Affari di Gola - ottobre 2016

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Anno

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SOMMARIO XVI n.

OTTOBRE 2016

La pizz a in diec perfetta i moss e

4 FOCUS

Il Valcalepio guarda all’export, «ma che fatica»

10 ridiamoci su

Le scivolate dei clienti tra “Tachipirinha” e whisky “Johnnie Wayne”

12 LE SERATE

A tavola con le “stelle”

14 tendenze

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Schiscetta-mania

18 l’intervista

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Rivera: «Vi svelo i due piatti che porto nel cuore»

20 il vademecum

Pizza perfetta in dieci mosse

26 il personaggio

Dalla “Prova del Cuoco” alle cene a domicilio

30 tradizioni

La castagna del bastian contrario

32 IL prezzo fisso

E nell’ex manicomio arrivò il bistrot

37 a tavola con

Giampiero Ingrassia: «La mia pasta rock ‘n roll»

Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120322 - fax 035 231082 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Borgo Palazzo, 137- 24125 Bergamo - tel. 035 4120280 - fax 035 231082 - info@larassegna.it - N° ROC 5847 - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Leonardo Bloch, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Roberta Martinelli, Fabrizio Pirola, Rosanna Scardi, Gualtiero Spotti - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg

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FOCUS di Laura Ceresoli

Il Valcalepio guarda all’export, «ma che fatica» Quarant’anni fa arrivava la prima Doc in Bergamasca. Oggi, consolidata la presenza nei ristoranti e sulle tavole di casa nostra, le aziende aspirano sempre più ai mercati internazionali. «Ma è un percorso difficile - dice il presidente del Consorzio di Tutela - e se il territorio non cresce con noi le possibilità di piazzare il prodotto all’estero diminuiscono»

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utunno, tempo di vendemmia. E per i viticoltori orobici quest’annata 2016 ha assunto una valenza ancora più significativa rispetto al passato. Esattamente quarant’anni fa, infatti, al Valcalepio veniva attribuita la prima denominazione di origine controllata. Sono state le qualità di bianco e rosso a conquistare l’ambito riconoscimento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 308 del 18 novembre 1976. Da quel momento in poi sono state poste le basi per un rilancio della cultura enologica in Bergamasca. Per il prossimo futuro il marchio Valcalepio punterà molto sulla promozione dei mercati esteri. La crescente attenzione degli stranieri per le eccellenze del nostro territorio sta infatti portando le aziende locali a investire sempre di più sulla filiera del vino, in particolare sulle produzioni Doc e Igt Bergamasca. Germania, Belgio, Svizzera, Olanda, ma anche Asia, Stati Uniti e Canada sono soltanto alcuni dei luoghi nel mondo in cui il vino del Colleoni è più richiesto. Tuttavia l’export richiede ancora molti investimenti a li-

vello di tempo, come spiega Emanuele Medolago Albani, presidente del Consorzio Valcalepio: «C’è ancora molto lavoro da fare e le aziende piccole fanno fatica. Come Consorzio, in collaborazione con la Camera di Commercio, continueremo a organizzare parecchie iniziative e ad aprire le nostre cantine al pubblico per far conoscere le nostre produzioni. Bisogna fare rete con le istituzioni. Noi possiamo essere i più bravi a fare il vino ma se il territorio non cresce con noi le nostre possibilità di piazzare il prodotto all’estero diminuiscono». Un’altra carta da giocare sarà quella del turismo enogastronomico, attraverso il connubio tra il patrimonio artistico e naturalistico e la tradizione culinaria. «Negli anni Ottanta il Valcalepio era più apprezzato in Germania che qui da noi - prosegue Medolago Albani -. Ora la situazione si è un po’ ribaltata. Non c’è ristorante orobico che non abbia nel menù un Valcalepio. Bergamo è diventata una città turistica e quando gli stranieri vengono da noi cercano in


ottobre 2016 tavola i nostri vini tipici. C’è un rapporto molto stretto tra LA VENDEMMIA 2016 il prodotto e la conoscenza del territorio». Le grandinate e i violenti acquazzoni di giugno e luglio Attualmente il panorama enologico bergamasco è compohanno tenuto gli agricoltori orobici con il fiato sospeso. sto da due Doc (Valcalepio e Terre del Colleoni), una Docg Sia sulla produzione dell’uva che su quella del vino il (Moscato di Scanzo) e una Igt (Bergamasca). La nuova calo produttivo medio è stato piuttosto consistente con Doc Terre del Colleoni, dedicata al celebre condottiero di punte anche del 40%. A confermarlo sono i tecnici di Solza, è stata riconosciuta nel 2011. È formata da 14 tiColdiretti Bergamo che stimano perdite per ettaro tra i pologie monovarietali che hanno favorito la rinascita di al5.000 e gli 8.000 euro. Colpa delle minori produzioni e cuni vitigni del territorio come l’Incrocio Manzoni 6.0.13, dei costi più elevati per i numerosi interventi fitosanitari la Schiava, il Franconia e l’Incrocio Terzi n. 1. nei vigneti. Si spera però in una ripresa dei prezzi e in un Ma il protagonista indiscusso resta il Valcalepio: «In Berposizionamento ottimale sui mercati, anche esteri. A sofgamasca i prodotti di punta continueranno ad essere frire in modo particolare quest’anno sono stati i vigneti le denominazioni di origine controllata quindi Valcalepio Doc, suddiviso in Bianco, Rosso, Riserva e Moscato Passito - prosegue il presidente del Consorzio -. In generale in Italia i vini territoriali sono quelli che hanno più appeal. Ogni regione ha il suo. Tuttavia negli ultimi anni il Valcalepio ha ottenuto un buon risultato anche fuori dalla Lombardia per esempio in Sicilia o in Friuli Venezia Giulia. Qualche cantina invece punta sugli Diego Locatelli, della Società agricola Locatelli Caffi Igt (Pinot, Merlot, Cabernet)». Un trend confermato da Diego Locatelli della Società agridel Moscato di Scanzo, il pregiato passito Docg, colpiti cola Locatelli Caffi di Chiuduno: «Anche quest’anno l’80% ripetutamente da grandinate e forti raffiche di vento. Tutdella produzione sarà destinata al Valcalepio Rosso Doc tavia, le escursioni termiche fra notte e giorno e le buone (uve Merlot, Cabernet Sauvignon), la restante al Valcaletemperature di settembre hanno risollevato le sorti dei pio Bianco Doc (Pinot Bianco, Chardonnay e Pinot Grigio) vitigni orobici favorendo una buona maturazione. e al Valcalepio Moscato Passito (vitigno Moscato di ScanAnche Diego Locatelli concorda sulla buona qualità del zo in purezza previo appassimento)». prodotto, seppur nel contesto di una stagione iniziata

I NUMERI Nella fascia pedemontana della provincia di Bergamo compresa fra l’Adda e l’Oglio oggi si estendono 700 ettari di terra coltivata a vite. In questi luoghi ameni circondati da antiche abbazie, castelli medievali e agriturismi fanno capolino 250 aziende vitivinicole che contano nel complesso 700 addetti e un’ottantina di imbottigliatori. Ogni anno vengono raccolti circa 70mila quintali di uva per la produzione del Valcalepio. Il vino più importante è il rosso che prevede l’unione del Merlot, dal 40 al 75 %, col Cabernet Sauvignon, dal 25 al 60%. La tipologia bianca, invece, è prodotta dall’unione di uve Chardonnay, Pinot Bianco e Pinot Grigio. Sul mercato vengono immesse 1.500.000 bottiglie annuali (di cui 80% di rosso) nelle quattro tipologie: Valcalepio Rosso, Rosso Riserva, Bianco e Moscato Passito. Sono invece 3.500.000 le bottiglie di Igt e 200.000 bottiglie di Terre del Colleoni, di cui oltre 100.000 di spumante.

male: «È stata una annata difficile perché la primavera è stata molto piovosa – evidenzia –, si è intervenuti molto in campagna per salvaguardare il prodotto in fase di fioritura. Il clima umido ha favorito lo sviluppo della peronospora, soprattutto nelle vigne situate nei fondovalle. Fortunatamente abbiamo salvato gran parte dell’uva. L’estate è stata calda, soprattutto in fase di maturazione tra agosto e settembre, con temporali che hanno portato beneficio alle viti. La vendemmia dei rossi è avvenuta un po’ in ritardo rispetto al 2015 che, invece, era stato più caldo e secco». Per raggiungere una maturazione ottimale, insomma, i viticoltori hanno dovuto attendere la fine di settembre. Tuttavia non si può parlare di un vero e proprio ritardo, anzi: «La vendemmia classica, fino a vent’anni fa, avveniva intorno al 20 settembre e quest’anno ci siamo un po’ allineati a questa data – precisa Locatelli –. Negli ultimi decenni invece, complice un clima più caldo, la vendemmia era stata anticipata, ora si è ritornati agli standard».

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focus

Vendemmia 2016: il maltempo ha ridotto le quantità, soprattutto in alcune zone, ma è stato propizio in fase di maturazione e la qualità delle uve è buona

LA QUALITà DELL’UVA Come sono le uve che quest’anno sono maturate nei vitigni della Valcalepio? Secondo l’enologo Sergio Cantoni, direttore del Consorzio Tutela Valcalepio, le condizioni meteorologiche di questa fine estate hanno portato a chicchi «molto belli dal punto di vista sanitario e con buone gradazioni zuccherine». «Il tempo ha fatto ben sperare per la buona maturazione delle uve rosse, in particolar modo Merlot e Franconia - spiega Cantoni -. A patire il meteo estivo, invece, è stato prevalentemente il Cabernet. Ci si aspetta invece dei bianchi di ottima qualità e con profumi più accentuati rispetto a quelli prodotti nel 2015. Sotto buoni auspici, quindi, i profili olfattivi degli aromatici; buona freschezza per i Sergio Cantoni rosati, Schiava in primis, e buona acidità, accompagnata da aromi fruttati, per Merlot e Franconia». L’unica nota negativa della vendemmia 2016 riguarda la quantità decisamente scarsa delle uve: «La causa principale è legata alle pessime con-

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dizioni meteorologiche della primavera – precisa il direttore -; come dimenticare le cinque grandinate e gli attacchi delle crittogame come peronospora e oidio in alcune zone? Qualche dato: la zona ad ovest della provincia fa i conti con un calo della produzione che va dal 40% fino all’80% in alcune zone alte di Scanzorosciate e basse di Torre de’ Roveri. La situazione migliora spostandosi verso est, per cui Grumello sconta una piccola percentuale in meno (10-20%) mentre Castelli Calepio può parlare di produzione piena se non abbondante».

MERCATI E PROMOZIONE In tavola o tra gli scaffali dei supermercati, il Valcalepio è ormai diffuso. A confermarlo è lo stesso presidente del Consorzio, Medolago Albani: «Il nostro è un vino presente sia nel settore della ristorazione che della grande distribuzione. Vedere il Valcalepio sugli scaffali di un supermercato come Esselunga per me è qualificante perché aiuta a far conoscere il marchio e a diffonderlo in maniera capillare. Anche le guide, da quella dei vini italiani di Luca Maroni a quella di Slow Food, passando attraverso la guida dell’Ais (Associazione italiana sommelier) servono per dare un apporto significativo alla conoscenza del prodotto, non solo in Italia, ma anche all’estero. Tuttavia non vanno cavalcate in maniera estrema». Secondo Giovanni De Ferrari, vicepresidente del Consorzio e titolare dell’azienda Lurani Cernuschi di Almenno San Salvatore, per vendere e promuovere un buon vino è


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Il presidente del Consorzio Emanuele Medolago Albani e Giovanni De Ferrari, vicepresidente e titolare dell’azienda Lurani Cernuschi di Almenno San Salvatore

importante anche il rapporto con il cliente: «Il vino va acquistato sul posto, va degustato, non si compra a scatola chiusa. È un alimento su cui vale molto il passaparola. Per questo vedo difficoltoso il canale dell’e-commerce. Il privato è il miglior cliente perché sposa la tua filosofia e rimane fedele anche se le annate sono scadenti. Se c’è il problema del tappo se ne discute. C’è un rapporto umano. Ci sono anche molti stranieri che vengono in Bergamasca per visitare i vigneti, chiedono di assaggiare il vino, sono interessati alla storia del territorio, ma poi il problema è riuscire a portare il nostro vino a casa loro. Con Ryanair i turisti hanno infatti limiti di peso e possono portarsi via pochissime bottiglie. Anche l’esportazione ha costi troppo elevati. Comunque, in generale, nelle guide il Valcalepio, sia bianco che rosso, è recensito con buoni punteggi. Questo significa che la sua qualità è riconosciuta sia in Italia sia all’estero. Il moscato invece è una chicca». C’è poi chi punta sul biologico come Angelica Cuni del Cipresso di Scanzorosciate: «Soffriamo la concorrenza delle grosse aziende agricole con le quali è difficile competere sui prezzi - spiega -, quindi tentiamo di dare al cliente un prodotto particolare puntando sulla qualità e non sulla quantità. Da due anni stiamo producendo vini con uve biologiche e penso che questo diventerà il trend del futuro». Per promuovere i vini del territorio la Bergamasca ha sostenuto anche parecchie iniziative, per guidare un Angelica Cuni, numero crescente di aptitolare del Cipresso di Scanzorosciate passionati ed esperti alla

scoperta del vino e dei suoi segreti: «La festa del Moscato di Scanzo riscuote sempre un grosso successo conferma Cuni -, è un’occasione per aprire le cantine ai clienti e permettere loro di assaggiare i nostri prodotti. Tra gli appuntamenti più significativi ci sono inoltre “Andar per vigne” (16 ottobre) o “Cantine aperte a San Marino” (13 novembre) mentre l’11 dicembre in vista del Natale apriremo la nostra azienda per una visita guidata alle cantine con degustazione di tutti i nostri vini e cioccolati».

