cucina ma non c’è chi mangia. Oppure se c’è chi mangia ma manca chi produce. Tutti devono contribuire. Il frequentatore abituale di locali è determinante, dovrebbe imparare a essere più curioso e farsi una domanda in più su quello che trova a tavola». Ma quando i clienti assaggiano un ortaggio diverso da quello che sono soliti trovare sui bancali del supermercato sono aperti alla novità? «Molti purtroppo hanno gusti standard. Spesso chi viene al ristorante ha già un’idea ben precisa di quello che vuole mangiare e se il giusto che trova nel piatto non è quello che si aspetta è facile che storca il naso. Il pomodoro non è sempre lo stesso pomodoro. Dobbiamo accettare questo per far sì che si ritorni a utilizzare la biodiversità in cucina».
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L'AZIENDA di Leo Bartoli
Dalla ricotta alle classiche mozzarelle fior di latte, dalle burrate fino alle scamorze e provole affumicate: tutto il mondo vaccino della pasta filata dà il meglio in via Spino grazie alla famiglia Cavaliere
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"Dal Casaro", la tradizione pugliese ha messo radici a Bergamo el caseificio di città (eccezione nel panorama caseario nostrano) una famiglia trapiantata dalla Puglia lavora senza sosta: si fanno i formaggi di notte e si vendono di giorno. “Poi, ogni tanto, si dorme anche, ma solo quando abbiamo finito le consegne”, scherza, Ruggiero Cavaliere, primogenito di una famiglia che un anno e mezzo fa ha lasciato Barletta per una combinazione legata al padre, che per motivi di salute non poteva più proseguire nella sua attività (un avviato studio di commercialista), ed è approdata
in blocco a Bergamo, dove già risiedeva una zia, decidendo di aprire un’attività già iniziata da uno dei figli: “un caseificio al nord per esaltare i nostri prodotti e lavorare solo con ingredienti di prima qualità”. “I sacrifici ci sono stati spiega Ruggiero -, i primi mesi non ci siamo fermati un attimo: abbiamo seminato, come si suol dire, facendo conoscere ai locali del territorio le nostre mozzarelle, scamorze, burrate. Sapevamo che per sfondare in un mercato già consolidato, occorreva proporre un
prodotto superiore, senza scendere a compromessi con la qualità e la freschezza delle materie prime: e così è stato”. L’avvio della produzione, dopo aver ristrutturato e attrezzato ad hoc un capannone in via Spino 10 (dietro all’Eurospin), porta una data simbolica: il 23 settembre del 2013, giorno di San Padre Pio, di cui papà Giuseppe è profondamente devoto, è partita l’attività del caseificio "Dal Casaro", che ogni notte lavora quasi 800 litri di latte di montagna, prima qualità. Una volta stabi-
lita la dimora (ma come è difficile trovare a Bergamo una casa per sei…”, spiegano loro), i Cavaliere si sono subito divisi i compiti: papà Giuseppe è amministratore unico della società, mamma Liliana si occupa del piccolo spaccio per la vendita al dettaglio accanto al caseificio, Alberto, 26 anni, ma con già alle spalle una buona esperienza nel settore (oltre a una laurea in Economia e Commercio), coadiuvato dalle sorelle Cristina (24) e Tiziana (22), mentre a Ruggiero spetta un altro compito delicatissimo, la
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responsabilità commerciale. “Tutti sono ruoli delicati, fondamentali - spiega Ruggiero -, mio fratello e le mie sorelle lavorano instancabilmente il latte tutta la notte, a volte dalle 11 della sera prima, fino alle 6-7 del mattino, per soddisfare le esigenze della clientela che io, macinando centinaia di chilometri al giorno per la Bergamasca in questi mesi, sono riuscito a far crescere”. Dalla ricotta alle classiche mozzarelle fior di latte, alle burrate, fino alle scamorze e provole affumicate: tutto l’universo vaccino della pasta filata, confezionato nelle apposite vaschette, viene elaborato dai Cavaliere che pur lascian-
i ristoranti più noti di città e provincia. “A tutti il nostro prodotto era piaciuto subito: c’era per alcuni l’ostacolo del prezzo, perché una mozzarella di qualità non può essere pagata alla stregua di una scadente. Il mercato spesso abbonda di situazioni borderline, con scadenze ballerine e soprattutto alcune cagliate estere congelate che a nostro parere non tutelano a sufficienza il consumatore. Per questo noi proponiamo sempre materie prime al top e dopo una prima fase di rodaggio, devo dire che Bergamo sta cominciando a recepire il nostro messaggio”. Tra i primi a dare fiducia ai Cavaliere è stato Stefano Consonni di Città Alta, poi Alfredo Elzi di Porta Osio: adesso si sono aggiunti tra gli altri anche 30 Polenta all’Oriocenter, molte pizzerie tra cui Marechiaro, La Torre e Basilico, oltre ad alcuni “santuari” della storia della ristorazione orobica come la Brughiera, Arri’s
do una scadenza di qualche giorno, consigliano i clienti “di consumarli il giorno stesso o al massimo quello dopo, per assaporare tutta la freschezza del prodotto, senza neanche farli transitare dal frigo: tanto se il giorno dopo ne avete ancora voglia, in poche ore ve li riportiamo a casa”. Molta produzione su ordinazione, quindi, che adesso coinvolge tanti negozi e sta facendosi largo anche tra le pizzerie e
Bar, da Giuliana, il Giopì e la Margì, mentre proseguono le trattative anche con altri locali: ad esempio dall’Hotel Milano di Bratto sono venuti personalmente in caseificio a comprare dei prodotti. “Se pensiamo che siamo al lavoro solo da 14 mesi, il bilancio è sicuramente positivo: la cosa più bella è aver aiutato a far crescere presso i nostri clienti la vera cultura della mozzarella italiana di qualità”.
L’INDAGINE
Bar, il caffè al centro dell’esperienza anche per i giovani
Ben il 96% dei giovani d’oggi frequenta il bar, per il 30% è un’abitudine quotidiana e la maggior parte di questi lo vive come un’esperienza di relax e momento per incontrare e conoscere nuove persone. È il dato emerso dalla prima ricerca dell’Osservatorio Illy sul caffè nella cultura giovanile – Young Coffee Culture, nata dall’esigenza dell’azienda di individuare le attitudini delle nuove generazioni nei confronti del bar e del consumo di caffè, in seguito ai cambiamenti economici e sociali che hanno coinvolto il mondo intero. Di fronte alla rivoluzione della food & drink experience, il rito del caffè – dice l’indagine effettuata sul campione 18-34 anni – non cambia, ma si modifica il modo in cui questo viene vissuto. Oltre a frequentare i bar, l’80% dei giovani dichiara di averne uno preferito (il 39% indica in due/tre il numero di bar o locali preferiti, ma il 29,2% ne ha uno solo) e di andarci con gli amici (60,5%). Amano anche starci a lungo, tra i 15 e i 45 minuti (42,5%), ma anche un’ora (21,8%) e il relax (58,6%) e l’incontro con gli amici (33,7%), a qualsiasi ora, sono i tratti salienti dell’esperienza. Prima, tra le occasioni di fruizione, viene la colazione (54,2%) e, all’interno del paniere dei consumi al bar, il caffè raccoglie il 53% di massima importanza. Il caffè costituisce, così, anche per i giovani l’esperienza-principe del consumo al bar (il 92% beve il caffè al bar), mentre l’happy hour sembra aver ormai perso smalto nell’immaginario giovanile (solo il 10,4% lo indica come esperienza al bar). Quanto al prodotto, l’origine delle materie prime conquista il centro dell’esperienza (il 60%), l’espresso classico rimane l'archetipo delle tipologie (per il 66%) e la crema/schiumetta è sempre gradita (48%). Tra i giovani la triade virtuosa per il futuro dell’offerta comprende musica, personale gentile ed efficiente, caffè di qualità.
