Affari di Gola - novembre 2016

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Anno XVI n. 9 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - â‚Ź 2,60

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Sulle tracce della trippa

I locali di Bergamo dove riscoprirla



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4 IL PIATTO

Sulle tracce della trippa. I locali di Bergamo dove riscoprirla

10 L’INTERVISTA

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«I pasti dell’Atalanta nelle mie mani. Vi svelo cosa cucino per i giocatori»

12 IL LOCALE

Marelèt, «ecco come si diventa Bar dell’Anno»

14 LA COLTIVAZIONE

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Il topinambur trova “casa” a Fontanella

20 IL DECALOGO

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Pranzi senza sprechi, ecco le 10 regole per salvare gli avanzi

22 LA novità

“Tilde”, a Treviglio il panettiere che rilancia i grani antichi

24 alla SCOPERTa

Sui campi da golf vince anche il gusto

26 l’apertura

L’architetto, l’antiquaria e la passione per le torte: così nasce DuLciS

28 a tavola con

Gianni Mura: «Sul cibo ognuno dovrebbe diventare la guida di se stesso»

32 PAUSA PRANZO

Al Gigianca, l’osteria in città

Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120322 - fax 035 231082 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120280 - fax 035 231082 - info@larassegna.it - N° ROC 5847 - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Roberta Martinelli, Fabrizio Pirola, Rosanna Scardi, Gualtiero Spotti - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg

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IL PIATTO di Laura Ceresoli

TRIPPAadvisor Un tempo la si trovava in tutte le osterie. Oggi la zuppa di frattaglie è ricomparsa nei menù di alcuni locali e piace pure ai turisti stranieri. Ecco una piccola guida al piatto e alle proposte di città e Valli

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una delle zuppe più tipiche e succulente della tradizione orobica. In brodo, in umido, con una spolverata di parmigiano o accompagnata da una fetta di polenta, la trippa è un gustoso misto di frattaglie, verdure e spezie che di recente sta tornando in voga sulle tavole di molti ristoranti. Piatto unico per eccellenza fin dai primi del Novecento, questa pietanza nel corso degli anni ha vissuto alterne fortune. Già, perché l’idea di mettere sotto i denti le viscere di un bovino di certo non piace a tutti. Se da un lato le vecchie generazioni non hanno mai smesso di apprezzarla, dall’altro c’è anche una folta schiera di giovani pronti a storcere il naso appena ne sentono pronunciare il nome. Eppure, superato lo scetticismo iniziale, anche i più schizzinosi dopo il primo cucchiaio si convertono irreversibilmente al gusto tondo e confortante della trippa. Negli anni del boom economico questa minestra del quinto quarto è stata accantonata dai ristoratori orobici che la ritenevano troppo povera e di non facile preparazione nell’era frenetica del benessere. Da qualche tempo, però, la trippa è tornata timidamente a farsi viva, soprattutto in quei locali che hanno scelto di rispolverare le radici attraverso i piatti tipici della tradizione. Osterie valligiane, trattorie di città ma anche ristoranti la propongono sempre più spesso, nel menù del giorno e pure da asporto, nei periodi più freddi dell’anno. Persino rinomati chef internazionali, come il britannico Gordon Ramsay e il suo omologo in “Cucine da incubo” Antonino Cannavacciuolo, stanno cavalcando la crociata della trippa servita nelle sue molteplici varianti, da un ruspante panino fino a una più raffinata trippa di agnello con tempura di gamberi rossi. E così da piatto nazional-popolare di sagre e feste di paese, questa specialità d’altri tempi si è tramutata in un piatto intrigante, che mette d’accordo tutti, o quasi.

LA TRADIZIONE All’inizio del Novecento erano soprattutto gli uomini che frequentavano le osterie di paese con cucina casalinga a richiedere la trippa. Nelle trattorie della Bergamasca erano ammessi solo clienti maschi e sposati che, dopo le nozze, erano soliti fare un salto al ristorante per ricevere una sorta di investitura assaggiando un cucchiaio di trippa. Le donne invece in osteria entravano soltanto per riempire la pentola e portare a casa il cibo. Ancora oggi in tante case e ristoranti dell’alta Valle Brembana, la vigilia di Santa Lucia equivale al pentolone di trippa, la cosiddetta büsèca, che bolle sul fuoco dal primo pomeriggio. All’agriturismo Ferdy di Lenna, per esempio, questa specialità non manca mai in inverno. La preparano tagliata a pezzetti con piedino di vitello disossato, fagioli bianchi e pomodoro fresco. Può essere servita come minestra oppure come secondo piatto, accompagnata da un contorno di polenta bergamasca.


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BERGAMASCA, MA NON SOLO

O SI AMA O SI ODIA La trippa è una zuppa di verdure miste e frattaglie costituite dall’apparato digerente dei bovini, fra l’esofago e lo stomaco. Per questa ragione la sola descrizione la rende assai poco appetibile ed anche l'autorevolezza di molte buone forchette fatica a convincere ad un assaggio i più restii. Come spiega Alioscha Foglieni, co-titolare del ristorante Ol Giopì e la Margì di via Borgo Palazzo a Bergamo: «Serviamo la trippa da oltre vent’anni. Non la toglieremo mai dal menù perché amiamo valorizzare le tipicità bergamasche e la trippa fa parte dei sapori tradizionali della nostra cultura. La prepariamo con sedano, carote, cipolla, pomodoro, patate e fagioli. Per farla conoscere anche ai più scettici abbiamo pensato di proporla come antipasto all’interno di una selezione di cinque assaggini misti del nostro territorio. Così molti clienti dopo averla provata ne rimangono colpiti e ci chiedono di averla come piatto di portata. Anche i turisti la provano e la apprezzano».

Veneta, romana, toscana o genovese, quasi ogni regione e provincia ha la sua ricetta per la trippa. Si va dalla trippa di Brescia in brodo di verdure alla “busecca” alla milanese, passando attraverso la trippa calabrese “ara carvunara”, solo per citarne alcune. Paninozzi croccanti con lampredotto o fette di pane sciocco e trippa solleticavano i palati dei fiorentini già ai tempi di Lorenzo de’ Medici. In provincia di Torino c’è persino la Confraternita della trippa che vanta origini trecentesche. La versione originale della trippa alla Bergamasca è in brodo. Tuttavia ogni cuoco ha la sua ricetta. «Per una trippa perfetta – spiega Ferdinando Testa, titolare con la sorella Antonella del ristorante La Ciotola di viale Papa Giovanni a Bergamo – consiglio di utilizzare interiora di qualità e un mix di verdure di stagione e spezie. La cottura dev’essere lunga e lenta: servono circa tre ore. In generale più la trippa cuoce e meglio è. I nostri nonni dicevano che il giorno dopo è ancora più buona».

UN GUSTO INTERNAZIONALE In antichità i greci cucinavano la trippa alla brace, i romani invece la utilizzavano per preparare salsicce. Ma anche oggi questa pietanza è presente nelle cucine tradizionali di tutto il mondo. Al nord della Francia, in Normandia, si fanno la Tripes à la mode de Caen o la Tripes en brochette de la Ferté-Macé mentre al sud c’è il Pieds et paquets, una gustosa specialità marsigliese. La trippa si trova anche in Romania, sia in umido (Chkémbè tchorba) che in brodo (Ciorba de burta), e in Medio Oriente (Işkembe). C’è poi il ristoratore bergamasco Venanzio Poloni che è riuscito a portare la trippa alla bergamasca fino a Medjugorie: apprezzatissima dai pellegrini, è diventata una delle pietanze di punta del suo Hotel Stella Maris insieme al capù di verze. Anche Ferdinando Trippa in città. Da sinistra: il ristorante Ol Giopì e la Margì, Ferdinando Testa della Ciotola e il piatto che serve nel suo locale

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IL PIATTO

Testa conferma la propensione degli stranieri per questo piatto tipico: «Per molti anni la trippa era scomparsa dal nostro menù – evidenzia -. Il nostro è un locale di grande passaggio turistico e ci si era convinti che un piatto così non avrebbe funzionato. Di solito era più ricercato nelle trattorie tipiche bergamasche. Tuttavia da un anno a questa parte abbiamo deciso di rivoluzionare il nostro menù andando alla scoperta delle pietanze della tradizione, trippa compresa. È stato un successo – rivela -. A ordinarla sono soprattutto i clienti dai cinquant’anni in su che vanno alla ricerca dei sapori della loro infanzia, mentre i giovani restano molto scettici. La trippa è molto amata anche dagli stranieri, soprattutto da chi proviene dai Paesi nordici, inglesi ma anche dai francesi, che in fatto di zuppe la sanno lunga».

Susi Assolari e Walter Brembilla con il piatto di trippa che preparano alla Trattoria Come una volta di Desenzano di Albino. Vincenzina Salvi è invece la cuoca dell’albergo Centrale di Fino del Monte, dove la trippa si può trovare ogni giorno dell’anno

IN CUCINA Ai fornelli ogni chef ha il suo stile nel preparare la trippa. Celebre è per esempio il foiolo del ristorante Lio Pellegrini di via San Tomaso a Bergamo accompagnato da una fetta di polenta grigliata. Rispetto ad altre preparazioni tradizionali, la ricetta di Giuliano Pellegrini è più leggera. Per iniziare niente aglio, pancetta o lardo ma solo olio d’oliva e due piccole cipolle anziché il mezzo chilo di un tempo. Anche la cottura cambia: due ore anziché quattro. Vincenzina Salvi, cuoca dell’albergo Centrale di Fino del Monte punta invece sul gusto delle verdure e degli aromi. Per quanto riguarda la carne, oltre allo stomaco della mucca, la cuoca mette il ginocchio di maiale per dare più sapore: «Una buona trippa dev’essere fresca. La carne va fatta bollire bene con una spruzzata di acqua e aceto. Poi metto in pentola a freddo tutti gli ingredienti. Con gli ortaggi di stagione e le erbe ci si può sbizzarrire.

Personalmente metto di tutto tranne i piselli o le carote perché sono troppo dolci. Nella mia trippa c’è anche il ginocchio di maiale, un’aggiunta che nella ricetta originale non è prevista. Infine metto passata di pomodoro, salvia, rosmarino, prezzemolo e alla fine regolo con il sale, ma senza esagerare perché più la zuppa bolle più diventa saporita. A tavola c’è chi la aggiusta con il pepe, il peperoncino, i crostini di pane o il parmigiano. Io consiglio di consumarla al naturale, senza formaggio perché rende la trippa più acida, falsandone il sapore».

L’idea del ristoratore

In vasi di vetro e pastorizzata, si porta a casa ed è sempre pronta

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Gianluigi Moro

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iente scatole di cartone, ma comodi vasetti di vetro da tenere in frigo. Sono gli originali contenitori scelti dalla trattoria Moro da Gigi di Albino per il proprio take away dal sapore nostrano. Qui infatti piatti prelibati come gnocchi, sottaceti, casoncelli e biscotti non si gustano solo al tavolo ma si possono anche portare a casa. E da qualche tempo il titolare Gianluigi Moro ha pensato di travasare in barattolo persino la trippa per realizzarne una

versione da asporto: «Da ottobre a maggio la trippa viene spesso inserita nel menù del giorno – spiega Moro –. La cottura e la preparazione sono lunghe e non sempre il piatto è di largo consumo. E così un paio di anni fa ho pensato di pastorizzarla e di travasarla in barattoli di vetro da portarsi a casa. Ogni vasetto contiene 7,5 etti di zuppa. Con soli 6 euro si ha una trippa in brodo per due persone. Tra gli ingredienti ci sono anche fagioli e carote che


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IL PIATTO DEL GIORNO Per lo chef Walter Brembilla della trattoria “Come una volta” di Desenzano Albino preparare la trippa per i clienti è una gioia, come conferma la titolare Susi Assolari: «Da sei anni a questa parte abbiamo scelto ottobre come il mese della trippa. È un piatto molto particolare, non piace a tutti, quindi non lo teniamo nel menù tutto l’anno ma solo per un periodo limitato, sia a tavola che da asporto, in concomitanza con la festa della Beata Vergine del Miracolo della Gamba. Quando c’è, però, la ordinano in molti. Grazie al passaparola arrivano da noi parecchi clienti soltanto per assaggiare la trippa. Se qualcuno ce lo chiede con anticipo al momento della prenotazione, gli possiamo preparare la trippa su richiesta. Il nostro chef adora cucinarla anche se il procedimento è lento e lungo». All’albergo Centrale di Fino del Monte la trippa non manca mai, nemmeno nei mesi caldi: «Preparo trippa in umido tutti i giorni, estate e inverno – conferma la cuoca Vincenzina Salvi –. Qui da noi è sempre disponibile nel buffet e la si può mangiare a volontà. Piace moltissimo».

FRESCA O PRECOTTA In lattine, tetrapak o bustone surgelate, tra gli scaffali del supermercato o nel banco frigo spuntano parecchie confezioni di trippa adatte a chi non ha tempo di mettersi ai fornelli. Bastano pochi minuti al microonde per ottenere una zuppa fumante come al ristorante. Metodi culinari rapidi che tuttavia piacciono poco a Fabio Magri, titolare della macelleria Magri di Chiuduno: «C’è stato un momento storico in Italia in cui abbiamo perso la tradizione delle nostre nonne e abbiamo optato per una cucina veloce. Si è progressivamente affermato un predominio della tecnologia alimentare di stampo industriale sui metodi più tradizionali. Per molti cucinare è diventato soprattutto l'atto di scaldare qualcosa di già pronto o surgelato. Con il cibo in scatola è un altro pianeta, ci sono troppi conservanti. Per fortuna da qualche tempo la gente sta ritornando alle radici, prestando più attenzione agli ingredienti sani».

I nomi e le preparazioni BUSECCA

dal tedesco Butze, è il nome lombardo, perlopiù milanese, usato anche in Bergamasca. Prevede l’utilizzo di tutti i tagli dei prestomaci, dello stomaco e perfino della prima parte dell’intestino (quello che i romani chiamano pajata)

CUFFIA

altro nome del reticolo, di forma globosa

FOIOLO

(detto anche millefoglie o libro) identifica l’omaso, ovvero la parte che molti ritengono la migliore sia in cottura sia per il gusto delicato. I piatti che ne prevedono l’utilizzo esclusivo ne prendono il nome possono fermentare, quindi per conservare la trippa al meglio ho pensato di pastorizzarla. In questo modo può essere conservata in frigo per tre mesi. Tanti clienti la acquistano per avere la cena pronta, altri la regalano ai genitori anziani che magari non hanno occasione di venire al ristorante ma che hanno voglia di ritrovare i sapori antichi della loro giovinezza».