L’EXPORT Germania, Belgio, Svizzera, Olanda. Ma anche Asia, Stati Uniti e Canada. Sono questi alcuni dei luoghi nel mondo in cui il Valcalepio è più richiesto. Lo zoccolo duro resta tuttavia in Italia come conferma Diego Locatelli: «L’80% viene distribuito in Bergamasca, il 5% in Lombardia (Milano, Como e Lecco) e il 15% all’estero (Stati Uniti, Svizzera, Cina e Taiwan). All’estero esportiamo vini di qualità. Molti turisti quando arrivano in Bergamasca assaggiano il Valcalepio al ristorante, lo apprezzano e poi lo vengono a cercare nelle aziende agricole. C’è interesse per il vino di qualità». Secondo Giovanni De Ferrari, però, di strada da fare per promuovere il vino oltre confine ce n’è ancora molta da fare: «Il mercato estero percepisce ancora poco il Valca-

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focus

lepio, lo conoscono poco. Vanno ancora per la maggiore i “soliti” Chianti, Barolo, Brunello di Montalcino, Franciacorta. Servirebbero campagne di promozione più massicce all’estero per far girare di più il nome del Valcalepio, ma non è facile perché servono tante risorse. Per pubblicizzarlo ci vuole pazienza. Il lavoro di promozione è lungo, costoso e rischioso di questi tempi». Tuttavia, le aziende medio-grandi della Bergamasca stanno puntando sulle esportazioni già da parecchi anni. «Il mercato del Valcalepio si concentra soprattutto al settentrione spiega Medolago Albani -. Capita di avere clienti anche a Roma o in Sicilia ma si contano sulle dita di una mano. Il più amato è il Valcalepio rosso che si abbina molto bene ai sapori forti e strutturati che caratterizzano la cucina del nord. Chi lo ordina vuole un prodotto particolare. All’estero il Valcalepio si trova soprattutto in Germania, in Asia (Cina, Singapore, Giappone), Stati Uniti, Canada, Belgio, Svizzera, Olanda. In Inghilterra meno perché il mercato è più difficile. L’aeroporto di Orio al Serio e i voli low cost hanno agevolato il transito negli ultimi anni ma per trattenere tutto questo flusso turistico bisognerebbe fare di più. Di stranieri appassionati che vengono a visitare le nostre cantine ce ne sono molti ma è anche vero che non possono trasportare in aereo grosse quantità di vino».

IN CUCINA Non solo a tavola, per accompagnare brasati e casoncelli, ma anche in cucina, come ingrediente per gustose ricette. Dal coniglio allo stufato, dal risotto agli gnocchi sono tantissime le proposte culinarie che si possono realizzare con il Valcalepio. «La cucina bergamasca è ricca di cibi a base di carne e per accompagnarli serve un vino rosso dall’alta gradazione, dai 13,5 ai 14 gradi - spiega Diego Locatelli -. I bianchi invece si accostano meglio

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al pesce o ai formaggi orobici dal sapore pungente. Il Valcalepio è ottimo anche in cucina per esempio per la preparazione di risotti e brasati. Non a caso l’80% dei nostri vini è destinato ai ristoranti o ai distributori per ristorazione». Tra le ricette più originali spicca la salsiccia ubriaca, un gustoso secondo che vede protagonista la luganega di maiale che dev’essere cotta in un vino rosso piuttosto robusto, di almeno 12 gradi. Da qualche anno si sta diffondendo nei locali orobici anche il cosiddetto risotto alla bergamasca. Bastano riso Carnaroli, burro, loanghina, Taleggio Dop, scalogno, salvia, pepe nero e un bicchiere di vino bianco Valcalepio Doc per realizzare una prelibatezza dal profumino invitante e dal gusto deciso.

I numeri del Valcalepio nel 2016

✔ 700 ettari vitati ✔ 250 aziende vitivinicole ✔ 80 imbottigliatori ✔ 700 addetti ✔ 70.000 q.li di uva prodotta ✔ 50.000 ettolitri ✔ 1.500.000 bottiglie di Valcalepio di cui 80% di rosso ✔ 3.500.000 bottiglie di Igt ✔ 200.000 bottiglie di Terre del Colleoni, di cui oltre 100.000 bottiglie di spumante


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Riflessioni di Enrico Rota

Utilizzo dei mosti, forse è bene fare un po’ di chiarezza!

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hissà perché si tende a pensare che ciò che è piccolo e difficile da ottenere sia anche buono. Che si parli di vino, formaggi o salumi è irrilevante: per qualcuno l’importante è che sia difficile da produrre. Questo mio pensiero trae origine da una serie di articoli letti nell’ultimo periodo dove si evincono alcune considerazioni fatte da opinionisti o enologi di turno. Leggendo i diversi commenti, sembra quasi che per ottenere un buon prodotto non sia sufficiente la tecnica, l’impegno e, perché no, un po’ di fortuna. L’elemento fondamentale per avere la certezza di ottenere un ottimo prodotto sembra essere la difficoltà. Il vigneto? Deve essere in estrema pendenza, in zona impervia, dove il fatto che le viti producano uva sia quasi un miracolo. Il formaggio? Deve essere prodotto solo da latte di pochissime vacche, su pascoli ad altezze quasi inarrivabili anche per loro. Il salume? Ottenuto solo da animali liberi di scorrazzare e di cibarsi esclusivamente delle ghiande più pregiate. Non parliamo poi dell’altra discriminante necessaria per garantire l’ottima qualità del prodotto; per questi liberi pensatori è la quantità, visto che deve essere poca, molto poca. Si sa, se è difficile produrlo vuol dire che se ne immette poco sul mercato e, per forza di cose, è buono. E quindi avanti con la celebrazione di prodotti che a stento possono essere commercializzati perché le quantità sono esigue, quasi millesimali, quasi ad incarnare la leggenda. Ogni anno la storia si ripete, uguale ma diversa. Sì, perché viste le estreme condizioni di produzione l’unica garanzia che il “cercatore di eccellenze” può avere è la “sicura insicurezza” del prodotto, che non potrà mai essere uguale a quello dell’anno precedente e di riflesso si tratterà di un ottimo prodotto, proprio perché estremo e di difficile ottenimento. Siamo davvero sicuri che sia cosi? Interessante infine cercare di capire il pensiero di qualche operatore locale legato alla disputa sull’utilizzo dei mosti concentrati in annate complicate come questa (a proposito, trattasi di una semplice pratica enologica naturale…). Superfluo ricordare le molteplici avversità meteorologiche di quest’anno, che hanno reso la vita difficile a molti vignaioli bergamaschi. Qualcuno ha voluto sottolineare la sua condizione di “fortunato”, o meglio di più bravo, perché non ne avrà bisogno. A costoro ricordo di ringraziare il cielo di non aver subito diverse tempeste in poche settimane: si può essere bravi quanto si vuole, ma se sul vigneto rimane poco o nulla, il sarcasmo proprio non serve, tanto meno la pubblicità gratuita a favore delle aziende assistite. A coloro invece che confondono il diritto di usare i mosti con il dovere di farlo, beh, c’è poco da dire: si vede proprio che non masticano di questa materia.

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RIDIAMOCI SU di Anna Facci

Le scivolate dei clienti tra “Tachipirinha” e whisky “Johnnie Wayne” Non è vero che siamo diventati tutti esperti di enogastronomia. Strafalcioni, errori e cadute di stile sono sempre all’ordine del giorno nei locali. Ce ne siamo fatti raccontare alcuni da chef, ristoratori, docenti e barman bergamaschi

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uardare programmi di cucina in tv, condividere foto di piatti e giudizi on line ci ha reso fini intenditori? Sembrerebbe di no. Almeno a giudicare dagli strafalcioni, dagli errori e dalle cadute di stile dei clienti nei quali continuano a imbattersi chef, ristoratori e barman nel loro lavoro quotidiano. Peccato che non ci sia un Tripadvisor al contrario, un sito dove è chi sta dall’altro lato del menù a mettere a nudo chi frequenta i locali, altrimenti se ne sentirebbero delle belle. Ci abbiamo provato noi a mettere insieme una scherzosa “rivincita” raccogliendo gaffe, ingenuità e mancanze dei consumatori. Come quella signora in un locale bergamasco che di fronte alla proposta di una spigola all’amo ha dichiarato con perentoria fermezza di non gradirla, ma di preferire del

branzino (è lo stesso pesce, indicato con due diversi termini regionali). O la “collega” ben più raffinata che ha ordinato delle “cap santé”, inutile pronuncia francese per un antipasto di “capesante”. D’accordo, si dirà, il pesce è storia recente per i palati orobici. Ma nemmeno con la carne va meglio e così, come riferisce Diego Pavesi chef del ristorante Della Torre di Trescore Balneario, c’è chi chiede un filetto ben cotto lamentandosi poi perché è asciutto e chi non ha gradito il carpaccio «perché era crudo» (!). C’è anche poca dimestichezza con le regole della ristorazione. «Capita che per la pausa pranzo – evidenzia Pavesi – ci siano persone che ordinano alla carta, magari ognuna un piatto diverso, per poi rendersi conto di non avere abbastanza tempo per la


ottobre 2016 cucina espressa». E che dire di coloro che si ritengono dei gourmet fatti e finiti? Quelli che amano provare i locali e fare classifiche? «Aderiamo al circuito trentacinqueuro.it – racconta lo chef – e talvolta, passando tra i tavoli, capita di sentire paragonare la proposta con quella del locale dove “con 20 euro ne mangi di pesce”, che la dice tutta sulla capacità di valutare la differenza di qualità delle materie prime, della preparazione e del servizio», riflette un po’ amaramente. Che poi è anche una questione di tatto, o no, cari clienti. «Un classico – annota il patron dell’Arlecchino a Bergamo, Franco Previtali – è la telefonata per sapere se c’è posto in giornate particolari come Ferragosto. Alla risposta che è tutto completo il commento è “ah, anche voi!”», che svela la scelta di ripiego. E poi ci sono quelli che hanno bisogno di conferme: “Pronto, è la Pizzeria Arlecchino? Fate la pizza?”, è l’aneddoto preferito della figlia Francesca. I non professionisti diventano comunque più attenti e diligenti quando si mettono alla prova in cucina. All’Accademia del Gusto di Osio Sotto ricordano ancora la signora che pulendo i porri gettava la parte bianca, anziché le foglie, e lo chef Pavesi di una persona fortemente allergica all’aglio che probabilmente aveva scelto il corso meno adatto, quello sul pesce. Ma i casi non sono così numerosi. «Anche nei corsi di pasticceria – racconta il docente Diego Mei – grandi svarioni non ce ne sono. Forse perché l’atteggiamento prevalente è quello di chi vuole imparare». Eppure un po’ l’ha spiazzato la signora che ha rifatto a casa la crema mostrata a lezione confessando che però era venuta più morbida. «Ho usato esattamente gli stessi ingredienti», ci ha tenuto a precisare. «Ma li ha pesati?». «No!», la risposta che demolisce la base stessa della pasticceria, che vuole ogni elemento esattamente bilanciato. «L’errore più frequente – evidenzia il pasticciere – è voler fare le dosi a occhio o pensare di poter sostituire un ingrediente con un altro senza compromettere il risultato, come la corsista che voleva fare una frolla con solo burro di cacao». «Un altro “peccato” – aggiunge - è badare più all’estetica che al gusto, come riuscire a fare dei macaron dal guscio lisco e ben sviluppato, ma cadere sul ripieno, che invece è la parte più importante di questo dolce». Poi è vero che ogni corso offre una galleria di tipi umani che meriterebbero un capitolo a parte. «Si va dall’impedito a quello che sa già tutto – sintetizza Mei -, ma ponendosi senza saccenza e presentando gli argomenti in maniera semplice si riesce, alla fine, a far sentire tutti a proprio agio».

Il campionario più vasto di stramberie e incidenti da ordinazione ce l’hanno probabilmente i baristi. Vuoi perché si è più di fretta o sovrappensiero o perché non sempre c’è il supporto della lista e si va a orecchio. Come chi chiede il whisky “Johnnie Wayne” (storpiatura con riflessi cinematografici del marchio Johnnie Walker), la birra doppio smalto o un succhiotto (lapsus?) di frutta fresca. Tutti casi raccolti da Gabriele Aresi, titolare del 30 & Lode Cafè di via Dei Caniana a Bergamo che ha anche gestito l’estivo al parco della Trucca. Pure la caffetteria, con le sue innumerevoli varianti, è fonte di sorrisi («un caffè con latte macchiato»), richieste al limite dell’assurdo («un caffè liscio, ben caldo, in tazza ghiacciata») e situazioni spiazzanti. «Ad un signore che aveva ordinato un cappuccino – svela Aresi –, la cameriera aveva chiesto “cacao o cannella?”, mandandolo nel panico. “Perché, quello normale è finito?” la preoccupata reazione del cliente». «Come ci si comporta in questi casi? Si fa finta di nulla – dice il barman - per non rischiare di offendere, ma poi si condivide l’episodio con i colleghi e ci si scherza su». Un’altra categoria è quella dei super esperti che proprio tali non sono. «Chi ordina un Gin Tonic raccomandandosi di preparalo con l’Havana 3 (che però è un rum ndr.) o chi è convinto di avere la ricetta perfetta per il Negroni. Non credo che i programmi tv abbiano reso più preparati i clienti – riflette Aresi -, anzi, probabilmente li hanno illusi di poter esprimere giudizi in libertà e di criticare». Anche il barman e formatore Gianfranco Di Niso si è dovuto destreggiare tra nomi improbabili e richieste strampalate. «Molto frequente è sentirsi ordinare una Tachipirinha anziché una Caipirinha – afferma -, in altri casi è persino difficile capire cosa il cliente voglia e gli si fa qualche domanda per essere più sicuri». “Quel cocktail inventato a Mosca”, ad esempio, è una parafrasi diffusa, pur se inesatta, per il Moscow Mule. «L’incidente diplomatico l’ho rischiato di fronte ad una signora napoletana – confessa - che mi ha chiesto una “premuta di arancia”. Lì ho fatto davvero fatica a trattenermi dal ridere, ma è stato difficile convincere anche quell’altra signora che voleva a tutti i costi lo spritz alla spina». Neppure tra gli aspiranti professionisti mancano gli equivoci. «Inevitabilmente, durante i corsi, il pisco, brandy sudamericano, diventa “psico”», dice Di Niso, che, per riportare un po’ di equilibrio nel match tra avventori e baristi ricorda anche la scivolata di un collega. «Alla richiesta di una Pina Colada, ha passato in rassegna con attenzione tutte le bottiglie per poi uscirsene con un “Mi dispice, è finita!”».

