Affari di gola aprile 2014

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Supplemento al n. 15 de “La Rassegnaâ€? del 17 aprile 2014 - Giuseppe Ruggieri direttore responsabile Editrice: La Rassegna S.r.l. - via Borgo Palazzo 137, Bergamo Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - â‚Ź 2,60

aprile 2014

Un secolo di formaggi, la passione di Arrigoni


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In edico l il gioved a ĂŹ

Con noi metti in moto i tuoi affari

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APRILE 2014

Supplemen to al n. Poste 15 Italian e S.p.A de “La Rasse . Sped gna” izione in Abbo del 17 aprile 2014 namento Postale - Giuseppe Rugg - D.L. 353/2003 ieri dirett ore respo (conv. in L. 27/02 nsabile Editrice: /2004 n. 46) La Rasse art. 1, gna comm a 1, DCB S.r.l. - via Borgo Berga mo - ? Palazzo 137, 2,60 Berga

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SOMMARIO 4000

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Un sec di formolo la pas aggi, di Arr sione igoni

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PENNA ALL’ARRABBIATA Cinque euro per una recensione, la nuova follia su Tripadvisor

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TENDENZE Frutta, a Bergamo piace la spesa sul campo

10 FACECOOK Dalla chimica ai fornelli “Così ho conquistato gli americani”

14 LA SCOMMESSA E il laureato si trasformò in contadino

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16 IL PRODOTTO Pecora bergamasca, Slow Food vuole rilanciare il “violino”

20 L’ANNIVERSARIO Arrigoni, un secolo all’insegna della passione

22 L’INTERVISTA Formaggi “Con le micro Dop alla fine perdono tutti”

24 L’ESPOSIZIONE Expo, il mondo del vino prepara la “vetrina”

30 LA FESTA Pasqua, i mille rivoli della tradizione bergamasca

Direzione e Redazione: La Rassegna S.r.l. via Giuseppe Mazzini, 24- 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - affaridigola@larassegna.it - Direttore responsabile: Giuseppe Ruggieri - In redazione: Anna Facci - Opinionista: Pier Carlo Capozzi - Editrice: La Rassegna S.r.l., via Borgo Palazzo, 137 24125 Bergamo - Presidente: Ivan Rodeschini - Pubblicità: La Rassegna srl - via Giuseppe Mazzini, 24- 24128 Bergamo - tel. 035 213030 - fax 035 224572 - info@larassegna.it - Abbonamenti: www.larassegna.it tel. 035 4120304 Registrazione Tribunale di Bergamo - N° 48 del 22 novembre 2001 - Collaboratori: Lara Abrati, Leo Bartoli, Marco Bergamaschi, Laura Bernardi Locatelli, Michela Brivio, Laura Ceresoli, Fulvio Facci, Riccardo Lagorio, Roberta Martinelli, Lelia Parisi, Rossana Pecchi, Fabrizio Pirola, Pierluigi Saurgnani, Rosanna Scardi, Giordana Talamona, Donatella Tiraboschi - Impaginazione: Videocomp, Bg - Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg

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TEATRO DONIZETTI


Cinque euro per una recensione, la nuova follia su Tripadvisor di Pier Carlo Capozzi

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veva ragione di non voler morire, quella vecchietta, essendoci sempre qualcosa da imparare, giorno dopo giorno. E noi, tramite la rete, mamma e matrigna, ne abbiamo imparata una nuova. E proprio nel momento più azzeccato. Succede che da qualche giorno (sarà la primavera) ci siamo scoperti appassionati recensori di Tripadvisor e abbiamo confezionato alcuni feedback, frutto di un recente week end. Fin qui tutto bene, è un passatempo che ci piace e l’idea di essere utili al prossimo, consigliando un locale in cui abbiamo avuto un’esperienza positiva o suggerendo di stargli alla larga in caso contrario, è appagante, essendo poi nient’altro che la trasposizione in rete di quello che scriviamo su carta. Sulla veridicità delle recensioni che si trovano in internet abbiamo già avuto modo di ragionare: purtroppo non è difficilissima la via di chi ti vuole male e scrive righe velenose senza magari essere mai stato sotto la tua insegna oppure, e capita anche questo, il cliente che minaccia un cattivo resoconto o che si propone di scrivertene bene a patto di essere trattato coi guanti bianchi, specialmente alla voce “tariffa”. Pensavamo quindi di averne già viste abbastanza, ma quella vecchina non ci stava proprio a morire. E, puntualissima, è arrivata l’ultima scoperta. È un sito che si definisce “la più grande rete di freelance online unita in un network di assistenza per piccoli servizi a 5 euro”. Qualche esempio? “Creo copertine per libri a 5 euro” oppure “Ritocchi fotografici con photoshop” o ancora “Invito 25mila persone a cliccare “mi piace” sulla tua pagina e garantisco 300 “mi piace” in pochi giorni per 5 euro”. E qui cominciamo già a preoccuparci. Dopo esserci distratti un attimo per colpa di Barbara da Torino che, sempre per 5 euro, è “Disposta a farsi annusare i piedi appena uscita dalla palestra”, ecco che arriva il piatto forte: una ventina di freelance on line pronti a scrivere recensioni su Tripadvisor, principalmente, ma anche su altri siti, sempre al prezzo di cui sopra. Ci ha colpito l’annuncio di tal “bomber91”: “Scriverò una recensione, negativa o positiva, su Tripadvisor. La recensione sarà completa e dettagliata con foto, nomi e indirizzi e potrà apparire come proveniente da un turista o da un residente della zona. Pos-

so recensire sia alberghi che ristoranti in italiano oppure in inglese.” Praticamente un killer della tastiera. Usciamo subito dall’equivoco: al pari dell’eventuale insegna colpita a tradimento, Tripadvisor è vittima in egual misura. Proprio questa recente esperienza di contributore ce lo suggerisce. Le recensioni non vanno immediatamente in rete: sono controllate con attenzione, così come le eventuali fotografie, e pubblicate dopo due/tre giorni. Però questo proliferare di scribacchini prezzolati è una realtà inquietante. Qui c’è gente che, nel momento in cui offre un servizio, è certa di poterlo confezionare. E questo, converrete con me, non è precisamente elegante. Come quel giornalista invitato nella località termale che, fregandosene di essere ospite a tutti gli effetti, torna a casa e demolisce l’albergo con una recensione ad alzo zero. Siamo sempre meno a nostro agio, deliziose lettrici e pazienti lettori, in mezzo a gente che, per un foglio da cinque euro, è disposta a scrivere il falso, o tra persone che malintendono il significato più profondo dell’ospitalità. E non siamo affatto sicuri che questa decadenza morale sia figlia legittima della crisi che stiamo vivendo. Probabilmente è qualcosa di più perverso, qualcosa che ci fa più paura. E proprio per questo ci sentiamo di spronare ristoratori e albergatori a rispondere sempre, da qualche tempo si può, sia ai commenti negativi che a quelli positivi: è un’arma di difesa incredibile, ma anche un atto di cortesia verso il cliente che apprezza. Per tornare alla mia recente attività vi dirò, in confidenza, che fare il recensore mi diverte così tanto che continuerò tranquillamente a farlo. Perché, al di là di ogni altra considerazione, se è giusto sottolineare le mancanze di alcuni (quante conferme in tal senso, amici miei, si possono trovare in rete!), è persin doveroso mettere in risalto gli sforzi di chi, in questo periodo affannoso, ce la mette sempre tutta, col sorriso sulle labbra e la voglia di un domani migliore. Sì, lo posso confermare. Continuerò a collaborare con Tripadvisor. Ovviamente a gratis. piercapozzi@libero.it

PENNA ALL’ARRABBIATA

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TENDENZE di Anna Facci

La nostra provincia ha visto nascere le prime esperienze di “pick your own”, il self service dalla pianta. Ora le iniziative si stanno moltiplicando insieme alle varietà che è possibile raccogliere. In tavola arrivano ciliegie, fragole, albicocche, piccoli frutti, pesche, pere e susine che più freschi non si può

Frutta, a Bergamo piace la spesa sul campo

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nisce il piacere della scampagnata alla spesa di frutta fresca che più fresca non si può. Il termine originario è “pick your own”, visto che è una pratica nata e diffusa nel mondo anglosassone, ma anche l’italiano “raccogli ciò che vuoi acquistare” può rendere l’idea. È la scelta di alcune aziende agricole di aprire i frutteti al pubblico e far provviste da sé direttamente dalle piante. Bergamo può contare su un autentico pioniere, Romano Micheletti, che nella sua azienda “Il Frutteto” di Bolgare ha dato il via all’autoraccolta già alla fine degli anni Novanta. Nel tempo altri lo hanno seguito (e l’esperienza si è guadagnata pure l’attenzione dei media nazionali), ma è nell’ultimo periodo che in Bergamasca questa modalità ha cominciato a comporre una mappa interessante per diffusione e varietà di prodotti coltivati. In un territorio in cui la frutticoltura ha un ruolo marginale, quasi sempre rimasto nell’ambito della coltivazione familiare, la spesa fai da te in campo sembra addirittura la formula giusta per un rilancio della produzione di fragole, ciliegie, albicocche, piccoli frutti, pesche, susine, pere e meloni, che non sono però quelli delle grandi estensioni, ma prodotti “unici”, di tante varietà diverse perché in questa modalità si fa spazio alla sperimentazione e, soprattutto, colti al giusto punto di maturazione. Con la stagione alle porte, ecco una piccola panoramica delle esperienze in atto. A Bolgare hanno seguito la strada di Micheletti, che produce ciliegie, albicocche e kiwi (per questi ultimi non è prevista però la raccolta self service),

le aziende Angelo Tomasoni e Nembrini, che offrono ugualmente ciliegie, albicocche e kiwi. Alle pesche si stanno dedicando invece il figlio di Micheletti, Nicola, su un terreno di un ettaro a Spirano e, poco distante, a Castel Liteggio, frazione di Cologno al Serio, Yuri Brigatti con un altro ettaro. A Martinengo da Massimiliano Breda crescono ciliegie e kiwi, a Palosco kiwi. Un progetto ampio è quello dell’azienda bio Castel Cerreto (Treviglio) con sette ettari, che presto passeranno a dieci, con diverse tipologie di frutta e ortaggi. A Sovere si possono raccogliere ciliegie, come in Maresana da Pietro Rocchetti e da quest’anno cominceranno a dare frutti anche i ciliegi piantati a Ponte San Pietro, su una superficie di 7.500 mq in zona Isolotto. Persino in città si stanno sviluppando iniziative, permettendo di fare la spesa dal ramo senza spostarsi troppo. Matteo Locatelli è stato il primo ad insediarsi in Val d’Astino nell’area interessata dalla riqualificazione agricola in vista dell’Expo e quest’anno vedrà le prime pesche, che si vanno ad affiancare alle ciliegie che coltiva da cinque anni a Valbrembo e alla frutta che cresce a Sant’Omobono dove ha sede la sua azienda. In zona San Colombano trovano infine spazio pere e susine, mentre a Gorle è stato realizzato quest’anno l’impianto di ciliegi e peschi, che cominceranno a produrre dal prossimo anno. Calendario dei periodi di raccolta alla mano, un occhio al tempo e paio di scarpe comode: oggi la spesa si fa anche così.


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Il pioniere

Micheletti: «Un sistema che salva il contadino e sviluppa un’agricoltura più pulita» Ha capito che avrebbe dovuto cercare una strada nuova quando a metà degli anni Novanta i frutti del suo mezzo ettaro di susini hanno ricevuto la sonora bocciatura di un grossista. Impossibile reggere il confronto con i maestri romagnoli sul piano dei numeri e dell’omogeneità dei prodotti. È così nato «il chilometro zero ante litteram – racconta Romano Micheletti -, che salta ogni passaggio intermedio e fa arrivare sul campo il consumatore finale». 57 anni, un’attività sbocciata da un hobby, Micheletti è il “papà”

speciale l’approvvigionamento sul campo – spiega -. Noi incoraggiamo l’assaggio, la scelta totalmente libera è la vera novità che offre questo sistema». I clienti che arrivano per la prima volta ricevono, anche grazie a delle fotografie, tutte le indicazioni su come effettuare la raccolta e rispettare le coltivazioni. Vengono utilizzati cestelli tutti uguali e si paga il numero di cestelli riempiti. Non preoccupa la possibilità che oltre al contenitore qualcuno riempia anche la pancia, «anche perché più di tanto non ci si

Romano Micheletti

del pick your own, in Bergamasca e fuori dai confini provinciali. Nei tre ettari della sua azienda a Bolgare, “Il Frutteto”, ha messo a punto il modello della raccolta diretta con una serie di accorgimenti che cosentono di realizzarla in maniera semplice e sicura per i visitatori e ben distribuita lungo tutta la stagione. Ha scelto infatti piante basse, facili da raggiungere da terra, e impiantato tantissime varietà (oggi sono 30 di ciliegie e 40 di albicocche) «per coprire tutto il calendario e offrire quindi più possibilità di venirci a trovare, ma soprattutto proporre un maggior numero di gusti perché è ciò che rende diverso e

può rimpinzare – rileva Micheletti – e poi il bello è proprio poter portare in bocca il frutto nel posto in cui è cresciuto». Non si temono nemmeno danni alle piante, l’aspetto che frena maggiormente gli agricoltori dall’aprirsi a questa attività. «L’impianto di ciliegie più vecchio è del 1999 ed è ancora integro – fa notare -, anzi spesso sono i clienti più esperti e affezionati che ci segnalano eventuali problemi delle piante». L’imprenditore tiene a sottolineare che la spesa in campo non è solo un fenomeno di costume, «è una soluzione rivoluzionaria, che risolve il problema del contadino, altrimenti ucciso da tutti i

passaggi della catena commerciale. Ed è anche un vantaggio per il consumatore che può risparmiare e avere a disposizione prodotti freschi e buoni. Se calcoliamo che, in genere, rispetto al prezzo finale di vendita l’agricoltore riceve un decimo, dimezzare il prezzo al pubblico per la raccolta fai da te significa comunque guadagnare cinque volte di più e far risparmiare le famiglie. Inoltre non c’è il costo della manodopera. Ma sottrarsi ai meccanismi del mercato tradizionale vuol dire anche fare un’agricoltura più pulita e rispettosa dell’ambiente. L’autoraccolta non impone di fare dei record di produzione, le piante vengono lasciate più tranquille, si ammalano meno e hanno bisogno di minori trattamenti. Non è più nemmeno così importante l’aspetto dei frutti, perché le piccole imperfezioni sono considerate naturali e ben viste. In più ci si può permettere di destinare parti del terreno alla sperimentazione, ad esempio di varietà antiche, magari meno produttive ma di grande sapore. In pratica sono i valori di Slow Food che noi non conoscevamo in partenza e che ora sono diventati espliciti con l’inserimento dell’azienda nella guida “Il Buon Paese” al meglio della produzione agroalimentare». Ma il territorio Bergamasco è vocato per la frutticoltura? «Da noi può crescere di tutto e di grande qualità», rassicura l’esperto che ha anche un vivaio specializzato per il pick your own ed è il punto di riferimento per chi intrapreso lo stesso cammino. «Ciò che manca è la competenza tecnica, per imparare a potare servono anni e poi studio e prove continue. Ma è di certo un’opportunità, un’attività in cui i conti tornano a differenza di tante altre in agricoltura». www.ilfruttetomicheletti.it

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TENDENZE

Azienda Agricola Sant’Anna

Le pesche del giovane Matteo primi frutti del recupero di Astino

Matteo Locatelli e la fidanzata Greta

Di una cosa è certo Matteo Locatelli, per l’Expo si potranno mangiare le sue pesche cresciute in Val d’Astino. È infatti lui il primo agricoltore (e al momento anche l’unico) ad essersi insediato nell’area attorno al monastero, oggetto di un piano di recupero e rilancio in vista dell’esposizione universale che prevede la nascita di un parco agricolo biologico al servizio della città. Ha già messo a dimora piante di pescanoce per un ettaro, che quest’estate daranno i primi frutti, e ad ottobre procederà con ciliegie e albicocche su altri quattro ettari, tutto destinato alla raccolta fai da te. Oltre alla sua, sono previste coltivazioni di uva, mele, ortaggi, luppolo e altro ancora. Venticinque anni, ha preferito l’azienda alla laurea seguendo le orme e la passione di papà Gianluigi. La sede dell’azienda Agricola Sant’Anna è a Sant’Omobono dove c’è un altro frutteto «con piante di ciliegie vecchie anche di 35 anni, con rami carichi che arrivano a terra, e piante di pesca che lasciano sbigottito chi non crede che possano crescere a 800 metri e che conquistano con il loro profumo inteso». Si coltivano anche fragole in serra da maggio a ottobre e c’è un laboratorio per la produzione di confetture, frutta sciroppata, succhi, antipasti in vasetto e verdure grigliate. Da cinque anni Locatelli conduce anche un ettaro e mezzo a Valbrembo in zona Madonna del Bosco coltivato a ciliegie, in cui si utilizza il sistema del pick your own, con piante base e facilmente accessibili. «Anche nella sede di Sant’Omobono l’accesso alle colture è libero – ricorda -, per noi è l’unico modo per dimostrare che si tratta di