LAMPREDOTTO

nome fiorentino della trippa ricavata dall’abomaso, ovvero lo stomaco. È un tipico cibo da strada, ideale per farcire panini. Prende il nome dalla lampreda, un’anguilla primordiale di cui ricorda la forma e il colore

RICCIA

è il nome più diffuso della trippa ricavata dalla parte più pregiata dell’abomaso (detto anche gala). È caratterizzata dalla presenza di creste violacee che conferiscono alla preparazione un sapore più intenso

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IL PIATTO Il macellaio

«Ideale riscoprirla durante le feste»

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a trippa non è solo appannaggio di qualche ristorante orobico. Con un costo ridotto e ingredienti di qualità è possibile preparare un’ottima zuppa anche a casa. Ma attenzione: la cottura è molto lunga. Bisogna quindi armarsi di pazienza per garantire la buona riuscita del piatto, come conferma Fabio Fabio Magri Magri, titolare della macelleria Magri di Chiuduno: «La trippa fa parte dell’iconografia delle nostre nonne. È la cucina delle stalle, un piatto che riscaldava l’ambiente. Ancora oggi la si prepara durante le feste oppure nelle seconde case di montagna. Le feste rappresentano il momento migliore per riscoprire questo piatto perché si ha più tempo per mettersi ai fornelli e per dedicarsi alla famiglia. La trippa non dev’essere solo buona ma anche bella da cucinare per un piacere conviviale, nel rispetto dell’ambiente e nel ricordo delle tradizioni». Ma quali pezzi di carne scegliere per realizzare una buona trippa? «Servono lo stomaco (detto millefogli o foiolo)

o il rumine (chiappa) della mucca – afferma Magri –. Per la trippa in minestra si usa il misto millefoglie e chiappa con cottura lenta in brodo, l’umido invece prevede solo il millefoglie. C’è anche chi fa il lampredotto (parte dell’omaso) alla toscana con il pomodoro. Tante famiglie che vivono a Bergamo provengono da varie regioni d’Italia quindi le usanze si mescolano». Nel corso degli anni la trippa ha vissuto alterne fortune. Tuttavia, dopo vari corsi e ricorsi storici, oggi è tornata a imporsi in tavola: «La trippa, al pari della altre frattaglie o di altri tagli del cosiddetto quinto quarto, era andata progressivamente scomparendo dalle tavole dei ristoranti o trattorie – conclude Magri –. Da piatto povero per eccellenza, servito nella maggioranza delle osterie e trattorie, ha cominciato a soffrire la concorrenza dei tagli più costosi ma più facili da cucinare durante il boom economico. Il periodo di oblio, meglio dire di rifiuto per la lunga preparazione, ha di fatto trasformato uno dei piatti più popolari in un cibo cult. Fino a raggiungere il paradosso attuale, che vede la trippa e le sue varianti proposte magari sotto mentite spoglie, dopo essere stata manipolata dai grandi cuochi, nei locali del lusso culinario».

Qualche indirizzo dove gustarla In città La Ciotola (viale Papa Giovanni) – tutto l’anno; Ol Giopì e la Margì (via Borgo Palazzo) – tutto l’anno; Trattoria Lozza (via Madonna del Bosco) – da ottobre a febbraio. In provincia Trattoria Moro da Gigi (Desenzano di Albino) – da ottobre a maggio nel menù del giorno e da asporto; Trattoria C'era una volta (Desenzano di Albino) - nel mese di ottobre in occasione della festa della Madonna della Gamba e su prenotazione durante l’anno; Hosteria del Vapore (Carobbio degli Angeli) – piatto del giorno da settembre a marzo; Antica Locanda (Clusone) – una volta al mese come piatto del giorno; Albergo Centrale (Fino del Monte) – tutti i giorni dell'anno; Agriturismo

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Ferdy (Lenna) – nei periodi freddi e in occasione di Santa Lucia; Al Platano da Gira (Foresto Sparso) – piatto del giorno nei periodi più freddi dell’anno; Polisena “L’altro agriturismo” (Pontida) – nel menù autunnale; Albergo ristorante Da Gianni (Zogno) – serate a tema nel mese di novembre. Le sagre Festa della trippa di San Pellegrino (Santa Croce) - settembre; Sagra del Casoncello d’autunno a Strozza, con sfida tra casoncello, trippa e pizzoccheri – metà ottobre.


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Riflessioni di Enrico Rota

La tutela dei prodotti: un valore, un diritto o un onere?

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i parla spesso del concetto di “tutela” ma il più delle volte lo si fa in maniera superficiale, tralasciando aspetti che, dal mio punto di vista, rivestono un’importanza da non sottovalutare. Inizierei, innanzitutto, dal termine stesso: cosa intendiamo dire quando parliamo di prodotti tutelati e, di riflesso, degli enti che tutelano un prodotto? Quello della “tutela” è un concetto affascinante che, a seconda del punto di osservazione, può rivestire un’importanza differente e può assumere contorni molto diversi. Dal punto di vista del consumatore, un prodotto a tutela (Dop o Igp) è una garanzia, una sicurezza: sa che cosa sta consumando, quali sono gli ingredienti che lo compongono e la loro provenienza e i procedimenti ai quali è stato sottoposto il cibo o la bevanda che ha acquistato. Se ci poniamo dal punto di vista del produttore, il concetto di “tutela” assume un aspetto molto diverso. Si tratta, certamente, di una garanzia: potrà posizionare il proprio prodotto in una determinata categoria e fascia di prezzo e potrà, al tempo stesso, confrontarsi alla pari con i suoi concorrenti, sottostando alle stesse regole e limitazioni. Questo aspetto è fondamentale: la “tutela” comporta dei diritti ma, al tempo stesso, anche una serie di doveri e oneri che devono essere rispettati per ottenere il marchio di certificazione, sottoponendosi a regole generate da un disciplinare di produzione e ad una serie di controlli molto più rigidi. Questo significa che, una volta sul mercato, si gioca ad armi pari. Chi sceglie quindi di produrre fuori dalla “tutela” assume un comportamento ambiguo e, di riflesso, una perdita di credibilità nel mercato in quanto nessuno può controllare quello che il produttore decide di fare, quali componenti decide di usare e a quali processi sottopone il proprio prodotto. Da qui nasce il sotterfugio messo in atto con abilità e astuzia per giustificare la scelta di produrre al di fuori di determinate regole e controlli. Poco importa se si tratta di vino o di formaggio; il produttore è libero di giocare ad armi nascoste e tenta di difendere al meglio la sua scelta nei modi più fantasiosi, dimenticandosi però che il consumatore attento sa a cosa va incontro e, nella maggior parte dei casi, essendo un consumatore consapevole, rifugge ciò che è poco chiaro. Nel fare un esempio esaustivo applicato a un comparto a me caro, quello del mondo vinicolo bergamasco - e sapendo che la nostra zona detiene ben tre “tutele” a denominazione di origine (Moscato di Scanzo Docg, Valcalepio Doc, Terre del Colleoni Doc) che possono dar vita a ben 36 tipologie di vino - mi chiedo quale sia il vero motivo per produrre al di fuori delle regole previste dai disciplinari. Non produrre prodotti Dop o Igp significa poi non difendere il valore di un territorio. Mi piace ricordare che il desiderio di far conoscere a tutti come sono nati i prodotti che più ci stanno a cuore e il comprensibile sforzo nel tentativo di difenderli hanno dato vita ai Consorzi di tutela. Dal settore caseario a quello vitivinicolo, i Consorzi hanno come obiettivi la tutela e la promozione. Per difendere e promuovere un territorio e le sue produzioni specifiche occorrono le istituzioni, le organizzazioni di rappresentanza e i Consorzi. Quindi, come si può parlare di tutela se tutto ciò viene volutamente ignorato?

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L’INTERVISTA di Anna Facci

«I pasti dell’Atalanta nelle mie mani. Vi svelo cosa cucino per i giocatori» Gabriele Calvi è il cuoco della squadra nerazzurra e ogni settimana prepara un menù studiato in base a impegni e allenamenti. «L’obiettivo è servire piatti che diano un contributo energetico importante con un uso ridotto di materie grasse». E in sala c’è la sorella Katia Buone ma bilanciate per la dieta degli sportivi, le crostate con pochissimo burro sono una delle specialità di Gabriele Calvi

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banchetti in collaborazione con il Gruppo Percassi. Katia ottopiatti e bicchieri in vetro blu, posate nere, un ficco lo accompagna in entrambe le attività. A Zingonia è lei ad nerazzurro a legare il tovagliolo. È la tavola del ristorante occuparsi della sala, mentre in cucina Gabriele è affiandell'Atalanta, il luogo - al centro Bortolotti di Zingonia cato da Florinda Preci. dove mangiano i giocatori della prima squadra, l'allenatoCome si diventa chef di una squadra di serie A? re, lo staff ed i dirigenti e dove la società accoglie i propri ospiti. È il terreno di gioco di Gabriele Calvi, lo chef che da «Nel mio caso lo devo alla fiducia che hanno riposto in me quattro anni a questa parte si occupa il presidente e la famiglia Percassi. «Reja e Gasperini sono In precedenza il servizio era affidato del programma alimentare dei calciatori. Di Santa Brigida, 42 anni, cuoco ad un'azienda di catering, ma c'era entrambi buongustai». e ristoratore di terza generazione, è l'esigenza di curare direttamente la «Il pasto memorabile? cresciuto nella trattoria di famiglia proposta. Oggi è infatti assodato che Non scorderò mai ad Averara per poi collezionare, sin una corretta alimentazione aiuta molda giovanissimo, esperienze in giro tissimo a livello psicofisico e mantiene i “cestini” dopo il 2-0 per l'Italia. Con la sorella Katia ha geefficienti più a lungo, per gli sportivi è sul campo della Roma» perciò un aspetto fondamentale di cui stito negli anni Duemila il ristorante del Casinò di San Pellegrino, dove è tenere conto». tornato di recente con la società Grand Kursaal 1907 Occorre una preparazione specifica per la sua profes(nome originario e data di nascita del casinò brembano, sione? guarda caso, la stessa dell'Atalanta!) che cura eventi e «In realtà, non mi ero mai interessato prima di cucina


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sportiva. È un mondo che ho conosciuto entrandoci, studiando, seguendo corsi e provando. Nella definizione dei menù sono affiancato da un nutrizionista, dal responsabile sanitario Paolo Amaddeo e dal medico sociale Marco Bruzzone. L'obiettivo è preparare piatti che diano un contributo energetico importante, che apportino le proteine e i nutrimenti necessari con un uso ridotto di materie grasse. Seguendo questi canoni prepariamo, ad esempio, una crostata con pochissimo burro nella frolla, zucchero di canna e confettura di frutta cotta a vapore, ma anche una torta di mele senza burro e plumcake con lo yogurt greco zero grassi». Come è organizzato il lavoro? «Il giovedì, in genere, ricevo il programma della settimana successiva e predisponiamo il menù in base agli impegni. Le proposte cambiano, infatti, se l'allenamento è al mattino o al pomeriggio. Mi occupo degli acquisti e di tutti i pranzi e della cena prima della partita. Per la colazione, dipende dall'allenatore. Gasperini, ad esempio, preferisce che i giocatori la facciano qui. In pratica, la società segue due dei tre pasti della giornata dei calciatori». Cosa mangiano, perciò, i nerazzurri? «Piatti semplici ma fatti con ingredienti di prima qualità. La pasta è condita con salsa di pomodoro biologico, ragù di carni bianche, pesce spada e zucchine. Se l'allenamento è al mattino, a pranzo ci sta anche un pesto, fatto però con anacardi e basilico. Altra fonte importante di carboidrati è il riso, da quello nero a quello selvatico, dall'integrale all'arborio. Per secondo molta carne bianca e pesce, tutto cucinato espresso alla griglia, e a disposizione c'è sempre un buffet di verdure cotte a vapore, legumi, parmigiano reggiano, tonno, insalate fresche. Per colazione un'ottima fonte di antiossidanti sono gli estratti di frutta e verdura. Mirilli, zenzero, sedano bianco, broccolo verde, avocado, carote, mela, ananas, uva... ogni giocatore sceglie gli abbinamenti che preferisce». Il piatto che piace di più? «Il risotto spacca! Mi dicono tutti che è molto buono. Lo faccio con cuore di parmigiano reggiano e brodo vegetale». A tavola spesso si festeggia o ci si tira su di morale. Funziona così anche dopo una vittoria o una sconfitta? «No, il menù non cambia a seconda dei risultati, semmai con le stagioni. Il momento del pranzo è vissuto semplicemente come una parte del programma di lavoro quotidiano». Gli allenatori vogliono dire la loro sui pasti? «Non tanto sul menù, ma su tempi e orari sì». Chi è il più buongustaio tra i tecnici che ha conosciuto? «Edy Reja è un grande amante della cucina. Una volta ha portato qui in sede lo stellato Ernesto Iaccarino del Don Alfonso: gli ho preparato i casoncelli fatti a mano secondo la ricetta di mia nonna. Reja era anche contento se gli trovavo i funghi. Pure Gasperini gradisce la buona tavola, soprattutto il pesce». Tra i giocatori c'è qualcuno con il pallino della cucina? «Gomez ha fatto anche un corso e, sì, ogni tanto qualcuno mi chiede qualche ricetta o consiglio. Più che altro, però,

sono molto bravi nel seguire anche nel privato le indicazioni alimentari studiate per loro». Il prepartita ha un menù speciale? «La cena della vigilia è sempre la stessa: risotto alla parmigiana, coscia di pollo al forno con purè di patate fresche. Invece, prima della gara c'è chi vuole solo carboidrati e chi preferisce del prosciutto crudo magro o della bresaola». Certo che non c'è molto spazio per la creatività... «Quella la posso sfogare al Casinò di San Pellegrino, qui dobbiamo preparare piatti che facciano correre i calciatori. La mia idea di cucina è comunque improntata alla semplicità, ai sapori che ho incontrato lavorando in varie regioni d'Italia. In fondo, anche uno spaghetto al pomodoro, se fatto con materie prime di qualità, rispettandole il più possibile, non è niente male».

Gabriele Calvi con la sorella Katia, che cura il servizio in sala a Zingonia C'è un piatto porta fortuna? «Un piatto no, ma tanti rituali. Dai pantaloni che indosso a come inforno le torte e i plumcake...». ... Leggermente tifoso? «Sinceramente prima di approdare all'Atalanta avevo perso la passione per il calcio. Oggi invece conosco i ragazzi che scendono in campo e sento le partite tantissimo, al punto che non riesco a seguirle allo stadio o in diretta alla tv». Il pasto da ricordare? «Il cestino dopo il due a zero, gol di Gomez e Denis, sul campo della Roma nella scorsa stagione. Al termine della partita i giocatori mangiano perché hanno speso tutte le energie. Lo fanno appena rientrano negli spogliatoi e anche più tardi con panini ed altri alimenti che chiamiamo cestino. La trasferta era stata impegnativa e la vittoria bellissima, ecco, in quell'occasione non sono mai stato così contento di distribuire i cestini!». Visto il buon momento della squadra, qualcuno le avrà chiesto se dipende anche da ciò che mette nel piatto... «A mo' di battuta è una considerazione che alcuni amici fanno, ma ovviamente non lo si può stabilire. Una cosa però ci riconoscono alcuni ragazzi: "Ci date serenità", dicono a me e Katia, ed è molto gratificante».