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le serate di Gualtiero Spotti

A tavola con le “stelle”

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Il Florian Maison di San Paolo d’Argon, l’Hostaria del Relais San Lorenzo in Città Alta e il ristorante Armani di Milano ospiteranno cuochi di fama, italiani e stranieri, per serate ad alto contenuto gastronomico. Ecco gli appuntamenti da non perdere a vivacità di un ristorante e di una cucina, di questi tempi, non la si mostra solo con la creatività del cuoco di casa, con l’ambiente curato, con un buon servizio ai tavoli e tutta quella serie di condizioni che distinguono l’eccellenza dalla normalità. A volte capita di volersi confrontare con altri “colleghi” e si ha il piacere di ospitarli nel proprio ristorante per delle serate un po’ speciali, delle cene che la maggior parte delle volte sono dei veri e propri “quattro mani”, dove si alternano nel menù i piatti dell’ospite con quelli del cuoco che ospita. Anzi, è diventato quasi un “must” l’idea di avvicinare la propria clientela affezionata (e non solo) a una cucina con altre caratteristiche, magari perfino di altre culture gastronomiche e Paesi. In provincia di Bergamo, nel corso dell’ultimo anno, due ristoranti (Florian Maison a San Paolo d’Argon e l’Hostaria del Relais San Lorenzo a Bergamo Alta) si sono attivati in questo senso ed hanno iniziato a organizzare, con una certa continuità, appuntamenti in compagnia di cuochi italiani e, di tanto in tanto, perfino stranieri. Già i prossimi giorni saranno ricchi di serate da tenere d’occhio, da parte dei foodies più sfegatati ma anche da parte di chi, semplicemente, vuole concedersi un momento di esplorazione culinaria al di fuori dalla routine locale. È un trend quello delle “ospitate” di cuochi che nel capoluogo lombardo si replica con maggiore frequenza e che, tra gli appuntamenti di maggior prestigio previsti a breve, vedrà impegnato a partire da novembre

anche il Ristorante Armani a Milano e il suo cuoco Filippo Gozzoli. Con nomi internazionali di assoluto prestigio. Vediamo chi sono i cuochi presenti e quali sono i prossimi incontri gourmand sia nella provincia orobica che nel ristorante stellato di Gozzoli. Intanto, si parte già il 20 ottobre.

Marco Sacco al Florian Maison giovedì 20 ottobre Il bistellato del lago di Margozzo, in Piemonte, è uno dei protagonisti della cucina a metà strada tra montagna e lago, tra pesce e carne, con diverse influenze dettate dai prodotti che “fanno” la tradizione piemontese e provenienti da aree vicine come la Val d’Ossola. Con preparazioni che nel tempo (la famiglia Sacco gestisce il ristorante dal 1974) sono diventate dei classici, come nel caso del Flan di Bettelmatt dell’Alpe Morasco, con mostarda di pere e salsa di mirtilli speziati.

Terry Giacomello all’Hostaria del Relais San Lorenzo martedì 25 ottobre Cuoco d’avanguardia, che ha vissuto esperienze importanti alla corte di


ottobre 2016 Ferran Adrià a El Bulli e da René Redzepi al Noma, il suo stile passa dal post molecolare al tecnoemozionale, con piatti che offrono sempre incroci di gusto sorprendenti. Il suo ristorante Inkiostro, a Parma, ha conseguito lo scorso anno la prima stella Michelin. A Bergamo presenterà un menù con alcuni cavalli di battaglia come la strepitosa Mezza-Manica al brodo di prosciutto, torta fritta e ristretto di balsamico e i Tagliolini al bianco d’uovo con crema di parmigiano e caviale di tartufo.

Philippe Leveillé al Florian Maison lunedì 7 novembre Il cuoco bretone protagonista ai fornelli e in televisione (insieme a Davide Oldani) mette sempre in campo lo stile d’oltralpe, tra piatti “burrosi” e iperclassici, con piccioni e lumache in evidenza, ma anche risotti di altissimo livello. È la classica cucina da mangiare con gli occhi e da gustare al palato, di assoluta sostanza e ricchezza; opulenta quanto basta per dare grande soddisfazione a tutti coloro che, magari, sono appena passati attraverso piatti minimal.

Paco Perez al Ristorante Armani mercoledì 16 novembre Uno dei grandi di Spagna, che negli ultimi anni ha saputo reinventare la cucina moderna iberica e mettere nel piatto un’esplosione di creatività. Il suo background abbraccia agli esordi la nouvelle cuisine francese e arriva fino alle tecniche di El Bulli dimostrando così quella versatilità che si ritrova tutta nei suoi piatti. Oggi gestisce diversi ristoranti stellati e ha come braccio destro, da un decennio a questa parte, un cuoco italiano, Antonio Arcieri. La serata avrà tra i vini proposti al tavolo anche la sorpresa di un Moscato di Scanzo dell’azienda La Brugherata.

Gert De Mangeleer al Ristorante Armani giovedì 26 gennaio Astro della ristorazione europea e giovane con già tre stelle Michelin sul petto, Gert De Mangeleer ha saputo riscrivere la storia recente della cucina belga, diventando capofila di una nuovissima generazione di cuochi. Con uno stile eclettico e global: molta della materia prima che utilizza arriva dall’orto di fronte al suo ristorante, ma è facile trovare anche prodotti internazionali che portano linfa vitale in ogni piatto rendendolo universale. Un suo must? L’avocado cosparso di polvere di pomodoro.

Domenico Iavarone all’Hostaria del Relais San Lorenzo martedì 28 febbraio Dalla costiera sorrentina ecco un cuoco che ha il Mediterraneo nel sangue e che propone una cucina da veri gourmet del mare con il pesce che è sempre l’assoluto protagonista. Domenico Iavarone arriva da Vico Equense, patria di grandi cuochi, e promette di dare una versione molto personale della cucina campana, mediata da tecniche ed estetica più attuali. La freschezza della materia prima e i sapori del sud accompagnano l’intero percorso a tavola.

José Avillez al Ristorante Armani giovedì 9 marzo José Avillez è stato il primo cuoco portoghese ad aggiudicarsi due stelle Michelin ed è il vero punto di rottura nella cucina lusitana tra i classico e il moderno. I suoi piatti al ristorante Belcanto, in centro a Lisbona, raccontano dell’infanzia trascorsa nella vicina Cascais, a stretto contatto con il mare, ma anche della tradizione rivisitata in chiave moderna. Delizie esteticamente perfette e sapori alleggeriti senza perdita di gusto e consistenze. Tra i suoi piatti imperdibili c’è Tangerina, un dessert al mandarino.

Oliver Piras all’Hostaria del Relais San Lorenzo martedì 28 marzo Cresciuto alla corte dei Cerea, ma passato anche dalle cucine di Joel Robuchon e del Noma a Copenhagen, il talentuoso cuoco di origini sarde è un eclettico che ama la cucina di contrasti, con un taglio un po’ nordico. Il suo piccolo ristorante, aperto a San Vito di Cadore insieme alla compagna Alessandra Del Favero, anch’essa cuoca, è stellato Michelin ed è diventato mecca di appassionati foodies. È una delle nuove cucine italiane più interessanti in circolazione.

Sergio Herman al Ristorante Armani giovedì 11 maggio Star della cucina mondiale, prima nel tristellato Oud Sluis in Olanda e ora al bistellato The Jane di Anversa, in Belgio, Sergio Herman è il perfetto cuoco moderno. Creatività e curiosità sono in grande evidenza in ogni piatto, il gusto estetico e il piacere intellettuale non mancano mai, pur con un approccio rilassato alla gastronomia. Protagonista mediatico e autore di diversi libri di cucina, ha anche inaugurato da pochi mesi una serie di “frituur” (i classici punti di ristoro di fritti) in Olanda.

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TENDENZE di Anna Facci

Schiscetta-mania M Mentre il dibattito è aperto sull’opportunità di far entrare a scuola i pasti preparati a casa, tra le scrivanie la rivoluzione è già in atto. «Il pranzo fai da te piace perché permette di contenere i costi ma, soprattutto, di sapere sempre cosa si sta mangiando», ci dice Jeanne Perego, che in manuali e blog racconta come può diventare piacevole e golosa anche la pausa sul posto di lavoro 14

entre il dibattito è acceso sul suo ingresso a scuola, la “schiscetta” ha già messo a segno la propria riscossa. Il pasto portato da casa si è tolto i panni del triste ripiego per vestire quelli della scelta di tenedenza e appagante. Parola di Miss Schiscetta, alias la giornalista e scrittrice Jeanne Perego, che alla filosofia del pranzo fai da te - dalle ricette ai consigli sulle attrezzature fino al galateo della pausa in ufficio – ha dedicato un blog (www.schiscetta.net) e una pagina Facebook (Schiscetta), oltre che due libri, “Schiscetta Sfiziosa” edito da Vallardi nel 2014 e “Piatti fai da te per la pausa pranzo – Cento idee per un schiscetta naturale e golosa” uscito nel 2015 per Tecniche Nuove, entrambi scritti con Lella Nicoli. La schiscetta è tornata di moda, un fenomeno in crescita? «A giudicare dai contatti sul blog e sulla pagina Facebook direi proprio di sì. Solitamente d’estate il numero delle visite si riduce, quest’anno per la prima volta non è stato così, sono continuate ad arrivare richieste di informazioni e di ricette e a settembre c’è stata un’ulteriore impennata. Anche l’uso del termine “schiscetta” lo conferma, del resto. È prettamente lombardo e due anni fa, in occasione dell’uscita del primo libro, abbiamo

discusso a lungo sull’opportunità utilizzarlo nel titolo, oggi è una parola universalmente riconosciuta». A cosa si deve questa riscoperta? «Al desiderio o alla necessità di contenere i costi, di certo, ma credo sia soprattutto l’esigenza di controllare cosa si sta mangiando. L’attenzione alla qualità degli ingredienti è sempre maggiore, diventa quasi un controsenso rinunciarvi nella pausa pranzo e accettare di mandar giù qualunque cosa, panini che non si sa bene quando sono stati preparati o insalatone dove “-one” vuole spesso dire che ci si è messo di tutto senza troppo criterio». Eppure fino a qualche anno fa non sembrava così trendy portarsi il pasto da casa...

Jeanne Perego, giornalista, scrittrice, blogger e buongustaia ha “riabilitato” anche le insalate con insalatamente.com


ottobre 2016 «È vero, spesso ha significato accontentarsi degli avanzi del giorno prima e consumarli senza grande attenzione né entusiasmo. Ma la schiscetta non è una pattumiera, il pranzo in ufficio o in università deve essere emozionalmente corroborante: in fondo è il momento più importante della giornata, quello che ci permette di staccare e rigenerarci durante una giornata impegnativa di lavoro o studio». Come si prepara, allora, il pranzo portatile di nuova generazione? «Devono essere piatti semplici, da realizzare al massimo in 15 minuti, perché non si ha mai molto tempo. Ribadito che non si cucina una porzione in più della cena, con gli stessi ingredienti e quasi in contemporanea si può però ottenere una seconda preparazione da portarsi via il giorno dopo. Se la sera, ad esempio, prepariamo un’insalata mista con delle uova sode, possiamo farne bollire qualcuno in più, tritarlo e utilizzarlo con olive nere e maionese per riempire dei pomodori maturi. Il segreto è pensare a piatti diversi che possiamo fare con lo stesso ingrediente e utilizzare tutti gli elettrodomestici che aiutano a risparmiare tempo, dalla pentola a pressione al microonde, ai contenitori. Logico che cambia anche il modo di fare la spesa, occorre considerare anche cosa ci si portarà per pranzo». Cosa può finire nella schiscetta? «Di tutto: pasta, cous cous, cereali, sformati, focacce ripiene, insalate, carne, pesce, persino zuppe, le si mette nei vasi di vetro a chiusura ermetica e non si corre il rischio che si rovescino. L’importante è che siano piatti leggeri, perché poi si ricomincia l’attività, ma anche sazianti, altrimenti dopo qualche ora si tira fuori il pacchetto di cracker e lo si sgranocchia davanti al computer». Come ci si inventa il proprio pasto ogni giorno? «Si fanno degli esperimenti. Si cerca di capire cosa ci piace di più, cosa digeriamo meglio e poi ci si lancia nelle varianti. Io, ad esempio, sono vegetariana ed ho scoperto un mondo con i panini farciti di verdure. Oggi, poi, ci sono talmente tanti ingredienti che possono dare un tocco diverso, le spe-

zie, le patate dolci... ho fatto un’insalata con gli alchechengi che è piaciuta molto. Non sono piatti da Masterchef, ovviamente, ma sono gustosi e appaganti». Lei è anche andata oltre, sul suo blog propone la cucina da scrivania, o desk cooking, di cosa di tratta? «Significa preparare o finire di preparare il proprio pasto nella cucina del posto di lavoro. Al massimo in dieci minuti si possono fare simpatici sformati in tazza, minestre in barattolo, piccoli dessert nel microonde, che non dovrebbe mancare nelle aree di ristoro aziendali così come un piccolo frigorifero (e se non ci sono bisogna fare una rivoluzione per averli!). Più sempli-

LA PAROLA Schiscetta era il contenitore in metallo che gli operai e i muratori milanesi degli anni 50 e 60 si portavano sul lavoro, non avendo a disposizione né mense né bar. Solitamente c’era della pasta, cucinata espressa dalle mogli la mattina, che si “schisciava” (schiacciava) per farcene stare una bella porzione. cemente si può farcire il panino acquistato fresco la mattina, che è l’ideale per un risultato perfetto, condire l’insalata, tagliare l’avocado al momento. Darsi alla cucina da scrivania vuol dire prendere effettivamente del tempo per

se stessi e poi obbliga ad alzarsi dalla sedia e può diventare un’occasione per socializzare sinceramente con i colleghi». I negozi di alimentari e le gastronomie possono inserisi in questa nuova tendenza del pranzo fai da te? «Sono cruciali per lo “schiscettaro”, per il pane ed i prodotti freschi, ma anche per proposte già pronte se sono leggere, genuine e variano ogni giorno». Intanto le attrezzature per portarsi con comodità il pasto da casa si moltiplicano... «Ce ne sono di tutti i tipi e sono sempre più belle ed affidabili. Si va dai portavivande che si riscaldano collegandoli al computer con la porta Usb alle borsette termiche di ogni dimensione e foggia, alle linee che richiamano la tradizione giapponese dei bento. Anche i contenitori sono migliorati tantissimo». Cosa non portare mai per pranzo al lavoro? «Piatti dall’odore troppo marcato. Per quanto gustosa, la zuppa di cipolle non sarà ugualmente gradita all’olfatto dei colleghi. Attenzione anche a come si mangia. La buona educazione non va dimenticata e trangugiare una zuppa a mo’ di idrovora può addirittura compromettere la carriera». Oltre al buon cibo, quali sono le regole per un pausa gratificante? «Non mangiare davanti al computer, si rischia di digerire male e perdere di vista la quantità di cibo che si assume. Evitare di mangiare da soli, altrimenti si rimugina sui problemi di lavoro, ed essere orgogliosi di ciò che si porta nella schiscetta, perché un pasto ben realizzato può far scalare la classifica della popolarità. Nella bella stagione approfittare per mangiare all’aperto, scegliendo di conseguenza i piatti più adatti, e in ogni caso fare un po’ di movimento dopo pranzo. Può bastare una camminata di un quarto d’ora e se invece è brutto tempo ci si può dedicare alla lettura di un buon libro. Anche il momento del caffè dopo pasto può essere vissuto in maniera diversa, con qualche biscottino o cioccolatino portato da casa diventa l’occasione per conoscere meglio i colleghi».

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IL LOCALE

Nicoletta Mafessoni, al centro, con le collaboratrici.