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L'INIZIATIVA L’INIZIATIVA
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Ritorna Trentacinqueuro.it ... e anticipa le feste! Ed è già Natale... anticipiamo le feste", questo è lo slogan che accompagna l'iniziativa commerciale. Per 35 giorni, infatti, dal 5 novembre al 10 dicembre, i ristoranti bergamaschi aderenti al gruppo creato a inizio anno er 35 giorni, infatti, dal 5 novembre al 10 dicembre i risto(consultabili sul sito www.trentacinqueuro.it) proporranno ranti aderenti al gruppo creato a inizio anno (consultabili pasti completi a 35 euro tutto compreso. sul sito www.trentacinqueuro.it) proporranno pasti comple“Visto il successo della precedente iniziativa - dice Nicola ti a 35 euro tutto compreso. Zanini, coordinatore del gruppo - abbiamo pensato di ripro“Ed è già Natale…anticipiamo le feste”, questo è lo slogan porci nuovamente per 35 giorni, anticipando le festività natache accompagnerà questa iniziativa commerciale. lizie”. “Ricordo quando ero ragazzo - prosegue il ristoratore «Visto il successo della precedente iniziativa - dice Nicola di Borgo Santa Caterina - quando le festività natalizie al ristoZanini, coordinatore del gruppo - abbiamo pensato di riranteproporci non si limitavano ai soli dieci giornianticipando che precedevano il nuovamente per 35 giorni, le festività Natale”. “Ora le cose sono cambiate per una serie di motivi natalizie”. “Ricordo quando ero ragazzo - prosegue il ristopiù oratore menodinoti, da Santa qui l’idea quindi- quando di proporre questa natainiBorgo Caterina le festività ziativa in tale periodo, abbiamo voglia di stimolare la gente lizie al ristorante non si limitavano ai soli dieci giorni che ad uscire di più eiltornare precedevano Natale».a frequentare i nostri ristoranti a prezzi vantaggiosi”. «Ora le cose sono cambiate per una serie di motivi più o “Permeno il 2015 inoltre - anticipa Zanini stiamo già pensando a noti, da qui l’idea quindi di- proporre questa iniziativa qualcosa nuovo. Siamo un voglia folto gruppo e probabilmente in talediperiodo, abbiamo di stimolare la gente ad qualche nuova insegna aderirà ai nostri progetti, insieme a uscire di più e tornare a frequentare i nostriedristoranti dobbiamo a promuoverci anche al di fuori del territoprezzi riuscire vantaggiosi». rio bergamasco. contattoZanini con tre grossi gruppi pre«Per il 2015 Siamo inoltre in - anticipa - stiamo già pensansentidonella bergamasca al fine di creare collaborazioni per la a qualcosa di nuovo. Siamo un folto gruppo e probabilmente qualche nuova insegna aderirà ai nostri promozione del gruppo e del nostro territorio nelleprogetti, provinceed insieme dobbiamo riuscire a promuoverci anche al di fuori limitrofe. Pensiamo infatti che anche attraverso l’enogastrodelpassi territorio bergamasco. Siamo in contatto con tre grossi nomia il rilancio della nostra economia e nello specifigruppi presenti nella bergamasca al fine di creare collaboco del settore del turismo”. razionieatte alla promozione del gruppo earchitettonico del nostro territo“Bergamo provincia hanno un patrimonio ed rio nelle province limitrofe. Pensiamo artistico invidiabile e con lo sviluppo che c’è stato negli ultiinfattidell’aeroporto che anche attraverso l’enomi anni “Caravaggio” gastronomia passi il rilancio della sarebbe un vero peccato non sfrutnostra economia e nello specifico tarlo appieno. I nostri ristoranti del settore del turismo». «Bergamo e provin-
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cia hanno un patrimonio architettonico ed artistico invidiabievidenzia Zanini - sono un’eccellenza sono un’attrattiva le e con lo sviluppo che c’è stato neglie ultimi anni dell’aero-da non sottovalutare. le un nostre sono porto “Caravaggio”Spesso sarebbe verotavole peccato nonfrequentate sfruttarlo daappieno. turisti, anche che scelgono di trascorrere qualI nostri stranieri, ristoranti sono un’eccellenza e sono un’attrattiva sottovalutare. le le nostre tavole sono che nottedaa non Bergamo per poterSpesso gustare nostre specialità. frequentate da turisti, anche stranieri, che scelgono di Anche attraverso di noi deve passare la promozione del tertrascorrere qualche notte a ad Bergamo ritorio, che deve continuare essere,per ed poter anchegustare più, tralele nostreprincipali specialità. Ancheeconomiche”. attraverso di noi deve passare la nostre risorse del territorio, che deve essere, I promozione ristoratori Trentacinqueuro.it hannocontinuare quindi le ad idee molto ed anche più, tra le nostre principali risorse economiche». chiare sulle loro iniziative, ora non resta che aspettare il I ristoratori TRENTACINQUEURO.IT quindi le idee 2015 per vedere cosa verrà messo inhanno scena, intanto però molto chiare sulle loro iniziative, ora non resta che aspetnon fatevi sfuggire questi 35 giorni per vivere un’emozione tare il 2015 aderenti. per vedere cosa verrà messo in scena, intannei ristoranti to però non fatevi sfuggire questi 35 giorni per vivere un’emozione nei ristoranti aderenti.
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L'ESPOSIZIONE UNIVERSALE
novembre 2014
Rota: "L'Expo? Un'occasione da cogliere facendo sistema"
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L'ex presidente del Consorzio Tutela Valcalepio è il nuovo delegato per l'Esposizione milanese: "Non ha senso dividersi sul vino. A Milano dobbiamo andare tutti insieme" l Consorzio Tutela Valcalepio è ben consapevole dell’imperdibile occasione di promozione e divulgazione offerta da un evento come Expo 2015. Proprio in vista della kermesse di rilevanza internazionale - interamente incentrata sul tema “Nutrire il pianeta” - e consapevoli dell’importanza ricoperta dall’alimento vino all’interno dell'Esposizione universale e del ruolo fondamentale che l’enologia svolge sul territorio Bergamasco, il Consiglio direttivo del Consorzio Tutela Valcalepio ha deciso di creare una struttura in grado di agire in maniera snella ed efficace sul piano Expo 2015. A questo scopo si è scelto di incaricare un membro del Comitato esecutivo, Enrico Rota, ad agire per delega del presidente. Rota si occuperà della gestione dei rapporti istituzionali e della strutturazione dei progetti che il Consorzio Tutela Valcalepio intende portare avanti nel corso del prossimo anno in nome di tutti i produttori orobici, associati e non. “Ci siamo confrontati e dopo opportune considerazioni - ha affermato il presidente Medolago Albani - abbiamo identificato la persona più adatta a ricoprire questo ruolo”. Enrico Rota, che ha ricoperto la carica di presidente del Consorzio nello scorso triennio, si è detto estremamente attratto da questo incarico. “Sono pronto a farmi carico di tutte le responsabilità che questo ruolo comporta - ha sottolineato -. Le idee sono tante e l’aspetto fondamentale è trasformarle in progetti realizzabili e promozionalmente interessanti. Il Consorzio di Tutela farà la sua parte e la farà sino in fondo. Da sempre invitiamo tutti i vitivinicoltori a far sistema, chiedendo di abbandonare quelle superflue prese di posizio-
ne che, troppe volte, servono solo a soddisfare interessi individuali. Il motto coniato a metà del 2011 - "uniti si può" - non è uno slogan pubblicitario, ma un convinto e necessario modus operandi. Lo ripeto con estrema convinzione: all’Expo dobbiamo andare tutti insieme. Qui non si tratta di stilare classifiche o dare punteggi, questi li lasciamo a coloro che tutto pensano meno che alla vera difesa e valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti". "Come Consorzio - ha aggiunto Rota - stiamo lavorando con la nostra Camera di Commercio per una presenza del vino bergamasco a Milano. E sicuramente il progetto di un Fuori Salone del vino a Bergamo merita grande attenzione. La nostra città vuole e può essere una vera protagonista e abbiamo istituzioni capaci e motivate per fare bene. Inoltre, sarà interessante valutare altre proposte, nate in seno al Consorzio o giunte da terzi, perché mai come in questa circostanza, ribadisco, è fondamentale lavorare tutti assieme. Infine, fondamentale sarà trovare quelle giuste intese con le Associazioni di categoria dei commercianti, Ascom e Confesercenti, in modo da generare dei valori aggiunti necessari per impreziosire l’offerta enoturistica della nostra città e provincia, percorso già iniziato con i Wine Tour in capo al Consorzio”.
ALBERGHI, L’ASCOM RACCOGLIE DATI PER L’APP DI EXPO La Regione Lombardia sta sviluppando all’interno dell’Ecosistema digitale E015 un’applicazione web e mobile che aggregherà all’interno di un unico sistema tutti i dati (relativi a musei, teatri, strutture sportive, strutture di rilevanza turistica e servizi ricettivi) che saranno visualizzati da chi accederà all’applicazione. L’Ascom di Bergamo sta collaborando al progetto per aggiornare e implementare le informazioni a disposizione sul versante delle strutture ricettive. Il
servizio è gratuito. L’associazione si incarica di raccogliere, aggiornare e caricare i dati degli alberghi associati, iniziando con le informazioni utili di base richieste e una foto in formato digitale dell’albergo. Le attività interessate a partecipare possono scaricare del sito www.confcommercio.bg.it l’apposita scheda e inviarla debitamente compilata all’Ascom (fax 035 249848; email info@ascombg.it) oppure compilare la form direttamente online.