Castel Cerreto – Treviglio

C’è anche l’adozione dei filari di fragole L’autoraccolta è una precisa scelta commerciale per l’azienda ortofrutticola biologica Castel Cerreto, frazione di Treviglio. Avviata nel 2012 da tre soci con differenti esperienze nel settore agricolo - Fabio Proverbio, Francesco Tassetti e Matteo Moioli – senza contributi ma con il finanziamento della Cassa Rurale, si estende su 17 ettari di terreni in affitto di proprietà degli Istituti Educativi. Sette di questi sono destinati alla frutta ed entro fine anno saliranno a 10. In ordine di apparizione stagionale si coltivano asparagi, fragole, albicocche, lamponi, uva spina, more, mirtilli, ribes, ciliegie, meloni, uva da tavola e kiwi arguta, che chiude i raccolti a novembre. Con i nuovi impianti arriveranno anche pesche, nettarine e susine. «Avevamo la necessità di far capire cosa significa realmente produzione biologica – ricorda Fabio Proverbio -, che è sia una pratica colturale sia un’etica di lavoro, ma non è un concetto così chiaro a tutti. Così abbiamo pensato che l’unico modo per spiegarlo fosse far partecipare i clienti alle nostre attività, passare del tempo con le persone, mostrando al contempo gli altri valori che accompagnano questa scelta, come il chilometro zero e il giusto riconoscimento a chi lavora». L’azienda ha puntato inoltre su «prodotti preziosi – sottolinea -, come mirtilli, fragole e

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lamponi per sfatare il mito che l’agricoltura biologica sia cara e per garantirci il richiamo su un bacino che, viste le dimensioni dell’azienda, non può fermarsi all’ambito locale e deve arrivare sino a Milano». Anche a Castel Cerreto si utilizza il sistema delle vaschette a prezzo fisso anziché il peso ed un rapido conto mostra che «il costo dei lamponi, ed esempio, è di 7 euro al chilo, contro i 20 su cui si attesta in media la grande distribuzione, per prodotti non biologici». Quest’anno debutta anche una nuova modalità, l’adozione di un filare di fragole, ossia l’impegno preventivo ad acquistare i frutti una volta pronti. «Il problema dei prodotti di qualità – dice Proverbio – è che hanno un periodo post raccolta molto breve, devono essere venduti subito, per questo abbiamo pensato di allertare in anticipo gli interessati. È un sistema libero, non ci sono contratti, si basa sulla fiducia e a noi consente di non finire alla mercè del mercato, dove saremmo costretti a svendere». L’impegno minimo richiesto è per mezzo filare, che corrisponde a 40/50 chili. Si viene contattati una settimana prima che il prodotto sia disponibile e si hanno a disposizione due settimane per la raccolta. «La sorpresa è che si scoprirà il vero gusto delle fragole», assicurano dall’azienda, che ha in sé molte altre


aprile 2014 prodotti locali. Nemmeno i mercatini degli agricoltori, in fondo, offrono la questa certezza al consumatore, in questo modo, invece, oltre ad accorciare la filiera la gente impara a conoscere il nostro lavoro e si fida di ciò che propone il produttore». E poi c’è tutto lo scenario. «Il frutteto in fiore è uno spettacolo di per sé – evidenzia - e dopo, quando apriamo al pubblico nel periodo della raccolta, la gente ama stare tra i filari e godersi la natura. A Valbrembo abbiamo circa 30 varietà di ciliegie, quasi tutti duroni, che in bocca sono croccanti come una mela perché sono freschissimi. È una proposta che piace e anno dopo anno sono sempre di più le persone che arrivano». Locatelli ha anche la passione per l’apicoltura e le 40 arnie sono importanti non solo per il miele, che va ad integrare e diversificare la produzione, ma sono fondamentali per l’impollinazione e vengono spostate nei frutteti a seconda delle fioriture. Il giovane ha quindi scommesso su un’agricoltura capace di innovarsi e andare incontro ai consumatori. «Non si diventa ricchi – ammette – ma l’attività così impostata permette di procedere tranquillamente. Richiede impegno e tempo, ma permette di fare ogni giorno qualcosa di diverso e regala anche grandi soddisfazioni». Per essere aggiornati sulle aperture al pubblico dei frutteti si può raggiungere Matteo Locatelli su Facebook (il profilo ha il suo nome).

peculiarità. Come la valorizzazione della cascina del 1600 anziché affidarsi ai più funzionali e meno costosi (ma di certo meno suggestivi) capannoni e il fatto di essere sempre aperta, per chi passa a cavallo o fa due passi tra i filari (il furto della frutta è messo in conto ma si spera che siano di più le persone che comprendono il senso dell’iniziativa). In progetto c’è la creazione di un percorso vita tra le coltivazioni e la nascita di un birrificio artigianale, nell’intento di promuovere l’agricoltura «come fornitrice di servizi». www.castelcerreto.com

Bergamo

A San Colombano le pere e le susine scelte dai Gas La passione parte da papà Beppe. Il figlio, Luciano Milanesi, studia Medicina a Brescia e in attesa di decidere se fare il medico o il frutticoltore ha impiantato con dei soci due diversi appezzamenti. Quello già attivo è in via Alcaini, a Bergamo, zona San Colombano, tra Monterosso e Valtesse. Un ettaro in salita con vista su Città Alta, recuperato - con fatica - dopo anni di abbandono, dove trovano posto circa 600 peri e 250 susini. L’impianto è del 2012 e quest’anno la produzione comincerà ad essere più consistente, ma è in pratica già destinata ai Gruppi di acquisto solidale che hanno dimostrato di gradire la raccolta diretta. E avranno di che sbizzarrirsi, con le sei varietà classiche di pere, più tre invernali, e sei varietà di susine tardive (dal 15 agosto al 15 settembre) e altre sperimentali. La coltivazione è inoltre in fase di conversione al biologico, con la certificazione che arriverà nel 2015. Da quest’anno Luciano Milanesi ha raddoppiato e insieme a Mattia Micheletti, figlio del guru del pick your own, ha avviato una coltura anche a Gorle, due ettari in zona Campi Bassi con 15 varietà di ciliegie a succedersi settimana dopo settimana e sei di pesche, che entreranno in produzione dall’anno prossimo. «È un’attività che mio figlio ed io seguiamo dopo lo studio e il lavoro – precisa Beppe Milanesi – legata soprattutto alla passione. La spesa in campo è una soluzione a diverse problematiche, quella della raccolta, della conservazione e del prezzo equo per chi produce e chi acquista. I Gas, realtà di cui faccio parte anche io, sono i nostri principali interlocutori perché ritengono importante andare a vedere i luoghi in cui nascono i prodotti e qui si va oltre, dando la possibilità di cogliere da soli ciò che si porterà in tavola». «Ma il chilometro zero – ammonisce – non è un valore di per sé, è eccezionale se c’è la qualità. Per come è impostato, il sistema con raccolta diretta offre prodotti che mantengono le promesse, con un ridotto uso di sostanze chimiche nel sistema a lotta integrata o senza nel biologico e grande gusto perché non si punta sulla quantità, si fa spazio a varietà che non si trovano in commercio e, ciò che più conta e piace, la raccolta si apre solo quando la frutta è matura sull’albero».

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FACECOOK di Laura Ceresoli

Dalla chimica ai fornelli “Così ho conquistato gli americani”

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a cucina per lui è un’alchimia fatta di ingredienti di prima qualità, un pizzico di tradizione e una buona dose di creatività. D’altronde agli esperimenti Nello Gioia ci è abituato. Questo chef orobico che da 29 anni gestisce il ristorante Bergamo a Greenville, negli Stati Uniti, ha seguito un percorso scolastico alquanto anomalo. A uno che, come lui, amava stare dietro ai fornelli di certo il diploma di perito chimico tintore ottenuto all’Esperia nel 1969 non poteva essere di grande utilità. Eppure all’epoca Nello aveva preferito seguire le orme di suo padre piuttosto che rincorrere un sogno. Così, abbandonata l’Università di Bergamo dopo due anni di frequenza, era subito entrato nel mondo del lavoro. Trascorso un periodo di tirocinio tra Basilea e Milano con una grossa azienda chimica Svizzera nel campo degli ausiliari e coloranti tessili, lavorò in due industrie metalmeccaniche

bergamasche. Girò il mondo per diversi anni vendendo macchine tessili. Poi un giorno, una ditta di Imola del gruppo Eni lo assunse per aprire uffici di vendita in Nord America con sede a Greenville. Fu allora che Gioia ebbe l’illuminazione. Stanco della sua vita da nomade con la valigia sempre in mano, decise di licenziarsi e di iniziare ad assecondare la sua vera passione: la cucina. Sono trascorsi quasi trent’anni da allora e Nello oggi è ancora in South Carolina dove gestisce, con la stessa determinazione di allora, un ristorante italiano il cui nome rende omaggio proprio alle sue radici orobiche. Un locale raffinato che, tuttavia, non manca di strizzare l’occhio alla cultura enogastronomica bergamasca con la sua polenta fumante, i suoi casoncelli ricchi di burro fuso e salvia croccante, i suoi cremosi formaggi. Cibi a noi noti che, tuttavia, hanno fatto un po’ fatica, soprattutto

L’intervista

“Quanti sforzi per infrangere lo stereotipo che qui avevano della cucina italiana” Da perito chimico a chef: come nasce la sua passione per la cucina? “Fin da piccolo, per necessità o per passione, ho sempre cucinato il pranzo per me e per mio fratello. Così ho sviluppato questa passione per il cibo di qualità e, successivamente, per il vino. Alla fine delle Medie ho scelto le scuole seguendo le orme di mio padre e non quello che davvero mi piaceva. Dopo aver viaggiato molti anni e aver mangiato in svariati posti, alcuni davvero incredibili, altri decisamente orribili, specialmente in Usa, mi ero stancato della vita con la valigia, delle lotte politiche interne delle ditte e degli sprechi. Così mi sono licenziato e ho cambiato vita. Mio fratello aveva aperto un ristorante a Key West, Florida, e sono andato da lui ad aiutarlo per un paio di anni. Gli occhi mi si sono aperti ed ora eccomi qui, dopo 29 anni di attività, nel mio ristorante a Greenville in South Carolina”.

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È vero che gli stranieri hanno una visione troppo stereotipata della cucina italiana? “Gli stranieri, specialmente gli americani, in passato hanno sempre avuto una visione a binario unico della cucina italiana. Spaghetti, meatballs (polpettine), lasagna, parmigiana di melanzane, pizza, cannoli, salame con i peperoni rossi (orribile!), ricotta, mozzarella, il tutto condito da pessimo sugo di pomodoro cotto per ore con manciate di origano”. Grazie alla sua cucina è riuscito nel suo ristorante a scardinare questi luoghi comuni? “Certo! Se non fosse così non avrei potuto stare aperto così a lungo. Ma che fatica e quanto fegato mangiato. E non mi riferisco a quello alla veneta!”. Quali piatti del nord Italia, e della cucina orobica in particolare, è riuscito a far apprezzare agli americani? “Risotto con porcini importati e speck, agnolotti al burro e salvia, risotto alla milanese spolverato con polvere di lique-


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Da 29 anni, Nello Gioia, diploma all’Esperia, gestisce il “Ristorante Bergamo” a Greenville. Un locale raffinato dove non mancano le proposte della tradizione orobica. Il risotto ai porcini il piatto forte. Buoni i giudizi su Tripadvisor agli esordi, ad accattivarsi la simpatia degli americani, notoriamente avvezzi a pietanze ben più strutturate di quelle vivande povere di cui è pregna la tradizione bergamasca. Ma il piatto forte di Gioia resta quel risottino ai funghi che continua a riscuotere, anche tra gli internauti che lasciano le proprie recensioni su Tripadvisor, parecchi consensi: “Dopo aver mangiato un altro tentativo malriuscito di risotto al tartufo bianco in uno dei tanti ristoranti della zona, mi sono ricordato di come era buono il risotto qui. Che dire? Mangiate qui, non ve ne pentirete”, scrive Mlashley dalla Carolina del Sud. E ancora: “Il risotto è sempre in evoluzione - afferma Lindsey B da Greenville -, ma devo dire (perfino essendo stato in Italia per due settimane) che questo è il miglior risotto che abbia mai mangiato. Lo chef è italiano, ma ha uno stile e un gusto incredibili. Merita davvero una prenotazione qui. Sogno

ancora!”. E anche l’italiano Enzino58 commenta: “Neanche in Italia si mangia così bene. L’ambiente è accogliente e il personale così simpatico… Bravo Nello, the Boss of Love”. Insomma, Nello è riuscito a prendere tutti per la gola con le sue leccornie che prepara aiutato dall’amorevole presenza di sua moglie Susan. Il Ristorante Bergamo è all’86esimo posto in classifica su 749 locali presenti a Greenville ed è consigliato dal 74% degli internauti su Tripadvisor: su 27 recensioni 14 considerano il ristorante del cuoco orobico eccellente, 6 molto buono, 6 nella media e solo uno scarso. È possibile seguire al meglio le promozioni, gli eventi e le novità che riguardano il locale sul sito www.ristorantebergamo.com. C’è infine una pagina Facebook dove, tra le invitanti immagini dei suoi piatti, Nello non manca di postare, di tanto in tanto, anche qualche nostalgica foto ricordo della sua amata terra bergamasca.

rizia calabrese, risotto con fragole e Gorgonzola, brasato al Barolo con polenta bergamasca fritta in burro e salvia con confit di scalogno. Ho anche un risotto con pesto di arugula mantecato con taleggio bergamasco, senza parlare dei secondi di pesce e di carne e dei vari formaggi. Per quanto riguarda la cucina pura bergamasca cucino l’arrosto di vitello con polenta, casoncelli al burro e salvia, alcuni risotti con vari formaggi di monte, pancetta e alcuni salami difficili da trovare. E poi ancora la cassoela con le costine. Purtroppo però la cucina orobica è ancora eccessivamente povera per la mentalità americana e per il look del mio ristorante, quindi non ho potuto sfortunatamente proporre altri piatti”. Quanto è importante internet per promuovere la sua attività? “Ho da parecchi anni un mio sito: www.ristorantebergamo.com. Mi ha aiutato molto nel promuovere il ristorante e dare un’idea del look del locale, dei vini e dei piatti in generale. Ogni giorno abbiamo 10 o 12 specials in opzione al menù. In più sfrutto internet per promuovere i parties di Natale, Capodanno, San Valentino, diplomi e lauree, senza contare i “Rehearsal dinners”, ovvero i pranzi del giorno prima dei matrimoni, i compleanni e gli anniversari.

Il mio ristorante è nel cuore della città e del business district, quindi la prima parte della settimana è dedicata ad uomini d’affari, avvocati di grosse compagnie e viaggiatori e, specialmente questi ultimi, si servono della ricerca sul web. Mi aiuta molto anche il fatto che ho una buona reputazione e che siamo aperti da 29 anni”. Qual è il suo rapporto con le recensioni di Tripadvisor? “Per quanto riguarda la mia esperienza, finalmente sembra che la qualità stia avendo il sopravvento sulla quantità grazie ai nostri standard e nessun compromesso. I vari programmi di cucina, i maggiori viaggi degli americani, la quantità enorme di stranieri da tutte le parti del mondo hanno aiutato questo cambiamento nelle abitudini dei miei clienti. Devo dire però che siti come Tripadvisor o Yelp rappresentano un business solo per chi li ha creati. Tutti, infatti, si considerano degli esperti culinari e si sentono liberi di esprimere la propria opinione: mi sembra un’arma troppo facile e pericolosa. Per fortuna la maggior parte dei miei clienti è composta da professionisti seri e non da gente che ama solo frequentare locali alla moda per farsi vedere e discutere le annate dei vari vini”.