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mpazza lo street food e la piadina ne è la rappresentante più conosciuta, senza dubbio quella più copiata, a volte anche male. Quando però è preparata con cura, lo si deve ammettere, è qualcosa di irresistibile. Il prodotto è tipico della Romagna, ma – a sorpresa - è la piadina lombarda ad avere maggiore successo. La più grande catena italiana di piadinerie è infatti bresciana, si chiama La Piadineria e conta 115 ristoranti dislocati dal Nord al Centro Italia. Nicoletta Mafessoni, 49 anni, bresciana, è franchisee di una piadineria a Bergamo in via Borgo Palazzo 100/G e di una a Iseo. Da cliente affezionata si è trasformata in una delle imprenditrici più convinte e propositive del gruppo. «Lavoravo come contabile, l’idea è nata per caso – racconta -. Andavo spesso a pranzo alla piadineria di Brescia con un’amica. A differenza di altre catene, i prodotti erano di qualità e trovavo una grande attenzione verso i clienti. Un giorno ho saputo che cercavano imprenditori per nuovi locali. Ne ho parlato con la mia amica, che allora lavorava come meccanico nell’officina di riparazione di macchine agricole del padre, e ci siamo lanciate». Era il 2003. Nicoletta, giovane mamma di due bambini, aprì i due locali pressoché in contemporanea. Il tempo le ha dato ragione: oggi, dopo due brevi parentesi di gestioni diverse, guida le due piadinerie da sola, affiancata da sei collaboratori,

Nicoletta e la piadina, amore al primo morso Da cliente affezionata si è trasformata in una delle imprenditrici più propositive del marchio La Piadineria, che in via Borgo Palazzo propone un centinaio di varianti della specialità romagnola, anche con farina integrale o di kamut ed è soddisfatta: «Non tornerei più a lavorare in ufficio, ma la mia esperienza in contabilità mi è stata utile: l’errore lo vedo prima che avvenga. La soddisfazione più grande – confessa – è quando i bambini vengono di loro spontanea volontà a dirmi “la tua piadina è buonissima!”». A Bergamo lo staff è composto da quattro ragazze, Nicoletta si divide tra le due sedi. «Rispecchiano il mio modo di essere – dice delle collaboratrici - e ho piena fiducia, gestisco-

no la piadineria come fosse loro». Il locale in orario di pranzo è molto frequentato, la clientela è fatta di studenti, impiegati e famiglie. Attraverso un barcode possono esprimere il proprio giudizio. La pasta viene fatta al momento e si può avere anche con farina integrale o di kamut. Le varianti sono un centinaio ma con le diverse combinazioni possibili diventano molte di più. Una delle piadine più richieste è al crudo, squacquerone e rucola. Nei progetti c’è l’apertura di un terzo locale. «Mi piacerebbe, vediamo – riflette -. Quando ho deciso di affiliarmi avrei preferito aprire in un centro commerciale ma in quegli anni non rientrava nelle strategie del gruppo. Da qualche anno invece sì e chissà...». Alla domanda su quanto sia difficile per una mamma fare l’imprenditrice risponde: «Gestire due locali e la famiglia è impegnativo ma non ne farei una questione di genere. Sono riuscita a creare un buon rapporto con il co-fondatore del gruppo Antonio Milani e con i miei collaboratori».


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L’INIZIATIVA Come a Napoli per il caffè, in 34 locali bergamaschi al momento del conto si può contribuire ad offrire un pasto a chi è in difficoltà. Un progetto del Rotary a favore della Caritas, sostenuto dall’Ascom

“Cena Sospesa”, la solidarietà entra al ristorante

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scire a cena, godersi la serata e aggiungere idealmente un posto a tavola per chi ne ha bisogno. È possibile con “Cena Sospesa” l’iniziativa del Rotary Club Bergamo Città Alta che raccoglie fondi a beneficio della Caritas diocesana per garantire un pasto a famiglie e persone in difficoltà. Prendendo ispirazione dalla tradizione napoletana del “caffè sospeso”, che vuole che il cliente paghi un espresso in più da offrire ad uno sconosciuto, e da un’analoga esperienza avviata a Milano dalla Caritas Ambrosiana, il progetto coinvolge i ristoratori e i loro ospiti in un circuito solidale attento alle problematiche del disagio economico e della povertà. È sostenuto da Ascom Confcommercio Bergamo, Ubi Banca Popolare di Bergamo e Confindustria Bergamo ed ha il patrocinio del Comune. I ristoratori che partecipano sono 34. Con un “porta-conto” dedicato illustrano l’operazione ai clienti che, al momento del pagamento della cena, possono fare una donazione, di qualsiasi importo,

dentro una busta chiusa. Le somme raccolte saranno destinate alla Caritas di Bergamo e saranno convertite in ticket restaurant da distribuire a persone e famiglie in difficoltà economica individuate dalla stessa Caritas e dal Rotary Club Bergamo Città Alta. «Bergamo ancora una volta mostra la sua solidarietà verso chi ha più bisogno – sottolinea Oscar Fusini, direttore di Ascom Confcommercio Bergamo -. Siamo soddisfatti della risposta degli esercenti, è nata una rete che rappresenta tutti i segmenti della ristorazione, da quello d’eccellenza a quello più vocato ad accogliere famiglie e giovani, ugualmente sensibili nell’accogliere l’invito dei promotori. Dare da mangiare, del resto, è la missione dei nostri locali ed è naturale pensare anche a chi non ce la fa». Presentata in una serata benefica all’ex monastero di Astino, la Cena Sospesa è in fase di avvio e durerà sei mesi.

I LOCALI CHE PARTECIPANO In città Al Bacio All’Ancora Osteria Al Gigianca Arlecchino Byron Il Circolino Da Franco Gennaro e Pia Grotta Azzurra Da Mimmo

La presentazione della “Cena Sospesa” ai ristoratori Ascom

In provincia Tranquilla - Algua Ristorante pizzeria Giardino - Almé Frosio - Almé Bellaria - Almenno San Salvatore Caffè dell’Angolo - Azzano San Paolo

Villa Cavour - Bottanuco La Vacherie - Brusaporto Amalfitano - Calcinate Dimora storica Tre Re - Caravaggio Trattoria del Sole - Fiorano al Serio Al Vigneto - Grumello del Monte Trattoria Bolognini - Mapello La Caprese - Mozzo La Rotonda di Bacco - Roncola San Bernardo Ristorante Posta - Sant’Omobono Terme Il Giardinetto - Scanzorosciate Franco - Seriate Della Torre - Trescore Balneario Al Santuario - Treviglio Papillon - Torre Boldone Al Santuario - Urgnano Antica Osteria Il Forno - Valbrembilla Trota - Valbrembilla Cadei - Villongo

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L’intervista di Maurizio Ferrari

Rivera: «Vi svelo i due piatti che porto nel cuore» L’ex golden boy del calcio italiano racconta il suo rapporto con la tavola, dai pranzi prepartita agli incontri con Nereo Rocco, Veronelli e Zanella. E ammette: «Non sono mai stato un goloso anche se il gusto per i buoni piatti non m’è mai mancato». «Oggi sto più attento a quel che mangio. Evito gli zuccheri e i cibi col glutine. Ma non rinuncio a due ricette che mi accompagnano da una vita, gli agnolotti e il risotto alla milanese con l’ossobuco»

foto servizio ©MarconiProductions

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uelle paste e minestre dal sapore antico ma soprattutto gli agnolotti della festa, quelli preparati da mamma Edera fin dal sabato sera che non ha più dimenticato e che sono diventati nel tempo una sorta di evergreen, un “santo graal” gastronomico che lo ha accompagnato ovunque. Il rapporto tra Gianni Rivera e il cibo è sempre stato semplice e schietto: per il sommo protagonista della partita del secolo Italia-Germania 4-3 e capitano del Milan euromondiale, la tavola ha voluto sempre dire cibo genuino e calore conviviale. È attorno a una tavola imbandita, oltreché sul rettangolo da gioco, che sono nati rapporti formidabili come quello col paròn Nereo Rocco, o dispute feroci, all’insegna di arbitraggi scandalosi e congiure pallonare. Un tour del palato che parte fatalmente dalla sua patria alessandrina, per poi aprirsi alla lunga esperienza milanese e infine approdare nella Capitale, da uomo della politica. Cucine diverse, aromi, gusti e ingredienti spesso

agli antipodi, che però il primo Pallone d’Oro italiano ha saputo armonizzare nel tempo. «Non sono mai stato un gran goloso e giocando al calcio non avrei neppure potuto permetterlo, ma il gusto per la buona tavola l’ho sempre avuto, anche per quella carica di umanità e convivialità che portavano con sé». Per Gianni quest’ultimo anno è stato un’autentica maratona: ha scritto con l’aiuto della moglie Laura la sua autobiografia (530 pagine ricche di ricordi di ieri e di oggi: per info il sito è www.giannirivera. it), presentandola in decine di piazze italiane e raccogliendo ovunque un’accoglienza calorosissima. Sono passati quasi 40 anni dalla sua ultima partita (che coincise nel 1979 con la conquista della Stella del decimo scudetto per il Milan) eppure in fatto di popolarità sembra non abbia mai smesso di giocare, al punto che l’ex Golden Boy partirà a breve per una tournèe all’estero (prime tappe Canada e Usa) per continuare la presentazione. «La

cosa bella è che ai nostri incontri ci trovo anche un sacco di giovani che non mi hanno mai visto giocare. Oggi però, con la tv o sul web è facile andare a rivedere le partite del passato». Tra gli incontri più calorosi quello in Puglia con Al Bano: «Siamo amici da lunga data - spiega Rivera -, lui sì che è riuscito a conciliare al meglio la canzone con un’agricoltura che non ha mai abbandonato. E

Uno scatto con Cesare Prandelli


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oltre a gustare le delizie del Salento, ho degustato i suoi vini: superbi». Pensare che quella verso il vino per Rivera è una vocazione relativamente tardiva. «Da ragazzo ero completamente astemio, poi cominciai ad assaggiare il vino a Orvieto, durante l’anno di militare. Non l’ho più abbandonato, anche perché dopo pochi anni al Milan incontrai Nereo Rocco come allenatore e con lui non potevi non accompagnare un buon piatto con un vino generoso». Da buon piemontese Gianni ama i rossi: «Tra i miei tanti incontri ho avuto la fortuna di conoscere il re dei vignaioli piemontesi Giacomo “Braida” Bologna e con lui gli assaggi sono diventati ancor più raffinati grazie alle fantastiche Barbera come la Monella o il Bricco dell’Uccellone della sua cantina. Ma anche il grignolino non lo dimentico. Anche mister Liedholm, già verso la fine della sua carriera da allenatore, si mise a produrre vino molto buono e proprio sulle mie colline alessandrine, a Cuccaro Monferrato. Negli spogliatoi poi arrivavano spesso champagne e spumante per festeggiare le nostre vittorie sportive». E a proposito di bollicine, altro amico storico di Gianni è quel Maurizio Zanella, patron di Ca’ del Bosco, con cui tante volte si è ritrovato a brindare in Franciacorta. Da calciatore comunque, fin dai tempi in cui giovanissimo militava nelle file dei grigi dell’Alessandria (esordio in A a 15 anni e 9 mesi contro l’Inter: un segno del destino) per poi passare al Milan neppure maggiorenne, il cibo del prepartita era un po’ diverso da quello preparato da chef e dietologi delle società calcistiche di oggi: «Negli anni Sessanta non si guardava certo la dieta: poche ore prima di un match capitava anche di mangiare piatti pesanti come un risotto alla parmigiana o delle bistecche gigantesche, ma vi garantisco che noi giovani di allora digerivamo anche le pietre». C’era anche il pesce di rigore a quei tempi: «Sempre di venerdì, anche per un precetto di tradizione religiosa, soprattutto il merluzzo. Poi durante la settimana a casa, riso o pasta e qual-

Gianni Rivera, a capotavola, con mamma Edera, papà Teresio e il fratellino Mauro che volta la carne, mentre la domenica arrivava appunto il piatto forte, gli agnolotti. Fin dal sabato, mia mamma preparava con cura il ripieno con lo stufato: quando arrivavano in tavola era veramente una festa». Spostandosi a Milano, Gianni frequenta anche i ristoranti della borghesia meneghina, ma poi finisce spesso all’Assassino di Ottavio Gori, toscano di Fucecchio come Indro Montanelli, il buen ritiro di patron Rocco, dove spesso si ritrova a tirar tardi la notte una comitiva di grande spessore intellettuale in cui spiccano anche Gianni Brera, lo stilista Ottavio Missoni e Gino Veronelli. La vita di atleta non permette al Golden Boy di fare le ore piccole, ma nelle sere di svago spesso ci fa capolino anche lui: «Era affascinante sentir parlare Veronelli di cibo e di vino - ricorda l’ex bandiera del Milan -, penso a cosa direbbe oggi della moda dilagante degli hamburger e patatine fritte: sarebbe inorridito». Diventato anche politico e anche uomo di governo negli anni scorsi, Rivera è ora tornato alle sue radici calcistiche (è presidente del Settore

Tecnico di Coverciano) e ha scelto Roma come sua città di adozione, eppure, parlando di cucina, il piatto che accomuna di più tutta la sua famiglia, la moglie Laura e i suoi due figli, «resta il risotto alla milanese con l’ossobuco: praticamente un piatto unico universale che ho imparato ad apprezzare a Milano, ma che trovo facilmente anche a Roma e che ci cuciniamo anche a casa secondo la ricetta tradizionale. Con gli agnolotti sono i due piatti, dell’infanzia e della maturità, a cui rinuncio più a fatica». Oggi però l’ex campione è molto attento all’alimentazione: «Il cibo non mi ha mai fatto ingrassare: forse mi ha salvato il fatto che, a differenza della stragrande parte degli italiani, io non sono per niente goloso di dolci. Oggi cerco di mangiare cibi senza glutine, evitando zuccheri in eccesso. Ho anche riscoperto la verdura in tutte le sue sfaccettature, cruda o cotta, non manca mai nella mia dieta quotidiana. Forse dai giovani è troppo sottovalutata, eppure, oltre a far bene, può essere molto gustosa se cucinata in maniera creativa».