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TRADIZIONI
Bergamo golosa, fasti e declino del "Cinamomo confetto" di Leonardo Bloch
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ra le ragioni gastronomiche di irresolutezza esistenziale, il secolare dilemma a riguardo di quale sia, tra una scaglia di cacio ed una fetta di torta, l’ideale coronamento di un lauto convivio si distingue come quella di più chiara cifra bergamasca. La tacita preferenza che dalle nostre parti viene accordata al formaggio ha, tanto per cambiare, radici assai antiche. Fu infatti la dietetica medievale ad attribuire ai latticini un chiaro primato sopra ogni altra opzione di chiusura del pasto, in virtù della loro proprietà di sigillare lo stomaco agevolando la digestione. Per contro la pasticceria è un’arte di fioritura relativamente recente, il cui tardivo sbocciare trova motivazione nell’indisponibilità lungo gran parte del corso della storia di dolcificanti a buon mercato. Sino infatti al momento in cui, agli inizi dell’ottocento, fu messo a punto il procedimento industriale per la sua raffinazione dalle barbabietole, lo zucchero figurava tra gli ingredienti più esotici e costosi. In passato la voglia di dolce delle classi meno abbienti trovava dunque appagamento nell’utilizzo in cucina di miele e frutta passita, ma nella pratica lo spettro delle variazioni che era possibile declinarne risultava inevitabilmente piuttosto ristretto. Si prenda ad esempio il ricettario del Cocho Bergamasco, da cui si ricava una puntuale raffigurazione della nostra gastronomia nel periodo a cavallo tra sei e settecento. Delle 62 pietanze di cui si dà conto nel testo, solamente tre possono essere ascritte a pieno titolo alla famiglia dei dessert. Muovendo a ritroso nei secoli, ancor più episodica risulta nei trattati di cucina rinascimentali e medievali la comparsa di autentiche preparazioni di pasticceria. Del resto lo zucchero passava all’epoca per essere una spezia buona su ogni piatto: “non esiste vivanda che lo rifiuti”, sentenziava nel quattrocento l’autorevole gastroumanista Platina, a cui il botanico Costanzo Felici ribatteva ancor più categoricamente che “il zuccaro non guasta mai minestra”. Ciò non significa che cinquecento anni fa i dolciumi fossero del tutto sconosciuti. Scorrendo i menù dei banchetti nobiliari del tempo, si evince anzi che manicaretti di chiaro marchio zuccherino trovassero spazio tanto all’inizio
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quanto all’epilogo dei convivi. Nelle occasioni più formali capitava infatti di dare fuoco alle polveri addentando cialdoni, ciambelle, e pinocchiati. E dopo che in coda alle portate principali erano stati serviti formaggio e frutta candita, l’arrivo in sala di vino e confetti speziati segnalava con discrezione ai commensali che fosse ormai sopraggiunta l’ora di levare le tende. Sorprenderà forse apprendere che proprio all’elitario dominio della confetteria rinascimentale pertiene quello che tra i prodotti alimentari bergamaschi fu di gran lunga il primo ad assurgere a notorietà planetaria. La sua presenza è documentata nel XVI secolo sulle più raffinate tavole d’Europa: nel 1568 figura nientemeno che tra le imbandigioni dei festeggiamenti per le nozze di Guglielmo di Baviera con Renata di Lorena - evento di punta per il jet set dell’epoca. Il trattato di scalcheria (1584) di Giovan Battista Rossetti ne attesta altresì il gradimento presso una corte di alto profilo quale quella Estense, mentre un’epistola di Torquato Tasso lascia intendere che il poeta ne ricevesse regolari forniture addirittura a Napoli. Stiamo parlando del Cinamomo Confetto di Bergamo, il cui fulgido apogeo si consumò nel fugace intervallo di appena mezzo secolo. A descriverne autorevolmente caratteristiche e modalità di preparazione è il concittadino Paolo Suardi, compilatore del manuale di riferimento (il “Thesaurus Aromatariorum”) delle arti speziali ed aromatarie del cinquecento. La corteccia della cannella, privata del coriaceo strato esterno, veniva tagliata a sottili filamenti. Questi andavano scaldati a temperature crescenti con ripetute aggiunte di zucchero, di modo che fossero ricoperti da molteplici strati di glassa. La fama dei confetti così ottenuti fu certificata da Giovanni da Lezze, capitano di Bergamo alla fine del XVI secolo, il quale riferiva che la città “lavora confetterie in eccellenza di confetioni de ogni sorte in gran quantità et specialmente de cinamomi si mandano per tutte le città circonvicine, et la maggior par-
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te a Venezia”. Ancora il Suardi riportava invece tentativi di contraffazione azzardati da speziali di pochi scrupoli, assai probabilmente forestieri, che provavano a riprodurre il pungente aroma della cannella utilizzando della più economica polvere di zenzero. Singolare consorteria quella degli aromatari: oggi non sapremmo se inquadrarli tra i pizzicagnoli, i farmacisti o i pasticceri. Zucchero e spezie trovavano infatti impiego tanto in cucina quanto nella preparazione di medicamenti e confetti. A metà del cinquecento la corporazione assommava a Bergamo una ventina di associati: un numero esorbitante per un centro di nemmeno ventimila anime, se è vero che a Venezia – all’epoca principale piazza per lo smercio delle droghe – non si arrivava al centinaio di spezierie su una popolazione di quasi duecentomila unità. Arduo inferire se, a giustificazione di un così capillare presidio, i nostri concittadini di cinque secoli fa si distinguessero per ipocondria piuttosto che per golosità. È comunque assodato che non li si potesse certo tacciare di spilorceria, dato che quelli di cui si discorre erano articoli dai prezzi astronomici. Ancorché radiose, le fortune del Cinamomo Confetto si provarono ahimè piuttosto caduche. L’affermazione della rotta navale per le Indie che doppiava il Capo di Buona Speranza e l’afflusso di ingenti forniture dall’America centro-meridionale produssero una graduale caduta dei prezzi di spezie e zucchero, declassando nell’arco di qualche decennio il dolciume da sciccheria principesca a pasticca per quasi ogni tasca. Anche l’aulica denominazione fu presto volgarizzata nel vernacolare canelì. A Bergamo la produzione di confetti continuò a prosperare per un paio di secoli - ancora nel 1776 nel circondario si contavano ben 85 confetturieri - per poi imboccare un rapido declino che alla fine dell’ottocento ebbe epilogo con una mesta capitolazione. E chissà che nell’era dei Presìdi Slowfood, a quasi cinquecento anni da quel glorioso apogeo, i venti di riscoperta dei prodotti perduti non riescano ad infondere nuovo alito vitale a questo antico lustro della nostra tradizione gastronomica.
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FACECOOK
alla scoperta dei social chef
di Laura Ceresoli
Lei, originaria di Caravaggio, gestiva una scuola di cucina a Milano, lui si occupava di formazione aziendale, quando la Grecia ha bussato alla loro porta. Dall’anno scorso gestiscono Casa Doria: 18 posti letto, una ventina di coperti e in tavola i piatti della cucina italiana e bergamasca
Albergo e ristorante a due passi dal mare, a Creta la nuova vita di Isabella e Alessandro
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ontano dal caos cittadino, circondata dalla spiaggia incontaminata di Loutra a due passi dal mar Libico, sorge Casa Doria. Con i suoi 18 posti letto distribuiti in 8 camere e una ventina di coperti per il ristorante, questo caratteristico albergo situato nel sud dell’isola di Creta è gestito da un anno e mezzo dalla bergamasca Isabella Uberti Foppa, originaria di Caravaggio, e dal marito Alessandro Pajola. Per iniziare la loro nuova vita, i due coniugi hanno scelto un piccolo angolo di paradiso, lo stesso che ispirò le opere più belle di Nikos Kazantzakis, uno dei
massimi scrittori e poeti greci moderni. Prima di approdare qui lei, laureata in Economia e commercio all’Università di Bergamo, gestiva una scuola di cucina a Milano. Lui, invece, si occupava di formazione aziendale. Ma lo scorso anno un evento imprevisto ha cambiato per sempre il loro destino: «Cercavamo un posto dove iniziare una vita 2.0, molto tranquillo, isolato e che offrisse delle opportunità – racconta Isabella – e un bel giorno la Grecia ci ha cercati. A marzo 2013, durante la fiera “Fa’ la cosa giusta”, siamo stati contattatati dai
precedenti proprietari di Casa Doria per supportarli nella gestione del ristorante. Quattro mesi dopo avevamo deciso di cambiare vita e di fare di questa struttura la nostra nuova casa». Detto fatto. Oggi la coppia ha definitivamente salutato le nebbie della Val Padana in favore del caldo sole di Creta. All’ombra di un confortevole pergolato con una vista mozzafiato che si perde sul mare, Isa e Ale amano coccolare i propri clienti con colazioni abbondanti e cenette a base di pasta fresca impastata a mano, deliziosi spaghetti alle zuc-
L'INTERVISTA
«A volte mi devo arrendere e preparare Casoncelli Riesce a far conoscere la cucina bergamasca nel mondo? «Nel mondo forse è un po’ esagerato, anche se qui abbiamo clienti molto eterogenei, principalmente nord europei, ma abbiamo avuto anche diversi americani e persino una coppia di sudafricani». Con quali piatti? «Il piatto preferito in assoluto sono i casoncelli. Faccio anche dei biscotti con la farina della polenta per la colazione». A quali chef si ispira? «Nella mia scuola di cucina ho avuto la fortuna di conoscere davvero tanti maestri da cui ho appreso tanto. Palma D’Onofrio, ex Prova del Cuoco e autrice del libro e blog Sos Cuoca, non solo è stata una maestra perfetta ma è diventata una delle mia migliori amiche». È vero che gli stranieri hanno una visione stereotipata della cucina italiana? «Purtroppo sì. Io qui faccio molta formazione in tal Isabella Uberti Foppa
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chine e freschissima mozzarella di bufala. Tra le varie prelibatezze non possono certo mancare i tradizionali casoncelli alla bergamasca, come conferma Isabella in un suo recente post sulla sua pagina Facebook: «E dopo l’ennesima signora tedesca che lascia Casa Doria con la mia ricetta – scrive – non mi stupirei se il prossimo anno all’Oktoberfest servissero birra e casoncelli». E il consenso degli amici non si fa attendere: «Secondo me il prossimo anno l’Oktoberfest lo spostano a Casa Doria», commenta Laura. «Inventati una ricetta di pasta alla birra», le consiglia Roberta. Ma anche su Tripadvisor le recensioni positive non si risparmiano: su 47 commenti complessivi, 28 clienti giudicano Casa Doria “eccellente”, 10 “molto buono”, 2 “nella media”, solo 3 “scarso” e 4 “pessimo”. «Siamo stati a settembre a Casa Doria e dire che è una meraviglia è poco. Il cibo è squisito, curato e Isabella e Alessandro sono speciali per l’accoglienza, simpatia e esperienza. Non
vediamo l’ora di tornarci», scrive Roberta3954 da Siddi. E ancora: «I proprietari, due giovani italiani, sono gentili, simpatici e disponibili, e comunicano la sensazione di avere a che fare con amici e non con clienti – commenta Paolo D. di Cernusco sul Naviglio –. Il cibo (della cuoca Isa) è italiano principalmente, molto buono e si spende leggermente di più rispetto ad una taverna greca, giustamente... Colazione ottima ed abbondante. Unica nota: la mattina (siamo stati due giorni) è pieno di vespe che ti fanno compagnia mentre mangi, e la cosa può dare fastidio. Evidentemente le trappole naturali che ci sono non sono sufficienti». Isabella cerca sempre di accettare i consigli degli utenti commentando con garbo e umiltà ogni puntualizzazione, sia positiva che negativa: «Grazie mille per la bella recensione, onesta e genuina – ribatte –. La porta della camera è stata la mia croce della stagione, forse adesso ce l’ho fatta a ripararla... Molto gradito anche l’apprezzamento alla colazione che è stata attaccata in una successiva recensione, noi ce l’abbiamo messa tutto per migliorarla. Ho in cantiere nuove trappole naturali per le vespe, credo più efficaci... Cercheremo di mantenere la struttura ben calata nella realtà accontentando quelli, come te, che cercano pace e tranquillità».