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LA LETTERA

I ristoratori vittime di “certi” bambini e genitori Egregio sig. Pier Carlo Capozzi, ho letto la sua “Penna all’arrabbiata” del febbraio 2014 sui “Bambini al ristorante” e non posso far altro che approvare quanto da lei scritto e soprattutto quanto deciso dal ristoratore “Sirani”. A questo proposito mi permetto di aggiungere anche la mia esperienza. L’anno scorso andai a cena in un ristorante/pizzeria di Bergamo periferia ed a causa del clima incerto optai per l’interno; alla mia richiesta di un tavolo, il caposala mi fece notare che in sala erano presenti anche dei bambini. Non ci feci caso, ma... mal me ne incolse! Oltre al chiasso (erano in 2 o 3) ed ai piagnistei vari, mi disturbò molto il fatto che mentre loro giocavano in mezzo al corridoio con dei camion (per i quali avrebbero dovuto pagare il bollo di circolazione, viste le dimensioni), i quattro genitori non facessero un plissè e continuassero a parlare degli affari loro come se niente fosse, nonostante le evidenti difficoltà di passaggio del personale di servizio! D’altronde è un segno dei tempi: oltre agli esempi da lei citati, cosa dire delle chiese che durante le S. Messe vengono trasformate in un parco giochi al coperto? Prima o poi qualche bambinetto si tirerà addosso un portacandele, ed in quel caso non vorrei essere nei “paramenti” di quel parroco! Anche se io sarei più propenso a far fare la Via Crucis al genitore disattento e menefreghista! Sono anche andato a curiosare sul sito del “Corriere” che riportava l’articolo, ed anche qui qualche considerazione. 1) Il sottotitolo: “Fioccano le critiche sul web”. Già, fioccheranno le critiche, ma le approvazioni grandinano visto che a ieri la scelta del ristoratore era condivisa dal 68% dei votanti! E per questa occasione ho votato anch’io, per la prima e credo anche ultima volta. 2) Non credo che il ristoratore non voglia i bambini: probabilmente non vuole CERTI bambini con CERTI genitori, ai quali non si può dire niente perché “io pago ed ho i miei diritti!” Per

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fortuna c’è ancora qualcuno, come lei in alcune “Penne all’arrabbiata”, che ci ricorda che il cittadino ha anche dei doveri! Chiudo con un commento per la sig.ra Giovanna Favro: farebbe un grosso piacere a molti clienti se pubblicasse l’elenco dei ristoranti da lei prediletti e che penso si potranno facilmente scambiare per un parco-giochi, un asilo d’infanzia o una sala videogiochi, vista la diffusione di diavolerie elettroniche: personalmente li eviterò con la stessa cura maniacale che la signora userà per evitare Bagnolo Mella. Cordiali saluti. Antonio Carnevale - Bergamo

Grazie per l’attenzione, signor Carnevale, e per la condivisione. La sua battuta sui camion giocattolo che avrebbero dovuto pagare il bollo è spettacolare. La “Penna all’arrabbiata” di febbraio ha suscitato altre riflessioni. Da Facebook ne citiamo due: “Quando si entra in casa d’altri, si è tenuti a rispettarne le regole. Quando si entra in un ristorante si paga per il cibo e per il servizio, ma non per il diritto a fare quello che si vuole. Purtroppo, molta gente è convinta che con i soldi si possa comprare anche il diritto alla maleducazione” (Roberto Pelucchi). “Intanto i genitori non hanno più rispetto dei propri figli e delle loro esigenze. Devono poter fare tutto loro e lasciano fare di tutto ai propri figli. Non si educa più, non si dicono dei no, non si interviene per impedire fastidi o abusi. Piena solidarietà ai gestori del Ristorante Sirani” (Valter Delladonna). Non si pensava, onestamente, fosse un problema così diffuso e percepito, e il ricevere osservazioni praticamente univoche se da un lato ci gratifica, dall’altro, in quanto a livello vigente di buona educazione, ci rattrista. E non poco. Pier Carlo Capozzi


IL NEGOZIO

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Il locale, aperto da poco a Treviglio, devolverà una parte del ricavato dalla vendita di uova di Pasqua all’Associazione Angelman

Il cuore solidale della “Pasticceria Paolo Riva” di Rosanna Scardi

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e specialità dolciarie di Paolo Riva sono opere d’arte? Sì, a guardare, per esempio, il tavolino con scacchiera o l’Aquarama di cioccolato realizzato per il novantesimo compleanno di Carlo Riva, pioniere della nautica, capolavori in formato mignon che trovano spazio tra pasticcini, torte, marmellate e gelati. Il tutto in ambiente moderno e accogliente, a Treviglio, in via De Gasperi. È qui che il giovane imprenditore ha scelto di investire, costruendo un paradiso per il palato. Tra mille raffinatezze, spiccano il suo Paris-Brest, bigné farcito, spolverato con farina di polenta per renderlo più croccante e più bergamasco, il cioccolatino leggermente salato e caramellato, 18 tipi di brioche, dalla sacher con marmellata di lamponi a quella al pistacchio. E ora anche le uova di Pasqua (in questo caso, parte del ricavato va all’associazione per la sindrome di Angelman) preparato col cioccolato biondo, vera novità utilizzata anche per la bavarese alla vaniglia. Il pasticcere, 32 anni, papà bancario, mamma infermiera, ha realizzato un sogno che coltivava fin da bambino. “Rimanevo incantato davanti alle vetrine che esponevano le torte - ricorda -. Mi colpiva l’estetica, la precisione dei riccioli, l’allineamento della panna, l’accostamento dei colori”. Scuola di pasticceria al Cfp a Bergamo, dopo il primo impiego al forno “Maggi” di Treviglio, Paolo Riva approda al panificio-pasticceria dell’ex supermercato Pellicano. “Quell’esperienza mi è servita per imparare a gestire magazzino e fornitori - spiega -. Ma usavo ogni giorno di ferie

per raggiungere i grandi e carpire da loro i trucchi del mestiere”. I prof di Paolo sono stati Mauro Morandin e il padre Rolando a Saint Vincent, Angelo Baldini a Forte dei Marmi, Massimiliano Bettazzi a Prato, e, per imparare a decorare le uova, Graziano Giovannini a Montecatini. Per cinque anni ha lavorato nella pasticceria Gamba a Dalmine. Nel 2007, a Lovere, apre la sua attività, in tre anni triplica i volumi e dal 2012 il negozio è nella Guida del Gambero Rosso. “La mia strategia consiste nel non forzare mai la mano con gli aromi, il cliente non si conquista con peperoncino e zenzero, ma con il classico, che io cerco di fare al meglio - spiega -: come la torta mimosa, una millefoglie freschissima preparata all’ultimo minuto o la mia bavarese alla vaniglia con savoiardo alle mandorle e gelée alle fragole e ai frutti di bosco”. La nuova pasticceria, 350 metri quadri, laboratorio compreso, conta una decina i dipendenti, tra loro i pasticceri Amos Passoni e Francesca Cavalli. Spetta, invece, alla compagna di Paolo, Elena Giacomini, 39 anni, che gestisce la pausa pranzo con l’offerta di piatti caldi e freddi, panini e pizze, aver capito l’importanza di una altro pilastro, la caffetteria. I chicchi provengono da piantagioni monocultivar in Messico e Brasile, tostati a fuoco a 150 gradi. La nuova sfida sono gli smoothies, a metà tra il frullato e il succo di frutta, e gli apertivi serali per l’estate. Info: www.pasticceriapaoloriva.com

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LA SCOMESSA

E il laureato si trasformò in contadino di Lara Abrati

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Giacomo Perletti

alle Seriana, comune di Oltressenda alta, poco più in su del comune di Clusone: la zona in cui sorge la Contrada Bricconi è qui, in Valzurio, meta bergamasca per escursionisti e non solo, dove si può godere della natura e della tranquillità montana. Le contrade sono degli agglomerati di case dove più famiglie convivevano e lavoravano per la propria sussistenza. Purtroppo man mano, nel corso degli ultimi decenni, si sono “svuotate”, per l’allontanamento dalla vita rurale. Il rischio è che ora non vi sia più nessuno che si occupi della cura di queste zone, tanto estese, quanto poco abitate. Giacomo Perletti, classe ’86, originario di Grumello del Monte e una grande passione per la montagna e il mondo agricolo ed enogastronomico, si è letteralmente innamorato di queste zone, tanto da decidere di orientare i suoi studi in Agraria in funzione del recupero della contrada Bricconi: un progetto a lungo termine e molto complesso, con l’obbiettivo di fare rivivere un contesto di per sé molto delicato. Com’è venuto a conoscenza di contrada Bricconi? “Ero in università, a Milano, quando alcuni compagni di corso mi hanno spinto ad utilizzare il programma Google Earth. Stavo risalendo virtualmente la Valle Seriana, quando mi sono imbattuto in quella che poi si è rivelata la contrada Bricconi. Spinto dalla curiosità, ho cercato informazioni a riguardo e sono venuto a conoscenza

Giacomo Perletti, originario di Grumello, dopo gli studi in Agraria ha deciso di recuperare la Contrada Bricconi, in Valzurio. Obiettivo, dar vita a un allevamento di bovini e suini, al caseificio e all’attività agrituristica. “Un progetto per rilanciare zone sempre più a rischio di abbandono”

Camera di Commercio di Bergamo

Ricette in concorso per valorizzare Con l’obiettivo di valorizzazione i prodotti tipici e l’enogastronomia della Bergamasca, la Camera di commercio ha lanciato il concorso a premi “Bergamo Mille ricette”, in cui si chiede di inviare piatti legati alle tipicità della cucina bergamasca. L’obiettivo è la riscoperta della tradizione culinaria del territorio, gli strumenti quelli della comunicazione social. Le ricette saranno infatti pubblicate in un blog sul portale “cult” Giallozafferano, su Facebook e Youtube e la selezione dei finalisti realizzata con una votazione via Internet. Dopo produttori e ristoratori viene così coinvolta la community dei food lover di tutta Italia (che abbiano compiuto i 18

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anni di età al momento della registrazione), chiamati a mettere in campo la propria passione e creatività. Due le categorie previste: “fotoricette e ricette”, ossia ricette descritte tramite la lista degli ingredienti e la spiegazione dettagliata della preparazione, accompagnate eventualmente da immagini della lavorazione e del prodotto finito; e “videoricette”, descritte tramite la lista degli ingredienti e la spiegazione scritta della preparazione, accompagnate da un filmato che illustra il procedimento con eventuale commento sonoro. Tutte le ricette dovranno rifarsi alla tipicità della cucina bergamasca e prevedere almeno un ingrediente scel-


aprile 2014

dell’imminente bando per l’assegnazione organizzato dal Comune. Ne ho approfittato per fare una passeggiata in Valzurio con un amico, era il 23 settembre del 2009, e subito ho deciso di presentarmi con un progetto”. E poi? “A ottobre 2010 mi è stata assegnata in gestione la contrada. Ho fatto la tesi di laurea triennale sulla razza bovina Grigia Alpina, che poi ho deciso di allevare. Nel frattempo ho continuato a studiare fino a laurearmi alla magistrale il 23 marzo 2013 con una tesi riguardante il progetto di recupero della contrada Bricconi e il relativo business plan. Da quel giorno abito ufficialmente qui. Nel frattempo, altre tre ragazze si sono laureate in architettura al Politecnico di Milano con una tesi sul progetto Bricconi, al fine di inserire una struttura nuova per la stalla e il caseificio senza violare e distruggere il contesto, rendendo così la struttura il più armonica possibile con quella esistente. La stalla conterrà al massimo 15 bovini, vi sarà poi il caseificio, il laboratorio multifunzionale e lo spazio per l’allevamento dei suini. Nella struttura esistente sarà invece predisposto lo spazio per l’attività agrituristica, le sale per attività di vario tipo e gli alloggi”. Ora a che punto siete? “In questo momento posseggo tre bovini, acquistati e scelti durante alcune aste. Con il loro latte produco formaggi che, dalla fine di aprile potrò iniziare a vendere. In questi mesi mi

i prodotti tipici to tra i prodotti tipici a marchio “Bergamo, città dei Mille… Sapori” il cui elenco è pubblicato sul sito della Camera di commercio (www.bg.camcom. gov.it/millesapori/it/). Ogni ricetta può essere proposta solo per una categoria di concorso.Le ricette vanno inviate entro il 30 giugno 2014, tramite posta elettronica, all’indirizzo: brevetti@ bg.camcom.it, unitamente alla scheda di partecipazione, compilata e firmata. Le ricette presentate saranno pubblicate sul blog in ordine di ricezione. La fase di votazione on line andrà dal primo luglio al 31 ottobre 2014. Le dieci ricette più votate per ogni categoria saranno esaminate entro il 30 novembre

sono dedicato anche a sperimentare la produzione di tre tipologie casearie: lo stracchino, la formagella e il formaggio stagionato. Sto facendo anche alcune prove relative all’affinamento. Tra circa un anno, sarà pronta la nuova struttura e in quel contesto mi piacerebbe anche dedicarmi in particolare alla produzione di yogurt, al naturale e aromatizzato alla frutta che coltiverò e trasformerò in confettura qui: more, lamponi e mirtilli. I lavori inizieranno a settembre 2014”. Obbiettivo finale? “È quello di ridare vita a questo contesto, non solo alla contrada Bricconi, ma anche cercare di dare uno stimolo alla Valzurio, considerando che gli allevatori sono pochi e in calo e il più grande possiede 13-14 bovini in tutto. Il progetto si propone come possibilità di un concreto presidio territoriale che ne determini poi una cura e un mantenimento”. Questo l’ambizioso progetto di Giacomo Perletti, che richiede passione, dedizione e consapevolezza. Entro tre anni dovrebbe essere a buon punto anche lo sviluppo dell’attività agrituristica. CONTRADA BRICCONI via Bricconi 3 - Oltressenda Alta tel. 349 4285648 - giacomo.perletti@gmail.com

2014 da un’apposita giuria, che formerà una graduatoria e proclamerà i vincitori di entrambe le categorie. In palio per la sezione “fotoricette e ricette” cinque cesti di prodotti dei Mille sapori del valore commerciale di 157 euro, così suddivisi: 1° premio - formaggio (caseificio Taddei), pancetta (Salumificio Gamba), torta di Treviglio (Pasticceria Bonati), confezione di casoncelli e confezione di scarpinocc (Raviolificio Poker); 2° premio - confezione di casoncelli e confezione di scarpinicc (Pastifico Orobico), torta del Donizetti (Pasticceria Bonati); 3° premio - confezione di casoncelli e confezione di scarpinocc (Raviolificio Poker), trancio di lardo (Salumificio Gamba); 4° premio - due confezioni di casoncelli e una confezione di scarpinocc (Raviolificio Poker); 5° premio - confezione di casoncelli e con-

fezione di scarpinocc (Pastificio Orobico). Per la categoria videoricette sono invece a disposizione buoni per menù o piatti della tradizione in alcuni ristoranti dei Mille sapori (www.bg.camcom.gov. it/ristorantideimillesapori/it/) del valore commerciale di 302 euro: 1° premio - buono per due menù della tradizione all’Hotel Panoramico di Fonteno; 2° premio - buono per un menù della tradizione al Roof Garden di Bergamo; 3° premio - buono per un menù della tradizione e un piatto della tradizione alla Locanda della Corte di Alzano Lombardo; 4° premio - buono per due menù della tradizione al ristorante Giopì e Margì di Bergamo; 5° premio - buono per due piatti della tradizione all’Hotel Panoramico di Fonteno. Il regolamento è disponibile sul sito camerale www. bg.camcom.gov.it

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IL PRODOTTO di Laura Bernardi Locatelli

Pecora bergamasca, Slow Food vuole rilanciare il “violino” La creazione di una filiera di produzione del salume tra gli obiettivi dell’Associazione, all’interno del progetto pluriennale “Nutrire la Lombardia”. Berlendis: «Gli immigrati hanno salvato la razza dalla scomparsa, ora tocca a noi farne riscoprire le qualità gastronomiche e nutrizionali»

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bianco e senza macchia, come impongono le Sacre Scritture, ed è pure bergamasco. È l’agnello, tutto da riscoprire, iniziando a portarlo in tavola sin da questa Pasqua, e da valorizzare al pari della razza di pecora autoctona, la migliore per le carni e per la realizzazione dell’eccezionale violino. La pecora gigante bergamasca, l’ovino più mastodontico del globo, è già a bordo dell’Arca del Gusto di Slow Food, nel novero dei 10mila prodotti sottovalutati e delle ricette da salvare. «In collaborazione con l’Associazione Pastori Lombardi e gli chef dell’Alleanza stiamo promuovendo le carni del castrato di pecora bergamasca - spiega Lorenzo Berlendis di Slow Food -. Tra gli obiettivi del progetto Nutrire la Lombardia che guiderà le nostre azioni da qui al 2018 c’è la costruzione di una filiera di produzione del “violino di pecora bergamasca” a seguito delle positive esperienze degli chef-norcini di Slow Cooking. Inoltre la Val Seriana ha una lunga tradizione nella preparazione di carne essiccata». Quella di pecora bergamasca è una carne ad impatto ambientale prossimo allo zero: «Le greggi tengono in ordine aree abbandonate e vivono libere all’aperto - continua Berlendis -. Invece di consumare carni ovine che provengono dall’altra parte del mondo bisogna riscoprire la nostra pecora, da sempre apprezzata a livello internazionale. Non è un messaggio autarchico ma è un’opportunità da cogliere. Una comunità di immigrati ha salvato la pecora bergamasca dalla scomparsa, ora tocca a noi riscoprire la qualità gastronomica indubbia come quella nutrizionale, dal ridotto apporto di grassi al benessere dell’animale», continua Berlendis. Oltre alla pecora bergamasca il progetto coinvolge la Pecora Brianzola, ormai quasi scomparsa, la Pecora Ciuta,