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IL VADEMECUM di Roberta Martinelli

Tutti la prepariamo in casa, ma siamo sicuri di utilizzare ogni accorgimento perché il risultato sia impeccabile? Con l’aiuto di due esperti abbiamo realizzato una guida, dall’impasto al forno, per rendere speciale uno dei piatti più amati

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Pizza perfetta in

e c’è un piatto che piace tutte le latitudini e a tutte le età, è la pizza. Alta o sottile, condita solo con pomodoro e basilico o arricchita con salumi, pesce, formaggi o verdure, non ha confini né di cultura né di scelte alimentari ed è il simbolo per eccellenza del made in Italy in tavola. Con le sue fette gustose è il piatto dell’amicizia a tavola, ma anche una ricetta economica e che permette di sbizzarrirsi nella farcitura perché si possono impiegare quasi tutti i prodotti che si ha nel frigorifero. Non ultimo, ha il benestare dei nutrizionisti che ci concedono di gu-

Ivan Morosini e Tiziano Casillo

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starla una volta (ma anche due) a settimana. Tutti, chi più chi meno di frequente, la cuciniamo, ma siamo sicuri di farla nel modo giusto? La ricetta è facile, ma sbagliare è un attimo. La pizza perfetta deve essere fragrante e croccante all’inizio, non deve fare resistenza alla masticabilità e deve dare la sensazione che si sciolga in bocca. Invece capita che spesso sia gommosa, troppo asciutta, secca e bianca o al contrario troppo umida. Abbiamo stilato un vademecum fatto di piccoli trucchi e


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dieci mosse gesti che vi consentiranno di scongiurare questi risultati e di ottenere una pizza al top, meritevole dei complimenti di parenti e amici. Alcuni li abbiamo “rubati” a due esperti di casa nostra: Tiziano Casillo, uno dei maestri pizzaioli più autorevoli ed apprezzati, e Ivan Morosini, panificatore, docente e vincitore di concorsi internazionali.

Scegliere la farina

1. col giusto valore proteico L’errore più comune che si fa è quello di sbagliare farina. Se non si sceglie quella più appropriata, il risultato rischia di essere pessimo. Con una farina troppo “morbida” l’impasto si bucherà, con una troppo forte la pizza risulterà gommosa e poco digeribile. Come scegliere tra le tante che si trovano nei lunghi scaffali dei supermercati? «Per scegliere in modo corretto bisogna controllare sulla tabella nutrizionale della confezione la quantità di proteine - spiega Casillo -. È la forza della farina a determinare la bontà della pizza. Il valore proteico va da 7-8% fino al 12-13%. Nello scegliere la farina dobbiamo pensare al tipo di lievitazione che vogliamo fare perché ogni farina richiede un suo metodo di lavorazione e specifici tempi di lievitazione. Ad esempio, per fare una buona pizza, in modo veloce, è indicata una farina con contenuto di

proteine tra l’8 e il 10%. Se invece si ha tempo per fare una lievitazione più lunga, si possono scegliere farine con proteine dal 10% in su». Negli ultimi anni tra i panificatori e i pizzaioli si è diffusa la tendenza ad usare farine meno raffinate. Anche il consumo casalingo ha seguito questa strada. E ha fatto bene. «È diventata un po’ una moda - dice Morosini - ma è una moda positiva. Le farine più grezze sono più ricche di sali minerali, hanno un valore nutrizionale più alto e hanno una lievitazione più facile rispetto a quelle doppio zero. Inoltre a livello di sapore hanno qualcosa in più». Via libera quindi anche a farine integrali, di segale e a base di grano saraceno. La scelta qui dipende solo dal gusto: per chi desidera una pizza dal sapore spiccato è consigliata la farina di grano saraceno, chi invece vuole un gusto diverso dal solito può optare per quella di segale. Per tutti il consiglio dell’esperto è comunque di miscelare le farine: «Io consiglio di utilizzare il 20% di farina alternativa - integrale, segale o grano saraceno - e il resto di farina 00». Ma se si vuole un gusto più ruvido, si può fare anche metà e metà. Con una attenzione: più la farina è integrale, più lunghi sono i tempi di lievitazione e leggermente più lunghi i tempi di cottura.

2. Usare il lievito madre naturale

Il consiglio degli esperti è di usare il lievito madre naturale perché permette di realizzare una pizza più leggera, digeribile e dal gusto più intero. Richiede una lievitazione lunga, ma garantisce un prodotto organoletticamente più ricco, completo e sano. In alternativa, va bene il lievito di birra fresco in panetti che si trova nei supermercati. Per aumentare il sapore e dare più consistenza all’impasto si può aggiungere del sale iodato. Attenzione, però: il sale non va mischiato con il lievito, altrimenti ne rovinerà l’effetto. Lievito e sale vanno sciolti in acqua in due recipienti diversi e poi uniti alla farina.

3. Preparare l’impasto la sera prima

La lievitazione è un passaggio fondamentale che determina la consistenza della pizza: se la lievitazione è eccessiva la pizza risulterà asciutta, secca e bianca, se al contrario la lievitazione è insufficiente, la pizza risulterà troppo umida. Per avere un buon risultato, con una farina dal valore proteico tra l’8 e il 10%, bisogna usare un panetto di lievito fresco di 25 grammi e lasciare lievitare l’impasto per due ore a una temperatura dai 25 ai 30° senza sbalzi (con farine più forti il tempo di lievitazione

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IL VADEMECUM si allunga). Il consiglio però è di preparare l’impasto la sera prima e lasciarlo lievitare una notte intera in frigorifero. L’impasto raddoppierà di volume e la pizza risulterà più soffice e digeribile. Attenzione, in questo caso basta mezzo cubetto di lievito fresco.

4. Fare il doppio impasto In fase si lievitazione un segreto che fa la differenza è il doppio impasto: si impasta una prima volta dopo la composizione quindi si fa riposare due-tre ore per far lavorare il lievito. Dopo quel tempo si rovescia, si rimpasta e si lascia riposare per altre sei-otto ore. Questo secondo riposo garantirà un impasto morbido. E per sapere quando l’impasto è lievitato se ne prende una pallina e la si mette in un bicchiere d’acqua. Se torna a galla vuol dire che è pronta. A questo punto si può stendere la pizza senza fatica.

5. Niente mattarello

e poca manipolazione

La manualità di chi impasta è fondamentale. Ma questa si apprende con l’esperienza e non la si può insegnare su carta. Questi consigli però potranno essere utili: mescolare bene gli ingredienti, lavorare l’impasto in modo energico, stenderlo con i polpastrelli senza usare il mattarello con gesti decisi e allargare la pasta dal centro verso l’esterno facendo una pressione dall’alto verso il basso. Attenzione a non manipolare troppo l’impasto sennò si fa troppo elastico. Se nello stendere la pasta questa tende a ritirarsi basta lasciarla così come è farla riposare qualche minuto.

6. Usare poco pomodoro, di qualità, e olio extravergine di oliva

Forse non tutti sanno che Due anni fa la pizza italiana è stata candidata nella lista dei beni patrimonio dell’Umanità dell’Unesco e la petizione ha raggiunto oltre un milione e duecentomila firme, raccogliendo un sostegno popolare mai visto per nessun’ altra proposta

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Il pomodoro è il primo ingrediente a farcire la pizza. Se si usano i pomodori pelati è consigliabile tagliarli a pezzetti e farli scolare molto, molto bene oppure per una salsa più liscia schiacciarli e passarli. Se si usa la polpa di pomodoro è importante sceglierla di buona qualità. Molte possono risultare troppo dolciastre. I pomodori freschi tipo ciliegino, ad esempio i Pachino, vanno usati solo d’estate quando la loro qualità e freschezza garantiscono un sapore gustoso. Vanno lavati, tagliati a metà e, dopo averli fatti scolare un po’, disposti sulla pizza con la pelle rivolta verso l’alto. I pomodori più indicati sono i pelati San Marzano a pezzetti. Oltre alla scelta del pomodoro, per la buona riuscita della pizza, è importante fare attenzione alle dosi e al modo in cui viene steso: il pomodoro deve essere un velo che lascia intravedere parte della pasta, può essere condito con olio extra vergine d’oliva e un pizzico di sale prima di cospargerlo sull’impasto e va disposto al centro e sparso col dorso del cucchiaio in modo rotatorio fino a distribuire una quantità uniforme su tutta la pasta. Non va passato sui bordi, altrimenti non risulterebbero croccanti.


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9. Forno al massimo

della temperatura

Per avere una pizza ben cotta e croccante bisogna infornare la pizza nel forno al massimo della temperatura sulla teglia rovente. La pizza perfetta ha infatti bisogno di molto calore, soprattutto dal basso. Il forno deve essere preriscaldato fino a quando non raggiunge la temperatura massima. Per una riuscita perfetta, l’ideale è infornare la pizza su una pietra refrattaria dopo averla scaldata in forno per mezz’ora a 250°. In questo caso per cuocere la pizza basteranno 5 minuti. Attenzione, scegliere la modalità statica con “calore dal basso” e disporre la pizza sul fondo del forno perché il forno ventilato rischia di seccarla.

10. Aggiungere la mozzarella e gli altri ingredienti in un secondo momento

Una curiosità: l’olio extravergine d’oliva oltre che come condimento può essere aggiunto nella preparazione dell’impasto: infatti migliora la consistenza del glutine e, avendo un punto di fumo più alto rispetto agli altri oli, migliora la cottura e non secca la pasta, lasciandola soffice e croccante.

7. Occhio alla mozzarella Altro ingrediente fondamentale è la mozzarella. La sua qualità è importante: non deve filare tanto e non deve essere troppo umida. Il problema è che la maggior parte tende a bagnare la pizza, soprattutto quella di bufala. Se si vuole scongiurare il rischio “annacquamento”, un’alternativa che sta prendendo piede tra gli stessi piazzaioli napoletani è utilizzare della provola o della scamorza affumicata, che rendono la pizza asciutta e molto saporita, meglio ancora se mischiata con del fior di latte. Oppure vanno bene la mozzarella fior di latte e, per andare su un prodotto locale, la mozzarella di Seriate. Se si usa mozzarella fior di latte o mozzarella di bufala è importante spezzettarla (rigorosamente con le mani, non con il coltello), strizzarla e lasciarla scolare bene in uno scolapasta per alcune ore (oppure si può tagliare la sera prima e lasciarla in frigo in uno scolapasta coperto). Attenzione: se la mozzarella fila troppo è un segno negativo, vuol dire che per produrla è stato usato del formaggio fuso.

L’errore più comune è farcire subito la pizza, perché in questo modo si asciuga e gli ingredienti si bruciano prima ancora di essere sfornati. Un consiglio prezioso è di infornare la pizza con il solo pomodoro. La mozzarella va aggiunta quando la cottura sta per terminare (cuoce in tre minuti). Gli altri ingredienti a seconda di quanto tempo devono cuocere: ad esempio, il prosciutto crudo va messo sempre alla fine, all’uscita dal forno (se cuoce rilascia un odore non gradevolissimo e si penalizza il sapore), patate e salsiccia richiedono 15 minuti quindi possono essere infornati subito insieme al pomodoro; melanzane e zucchine vanno messe verso la fine; la rucola va rigorosamente unita da cruda e abbondantemente sulla pizza appena sfornata. Il basilico, come il prezzemolo, vanno aggiunti solo alla fine della cottura e non durante, altrimenti perdono parte del loro profumo. Per evitare che le foglie di basilico fresco messo sulla pizza si secchino durante la cottura, si possono immergere per un istante nell’olio. Se si sceglie di guarnire con verdure fresche, il consiglio è di tagliarle molto sottili in modo che cuociano completamente in forno con la pizza. In questo caso sono belle da vedersi se tagliate per il lungo.

8. infornare su una teglia in pietra refrattaria o in alluminio rovente

La teglia non va scelta a caso. La normale placca da forno è troppo spessa quindi non è indicata. Meglio scegliere una teglia in pietra refrattaria o in alluminio sottile (vanno bene anche le vaschette usa e getta). Se non si hanno in casa, va bene anche la placca da forno ma va scaldata molto bene prima e va usata rovente.

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formazione

Accademia del Gusto, nuovo anno al via tra grandi maestri e nuove tendenze

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ifficile non trovare il corso che fa al proprio caso tra le 78 proposte dell’Accademia del Gusto di Osio Sotto. Alla scuola di cucina dell’Ascom la stagione formativa è ripartita con un caledario capace di rispondere alle esigenze di qualificazione e aggiornamento professionale nei diversi settori del food, approfondire le ultime tendenze, condurre gli appassionati a muoversi con sicurezza tra le ricette. I più richiesti, da sempre, sono i corsi per apprendere una professione: barman, pizzaiolo, addetto di sala, pasticciere, cuoco, che ritornano insieme a una novità, il banconiere di macelleria, 25 ore dedicate al taglio della carne e ai prodotti “pronti a cuocere” . Per i professionisti una carrellata di grandi nomi, in cattedra per condividere conoscenze, esperienza e passione: Yoji Tokuyoshi, ex sous chef di Bottura, artefice di un’armonica contaminazione tra cucina giapponese e italiana; il maestro dei lievitati Piergiorgio Giorilli; Franco Aliberti e la sua filosofia “zero sprechi”; la pasticceria innovativa di Luca Montersino; i segreti di un tempio della ristorazione come Il Luogo di Aimo e Nadia in un racconto a due voci e quattro mani con Aimo Moroni e il

suo successore ai fornelli Fabio Pisani; le regole dell’impiattamento di Enrico Bartolini. Ai ristoratori che si sono sempre chiesti come nasce una recensione gastronomica e quali sono le aspettative dei clienti, Ascom Formazione offre poi - nell’ambito di Gourmarte alla Fiera di Bergamo – l’incontro con Valerio Massimo Visintin, il critico “mascherato” del Corriere della Sera, che difende il proprio anonimato per salvaguardare l’indipendenza del giudizio. Continuano anche le trasferte gustose del Convivium, che quest’anno fa tappa a Torino per conoscere un emblema della storia e della cultura della città, il ristorante Del Cambio guidato da Matteo Baronetto.

Chi cucina per passione può scegliere tra il percorso per apprendere le basi professionali e le monografie su piatti e preparazioni (risotti, confetture da regalare, fritti, zuppe, selvaggina, pesce, solo per citarne alcuni) e se l’interesse è per gli aspetti salutistici del cibo non si possono mancare gli appuntamenti con Sauro Ricci e Marco Bianchi, sempre molto attesi. Nel nuovo anno accademico debutta anche il blog “Ricette di Gusto”, dedicato ai prodotti enogastronomici, alle tecniche di preparazione e cottura degli alimenti, agli abbinamenti dei piatti con l’universo del beverage, ai suggerimenti degli chef. Un modo per restare in contatto anche fuori dalle aule. www.ascomformazione.it

LA NOVITÀ Con le “Serate Wow” si impara e ci si diverte La scuola di cucina può diventare anche la meta per un’uscita diversa dal solito. Succede con una delle novità di quest’anno dell’Accademia del Gusto, le “Serate Wow: cosa fare a Bergamo con gli amici”, una serie di appuntamenti che uniscono alla degustazione e alla cucina momenti di svago e convivialità. Dopo l’accoppiata vini e vinili, il calendario propone una sfida ai fornelli con gli ingredienti di una mistery box, un classico come pizza e birra riletto con abbinamenti non convenzionali, la serata film e panino gourmet, la preparazione di sushi e sashimi e di cocktail a base di gin, la preziosa “ostriche e champagne” e l’happy hour in lingua inglese.