alla carbonara» senso. Gli anni trascorsi in Cucinoteca mi hanno lasciato questa eredità. Avendo solo otto tavoli (20 coperti) posso permettermi di uscire e spiegare personalmente il menù e i piatti del giorno a tutti, cercando di lasciare delle nozioni che vadano oltre i luoghi comuni. A volte, però, mi devo arrendere e preparare dei Casoncelli alla carbonara». Quanto è importante Internet per promuovere la sua attività? «Tantissimo. Casa Doria si trova in una zona molto remota e isolata di Creta e non ci si passa per caso, ci si deve venire perché si conosce il posto». Ha una pagina Facebook per sponsorizzare i suoi prodotti? «Abbiamo una pagina Facebook che ci permette non solo di far conoscere l’albergo e il ristorante ma di creare continuità con i nostri ospiti». Cosa ne pensa delle recensioni di Tripadvisor? «Tanti clienti arrivano a Casa Doria grazie ai commenti letti, quindi è uno strumento per noi positivo». Come sono cambiati la ristorazione e il rapporto con i clienti grazie ai nuovi media? «Penso ci sia molta più conoscenza e consapevolezza. Abbiamo dei clienti che non alloggiano da noi ma che prenotano solo un tavolo appositamente per provare gli spaghetti alle zucchine o i casoncelli». Tornerebbe a lavorare a Bergamo? «Adesso no, in un futuro lontano magari sì».
Chef e camerieri
“Passaporto delle competenze”, lavorare all’estero è più facile Esperienza internazionale e conoscenza delle lingue sono un must del bagaglio professionale di chi lavora nei settori dell’accoglienza e della ristorazione. Per chi è alla ricerca di un impiego, tuttavia, può essere difficile spiegare e dimostrare ai datori di lavoro le caratteristiche di un ruolo specifico svolto in un altro paese, mentre questi ultimi hanno difficoltà a comprendere le effettive competenze di un potenziale collaboratore solamente esaminandone il curriculum. Una soluzione efficace è il "Passaporto europeo delle competenze per il settore del turismo" (European Hospitality Skills Passport), un’iniziativa promossa da Eures e dalla Commissione europea con il contributo delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Con questo nuovo strumento multilingue, disponibile sul portale Eures, i candidati alla ricerca di un impiego possono creare il proprio Passaporto selezionando le competenze acquisite (confermate da reali esperienze formative e lavorative) da un apposito elenco. Le voci selezionate vengono automaticamente tradotte nelle lingue europee desiderate. I candidati che aggiungono il Passaporto al proprio curriculum possono così essere certi che i datori di lavoro comprenderanno esattamente le mansioni svolte e gli insegnamenti acquisiti e, allo stesso tempo, i datori di lavoro, indicando le competenze che stanno cercando, otterranno una selezione filtrata di Passaporti e profili idonei da tutta Europa.
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L’EVENTO di Lara Abrati
Alla kermesse internazionale di Torino i Presìdi Slow Food della latteria di Valtorta e dell’Art Caffè, le birre artigianali e le nuove coltivazioni bio di Elav e il pata negra de La Fenice. «Occasione per farsi conoscere da un pubblico attento anche ai valori racchiusi in un prodotto»
La Bergamo buona e sostenibile fa centro al Salone del Gusto
E
ra l’ormai lontano 1996 quando per la prima volta Slow Food decise di celebrare la biodiversità e le piccole produzioni locali attraverso un grande evento internazionale. Nasceva così a Torino il Salone del Gusto, dove esponenti da tutto il mondo si sono dati appuntamento per raccontarsi e condividere saperi, ma soprattutto sapori. L’evento, a cadenza biennale, è arrivato quest’anno alla doppia cifra, festeggiando la decima edizione (dal 23 al 27 ottobre scorsi al Lingotto fiere) con più di mille espositori, poi dibattiti, conferenze, laboratori del gusto per diffondere il più possibile tutto ciò che ruota attorno alla cultura del cibo, in abbinata con Terra Madre, una grande occasione di incontro che accoglie delegati da tutto il mondo. Il tema centrale era legato all’agricoltura familiare, proprio nell’anno in cui viene celebrata dall’Onu. Il 2014 è infatti l’anno internazionale dell’agricoltura familiare e di
I due Presìdi Slow Food bergamaschi erano rappresentati dalla Latteria Sociale di Valtorta, la cooperativa fondata nel piccolo comune brembano nell’ormai lontano 1954. «La nostra par tecipazione al Salone – dice Silvano Busi – è abbastanza naturale, dal momento che produciamo l’Agrì e lo Stracchino all’antica, entrambi Presidio Slow Food». Il sistema Slow Food ha permesso alla Latteria di reintrodurre la produzione dell’Agrì, che non era scomparso del tutto, ma fino a una decina di anni fa lo si produceva in piccolissima quantità. «Questa è la seconda volta che partecipiamo al Salone del Gusto – spiega ancora Busi – la scorsa volta con inte-
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piccola scala. «Il 70% dell’attività agricola – sostiene Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità – è di tipo familiare, per questo bisogna sostenerla e tutelarla». Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, l’agricoltura industriale di tipo intensivo rappresenta, a livello globale, la parte minore. L’obbiettivo è quindi quello di mostrare quale potrebbe essere il contributo delle piccole produzioni allo sradicamento della fame e della povertà, ma non solo. I piccoli agricoltori rappresentano infatti l’avanguardia nella pratica dell’agricoltura sostenibile nonché una garanzia nel preservare la sicurezza alimentare. Nel territorio bergamasco esistono moltissimi piccoli produttori agricoli che ogni giorno lavorano in questa direzione. Al Salone del Gusto la nostra provincia era rappresentata da quattro aziende che ben accolgono e si identificano nelle parole d’ordine e nella filosofia perseguita da Slow Food, ovvero “Buono, Pulito e Giusto”.