Al ristorante «Una carne versataile Mario Cornali del Ristorante Collina di Almenno San Bartolomeo è rimasto stregato quindici anni fa da un pastore che conduceva a piedi il suo gregge verso la pianura, seguendo il rituale millenario della transumanza. L’incontro con Slow Food ha fatto il resto e da cinque anni a questa parte lo chef ha colto l’ennesima sfida di rilancio del territorio e delle produzioni locali: far riscoprire la pecora bergamasca. Una gara, come la definisce, di free-climbing culinario, sempre in salita ma con tante soddisfazioni. In carta si trovano ricette che interpretano al meglio la pecora più richiesta al mondo e bistrattata in Bergamasca. Romantico l’antipasto in omaggio alla transumanza: violino di pecora e un cappuccino di infusione di erbe montane e maggiorana con pane croccante. «Ho voluto ricreare, in versione gourmet, il rancio del pastore fatto di pane, acqua e carne essiccata, sostituita dal violino di pecora realizzato in Val Chiavenna con l’amico Stefano Masanti, chef del Cantinone di Madesimo - spiega Cornali -. Le erbe di montagna riportano idealmente in quota, mentre il cielo e le stelle le lascio immagi-


aprile 2014 su cui si sta puntando in Valtellina, e quella di Corteno-Golgi. “Cammina cammina” di Terra Madre valorizza da quattro anni a questa parte il ruolo dei pastori, depositari di una tradizione millenaria, alle prese con il quotidiano errare alla ricerca di un pascolo libero. «Nonostante l’agguerrita presenza di pastori e di nuove generazioni dedite alla transumanza, questa attività è minacciata dallo sviluppo urbanistico e dalla disabitudine alimentare - sottolinea Tino Ziliani, presidente dell’Associazione Pastori Lombardi, tosatore dopo una vita in cammino per pascoli -. Negli altri Paesi la transumanza è sostenuta dai Verdi, da noi invece è tutto il contrario. È un sistema da tutelare che lega sotto un tappeto di stelle 250 milioni di transumanti al mondo che si vedono privare di pascoli e di dignità. Le logiche commerciali affossano il

settore: urge una riscoperta dei nostri agnelli in un mercato che dia il giusto valore a chi lavora. Non siamo pecorai, che deriva da pecunia, ma pastori, dediti da sempre al pascolo». Il primo passo a tutela di un importante pezzo della nostra storia è a tavola, magari sin dall’imminente Pasqua: «Il ragù con ritagli di carne è saporitissimo e supera ogni resistenza conquistando i palati più ritrosi - dà qualche spunto Berlendis -. Il cosciotto cotto al forno a bassa temperatura è la preparazione più classica assieme al brasato in casseruola. Per chi non vuole dedicare troppe ore ai fornelli, le costolette sono un’eccellente alternativa».

Lorenzo Berlendis

e dal gusto delicato nare al cliente». In carta tra i primi trionfano i ravioli ripieni di brasato di agnello su crema di parmigiano e tartufo nero, in primavera tra i secondi non mancano mai le frattaglie di pecora con asparagi bruscandoli (luppolo selvatico), mentre si trovano quasi sempre le costolette con ristretto di Valcalepio anche se il gusto della pecora bollita non tradisce mai. Completamente da sfatare, tiene a sottolineare Cornali, il pregiudizio di una carne dal sapore forte e difficile da cucinare: «La pecora bergamasca è molto versatile in cucina e la sua caratteristica è senz’altro la delicatezza di gusto contrariamente a quanto si pensi. La stazza gigante agevola la cottura: la carne è morbida e succosa e non richiede tempi biblici in cucina». Un controsenso andare ad importare agnelli-

ni dall’Est e carni dalla Francia: «Negli anni Ottanta, proprio mentre l’ovino bergamasco cadeva nel dimenticatoio, nelle carte dei grandi ristoranti si imponeva la costoletta di agnello prè-salè che arrivava da Bretagna e Normandia o Nuova Zelanda - continua lo chef del Collina -. Eppure i francesi dall’Ottocento alla seconda guerra mondiale venivano ad acquistare il nostro mouton bergamasque, unico al palato». La pecora bergamasca è scesa dagli alpeggi anche in città, conquistando un posto nel menù de “Al Gigianca” in via Broseta, locale inaugurato nel 2004 da Gigi Pesenti, a dirigere la sala, e dalla moglie Alessia Mazzola, a guidare la cucina. Dall’estate scorsa il leggendario ovino del territorio compare in carta dall’antipasto al secondo. L’insalata di Cesare

rivisitata (della serie I ravioli ripieni di brasato di agnello bergamasco su crema di parmigiano e tartufo nero del ristorante Collina di Almenno San Bartolomeo

diamo a Cesare che l’ha inventata almeno la lingua italiana, alla faccia della Caesar salad) impiega la coscia di pecora cotta a bassa temperatura e passata al grill senza lasciare alcun rimpianto per il solito petto di pollo. Tra i primi trionfano le tagliatelle con ragù di pecora, mentre nei secondi stupisce la coscia disossata cotta a bassa temperatura e avvolta nella rete di maiale servita con il suo fondo di cottura e una chutney di barbabietola e crema di patate.

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IL PRODOTTO

I pastori «Calo dei consumi e importazioni fanno crollare i prezzi» La pastorizia è sempre stata la prima “industria” delle Valli. Oggi sopravvive a fatica messa alle strette da pile di carte e divieti, costretta a ritagliarsi uno spazio per il pascolo tra cemento, traffico ed aree protette, annichilita dalla concorrenza di carni a basso costo che dall’Est e dall’altra parte del globo invadono gli scaffali della grande distribuzione. Eppure la qualità delle carni bergamasche è eccellente e nulla o quasi è cambiato nell’allevamento e nella transumanza. C’è chi si muove ancora a piedi e chi l’ha fatto fino all’altro ieri. Danilo Agostini e suo figlio Michele, quinta generazione di pastori bergamaschi, allevano 2.000 capi dalla valle di Fonteno al Monte Pora a Schilpario fino in pianura da Crema alla Franciacorta. Nel 2010 a fianco della cascina di Bolgare la famiglia Agostini ha dato vita al primo macello e laboratorio di carne ovina presente in Bergamasca. Le carni sono apprezzate e richieste dai migliori ristoranti che propongono ricette della tradizione, ma a tenere a galla i bilanci sono i musulmani per i quali il consumo di agnello è un rituale e non solo una prescrizione per la festa del sacrificio di Abramo alla fine del Ramadan. «I tempi dovrebbero essere maturi per una riscoperta della nostra pecora da parte

dei bergamaschi e della tradizione del castrato che in Romagna, ad esempio, non è mai andata persa - sottolinea Danilo Agostini -. Il 70% della carne ovina arriva dall’estero quando abbiamo sotto casa una razza da sempre apprezzata nel mondo che si ciba ancora di erbe di montagna, acqua di fonte e si muove dai monti alla pianura tutto l’anno. La carne è invece deprezzata dall’andamento dei consumi e la lana se non fosse per la manifattura Ariete di Gandino che la ritira e la tratta in uno degli ultimi lavatoi sopravvissuti sarebbe addirittura un costo e uno scarto da smaltire. Eppure le potenzialità sono molte: la lana sucida, ad esempio, assorbe e recupera il petrolio in mare evitando disastri ambientali ed economici». Poco al di là dell’Adda, a Masate, si trova l’altro macello lombardo. Daniele Savoldelli, terza generazione di pastori vaganti, attraversa ogni anno la Lombardia, ma i sacrifici sono solo in parte ripagati: «La pecora bergamasca è poco conosciuta e usata ancora meno, eccezion fatta per l’agnello da latte e il castrato per le grigliate. La concorrenza dall’estero ha assorbito ulteriormente il consumo locale eppure dal Nord Africa, come dal sud d’Italia e dalla vicina Romagna vogliono solo la nostra carne».

L’ovino gigante bergamasco è tutto da valorizzare dalle carni alla lana, venduta oggi a prezzo come isolante edile, agli eccezionali salumi cui dà vita a partire dal violino di pecora, che si vuole rilanciare: «I salumi di pecora, specialmente il prosciutto o violino sono naturalmente poveri di grassi ed estremamente ricchi da un punto di vista tradizionale, oltre che buoni», ribadisce Savoldelli. «È una tradizione importante da recuperare - sottolinea Danilo Mosconi, presidente dell’associazione provinciale allevatori, che per limiti d’età ha ridimensionato l’allevamento stanziale e ceduto in gestione La Taverna degli Amici di Petosino dove era possibile ancora gustare il violino di pecora -. Quanto alle carni, è tutto da riscoprire il castrato, da sempre parte del patrimonio culinario bergamasco». La passione per greggi e pascoli contagia anche chi nella vita ha fatto tutt’altro. Quando l’azienda per cui lavorava nel commerciale è finita in concordato, Silvestro Maroni, nel 2012, aiutando un pastore vicino di casa ha deciso di cambiare vita ed oggi alleva 200 pecore bergamasche dagli spiazzi di Gromo alla pianura, fino al lago, a Ranzanico. Maroni sta lavorando alla creazione di un’Associazione Allevatori Pecora bergamasca, al momento lanciata sui social: «Bisogna valorizzare razza e tradizioni per rendere sostenibile il nostro lavoro. I margini sono sempre più risicati e il calo dei consumi con l’immigrazione di ritorno e la crescita delle importazioni stanno mettendo a rischio il nostro futuro».

Il dato Sono 40.546 gli ovini allevati oggi nella nostra provincia: 1.003 allevamenti ovini stanziali con 8mila capi attivi, 71 quelli vaganti con ben 33mila pecore e agnelli in completa libertà.

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Il progetto Al lavoro per portare la razza in Marocco L’immigrazione di ritorno ha por tato in Marocco le caratteristiche uniche della nostra pecora e l’attesa di Expo ha fatto il resto. «Da un anno si sta lavorando per portare la pecora bergamasca nella regione di Chounia Ouardigha da sempre vocata alla pastorizia», ha spiegato Nafty Said di Marocco Integrazione al convegno organizzato a fine marzo in Provincia. Gli investimenti sono supportati da fondi e agevolazioni fiscali: «Il nostro obiettivo - sottolinea il console Mohamed Benali - è quello di avvicinare tradizioni e conoscenze tra Paesi che condividono la cultura mediterranea, anche attraverso collaborazioni tra Università. Il Marocco è oggi un Paese quanto mai attrattivo per gli investimenti anche per la sua stabilità poli-

tica in questo contesto di Primavera Araba». La pastorizia è sostenuta dal Piano Marocco Verde che concede terreni a prezzi competitivi e contributi del 40-45% a fondo perduto: «Il potere d’acquisto marocchino è in crescita come il consumo di carne e derivati. L’obiettivo è quello di allungare la filiera passando dal rilancio della pastorizia alla preparazione di derivati di carne di qualità» sottolinea Sara Maftah dell’Agenzia Marocchina per lo Sviluppo degli Investimenti in Marocco. Una sfida sostenuta e fortemente voluta dalla Provincia: «Un’opportunità da cogliere per le nostre realtà agricole - ribadisce Giulio Del Monte del settore Agricoltura ed Expo - ma anche per chi fa ritorno in patria con percorsi formativi ad hoc».

E con “Sopra la panca” si promuovono anche i salumi di capra Sopra la panca la capra campa, saggezza popolare insegna. È questo il nome scelto da Slow Food per il progetto regionale, che sarà presentato a Varese il 26 aprile, di rilancio dell’allevamento caprino in tutta la Lombardia, per la produzione casearia ma non solo. Oltre alla rivalutazione delle carni che purtroppo vengono ignorate per la maggior parte dell’anno eccezion fatta per Pasqua, il progetto punta molto sulla loro trasformazione in salumi, primo tra tutti il Violino del Presidio Slow Food di tradizione chiavennasca. A San Giovanni Bianco, Fabio Bonzi, dopo la laurea in Allevamento e Benessere animale, ha dato vita nel 2004 ad un allevamento di capre di razza Camosciata delle Alpi. Nel 2010 l’attività è cresciuta e Bonzi ha investito nella creazione di una nuova stalla – sempre

in tasca e controllata con il suo smartphone - con annesso un caseificio ed un laboratorio per la lavorazione e trasformazione delle carni, con vendita diretta. Oltre ai capretti, allevati con tutti i sacri crismi e disponibili su prenotazione, è possibile acquistare salumi di ogni sorta, che esaltano carni magre e delicate come quella caprina. «Produciamo diversi tipi di insaccati, dai salami ai cacciatorini ai cotechini - spiega Bonzi -. I salumi di capra sono un prodotto di nicchia dalle caratteristiche uniche e da una ridotta presenza di grassi. Stiamo lavorando per la realizzazione del famoso Violino, anche se la procedura è lunga e la stagionatura anche». Tra i formaggi la scelta spazia dalle formaggelle allo zola, dai caprini freschi alle piramidi, fino ai tronchetti al miele e al marron glacè.

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L’ANNIVERSARIO di Rosanna Scardi

Il caseificio di Pagazzano, che quest’anno compie 100 anni, è leader in Italia nella produzione di Taleggio e Quartirolo Lombardo. Giunta alla quarta generazione, l’azienda esporta in tutto il mondo, non conosce crisi e si avvale delle più moderne tecnologie. Riscontri favorevoli ai nuovi progetti, tra cui “I Piccoli di Arrigoni”

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Arrigoni, un secolo all’insegna della passione emplicemente per passione. Non poteva avere slogan più azzeccato Arrigoni, l’industria casearia bergamasca che quest’anno celebra il centenario. Due eventi riservati ai dipendenti e ai loro familiari permetteranno di mettere in vetrina le eccellenze di questa azienda: il primo maggio con un open day, il 3 maggio con un family day. Dedizione al lavoro, rispetto della tradizione come principio, qualità ricercata e una vasta gamma di prodotti sono i segreti del successo per l’azienda leader in Italia per la produzione di Taleggio e Quartirolo Lombardo. Ad avere avuto l’intuizione imprenditoriale è stato Battista Arrigoni, imprenditore originario della Valle Taleggio che, nel 1914, ha dato origine a un’azienda agricola, poi divenuta caseificio, a Pagazzano, nel cuore della pianura padana. Oggi, mantenendo un approccio di familiarità, l’Arrigoni, giunta alla quarta generazione, è un’industria che esporta in tutto il mondo, non conosce crisi e si avvale delle più moderne tecnologie. I principali prodotti sono i più legati alla tradizione: per gli stagionati il Taleggio Dop e il Gorgonzola Dop, sia dolce che piccante dalle venature più accentuate e sapore più deciso. Il Taleggio, in particolare, è motivo di orgoglio per la famiglia Arrigoni, cognome che compare mille anni fa nella Valle dove, tra il X e XI secolo, nasce il formaggio tipico. Per i freschi, il podio va a Quartirolo Lombardo Dop, Primosale e Crescenza. Eccellenze Arrigoni si trovano anche nella linea “Unici”: Lu-

cifero, un erborinato a pasta dolce e cremosa con l’aggiunta di peperoncino. Rossini, erborinato piccante che viene affinato in vinacce con Passito di Pantelleria prodotto con uve zibibbo: abbina sapori e profumi tipici lombardi con altri mediterranei. Torregio, dalla duplice pasta, morbida nel sottocrosta e asciutta nel cuore, prodotto secondo un’antica tecnica e stagionato per sei mesi. Maggengo, robiola stagionata ispirata al primo tipico taglio di fieno: il taglio più importante perché ricco e profumato dalle essenze che crescono nelle nostre terre. Ciascuna linea è contrassegnata da un colore nel packaging, il marrone per gli stagionati Dop, il rosso per gli Unici, l’azzurro per i freschi, il verde per la linea bio. Il processo si avvale di una filiera completa che va dalla terra e dagli allevamenti, suinicolo e bovino, alla materia prima fino al prodotto finito. L’allevamento bovino fornisce parte del latte che sarà trasformato, il restante proviene da aziende agricole selezionate e certificate che si trovano in un raggio di 30 chilometri e con contratti che si protraggono da decenni. L’attuale sede del caseificio, in via Treviglio, è attiva dal 2003, anno in cui è avvenuto lo spostamento dello stabilimento dal centro del paese. Nell’area di 60mila metri quadri, di cui 15mila coperti, lavorano 80 dipendenti. La capacità produttiva può superare i 2mila quintali di latte al giorno sviluppabili su due diverse linee: una automatica a bacinelle per i formaggi freschi e gli stagionati a crosta la-


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La storia

vata, la seconda con classiche caldaie polivalenti per gli erborinati. E’ di fondamentale importanza sottolineare che l’intero ciclo di produzione, dalla lavorazione del latte, stufatura, stagionatura e confezionamento avviene all’interno della struttura di Pagazzano. Tutte le celle sono dotate di un sistema di climatizzazione dinamico che consente di creare le condizioni ideali per la maturazione del prodotto. La produzione è in costante aumento, con un +10% l’anno, per un totale di 5 milioni di chilogrammi annui di cui circa il 75% ripartiti tra Taleggio, Quartirolo Lombardo e Gorgonzola e la restante parte tra Crescenza, Primosale, linea Unici e linea bio. “A breve contiamo di arrivare a pieno regime, a 7 milioni di chili l’anno - annuncia Marco Arrigoni, presidente dell’azienda e responsabile commerciale -. Il fatturato si attesta sui 30 milioni di euro e il merito va anche a una gamma variegata e di qualità in grado di appagare i diversi gusti del consumatore. Arrigoni, leader nello sviluppo dei prodotti a marchio della Grande Distribuzione, annovera tra i suoi principali clienti la catena inglese Waitrose a cui fornisce Taleggio, Gorgonzola dolce e Gorgonzola piccante per la linea “top tier”. Il 15% della produzione viene esportata in tutto il mondo, principalmente in Inghilterra, Stati Uniti e Australia. A differenza del mercato interno, i paesi stranieri prediligono il biologico: “L’80% della produzione bio oltrepassa i confini nazionali, ad apprezzarla è soprattutto la Germania - afferma Arrigoni -. Sul mercato estero, oltre ai classici Gorgonzola e Taleggio, trovano grande riscontro i prodotti della linea Unici vincitori di diversi riconoscimenti internazionali tra cui il più importante è sicuramente la “super gold medal” vinta dal Rossini al World Cheese Awards di Birmingham”. Per Arrigoni la tradizione è il principio, il progresso la vocazione. Mission che Arrigoni ha nel cuore e nell’attenzione alla qualità ed alle esigenze di mercato. Nascono oggi nuovi progetti tra cui “I Piccoli di Arrigoni”: confezioni da 60 grammi di Taleggio, Gorgonzola dolce, Gorgonzola piccante e Quartirolo Lombardo di cui si hanno già riscontri favorevoli, oltre che in Italia, anche sui mercati di Svezia, Inghilterra, Belgio e Giappone. Il prossimo mese Arrigoni sarà presente al “Cibus”, il salone internazionale dell’alimentazione che si tiene dal 5 all’8 maggio a Parma.