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Il personaggio di Rosanna Scardi

Dalla “Prova del Cuoco” alle cene a domicilio Francesca Marsetti

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a la spesa al posto del cliente, prepara le basi nel suo laboratorio a Clusane, va a casa sua un paio d’ore prima e cucina sotto gli occhi degli invitati come se stesse tenendo uno show cooking. Se i commensali sono tanti, si porta le stoviglie. Non importa la distanza, ma soddisfare i palati più esigenti, da Nord a Sud. Il talento di Francesca Marsetti, nata a Calcinate, ma residente a Iseo, si fa conoscere nelle case degli italiani sia grazie alla sua presenza alla “Prova del Cuoco” sia per la sua professione di chef a domicilio. A ricorrere ai suoi manicaretti è la più svariata tipologia di cliente. Anche fidanzati pronti a chiede alla dolce metà di convolare a nozze. Marsetti è presente sul web con il sito francichef.it. I menù spaziano dalla tradizione del lago alla cucina mediterranea, da quella tipica bergamasca al sushi. A volte, le richieste sono le più stravaganti. «Un ragazzo per una festa di compleanno mi ha commissionato piatti esotici, io ho preparato il sea bass, una spigola che si trova nei mari del Sud Africa, guarnita da frutta», svela.

La chef bergamasca Francesca Marsetti si divide tra più fronti (è anche docente all’Accademia del Gusto) e ammette: «Se dovessi conquistare qualcuno gli proporrei spaghetti al pomodoro»

Francesca può cucinare da sola se impegnata per due/quattro persone, in caso contrario, con compagnie di 15-20 ospiti si avvale di collaboratori. Il costo della cena varia in base ai piatti, al numero di invitati e parte da 60 euro a testa (o 70 per un menù dagli occhi a mandorla), esclusi i vini, il gettone dello chef o eventuali spese in caso di lunghe trasferte. Nonostante la mamma sia cuoca e il papà abbia gestito una macelleria a Grumello del Monte con un’esperienza che si tramanda da generazioni, la famiglia l’ha messa in guardia fin da subito sulle difficoltà che avrebbe incontrato. «Lavorare in cucina è massacrante. I miei avrebbero preferito un mestiere più leggero, ma io sono testarda», ammette Marsetti.

Francesca Marsetti con Antonella Clerici

A soli 12 anni Francesca era già iscritta alla scuola Le Cordon Bleu di Bergamo, poi si è diplomata all’Alberghiero di San Pellegrino, cimentandosi ai fornelli del ristorante bistellato “Da Vittorio”. «È l’esperienza più importante. Ero l’unica donna tra 21 uomini. Comunque se sei brava, conquisti il tuo posto, l’importante è non assumere atteggiamenti maschili», dice. A Raiuno è approdata dopo essere stata selezionata tra i componenti della Nazionale Italiana Cuochi. Oggi aiuta i concorrenti della sfida settimanale nelle prove. L’anno scorso, nel programma di Antonella Clerici ha anche vinto il torneo “I Primi siamo noi” con i casoncelli. Docente all’Accademia del Gusto di Osio Sotto, la chef ha anche firmato le trofie al pesto per “My cooking box”: scatolette, in vendita in aeroporto o in eleganti gastronomie, dove si trova tutto il necessario per preparare un piatto da gourmet. Ma se fosse lei a dover conquistare con una portata, cosa preparerebbe? «Spaghetti al pomodoro, se vinci nella semplicità, vinci sempre».


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L’evento

“Otus in Fabula”, il birrificio di Seriate apre le porte agli operatori e fa centro

«O Nella foto grande lo staff di Otus in Fabula. La prima a destra è la vicepresidente Anna Cremonesi. Presidente è Enrico Rota (con la giacca)

tus in Fabula si è conclusa oltre ogni più rosea aspettativa». È il commento di Anna Cremonesi, vice presidente del Birrificio Otus di Seriate, al termine dell’evento che ha permesso a quasi 200 operatori di assaggiare le birre, comprendere in prima persona le differenze sostanziali con quelle prodotte da altri birrifici e confrontarsi in modo propositivo sulla necessità di ampliare e completare la propria offerta brassicola con un occhio attento e lungimirante. Nella due giorni di inizio mese, il birrificio ha aperto le proprie porte permettendo a tutti gli operatori del settore di addentrarsi nella produzione di birra e, in particolare, di quella artigianale. Malti, luppoli e lieviti utilizzati per il processo produttivo erano in “prima linea” per essere osservati, annusati e toccati. L’esperienza sensoriale, non essendo limitata alla mera degustazione, è stata quindi completa. Grazie

alla guida del birraio Alessandro Reali, si è potuto apprendere le varie fasi produttive, carpendo in alcuni casi anche dei piccoli segreti legati alla birra artigianale. Otus in Fabula è stata poi l’occasione per presentare l’ultima nata della casa: la Tribal Sun. È una birra riconducibile allo stile Saison e si presenta quale reinterpretazione dello stile stesso con una visione moderna (titola 6,5° ed è disponibile per il momento solo in bottiglia da 75 e 33 cl). «Il colore è quello del sole estivo - continua Cremonesi -, dorato brillante e opaco, tendente all’arancione, quasi in contrasto con il bianco lucente dell’abbondante ed inesauribile schiuma. Il perlage è di una vivacità quasi selvaggia, mentre l’aroma, fresco e inebriante, dà un tocco fruttato e fiorito, quasi dolciastro, di margherita. I luppoli utilizzati completano il carattere speziato dato dal lievito con aromi di frutta tropicale, di erbaceo e floreale».

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appuntamenti

Dal 28 ottobre al primo novembre

Birra artigianale, un nuovo evento tra gli stand della Campionaria

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a Fiera Campionaria di Bergamo apre le porte a uno dei fenomeni enogastronomici più vivaci degli ultimi tempi, quello delle birre artigianali. In Lombardia le aziende si sono triplicate negli ultimi cinque anni e Bergamo è tra le province più attive, tanto che anche l’happening più popolare del polo espositivo cittadino – in programma dal 28 ottobre al primo novembre per la 38esima edizione – ha scelto di dare spazio al settore. FIERAmente BIRRA è una nuova area nel padiglione C dedicata a una quindicina di microbirrifici artigianali, bergamaschi e non solo, che oltre a presentare i propri prodotti allestiranno corsi e degustazioni (a pagamento). L’evento è promosso in collaborazione con La Compagnia del Luppolo, associazione con sede a San Giovanni Bianco

che promuove il consumo intelligente di birre speciali e birre artigianali di alta qualità. Il padiglione C, del resto, è da sempre il regno del gusto, con gli stand delle specialità regionali e il grande spazio di “Bergamo, Città dei Mille… Sapori”, il marchio della Camera di Commercio per la promozione e la valorizzazione dei prodotti agro-alimentari del territorio. Altra protagonista è l’area-laboratorio dell’Aspan, l’associazione dei panificatori bergamaschi, pronti a sfornare in diretta quintali di panini fragranti, pizzette e focaccine per il piacere del pubblico e per informare sulle iniziative della categoria. L’ingresso è gratuito (3 euro il parcheggio). www.campionaria-bergamo.it

DAL 28 AL 30 OTTOBRE

5 E 6 NOVEMBRE

Whisky e rum, il festival delle 2mila etichette

I re della pizza sfornano a Milano

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abato 5 e domenica 6 novembre all’Hotel Marriott di Milano sono di scena i grandi whisky e rum per l’undicesima edizione di Milano Whisky Festival & Fine Rum, la manifestazione che segue passo dopo passo l’evoluzione del panorama del beverage e degli spirits. L’appuntamento permette di degustare il proprio distillato preferito tra oltre 2mila etichette e non mancano prodotti dal lungo invecchiamento (anche oltre i 40 anni) e whisky molto rari di distillerie non più

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esistenti. Per permettere più assaggi e confronti sono a disposizione bottigliette da 6 cl da riempire e portare a casa per continuare in tranquillità l’esperienza gustativa. Tutti gli espositori propongono i loro prodotti in vendita e sarà possibile anche trovare mignon da collezione e poi biscotti, magliette, marmellate, libri, bicchieri. Non mancano stand con birra, ostriche e salmone, per un ottimo spuntino tra un dram e l’altro, e le degustazioni guidate. In particolare, quest’anno si celebrano i 50 anni del Bar Metro, noto locale di Milano che con il suo titolare Giorgio D’Ambrosio racconterà “50 anni di whisky business”. L’ingresso è gratuito, previa registrazione all’entrata o on line. Il kit di degustazione composto da bicchiere, portabicchiere e guida al whisky 2017 costa 5 euro. Le degustazioni partono da 3 euro. www.whiskyfestival.it

ggi la pizza è un piatto che può essere paragonato alle delizie dei ristoranti più famosi e Chepizza! è la kermesse tutta dedicata al mondo della pizza d’autore. Organizzata da Italian Gourmet, è in programma dal 28 al 30 ottobre al Superstudio Più di via Tortona a Milano, nel district design. Su oltre 3.000 mq di superficie la manifestazione chiama a raccolta, per la prima volta, i migliori pizzaioli da Nord e Sud della Penisola, che prepareranno le loro specialità in diretta e le venderanno al pubblico. Sono 17 ed ognuno avrà il proprio forno, per un totale di 34 tipi differenti di pizza gourmet. Tra loro, Renato Bosco (Saporè), Teo Chiancone (Made in Italy), Gianni e Giulia Dodaj (Pizzeria Fantasy), Antonino Esposito (Acqu’ e sale), Roberto Ghisolfi (Lo Spicchio), Massimo Giovannini (Apogeo), Simone Lombardi (Dry), Denis Lovatel (Ezio), Simone Padoan (I Tigli), Romualdo Rizzuti (Sud), Gino Sorbillo (Antica pizza fritta da zia Esterina Sorbillo e Lievito Madre). È un’occasione per degustare le più creative e golose pizze d’Italia, ma anche per imparare a farle, conoscere i segreti degli impasti, i dettagli delle cotture, saperne di più sulle proprietà nutrizionali. La manifestazione è infatti articolata in cinque aree tematiche, che permettono di approfondire diversi aspetti del mitico piatto: “Acqua e farina”, dedicato agli impasti e alle quali-


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DALL’11 AL 13 NOVEMBRE

A Grumello torna la magia del cioccolato

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o scorso anno circa 10mila visitatori si sono fatti conquistare da un mondo fatto di cioccolato, magia e giochi. Quest’anno Chocolab fa il bis e torna al palafeste di Grumello del Monte (via Kennedy, 70) da venerdì 11 a domenica 13 novembre. La manifestazione, a ingresso gratuito, propone degustazioni di diversi tipi di cioccolato, spazi per bambini ed intrattenimenti, giocolieri, spettacoli e persino dimostrazioni di massaggi al cioccolato. L’obiettivo è coinvolgere tutte le fasce d’età con proposte a tema, dai laboratori interattivi per i più piccoli alle iniziative per ragazzi, agli abbinamenti, per gli adulti, di birra e passito. Insomma un week end interamente dedicato al cioccolato, da assaggiare e acquistare in tutte le sue forme. L’evento quest’anno si aprirà con una grande festa il venerdì dalle 19 alle 22. Durante tutto il week end sarà possibile pranzare e cenare all’interno della manifestazione. Sabato e domenica l’apertura è dalle 10 alle 22. L’appuntamento è organizzato da 3Mendi che, sempre a Grumello ma in piazza Camozzi, propone anche, il 19 e 20 novembe, la prima edizione di “Sapori d’autunno”, evento dedicato ai prodotti enogastronomici più tipici della stagione. info@3mendi.it

torino e vicenza

Due saloni per i professionisti a caccia di novità Teo Chiancone tà nutrizionali delle diverse miscele; “Bianco & rosso”, gli ingredenti di qualità del made in Italy; “Il Lievito madre”, con le dritte per produre, conservare e alimentare la pasta madre viva; “Rossocult”, l’area culturale dedicata gli incontri sulla storia del piatto, sul ruolo che ha nella cucina contemporanea, sugli sviluppi futuri, ma anche ai dibattiti dedicati alla pizza nel cinema con frame e spezzoni di alcune delle apparizioni più famose sul grande schermo; “Chef”, con le dimostrazioni e gli incontri con i maestri pizzaoli. L’ingresso per un giorno costa 6 euro. Le pizze possono essere acquistate tramite i “pomodorini”, talloncini che vengono distribuiti al costo di 5 euro l’uno. chepizza.italiangourmet.it

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professionisti e gli imprenditori del settore food sempre alla ricerca di spunti e novità possono segnarsi in agenda i prossimi appuntamenti di Torino e Vicenza. Nel capoluogo piemontese, al Lingotto Fiere dal 13 al 15 novembre, è in programma la seconda edizione di Gourmet Expoforum, manifestazione nata dalla collaborazione tra GL events e Gambero Rosso, che ha come punto qualificante il ricco calendario di eventi curati dal team redazionale della testata: conferenze, workshop, degustazioni, presentazioni editoriali e contest. Rispetto all'esordio, lo spazio espositivo è stato raddoppiato e rinnovato nel layout, con due padiglioni e un percorso tra cinque settori merceologici: attrezzature, beverage, comunicazione, food e caffè. www.gourmetforum.it Alla Fiera di Vicenza, invece, dal 12 al 15 novembre si terrà la quarta edizione di Cosmofood, con 450 espositori, 100 eventi e 42.000 presenze previste. Tra le novità, un'intera area dedicata dell’enogastronomia internazionale e la presenza di chef stellati, personaggi del settore Horeca e opinion leader. All'interno dell'esposizione le aree Cosmowine, con i prodotti del settore enologico dall’Italia e dall’estero; Cosmobeer, con microbirrifici da tutta Europa; Food e prodotti di qualità; Intolleranze Alimentari, Gluten Free, Bio&Vegan. www.cosmofood.it

FINO ALL’11 DICEMBRE

I sapori del lodigiano in rassegna

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alumi e formaggi non mancano mai, su tutti la mitica Raspadura ed il Pannerone. Tra i piatti, quelli con la zucca, il risotto alla lodigiana (con salsiccia), arrosti e lessi fra i secondi e l’uso del mascarpone lodigiano per i dolci. Sono i caposaldi della Rassegna gastronomica del Lodigiano, l’iniziativa che da 28 edizioni presenta le ricette del territorio strettamente legate ai prodotti tipici locali e gli “stili” degli esercizi aderenti: 16 tra osterie tradizionali, moderne, ristoranti storici, cascinali. Per fare una gita golosa fuori porta c’è tempo fino all’11 dicembre. Si può scegliere il menù Classico con i campioni della cucina lodigiana in un menù a prezzo fisso che comprende anche coperto, acqua e caffè o per il menù Zucca e Castagne, variante stagionale della cucina basso-lombarda che esalta la qualità dei prodotti e l’arte della trasformazione. Ci sono anche soluzioni pensate per i gruppi: Antichi Sapori è un menù che seleziona alcuni piatti tipici del ristorante accompagnati da un calice di vino, mentre Serata Amica, tutti i venerdì dal 21 ottobre al 25 novembre, offre lo sconto del 10% ai gruppi di sole donne (da 2 a 100) sul menù Classico e un omaggio profumato per ognuna. rassegnagastronomica.it