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Il locale di Rosanna Scardi

Paolo Colleoni

Marelèt, «ecco come si diventa Bar dell’Anno» La locanda trevigliese, gestita dalla famiglia Colleoni (ristorante San Martino), ha ricevuto il premio di miglior bar d’Italia dal Gambero Rosso. «Per arrivare a certi traguardi servono umiltà, voglia di fare, costanza e passione». «A chi vuole buttarsi nella mischia il consiglio è di non improvvisare. Il nostro è un lavoro durissimo, molto più faticoso della ristorazione, perché richiede un’organizzazione costante e a 360 gradi»

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er gli esperti del Gambero Rosso non ci sono dubbi: il Bar dell’Anno d'Italia è il Marelèt di Treviglio, gestito dalla famiglia Colleoni, che dal 1969 guida il vicino ristorante stellato San Martino. Il locale ha conquistato il “Premio Illy” e una lusinghiera recensione nell'edizione 2017 della prestigiosa guida che al riguardo segnala “design, tecnologie ed ecosostenibilità per arredi e strutture esterne, dentro toni caldi e funzionalità”, mettendo in risalto “il classico rito di espresso e brioche che può contare su un reparto di caffetteria di alto livello”, mentre “rubano lo sguardo le straordinarie torte da forno e da frigo”. Il volume traccia una mappatura di 1.320 locali sparsi in tutta Italia. Solo 29 sono risultati i finalisti del concorso meritando “tre tazzine” per l'atmosfera e “tre chicchi” per la qualità dell'espresso, inclusa la pasticceria Morlacchi di Zanica. Aperto il 17 febbraio del 2015, il locale trevigliese è una locanda e osteria contemporanea concepita nel rispetto della sua storia: nasce dalla ristrutturazione di una vecchia trattoria attiva dal 1890 con alloggio. Dove c'erano le stanze che ospitavano le famiglie che arrivavano con i carri all'ospedale Santa Maria, oggi ci

sono 18 camere moderne e all'avanguardia. I dipendenti, in costante formazione e aggiornamento, sono 14. A ideare e realizzare il progetto sono stati i fratelli Colleoni. Noi abbiamo incontrato Paolo. Attorno al mondo del caffè ci sono un gran fermento e tanta concorrenza. Come si raggiunge un traguardo così importante? «Sono indispensabili umiltà, voglia di fare, costanza e passione. Ammetto che per noi, che proveniamo dal settore della ristorazione e dell'ospitalità, il riconoscimento del Gambero Rosso è stato inaspettato. Il loro giudizio si sarà basato sul nostro concept, un bar del terzo millennio. Il segreto sta nell'offrire un servizio di qualità completo: dalle 7.30 a mezzanotte siamo in grado di soddisfare qualunque tipo di clientela, da chi ha bisogno di una colazione a chi viene per un pranzo di lavoro, dalla merenda per le mamme con i bambini il pomeriggio fino a cocktail e aperitivi per la fascia più giovane la sera». I suoi genitori hanno ereditato il mestiere dai suoi nonni, papà Beppe è stato per cinquant'anni lo chef del San Martino conquistando la stella Michelin nel 1994, al suo fianco c'è sempre stata mamma Olga. Il testi-


novembre 2016 mone è passato a voi figli. In che modo vi suddividete i compiti? «Noi siamo nati e cresciuti tra pentole e fornelli e ci consideriamo dei tuttofare. Mio fratello Vittorio oggi gestisce la cucina, mentre io e Marco ci occupiamo più dell'organizzazione. Anche Cristina, che è impegnata con i suoi bambini, ci dà una mano. Il nuovo progetto del Marelèt rappresenta per noi, che siamo la terza generazione di Colleoni, una sfida, sempre alla ricerca di un'identità propria, di un'idea forte. Ma abbiamo appena cominciato, siamo consapevoli che c'è molta strada da fare». I suoi primi ricordi sono legati a un piatto in particolare? «Eccome, ai “maccheroncini alla cubana” inventati quarant'anni fa da mio papà e ai “tortelli di mamma Olga”, entrambi piatti dalla ricetta segreta». Il San Martino non è un ristorante per tutte le tasche. Il Marelèt può considerarsi una sua versione più popolare? «Non esiste la distinzione tra cucina costosa o elevata e popolare. C'è solo una cucina di qualità. Se al Marelèt spendi meno è perché il prezzo è pensato per quel menù. Sono espressioni diverse. Una pizza a 10 euro lascia più margine di un piatto a 40, perché anche se la prima è come un cartone conta poco, se invece io ti propongo un rombo con funghi finferli e tartufo nero non deve essere buono, ma molto di più». A proposito di specialità, la “locanda” sposa una filosofia ben precisa: il recupero della tradizione culinaria, ci fa qualche esempio? «Il “riso Brebemi”, un risotto con zafferano alla milanese salsiccia bresciana e fonduta bergamasca, o la “spuma di patata affumicata con piovra croccante”, rivisitazione moderna dell'insalata di polipo con il prezzemolo che tutti conosciamo». La valutazione del Gambero Rosso tiene conto anche di altri fattori come le linee di design e i dettami “green”

dell’ecosostenibilità. Lei, tra l'altro, ha studiato Architettura. Quali sono le peculiarità del locale? «Ammetto di essermi divertito a dare qualche suggerimento, ma il designer è Maurizio Argenti di Verdello. Abbiamo operato una demolizione con ricostruzione, la struttura è un prefabbricato totalmente in legno, geotermico pertanto attraverso due buchi sul pavimento si accede all'acqua del terreno che grazie alle pompe produce calore e raffreddamento. E poi l'edificio è dotato di pannelli solari. Siamo a emissioni zero. Copriamo il nostro fabbisogno energetico, senza produrre nessun tipo di inquinamento». Da “numero uno”, cosa consiglierebbe a chi volesse aprire oggi un bar? «Non ci s’improvvisa. Occorre crederci e avere passione. È un lavoro durissimo, molto più faticoso della ristorazione perché richiede un'organizzazione a 360 gradi e costante. Dalle 7 a mezzanotte è un continuo cambiare pelle». Una volta si leggeva la recensione su una guida e ci si fidava dell'esperto. Oggi esistono TripAdvisor, i social network, la tv. Come è cambiato il modo di comunicare la gastronomia? «Tutti dicono la propria, postando commenti ed elevandosi a guru. Il fattore positivo è che così alzano l'interesse e la curiosità. Però spesso sul piccolo schermo, nei tanti format, passa l'idea che stare ai fornelli sia un giochino, un passatempo. Mio fratello Vittorio ha lavorato dietro le quinte televisive, dove ci sono grandi nomi che diventano star tv. Il rischio per loro è di perdere il contatto con la professione e con la realtà». Quindi il posto dello chef non è in tv? «Anche. Possiamo dire che oggi c'è lo chef televisivo e lo chef ristoratore. Secondo me, il cuoco deve sempre trovarsi nel proprio ristorante. Anche se non lavora, deve supervisionare». Ha mai avuto Carlo Cracco o altri volti noti nei suoi locali? «Non sono clienti. Ma colleghi».

Paolo Colleoni con i fratelli Vittorio e Marco

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la coltivazione di Rosanna Scardi

L’imprenditrice agricola Elisabetta Ravani è la prima nella Bergamasca a coltivare il tubero. La raccolta è iniziata a ottobre e proseguirà fino a primavera Elisabetta Ravani

Lombarda Topinambur via Filippo Corridoni, 42 Fontanella www.lombardatopinambur.it tel. 333 5237430

Il topinambur trova “casa” a Fontanella

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portarlo in Italia è stato Cristoforo Colombo, eppure ancora oggi è poco conosciuto. Dopo averlo consumato nei periodi delle guerre, è stato dimenticato con l’eccezione della cucina piemontese. Il topinambur, o rapa tedesca, oltre a essere buono, fa bene, tanto da essere chiamato “la patata della salute”. L’azienda Lombarda Topinambur, di Fontanella, la prima nella Bergamasca a coltivare il tubero, ha iniziato il raccolto a ottobre e proseguirà fino a primavera con la previsione di distribuirne cinque tonnellate. A decidere di farlo tornare sulle tavole è stata Elisabetta Ravani, 31 anni, appassionata di sana alimentazione. «Quando ho avviato il progetto, c’era chi mi guardava incredulo chiedendomi cosa fosse il topinambur - sorride l’imprenditrice agricola -, i suoi benefici sono tantissimi, purtroppo la raccolta a mano l’ha reso un ortaggio difficile, le multinazionali hanno preferito le patate. Noi lo coltiviamo senza l’utilizzo di concimi, diserbanti, antigermoglianti, antiparassitari, prelevando di volta in volta i tuberi in base agli ordini che riceviamo

per offrire la massima freschezza del prodotto». I bulbi sono, infatti, attorno alle radici e, al contrario delle patate, possono restare sotto terra, mantenendo inalterate le loro proprietà. L’aspetto ricorda quello del ginger, il colore è rosso-violaceo, mentre la pianta, che si semina tra febbraio e maggio, può raggiungere i quattro metri di altezza. Altra sua caratteristica sono i fiori gialli, simili ai girasoli che si volgono verso la luce. Le qualità sono tantissime: è povero di calorie, quindi ideale nelle diete dimagranti, ricco di vitamine A, B1, B2 e C e di minerali come magnesio, ferro e zinco, ha poco amido e tanta inulina. Inoltre, ha potere lassativo e viene usato nella cucina dell’infanzia

e come digestivo, con un’accortezza: non si possono superare i 200 grammi giornalieri. Il sapore ricorda il cuore del carciofo, non serve pelarlo, basta spazzolarlo. Si può consumare nel risotto, al forno con le patate, come polpette che accompagnano la carne, tagliato a pezzetti nella minestra o nel minestrone, nella pasta, fritto a fettine sottili come le patatine. Ottimo anche trifolato, condito con olio, aglio, sale, prezzemolo e pepe. Si può consumare anche crudo in insalata, dopo averlo tagliato con una mandolina. Lombarda Topinambur guarda anche al suo utilizzo tutto l’anno. «È un peccato non godere dei suoi benefici in estate, l’idea è di essiccarlo come si fa con i funghi porcini e creare una farina per pane e dolci. E poi farne sottolii e ravioli, oltre a infusi con fiori e foglie», conclude Elisabetta. Le consegne sono gratuite nei paesi limitrofi a Fontanella, come Treviglio, Caravaggio, Soncino, Misano, Mozzanica, Chiari, Romano, Bariano, Calvenzano, Covo, Calcio, Cortenuova. Il costo è 2,40 euro per mezzo chilo, 4,60 per uno, 19,50 per cinque.


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la ricetta

Capel de Monega, un raviolo “brevettato” in omaggio alla Val Brembana Lo chef Andrew Regazzoni ha scelto di registrare nome, forma e ingredienti di un piatto originale dedicato al territorio. La presentazione venerdì 25 novembre a San Pellegrino

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na valle racchiusa in un raviolo! È la sfida di Andrew Remio consiglio è di servirlo su una fonduta di Taleggio o gazzoni, chef 41enne di San Pellegrino, che, convinto Branzi, anche aromatizzata con erbe». dell’importanza della gastronomia per raccontare e proIl Capel de Monega è già nella carta di alcuni ristoranti muovere un territorio, ha voluto offrire alla sua Val Breme rifugi, ma verrà presentato ufficialmente venerdì 25 nobana un nuovo biglietto da visita goloso. Per farlo non vembre nella serata “Convivium” organizzata da Regazzoha lasciato nulla al caso. Ha infatti registrato all’Ufficio ni all’albergo Papa di San Pellegrino, dove lavora e dove brevetti e marchi della Camera di Commercio di Bergamo per l’occasione ha riunito aziende, anche piccolissime, nome, forma e ingredienti del piatto, lo ha corredato di della Valle Brembana con i loro prodotti ed un gruppo tabella nutrizionale, curata dal nutrizionista Vito Traversa, di chef del territorio che li elaboreranno sul momento in e di un’immagine firmata dall’illustratore Stefano Torriani. versione finger food, prima di passare a tavola e gustare Si chiama “Capel de Monega”, tradotto dal dialetto “capil raviolo. «La ricetta risale ai primi anni Novanta – racconta lo chef -. pello di monaca”. È una pasta ripiena che, come dice il L’ha messa a punto un amico e collega, Ludovico Pozzi, nome, ricorda nella forma i copricapi dalle larghe falde di che oggi lavora al Niniva di Almè. Quando l’ho assaggiaalcuni ordini religiosi. All’interno un cuore di magro fatto to, circa cinque anni fa, mi è sembrato un buon prodotto di patate, barbabietole, formaggio di monte stagionato, ed ho cercato, d’accordo con lui, mostarda di Cremona (unico un modo per valorizzarlo». «La sconfinamento fuori provincia scelta di tutelarlo con un marchio per trovare la nota acida necesnon è legata a fini commerciasaria a chiudere il gusto) e burro li – precisa -, ma alla volontà di di malga. «È un omaggio alle profissare in maniera precisa come duzioni e tradizioni del territorio è fatto e come è nato. Sino ad – spiega Regazzoni -. Le patate, ora lo abbiamo lasciato volentieri un tempo tipiche delle nostre “in eredità” nei locali dove siamo montagne, di Carona in particopassati e potrà anche darsi che lare, sono quelle della cooperaverrà copiato. Non ci importa. Per tiva sociale Ca’ Al del Mans di noi quest’operazione serve ad afSerina, le barbabietole, che danfermare che in Val Brembana ci no il caratteristico colore rosa al sono prodotti di eccellenza ma ripieno, vengono dalla Valle di anche idee, professionalità e deAstino, il formaggio di monte è terminazione per farli apprezzare. quello stagionato tre anni della Un modo per dare una mano al latteria sociale di Valtorta e la territorio con ciò che noi cuochi pasta è fatta con poche uova, Andrew Regazzoni e il collega Ludovico Pozzi, sappiamo fare». secondo l’uso bergamasco. Il ideatore del primo Capel de Monega

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Il prodotto di Leo Bartoli

La Torta Orobica? Piace anche all’estero N

on è dolce ma salata la Torta Orobica, uno dei formaggi che, pur non avendo dignità di Dop è tra i più popolari della Bergamasca, alfiere della lavorazione a pasta molle che così tanto ha inciso nella storia casearia della Pianura Padana. Questo cacio a crosta lavata è uno dei vanti della Latteria Sociale di Calvenzano, che dal 1922 è uno dei punti di riferimento del mondo caseario della Bergamasca. Composta da 21 soci, che conferiscono i tre quarti del latte trasformato (il resto arriva comunque da aziende non associate della zona), la cooperativa, che ha 16 dipendenti, raccoglie 65mila quintali di latte l’anno per la produzione di Taleggio Dop (8.000 quintali) e di altri 500 quintali di “campioni” locali (tra cui appunto la

L’attività

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di Rosanna Scardi

Torta Orobica, ma anche il Quartirolo Dop, caciotte e formaggelle varie) che oltre ai canali di vendita tradizionale trovano il loro sfogo naturale nel modernissimo e ampio spaccio aziendale, che assicura circa il 16% del fatturato totale (circa 4,5 milioni di euro). «La Latteria di Calvenzano ha una storia lunga - spiega il direttore Gian Mario Fugazzola - e per decenni dalla sua costituzione è stata riferimento per il prezzo del latte della zona, oltre che sede dei corsi di tecnica casearia organizzati dalla Provincia di Bergamo. Dall’ultimo Dopoguerra si è sempre più specializzata nelle produzioni di formaggi molli a crosta lavata, taleggio in primis, ma anche formaggi della tradizione lombarda. Dagli anni Novanta/Duemila

“Luce dell’alveare”, la chicca è il

l mestiere di apicoltore è profondamente legato all’amore e al rispetto per la natura. Lo conferma la storia di Giuseppe Blini, trevigliese, che ha abbandonato gli studi di Odontoiatria per dedicarsi alla sua passione, dopo aver seguito un corso ad hoc. Complice la moglie Stefania Puglisi, laureata in Biotecnologie alimentari, ex ricercatrice, che oggi lo affianca nell’azienda “Luce dell’alveare”. «Luce è la nostra prima bambina, con la sua nascita è fiorita la nostra famiglia, ci è piaciuto fare un richiamo alla vita sociale delle api», - spiega la coppia, in attesa del secondo figlio e che si definisce con orgoglio «un po’ naif e campagnola». La loro attività è conosciuta dagli estimatori del dolcissimo alimento anche se non è pubblicizzata su siti Internet, né sui social. Per assaggiare le varietà rarissime che produce Blini, come il miele di lampone e di rododendro, bisogna recarsi nell’abitazione in campagna, in via Fara,

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poi, sull’onda salutista, i consumi di queste tipologie si sono prima contratti, perché ritenuti troppo grassi, per poi riprendersi grazie soprattutto ad una nuova cultura alimentare che valorizza i prodotti tipici italiani e che finalmente ha permesso di trovare maggiori sbocchi all’estero, insieme ad una migliore gestione delle stagionature». E a proposito di export, Fugazzola cita il formaggio simbolo, il Taleggio Dop, la cui evoluzione «potrà essere ancor più positiva se si saprà sfruttare il trend favorevole del made in

al civico 28, dove balzano subito alla vista le coloratissime arnie. Ne possiede 54, collocate in parte presso la Cooperativa agricola Castel Cerreto e nella zona dei fontanili a Vailate. Capita spesso che i vigili chiamino l’allevatore in caso di sciamatura selvatica. Le api sono un bene prezioso e l’apicoltore interviene sul posto, per la sicurezza e la loro salvaguardia. La sua specie è la ligustica. In estate ogni famiglia può raggiungere 70mila esemplari, compresi