Continua la tradizione avviata da Battista, il fondatore

Il successo spesso nasce da intuizioni di uomini intraprendenti e coraggiosi, come è stato Battista Arrigoni. La sua famiglia era originaria della Valle Taleggio. Nel 1890, a 15 anni, il giovane bergamasco raggiunge il Texas. Ma la chiamata alle armi, pochi anni dopo, lo riporta in Italia, dove si arruolerà negli Alpini. Battista si trasferisce a Pagazzano, paese dove trova l’amore e, nel 1914, fonda la sua azienda agricola. Nel 1920 la Arrigoni Battista si attrezza per diventare anche ditta di trasformazione del latte. L’attività è collocata nel centro del paese, accanto alle stalle adibite all’allevamento bovino e suinicolo. Le prime produzioni sono il Taleggio, realizzato secondo un’antica ricetta di famiglia, e i formaggi a pasta dura da grattugia, esportati anche all’estero. Nel 1950 la produzione si arricchisce di Grana Padano e Gorgonzola. Cinque anni dopo, la famiglia Arrigoni inizia a fornire noti marchi commerciali. Viene ampliata la produzione e la struttura si allarga. In questi anni, il caseificio si afferma sul mercato nazionale come leader nella produzione del Taleggio. Negli Anni Ottanta sviluppa le private label, aggiudicandosi la leadership per molti tipi di formaggio. La nuova struttura produttiva di Pagazzano, collocata in via Treviglio, nasce nel 2003. La tradizione centenaria del bisnonno Battista continua in mano ai discendenti nel segno della familiarità e delle tecnologie più all’avanguardia.

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L’INTERVISTA di Leo Bartoli

Parla il grande esperto Alberto Marcomini, insignito del titolo di Maître fromager de France. “In troppi guardano al proprio particolare penalizzando anche il consumatore”. “Dobbiamo imparare dai francesi a fare squadra e promuovere le nostre chicche, che non temono rivali”. “Tanti giovani stanno aprendo micro caseifici. Un gran fermento che meriterebbe il sostegno del nuovo ministro all’Agricoltura”

Formaggi, “Con le micro Dop alla fine perdono tutti”

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ui è uno dei “tenori” del mondo caseario italiano. Dove c’è un formaggio che merita, una malga da salvare, una produzione di eccellenza da promuovere, state pur certi che prima o poi Alberto Marcomini si farà vivo. Padovano di nascita, ex affinatore, ora soprattutto giornalista, esperto ed organizzatore di eventi, l’uomo è da sempre innamorato del cacio italico: ne conosce i segreti, le forme, i metodi di produzione, il momento per la giusta rottura di cagliata e i sistemi di taglio. Per questo i cugini d’Oltralpe lo hanno insignito a Parigi, fin dal 1990, dell’ambitissimo titolo di Maître fromager de France della “Confrèrie des Chevaliers du Taste-Fromage de France”. Poi arrivò il Tg5 con la rubrica Gusto e il “Gambero Rosso” gli dedicò una copertina: polemico e intransigente, è convinto che il patrimonio caseario italiano sia da sempre sottovalutato e ora che ci avviciniamo ad ampie falcate alla madre di tutti gli appuntamenti, l’Expo 2015, il suo invito a “fare presto e fare bene” per tutta la filiera, dai casari ai distributori, è perentorio. Marcomini, negli ultimi anni il formaggio si è scrollato di dosso il ruolo di Cenerentola della tavola, assumendo una dimensione sempre più importante… “Credo che sul fronte caseario noi italiani possiamo fare molto di più, anche

superare i francesi. Dobbiamo soltanto crederci e giocare di squadra, cosa difficilissima, mettendo grande attenzione sul fronte della qualità ai passaggi della filiera”. Scovare formaggi, la loro storia. Andar per malghe, conoscere gli artigiani del gusto: l’Italia e soprattutto i giovani, cominciano ad accorgersi del mondo che sta dietro a un formaggio… “Abbiamo un patrimonio caseario enorme e finalmente tantissimi giovani se ne rendono conto e investono su se stessi, aprendo micro caseifici, un po’ alla moda dei micro birrifici. Un grande fermento come questo mi auguro venga colto dal nuovo ministro bergamasco dell’Agricoltura Maurizio Martina, sostenendo un comparto che può portare valore aggiunto non solo a livello di prodotto, ma di immagine e promozio-

ne del territorio”. Che rapporto ha Marcomini con i formaggi bergamaschi? Siamo la provincia con più Dop casearie (9, compreso lo Strachitunt, fresco di investitura definitiva) ma ancora non si riesce a valorizzarle a dovere… “Non per piaggeria, ma io da sempre sono innamorato del taleggio. Quando ancora facevo l’affinatore è stato il formaggio che mi lanciò: nel 1994, al G8 di Napoli, lo feci assaggiare a Hillary Clinton, che ne rimase estasiata. Da allora continuo ad avere un rapporto speciale con questo formaggio, ma ce ne sono tanti altri, come il Salva e il Quartirolo stagionati che sono una gioia per il palato. In giro però li conoscono ancora poco: fondamentale è la divulgazione, ma voi per quello avete Giulio Signorelli, una sicurezza…”.


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Alberto Marcomini

“Le mie grandi passioni? Sono tre: il Brin d’Amour della Corsica, la robiola di Roccaverano e il taleggio, ma supercremoso” Ci sono state in Bergamasca feroci polemiche su Dop e Consorzi: qui litigano quelli delle valli e della pianura per lo Strachitunt, il Branzi ha due Consorzi, il Bitto ha due Dop, con il consumatore che rimane naturalmente perplesso e disorientato: cosa ne pensa? “In effetti, ma non solo in Bergamasca, per carità, si sono create nel mondo caseario troppe parrocchie che guardano al proprio particolare: il vero danneggiato a questo punto è il consumatore che perde riferimenti e viene bombardato da messaggi tra loro in contraddizione. Ma alla fine perdono tutti”. Sempre a proposito di Dop, esempi anche recenti dimostrano che non è sempre la panacea, specie se non si ha un’adeguata massa critica: Dop a tutti i costi anche per le microproduzioni o prodotto di eccellenza anche senza “investiture” europee? “Viva il prodotto di nicchia, punto e basta. Le Dop sono importanti per difendere le contraffazioni, ci sono Dop con

disciplinari molto severi che funzionano bene, ma il marchio da solo non fa la qualità. Il segreto è sempre la passione, non il fatturato: il consumatore capisce fin troppo bene se un prodotto viene fatto con amore e alla fine lo premia sempre”. Marcomini senza segreti: il suo formaggio preferito, nel mondo, in Italia e in provincia di Bergamo….. “Beh, le mie grandi passioni sono tre. Al primo posto c’è da sempre il Brin d’Amour, meraviglioso cacio della Corsica che vi consiglio caldamente: latte crudo di pecora, ricoperto di erbe di macchia dell’Isola, ha una cremosità sublime. Poi amo la robiola di Roccaverano a latte crudo e il taleggio, ma supercremoso anche questo. In giro per l’Europa noto un calo dei formaggi spagnoli, mentre c’è un prepotente ritorno di quelli britannici: dallo Stilton al Cheddar purché super stagionati”. Lei da molti anni ha avuto dai cugini transalpini il titolo di Maître fromager de

France de la “Confrèrie des Chevaliers du Taste-Fromage de France”: cosa ci manca per essere in grado di valorizzare i formaggi come loro? “Facile: l’unità d’intenti e l’autorevolezza con cui i transalpini sono capaci a vendersi. Soprattutto sul gioco di squadra, trovo sia una strada ancora poco praticabile in Italia. Io ho provato per ben due volte a costituire un’associazione di affinatori, ma invano: troppi solisti, anche un po’ presuntuosi. Poi non c’è la cultura: da Parigi mi hanno chiamato per far nascere un premio per il miglior affinatore italiano. In Italia a nessuno era venuta l’idea di premiare le figure trainanti del nostro formaggio, che diventerebbero punti di riferimento anche per quel turismo enogastronomico che tutti, a parole, intendiamo incrementare”. Pianeta Expo: tutti pensano sarà la più grande occasione per valorizzare il nostro agroalimentare di qualità degli ultimi 50 anni. Ci sono equivoci dietro questa operazione e quali invece le potenzialità reali per il mondo caseario durante l’Esposizione? “Le potenzialità sono tantissime, anche perché in sei mesi di esposizione, le occasioni di promozione saranno davvero tante. L’auspicio è che l’Expo non venga però solo fatto ad uso e consumo dei grandi gruppi o dei grandi Consorzi, ma serva ai piccoli produttori affinché venga riconosciuta la loro abilità artigianale che ha saputo reggere anche all’urto fortissimo della crisi”. Anche il formaggio si è dovuto confrontare con la crisi: sembra però abbia reagito meglio di altri comparti alimentari… “La crisi c’è stata anche per il nostro mondo, ci mancherebbe, ma alla fine il paradosso è che il consumo dei formaggi, specie quelli di qualità, in questi anni difficili è aumentato. Solo che in pochi se ne sono accorti: sarebbe importante creare una vera cultura del formaggio, che con il vino è tra i pochi cibi a creare un’attrattività turistica vera, con circuiti di filiera che noi, a differenza dei francesi, non abbiamo mai sfruttato. Facciamo passare un messaggio a chi ama l’enogastronomia da godere nel tempo libero: non chiudiamoci nei centri commerciali, andiamo in montagna da un casaro a vedere come nasce un formaggio: è una boccata di aria pulita!”.

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L’ESPOSIZIONE di Giordana Talamona

Expo, il mondo del vino prepara la “vetrina”

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utti continuano a chiamarlo “Il Padiglione del Vino”, anche se, di fatto, non lo è. Secondo quanto ufficializzato a Vinitaly, il settore non avrà alcuno spazio a se stante, ma verrà inserito nel Padiglione Italia. Che lo si continui a chiamare “Padiglione”, tuttavia, non è certo una leggerezza semantica, piuttosto una strategia che tenta di annacquare le polemiche esplose dopo la firma del protocollo d’intesa tra il ministero delle Politiche Agricole, il commissario unico di Expo 2015 e il commissario generale del Padiglione Italia. Nelle settimane scorse il presidente dell’associazione dei Grandi Cru d’Italia, Paolo Panerai, aveva espresso per primo la propria indignazione per “l’ingiusto trattamento riservato al vino”, che nell’ottica di Expo sarebbe dovuto essere “il primo biglietto da visita” per l’Italia. E non era stato l’unico. Che lo si chiami padiglione o in altro modo poco importa, di fatto il settore vinicolo italiano non avrà alcuna struttura autonoma, come inizialmente ipotizzato, ma potrà godere di uno spazio “ampio e riconoscibile” all’interno del Padiglione Italia. Ad allestire gli oltre 1.800 metri quadri previsti dall’accordo sarà proprio Vinitaly, che ne gestirà lo spazio durante i sei mesi di Expo. A poco più di un anno dall’inizio di Expo, coi cantieri ancora brulicanti di operai e una bufera giudiziaria sulla gestione degli appalti, cosa ne pensano le aziende vinicole? Se Diana Bracco, commissario del Padiglione Italia, dice di “dormire sonni tranquilli”, le nostra aziende possono dire altrettanto? Sentiamo cosa ne pensano.

Nessun padiglione dedicato, ma ampi spazi nel settore Italia. Una scelta che ha lasciato perplessi molti addetti ai lavori. Ciononostante, cantine e Consorzi di Tutela si stanno organizzando per affrontare e sfruttare al meglio il grande evento. Ecco cosa ne pensano i produttori

Consorzio del Lugana

MALAVASI: “IMMAGINE E STRATEGIE, ECCO COME SFRUTTARE L’INDOTTO DELL’EVENTO” L’azienda Malavasi, 14,5 ettari vitati nel territorio del lago di Garda, non ha ancora pianificato alcuna strategia in vista di Expo, ma una cosa è certa: “Parteciperemo alle iniziative che il Consorzio del Lugana vorrà proporci - spiega Daniele Malavasi, titolare dell’azienda -. Credo sia un treno da non perdere per far vedere al mondo il nostro marchio e far conoscere la Doc Lugana, ma sono necessari investimenti e progetti chiari per farcela”. Durante il Vinitaly, il Consorzio del Lugana ha fatto conoscere il proprio territorio attraverso una serie di degustazioni aperte a wine blogger e giornalisti, che si sono tenute nell’ampio stand di 66 mq dove, tra l’altro, è stata presentata la novità dell’anno, il Lugana Riserva 2011 introdotto nel disciplinare come naturale evoluzione della tipologia Superiore. Immagine e strategia, dunque, come cardini per entrare nell’indotto promosso da Expo, anche se gli ultimi sviluppi della cronaca sollevano più di una preoccupazione: “È fondamentale essere pronti per Expo 2015, sia

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come azienda che come Consorzio, su questo non ho dubbi - prosegue Malavasi -, ma la domanda fondamentale è: “Sarà pronta l’Italia e saranno pronte le infrastrutture?”. Senza contare che per le aziende medio piccole - nonostante per Expo siano attesi 1 milioni di cinesi - anche il nuovo Eldorado del vino si fa sempre più lontano. “È un mercato molto difficile, che tende a privilegiare la grande produzione a discapito di quella piccola. Per un buyer cinese sono strategiche le dimensioni aziendali e i brand già posizionati. Se teniamo conto, inoltre, che è un Paese con bassa cultura del vino, si fa fatica a promuovere le piccole produzioni di qualità”.


aprile 2014 Consorzio di Castelvetro

MANICARDI: “ATTENTI A NON ABBASSARE LA QUALITÀ PER SPINGERE I VOLUMI”

“Lo spazio dedicato al vino italiano sarà inserito nel Padiglione Italia, uno tra i più visitati di Expo 2015, quindi non sono affatto preoccupata”. A commentare la notizia sulla mancata realizzazione del Padiglione del Vino è Maria Livia Manicardi, dell’azienda Manicardi di Castelvetro di Modena, una piccola realtà ben strutturata che produce circa 100mila bottiglie, oltre alla selezione dell’Aceto Balsamico Tradizionale. “Facciamo parte del Consorzio di Castelve-

tro, una realtà molto attiva - spiega la titolare - che riesce a portare sul territorio buyer e giornalisti da tutto il mondo. È chiaro che nell’ottica di Expo e soprattutto dell’onda lunga che, speriamo, si creerà dopo l’evento, occorrerà attivarsi per corteggiare e fidelizzare i clienti e i buyer intercettati. Sono certa, d’altro canto, che il Consorzio lavorerà bene in quest’ottica”. Ma se la sinergia col Consorzio può essere d’aiuto, è la strategia aziendale che può fare la differenza. “In vista di Expo abbiamo intenzione di organizzare degli eventi che possano portare visitatori in azienda. Ritengo che le opportunità che l’Italia, e più in generale il comparto vino, non dovrebbe perdere con Expo siano legate, in primis, alla difesa del concetto di qualità. Il made in Italy ha un richiamo fortissimo all’estero, ma non bisogna cadere nella tentazione di abbassare la qualità, per spingere volumi più alti. Di questo concetto ne abbiamo fatto una bandiera, stando molto attenti al prodotto, all’immagine, al packaging e alle varie certificazioni qualitative”.