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Tradizioni di Leonardo Bloch

La castagna del bastian contrario Non solo in montagna, l’albero del pane in passato è stato provvidenziale anche per sfamare la pianura e la stessa Milano. In Bergamasca aree a castagneto erano censite nei pressi di Spirano, Cologno al Serio e Capriate d’Adda

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dar retta all’impareggiabile Teofilo Folengo, quelli che nel XVI secolo la montagna di Clusone spediva in mezzo mondo erano uomini “bassi, grassi e grossi di sedere”. Una così poco altera complessione, a giudizio del poeta, era da attribuirsi alla dieta quasi monofagica dei valligiani: panizza - la polentina di panìco che godette di universale diffusione sino all’introduzione del mais - e, soprattutto, castagne a volontà. Oltre che per le generose proporzioni, il posteriore dei nostri montanari doveva con certezza distinguersi, per dirla con Curzio Malaparte, in virtù di una non comune loquacità. Secondo la medicina prescientifica il frutto del castagno, tra le molteplici pecche dietetiche di cui era tacciato, annoverava difatti quella di indurre una tutt’altro che commendevole ventosità intestinale. Come se non bastasse, all’ingiustamente vituperata derrata erano attribuite, al pari che alla rapa ed ai legumi più umili, deprecabili proprietà afrodisiache, che si riteneva acuissero la proverbiale lascivia degli zotici. Più recenti ed attendibili studi hanno acclarato come il regime forzatamente vegetariano di cui scriveva il Merlin Cocai fosse piuttosto all’origine di quel gozzo che per secoli ha marchiato la caricaturale iconografia del bergamasco. In spregio all’avversione di clinici e naturalisti, la preminenza della castagna nel sistema alimentare dei nostri antenati si è storicamente affermata su basi affatto trasversali, oltrepassando i confini topografici dei distretti montani ed il limitare sociale delle classi meno abbienti. È ad esempio assodato che nel corso dell’alto medioevo la diffusione di quello che era chiamato l’albero del pane si spinse sino al cuore della pianura padana, dato che

estese aree a castagneto erano censite nei pressi di centri come Spirano, Cologno al Serio e Capriate d’Adda. Alla fine del XIII secolo Bonvesin de la Riva certificava altresì come la cibaria avesse acquisito il rango di genere di prima necessità anche negli agglomerati urbani lombardi, giacché se ne approvvigionava in gran copia la stessa Milano. L’iperbolico magister di Porta Ticinese distingueva al più tra la varietà di minor pregio definita “popolare”, relegata ad un ruolo intermedio tra la nutrizione animale e quella umana, ed i più aristocratici marroni riservati ai palati dei ceti altolocati. Proprio perché prevalentemente legate alle consuetudini degli strati sociali più umili, le tecniche di trasformazione agroalimentare della castagna e le modalità del suo utilizzo in cucina serbano tratti singolarmente arcaicizzanti. Valga il caso dei biligòcc, il cui procedimento di elaborazione è a tutt’oggi identico a quello descritto nel IV secolo dall’agronomo latino Rutilio Palladio. Nelle Prealpi lombarde ed in Valtellina si prepara inoltre una minestra di castagne e riso denominata mach, il cui vincolo di discendenza dal celebre maccus dell’antica Roma - una passatina di fave ancor ai nostri giorni in voga nel mezzogiorno - non necessita certo di delucidazioni. Colpisce semmai che in Valgerola, sul versante settentrionale delle Orobie, la vivanda venga accomodata con l’utilizzo del panìco in luogo del riso, riproponendo così in un’unica portata l’accoppiata di derrate montane richiamata nel Baldus di Folengo. Se nelle vallate alpine la cucina della castagna riserva il sorprendente incontro con alcuni pronipoti della gastronomia latina, nel Sannio - storica propaggine longobarda


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I caozoncelli sanniti

nell’Appennino Campano - conduce invece al non meno stupefacente rinvenimento di un lontano cugino dei ravioli di casa nostra. Si tratta del caozoncello, un tortello dolce ripieno della polpa lessata dell’achenio, la cui preparazione è finalizzata in frittura. Per quanto arduo sia ricostruire la filiera delle relazioni di apparentamento, è sbalorditivo che ad una sessantina di chilometri dal Vesuvio sopravviva un’enclave presso la quale imperturbabilmente si consumano gli alter ego meridionali di casoncelli e cassoeula - localmente denominata abbullit d’porc. Questa rassegna di bizzarrie si chiude con i dettagli di una delle antiche e suppergiù goliardiche tenzoni tra miserabili di cui è zeppa la storia. Soprattutto nelle lande a sud del Po, mazzamarroni era l’epiteto con il quale venivano dileggiati i montanari, che controbattevano apostrofando come mangiarape gli zotici dimoranti a quote più basse. E d’altronde già nel I secolo d.c. Plinio il Vecchio sottolineava come l’elettiva dimora della rapa fosse tra le brume delle piane alluvionali. È bene tuttavia precisare che dalle nostre parti il discrimine tra mangiamarroni e cagarape sarebbe risultato del tutto incomprensibile. Non solo per parecchi secoli si sono colte castagne sin sulle sponde del Fosso Bergamasco, ma le migliori rape del circondario sono da tempo immemore quelle coltivate sui declivi di Orezzo e di Bossico. Castagne in pianura e rape in montagna: come disconoscere che Bergamo sia patria dei più irriducibili tra i bastian contrari?

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IL PREZZO FISSO di Fulvio Facci

Onp Bistrò via Borgo Palazzo, 130 Bergamo tel. 035 233981 aperto da lunedì a venerdì dalle 7,30 alle 16

Da sinistra: Giancarlo Cadeo, Mustafa Hessaoudi, Ermanno Carrara e Federica Principale

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E nell’ex manicomio arrivò il bistrò

na macchia di colore vivace in un contesto che ricorda altre vicende, seppur mitigato da una provvidenziale cornice di verde. Così ci è apparso l’Onp Bistrò: una sigla talmente dichiarativa da far trasparire un’intelligente autoironia nella scelta. Sì, siamo proprio all’interno dell’ex ospedale neuropsichiatrico, ex manicomio per intenderci, a Bergamo in via Borgo Palazzo al numero 130. Con l’abolizione manicomi, l’ampio complesso, come si sa, offre spazio ad una serie di servizi sanitari e ad associazioni che operano nella sfera della sanità e del sociale. Ci lavorano circa 400 persone e il bistrò rappresenta la soluzione alle loro esigenze per la colazione, gli spuntini o la pausa pranzo. Ma sono di ordine diverso le motivazioni che hanno portato all’apertura del locale, inaugurato lo scorso mese di maggio. «L’Onp Bistrò – racconta Giancarlo Cadeo, 35 anni, oste, educatore e coordinatore del progetto – è un locale pubblico a tutti gli effetti e siamo quindi aperti sia a quanti operano all’interno di questa struttura

sia a chi proviene dall’esterno. Siamo sul mercato, insomma, non viviamo una situazione protetta, ma allo stesso tempo non siamo né un bar né un ristorante comune. Usiamo infatti la ristorazione per scopi educativi ed in particolare per l’inserimento lavorativo di soggetti con difficoltà psichiche. L’iniziativa ha perciò un doppio valore, rendere un servizio importante per chi lavora qui, per i pazienti e per gli utenti degli ambulatori e dei servizi del complesso e perseguire i nostri obiettivi sul piano sociale». Diverse le realtà che hanno contribuito alla realizzazione del progetto, a partire dall’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII e dall’Aps “Circolo ricreativo Day Care”, passando per l’Ats di Bergamo, ossia l’ex Asl,

LA PROVA

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Inaugurato a maggio, il bar tavola calda ha un obiettivo speciale: offrire opportunità di inserimento lavorativo alle persone fragili. «Un locale aperto alla città, con piatti di stagione, biologici e a chilometro zero»

Aperto a tutti, l’Onp Bistrò offre un’ampia scelta in termini di costi. Si va dal pasto completo proposto a 10 euro sino alla scelta dei singoli piatti, da 4 a 6 euro, oppure il trancio di pizza a 4 euro e quello di focaccia a 3. Contorni, macedonia, acqua e pane per completare il tutto hanno prezzi più che accessibili. Ci sono anche menù coordinati, che tengono conto del valore dei buoni pasto: per primo, contorno, pane e acqua, oppure per due contorni, pane e acqua si spendono 5,60 euro. Un secondo piatto con contorno, pane e acqua costa invece 7 euro. Il menù completo è presentato a 10 euro e comprende primo, secondo, contorno, pane, acqua e caffè.


ottobre 2016 la cooperativa Bonne Semence che ha curato la ristrutturazione dell’immobile, per arrivare alla cooperativa sociale Namastè e al suo ramo che si occupa di ristorazione, La Magnolia catering. Il bistrò ha sede nella palazzina dove prima c’era il forno e poi lo spaccio dell’ex manicomio. L’edificio è stato completamente rimesso a nuovo ed oltre al bar ristorante del piano terra con 60 coperti (più quelli del dehors, che si pensa di chiudere per ampliare gli spazi) dispone di una sala polivalente, in fase di completamento al piano superiore, destinata ad ospitare incontri e mostre. «Stiamo crescendo con i nostri tempi per dare modo al locale di consolidarsi – continua Cadeo –. Abbiamo una struttura professionale, infatti La Magnolia, con il suo centro di cottura di Treviolo, fornisce già 250 pasti per la refezione collettiva ed è specializzata in catering. Qui possiamo contare su un cuoco professionista, Ermanno Carrara, che ha alle spalle 35 anni di attività anche ad alto livello, ed una barista professionista. Abbiamo scelto la formula del self service per non mandare i ragazzi che vogliamo inserire “allo scoperto” direttamente ai tavoli. Stare dietro al bancone per loro offre una maggiore protezione. Per il momento abbiamo effettuato due inserimenti di soggetti in difficoltà ed abbiamo due tirocinanti. Il self service è però anche perfettamente funzionale al luogo e al tipo di clientela, che per lo più richede un servizio veloce e fa attenzione ai prezzi». Anche la cucina ha una sua precisa filosofia. «La Magnolia punta su una ristorazione attenta all’ambiente, alle persone e alla salute - evidenzia Cadeo -. Per le materie prime utilizziamo prodotti biologici e, dove è possibile, della filiera corta e del commercio equo e solidale. Ci riforniamo anche da alcune cooperative locali e seguiamo molto, quindi, anche la stagionalità. Un altro tema importante è quello della lotta agli sprechi, mentre per quanto riguarda le proposte non mancano i piatti che valorizzano le verdure, all’insegna della leggerezza e delle scelte salutari». «Il bistrò porta un servizio all’interno della struttura cittadina - conclude - ma è anche un locale molto caldo e accogliente, un punto d’incontro decisamente ospitale, non certo la classica mensa».

In occasione della nostra visita, le proposte del giorno (pubblicate anche sul sito www.lamagnolia.it) comprendevano: crema di verdure; strozzapreti ai formaggi orobici e porcini freschi; guanciale di manzo al Valcalepio con crostone di polenta; sformatino di quinoa su fonduta di pomodoro; cous cous vegetariano; prosciutto e melone. Ampia e ben assortita la scelta delle vedure, cotte e crude, per i contorni. Gli strozzapreti ai formaggi e porcini e il manzo al Valcalepio hanno attirato la nostra attenzione e non ce ne siamo pentiti. Buon rapporto qualità-prezzo e di certo superiore a quanto ci si può aspettare per un complesso di ristorazione collettiva.

L’ASSOCIAZIONE

«La ristorazione strumento per creare un legame con il territorio»

U

n self service, un bar, una sala multifunzionale per conferenze ed esposizioni, un luogo della memoria per quanto riguarda la psichiatria nella nostra provincia, un’opportunità per l’inserimento lavorativo di soggetti fragili, un’occasione per favorire incontri con persone in condizioni di disagio psichico. L’Onp Bistrò è tutte queste cose, un progetto complesso realizzato grazie alla cooperazione tra diverse realtà. Ad innescare il tutto, l’Aps Circolo ricreativo Day Care che ha avuto in comodato d’uso dall’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo la palazzina ex spaccio nella quale è stato realizzato. «È un’iniziativa che ha richiesto tempo e il contributo di diversi La dottoressa Serena Bruletti soggetti per poter decollare e concretizzarsi - spiega la dottoressa Serena Bruletti, membro dell’Aps insieme ad altri operatori psichiatrici, a volontari e a rappresentanti delle associazioni di familiari, e psichiatra responsabile del servizio di riabilitazione della UOP I dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII –. L’Onp Bistrò è un tassello importante della nostra attività e nella nascita di questa idea ci si è ispirati ad iniziative analoghe già ampiamente decollate come quella di “Olinda” a Milano, che ha sede nell’ex manicomio Paolo Pini e che è nota per iniziative di ristorazione di ottimo livello». «Gli obiettivi sono molteplici - dice -, ma soprattutto vogliamo in questo spazio creare occasioni di integrazione e di inserimento lavorativo. Non si tratta di abbattere delle barriere ma, al contrario, di accogliere, di includere, di far sì che questo spazio sia vissuto e sentito come proprio dalla città. Il bar, il ristorante, la sala polivalente possono essere il fulcro di tante iniziative culturali e artistiche. Pensiamo che possa anche favorire l’emersione e la valorizzazione dell’arte irregolare, che rappresenta un patrimonio di creatività che persone al di fuori dell’esperienza del disagio psichico non hanno. Ora che l’Onp Bistrò è attivo la sfida è aperta: tutti possono entrare, farsi coinvolgere. La ristorazione è uno strumento forte per creare un legame con il territorio e per favorire contatti e iniziative in cui la prossimità tra sani e malati diviene un valore aggiunto per la vita di entrambi».