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Il vanto della Latteria sociale di Calvenzano è apprezzato anche oltreconfine. Alfiere della lavorazione a pasta molle, la chicca è tra le più popolari della Bergamasca. Fugazzola: «Simile come pasta al taleggio, sopporta una stagionatura più lunga che assicura un sapore più aromatico e deciso»

Italy di qualità, promuovendo il Taleggio anche come ingrediente per la cucina quotidiana con ricette semplici e tradizionali». Nei consumi interni giocano un ruolo importante quei formaggi della tradizione come appunto la Torta Orobica, una delle “bandiere” di Calvenzano. «Simile come pasta al taleggio - spiega Fugazzola -, la Torta Orobica ha una pezzatura cilindrica di circa 4-5 chili di peso e sopporta una stagionatura più lunga (anche 90 giorni) che gli consente un sapore più aromatico e deciso». Per questo è molto apprezzato dalla clientela, «anche se i volumi limitati non giustificano l’adozione di uno strumento di tutela come la Dop,

che ha comunque dei costi di certificazione notevoli, non sopportabili se non sostenuti da quantitativi sufficienti: l’esempio dello Strachitunt è eloquente». E in riferimento a quell’unità d’intenti nel mondo caseario che in provincia è sempre mancata per promuovere kermesse importanti, anche da Calvenzano arriva la conferma: «Rispetto a Cheese, nata più come iniziativa culturale sulla spinta della proliferazione del movimento Slowfood - spiega il direttore - in Bergamasca c’è poca propensione delle aziende all’aggregazione. Servirebbe una proposta forte o dalle istituzioni o dalle associazioni, meglio ancora dai Consorzi di tutela».

pregiato miele di melata i 4-5mila fuchi che hanno il compito di fecondare la regina che depone un migliaio di uova al giorno. In inverno c’è il blocco di covata, restano solo le operaie e il numero scende tra le 5 e le 15mila per famiglia. Il loro nettare, richiestissimo nelle stagioni fredde per contrastare i malanni, è anche frutto del nomadismo. Con questa tecnica da ogni arnia si possono ricavare in media 25-30 chili di miele l’anno. In pianura le api producono i mieli più comuni: dal tarassaco alla robinia o acacia fino al tiglio e all’erba medica. Con un’eccezione, introvabile sugli scaffali dei supermercati: il miele di melata, che deriva dalla linfa degli alberi, dal sapore intenso e dal colore scuro, tendente al nero. Finite le fioriture, a giugno l’apicoltore si sposta con i nidi, prima in collina, a 800 metri, dove produce il miele al castagno e il millefiori. Poi, sul passo del Tonale, in zone incontaminate tra i 1.200 e i 1.600 metri, dove le condizioni climatiche rendono il lavoro più difficile. Il risultato è pregiatissimo e

Per il futuro la Latteria guarda all’estero, pur facendolo “per conto terzi” e pensando a crescere come struttura: «Abbiamo in corso investimenti per ampliare la Latteria - aggiunge Fugazzola -, ma continueremo a concentrarci sugli attuali prodotti. Peraltro, non avendo un marchio proprio e lavorando prevalentemente con grossisti o stagionatori nell’ambito della Dop, noi non esportiamo direttamente, ma dalle certificazioni sanitarie che vengono richieste sappiamo che i nostri prodotti raggiungono in percentuale consistente i mercati esteri, sia europei che extra Ue: una soddisfazione che ci piacerebbe continuasse a crescere».

Apicoltura Luce Dell’alveare di Giuseppe Blini via Fara, 28 Treviglio

Giuseppe Blini con la moglie Stefania Puglisi ripaga di ogni fatica, il miele al rododendro e al lampone. Il primo, giallo paglierino, possiede un sapore vegetale e proprietà depurative e ricostituenti. L’altro, color panna e dalla consistenza cristallizzata, è fruttato. Sfiziosità dallo stesso sapore della pianta. «Essere apicoltore comporta spirito di osservazione, calma, capacità di seguire i ritmi della natura, oltre che l’elasticità nel disporre del proprio tempo. E pensare che siamo partiti con un alveare, quasi fosse un esperimento, oggi non potremmo vivere senza le nostre amiche», conclude l’apicoltore.

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il decalogo di Roberta Martinelli

In vista del Natale, e con la prospettiva delle tavolate pantagrueliche, abbiamo pensato a un piccolo vademecum per chi vuole imparare l’arte del riciclo e degli acquisti meditati

È

Pranzi senza sprechi, ecco le 10 regole per salvare gli avanzi un classico dei pranzi e delle cene natalizie: ogni anno ci ripromettiamo di non esagerare, ma poi prepariamo tanto cibo da avanzarne a sufficienza per un pranzo di eguale portata. Non c’è niente da fare, a Natale parte il “compro cibo” compulsivo. Della serie: “Non si sa mai che i nostri ospiti muoiano di fame”. Il problema è che poi ci ritroviamo chili di avanzi, cibi e prodotti ancora commestibili che rischiano di finire nella spazzatura. Da qualche mese è entrata in vigore la Legge anti-spreco che facilita le donazioni di cibo da parte di negozi, supermercati, ristoranti e mense agli enti solidali. Un buon traguardo, anche se ciò non toglie che la prima lotta allo spreco va fatta in famiglia. Secondo un rapporto realizzato da Waste Watchers, ogni famiglia italiana butta tra i 200 grammi e i 2 chilogrammi di alimenti ogni

Lo chef “anti-spreco” Franco Aliberti

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settimana che equivalgono a circa 7,1 euro. Durante le feste i rifiuti aumentano in misura esponenziale: pranzi e cene natalizie si traducono in 33mila tonnellate di rifiuti. Per evitare gli sprechi a Natale, vi proponiamo alcune semplici regole che spaziano dalla spesa al supermercato alla cottura salva-energia, fino al riutilizzo degli avanzi, con alcune ricette suggerite da Franco Aliberti, chef campano cofondatore di Evviva, caffetteria, pasticceria e ristorante in Riccione, che ha fatto della cultura antispreco la sua filosofia in cucina. (Per chi vuole approfondire, terrà un laboratorio all’Accademia del Gusto di Osio Sotto il 23 novembre – info: www.ascomformazione.it).

1. Ricette semplici e con prodotti che avete già

Contenere lo spreco significa anche ottimizzare i costi. Scegliete quindi ricette che vi permettano di utilizzare anche quello che avete già in dispensa. È il primo accorgimento da considerare, anche se sembra banale. In questo modo non si spende troppo per comprare altro lasciando magari scadere quello che è già a portata di mano. Inoltre evitate ricette che comportino l’acquisto di prodotti costosi. Bandite quindi aragoste e crostacei e via libera a cozze (si possono cucinare in moltissimi modi spendendo poco), ricciola, alice, rana pescatrice, palamita, sgombro, vongola verace, rombo, polpo e seppie, controllando la provenienza. Piatti consigliati: per un menù di pesce, crostini con acciughe e capperi o frittelle di baccalà alle erbe aromatiche, filetti di merluzzo e baccalà, pasta al nero di seppia (fatta in casa è economica e le seppie possono diventare un secondo o essere usate in un’altra occasione), pasta funghi, tonno e acciughe. Per un pasto di carne: filetti di tacchino al vinsanto, alternativa leggera rispetto al classico arrosto, accompagnati da carote al marsala o


novembre 2016 carciofi all’arancia. Oppure bollito misto con mostarda e salse: sostituendo il petto di gallina con quello di cappone si possono fare ottimi cappelletti in brodo. E come aperitivi, pinzimonio di verdure, frittelle di salvia, soufflé di carote e zucca, muffin pomodoro e curry, insalata finocchi e uvetta.

2. Rispettate la stagionalità Secondo Franco Aliberti «la prima regola per chi vuole avere una attenzione al cibo e allo spreco è seguire la stagionalità dei prodotti, perché hanno prezzi più bassi e si risparmia». Gli ingredienti su cui puntare quindi sono zucca, spinaci, finocchi, carciofi, insalata trevigiana, bietole, broccoli, carciofi, cardi, carote, cavolfiori, cavoli, cicorie, cime di rapa, patate, porri, radicchi, sedani, cipolle; e per la frutta cachi, noci, mele e pere. I legumi, in particolare, possono diventare ingredienti di piatti insoliti e in grado di stupire. «Con fagioli e ceci a Natale si può preparare una ricetta molto divertente, ora di moda - suggerisce Aliberti -: si cuoce il legume, ricordandosi che va sempre messo a bagno 12 ore prima, in pochissima acqua senza sale né aromi; una volta cotto, si conserva l’acqua e si lascia raffreddare. Quindi si monta con un po’ di zucchero a velo, si ottengono delle meringhe super salutari e interessanti. Oppure, se si ha più tempo, con l’acqua raffreddata dei legumi di può fare la torta paradiso». Anche i broccoli possono diventare un piatto ricercato: «Si recuperano le cimette, si lasciano cuocere in acqua salata 5 minuti, si scolano e così come sono, ancora calde (il caldo rende più cremosa la preparazione), si frullano con olio - 150 grammi su 500 grammi di broccolo -, un po’ di sale e pepe. In 2-3 minuti si ottiene una crema buonissima e molto leggera. Si può mettere a forma di cilindro nel centro del piatto con un altro po’ di cime grattugiate sopra. Viene un cous cous di broccolo

ottimo come antipasto, da mangiare con crostini di pane di qualche giorno indietro, anche con le mani».

3. Preparate una lista

della spesa dettagliata

Vagare per le corsie del supermercato senza avere le idee chiare è il modo migliore per acquistare prodotti che non servono. Per comprare la giusta quantità di cibo ed evitare di portare a casa prodotti in surplus che poi finiranno in spazzatura, compilate in anticipo una lista della spesa pensando a quello che veramente vi serve.

4. Studiate bene le quantità Nel pensare il menù siate realistici quando stimate le porzioni e non fatevi prendere dal terrore di preparare poco cibo. Studiate bene le portate e le quantità necessarie, fate attenzione che queste siano proporzionali al numero dei commensali. Ricordate anche che le pietanze, e quindi gli acquisti, non vanno valutati in base alla quantità/peso ma all’apporto di calorie e che il corpo umano ha bisogno di solo 2.000/2.400 kcal per funzionare per 24 ore. Quindi se calcolate di preparare una carrellata di salumi, tartine e salmone, lasagne e arrosto con le patate al forno forse quattro dolci differenti non servono! Prevedete porzioni contenute, soprattutto per i bambini tanto più che nel menù ci saranno tante altre portate: calcolate 80g di pasta a testa per gli adulti e 50 per i bambini.

5. Occhio alle date di scadenza e alle offerte

Durante la spesa acquistate prodotti con una scadenza lunga così, se non li consumate, potrete utilizzarli anche nei giorni successivi. Non fatevi tentare dalla trappola

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il decalogo

delle offerte e non riempite il carrello di panettoni, pandori e torroni che sapete non mangerete mai.

6. Scegliete cotture brevi

Letture per approfondire

e non al forno

Un’altra regola importante è fare attenzione al consumo di energia. Tenere il forno acceso per una notte diventa spreco. Preferite, soprattutto per le cotture più lunghe, la pentola a pressione. Si risparmia in termini di tempo e di gas. Con un’accortezza: mettete meno acqua possibile nella pentola, così abbreviate i tempi per portarla in pressione e quindi il consumo di energia. Se invece decidete di utilizzate padelle e pentole non a pressione mettete sempre i coperchi, meglio se di vetro così potete controllare la cottura del cibo senza aprirli. Controllate che la fiamma del fornello sia all’interno della pentola così non ci sarà dispersione di calore e spreco inutile di gas. Evitate le fritture (sono grasse e comportano un notevole spreco di olio) e utilizzate extravergine a crudo. Anche le crêpes saranno buonissime se al posto del burro userete l’extravergine. Secondo Aliberti, «si possono stupire gli ospiti anche con ricette semplici e di effetto utilizzando meno forno e andando sulla genuinità del prodotto. Ad esempio, si può fare un semplice riso fatto con del cavolo cappuccio viola che è anche di stagione: si taglia il cavolo, lo si mette nell’estrattore o nella centrifuga e si usa il liquido ottenuto per fare il brodo per il riso, in questo modo si evita di preparare quello di gallina che deve cuocere dalla mattina. Allo scarto si aggiunge il 2% di sale, si schiaccia leggermente e si fa riposare un po’: con il tempo fermenta e diventa buonissimo. I nonni l’hanno sempre fatto di conservare sotto sale. Infine, si aggiunge

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A tavola senza sprechi. 120 ricette del recupero a cura di B. Minerdo Slow Food, 2016

Ecocucina. Azzerare gli sprechi, risparmiare ed essere felici di Lisa Casali Gribaudo, 2015

Cucinare senza sprechi. Contro lo spreco alimentare: azioni e ricette di Andrea Segrè Ponte alle Grazie, 2015

Tutto fa brodo. Dagli scarti alle scorte: la mia rivoluzione in cucina di Lisa Casali Mondadori, 2015


novembre 2016 al succo un pizzico di bicarbonato (0.5 grammi per 1 litro di succo) che “scalda” il succo facendolo diventare blu. Ma si può giocare con i colori. Senza bicarbonato diventa verde, con un po’ di limone diventa rosa». «È un piatto semplice e totalmente naturale ma è colorato e spiazza dice lo chef-. Non richiede soffritto, solo olio, riso, sale e pepe in cottura. L’evaporazione toglie un po’ il sapore del cavolo e il gusto risulta molto delicato».

7. Porzioni piccole Non esagerate con le porzioni. Lo sappiamo, va contro la vostra idea del perfetto padrone di casa. Ma tenete presente che gli invitati potranno servirsi una seconda volta. E se non lo fanno, il cibo in eccesso potrà essere conservato e riutilizzato nei giorni successivi. Ancora meglio, portate in tavola la pietanza e incoraggiate gli ospiti a servirsi da soli. Ciascuno prenderà ciò che preferisce e non sarà costretto a lasciare nel piatto ciò che non gli piace (o a mangiarlo di malavoglia per non offendervi).

Se avanzano grandi quantità di pietanze cercate di utilizzarle per preparare altri piatti. Polpettoni e torte salate sono l’ideale per riciclare gli alimenti non consumati. I gambi dei carciofi o degli asparagi possono essere usati per preparare un risotto (tra l’altro sono ricchi di fibre), gli “scarti” di carote, finocchi e spinaci possono essere facilmente utilizzati per ottenere salse sfiziose per i crostini, la scorza del limone per insaporire l’impasto di una crostata, le barbe dei finocchi (apportano vitamine e sali minerali) per aromatizzare l’insalata. Con gli scarti del pesce e della carne si può preparare un brodo da congelare e tirare fuori dal freezer al momento giusto. Pesci come cernia e gallinella cucinati il giorno prima in guazzetto possono essere riutilizzati per un ottimo primo piatto, uniti a pomodorini freschi e verdure dolci come bieta e spinaci.

8. A tavola niente tovaglie tovaglioli di cartA e bicchieri di plastica

Nella preparazione della tavola evitate o limitate al minimo i prodotti usa e getta: niente piatti e bicchieri di plastica (che per di più sono poco eleganti e quindi inadatti a un pranzo di Natale) ma vetro, porcellana, tovaglie e tovaglioli di stoffa.

9. Usate decorazioni

e fragranze “fai da te”

Per le decorazioni della casa e della tavola non occorre spendere troppo: utilizzate bicchieri spaiati come portacandele; zuppiere come centrotavola; candelabri misti con palline natalizie al posto delle candele o barattoli delle olive riempiti di palline di Natale. Anche per profumare la casa si può usare una fragranza casalinga: mettete in una pentola piena d’acqua 2 fette di arancia o limone, aggiungete 10 chiodi di garofano, 1 stecca di cannella, 5 di anice stellato, una manciata di mirtilli rossi e 1 cucchiaino di noce moscata. Fate bollire piano e per tutta la casa si sprigionerà un vapore profumato di fragranza natalizia.