Marchesi di Barolo

ABBONA: “LA SFIDA È PORTARE I VISITATORI SUI NOSTRI TERRITORI” Anche Ernesto Abbona, titolare dell’azienda vinicola Marchesi di Barolo non si scompone sul mancato accordo per il Padiglione del vino. “Non sarà un problema perché il target di visitatori che arriverà per Expo, con ogni probabilità, avrà un interesse generale e non specifico - spiega -. Chi ha un interesse per il vino italiano frequenta già le fiere di settore. Semmai dovremmo lavorare per permettere che una parte dei milioni di visitatori attesi per Expo decida di visitare i nostri territori, affascinati dal paesaggio e dall’enogastronomia italiana. Per uno straniero, infatti, le distanze che separano Milano dalle principali mete vinicole del nord Italia sono ridicole rispetto a quelle a cui sono abituati”. Marchesi di Barolo, 120 ettari vitati, è un’azienda storica delle Langhe che ha saputo rinnovarsi nel tempo per accogliere i numerosi enoturisti che ogni anno visitano il territorio. “In vista di Expo abbiamo rinnovato la nostra accoglienza a Barolo, ristrutturan-

do parte degli ambienti per far fronte a un flusso turistico superiore rispetto a quello a cui siamo abituati durante il periodo autunnale - spiega Ernesto Abbona, quinta generazione a capo dell’azienda -. In quest’ottica abbiamo istruito un’altra persona per l’accoglienza e assunto personale che parla le lingue orientali”. Ma dopo l’impegno e il lavoro quotidiano per rendere noto nel mondo il proprio marchio e il territorio delle Langhe, anche ad Abbona rimane l’amarezza di sentirsi “un uomo solo al comando”, sensazione vissuta quotidianamente dalla “resistenza” degli imprenditori italiani. “Ciò che mi preoccupa di più in vista di Expo non è il “non saper fare sistema”, fatto certo e irrisolvibile. La realtà dei fatti è che siamo geniali, ma non sappiamo coordinarci con gli altri perché ognuno vuole mantenere la propria individualità e autonomia. Siamo così, piaccia o no. Quel che mi preoccupa maggiormente, dicevo, è semmai l’organizzazione

delle infrastrutture. Lo stato di avanzamento dei lavori della rete ferroviaria va a rilento ed è impensabile che la fermata di Rho sia ancora incerta. Un Paese serio avrebbe già dovuto organizzare la rete ad un anno dall’inizio di un evento che porterà a Milano milioni di persone da tutto il mondo. Purtroppo in questo Paese siamo sempre costretti a ragionale utilizzando il condizionale”.

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L’ESPOSIZIONE Cantine Guido Berlucchi

ZILIANI: “DOBBIAMO VALORIZZARE IL NOSTRO STRAORDINARIO PATRIMONIO” “E se facessimo anche uno spumante alla maniera dei francesi?”. Fu questa la proposta shock che un giovanissimo Franco Ziliani, enologo pioniere del Franciacorta, fece a Guido Berlucchi circa sessant’anni fa. Oggi i figli di quell’enologo, culla indiscussa del Franciacorta, si stanno preparando, con la stessa lungimiranza paterna, all’appuntamento Expo. “Stiamo lavorando a fianco della città di Brescia e del Consorzio Franciacorta per sviluppare progetti fuori salone, ma per ora non possiamo fare anticipazioni - confida Cristina Ziliani, che non si dice preoccupata dalle recenti notizie sul Padiglione Vino -. A quanto mi risulta il padiglione vino ci sarà e, come dice il protocollo d’intesa, sarà una struttura all’interno del padiglione Italia. Il che non significa che sarà collocato all’interno di palazzo Italia, ma nell’area del cosiddetto cardo, il viale lungo 325 metri. Immagino che sarà rappresentativo delle eccellenze dell’enologia italiana. Siamo in attesa di conoscere i dettagli”. Le cantine Berlucchi, 600 ettari vitati di territorio, stanno lavorando perché Expo diventi per la Franciacorta, e più in generale per l’Italia, un’impedibile occasione di visibilità. “Credo che l’opportunità maggiore sia proprio quella di lavorare insieme per organizzarci a livello Paese. Come diciamo spesso, l’Italia è il Paese col maggiore patrimonio culturale

al mondo concentrato in un’area piccolissima, ma finora non abbiamo saputo trasformarlo in business. Credo che la cosa importante sia il fatto che Expo ci costringe a riflettere, organizzarci e lavorare con l’obiettivo di far vedere il meglio di noi. E se riusciremo in questo intento sarà già un grande risultato”. Ma proprio quello che per altri Paesi può essere un’ovvietà, per l’Italia il “non saper fare squadra” è tra i rischi più alti: “Siamo un popolo non abituato a lavorare in team, individualisti e pronti a competere tra noi, invece di essere coalizzati nel mostrare al mondo un’immagine positiva del nostro Paese”. Ma se l’italianità, nel bene e nel male, distingue il nostro Paese nel mondo, ci sono altri fattori a rendere difficile la vita degli imprenditori italiani che vogliono potenziare il proprio export. Che il mercato cinese, tra quelli più interessanti, sia anche il più difficile ce lo conferma il fatto che un colosso come Berlucchi stia ancora cercando un proprio posizionamento: “Per il momento stiamo ancora studiando un progetto per approcciare il difficile mercato cinese e Expo è sicuramente un’occasione unica per sviluppare idee e soprattutto fare sistema, indispensabile perché i piccoli territori di qualità italiani possano essere notati dall’utente cinese, abituato a dimensioni ben maggiori delle nostre realtà”.

Consorzio Franciacorta

BIONDELLI: “LA CINA È ORMAI MATURA PER IL MERCATO DELLE BOLLICINE” Recentemente tornato dalla Cina, Joska Biondelli, dell’azienda franciacortina Biondelli, non ha incertezze sulle opportunità che Expo saprà portare sul territorio: “Alcune zone della Cina sono ormai mature per le bollicine. Conosciamo questo mercato e contiamo di proseguire anche per l’Expo, secondo le nostre strategie - spiega il titolare -. D’altra parte la nostra azienda ha da sempre una vocazione per l’export. E per Expo abbiamo già un’idea speciale a riguardo. Senza contare che in Franciacorta siamo privilegiati: un’ora di auto da Milano e un Consorzio efficientissimo. Inoltre in Franciacorta, da molto tempo, abbiamo capito l’importanza di fare sistema e lavoriamo uniti”. Una sfida, quella delle bollicine metodo classico in Cina, che deve tener conto di due questioni cruciali, come la competizione col Prosecco, in crescita con una quota di mercato di 1,2 milioni di euro

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nel 2013, e la passione dei cinesi per i vini rossi e consumi in crescita. L’azienda Biondelli, dieci ettari vitati, è una piccola realtà di alta qualità collocata nel borgo di Bornato, nel cuore del territorio d’elezione delle bollicine da rifermentazione in bottiglia. Per Expo l’azienda si sta strutturando per accogliere i visitatori che verranno da Milano. “Stiamo

predisponendo iniziative sia come Biondelli che consortili, con focus sui visitatori provenienti da Paesi che ancora non ci conoscono. L’Expo di Milano sarà un palcoscenico incredibile per far conoscere al mondo le “gemme” italiane in generale, spesso non ben comunicate. Basti pensare alla varietà e qualità dei nostri formaggi!”. Staremo a vedere.

Joska Biondelli


aprile 2014 Parla il presidente del Consorzio Tutela Valcalepio

ROTA: “CON L’ESPOSIZIONE, TERREMO A MILANO IL CONCORSO EMOZIONI DAL MONDO”

Cristina Ziliani

Enrico Rota, presidente del Consorzio Valcalepio, non ha dubbi sulle opportunità che Expo 2015 saprà veicolare sul territorio bergamasco. L’enclave del taglio bordolese, con una produzione di circa 1 milione 300mila bottiglie di Valcalepio e 155mila bottiglie di Terre del Colleoni, si sta preparando a questo evento con una strategia volta ad aprire nuove strade verso i mercati esteri. A un anno dall’inizio di Expo fa scalpore la notizia, ufficializzata durante questo Vinitaly, che il settore del vino rientrerà nel Padiglione Italia. Come accoglie questa notizia il vostro Consorzio? “Expo 2015 rappresenterà un’importante vetrina internazionale per il mondo enogastronomico italiano. Il panorama del food e del wine del nostro Paese è ampio e variegato e la possibilità di lavorare insieme ad un progetto unico, unendo le forze e le idee è sicuramente un fattore positivo. Sentiamo spesso parlare di sinergia e mai come in questo caso è fondamentale mettere insieme il meglio della produzione Italiana e creare strategie durature per il futuro del comparto”. Durante i sei mesi di Expo sono attese circa 20 milioni di persone. Come si sta preparando il Consorzio a questo importante appuntamento? “Noi del Valcalepio non perderemo l’occasione per mostrare al mondo la nostra realtà produttiva. Creeremo quindi una serie di eventi specifici che portino i visitatori a contatto con la realtà produttiva bergamasca e con il suo variegato panorama enogastronomico. Inoltre organizzeremo un grande evento catalizzatore: l’11° Concorso Enologico Internazionale “Emozioni dal Mondo - Merlot e Cabernet Insieme” 2015, infatti, si svolgerà eccezionalmente nel capoluogo lombardo”. Ma, ci dica la verità, i produttori del Consorzio percepiscono Expo come un’opportunità per le loro aziende o sentono che, a conti fatti, porterà più visibilità all’Italia che al loro territorio? “La rilevanza dell’evento e la prossimità geografica con Milano non possono lasciare dubbi: Expo 2015 è un’occasione

importantissima che va sfruttata al meglio e in Valcalepio”. Dei 20 milioni di ospiti, 1 milione proverranno dalla Cina, un mercato in netta espansione per l’export del vino italiano. In che modo pensate di intercettare quella fetta di visitatori? “Quello con il mercato cinese è un rapporto che il Consorzio Tutela Valcalepio sta curando da alcuni anni. Sicuramente non perderemo l’occasione per un lavoro di promozione e comunicazione del territorio bergamasco e della sua produzione nei confronti di questo mercato”.

Quali rischi corre l’Italia in questo anno che la separa da Expo? “I rischi come sempre sono molti. Il nostro rammarico riguarda la Regione Lombardia, il non aver creduto nell’istituzione di un vino unico regionale, l’Igt Lombardia di cui il Consorzio Tutela Valcalepio si è fatto portavoce negli ultimi anni, alzando spesso il tono”. E per il dopo Expo? State lavorando per creare un’onda lunga che crei visibilità al territorio nel lungo periodo? “Soprattutto per quanto riguarda il mercato estero questa è sicuramente una strategia vincente: non possiamo pensare che Expo 2015 si concluda nel 2015: il 2015 sarà l’occasione di aprire strade nuove che andranno percorse e indagate negli anni successivi. Il 2015 servirà a mettere le basi per il lavoro dei prossimi anni”.

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TRADIZIONI di Riccardo Lagorio

Diverse le produzioni in Lombardia. E a Bergamo, nel convento di San Benedetto si produce pure un “balsamo simpatico” con l’olio extravergine d’oliva

Liquori, birre e amari I monasteri stupiscono ancora

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el 2005 ebbe una certa eco, almeno tra gli addetti ai lavori, la notizia che la comunità benedettina dei Santi Pietro e Paolo a Buccinasco, nel Milanese, si sarebbe iniziato a produrre birra, sulla scorta della migliore tradizione trappista. Tre anni più tardi il progetto assunse corpo e spirito con la prima bottiglia uscita dalle porte del monastero, dopo che due confratelli avevano trascorso un periodo di apprendimento in alcune abbazie belghe. Oggi le tipologie di birra sono tre e stanno riscuotendo un continuo plauso da parte del mercato e degli esperti. Se l’intuizione dei 17 monaci benedettini fu dovuta essenzialmente alla necessità di integrare il reddito agricolo, ormai troppo scarso per la sussistenza della comunità in ottemperanza alla Regola (sono veri monaci, se vivono con il lavoro delle proprie mani), non ci si può dimenticare che questa competenza nella elaborazione di prodotti alimentari o cosmetici è ben radicata e diffusa all’interno delle mura dei monasteri. Per secoli la conoscenza dell’alchimia e della trasformazione della materia ha avuto infatti come cornice pri-

L’incontro

vilegiata i monasteri e le abbazie. Luoghi dello spirito, testimoni di una storia e di una cultura, ma soprattutto indicatori ineludibili della storia dell’uomo. E per questo, se vogliamo, anche laicissimi esempi del saper fare. L’opera dei monaci e delle monache, benché immersa in quel silenzio necessario

di Giordana Talamona

Creatività in cucina, le chef si interrogano L’imprenditoria, ai tempi della crisi, ha dati di crescita talmente bassi da lasciare sbigottiti. Il disagio si attenua quando si scopre che l’imprenditoria femminile, secondo i dati 2013 di Unioncamere, è in leggera crescita (+ 0,7%) rispetto a quella maschile (+ 0,2%). Di imprese in rosa, opportunità e creatività al femminile si è discusso durante la Tavola Rotonda “Chef e imprenditoria, un’opportunità solo maschile?” che si è tenuta presso il Relaisfranciacorta a poca distanza dalle Cantine Guido Berlucchi di Borgonato, nell’ambito del 21° Congresso Jeunes Restaurateurs d’Europe. Tra le ospiti, oltre alla padrona di casa Berlucchi, Cristina Ziliani, c’erano, tra le altre, Cristina Nonino delle omonime Distillerie, la giornalista Valeria Palumbo e le chef stellate Marianna Vitale di Sud Ristorante e Iside De Cesare de La Parolina. Il dibattito ha affrontato il tema della creatività in rosa, questione cruciale per le imprenditrici. Delle donne,