ressanti risultati, l’ambizione è la stessa». In effetti sono state molte le persone che si sono fermate allo stand, curiose di cosa fosse quel piccolo formaggio cilindrico, ma non solo. Numerosi sono stati anche gli stranieri stupiti dallo stracchino, prodotto utilizzando latte crudo e caratterizzato quindi dai tipici aromi. Abituati, loro, allo stracchino industriale, fresco, molle e prodotto con latte pastorizzato, senza aromi e con consistenza adesiva. Tutt’altro che lo stracchino all’antica o agli altri stracchini prodotti nelle valli bergamasche. Anche il caffè ha avuto un importante ruolo nella manifestazione, soprattutto in Terra Madre. Tre so-
no i caffè Presidio Slow Food, tutti presenti allo stand caffetteria. Ma i bergamaschi sono fortunati, infatti questi prodotti si possono assaggiare in città all’Art Caffè. La piccola torrefazione artigianale ha sede a Fornovo San Giovanni, ma la caffetteria è nella centralissima piazza Pontida. «All’inizio – spiega Erminia Nodari, proprietaria insieme al marito - non avevamo una strategia commerciale definita, avevamo però ben chiara la filosofia da seguire, coniugando così la nostra attività ai valori nei quali crediamo». Questo li ha spinti a stilare un manifesto «con l’obbiettivo, nel nostro piccolo – prosegue - di stimolare l’uscita dall’omologazione del gu-
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Latteria Sociale di Valtorta
Birrificio Indipendente Elav
L'Art Caffè
sto, che purtroppo prevale quando si attuano delle “non scelte”». È la seconda edizione a cui partecipano, «perché – dice Erminia – i caffè prima non erano così valorizzati». Alla caffetteria del Salone del Gusto si è potuto assaggiare il caffè Huehuetenango, coltivato in una ristretta area geografica del Guatemala, ai confini con il Messico: la Huehuetenango appunto, la più alta catena montuosa non vulcanica del Centro America. Si è potuto assaggiare anche il caffè selvatico della foresta di Harenna, in Etiopia, che non viene coltivato, ma semplicemente raccolto. «La partecipazione al Salone del Gusto – conclude la titolare dell’Art Caffè – anche per questa edizione è stata un modo per farci conoscere in un ambito e a un pubblico da cui è più facile essere capiti e apprezzati». Il prossimo banco di prova per la piccola torrefazione sarà l’immissione sul mercato di un nuovo prodotto, sempre in collaborazione con la Fondazione per la Biodiversità di Slow Food: il caffè robusta di Luwero di origine ugandese. Prima partecipazione al Salone, invece, per una realtà sempre in fermento, il birrificio indipendente Elav. «Abbiamo partecipato come visitatori la scorsa edizione – spiega uno dei proprietari, Antonio Terzi – e ci è piaciuto molto, infatti abbiamo avuto la possibilità di conoscere realtà con cui poi abbiamo iniziato delle collaborazioni. È un’ottima possibilità per interagire, conoscere altre aziende e persone. Il nostro obbiettivo era quello». È quest’anno è andata proprio così. «Molti i contatti scambiati – dice Roberto, del team Elav – le persone conosciute, tanti stranieri curiosi di sapere e assaggiare». La partecipazione di Elav al Salone del Gusto non è casuale, infatti l’azienda da tempo ha molti progetti agricoli legati alle produzioni biologiche e sostenibili. È nata infatti l’azienda agricola Elav che in Val d’Astino lavora circa 2 ettari di terreno coltivato per il 70% a luppolo, mentre per il restante 30% a piccoli frutti rossi, zucca ed erbe officinali. Per ora tutto questo è destinato alla produzione della birra, «l’obbiettivo però è riuscire a fornire i nostri due locali con i prodotti da noi coltivati», afferma infine Antonio Terzi. Elav possiede l’Osteria della birra in Città alta e il Clock Tower Pub a Treviglio, locali in cui è possibile assaggiare le birre prodotte. La quarta azienda bergamasca presente al Salone è La Fenice, che importa e seleziona Jamon Iberico Pata Negra. La si poteva infatti trovare nel padiglione dedicato al mercato internazionale con la possibilità di assaggiare il pregiato prodotto appena affettato a mano.
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APPUNTAMENTI 29 E 30 NOVEMBRE
FINO AL 30 NOVEMBRE
I ristoranti cremaschi portano in tavola i “Sapori nella nebbia” Ha preso il via il 4 novembre e proseguirà fino al 30 l’11esima edizione di “Sapori nella nebbia”, la rassegna gastronomica autunnale organizzata dai ristoratori delle Tavole Cremasche, associazione che dal 1996 è impegnata nella valorizzazione
Marone, una festa celebra l’olio novello Sulla sponda bresciana del lago d’Iseo, Marone accoglie la nuova spremitura con la Festa dell’Olio Novello, in programma il 29 e 30 novembre. Rispetto al passato, la manifestazione si sdoppia: l’area Villa Vismara diventa un villaggio agroalimentare con stand, assaggi, concorsi, convegni, cene a tema e musica in un ambiente coperto e riscaldato, mentre via Roma ospita il meglio dell’artigianato locale con gli espositori di Mestieri in Piazza. Tanti gli eventi collaterali: concorsi culinari e per i produttori di extravergine maronesi, visite guidate tra gli ulivi, al mulino, al frantoio e in norcineria, persino un trofeo in vespa tra le contrade e in nella zona degli uliveti.
Lo spazio ristoro “Dal lago alla montagna” propone piatti tipici tra terra e acqua dolce. Dal 15 al 30 novembre otto ristoranti accompagnano l’evento con menù dai costi compresi tra 20 e 35 euro e un tema comune a seconda della specializzazione: il coregone o lo stinchetto di maiale abbinati all’olio extravergine di Marone.
ISEO dei prodotti e della cucina locali, anche attraverso la creatività e l’innovazione degli chef. Partecipano alla manifestazione sei ristoranti, con menù dai 25 ai 30 euro, esclusi vino, bevande e liquori. Le proposte vanno dall’insalata tiepida di lingua e testina di vitello ai verzini in purè di zucca, dal cotechino con “pipetto” all’insalata di gallina alla Gonzagna, e poi tortelli, ravioloni di fagianella, risotto con la zucca, minestra di riso, verze e fegatini, bollito misto, pollastra disossata, brasato, guanciale, per finire con dolci ispirati alla stagione, tra castagne, cachi, mandorle, nocciole e cioccolato. Molti degli ingredienti utilizzati sono prodotti dagli “Amici delle Tavole Cremasche”, il progetto ideato dai ristoratori per coinvolgere artigiani, commercianti e produttori nel comune obiettivo di far conoscere il territorio cremasco e i protagonisti della tradizione gastronomica. Questi i locali che partecipano: Bistek (Trescore Cremasco), Trattoria Tre Rose (Castelleone), Il Ridottino (Crema), Hostaria San Carlo (loc. Colombare di Moscazzano), Trattoria Volpi (Nosadello di Pandino), Quin (Crema). www.tavolecremasche.it
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Con il treno gourmet ai mercatini di Natale La visita ai mercatini di Natale può avere un che di diverso se accompagnata da una piacevole escursione tra paesaggi e gastronomia. È quanto propone “Il Gusto del Natale”, uno degli itinerari del Treno dei Sapori, speciale convoglio di Trenord sulla sponda bresciana del lago d’Iseo, con servizio di ristorazione e guida turistica. Il pacchetto (proposto nel fine settimana del 6 e 7 dicembre e in quello successivo) prevede la partenza da Iseo, l’arrivo a Pisogne con tappa alla chiesa di Santa Maria della Neve alla scoperta degli affreschi del Romanino e il ritorno a Iseo per visitare i mercatini “Natale con Gusto”. Il menù a bordo si compone di aperitivo di benvenuto, primo piatto di stagione, piatto unico di salumi e formaggi tipici, dessert, caffè, grappa di produzione locale, acqua minerale e degustazione di vini della Franciacorta con servizio sommelier. Il costo è di 45 euro e comprende anche la guida per l’intera giornata. Il treno è composto da una motrice diesel e due carrozze, la struttura del mezzo è quella primo ’900 mentre gli interni, totalmente rinnovati, offrono dispositivi multimediali e un sistema di telecamere rivolte all’esterno che consentono la proiezione del paesaggio circostante sui grandi schermi interni al convoglio. http://trenodeisapori.area3v.com
novembre 2014 DAL BRESCIANO ALL’EMILIA
È il maiale il re delle sagre
Nella stagione tradizionalmente legata alla macellazione del maiale e alla preparazione dei tanti prodotti della norcineria non mancano le sagre che esaltano la versatilità e il gusto della carne suina e tutti quei piatti che ben si sposano con i rigori invernali. A Fiesse (Bs), raggiunge la 24esima edizione la “Sagra del Pursèl”, promossa dalla Pro Loco sabato 29 e domenica 30 novembre. La manifestazione vuole tenere in vita le tradizioni popolari e promuovere le produzioni tipiche della Bassa Bresciana, coinvolgendo allevatori, norcini, produttori d’insaccati, ma anche di formaggi e miele. Alla “Trattoria del Pursèl” si possono gustare le ricette a base di maiale come in passato venivano preparate nelle cascine: salsicce, costine con le verze, ossa e piedini, risotto con pasta di salame e cotechino. Ospite della manifestazione sarà chef Rubio, guru dei piatti “di sostanza”. Spostandosi a Modena, il 6 dicembre c’è la “Festa dello Zampone e Cotechino”, mentre in provincia, a Castelnuovo Rangone, dal 4 al 7 dicembre si tiene la 26esima edizione di “Superzampone”, in cui il gigantesco insaccato viene cotto in piazza in un’enorme zamponiera di acciaio inox. La preparazione dura circa tre giorni e il peso aumenta ogni anno. Se il livello di colesterolo non fosse ancora il top, il 13 e 14 dicembre si può andare a Campagnola Emilia (Re) dove da 15 anni la festa del Cicciolo d’Oro ripropone la tradizione della norcineria emiliana, con un tripudio di prodotti a base di carne di maiale e la spettacolare cottura dei ciccioli in grandi paioli distribuiti nella piazza.