10. Conservate e riutilizzate gli avanzi il giorno dopo

Organizzatevi per conservare in modo efficiente e sicuro gli avanzi. Preparate i contenitori per il frigorifero e il freezer e congelate i cibi non consumati, dividendoli in piccole porzioni (mezzo tacchino ripieno intero ha molte probabilità di restare in freezer fino al momento di passare direttamente nella spazzatura). Cercate di consumare tutti gli alimenti conservati nel congelatore prima delle feste così da avere spazio a disposizione.

Anche i crostini possono essere “di riciclo”: basterà tagliare a fette il pane avanzato e tostarlo in padella o al forno per qualche minuto. E in quanto ai dolci: con il pandoro avanzato si può fare un ottimo tiramisù (lo si usa al posto dei biscotti) mentre il panettone può essere trasformato in muffin per la prima colazione oppure, «tagliato a fettine, tostato nel dessert, frullato con uova farina latte e cotto in forno per farne un soffice sufflè». «O ancora – suggerisce Aliberti - se si ha più tempo, lo si può schiacciare con le mani e passare nella macchina della pasta: con la fettina che ne esce si possono creare cannoncini o cannoli farciti con crema. Se invece lo si vuole consumare più avanti nel tempo, oltre la scadenza, si può tagliarlo a fettine e congelarlo». Persino spumante e moscato possono essere reimpiegati: se ne avanzano a tavola si possono usare per fare uno zabaione veloce e buonissimo. «Non preoccupatevi, non impazzirà – garantisce Aliberti - basta andare con calma. La ricetta è: due tuorli, 2 cucchiai di zucchero (30 grammi), 1 tazzina abbondante da caffè di spumante e cottura a bagnomaria». Se contenervi nella spesa non rientra proprio nel vostro Dna e malgrado tutti i nostri consigli vi trovate con un menù da dieci portate e pacchi di panettoni, torroni e dolciumi, ci sono altri due modi per non sperperare il cibo. Invitare un altro ospite alla vostra tavola, un parente, un amico, una persona bisognosa o in difficoltà e regalare i dolci a chi ne ha bisogno (basta che vi rivolgiate alla vostra parrocchia o agli enti caritatevoli del vostro comune).

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La novità di Rosanna Scardi

Simone Conti con la moglie Marisol

“Tilde”, a Treviglio il panettiere che rilancia i grani antichi

Simone Conti, laurea in Lingue a Bergamo e in Editoria a Londra, Tilde via Contessa Piazzoni, 7/a ha aperto a Castel Cerreto un laboratorio di panificazione artigianale. Treviglio - Castel Cerreto www.tildeforno.com Pasta madre, grani locali e lunghe fermentazioni sono i segreti della sua produzione. «I prodotti arrivano da aziende che praticano un’agricoltura in piccola scala e senza pesticidi. Il glutine è limitato e nella macinatura vengono conservate tutte le proprietà nutritive originali»

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resciuto nel negozio di alimentari gestito per mezzo secolo da suo papà Pino, storico commerciante trevigliese, scomparso il mese scorso, Simone Conti sembrava lontano anni luce dal raccoglierne il testimone: si è laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Bergamo, in Editoria a Londra, dove ha vissuto e conosciuto la moglie Marisol Malatesta - pittrice peruviana e tutor all’ateneo di Bournemout, al suo fianco nella nuova avventura, dopo una parentesi a Barcellona - occupandosi di fotografia e mantenendosi lavorando nei ristoranti della City. Finché, dopo tante esperienze, ha ritrovato la strada di casa, aprendo un forno artigiano, nella frazione di Castel Cerreto, dove produce pane a pasta madre e recupera grani antichi. Le pagnotte sono a pezzatura grande, sugli 850 grammi, e destinate a negozi e ristoranti. Annessa, però, c’è la bottega per la vendita diretta. Il laboratorio, 120 metri quadri nella corte padronale di via Contessa Piazzoni, si chiama

“Tilde”, come il simbolo dell’infinito che è impresso nel suo pane, usato in spagnolo e, fin dal Medioevo, dagli amanuensi per abbreviare risparmiando carta e inchiostro. «Richiama la mia filosofia: cura e rispetto della tradizione, usando tecnologie moderne», spiega Simone. La svolta è avvenuta proprio a Londra, dove era “fuggito” nel 2005 con l’obiettivo di migliorare l’inglese. Il nonno paterno, Luigi, era agricoltore e aveva un banco al mercato. Il padre iniziò a stare dietro al bancone della carne che era dodicenne. Due anni dopo aveva ottenuto il primo contratto in regola. Dopo quattordici anni di lavoro come dipendente, il grande salto: l’opportunità, colta al volo, di comprare l’attività, diventata a conduzione familiare. «Ricordo, da bambino, quando facevo da accompagnatore per le consegne con il furgoncino. Mio papà ha sempre amato il suo mestiere, tanto da dimenticarsi di aver raggiunto i requisiti per la pensione, ma ha anche sempre condotto una vita durissima e io, al contrario dei

miei familiari, ho scelto di fare altre esperienze», sorride il panettiere. Mentre cercava la sua strada, Simone si è mantenuto prima lavando i piatti, poi arrivando a occuparsi di pasticceria e diventando cuoco nella capitale inglese. L’incontro che gli ha aperto un nuovo mondo è stato con Giorgio Locatelli, il più famoso chef italiano a Londra, che vanta clienti come Madonna, Robbie Williams, Johnny Deep o i Beckham. «Mi ha fatto apprezzare la filosofia di Slow Food ed è stato allora che ho maturato il mio progetto - dice Conti -: usare farine ottenute da varietà di cereali rare e superiori per migliorare il prodotto, renderlo più aromatico e salutare, favorendo l’economia locale e facendo tornare sovrana la biodiversità alimentare». I grani provengono da aziende che praticano un’agricoltura in piccola scala, investono in pochi ettari di campi e non usano pesticidi. Il glutine è limitato.


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La macinatura avviene a pietra naturale in modo che il chicco non sia spaccato, né schiacciato, ma pelato, conservando tutte le proprietà nutritive originali. Il lievito madre è da farine tipo 2 e integrale con germe di grano e parte della fibra. Difficile da lavorare, la miscela è impastata da una macchina speciale a braccia tuffanti, dopo un passaggio in apposite celle frigorifere che fanno ritardare la fermentazione. Il prodotto si mantiene in tutta la sua bontà per almeno per cinque giorni. Segreti e tecniche che Simone ha imparato frequentando un master a Bra nel 2010. Tornato a Londra, ha preso spunto da ciò che accadeva a Hackney, il quartiere dove viveva con Marisol, dalla riscoperta delle botteghe e del cibo a chilometro zero già avviata. A Bristol, al Bordeaux Quay, ristorante che ricicla anche l’acqua piovana, ha invece appreso l’importanza della sostenibilità, mentre all’E5 Bake House di Londra l’arte della panificazione, impastando ogni giorno a mano. «Gli inglesi si ispirano molto ai francesi nelle tecniche, ma sono più integralisti e sono copiati anche dagli americani. Nulla è approssimativo o lasciato al caso, da loro ho imparato l’importanza delle lievitazioni lunghissime, che superano le venti ore e che quasi nessuno, da noi in Italia, propone perché antieconomiche, ma che io metto in pratica ogni giorno», ammette. Nel suo forno a Castel Cerreto, l’artigiano si concentra su quattro varietà. La prima è la più antica, il grano tenero che mescola sei-sette tipi di semi, forniti dall’azienda agricola Floriddia di Peccioli, nel Pisano. «Ogni risultato è un esperimento, provano a coltivare diverse specialità e quel miscuglio diventa il frutto tipico di quel territorio, un unico irripetibile altrove», aggiunge Marisol. I nomi dei semi sono, per citarne alcuni, il monococco, la

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Le pagnotte sono a pezzatura grande, sugli 850 grammi, e destinate a negozi e ristoranti. Annessa c’è la bottega per la vendita diretta. «La svolta è arrivata grazie all’incontro con Giorgio Locatelli, il più famoso chef italiano a Londra. Mi ha fatto apprezzare la filosofia di Slow Food ed è stato allora che ho maturato il mio progetto» sarragolla, la tumminia, il farro spelta e il farro di cocco. Poi, i grani siciliani, i tre farri e la segale Val di Gesso. A fornire la materia prima sono anche il Mulino della Riviera di Dronero e Sobrino a La Morra, nel Cuneese, Del Ponte a Castelvetrano, in provincia di Trapani, e Podere Monticelli a Villanova del Sillaro, nel Lodigiano. Il locale possiede uno spazio che sarà dedicato alle esposizioni d’arte e in programma ci sono anche corsi per i bambini. «L’educazione è la base, la differenza non sta nel prezzo, ma nella qualità, le nuove generazioni devono saper distinguere una fetta “vuota” da una ricca di vitamine», è l’opinio-

ne della coppia. La produzione iniziale è di 300 chilogrammi a settimana. A questi si aggiungono biscotti, dolci, focacce e la rivendita di prodotti del territorio come latte, uova, confetture, miele, lumache. Tra tanta esperienza, la più importante resta però quella di papà Pino: «Lui vale più di qualsiasi master, lo ricordo sempre felice dietro al bancone, conosceva i nomi dei clienti, scambiava battute in dialetto, li consigliava. Mia mamma e due mie sorelle gli erano sempre vicine - ricorda l’artigiano del pane -. Per lui i problemi non dovevano entrare nella bottega, doveva accogliere il suo cliente. Con il sorriso».

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alla SCOPERTa di Lara Abrati

Sui campi da golf vince anche il gusto

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mmersi nel verde e in atmosfere di fascino, i golf club hanno le carte in regola per diventare interessanti mete per un pranzo o una cena diversi dal solito. Succede anche a Bergamo, dove alcuni circoli si stanno aprendo a tutti, potenziando l’offerta di ristorazione delle proprie club house. E dove lo chef tristellato Chicco Cerea è l’ideatore di un connubio tra golf e alta cucina che sta portando gusto e ricercatezza in ambienti dove - contrariamente a quanto si può pensare ma perfettamente in linea con l’esigenza di soddisfare la ristretta cerchia dei soci -, predominano proposte semplici e low cost. Ad offrire un vero e proprio ristorante aperto a tutti sono il Golf Club Rossera di Chiuduno e il Parco dei Colli in città, mentre Cerea è presidente dell’Associazione Ristoratori Golfisti che organizza il circuito di gare Ristogolf, la cui edizione 2016 si è conclusa alcune settimane fa. A lui si sono affiancati altri grandi chef, da Giancarlo Morelli a Davide Scabin e Norbert Niederkofler. «Cucina e golf – spiega Enrico Cerea - hanno qualcosa in comune: ci sfidano a migliorarci di continuo, dettano uno stile, esaltano in noi la precisione e la pazienza». Ristogolf vuole essere motivo di incontro stimolante tra il mondo del golf, l’universo della ristorazione e l’attenzione verso l’ospite. «Giocare a golf per me è un momento di distensione e rilassamento totale, ma onestamente – confessa - spesso nelle club house non si mangia bene. Questo non per incapacità dei gestori. Il golfista medio sente questo posto casa sua e, di conseguenza, non è disposto a spendere. Gestire un’attività richiede una particolare attenzione alle spese e se i nostri clienti non sono disposti a supportarci, per approvvigionarci con materie prime di qualità, far fronte agli stipendi e a tutti gli altri costi, abbiamo le mani legate». Invece con Ristogolf si celebra l’alta cucina «perché spiega ancora Chicco Cerea - vogliamo far passare il concetto che il golf è un bellissimo sport, che impegna molto la testa, e se si accompagna con il mangiare bene il risultato non può essere che un benessere generalizzato». Una sfida accettata dai ristoranti Rossera e dei Colli, che cercano di superare il timore generalizzato delle persone nell’entrare in un circolo di golf con proposte accattivanti.

Ristorante dei Colli – Bergamo

Specialità risotti e il brunch della domenica

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n posizione privilegiata perché questo golf club si trova a Bergamo, zona Longuelo. La struttura è fresca e immersa nella natura, con un giardino molto grande direttamente sul campo da golf. La gestione è affidata allo chef Moreno Bonacina che, dopo aver lavorato per una decina di anni nella banchettistica e in qualche ristorante, ha deciso di mettersi in gioco e intraprendere questa iniziativa. «Gestisco il ristorante da inizio anno – racconta – e, nonostante inizialmente l’intenzione fosse di proporre una

cucina più elaborata, siamo dovuti scendere a compromessi proponendo una cucina più semplice. La ristorazione nel mondo del golf


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In due circoli della Bergamasca la ristorazione si è aperta a tutti ed ha arricchito le proprie proposte. Intanto Chicco Cerea è il promotore dell’associazione Ristoratori Golfisti: «Golf e cucina non sono mai andati troppo d’accordo, invece è un binomio che può funzionare»

Ristorante Rossera - Chiuduno

è un’attività molto difficile; siamo riusciti ad aprire al pubblico, ma la gente è intimorita nell’entrare in un golf club». Anche la sua percezione è che il golfista ricerchi la semplicità in un piatto e che, nonostante l’immaginario possa suggerire il contrario, faccia attenzione all’aspetto economico. Ma lo chef Bonacina va avanti, proponendo il pranzo di lavoro ad un prezzo molto competitivo, che va dai 10 ai 15 euro, e la domenica un brunch con un buffet che tra i golfisti e non sta avendo un discreto successo. La sua specialità, in ogni caso, sono i risotti. Di tutti i tipi. Ogni settimana ne propone uno diverso, tutto da scoprire e gustare. Tra gli antipasti a base di pesce segnaliamo lo strudel di branzino e carciofi con bisque di crostacei e maggiorana e tra i primi non poteva mancare il risotto, rigorosamente Carnaroli, ai funghi porcini mantecato al tartufo e ristretto di vitello. Tra i secondi, oltre alla tagliata di tonno o alla coscia di coniglio disossata farcita con gamberone e carciofi spadellati, c’è sempre un piatto vegetariano.

Materie prime ricercate, per fare la differenza

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i trova in un luogo incantevole, dall’invidiabile panorama sulla pianura. La sua posizione collinare lo rende un’oasi di relax, anche per mangiare un boccone. È aperto al pubblico da pochi mesi e il percorso è ancora lungo. Massimo Rachiele, l’attuale patron, è supportato dallo chef Cristiano Colombo e insieme hanno studiato la migliore offerta accettando una grande sfida, quella di portare una cucina di medioalto livello ricercando materie prime pregiate e lavorandole nel migliore dei modi. «È una cucina che in genere non trovi nelle club house – spiega Rachiele – più complessa, che parte dalla ricerca dei prodotti, anche strettamente locali, fino ad arrivare alla presentazione dei piatti». Il ristorante Rossera è aperto tutti i giorni sia a pranzo che a cena, escluso il martedì. È un luogo in cui poter gustare alcuni pesci poveri sapien-

temente valorizzati, come lo sgombro al pane verde con cestino di finocchi e spinaci novelli, ma anche materie prime come il gambero rosso, gli spaghettoni di Gragnano o la bottarga di Cabras. Tra gli antipasti, tonno, salmone rosso canadese e spada dell’Atlantico in vasocottura o un classico tagliere degustazione di salumi e formaggi selezionati con confetture. Tra i primi si può trovare anche un tocco sardo, con la famosa fregola mantecata con julienne di polpo di scoglio e crema di crescione, mentre tra i secondi di carne l’immancabile tartare di Black Angus battuta al coltello su brunoise di peperoni, riccioli di formaggella di malga e insalatina di germogli. Unico neo? La struttura forse un po’ datata, ma il percorso è appena cominciato e le premesse sono davvero interessanti.