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in special modo di quelle che lavorano nell’ambito della ristorazione, si dice spesso che manchino di quel guizzo creativo che permetta loro di affermarsi ad altissimi livelli. Degli otto chef tristellati della Guida Michelin 2014 troviamo solo una donna, la confermatissima Nadia Santini del ristorante “Dal Pescatore” di Canneto sull’Oglio. D’altra parte i dati della guida fotografano una realtà che vede su 307 ristoranti, solo 48 donne alla guida di una cucina stellata (il 15,6 %) e 5 ristoranti gestiti da un uomo e una donna, spesso imparentati. Ma è proprio vero che le donne manchino di creatività? A dare un’interpretazione è la giornalista e storica delle donne Valeria Palumbo che riporta i dati di una ricerca effettuata dalla Facoltà di Pedagogia della Bicocca di Milano: “Ci siamo interrogati sul perché ci sia questa straordinaria differenza tra il successo scolastico e il percorso lavorativo delle donne. Le ragazze, in genere, sono più brillanti a scuola


aprile 2014 al dialogo con Dio, non è mai oziosa ed inoperosa, bensì sempre protesa a quel salutare equilibrio tra corpo e mente che si assicura attraverso il lavoro creativo. Il lavoro, svolto in nome dell’obbedienza, non è soltanto un esercizio di ascesi penitenziale e una necessità per la sussistenza, ma anche un momento di creatività e un mezzo di progresso. Accanto alla lectio divina, il labor manuum è uno dei momenti che scandiscono la vita nell’abbazia. È in questa ottica che nel Monastero di San Benedetto di Bergamo (in via Sant’Alessandro) la ricetta portata in convento almeno un secolo fa da una consorella figlia di farmacista continua ad essere tramandata per creare un unguento dal colore marrone scuro in grado di alleviare il dolore di scottature, infezioni di diversa natura, tagli e, pare, portentoso contro l’acne. Lo chiamano “balsamo simpatico” e l’unico ingrediente noto è l’olio extravergine d’oliva. Ma qui si possono commissionare anche preziose miniature su pergamene o riproduzioni di quadri. Preziosità di opere ancor più rilevante se si pensa che molti dei colori sono ancora naturali e prodotti proprio dalle monache: il giallo reseda, il verde spino cervino, il rosso cocciniglia. Prezzi? Non se ne parli mai; semmai offerte che servono al sostentamento della comunità. Sino a qualche anno fa anche le monache della Visitazione di Santa Maria di Alzano Lombardo gestivano un grande orto da cui si traevano verdura e frutta molto apprezzate. Quello che non poteva essere consumato come fresco si trasformava in prelibate confetture di pere, susine, fichi. La mancanza di chiamate vocazionali (e il conseguente innalzamento dell’età delle consorelle) ha diradato questa attività sino a renderla neppure sufficiente per le necessità del monastero stesso. Nell’abbazia di Santa Maria e San Nicolò di Colico, nel Lecchese, sono invece in vendita i liquori distillati personalmente dai monaci cistercensi. Padre Giacinto spiega che molte ricette sono comuni a quelle delle altre abbazie abitate dai

rispetto ai maschi, ma poi fanno la marcia del gambero nella vita professionale. Se analizziamo le dinamiche scolastiche, emerge chiaramente che la nostra scuola premia l’obbedienza e non la creatività. Le bambine sono abituate fin da piccole ad essere obbedienti, a non deludere le aspettative dei genitori. Non viene chiesto loro di essere creative. Questa educazione all’obbedienza non può che riflettersi nel mondo lavorativo perché ogni donna deve fare uno sforzo in più per concederci il lusso di essere creativa”. Non a caso, afferma qualcuno dalla platea, le ragazze che lavorano in cucina tendono ad essere più brave nella pasticceria dove metodo, misure, tempistiche e regole sono necessarie per fare dolci di alto livello. La cucina, al contrario, è una forma d’arte in continua evoluzione dove il lampo di genio, alimentato dalla creatività, può fare la differenza tra uno chef e l’altro. Se, come ha dichiarato Cristina Ziliani, “la creatività è legata alla libertà e al potere che le donne assumono nell’impresa” o come ha sostenuto Cristina Nonino “più cresce l’autostima e più aumenta la creatività femminile nell’età adulta”, rimane aperta la questione del perché le chef fatichino ad affermarsi nella ristorazione che conta. Anche i modelli televisivi in circolazione la dicono lunga sulla figura del-

cistercensi di Casamari. E le Gocce Imperiali sono le più vendute. “Questo tonico di 90 gradi, dal colore giallo, digestivo, antinausea, antisettico - spiega Padre Giacinto - è ricercato e i pellegrini lo apprezzano assai. Inoltre produciamo tre amari a 40 gradi a base d’erbe che dobbiamo acquistare ma che maceriamo direttamente noi. Molto richiesta dagli intenditori è ad esempio la Ferrochina Piona perché è davvero amara mentre oggi in commercio vi sono amari… poco amari. Durante le ore che dedichiamo al lavoro prepariamo anche il Mandarino, un liquore dolce e poco alcolico”. Anche i frati Carmelitani Scalzi di Adro, in Franciacorta, propongono nel loro spaccio alcuni liquori. Il Padre Priore è orgoglioso nell’informarci che “l’infuso alcolico più richiesto, che producono i nostri confratelli a Verona, è l’Acqua di Melissa, conosciuta sin dal 1710. Mirandolina, nella Locandiera di Goldoni, è rianimata proprio grazie a questa pozione, ottima contro gli svenimenti e i capogiri, disturbi di stomaco, mal di denti, emicranie e affezioni della pelle”. Prodotto all’interno delle sacre mura invece è l’amaro Olivety dell’abbazia di San Benedetto di Seregno. Dom Giovanni Brizzi è il monaco che ne segue la produzione. “Utilizziamo - spiega - 24 erbe officinali che vengono assemblate direttamente in abbazia. Alcune vengono raccolte direttamente da noi. E per quanto riguarda i rimedi naturali, questi non si limitano al miele. Il confratello Dom Piero Caldara, 92 anni, è depositario della ricetta dell’unguento benedettino, a base di olio extravergine di oliva, ossido di piombo, cera d’api e pece greca, che serve a lenire il dolore da contusioni, lombaggini, artriti, principi di sciatica ed herpes. Ma è utile anche per estrarre dalla pelle spine e schegge di vetro ed è indicato per foruncoli, mastiti, paterecci, ascessi”. Un miracolo. Della natura e della sapienza degli uomini…

Nella foto di Michele Di Fiore per JRE, Cristina Ziliani e le chef che hanno ideato e realizzato il menu della cena di gala, tributo a “Il pranzo di Babette”

la donna in cucina, legata ancora nell’immaginario collettivo ad un ruolo da cuoca-casalinga dove le varie Parodi o Clerici, volutamente imbranate, si contrappongono ai serissimi Cracco e Ramsay. Tra crisi, modelli televisivi ed educazione culturale, le chef hanno davanti a sé un duro lavoro per sconfessare tutti questi falsi miti. Presi uno per uno non si può che compiere pienamente l’atto rivoluzionario della disobbedienza perché, come ha detto qualcuno in ultima battuta, “che piaccia o no le chef sono in aumento. Quindi preparatevi, signori uomini, perché siamo agguerrite più che mai!”.

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LA FESTA RATATOUILLE

di Leonardo Bloch

Zuppa dei prati, schissade e crostoni, uova col cicorino, polenta taragna, baccalà, agnello e capretto: le pagine di storia sono ricche di ricette, in molti casi purtroppo scomparse dalle nostre tavole

Pasqua, i mille rivoli della tradizione bergamasca

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dispetto della loro propensione dichiaratamente omnicomprensiva, le Sacre Scritture non riservano certo molta attenzione ai temi dell’alimentazione. Con l’eccezione delle autoritarie prescrizioni del Levitico, che pretenderebbero di bandire cotechini e conigli dalle mense dei credenti, il cibo vi fa anzi comparsa del tutto occasionale. Scorrendo le pagine dell’Antico Testamento si apprende al più che il primo manicaretto di cui si conservi memoria fu una minestra di lenticchie, passata agli annali per aver ingolosito Esaù al punto da indurlo a versare all’esoso fratello Giacobbe, in cambio di un paio di mestoli, l’esorbitante compenso della primogenitura. In una sola occorrenza il burbero Padreterno del Pentateuco fa esercizio di condiscendenza verso le frivolezze della tavola, prestandosi addirittura a redigere una bozza di menù: si tratta della pur succinta lista di vivande che nel libro dell’Esodo viene dettata a Mosé ed Aronne per celebrare la festività della Pasqua. In carta vi sono agnello, erbe amare e pane non lievitato. Fosse inserita nella mistery box di una delle competizioni culinarie che oggi infestano i palinsesti dei canali televisivi, una così scarna combinazione di ingredienti strapperebbe più di una smorfia di disappunto alle aspiranti starlet dei fornelli della porta accanto. Ma per i nostri antenati, avvezzi a misurarsi con dispense assai parsimoniosamente fornite, la frugalità ha da sempre rappresentato una delle principali fonti di ispirazione. Ancor più di altre ricorrenze, quella della Resurrezione pare aver vivificato l’estro della tradizione gastronomica bergamasca, che nella Settimana Santa si disperde in innumerevoli rivoli assumendo distinte variegature di borgo in borgo. È così che a Parre si tramanda l’uso di preparare il venerdì santo la leggendaria zuppa dei prati - geniale traslitterazione montanara della mesticanza biblica - ottenuta sbollentando in brodo le foglie di una ventina di varietà di erbe spontanee, con l’aggiunta finale di un po’ di polenta, formaggio di monte e di un uovo fresco per commensale. Elaborando poi sul tema del pane azzimo, i nostri avi hanno dato impulso ad un’autentica diaspora su base

provinciale di schiacciate e focaccette, per lo più tendenti al dolce. Il solito Antonio Tiraboschi ne enumera almeno una decina: tra tutte spicca il crostone o cruca della Valle Gandino, “che è una specie di focaccia cotta nell’olio e fatta con farina, zucchero, uva candiotta ed altre droghe”. Ma v’è anche la schissada, che diviene colombina quando ingloba un uovo sodo. In alta Valle Seriana la si chiama smeassa o maiassa - denominazione attinta dal miglio, cereale tra i più in voga lungo tutto il medio evo ed agli albori dell’era moderna. E quindi ci si smarrisce in un florilegio di chissöle e di fogasse, di cotisciöi e di sensì di cui ai nostri giorni s’è purtroppo persa quasi ogni traccia. Ovviamente trovano ampio riscontro anche usi alimentari che poco o nulla hanno a che vedere con i dettami biblici. Pressoché onnipresenti sono le uova, la cui ancestrale carica simbolica, ancorché consacrata dal filologico accostamento all’amarognolo del cicorino, è assai più connaturata nei culti precristiani che nel verbo del Nazzareno. Ma poco rileva: sprovvisti delle tinte a tempera che al giorno d’oggi fanno parte del corredo di ogni scolaro, i nostri trisavoli ne coloravano i gusci sobbollendole in acqua ed aceto assieme a qualche scorza di cipolla bergamasca, ed il risultato era una brillante tonalità rubinoviolacea. In alcuni borghi dell’Alta Valle Brembana si ser-


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ba poi il ricordo del gracchiare delle ciàcle che il Sabato Santo annunciava la questua di farina, formaggio e burro effettuata dai giovincelli. Grazie a tali approvvigionamenti l’indomani la comunità procedeva alla preparazione di una pantagruelicamente rustica polenta taragna, alla cui cottura e spartizione soprintendeva nientemeno che il prevosto. Nell’altera e gentilizia Clusone il compito di alleviare il digiuno della veglia spettava invece al più compassato baccalà. E l’agnello? Colpisce che nella tradizione gastronomica delle nostre terre ad esso non sia assegnata una collocazione di assoluto rilievo, pur essendo le Orobie culla di una razza di pecora - denominata appunto bergamasca le cui carni sono di straordinaria succulenza. Già nell’Ottocento s’era tuttavia affermata la popolare predilezione per il capretto, dato che quest’ultimo - nota ancora il Tiraboschi - con il decadere della pastorizia era divenuto assai più a buon mercato. Ed invero non sorprende affatto che la tassatività delle Sacre Scritture sia dovuta scendere a patti con la proverbiale parsimonia dei nostri antenati. Con buona pace di Mosé, di Aronne e dello stizzoso Yahweh della Torah.

Lo Chef Luigi e Daniela del ristorante“Il Museo” di Castione della Presolana, Ora vi attendono al

Nel cuore di Bergamo, nell'antico Borgo Palazzo, a due passi dal centro, il Ristorante Balicco, all'interno della corte ottocentesca consente agli ospiti di respirare un'aria di tranquillità sentendosi fuori dalla frenesia cittadina, e lo rende un luogo estremamente piacevole anche per una cena all'aperto o per la pausa pranzo

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e merColedì

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L’AZIENDA Sono oltre 40 le specialità del raviolificio bergamasco, dai classici della tradizione agli abbinamenti più creativi. Scrigni di sapore che piacciono anche ai mercati esteri

gusto senza confini

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na cura attenta di ogni aspetto della produzione così da racchiudere in ogni boccone il piacere della buona tavola. Facile a dirsi, ben più impegnativo fare in modo che quello che sembra solo uno slogan si avveri ogni volta che si serve un piatto fumante di Casonsèi de la Bergamasca, Scarpinòcc de Par, Saccottini alle noci, Caramelle Speck e Trevisana e via di gusto, spaziando tra oltre 40 specialità di paste fresche ripiene. Il raviolificio Poker mantiene queste promesse grazie ad una “ricetta” precisa dei titolari, Giuliano Brignoli e Rosa Carissimi: «Produrre come vorremmo acquistare da consumatori». Attorno a questa filosofia si è sviluppato un percorso che, poggiando sulle solide basi dell’artigianalità, punta al miglioramento continuo. In effetti, da quando nel 1983 - la coppia ha rilevato la storica azienda di Pedrengo di strada ne ha fatta. A cominciare dalla nuova struttura produttiva, varata nel 2008 ad Albano Sant’Alessandro, dove la tecnologia si allea con la tradizione e permette di riprodurre gesti antichi con il valore aggiunto dell’efficienza e della sicurezza alimentare. Poker non utilizza glutammato, conservanti e Ogm, le materie prime sono fresche e si applica un rigoroso sistema di autocontrollo Haccp e di rintracciabilità. Una precisa scelta è anche quella della sostenibilità ambientale, testimoniata dall’installazione di un impianto fotovoltaico e di un generatore di azoto – il gas impiegato per il confezionamento in atmosfera protettiva – in sostituzione delle bombole. La gamma dei prodotti segue due filoni, le ricette che si ispirano alla cucina tradizionale del territorio (su tutti due “campioni” come Casonsèi e Scarpinòcc, quelli codificati dal marchio della Camera di Commercio “Bergamo Città dei Mille... Sapori”) e le novità, frutto di una costante ricerca gastronomica e della collaborazio-

ne con chef d’esperienza. Le proposte sono davvero varie e stuzzicanti, Tortelli alla formaggella di monte o al celebre formaggio RosaCamuna, Saccottino alle noci con pasta di farina di castagne, Foiade di mais, Lunici con formaggio di capra, il Pizzoccherello (pasta con grano saraceno e nel ripieno gli ingredienti classici del condimento dei Pizzoccheri valtellinesi), senza dimenticare sapori mediterranei come il Raviol Pizza (con mozzarella, pomodoro e origano) o i Ravioli agli scampi e vongole, o ancora la riscoperta delle erbe nei Ravioli con ricotta, ortica e timo. Tante bontà non potevano che conquistare i palati degli intenditori. L’azienda è così cresciuta anche sul versante commerciale, ampliando canali distributivi e orizzonti. Accanto a ristoranti, grossisti, catering, gastronomie e negozi specializzati, c’è anche la GdO e al bacino consolidato della Lombardia si affianca l’attenzione all’estero. La Poker ha già clienti in Francia, Lussemburgo, Portogallo e Repubblica Ceca e nel novembre scorso ha partecipato ad una missione negli Stati Uniti, con il patrocinio di Turismo Bergamo e Camera di Commercio, per lo sviluppo dei rapporti commerciali nei settori dell’enogastronomia e del turismo, che prevedeva incontri con buyer e degustazioni di prodotti. Probabilmente il miglior promotore del made in Italy e del territorio è proprio l’assaggio. Come resistere infatti a tanti piccoli scrigni di sapore? Lo hanno confermato i visitatori del Vinitaly, dove l’azienda è stata presente con i prodotti “dei Mille Sapori” in Piazza Valcalepio, rinnovando il proprio impegno nel far conoscere la Bergamo più golosa. PASTIFICIO - RAVIOLIFICIO POKER via Spallanzani, 28 Albano Sant’Alessandro tel. 035 581454 - www.raviolificiopoker.it


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IL PREMIO

“Tenuta degli Angeli”, l’Extra Brut 2009 conquista l’oro al Vinitaly Su una delle più belle colline della Valcalepio nasce il vino che batte la concorrenza dei più blasonati Champagne francesi e Franciacorta Docg aggiudicandosi la medaglia d’oro alla 21esima edizione del Concorso Enologico Internazionale di Vinitaly 2014. Si tratta dell’ Extra Brut “Degli Angeli” 2009, il metodo classico della Tenuta degli Angeli e Acetaia Testa di Carobbio, uno straordinario spumante ottenuto da uve 100% Chardonnay e che matura con una permanenza sui lieviti in bottiglia di almeno 48 mesi, senza aggiunta di liqueur. Alla vista si caratterizza per la spuma bianca, cremosa, a tratti evanescente. Nel bicchiere appare di colore giallo paglierino intenso e rivela un bouquet evoluto, con note fruttate e floreali. Il perlage è minuto e continuo. In bocca il gusto è secco, fresco, splendidamente elegante. L’affermazione nella Categoria Vini & Spumanti prodotti con rifermentazione in bottiglia è la terza medaglia conquistata nella storia della Tenuta al Vinitaly, preceduta dai primi due argenti conquistati rispettivamente nel 2008 con il Brut “Degli Angeli” 2002 e nel 2009 con l’“Extra Brut Degli Angeli” 2001. Una grande soddisfazione per la Famiglia Testa che, con questa terza medaglia, si vede riconosciuti anni di lavoro e di continua ricerca dell’eccellenza. Ben otto le tipologie di vini prodotte dalla Tenuta fondata Pierangelo Testa, pioniere dell’enologia bergamasca, mancato nel 2005, e oggi nelle mani della moglie Manuela coadiuvata dai figli Laura, Roberta, Maria e Francesco.