MILANO
Cucina, pizza, pasticceria: Cooking For Art mette alla prova gli emergenti Dopo le edizioni capitoline, approda a Milano Cooking For Art, evento organizzato da Witaly e Luigi Cremona nella location di via Tortona 32, con aziende vinicole ed agroalimentari che promuoveranno i loro prodotti, territori che presenteranno le loro attrattive naturali e gastronomiche e un’area gourmet con chef di alta cucina. In primo piano le competizioni. Le giornate di sabato 29 e domenica 30 novembre saranno dedicate alle qualificazioni del premio “Miglior Chef Emergente Nord 2015”, che vedranno in azione i più promettenti chef under 30, e al Miglior PizzaChef Emergente Nord 2015. Domenica, dalle 9 alle 14, nell’ambito di un evento speciale dedicato alla prima colazione, si terrà un concorso anche tra giovani pastry chef italiani. Lunedì primo dicembre sono in programma le finali delle varie competizioni e la presentazione della Guida Touring Alberghi&Ristoranti d’Italia 2015. Nell’occasione saranno assegnati i “Premi Touring” a chef emergenti, albergatori e ristoratori del Nord Italia che meglio interpretano la filosofia della qualità a prezzi ragionevoli. www.witaly.it
DAL 21 AL 30 NOVEMBRE
Torino porta in piazza tutte le forme del cioccolato “Tutti puzzle per il cioccolato!” è lo slogan di Cioccolatò 2014, la kermesse dedicata al cioccolato made in Italy e internazionale di scena dal 21 al 30 novembre a Torino. Cuore della manifestazione è ancora una volta piazza San Carlo, dove viene allestito il grande Polo Cioccolato, che vedrà susseguirsi degustazioni guidate e originali corsi di cucina e di pasticceria a tema. Nella piazza, nota anche come “salotto torinese”, ci saranno anche spazi per incontri con esperti e attività culturali e di animazione. Fra gli eventi, la mostra dedicata al cluster del Cacao e Cioccolato di Expo 2015, il Gianduiotto Day, la giornata che celebra il cioccolatino simbolo della produzione cioccolatiera piemontese, e la consegna del Gianduiotto Award. Il Chocolate Show è invece il grande emporio del cioccolato, che permette ai visitatori di scegliere fra 4.000 referenze, presentate da 80 aziende tra piccoli artigiani, medie e grandi imprese dolciarie, nazionali e internazionali. Aree speciali sono poi la Boutique, con una raffinata selezione per i palati più esigenti, ed Equochocolate, lo spazio dedicato al cioccolato equo e solidale. Sono coinvolti anche i ristoranti della città che propongono creativi “Menu tutto Cacao”. www.cioccola-to.it
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IL CONCORSO
Pane e snack “locali”, le scuole professionali sfornano nuove idee I ragazzi del terzo anno chiamati dall’Aspan a realizzare prodotti innovativi valorizzando la farina della filiera territoriale
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a farina di frumento locale da filiera controllata è realtà ed è il frutto del progetto fortemente voluto dall’Aspan di Bergamo per dare vita ad un modello virtuoso di economia territoriale. Per valorizzare questo piccolo tesoro di sostenibilità, l’associazione ha messo in gioco gli allievi del terzo anno delle scuole di panificazione, coinvolgendo proprio le nuove generazioni nella sfida di creare prodotti capaci di interpretare l’evoluzione del gusto, nel rispetto della tradizione artigianale. Il concorso “Bread in school” ha vissuto la fase centrale durante la scorsa fiera Campionaria, quando nello stand-laboratorio dell’Aspan si sono cimentate nella preparazione delle proprie ricette inedite quattro classi, in altrettante serate. Cinque le categorie della gara: pane in pezzatura fino a 100 g e tra 300 e 750 g, pane o prodotto da forno per la prima colazione, snack salato e snack dolce. In campo le terze B ed E dell’Isb di Torre Boldone, seguite rispettivamente dai docenti Eraldo Castagna e Ivan Morosini, la terza A dell’Abf di Bergamo, con Elio Finardi, e la terza A dell’Abf di Treviglio sotto la guida di Massimo Ferrandi. Tra le proposte, brioche vegane, pani con mix di cereali attenti all’apporto nutrizionale, ma anche utilizzo di verdure dimostrano l’attenzione alle più recenti tendenze dell’alimentazione, anche se non è stato dimenticato il lato più goloso dell’arte bianca. La premiazione degli studenti avverrà nello stand Aspan a Gourmarte, in fiera dal 29 novembre al primo dicembre. Nel frattempo le ricette sono diventate patrimonio comune al quale i fornai possono attingere per le proprie proposte.
3a Abf Bergamo
3a Abf Treviglio
3b Isb Torre Boldone
3e Isb Torre Boldone
IL RICONOSCIMENTO
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novembre 2014
Stella Michelin al "Saraceno" Lo chef Proto: "Uno sprone a fare sempre meglio" ome al solito, il commento è stringato, in pieno stile Michelin. Poche righe, tuttavia sufficienti alla Guida rossa per dare il senso della scelta. Quella di premiare con una "stella" il ristorante Saraceno di Cavernago: "Una cucina seria - è il commento dell'ispettore - capace di accostamenti creativi, realizzata con prodotti di ottimo valore qualitativo: il pesce è il grande protagonista del menù, bollicine e vini bianchi i suoi degni accompagnatori. La ricchezza di sapori nei piatti sarà il ricordo che porterete con voi". Facile immaginare il carico di soddisfazione di Roberto Proto, lo chef patron che con umiltà e continua propensione alla ricerca e alla crescita professionale ha saputo dare al Saraceno una collocazione di primo piano nel panorama della ristorazione bergamasca. La stella Michelin premia meritatamente questo percorso, che Proto ha affrontato con accanto la moglie Maria Morbi e forte della preziosa collaborazione di Salvatore, Luca, Daniele, Luca e Sony. «Il riconoscimento - commenta lo chef si aggiunge alla recente attribuzione del “cappello” della Guida dell’Espresso e
ci rende orgogliosi degli sforzi effettuati nella continua ricerca della qualità e della soddisfazione al cliente. La visibilità delle guide gastronomiche è per noi di sprone a fare sempre meglio». Con l'edizione 2015, Bergamo non incassa tuttavia solo "gioie". Perdono infatti la stella due locali cittadini: il Roof Garden - che evidentemente per la Guida non ha mantenuto gli standard promossi dall'allora chef Fabrizio Ferrari - e l'Osteria di via Solata, in Città alta, rima-
sta orfana del patron Ezio Gritti, oggi ai fornelli a Bali. Sicché, i ristoranti bergamaschi stellati scendono da 10 a 9. La conferma è arrivata per Frosio (Almè), Antica Osteria del Camelì (Ambivere), Da Vittorio (tre stelle, Brusaporto), A’Anteprima (Chiuduno), Al Vigneto (Grumello del Monte), LoRo (Trescore Balneario), San Martino (Treviglio) e Osteria della Brughiera (Villa d’Almè), ai quali si aggiunge la new entry del Saraceno.
Lirica ed enogastronomia a Verona vanno a "nozze" L’Opera lirica, una delle arti che rende l’Italia, e in modo particolare Verona, unica al mondo, si sposa con il mondo dei sapori. Avete infatti mai immaginato di assaporare piatti di alta cucina, preparati dai migliori chef, tra gli originali abiti di scena indossati nelle rappresentazioni delle più importanti opere liriche? Oppure di degustare delizie natalizie ispirate alla Traviata o al Nabucco? O, ancora, di sorseggiare un vino leggendario nella stanza in cui è stato ospitato Napoleone Bonaparte? Questo connubio magico tra musica lirica e cibo sarà possibile e lo si potrà vivere a Taste of Christmas in un prestigioso palcoscenico: Amo, il museo della Fondazione Arena di Verona collocato nella splendi-
da cornice di Palazzo Forti, nel cuore del centro storico della città. Dal 28 al 30 novembre, gli amanti e gli esperti di musica lirica, gli appassionati del buon cibo di qualità, di vini pregiati e chi va a caccia di ispirazioni e suggerimenti per divertirsi a preparare menù, piatti particolari e decorazioni con cui imbandire la tavola di Natale, potranno incontrarsi in un unico evento e vivere un’esperienza fuori dal comune. Gli chef Elia e Matteo Rizzo (Il Desco di Verona); Nicola Portinari (La Peca a Lonigo, Vicenza); Leandro Luppi (Vecchia Malcesine) e Giuseppe D’Aquino (Oseleta a Cavaion Veronese) realizzeranno un menù di tre piatti ciascuno con cui dare “un assaggio” della filosofia e creatività che li contraddistinguono in cucina.
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IL PREZZO FISSO di Fulvio Facci
Sabi, il ristorante di famiglia che impara anche dai grandi chef Il figlio Andrea non si fa sfuggire corsi e lezioni con i guru della cucina. «Non riproponiamo i loro piatti, ma tecniche e idee ci aiutano». La novità è il “panfocaccia” con condimenti gourmet
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ino al 1982 c’era un classico bar di paese con annesso il gioco delle bocce. Si trattava di un edificio piuttosto malmesso ma Emilio Magoni e la moglie Sabina Magnanini hanno accettato la scommessa. Lui, lasciata Selvino all’età di 15 anni, aveva all’attivo la gestione per dieci anni di un ristorante ad Urbino; lei, originaria di Urbino, portava con sé la tradizione della terra marchigiana per la buona cucina. Così è nato “Sabi”, ristorante pizzeria a Chiuduno, in via Banzolini Storti 33. «Abbiamo fatto le cose gradualmente – racconta Emilio Magoni, che attualmente segue la sala – ma penso si sia fatto un bel lavoro. Abbiamo due sale al piano terra, una saletta al piano superiore, più un estivo per 30 posti. Bagni e piano superiore sono raggiungibili con l’ascensore, abbiamo anche un’ampia dispensa e ci manca solo di ingrandire un po’ la cucina, ma lo faremo. In totale sono 120 coperti, che per noi sono sufficienti». Se fino al 2000 i coniugi Magoni hanno gestito il locale dividendosi i compiti, marito in sala moglie ai fornelli, con l’inizio del nuovo secolo c’è stata la novità del figlio Andrea, all’epoca diciottenne, che voleva fare l’elettricista ma poi
ha cambiato idea. «Lavorare nel ristorante con i miei genitori non mi attirava molto – confessa –, ma poi ho provato e mi è piaciuto. Ed eccomi qui con entusiasmo!». Andrea Magoni non ha seguito quindi il percorso classico dell’alberghiero, ha fatto però in tempo a recuperare seguendo con assiduità i corsi dell’Accademia del Gusto dell’Ascom.