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L’apertura di Gualtiero Spotti DuLciS via Campofiori, 26/c Almé dulcissnc@hotmail.com tel. 366 4943440 tel. 393 9866639

Simona Sai e Laura Crotti

L’ architetto, l’ antiquaria e la passione per le torte: così nasce DuLciS

Ad Almé Laura Crotti e Simona Sai hanno dato vita a un laboratorio di pasticceria che vanta già collaborazioni con noti ristoranti bergamaschi. «La nostra idea di dolce? È quella della classica torta italiana e della pasticceria tradizionale, ma al tempo stesso ci piace adattare qualche preparazione alle novità proposte dal cake design»

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a passione e la volontà fungono da benzina per sviluppare progetti che sembrano impossibili da realizzare, ma che improvvisamente diventano realtà e permettono di seguire un percorso, una strada che forse non si era neanche mai immaginata come futuro sbocco professionale. Devono averlo pensato, solo qualche mese fa, Laura Crotti e Simona Sai, due bergamasche che, tornando indietro di un paio di decenni, già si conoscevano di vista e frequentavano alcuni amici in comune, ma la cui quotidianità era segnata da professioni e storie molto diverse. Laura con competenze professionali nel mondo dell’antiquariato (e un negozio di famiglia da gestire in centro a Bergamo), Simona, invece, impegnata nel seguire, dopo l’università, la carriera di architetto, tra progettazioni edilizie e la costruzione di impianti sportivi e centri benessere. Poi, quasi in contemporanea, è arrivata la svolta per entrambe, la cosiddetta “sliding door”, con la grande passione per la pasticceria, che

nasce e si evolve sulla scia dell’esplosione, anche mediatica, del cake design, ma prende il via con un approccio più casalingo per entrambe, prima di seguire dei corsi specialistici. «Ricordo bene quando ho deciso che volevo lavorare nel mondo dei dolci - ricorda oggi Simona -. È stato circa sette anni fa, il giorno in cui mi sono messa a preparare una torta di compleanno per mio nipote. Mi sono sentita subito realizzata nel fare qualcosa di più personale e piacevole di quello che il destino mi aveva riservato sino ad allora con la routine giornaliera tra cantieri e uffici». A farle eco è l’attuale socia Laura, con la quale ha inaugurato da poche settimane DuLciS, un laboratorio di pasticceria ad Almé, in via Campofiori al civico 26/c: «Questa è una professione che ho iniziato a svolgere in maniera piuttosto naturale, perché possiamo certamente dire che racchiude una dose di creatività e permette di sviluppare idee artistiche davvero interessanti. In fin dei conti non è poi stato complicato,


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perché tutte e due già svolgevamo dei lavori dove la creatività e il gusto del bello dovevano essere decisamente spiccati. Diciamo che ora abbiamo aggiunto anche il gusto del buono…». Simona e Laura si sono incontrate quattro anni fa un po’ per caso. Hanno scoperto che entrambe dovevano partecipare al corso di modelling di un famoso cake designer a Legnano, così si sono risentite dopo anni e hanno deciso di fare il viaggio in macchina insieme. Durante la lunga chiacchierata che è scaturita sono state gettate in qualche modo le premesse della futura collaborazione, anche se negli anni successivi il percorso delle due è stato un po’ diverso. Simona ha lavorato nel dietro le quinte de La Marianna, in Città Alta, occupandosi prevalentemente della decorazione della biscotteria lavorata, mentre Laura ha iniziato a confezionare torte con la pasta da zucchero e a inanellare collaborazioni di prestigio che continuano tuttora. Per fare un esempio, il grande cappello da chef che pochi mesi fa ornava la torta celebrativa dei cinquant’anni del ristorante Da Vittorio è opera sua, e con la famiglia Cerea ancora oggi le capita di realizzare torte su misura o parti di dolci che richiedono attenzioni certosine e manualità artigianale. Ora con il nuovo laboratorio DuLciS (la L e la S maiuscole ovviamente sono le iniziali delle due socie…) si sono aggiunte anche collaborazioni con altri ristoranti di fama, come l’Osteria della Brughiera e Frosio, i due indirizzi “stellati” che, tra l’altro, sono più vicini al laboratorio. Certo, il nuovo lavoro in proprio adesso impone ritmi più serrati e una scaletta decisamente impegnativa, come si vede bene osservando dalla vetrina che invita ad entrare nel laboratorio. Così, pur mantenendo la caratteristica di una attività assolutamente artigianale, di due ragazze che realizzano dolci su ordinazione, DuLciS sin dall’apertura ha iniziato a sfornare un mondo di prelibatezze piuttosto variegato, che prende il via dalle praline, passa attraverso i biscotti e arriva dalle parti delle torte, passando per la cioccolateria. Con scelte ben precise, che non badano troppo alle esigenze di chi, proprio in questi giorni, vorrebbe ordinare il classico dolce delle feste. Dice Laura: «Niente panettoni o pandori. Preferiamo concentrare la nostra attenzione sui prodotti freschi e in tutti quelli dove si percepisce bene l’utilizzo di un’ottima materia prima. Sicuramente prepareremo anche dei dolci natalizi, ma come idea regalo e saranno perlopiù confezioni di biscotti, quelli con la frolla decorata, oppure cioccolatini con un packaging dedicato proprio al Natale. Non vogliamo buttarci in una produzione seriale e preferiamo curare la qualità e il rapporto con il singolo cliente. Sia ben chiaro, la nostra idea di dolce è quella della classica torta italiana e della pasticceria tradizionale, ma al tempo stesso ci piace l’idea di adattare qualche preparazione alle novità proposte dal cake design, senza però finire nelle classiche americanate». Intanto da DuLciS c’è già l’occasione di partecipare a dei corsi di pasticceria, per un massimo di otto persone e sono quasi sempre giornate intense per i grandi che vogliono poi cimentarsi tra le mura domestiche, magari carpendo prima qualche trucco del mestiere, oppure per i piccini che si divertono a impastare e a preparare dolcetti, come se fosse un gioco.

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A tavola con foto tratta da ilviandantebevitore.blogspot.it

di Roberta Martinelli

Abbiamo incontrato il celebre giornalista enogastronomico di passaggio a Bergamo. «Penso che le maggiori guide siano utili, a partire da quella dedicata alle Osterie. Dei social network penso invece tutto il male possibile. Non ritengo attendibile quello che è anonimo». «Io darei la stella anche alle trattorie, all’interno di una propria categoria e, se potessi, chiuderei trasmissioni come Masterchef»

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Mura: «Sul cibo ognuno dovrebbe diventare la guida di se stesso» ianni Mura è una delle migliori penne del giornalismo sportivo. Dice quel che gli pare e lo fa con intelligenza, misura e un filo di ironia. Nella sua rubrica domenicale “Sette giorni di cattivi pensieri”, su Repubblica, da quarant’anni racconta il calcio e il ciclismo con una sobrietà lontana anni luce da quel modo di fare giornalismo sguaiato che va tanto di moda oggi. Lontano perché - dice - «urlare toglie peso alle parole». Ma Mura è anche un grande esperto di enogastronomia: dal ’91, con la moglie Paola, firma, sul “Venerdì di Repubblica”, la rubrica “Mangia e bevi” in cui regala ai lettori una divertente serie di consigli su tutto quello che è utile sapere prima di sedersi in un ristorante. L’abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Villa di Serio, ospite della rassegna Presente Prossimo. Non potevamo perdere l’occasione di parlare con lui di cucina, chef, guide, stelle… e di pesce di lago. Che rapporto ha oggi con il cibo? È cambiato il modo in cui ne scrive? «Ho sempre un rapporto buono, di curiosità. Rispetto a trent’anni fa penso di saperne qualcosa di più, quindi tendo ad essere più deciso nelle simpatie e nelle antipatie. Non credo di essere cambiato molto, sono sempre legato a una cucina tradizionale. Ero e resto per un buon piatto di pasta e fagioli, un risotto o un arrosto. Non ho bisogno di grandi ingredienti o abbinamenti per godermi la cena. Non deve mancare però la compagnia. Una delle cose più tristi per me è mangiare da soli. Mi piace continuare anche dopo il dolce con un buon bicchiere di vino».

Trattoria o ristorante stellato? «Io darei la stella anche alle trattorie. Come nel calcio, ci sono serie A, B e C e ognuna ha la sua classifica. Sogno una trattoria con tre stelle nella relativa categoria. Lo so che non è possibile, ma lo trovo giusto fino a un certo punto. Il pericolo è che si guardi più la scena che la sostanza del piatto. Al di là di tutto, sia che ci si trovi in un ristorante o in una trattoria, il giudizio si dà su quello che arriva in tavola, su quello che c’è nel piatto. Poi ci sono la professionalità, il sorriso in più». Dolce o salato? «Tra i due sceglierei piccante. Non vado pazzo per i dolci, ma se penso ai piatti che amo di più - salumi, formaggi stagionati e acciughe salate - allora dico salato». Cosa non può mancare nella sua dispensa? «Assolutamente pane, formaggio e vino rosso. Aggiungo anche le uova». Ai fornelli, cuoco esperto o piccolo disastro? «Meno di zero. Non so cucinare neppure due uova al tegamino o preparare il caffè da solo. Fin da piccolo ho paura del gas e dell’elettricità. In casa l’unico apparecchio che uso è la tv. A chi mi chiede rispondo che sono avventore o mangiatore. Ora meno, ma ci sono stati anni in cui mangiavo fuori casa anche 230 giorni all’anno». La sua cena più bella. «Una delle migliori è stata al Gambero Rosso di Pierangelini quando era ancora aperto. Era il 30 dicembre e il locale era chiuso per dei lavori. Pierangelini mi disse


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che poteva apparecchiare un tavolo da quattro, per noi e le nostre mogli. Lui finito di mangiare un piatto si alzava per preparare il successivo. Era tutto a base di pesce, con formaggio sul finale. Grandiosamente semplice. E poi tutte le cene e gli assaggi che si facevano con Veronelli perché si parlava di tutto. Gino dava consigli disinteressati, aveva la cultura degli altri. È stato grazie a lui che mia moglie Paola ha iniziato a scrivere. A una cena da lui, mia moglie fece un commento su un vino bianco. Gino le chiese se avesse fatto corsi di sommelier, lei rispose di no e lui le consigliò di farlo. Disse che le donne hanno il vantaggio di avere la cultura dei profumi. Fu la prima donna a scrivere di vino su un mensile femminile e ancora adesso ne scrive sul Venerdì». Un aspetto bello del suo lavoro? «Mi dà la possibilità di conoscere tante persone belle e interessanti. Ho notato che la maggior parte delle persone che hanno a che fare con il cibo e il vino sono bravissime persone». Chi inviterebbe a cena al ristorante? «Persone legate al mondo della musica, Arbore, Capossela e Guccini anche se beve il lambrusco. Cercherei di fargli cambiare idea. Perché parleremmo non solo di musica».

«Nella Bergamasca si mangia bene, merito anche di Veronelli. Passo le estati a Monte Isola e il pesce di lago è stata una piccola scoperta» Cosa pensa delle guide e di Tripadvisor? «L’anagramma di guida è giuda, lo sa? Penso che almeno le maggiori siano utili. A mio avviso la più rivoluzionaria è stata, 15 anni fa, l’uscita della Guida alle Osterie. Ha determinato una coscienza e dato voce a qualcosa che era considerato l’ultimo anello della catena della ristorazione. Invece sono degnissime. Non sono più i luoghi di un tempo quando ci andavano solo anziani a giocare a carte e l’unica donna ammessa era l’ostessa. Di tutte le altre penso tutto il male possibile. Non ritengo attendibile tutto quello che è anonimo. Sui social network si trovano commenti discrepanti dati anche la stessa sera: c’è chi ha mangiato un risotto buonissimo, chi pessimo. Viene il forte sospetto che chi scrive abbia interessi nel parlarne bene o male. Nel primo caso sono familiari e amici, se non lo stesso ristoratore, nel secondo i concorrenti. Questo non ha senso ed è pericoloso. Essendo la carta in ribasso e informandoci solo sul web, le critiche prevenute e mirate traggono in inganno i clienti. Se volutamente negative sono un reato, recano un danno commerciale contro il quale non c’è nessuna possibilità di difesa. Dalle guide almeno è possibile tirarsi fuori, come ha fatto Marchesi, dalle recensioni sui social no». Come si sceglie allora un ristorante? «Ognuno di noi dovrebbe diventare la guida di se stesso.

Se abbiamo mangiato bene in un ristorante impariamo a segnarci il nome e l’indirizzo. Se abbiamo apprezzato una bottiglia di vino, prendiamo nota della cantina. Io stesso non avrei mai pensato di scrivere di cucina, ma un po’ di cultura in materia, senza volerlo, me la sono fatta seguendo i Tour e i Giri d’Italia». Oggi tutti sono esperti di cibo. È davvero così? «Di cibo si parla troppo e si mangia poco bene. È diventata una moda. Non ho mai ricevuto così tanti libri di cucina come negli ultimi anni. C’è la mania del cucinare in poco tempo e dell’esclusione. Ma chi l’ha detto? In genere la moda dura dieci anni. Così, prima c’è stato il tempo di Marchesi, poi quello di Vissani, poi tutti a parlare di Adrià, poi è venuta la cucina di Copenaghen. Mi aspetto che prima o poi il migliore chef sarà un cinese perché la moda chiede di spostare il centro di Gianni Mura interesse». Oggi chi è il migliore? «Continua a predominare Cracco, ma il migliore per me è Bottura. Il riconoscimento che ha avuto è meritato». Cosa pensa di Masterchef…. «è una trasmissione che chiuderei con i pompieri». Facciamo un tour della Bergamasca? Quali sono le tappe gastronomiche più interessanti? «Poco tempo fa ho cenato in un ristorante ad Alzano Lombardo in cui mi sono trovato bene: La Crota di San Pietro. Ma in generale nella Bergamasca si mangia bene quasi ovunque, è l’effetto Veronelli. Ha dispensato consigli a tanti ristoratori, normale che i risultati si vedano». Lei passa l’estate sul lago d’Iseo. Pesce di lago o di mare? «Il pesce di lago è stato una piccola scoperta. Non ha il fascino immediato del pesce di mare però è interessante. Mi piace la sardina essiccata con una fetta di polenta calda. Prendo in affitto un appartamento a Monte Isola per l’estate, e ho la fortuna di conoscere uno dei pochi pescatori, Nando e due ristoranti che lo cucinano bene: la Locanda del lago a Carzano e la Foresta».

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Tradizioni di Leonardo Bloch

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Riso Piccoli chicchi, grandi topiche ual è il piatto che unisce l’Italia?», tuona Carlo Cracco in una delle puntate d’apertura dell’ultima edizione di Hell’s kitchen. Schierata dinnanzi all’impudente mattatore, la spaurita brigata di cucina appare ancor più esitante del solito. «Il riso», azzarda un commis di chiare origini sicule. Per quanto assai più pertinente della pizza che lo chef vicentino vorrebbe sentirsi suggerire, la risposta è da questi accolta con un’irridente canzonatura: «Certo, chi non conosce le celebri piantagioni siciliane di riso?». La frecciata del nume televisivo dei fornelli sibila tra i risolini di condiscendenza degli astanti. «Ma gli arancini?» - si schermisce l’ingiustamente sbeffeggiato concorrente, cui nessuno presta però più attenzione. Pur senza ubique coltivazioni, è in realtà indiscutibile

che il riso sia profondamente radicato nella tradizione culinaria di quasi ogni angolo del nostro paese. E proprio la Sicilia fu il portale attraverso il quale, su impulso arabo, il cereale fece nel cuore del medioevo il suo definitivo approdo alla gastronomia della Penisola. Oltre che dai famosi arancini, questo importante passaggio storico è eloquentemente documentato da un manicaretto tutt’oggi in voga nel levante della Trinacria: la tummala, un timballo strettamente imparentato con i polow della cucina persiana. La singolare denominazione della vivanda è legata all’emiro-gourmet Mohamed Ibn Thumma, reggente di Catania nell’XI secolo, che nell’epopea dei paladini ha estorto discutibili simpatie tradendo i correligionari per stringere alleanza con il normanno Ruggero I d’Altavilla.