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Sostegno ai LAVORATORI Assistenza per figli disabili Contributo straordinario ai dipendenti in malattia/infortunio oltre il 180° giorno Concorso spese libri di testo, mensa scolastica e abbonamento trasporto pubblico per i figli dei lavoratori Concorso spese testi scolastici per lavoratori dipendenti pantone 3395C

Concorso spese asili nido

pantone 7725C

Concorso spese abbonamento trasporto pubblico ai lavoratori Spese sostenute per modello 730

pantone 2995C pantone 7461C

Sostegno alle IMPRESE pantone 1485C

pantone 3395C

pantone 166C

pantone 7725C

Formazione e apprendistato

pantone 2995C

Certificazione contratti di lavoro

pantone 7461C

D. Lgs 81/08 sulla sicurezza

pantone 1485C

Corsi sostitutivi libretto sanitario

pantone 166C

Promozione dei sistemi di qualità Concorso spese libri di testo, mensa scolastica e abbonamento trasporto pubblico per i figli dei datori di lavoro Incentivi alle imprese per l’assunzione di giovani disoccupati

www.entibilateralibg.it Enti Bilaterali di Bergamo via Borgo Palazzo, 137 - 24125 Bergamo - Tel 035.4120140 / 035.4120116 - Fax 035.4120110 info@entebilturbg.it | info@entebilcombg.it

BERGAMO


ottobre 2016

Le aziende informano Donna Regina via Campagnola, 5 Bergamo tel. 035 0960452 www.pizzeriadonnaregina.com

«Se non è napoletana, che pizza è?» “Donna Regina”, in via Campagnola a Bergamo, ha tra i punti di forza la qualità delle materie prime e le pizze veraci

S

apori, suoni, cultura ma sopratutto la verace pizza napoletana: stiamo parlando di Donna Regina, la pizzeria di via Campagnola, a Bergamo. Un autentico angolo partenopeo in città, una fusione di cultura storica e culinaria che ha reso Donna Regina il punto di riferimento bergamasco per l’autentica pizza napoletana Stg (Specialità Tradizionale Garantita), l’unica pizzeria riconosciuta per l’intera Lombardia dall’Associazione Pizzaiuoli Napoletani. Abbiamo incontrato Olga Maggioni e Giuseppe Buonaguro, rispettivamente amministratrice e direttore del locale per scoprire le peculiarità della proposta. «Se non è napoletana, che pizza è? - taglia corto Giuseppe Buonaguro -. La pizza non è solo acqua e farina. Quella verace napoletana è un tripudio di sapori, grazie alla scelta accurata delle materie prime, al lievito madre e alla lunga lievitazione, almeno ventiquattro. Queste sono le basi principali della nostra pizza. Quanto alle materie prime, le scegliamo e acquistiamo direttamente in Campania da piccoli produttori di filiera. I latticini provengono da tre luoghi diversi: la mozzarella di bufala da Aversa, il fior di latte - che per la prima volta abbiamo portato qui a Bergamo - da Agerola, patria del prodotto, e la provola affumicata fresca di bufala da Olga Maggioni Battipaglia. I pomodorini del

Piennolo arrivano dalle falde del Vesuvio, gli oli dalla valle del Cilento». «La qualità ha un prezzo - sottolinea Olga Maggioni -, tuttavia, nonostante i quotidiani arrivi delle materie prime dal Sud Italia, siamo riusciti a restare in linea con i prezzi delle principali pizzerie di qualità della città, pur offrendo un prodotto totalmente differente che segue la tradizione napoletana». Donna Regina si fregia di avere all’interno della pizzeria due pizzaioli, Salvatore Grieco e il Maestro pizzaiolo Antonio Romeo (che fa parte di Associazione Pizzaiuoli Napoletani). I due non esitano a svelare il segreto di una buona pizza. «La scelta di una farina consistente ed italiana - evidenziano -, una lunga lievitazione e il giusto tasso di idratazione rappresentano le basi fondamentali per un buon impasto. La manualità che si acquisisce nel corso degli anni va poi a rafforzare la riuscita del prodotto finale». «Sappiamo di essere una pizzeria 2.0 - prosegue Olga Maggioni -, disponiamo di un sito web costantemente aggiornato e seguito da numerose pagine social, siamo in testa ai ranking dei principali motori di ricerca come Google e disponiamo di un’app dedicata scaricabile dagli stores su smartphone e tablet. I nostri clienti potranno prenotare il loro tavolo, ordinare la pizza con consegna a domicilio e pagare direttamente all’atto dell’acquisto oppure al fattorino anche con carte di credito e bancomat. Insomma Donna Regina ha dato sicuramente una svolta al mondo delle pizzerie della città di Bergamo». Non solo pizza a Donna Regina: chi vuole, può degustare il panuozzo - nato a Gragnano, città famosa nel mondo per la pasta - o il cuoppo, contenitore di carta-paglia con fritti di ortaggi e pesce e prossimamente aprirà anche la sezione dedicata alla cucina tradizionale napoletana. «I presupposti ci sono tutti per affermarsi sul territorio sempre in maniera più decisa», conclude.

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Il progetto di Rosanna Scardi

Emilia Ruggeri con la sua famiglia durante la festa di compleanno del marito

Kalika, a Treviglio la pizza è anche solidale

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Il locale di via Milano sforna ottime pizze e il ricavato sostiene l’acquisito di una casa per disabili Treviglio è possibile mangiare una buona pizza mettendosi una mano sul cuore. Sedersi da Kalica, in via Milano, non significa infatti solo gustare il cibo più amato dagli italiani, ma anche essere solidali. Il locale è nato come cooperativa di lavoro per dare vita alla pizzeria della solidarietà ed è l’emanazione diretta dell’omonima associazione, senza fini di lucro, fondata tre anni fa per sostenere i genitori di disabili adulti in carrozzina finanziando i loro progetti. Le difficoltà diventano, infatti, sempre più gravi quando i ragazzi crescono e rischiano di perdere chi li ha accuditi. Il nome in greco significa bocciolo, simbolo del ristorante. L’obiettivo degli associati è raccogliere 400mila euro, cifra necessaria per acquistare l’immobile che diventerà una casa famiglia. La struttura è già stata individuata, si trova ad Arcene, supera i 500 metri quadri e può ospitare tre famiglie e sette ragazzi. Per realizzare il sogno, ogni sera, si alternano con entusiasmo al banco e tra i tavoli una quarantina di volontari. A presiedere la cooperativa è Emilia Ruggeri, con esperienze nella ristorazione, che da quarant’anni vive sulla sua pelle le problematiche legate alla gestione di un figlio disabile, colpito da meningite all’età di 18 mesi. «Il nostro calvario è cominciato proprio quando Cristian era vispo e cominciava a parlare. Con il tempo aveva cominciato a mangiare e camminare da solo, ma cinque anni fa c’è stata una forte crisi convulsiva,

seguita dal coma e quando si è ripreso aveva perso ogni progresso - spiega la signora -. Negli anni, quando ho avuto la necessità di un supporto esterno, mi sono accorta che non esisteva una struttura in grado di aiutarmi». Nei progetti, la futura casa famiglia avrà un dirigente e si avvarrà di personale qualificato, su doppio turno, che sarà pagato attraverso le rette e garantirà un’assistenza ai pazienti soprattutto dopo la morte dei loro genitori e in assenza di altri parenti che possano prendersene cura. Il servizio riguarderà la Bergamasca. «Ma per chi non avesse risorse per provvedere a sé economicamente, interverrà la pizzeria a coprire i costi», annuncia Emilia. Un altro motivo per cenare da Kalica è che le pizze sono davvero buone. Si usa il lievito naturale, la pasta riposa per 72 ore, formagelle e salumi sono nostrani, la mozzarella di bufala è Dop e le verdure sono da agricoltura biologica. Confortevole e colorato anche l’ambiente, arricchito dagli arcobaleni sulle pareti e dotato di un’area con i giochi per i bambini. I prezzi sono convenienti: 10 euro per una margherita o una marinara inclusi bibita o birra grande e caffè, 13 se la pizza è a scelta. Per le festicciole di compleanno bastano 50 euro per dieci invitati, cifra che include cinque pizze, bibite e animazione. Kalica è anche pizzeria da asporto. Aperta dalle 17.30 a mezzanotte. Giorno di chiusura il lunedì.


settembre 2016

A TAVOLA CON

foto Iwan Palombi

di Roberta Martinelli

Giampiero Ingrassia: «La mia pasta rock ‘n roll»

G

iampiero Ingrassia, romano, attore eclettico e cantante, il 5 novembre sarà al Teatro Creberg di Bergamo con “Cabaret Il Musical”, nel ruolo del protagonista, l’ambiguo e stravagante Maestro di Cerimonie. Che rapporto ha con il cibo? «Con l’età ho imparato ad apprezzarlo. La cosa bella del mio mestiere è che si gira l’Italia e si conoscono i piatti locali. Con il cibo ho un rapporto di genio e sregolatezza: cerco di stare attento alla linea ma non so resistere a caramelle, patatine, dolci, nutella». Trattoria o ristorante stellato? «Trattoria, assolutamente. C’è un ristorante-pizzeria che conosco, molto carino, da quando è diventato troppo esclusivo non ci sono più andato. Mi piace poter uscire in jeans e scarpe da ginnastica». Dolce o salato? «È come la vita, ci vogliono entrambe le cose. Sono goloso. Amo molto i dolci al cucchiaio, le creme. E poi il salato, tutto. Non apprezzo la Sacher torte e i babà, ma sono veramente poche le cose che non mi piacciono». Cosa non può mancare nella sua dispensa? «La pasta. Su tutto, vince da sempre. Mi piace in tutte le ricette, al pomodoro, al pesto - che adoro -, aglio e olio, cacio e pepe, con le acciughe. Persino il minestrone fatto con la pasta. Non sono vegetariano ma potrei rinunciare alla carne. Se dovessi scegliere, toglierei i secondi e lascerei solo i primi».

L’attore sarà a Bergamo il 5 novembre con “Cabaret Il Musical”. Ne abbiamo approfittato per qualche domanda su cibo, cucina e convivialità Ai fornelli: cuoco esperto o piccolo disastro? «Me la cavo. Il mio piatto più riuscito è la pasta “rock ‘n roll”, come l’ha chiamata mia figlia. Da quando è mancata mia moglie (Barbara Cosentino, morta tre anni fa per un infarto ndr.) ho dovuto cucinare. Uno dei primi piatti è stata proprio questa pasta. Non sapevo cosa preparare a mia figlia. Buttai in padella tutto quello che avevo: olio, aglio, cipolla, origano e poi unii i rigatoni. Fu un successo. Mia figlia quando mangia fuori sulla pasta aggiunge sempre il formaggio, mentre a casa con me non lo usa: è una soddisfazione». Qual è il suo piatto preferito? «La pasta al pomodoro. È un piatto semplice, ma deve essere fatto benissimo, con le cipolle e l’aglio. Lo scelgo sempre quando capito in un ristorante che non conosco». Cosa mangia dopo uno spettacolo? «Considerata l’ora tarda evito la pasta e la pizza e scelgo carne e insalata. Sono un grande estimatore di insalate. Ne preparo di buonissime».

La sua cena più bizzarra... «Ne ricordo due. La prima risale a un agosto di diversi anni fa. Ero in un villaggio con degli amici e la fidanzata del tempo. Abbiamo deciso di cenare solo a dolci! La seconda è stata negli anni 80, allora non si conosceva la cucina cinese e ci lanciammo alla scoperta. Era, credo, il terzo giorno di attività del ristorante. Guardavamo i piatti sul menù, non ne conoscevamo nessuno, così ci affidammo al proprietario. Alla fine mangiammo bene. Io però sono per la cucina italiana, come si mangia nel nostro Paese non si mangia da nessun’altra parte». Chi inviterebbe a cena a casa sua e perché? «Al Pacino, un grandissimo attore e uno dei miti della mia adolescenza. Senza di lui forse non avrei scelto di fare l’attore. Parlerei con lui di cucina, ma soprattutto di cinema. Ma mi piacerebbe avere ospiti anche i Kiss e Robert Plant». Vino o birra? «Non sono un grande bevitore. Mi piace il bianco fermissimo. Non amo il vino rosso e le bollicine. La birra solo d’estate con la pizza».

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Pagine di

Gola

a cura di Roberta Martinelli

Dalla fine degli anni Ottanta la food fiction è esplosa. Da “Chocolat” di Joanne Harris a “Ricette immorali” di Manuel Vásquez Montalbán, passando per “Gabriela, garofano e cannella” di Jorge Amado. Il cibo raccontato piace e la popolarità dei romanzi in cui ha un ruolo centrale nella trama non accenna a diminuire. Tra le tantissime proposte che potete trovare sugli scaffali (o sul web), ecco cinque titoli che non vi deluderanno.

Quando i romanzi raccontano di cibo Tilo è una maga travestita da venditrice di spezie, che somministra ai clienti per guarire corpo e anima. Siamo in una bottega di Oakland e le persone che si rivolgono a lei ogni giorno la trasportano nelle proprie vite e nelle proprie storie. Da avere: perché trasmette grande serenità e sfogliando le pagine sembra di poter odorare i profumi delle spezie. Chitra Banerjee Divakaruni

La maga delle spezie 290 pagine - Einaudi Un giallo di ambientazione ottocentesca: il castello, i delitti, la nobiltà decaduta, il maggiordomo e un italiano memorabile, il grande letterato gourmet, studioso di storia naturale, Pellegrino Artusi. Con un ospite così, il punto di vista gastronomico non manca proprio. Da avere: perché è curioso, divertente, ben scritto, a metà tra il romanzo giallo e quello storico. Marco Malvaldi

Odore di chiuso 198 pagine – Sellerio «Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina...». Il romanzo comincia così e la cucina diviene il filo conduttore di tutte le vicende della protagonista, Mikage. È il luogo dei ricordi, dell’infanzia, dell’innamoramento, della fuga dalla tristezza e dalla solitudine. Il romanzo è il primo della autrice giapponese; tratta della perdita della famiglia e della possibilità di ricostruirsene una, scegliendola. Da avere: per lo stile giovanile e fresco ispirato ai manga. Banana Yoshimoto

Kitchen 150 pagine - Feltrinelli In un giallo, che non è un vero e proprio giallo, ambientato in una Palermo estiva e caldissima, l’indagine è un pretesto per raccontare le vicende di tre poliziotti ma soprattutto per mostrare uno spaccato di vita siciliano, con i suoi colori, il suo calore e i suoi drammi. Una curiosità, “panza e prisenza” ovvero “pancia e presenza” è un’espressione usata per indicare chi, invitato, si presenta a mani vuote. Da avere: per la trama avvincente ed emozionante e la scrittura scorrevole, ma di qualità. Giuseppina Torregrossa

Panza e prisenza 189 pagine - Mondadori C’è la ricca quarantenne impegnata in una triste dieta senza dolci, la parente povera Bala bravissima in cucina e fedele alla famiglia, il trasgressivo viaggio in treno di una famiglia che per una volta si nutre con il cibo di strada. In ognuno dei racconti il protagonista ha a che fare con il cibo. Ricordi, sogni e invidie si. Da avere: perché svela con ironia pregiudizi, debolezze, contraddizioni della società indiana, che sono gli stessi di tutti noi. Bubul Sharma

La vendetta della melanzana 187 pagine - Marcos y Marcos

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