Emilio Magoni, il figlio Andrea e la moglie Sabina
Traguardi
La passione per la cucina vince. Marianna si diploma ad Alma Mentre le sue coetanee si dividevano tra la scuola di danza e gli allenamenti di pallavolo, lei amava dedicare il suo tempo libero da teenager ai corsi di cucina e all’Accademia del Gusto di Osio Sotto arrivava accompagnata in auto dalla mamma perché non aveva l'età per la patente e le lezioni si tenevano di sera. Quello che considerava un hobby alla fine si è imposto come percorso professionale, fino a farla decidere di iscriversi al corso superiore di cucina di Alma, la prestigiosa scuola internazionale nella
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Marianna Ziliati riceve il diploma da Gualtiero Marchesi e dai suoi docenti
novembre 2014 Corsi su corsi, dalle basi della cucina al vino, all’intaglio della frutta e verdura per fare degli esempi. «È stato fondamentale poter lavorare e incontrare grandi chef come Chicco Cerea, Bartolini, Mei, Montersino – evidenzia -. Certo non bisogna pensare di portare l’alta cucina nel nostro locale, che ha una clientela diversa. È stato importante invece apprendere nozioni e tecniche per gestire la cucina ed utilizzare al meglio i tempi. Un altro aspetto chiave è stato imparare a conoscere le materie prime. Ho letto anche molti libri su questi temi e mi piace approfondire di volta in volta gli argomenti che mi incuriosiscono di più, costruendo il mio percorso da me». Mentre mamma Sabi continua a sfornare i piatti della tradizione marchigiana (passatelli asciutti con tartufo bianco di Acqualagna, ad esempio) e non solo (come gli arrosti, i brasati e il filetto o una tagliata che non mancano mai), Andrea si sbizzarrisce col pesce. «Un menù di pesce che potrei proporre in questa stagione? Come antipasto un cestino di pasta sfoglia con baccalà, quindi pasta e fagioli con l’astice e come secondo un guazzetto di calamaretti e code di gamberi col cuscus. Il prezzo? Dai 35 ai 45 euro, vini esclusi». Da due anni Sabi sta proponendo anche un piatto particolare che Andrea ha voluto chiamare panfocaccia, questo per rilanciare il settore pizzeria. «È una tecnica che ho appreso da Simone Padoan e che mi consente di presentare una specie di pizza gourmet – spiega -. La preparazione della base è abbastanza complessa e, con vari interventi, richiede circa cinque giorni. Viene infornata nel padellino e guarnita con prodotti di qualità di alta cucina. Ecco quindi il panfocaccia alla catalana, al pata negra, alle acciughe dell’Adriatico o al tartufo bianco di Acqualagna, tanto per citare i più richiesti. È una proposta sta incontrando un buon successo». Ristorante Pizzeria Sabi via Banzolini Storti, 33 - Chiuduno tel. 035 838187 www.ristorantesabi.it chiuso il lunedì sera e il martedì
reggia di Colorno (Parma), del rettore Gualtiero Marchesi. Unica bergamasca della tornata, Marianna Ziliati, 22enne di Castel Rozzone, ha ricevuto il diploma dalle mani del “maestro” nella cerimonia tenuta ad inizio ottobre, dopo dieci mesi intensi, la prima metà dei quali in aula, la seconda agli ordini del tristellato Massimiliano Alajmo a Rubano (Pd). «Dopo il liceo e l’iscrizione all’Università – racconta – la passione per la cucina si è fatta sentire più di tutte, ma ho anche capito che avevo bisogno di un livello di istruzione maggiore ed ho puntato in alto. Non avendo frequentato la scuola alberghiera ho dovuto sostenere
La Prova Quattro primi, quattro secondi e una buona lista di contorni. Questo è quanto propone il ristorante pizzeria Sabi di Chiuduno per il menù a prezzo fisso di mezzogiorno. Oltre al servizio attento ed ai tovagliati in stoffa, va sottolineata una certa originalità nell'offerta. In occasione della nostra visita tra i primi c’erano le farfalle al salmone, i maccheroncini al sugo d’astice, le penne all’amatriciana e la pasta al sugo di salmì di manzo. Tra i secondi, il baccalà alla vicentina con polenta gialla, il bollito misto con salsa verde, la punta ripiena con polenta e il petto di pollo alla griglia. Undici euro il costo del menù completo, 8,50 euro se si sceglie solo un piatto. Sono compresi vino, acqua e caffè. Stiamo sul pesce, indicato tra le specialità del locale, e quindi scegliamo i maccheroncini al sugo di astice, il baccalà alla vicentina e gli spinaci lessi. Tutto per un ottimo rapporto qualità-prezzo.
un test d’ammissione e sono stata l’unica del mio gruppo a superarlo, anche se era solo il primo scoglio. Il programma di Alma richiede disciplina e dedizione, in cambio offre una visione completa della professione, compresi pasticceria e vini, e mostra, grazie allo stage, cosa significa davvero lavorare nell’alta cucina». Il diploma le ha già aperto le porte di un altro tristellato, Da Vittorio, «dove avrò la possibilità di confrontarmi anche con il catering», evidenzia soddisfatta. Nel frattempo ha fatto proseliti in famiglia, la sorella si è infatti iscritta al corso di sommelierie di Alma e l’idea di collaborare, in futuro, è già lì.
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novembre 2014
I SOMMELIER
A "Biava" il premio speciale Tastevin L'azienda di Scanzorosciate unica in Lombardia ad aver ottenuto lo speciale riconoscimento assegnato della nuova guida dell'Ais
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resentata la nuova guida dell'Associazione Italiana Sommelier che, dopo il divorzio da Ricci-Bibenda, naviga in solitaria a vele spiegate, senza voler fare concorrenza ad altre pubblicazioni. La guida sarà infatti inviata esclusivamente ai soci, circa 40mila in tutta Italia, che “in questo modo potranno approfondire la propria conoscenza sul mondo del vino”, ha spiegato il presidente di Ais Italia, Antonello Maietta, durante la recente conferenza stampa di lancio della guida a Milano. Un lavoro titanico, quello di Ais Italia, che ha visto coinvolti 900 degustatori suddivisi in 22 commissioni che hanno selezionato 10mila etichette, sulle 28mila pervenute. Una guida enciclopedica di 2.160 pagine, dove per ogni bottiglia è possibile trovare i dati principali sulla vinificazione, i vitigni, le caratteristiche organolettiche e gli abbinamenti consigliati. Quattro le fasce di valutazione previste, rappresentate da viti stilizzate: 1 vite corrisponde al range di punteggio 75-79, 2 viti a 80-84 punti, 3 viti a 85-89 punti e 4 viti oltre i 90 punti. La guida promette di raccontare in lungo e in largo l'Italia del vino, non solo quella commercialmente arcinota, ma anche quella delle microrealtà di pregio. È questo il caso dell'azienda di Manuele Biava di Scanzorosciate che ha ottenuto, unica tra le aziende lombarde, il premio speciale Tastevin. Il prestigioso riconoscimento è andato a sole 25 aziende tra le oltre 2.000 recensite, perché considerate testimoni di una produzione storica di qualità nella loro zona. “Sono onorato e fiero di questo riconoscimento – commenta a caldo Manuele Biava dopo la consegna del Tastevin –, che mi ripaga di anni di lavoro qualitativo e di cura per la produzione del Moscato di Scanzo”. L'azienda di Biava non è nuova a riconoscimenti del genere da parte di Ais, che già da quat-
tro anni le conferisce la “Rosa d'Oro” nella Viniplus di Lombardia, la guida delle eccellenze lombarde redatta annualmente da un'apposita commissione di sommelier. “La nostra è in definitiva l'azienda lombarda più premiata dalle guide Ais”, nota Biava, che ha deciso quest'anno di non uscire con l'annata 2014 di Moscato di Scanzo. Una scelta sofferta, ma meditata che “testimonia il rispetto della nostra azienda per il consumatore e per l'immagine del Moscato di Scanzo, la cui produzione di qualità dev'essere preservata”. Oltre al Moscato di Scanzo di Biava, tra le denominazioni d'eccellenza che hanno ottenuto il Tastevin ne troviamo altre minori come il Vallée d’Aoste Blanc de Morgex et de La Salle 2013 di Albert Vevey, il Derthona Timorasso Sterpi 2012 dei Vigneti Massa, il Colli di Conegliano Torchiato di Fregona 2009 della Cantina Produttori di Fregona, il Rossese di Dolceacqua Superiore Posaú 2012 di Maccario Dringenberg, lo Chardonnay La Bora di Kante 2006 dell'azienda Kante e il Castelli di Jesi Verdicchio Classico Villa Bucci Riserva 2012 dell'azienda Bucci. g. tal.