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Quella su cui è sdrucciolato l’ineffabile Cracco non è certo la prima - ed a fortiori neppure la più illustre - delle topiche nelle quali, discettando di riso, sono incappati gastronomi e uomini di scienza. Già nel I secolo d.c. Plinio il Vecchio scriveva che lo stelo della graminacea è corredato di “foglie carnose, simili a quelle del porro, ma più grandi”. Tale descrizione appare, ad essere generosi, quantomeno fantasiosa. A discolpa dell’illustre naturalista, v’è da precisare che all’epoca il cereale non era ancora coltivato in Europa, e che dunque, con ogni probabilità, mai lo studioso aveva avuto facoltà di ammirarne una pianticella con i propri occhi. Diciassette secoli più tardi toccò nientemeno che al sommo Carlo Linneo, padre della moderna classificazione degli esseri viventi, prendere un veniale granchio collocando in Etiopia - e non, come successivamente assodato, in estremo oriente - la località d’originaria provenienza dell’oryza sativa. Di minor indulgenza sono invece meritevoli gli svarioni dei quali sono zeppe parecchie pagine a stampa dei nostri giorni. Scrivendo ad esempio del vialone nano veronese, tal Marino Melissano, compilatore di una trattato dall’ampollosa titolazione di “Alimentologia”, sostiene che “la sua coltivazione fu spinta dalla Repubblica Serenissima di Venezia”. Peccato che la celebre varietà risicola fu ottenuta per ibridazione presso la Stazione Sperimentale di Vercelli solo nel 1937 - ovverosia quasi un secolo e mezzo dopo la caduta dello Stato Veneto per mano del Bonaparte. A rincarare la dose ci pensa Rosalba Gioffré in un libello dedicato al “Vegano Italiano”. Nel trattare di di risi e bisi - piatto che il giorno di San Marco era servito sulle mense dei Dogi - l’immaginifica gastronoma si spinge addirittura a speculare sul cru della graminacea di cui si

sarebbero approvvigionati gli antichi cucinieri di Palazzo Ducale, azzardando chimericamente che “il riso utilizzato è sempre stato il vialone nano di Grumolo delle Abbadesse”. In effetti, le varietà risicole attualmente in voga nella nostra cucina hanno alle spalle una storia relativamente recente. Sino alla fine del XVIII secolo di fatto se ne conosceva solamente una - l’ormai estinta nostrale - appartenente alla sottospecie nota come indica. Si doveva trattare di un ceppo a grani cilindrici ed allungati, probabilmente simili a quelli dell’esotico basmati che oggi è agevolmente reperibile anche presso la grande distribuzione. All’inizio dell’ottocento le risaie iniziarono tuttavia a subire gli attacchi di un appestamento botanico - il cosiddetto brusone - il cui impatto sulla coltivazione della graminacea fu non meno devastante di quello che la fillossera avrebbe di lì a pochi decenni avuto sulla viticoltura. L’ottenimento di cloni cerealicoli resistenti alla patologia, che scamparono la risicoltura del nostro paese da un’altrimenti certa capitolazione, fu esclusivo merito di due autentici eroi della storia agricola Italiana, tanto schivi in vita delle luci della ribalta quanto ingiustamente relegati in un postumo oblio. Il primo dei due personaggi rispondeva al nome di padre Giovanni Calleri, un tenace gesuita sabaudo spedito nei primi decenni del XIX secolo ad evangelizzare i selvaggi delle Filippine. Sulla via del definitivo rientro a casa, l’ardimentoso canonico riuscì a trafugare dalla Cina le sementi di ben 43 varietà risicole endemiche, appartenenti alla sottospecie denominata japonica, la cui esportazione dal Catai era all’epoca (1839) severamente interdetta. Le pianticelle che germinarono dai chicchi arraffati dal religioso, immuni al brusone e produttive di grani pingui ed oblunghi, assicurarono le fondamenta genetiche delle principali tipologie di riso oggi coltivate nella Penisola. La seconda figura è quella di Ettore De Vecchi, un caparbio agronomo pavese che nella prima metà del novecento dedicò la propria esistenza a selezionare nuovi cloni di elevato profilo qualitativo. Povero al punto da non potersi permettere un’automobile - perì infatti quasi ottuagenario travolto in sella alla sua vecchia motocicletta -, De Vecchi fu l’indiscusso padre di molte tra le varietà d’eccellenza attualmente in dote alla risicoltura Italiana. Tra queste hanno distinzione il carnaroli, cui per eccesso di modestia l’agronomo impose il nome di un collaboratore, ed il vialone, che ai nostri giorni sopravvive quasi esclusivamente nella versione ibridata con la varietà nano. A pochi è infine noto che la coltivazione della nobile graminacea conobbe una timida quanto caduca fioritura anche nel nostro circondario. A metà dell’ottocento lo storico Gabriele Rosa censiva infatti diecimila pertiche a risaia sulla sponda meridionale del fosso bergamasco, in un distretto all’epoca vocato alla coltura del cereale per via degli acquitrini che ancora residuavano dall’antico lago Gerundo. Neppure lo stizzoso Cracco avrà dunque titolo a disconoscere che il riso sia a buon diritto da annoverarsi tra i prodotti storici della cucina di Bergamo.

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PAUSA PRANZO di Fulvio Facci

Osteria Al Gigianca via Broseta, 113 Bergamo tel. 035 5684928 chiuso la domenica tutto il giorno e il lunedi a pranzo

Un orto proprio, attenta selezione di materie prime e vini, ma anche il “pallino” per la valorizzazione della pecora bergamasca: così il locale di via Broseta di Gigi Pesenti e Alessia Mazzola si è confermato anche quest’anno sulla guida Slow Food Moglie e marito, Alessia Mazzola e Gigi Pesenti hanno aperto Al Gigianca nel 2010

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nche se non ci sono le classiche tovaglie a quadretti bianchi e rossi e tavoli e sedie di arte povera, ad imitare i locali del passato, l’Osteria Al Gigianca, col sottotitolo di “premiata officina gastronomica”, si propone come autentica osteria in città, rispettando, debitamente aggiornati ai tempi, lo spirito e la cucina di questa tradizione. Un carattere riconosciuto anche dalla nuova edizione della guida Osterie d’Italia di Slow Food, dove è presente, unica segnalazione nel perimetro cittadino, dal 2014 e dove ha mantenuto il simbolo della bottiglia, a sottolineare la particolare attenzione alla carta dei vini. Luigi “Gigi” Pesenti, 40 anni, e la moglie Alessia Mazzola, 38, hanno iniziato questa attività nel 2010 a Bergamo in via Broseta al numero 113, in una saletta luminosa, arredata con gusto, che può ospitare al massimo 40 coperti. Una dimensione che già di per sé suggerisce il loro orientamento verso un rapporto molto stretto con la clientela: la qualità, insomma, piuttosto che i numeri. A chiarire ulteriormente gli obiettivi c’è l’adesione al progetto SlowCooking, una rete di ristoranti lombardi che si riconoscono nei concetti di semplicità, valorizzazione delle materie prime,

rispetto pragmatico per coloro che lavorano la terra, amore verso il proprio territorio. «Alessia ed io venivamo da esperienze diverse – racconta Gigi Pesenti –. Io facevo il promoter di eventi anche musicali mentre lei è laureata in Scienze

LA PROVA

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Al Gigianca, l’ osteria in città Come d’abitudine assaggiamo la proposta per la colazione di lavoro. Al Gigianca il menù è inserito nella carta stessa ed è graficamente ben curato, soprattutto molto chiaro: un piatto 11 euro, due piatti 16 euro, due piatti più il dolce del giorno 19 euro. Coperto, acqua, un bicchiere di vino della casa e caffè sono compresi. La scelta non è molto ampia in termini numerici ma è l’originalità dei piatti, non banali e nemmeno ricorrenti nei menù a prezzo fisso, a fare la differenza in senso positivo. Crema di carote e zenzero con cala-


novembre 2016 dell’educazione e per pagarsi gli studi lavorava in una pizzeria da asporto. All’inizio abbiamo avuto a disposizione uno chef professionista, che per sette mesi ha insegnato ad Alessia a gestire la cucina, poi abbiamo camminato con le nostre gambe. Visto che nella mia precedente attività ero parecchio in viaggio, nell’impostare la nostra linea mi sono rifatto a quello che mi piaceva trovare come cliente». La carta di Al Gigianca è abbastanza contenuta ma di certo stuzzicante. Si tratta di una cucina che prende spunto dal territorio, da alcune ricette della tradizione magari con qualche variante, ma fondamentale è il riferimento al bacino per il reperimento delle materie prime. «Siamo molto legati alla stagionalità - prosegue Pesenti -. Per le verdure abbiamo il nostro orto a Locate, che viene coltivato dal papà di Alessia, e poi ci riforniamo da una cooperativa bio. In carta abbiamo solo pesce di lago mentre per il menù di mezzogiorno usiamo pesce azzurro nel rispetto della sostenibilità. Anche per le carni siamo attenti ai metodi di allevamento e produzione, vogliamo che gli animali siano rispettati, che si tratti di allevamenti etici». Questi principi si concretizzano in una serie di piatti tra i quali spiccano il baccalà mantecato con crostini di polenta o la Caesar Salad con pecora gigante bergamasca tra gli antipasti, il risotto ai peperoni e patè di missoltino oltre agli immancabili casoncelli alla bergamasca tra i primi, mentre tra i secondi sono particolarmente gettonati il coniglio alla bergamasca con polenta, le lumache trifolate, la pecora gigante bergamasca con crema di patate e chutney di barbabietola e il filetto di lavarello del Sebino. I prezzi vanno dai 10-12 euro di antipasti e primi, ai 13-17 dei secondi, mentre per i dolci si spendono in media 6 euro. «Abbiamo due menù degustazione (da 32 o 35 euro ndr.) - ricorda il patron - ed i clienti che vengono da fuori ci chiedono prevalentemente i casoncelli, la pecora bergamasca, il coniglio e il baccalà. Quanto ai vini, sono un appassionato e per questo ne abbiamo una buona se-

mari e crostini alle erbe, maccheroncini ai broccoli e salsiccia, orecchiette alle cozze e fagioli sono le opzioni tra i primi piatti. Costine di maiale con verza e polenta e pesce del giorno (nell’occasione la trota), invece, le proposte per i secondi. Tutti piatti, soprattutto i primi, che stimolano la curiosità oltre all’appetito. Qualche attimo di indecisione e poi puntiamo sulle orecchiette alle cozze e fagioli e sulle classiche costine di maiale con verza e polenta che contenevano anche del buon cotechino. Due piatti decisamente apprezzabili per scelta e preparazione che unitamente al servizio impeccabile e alla raffinatezza, non appariscente ma piacevole, del locale rendono il rapporto prezzo-qualità ottimo. Nella foto, il piatto “Pecora gigante bergamasca con crema di patate e chutney di barbabietola”

lezione sia di italiani sia di altre nazioni come Francia, Germania, Austria, Slovenia, Spagna e Ungheria. Particolare riguardo dedichiamo anche ai formaggi, sempre di produzione locale, con la presenza di presìdi Slow Food». E se Gigi si muove bene in sala, ai fornelli c’è Alessia, una passione per la cucina. «Passione e cuore sono i primi ingredienti – afferma convinta –. Io li ho ereditati da mia mamma Sandra che ha fatto la cuoca nelle mense scolastiche e le mamme dei bambini andavano a chiederle come mai a scuola mangiassero i broccoli e a casa no!». «Personalmente - spiega - seguo la tradizione e sono poco propensa ad innovare per forza, l’ispirazione mi viene da quello che vedo, da quello che trovo dai fornitori e da ciò che offre la stagione. Adesso, ad esempio, stiamo proponendo la tagliata di pecora gigante bergamasca, è ancora fuori dalla carta perché è un piatto che si esaurisce in fretta. La carne ce la porta la moglie del pastore, Danilo Agostini di Bolgare, che praticamente è in perenne transumanza. È un animale che mi dà grande sicurezza anche per il modo in cui viene allevato e poi della pecora non si butta via niente. Tolti i tagli nobili, con il resto si fanno il ragù e le polpette e con le ossa si fa il fondo». A dimostrare che anche il titolo di “premiata officina gastronomica” è pienamente meritato.

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appuntamenti 27 NOVEMBRE

A Dossena una domenica al sapor di cioccolato

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Dossena torna l’ora del cioccolato. Tra le iniziative che il vivace Gruppo Giovani organizza per animare e promuovere il paese puntando sul richiamo indiscutibile del gusto, c’è infatti Ciccolandossena, seconda edizione di una giornata “da leccarsi i baffi”, dedicata alle mille forme, sapori e colori del cioccolato: bianco, al latte, fondente, dolce o amaro. Domenica 27 novembre si potranno assaggiare le creazioni e le variazioni sul tema del

ISEO

Treno dei Sapori e mercatini di Natale

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l Treno dei Sapori sposa i mercatini di Natale. In prossimità delle Feste, il convoglio di Trenord con servizio di ristorazione tipica a bordo per gite fuori porta sulla sponda bresciana del Lago d’Iseo - lungo la direttrice ferroviaria Brescia-Edolo - offre un programma dedicato. Sabato 10 e domenica 18 dicembre è in calendario l’itinerario “Il Gusto del Natale”, con partenza da Iseo, arrivo a Pisogne, visita guidata e ritorno a Iseo per i mercatini “Natale con Gusto”. Mentre domenica 11 la meta, sempre con patenza da Iseo, è Bienno, uno dei borghi più belli d’Italia, immerso nella magica atmosfera natalizia. L’offerta gastronomica prevede aperitivo di benvenuto, primo piatto di stagione, assaggi di salumi e formaggi

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tipici, dessert, caffè, grappa di produzione locale, acqua, degustazione di tre vini della Valcamonica selezionati da sommelier e snack. Nel pacchetto sono comprese le visite guidate e l’eventuale bus navetta. Il treno è composto da una motrice diesel e due carrozze color arancione. La struttura e il fascino del mezzo sono quelli del primo ’900 mentre gli interni, totalmente rinnovati, offrono dispositivi multimediali e un sistema di telecamere rivolte all’esterno che consentono la proiezione del paesaggio circostante sui grandi schermi. Il pacchetto “Il Gusto del Natale” costa 49 euro, l’itienerario a Bienno, denominato “Borgo di Natale” 54 euro. trenodeisapori.area3v.com

cioccolato proposte dalle pasticcerie e delle caffetterie della Valle e non solo. La manifestazione sarà accompagnata dai mercatini di Natale, aperti dalle 10 alle 18, mentre la festa del cioccolato scatterà dalle 14 tra tavolette, bicchierini di cioccolata, oggetti e creme al cioccolato, la presenza di un artista del cioccolato che realizzerà una scultura, laboratori per bambini e fontana di cioccolato. gruppogiov.dossena@libero.it

DAL 19 AL 27 NOVEMBRE

Il torrone “invade” Cremona

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ltre 250 iniziative - tra giochi, momenti di intrattenimento, appuntamenti culturali ed enogastronomici - animano la nuova edizione della Festa del Torrone di Cremona, in programma dal 19 al 27 novembre nelle strade e nelle piazze della città. Tema di quest’anno è Il Tempo con l’omaggio a Jannello Torriani, maestro orologiaio, inventore e genio del ‘500, cui è dedicata una grande mostra. La manifestazione ha come fulcro l’ampia mostra mercato con espositori di torrone, cioccolato e dolci provenienti


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FINO AL 5 DICEMBRE

26 E 27 NOVEMBRE

Marone in festa per l’olio novello

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arone, Comune sulla sponda bresciana del lago d’Iseo che aderisce all’associazione Città dell’Olio, sabato 26 e domenica 27 novembre celebra la nuova spremitura con la terza edizione della “Festa dell’olio novello”, kermesse che permette di conoscere da vicino il territorio ed i suoi prodotti con stand, mestieri in piazza, passeggiate negli uliveti, visite al frantoio e al mulino storico di Panigada, show cooking, apericena, degustazioni, laboratori per i bambini, castagnate e vin brulè. Quest’anno l’appuntamento si accompagna alla prima Expo dell’olio sebino e Dop