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LA GARA RATATOUILLE

Francesco Gotti

Lo chef del Bobadilla di Dalmine a luglio sarà a Stavanger per partecipare al “Global Chef Challenge 2014”

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Gotti affronta la carne di Kobe per la sfida in Norvegia oggetto misterioso del desiderio di tanti gourmet: la carne Kobe del Giappone, prelibata e sconosciuta ai più. Ma non a Giovanni Lorusso e Francesco Gotti, i due chef della Federazione Italiana Cuochi che dovranno vedersela anche con l’ingrediente esotico al “Global Chef Challenge”, a Stavanger, in Norvegia, il prossimo luglio. Secondo il regolamento approvato dalla Wacs-World Association of Chef Society, il roast beef di Kobe costituirà uno dei pezzi “forti” della competizione internazionale di cucina, che potranno far guadagnare 100 punti al miglior interprete dei piatti. Per “affilare i coltelli” in vista della gara, i due campioni, unici candidati finalisti dell’Europa del Sud, si stanno allenando a preparare anche il Kobe, con la supervisione dei coach Fabio Tacchella e Fernando Bassi e supportati da altri alimenti e da una straordinaria tecnologia, tutti rigorosamente made in Italy. Oltre che alle 10 prove ufficiali del menù, di cui le ultime per correggere il tiro, Francesco Gotti si sottoporrà a test “non ufficiali”, sperimentando i suoi piatti da concorso sui clienti del

Bobadilla di Dalmine di Bergamo, di cui è chef executive. Stesso ruolino di marcia per Giovanni Lorusso che da Trani, dove è executive chef del ristorante “Le lampare del Fortino”, affronta l’impresa con fiducia nei coach e aspettative positive. In Norvegia, Gotti, impegnato tra i senior, dovrà elaborare in sei ore e 45 minuti un menù di quattro portate per 12 persone, mentre Lorusso, che gareggia nell’“Hans Bueschkens Giovani Chef Challenge”, avrà tempo tre ore per produrre tre portate per quattro porzioni. Per entrambi, il secondo piatto sarà a base di Kobe. Il bovino giapponese, diventato un mito culinario, va trattato con il riguardo che compete a una carne di alta qualità, considerata da molti la “più buona del mondo”. “Il Kobe è speciale per gusto, tenerezza e rarità, che ne giustifica il prezzo elevato - conferma Gotti -. Infatti possono essere riconosciuti come tali solo gli animali allevati e macellati nella zona del Giappone da cui prendono il nome e che sono cresciuti secondo gli standard previsti. Nel territorio di Kobe, i bovini vengono nutriti con birra e latte

e massaggiati, in modo da rendere la loro carne morbida, succosa e marmorizzata, ovvero striata internamente da grasso». Sulla squisitezza del manzo asiatico non ha dubbi nemmeno Lorusso che spiega: “La carne Kobe è pregiata, anche dal punto di vista della salute, in quanto, a differenza di quella dei nostri bovini, non incide sui livelli di colesterolo nel sangue; inoltre il suo grasso si scioglie in cottura, conferendo al prodotto tenerezza e un sapore particolare. Per questo motivo, l’ingrediente andrebbe cotto alla griglia, su piastra”. Per il match ai fornelli in Norvegia, Francesco Gotti sta mettendo a punto la sua personale lavorazione del Kobe: “Questa carne - spiega - che potrebbe anche essere servita cruda, non ha bisogno di trattamenti violenti, che alterano il suo grasso e ne rovinano i sentori. Al “Global Chef Challenge”, la presenterò con tre diverse cotture veloci, effettuate sui quattro lati del pezzo, in padella, scottata e leggermente marinata, e la completerò con granella di Parmigiano Reggiano”.


aprile 2014 Il locale consigliato dal “Cenacolo Belgian Beer Gourmet e Zytholoog”

Il baccalà protagonista a Porta Osio Il baccalà, alimento che da povero è diventato ormai cibo apprezzato anche sulle tavole più raffinate, torna protagonista a Porta Osio, l’enoteca-ristorante di via Moroni a Bergamo. L’appuntamento per gli appassionati è fissato per il 24 aprile, alle 20,30. Il pesce preparato dal nuovo chef Michele Sana (un passato nei ristoranti stellati Roof Garden e Osteria di via Solata) sarà servito in tre versioni, due classiche e una un po’ più ricercata. Si parte con la Frittella di baccalà con purè al basilico per continuare col baccalà al latte e con quello preparato con panure di pecorino romano e menta. Si chiude col semifreddo di meringa con lamponi e crema inglese. Il prezzo a persona è di 35 euro, vini esclusi (info: tel. 035 219297). Nel frattempo, Porta Osio è diventato il primo locale selezionato e consigliato in città dal “Cenacolo Belgian Beer Gourmet e Zytholoog” promosso dal bergamasco Cesare Assolari. La targa assegnata è la 004 e certifica che l’enoteca guidata da Pierre Aresi è amica della Zytho gastronomia e della cucina italiana abbinata alla birra belga. In virtù dell’intesa, Porta Osio terrà in carta diverse birre belghe (dalla Orval alla Ommegang) e si impegnerà ad organizzare 5 o 6 serate all’anno per sposare il meglio della tradizione culinaria italiana con le birre trappiste.

VINO NEI SUPERMERCATI, IL 2014 PARTE BENE Migliorano le vendite di vino nei supermercati nei primi due mesi del 2014. Nel primo bimestre gennaio/ febbraio le vendite di bottiglie da 75 cl sono risultate più dinamiche e hanno guadagnato 3 punti percentuali sul 2013, facendo segnare un -0,3% a volume rispetto ad una chiusura 2013 del -3,4%. In realtà già l’ultimo trimestre 2013 aveva dato segnali positivi, cioè di un rallentamento del calo delle vendite ed ora i primi due mesi del 2014 mostrano un netto miglioramento. È probabile che il comparto si stia lasciando alle spalle le difficoltà del 2013, in linea con l’andamento dell’economia e dei consumi. Un dato che dà più fiducia sul resto dell’anno.

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L’EVENTO

Festeggiati all’Hotel Terme Imperial i 40 anni dell’Associazione Ristoranti Regionali - Cucina Doc. Ai fornelli il Posta di Gromo, La Trota di Laxolo, la Terrazza Manzotti di Canonica e la Trattoria del Tone di Curno

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Quattro ristoratori bergamaschi protagonisti a Montegrotto l piacere di mangiare all’italiana”. È con questo slogan che, da quarant’anni, Ristoranti Regionali - Cucina Doc sostiene e promuove la tradizione enogastronomica della Penisola. Un lungo cammino accanto ai cuochi avviato nel ’74 grazie alla felice intuizione dell’editore lecchese Roberto D. Maggiano che, tra i primi, aveva capito l’importanza di fare incontrare e confrontare i protagonisti dell’enogastronomia per valorizzare le specialità legate alle tradizioni locali. Sfida affascinante e complessa che Marinella Argentieri, ormai da anni alla guida del sodalizio, continua ad affrontare con determinazione, scegliendo con cura i suoi compagni di viaggio, in primis quei ristoranti non particolarmente celebrati, ma capaci di proporre una buona tavola a costi equi, alla portata di molti, se non di tutti. Per celebrare il ragguardevole traguardo, lo scorso fine marzo Ristoranti Regionali - Cucina Doc s’è data appuntamento all’Hotel Terme Imperial di Montegrotto (Pd), occasione per offrire ai ristoratori del gruppo una pausa in una struttura che sa abbinare la buona tavola all’unicità terapeutica delle acque dei Colli Euganei. Luogo ideale, quindi, per ospitare l’incontro enogastronomico aperto dall’eccellente Animante Franciacorta Brut Barone Pizzini (accompagnato al Trentingrana) e strutturato in due convivi Doc che hanno dato spazio a specialità di otto regioni: Campania, Emilia Romagna, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Toscana e Trentino. La Lombardia è stata ben rappresentata dai ristoranti Posta al Castello di Gromo con Delizia del Posta abbinata al Valcalepio bianco di Medolago Albani; La Trota di Laxolo di Brembilla con Polenta contadina e il Valcalepio rosso di Bonaldi; la Terrazza Manzotti di Canonica d’Adda con Dolcezza alle mele sposata all’elegante Moscato d’Asti di Bera; la Trattoria del Tone di Curno con la Sinfonia di dolci al cioccolato Icam, abbinata al Soffio di Sole, il passito dal gusto avvolgente della Cantina Santa Maria la Palma di Alghero. Il Trentino ha

proposto la Lombata di cervo in salsa di Teroldego con pistacchi tostati, tortino di verza brasata e piccolo tortel di patate preparata dal ristorante Da Pino di San Michele all’Adige (accompagnata da Teroldego Castel Firmian del gruppo Mezzacorona). La Toscana, col ristorante Mare Mosso di Montecatini Terme, ha servito lo Sformatino di zucchine e fiori di zucca su fonduta di pecorino toscano abbinato al Vermentino di Sardegna Doc Blu della Cantina Santa Maria la Palma, mentre Genuino Del Duca, titolare dell’omonimo ristorante di Volterra, ha preparato un gustoso cinghiale annaffiato dal Marcampo, prodotto nelle sue vigne. L’Emilia Romagna e le Marche sono state rappresentate rispettivamente da La Posada di Rivabella di Rimini, con la Scaloppa di Branzino cotta al vapore con tortino di finocchi e pesto di rucola, abbinata ad un Pagadebit di Celli, e da Al Soldato di Ventura, di Gradara, con i Passatelli in brodo di pesce, sposati al Verdicchio dei Castelli di Jesi Doc, prodotto da Barone Pizzini nella sua tenuta di Pievalta da agricoltura biodinamica. Apprezzata, infine, la Minestra di Scarola, piatto campano della Trattoria Da Peppina di Forio d’Ischia abbinata a Per’è Palummo, prodotto sull’isola dalla Cantina Tommasone. Info: www.ristorantiregionali.it


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Stampa Agroalimentare, eletto il nuovo Direttivo dell’Associazione L’Assemblea Nazionale dell’Associazione Stampa Agroalimentare Italiana, riunitasi lo scorso 2 aprile a Milano, ha eletto il Direttivo nazionale e altri organi di controllo che resteranno in carica per il triennio 20142017. Sono risultati eletti: Enza Bettelli, Giorgio Colli, Riccardo Lagorio, Roberto Rabachino, Patrizia Rognoni e Saverio Scarpino. La carica di presidente è stata affidata a Roberto Rabachino, quella di vice a Enza Bettelli. Su proposta del presidente è stata nominata Gudrun Dalla Via, storica fondatrice di ASA, alla Segretaria nazionale e Patrizia Rognoni alla Tesoreria. Giorgio Colli si occuperà della formazione, Savero Scarpino del coordinamento nazionale mentre Riccardo Lagorio, bresciano, avrà il compito di generare il notiziario nazionale e di tenere i rapporti con gli enti territoriali nazionali e esteri.

L’Associazione Stampa Agroalimentare Italiana è la casa di tutti quei comunicatori che, oltre alla grande conoscenza di alcuni settori dell’agroalimentare, hanno nella serietà, nella moralità, nella sensibilità, nel rispetto e nella deontologia professionale le loro principali peculiarità. Non sindacale, libera e apolitica, l’Associazione raggruppa tutti quei professionisti della comunicazione di settore che si riconoscono in questi valori. Formatasi nel 1992 e registrata legalmente nel 1993 con sede a Milano, è uno dei sodalizi più conosciuti e riconosciuti nel vasto panorama d’interessi che ruota intorno al settore in tutte le sue declinazioni. La sua azione è di controllo, di stimolo e di supporto tramite il mezzo a lei più congeniale: la comunicazione. I suoi iscritti collaborano con oltre 685 testate giornalistiche nazionali e internazionali.

Villa Franciacorta, presentati i nuove rosé Bokè e Briolette Hanno fatto il loro esordio al Vinitaly 2014 i nuovi rosé di Villa Franciacorta: Bokè Rosé Brut Millesimato 2010 e Briolette Rosé Demi-Sec. A definire questi Franciacorta è il nuovo packaging scaturito dalla vena creativa di Roberta Bianchi, alla guida dell’azienda di Monticelli Brusati. Rarissimo corallo rosa assolutamente affascinante e con un nome poetico, Bokè - detto anche “peau d’ange”, pelle d’angelo è una pietra di un’eleganza senza stagioni come senza stagione è il Franciacorta Bokè Rosè Brut che ad esso si ispira, mettendo in evidenza sapidità e perlage unico ed inconfondibile. Briolette è invece il taglio di pietre preziose che da sempre ha caratterizzato i diademi di regine come quello che ornava il capo dell’imperatrice Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone. Un taglio tipico di pietre tridimensionali a forma di goccia, con faccette triangolari su tutta la superficie. I riflessi

di Briolette, il nuovo Rosè Demi-Sec di Villa Franciacorta, si sprigionano in tutte le direzioni e la varietà di profumi, sensazioni olfattive e gustative si riallacciano alla perfezione delle molteplici sfumature di una gemma rosa taglio briolette. Il vino, perlage fine e vivace che amplifica profumi di gelatina di lampone, ribes, con note di mandarino e dolci sentori di crostata di amarene appena sfornata, ha una mineralità ben presente e ottima freschezza. Le bottiglie sono per la prima volta in vetro trasparente per esaltare al massimo l’elegante rosa salmone dei Rosé di casa Villa. Decisione questa presa quattro anni fa considerando che Villa produce solo millesimati e si parla quindi di prodotti affinati sui lieviti per almeno 30 mesi. Le bottiglie sono inoltre avvolte in una veste rosata che ha il compito di proteggere il nettare dai raggi UV.

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L’ANGOLO

DEL SINGLE di Marco Bergamaschi

Ricette facili e veloci per chi vive da solo, ma non rinuncia alla buona cucina

Capita a tutti di vivere per un certo periodo di tempo da soli. E spesso ciò coincide con la rinuncia ai piaceri della buona tavola ed è sinonimo di cibo congelato, essiccato, imbustato. Ecco allora qualche idea per preparare ricette “monodose” da mangiare seduti a tavola o rilassati sul divano, a seconda dell’umore, per non sentirsi mai più soli ai fornelli... perché anche mangiare da soli può essere piacevole.

Dolce al cioccolato fondente INGREDIENTI PER 1 PERSONA 300 g di cioccolato fondente 250 g di biscotti secchi 150 g di farina di cocco

100 g di zucchero 70 ml di acqua

PREPARAZIONE Frullate i biscotti e mescolateli con la farina di cocco, lo zucchero e l’acqua fino ad ottenere un impasto il più omogeneo possibile. Ricoprite un vassoio con della carta forno e quindi stendetevi sopra il composto appena ottenuto. Sciogliete a bagnomaria il cioccolato che avanza nella vostra dispensa e versatelo sul composto, livellando bene il tutto con un cucchiaio. Una volta raffreddato, tagliate a quadrotti e aprite le danze. CURIOSITÀ Sono da sempre un goloso senza speranza e nella mia dispensa non è mai mancato e mai mancherà il cioccolato fondente; un po’ perché lo acquisto io e un po’ perché gli amici hanno cominciato a regalarmelo, innescando con il tempo una sorta di competizione a chi riesce a trovare la tavoletta con la confezione più originale. Il risultato è che soprattutto in certi momenti dell’anno, come quello pasquale, mi ritrovo ad avere fino a 10 tavolette ben impilate nella credenza della cucina. Ma non sono un egoista: da subito ho cominciato a voler condividere questo piccolo “tesoretto” con le persone che frequentano la mia vita, prima offrendolo, accompagnato a della frutta come ananas o fragole e poi in maniera alternativa grazie a questa ricetta, che mi ha passato un’amica di famiglia e che ha riscosso fin da subito grande successo. Il “Dolce al Cioccolato Fondente” può essere infatti considerato una valida alternativa al classico dessert e se gustato mentre si sorseggia un buon caffe, il mix di sapori che ne deriva lascerà di stucco anche i palati più difficili. Io utilizzo sempre il cioccolato fondente, perché è quello che preferisco e perché in termini di salute è quello che fa meglio, ma chi si è avvalso del gusto cremoso del cioccolato bianco e di quello vellutato delle barrette al latte mi ha assicurato che il risultato è sempre stato eccellente. E poi possiamo anche sfatare un mito: se è vero che i cibi più buoni sono an-

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che quelli più pericolosi per la salute, il cioccolato fondente sembra essere la classica eccezione che conferma la regola; rappresenta infatti una delle più generose fonti alimentari di flavonoidi, rinomati antiossidanti che aiutano a ripristinare la flessibilità alle arterie e sono un supporto per la prevenzione di malattie cardiovascolari come l’infarto e l’ictus. Detto questo, devo anche aggiungere che è importante non lasciarsi mai prendere da un eccessivo entusiasmo nei suoi confronti, considerato che i flavonoidi non cancellano grassi e calorie, che nel cioccolato la fanno da padrone. Infine, per quanto riguarda i biscotti, la scelta è davvero variegata: i miei preferiti sono i biscotti secchi di farro, di kamut, di frumento, come anche i biscotti da agricoltura biologica senza latte e uova, perché forse mi fanno sentire meno in colpa; ma vanno benissimo i anche i classici biscotti secchi venduti nei supermercati tipo “Oro Saiwa”, ottimi da utilizzare nella preparazione di questo dolce, che piacerà proprio a tutti, anche a chi di solito storce il naso davanti ad un pezzetto di cioccolato.


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