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LE AZIENDE INFORMANO
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fa ancora centro! Ora l'appuntamento è con la regalistica di Natale ella splendida cornice di Palazzo Colleoni, a Cortenuova, si è da poco conclusa la 4° Edizione di “Bere Betti - Vivere lo stile”, l’ormai tradizionale appuntamento dedicato al mondo beverage organizzato dalla società Betti e C.srl di Cividate al Piano. Con oltre 280 prodotti (tra vini, birre e distillati), proposti in degustazione agli operatori del settore Ho.Re.Ca, l’evento ha ripercorso ed amplificato il successo delle precedenti edizioni, confermando la strada qualitativa che Betti ha deciso di percorrere sin dalla propria nascita. L’obiettivo principale della manifestazione è stato quello di far conoscere e apprezzare prodotti esclusivi, disponibili sul nostro territorio grazie alla struttura distributiva della Società, che si accompagnano ad uno stile di sobrietà proprio della filosofia aziendale. In questo contesto, Betti ha voluto enfatizzare l’importanza della condivisione da parte di tutti i soggetti coinvolti di alcuni valori di fondo, primo fra tutti il ruolo della conoscenza e della cultura del prodotto sul piano della salute, con la piena consapevolezza che “chi impara a bere meglio, nel segno della qualità, ha già fatto un passo avanti sul piano del consumo moderato e responsabile”. Qualità, ricerca ed innovazione sono i valori chiave d’impresa che da oltre 80 anni guidano l’attività della Betti e C. srl. L’azienda, infatti, è sempre stata in grado di anticipare e stare al passo con le grandi evoluzioni dei consumi e dei pubblici esercizi, istruendo i baristi nella spillatura di birre alla spina con l’importazione in esclusiva di marchi tedeschi negli anni Ottanta, valorizzando i vini del territorio e le migliori etichette dopo lo choc della vicenda metanolo. Oggi l’impresa, tra le prime ad ottenere il marchio di certificazione di qualità Iso 9001:2008, importa e distribuisce birre tedesche, inglesi, belghe, statunitensi ed ha in catalogo i migliori vini italiani e francesi, grandi distillati e una lunga lista di bevande ed acque minerali. Le iniziative Betti non si concludono qui. Il prossimo appuntamento sarà con la Regalistica di Natale. Dalla metà di novembre, presso la sede aziendale di Cividate al Piano, in via Roverselli 2, è allestito lo show room con tutta l’offerta per la regalistica aziendale, comprensiva di panettoni, torroni, cioccolati e prodotti alimentari tipici, oltre, ovviamente, a tutta la selezione beverage dell’azienda. Un’originale ed ulteriore occasione, quindi, per poter nuovamente degustare i prodotti della 4° edizione di “Bere Betti - Vivere lo stile” appena conclusasi.
Da sinistra Gianbattista Betti, Cesare Bellussi, Giuseppe Betti, Luca Tacca, Stefano Betti e Giacomo Betti
IL LIBRO
novembre 2014 di Rosanna Scardi
I grandi piatti della piccola cucina La fatica letteraria della scrittrice bergamasca Maria Teresa Solivan mette in evidenza le magie culinarie in uno spazio di 6 metri quadri
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l bando costose planetarie, piastre a induzione, forni parlanti e cucine super attrezzate. Per creare piatti che soddisfino il palato bastano mani, frusta e fantasia. La scrittrice bergamasca Maria Teresa Solivani va in controtendenza. Ai cooking show, tanto di moda con gli chef diventati vip, preferisce la semplicità delle cucine domestiche. A competizione e velocità, risponde con originalità e tranquillità. Il suo ultimo libro, pubblicato quest'anno dalla casa piemontese Conti editore, non a caso si chiama “Piccola cucina abitabile”. Il sottotitolo è “Magie culinarie in 6 mq”. L'approccio è semplice anche nella forma: un quaderno scritto dall'autrice con sette menù completi. Alla fine, resta anche qualche pagina bianca per gli appunti del cuoco di casa. “Ho voluto sfatare i falsi miti creati dalla televisione. Sa cucinare chi lo fa tutti i giorni, come la casalinga che deve nutrire i propri cari, non chi si esibisce in una gara e appare stressato e affannato come un reduce di guerra - afferma Maria Teresa -. I piatti necessitano di tempi ben precisi, ci vuole la giusta attenzione”. Via anche tacchi, unghie smaltate e capelli al vento. “Conta la pulizia, il resto fa sorridere”. La scrittrice dimostra nel concreto come sia possibile “sopravvivere” anche senza possedere una cucina stellata da 300 metri quadri. “Meglio per chi ce l'ha, ma l'importante è usare bene gli spazi e mantenere l'ordine. Io nel mio piccolo, e senza l'aiuto di robot, riesco a fare tutto - spiega -. Uso il piccolo tavolo come piano di
Maria Teresa Solivan
lavoro, impasto con un mattarello, tiro la pasta con la macchina a manovella che era di mia mamma”. Vegetariana da qualche anno, cuoca da quando ne aveva 15, Maria Teresa si diletta a preparare ogni tipo di piatto. Non assaggia quelli a base di carne o pesce, ma si basa sul suo olfatto e sulla vista. C'è il menù “povero ma buono”, ideale per fare bella figura anche senza spendere cifre folli, a base di arancini, zuppa, fagottini di pollo, pomodori ripieni, sfogliatine di pesca. Il “tipico con nostalgia” è un omaggio alla sua terra, con la ricetta dei casonsèi tramandata dalla nonna, l'insalata di sedano per antipasto, il coniglio arrosto con le patate e i biscotti bruttini alle mandorle. Per gli invitati last minute c'è “indovina chi viene a cena?”, piatti realizzabili con materie prime di facile reperibilità e in poco tempo: crostoni ai funghi, spaghetti alla “diamoci una mossa” con pancetta, rosmarino e pecorino e pollo alla birra. La variante, a base di pesce, prevede bruschetta tonnata, risottino al salmone, merluzzo con mandorle. Per dolce morbidone al cioccolato o mele meringate. Il suo piatto forte lo si trova nel “concerto di sapori”, adatto per chi ha gusti decisi: è il manzo d'Irlanda, stracotto nella birra a doppio malto e accompagnato da polenta o da purè per chi non è bergamasco. Il consiglio è semplice. “C'è chi pensa che l'arte culinaria sia in tv, invece no - è il suo suggerimento -. Dobbiamo riappropriarci del nostro tempo per capire che la moda la facciamo noi”.
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L’ANGOLO
DEL SINGLE di Marco Bergamaschi
Spaghetti al prosciutto di Praga
INGREDIENTI PER 1 PERSONA
PREPARAZIONE
100 grammi di spaghetti Philadelphia Light a piacere 2 fette di prosciutto di Praga Una manciata di rucola Sale e pepe
Cuocete la pasta in abbondante acqua salata. Con un coltello tagliate a tocchetti il prosciutto e tritate grossolanamente la rucola. Scolate la pasta, ricordandovi di tenere da parte un mestolo di acqua di cottura. Rimettete la pasta nella pentola, aggiungete il prosciutto a tocchetti, la rucola tritata, il formaggio, l’acqua di cottura e mescolate a fuoco spento per circa un minuto. Impiattate e gustate questa delizia.
CURIOSITÀ Anche chi è davvero negato per l’arte culinaria, almeno una volta nella vita ha provato a preparare gli spaghetti di Praga. Pietanza “famosa” tra i single che puntano a una cucina veloce, rappresenta uno dei piatti più facili e gustosi di sempre. Io di solito uso la crema al formaggio Philadelphia Light, ma la ricetta può essere personalizzata con il formaggio cremoso che preferite, come quello di capra che è un’ottima alternativa. Il prosciutto di Praga è un salume ricavato da cosce di suino (con o senza osso) che vengono aromatizzate, affumicate e quindi cotte a vapore. Le carni sono rosa, piuttosto compatte, con la parte esterna di un delicato colore dorato e il suo sapore è dolce e aromatizzato. Ma non è solo gustoso: è molto digeribile e dal buon contenuto proteico, è ricco di sali minerali quali sodio, potassio e fosforo e possiede solo il 14,7% di lipidi, percentuale che scende al 4,4% se privato del grasso visibile. Quando lo acquistate, le fette devono essere morbide, di colore rosato, con il grasso compatto e le fasce muscolari ben distinte; se invece si presentano gelatinose, evitate l’acquisto, perché significa che l’umidità del prosciutto è elevata e negli ingredienti ci sono polifosfati. Una volta arrivati a casa, ricordatevi che può essere conservato in frigorifero per un giorno,
poi comincia a perdere il suo aroma caratteristico. Infine una piccola curiosità: qualche anno fa durante un week end lungo a Praga, mi era venuta voglia di assaggiare il tipico “prosciutto di Praga”, che lì pensavo fosse buonissimo; in realtà ho scoperto che nessuno lo conosceva e che questo tipo di prodotto era introvabile in tutta la Repubblica Ceca, forse perché la sua ricetta, nata dalla tradizione gastronomica austro-ungarica, con il tempo è andata perduta. Ma non disperate: avete voglia di gustare dell’ottimo prosciutto di Praga? Il migliore lo trovate a Triste dove i macellai e salumieri artigiani hanno conservato nel tempo metodiche e regole che lo rendono delizioso. Se poi avete la fortuna di arrivare in città per l’aperitivo, i bar lo serviranno affettato e ancora caldo, accompagnato da una deliziosa salsa di cren. Un’esperienza indimenticabile, che tutti, prima o poi, dovrebbero provare.
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