Laghi Lombardi e approfondirà in un convegno (sabato alle 18) il tema delle olive da tavola e del loro potenziale. L’evento coinvolge anche i ristoranti, che dal 18 al 27 novembre offrono menù degustazione con prodotti tipici esaltati dall’oro verde locale. Sono sei insegne (i ristoranti Ai Frati, Alla Galleria, A Lago, la trattoria Glisenti e gli agriturismi El Giardì e Cascina Lert) con proposte dai 25 ai 40 euro. In primo piano il pesce di lago, l’extravergine declinato dal condimento ai dolci, ma anche salumi, formaggi e lo stinco di maiale. www.saporidimarone.it

MILANO da tutta Italia e dall’estero, ed appuntamenti come le costruzioni giganti di torrone, la rievocazione del matrimonio tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti e l’assegnazione del Torrone d’oro, a personaggi di spicco del territorio. Per chi vuole conoscere e apprezzare al meglio il protagonista della festa, le degustazioni ed esperienze sensoriali sono tante. Ne “I mille gusti del torrone” lo si assaggia nelle declinazioni al limoncello, al pistacchio, alla castagna, ma sarà possibile provare anche torrone artigianale spagnolo abbinato a distillati spagnoli (una novità ispirata alla biografia di Jannello Torriani), “la strana coppia: torrone e birra”, “Il dolce incontro tra torrone e vino aromatico” e partecipare a laboratori su due ingredienti fondamentali come le nocciole e il miele. Per chi vuole assaggiare le proposte della ristorazione ci sono i percorsi gastronomici “A tavola con Ugo”, realizzati da dieci ristoranti di tutta la provincia di Cremona e ispirati alla figura e alle ricette del grande attore con la passione per la cucina, Ugo Tognazzi. www.festadeltorrone.com

Il panettone interpretato da quaranta pasticcieri

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na quarantina fra i migliori pasticcieri italiani che offrono assaggi gratuiti e vendono i loro panettoni al prezzo di 25 euro al chilo. È la formula di Re Panettone, fortunata manifestazione milanese che torna per la sua nona edizione sabato 26 e domenica 27 novembre, nella grande sede dello Spazio MegaWatt (via Giacomo Watt, 15). Ad accompagnare la mostra mercato ci sono momenti di degustazione, incontri con gli artigiani, approfondimenti tematici e tanto altro. Anche quest’anno il DeFens, Dipartimento di Scienze per gli Alimenti, la Nutrizione e l’Ambiente dell’Università degli Studi di Milano, effettuerà dei controlli a campione per verificare l’assenza di mono e digliceridi nei lievitati presenti alla manifestazione. Re Panettone s’impegna infatti a proporre panettoni artigianali d’eccellenza, realizzati senza ingredienti che ne prolunghino artificialmente la vita né semilavorati che ne facilitino la produzione artigianale, omogeneizzandone i sapori. Durante l’evento, si terranno la quinta edizione del Premio “I Pangiuso”, che incoronerà il miglior panettone e il miglior lievitato innovativo, e la sesta edizione del Premio “I Custodi del Panettone”, dedicato alle confezioni per panettone più eco-sostenibili, funzionali e creative. L’ingresso è gratuito registrandosi sul sito o all’ingresso. www.repanettone.it

La promozione Trentacinqueuro.it torna in tavola

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l circuito dei ristoranti bergamaschi Trentacinqueuro. it anticipa le feste e fino al 5 dicembre ripropone la promozione che lo caratterizza sin dall’esordio: menù completi, inclusi acqua, vino e caffè, al prezzo senza sorprese di 35 euro. La campagna, nell’occasione, è denominata “Anteprima East Lombardy”. Nel 2017 Bergamo, insieme alla province di Brescia, Cremona e Mantova, sarà infatti Regione europea della gastronomia, un progetto internazionale che vuole migliorare la qualità della vita valorizzando le tipicità enogastronomiche locali e la cooperazione. I ristoranti che partecipano a Trentacinqueuro.it sono 39, tra insegne di grande tradizione e locali emergenti, location storiche o nuove atmosfere, in città e in provinicia. Un’occasione ghiotta per spaziare tra proposte di livello a un prezzo competitivo. L’operazione ha anche una forte valenza turistica, non a caso si accompagna ad un pacchetto per il soggiorno in bed and breakfast che al medesimo costo di 35 euro a persona offrono penottamento e colazione. La prenotazione è obbligatoria ed occorre specificare di voler usufruire della promozione. I posti riservati all’iniziativa sono limitati. www.trentacinqueuro.it

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NEWS

Gennaro Esposito fa tappa al Florian Maison S

Gennaro Esposito

altata la data “francese” di inizio mese con il cuoco Philippe Léveillé, il Florian Maison, a San Paolo d’Argon, propone in sostituzione un’altra cena da segnare sul taccuino degli appuntamenti e prevista per il 23 novembre. L’ospite del cuoco di casa Umberto De Martino sarà in quest’occasione il campano Gennaro Esposito, chef bistellato della Torre del Saraceno a Vico Equense. Il menù, a 80

euro vini inclusi, presenterà, tra gli altri, la Zuppa di olive Nocellara e mandorle con purea di finocchi e pesce bandiera “anni 80”, il Risotto con peperoni gialli e trippa di baccalà, la Minestra di pasta con crostacei e pesce di scoglio e la Triglia in umido con gnocchi di bietola e caprino. Una serata da non perdere e a tutto Mediterraneo, in compagnia di uno dei cuochi più celebrati d’Italia.

Trofeo Baroni, due bergamaschi sul podio È

andato sulla sponda bresciana del lago d’Iseo il sesto Trofeo Fiorenzo Baroni, il concorso di cucina calda individuale per professionisti organizzato dall’Associazione Cuochi Bergamaschi, con il patrocinio della Camera di Commercio di Bergamo, nel corso della scorsa Fiera Campionaria. Ad imporsi nell’ormai tradizionale gara dedicata ad uno dei fondatori dell’Associazione bergamasca è stato Luca Piccinelli, del Romantic Hotel Relais Mirabella di Clusane d’Iseo, che ha vinto la prima prova con “Risotto mantecato allo strachitunt, crema di zucca e maggiorana, terrina al broccolo e Galletto, cotechino e Branzi” e la finale con “Riso al salto e ricotta, insalata di Galletto, salsa al Branzi e pasta di salame croccante”. In sfida 12 cuochi di diversa età e provenienza, suddivisi in tre batterie eliminatorie da quattro concorrenti ciascuna. I primi classificati di ogni batteria più un concorrente ripescato in base al punteggio hanno gareggiato poi per la finale. Ogni batteria aveva a disposizione un “paniere misterioso” assegnato ad estrazione con i prodotti alimentari che i concorrenti dovevano utilizzare per creare il proprio piatto. Ingredienti comuni a tutti, ed obbligatori in ogni batteria, sono stati i Galletti Vallespluga, il riso Salera e una fetta di formaggio Branzi. Ogni concorrente ha avuto a disposizione un’ora per pensare e realizzare il proprio piatto in sei mezze porzioni d’assaggio e un piatto finito da porzione intera per la valutazione della presentazione della ricetta. Al secondo posto si è classificato Stefano Ghisleni, del ristorante Morlacchi di Bottanuco, che ha preparato per la finale

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Da sinistra Luca Piccinelli, Nadia Mazzoleni e Stefano Ghisleni “Raviolo ripieno di Galletto, riso, salsiccia e Branzi; gocce di basilico e spuma di ricotta”; al terzo Nadia Mazzoleni, del Ristorante dell’Hotel Settecento di Presezzo con “Risotto al Valcalepio con scaglia di Branzi, quenelle di ricotta e basilico e Galletto croccante”. Quarto finalista Mahedi El Omari, del ristorante Alfredo since 1964 di Milano, ma socio dell’Associazione Cuochi Bergamo, che come piatto finale ha proposto “Arancino di riso al Valcalepio con cuore di Branzi e pasta di salame e Galletto allo scalogno e vino rosso”. Il vincitore si è aggiudicato il Trofeo Baroni 2016 ed un premio di 500 euro. Trecento euro sono andati al secondo e 100 alla terza classificata.


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IN FIERA Tra gli appuntamenti dell’Accademia del Gusto a GourmArte l’incontro con Valerio Massimo Visintin, che non mostra il suo volto in pubblico per poter testare i locali in incognito. Ma ci sono anche gli chef della tv, i corsi sui drink, lievitati e dolci

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Ristoratori a tu per tu con il critico mascherato on solo eccellenze gastronomiche da tutta Italia e grandi chef. GourmArte, la manifestazione dedicata a custodi, maestri, esploratori e interpreti del gusto in programma nella sua quinta edizione alla Fiera a Bergamo dal 26 al 28 novembre offre anche la possibilità ad addetti ai lavori e appassionati di saperne di più sui temi di tendenza, confrontarsi con grandi esperti, trovare idee, conoscere tecniche e ricette. Succede grazie all'Accademia del Gusto, la scuola di cucina dell'Ascom di Bergamo che durante la kermesse propone un calendario di corsi e incontri capace di solleticare diversi interessi. Si comincia sabato 26 con Fabio Pontenzano, chef noto al pubblico televisivo per la partecipazione a "Detto Fatto", che proprio ispirandosi alla formula della trasmissione presenterà veloci ricette gourmet. Altro volto del piccolo schermo è Francesca Marsetti, che dalla "Prova del Cuoco" passa ad insegnare come preparare originali confetture dol-

ci e salate che possono diventare idee regalo per le prossime Feste. Il versante drink è affidato a Tommaso Cecca, bartender del Cafè Trussardi alla Scala, di Milano, che preparerà e farà degustare alcuni degli aperitivi più rappresentativi del locale. Domenica i lavori riprendono con il corso sugli impasti gluten free tentuo da Tiziano Casillo e Stefano Guerini per imparare a preparare pane e pizze senza glutine senza rinunciare al gusto. Nel pomeriggio tocca al laboratorio di pasticceria con Diego Mei dedicato ai dolci al cioccolato e si chiude con Francesca Marsetti che ritorna per proporre finger food in bicchiere belli da vedere oltre che gustosi, definiti "bicchierini gioiello". Nella giornata di lunedì si concentrano le proposte rivolte ai professionisti. "L'essenzialità del piatto" è il titolo della lezione con Riccardo Camanini, chef patron del ristorante Lido 84 di Gardone Riviera, una stella Michelin. Mentre i ristoratori che si sono sempre chiesti come nasce

una recensione gastronomica e non hanno mai osato chiederlo avranno la speciale occasione di incontrare, naturalmente senza vederlo in volto, Valerio Massimo Visintin, il critico "mascherato" del Corriere della Sera, che difende il proprio anonimato per salvaguardare l'indipendenza del giudizio. Racconterà quale tipo di cucina piace oggi ai clienti e come la ristorazione media può avvicinarsi alle loro aspettative. Altri strumenti utili per le attività il corso sul food cost al ristorante e lo sportello social, che dalle 12 alle 18 offre la consulenza gratuita di un'esperta in social media marketing per individuare il canale più adatto per promuoversi e capire come gestire la propria presenza al meglio. In tutte e tre le giornate, inoltre, nello spazio "fotobox" ci si potrà scattare una fotografia ricordo stampata in pochi minuti. La prenotazione ai corsi dell'Accademia include il biglietto d'ingresso a GourmArte. Per tutti i dettagli www.ascomformazione.it

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Pagine di

Gola

a cura di Roberta Martinelli

Natale è quasi alle porte. Nel giorno più importante dedicato alla tradizione preparare il pranzo in casa è quasi d’obbligo. Ecco quindi alcuni ricettari che vi aiuteranno a realizzare un menù speciale e d’effetto e ad accontentare anche la zia o l’amico più esigente. Alcuni sono legati alle tradizioni locali, altri puntano su proposte insolite, altri ancora sono variazioni sul tema, come la guida che mostra come decorare la tavola. Ce n’ è per tutti i gusti. Buona cucina!

Ricette, consigli e racconti per un Natale coi fiocchi Ci sono i grandi classici, ma può succedere che il panettone finisca per profumare di noci e gorgonzola e il brasato di vin brulé. E abbondano le ricette di ispirazione nordica, perché lo sanno tutti che Babbo Natale vive tra le renne. Mentre s’intrecciano ghirlande – di panini, bigné, meringa - o stelle d’arancia e si sfornano panini al burro, biscotti, torroni e soufflé, la cucina diviene occasione per scambiarsi ricordi e ricette, in un crescendo di leggerezza e allegria. Un libro per chi ha voglia di stare ai fornelli senza complicarsi la vita, perché le ricette sono alla portata di tutti. Da regalare a Natale, ma da leggere tutto l’anno. Sabrine D’Aubergine

Finalmente Natale! Ricette e racconti per giorni di festa 192 pagine - Guido Tommasi Editore Datanova

Nel periodo delle feste cibi pronti e surgelati vanno finalmente in “congedo” e in tavola diventano protagonisti piatti come il tacchino, il cappone, i tortellini in brodo e i dolci fatti in casa. Il libro propone ricette che dalla cucina valdostana a quella siciliana concorrono alla variegata e sontuosa gastronomia della nostra penisola. Un viaggio tra i piatti ma anche tra le usanze del nostro paese. Marco Mazzanti

Natale con i tuoi. 50 ricette per la festa più bella dell’anno 64 pagine - Vallecchi Editore

I menù classici sono reinterpretati in infinite e originalissime variazioni. Gli antipasti si trasformano in gustosi piatti di mezzo; i primi vengono impreziositi da tocchi raffinati, ma senza appesantire lo stomaco; le carni ripiene si abbinano alla frutta secca e alla gustosa salsiccia; i pani ricchi si prestano a sfiziose varianti e anche i dolci riservano sorprese. Tante idee per creare un menù insolito. Olga Tarentini Troiani

Come ti sistemo gli ospiti per le feste. 400 ricette facili e sfiziose per Natale e Capodanno 279 pagine - Newton Compton

Diciannove proposte per trasformare la tavola in occasione del Natale, ma anche di compleanni e altri momenti speciali. Si spazia dalle soluzioni più tradizionali alle idee originali e inedite, facili da riprodurre grazie a dettagliati tutorial. E per ogni proposta sono presentate ricette in sintonia con l’allestimento. Émilie Guelpa

La tavola delle feste. Decorare, cucinare, creare 256 pagine - Malvarosa Editore

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Sostegno ai LAVORATORI Assistenza per figli disabili Contributo straordinario ai dipendenti in malattia/infortunio oltre il 180° giorno Concorso spese libri di testo, mensa scolastica e abbonamento trasporto pubblico per i figli dei lavoratori Concorso spese testi scolastici per lavoratori dipendenti pantone 3395C

Concorso spese asili nido

pantone 7725C

Concorso spese abbonamento trasporto pubblico ai lavoratori Spese sostenute per modello 730

pantone 2995C pantone 7461C

Sostegno alle IMPRESE pantone 1485C

pantone 3395C

pantone 166C

pantone 7725C

Formazione e apprendistato

pantone 2995C

Certificazione contratti di lavoro

pantone 7461C

D. Lgs 81/08 sulla sicurezza

pantone 1485C

Corsi sostitutivi libretto sanitario

pantone 166C

Promozione dei sistemi di qualità Concorso spese libri di testo, mensa scolastica e abbonamento trasporto pubblico per i figli dei datori di lavoro Incentivi alle imprese per l’assunzione di giovani disoccupati

www.entibilateralibg.it Enti Bilaterali di Bergamo via Borgo Palazzo, 137 - 24125 Bergamo - Tel 035.4120140 / 035.4120116 - Fax 035.4120110 info@entebilturbg.it | info@entebilcombg.it

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