Affari di Gola

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LUGLIO-AGOSTO-SETTEMBRE 2020

Anno XX n. 3 - Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo - € 2,60

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Non sarà la solita estate UNA STAGIONE A METÀ TRA SPERANZE, RESTRIZIONI E TANTA VOGLIA DI NORMALITÀ

LA BUONA TAVOLA RACCONTATA DA


Esperte in vendita e distribuzione di packaging alimentare, monouso, biodegradabile e compostabile

EDITORIALE

Oscar Fusini Direttore

BUTTIAMO IL CUORE OLTRE L’OSTACOLO

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ospettavamo che quella dopo il lockdown non sarebbe stata una “passeggiata”. Ed è quello che sta accadendo, non solo alle persone e ai lavoratori, ma anche alle imprese del turismo e della ristorazione. Siamo in una fase di riapertura più che di ripartenza. La ricerca sulla ristorazione, presentata nei giorni scorsi, ha evidenziato le grandi difficoltà di bar e ristoranti, provati dalla chiusura, dalla paura e dal minor reddito delle persone. In questo contesto riteniamo sia stato un errore grave la concessione da parte dei Comuni, in primis di Bergamo, di spazi per estivi e feste all’aperto soprattutto per i contraccolpi che stanno causando sulle imprese già stremate, oltre che per il contenimento della pandemia. Un plauso invece per le Amministrazioni - e sono tante - che hanno vietato manifestazioni ed eventi con somministrazione. Cito Zogno, che rappresenta quei numerosi comuni di montagna che hanno capito il momento, perché sanno cosa significhi soffrire per tener aperta un’attività, ma anche la recente Sagra dei Lamponi ad Almenno San Bartolomeo, dove i produttori agricoli, grazie alla Pro Loco, hanno fatto sinergia con i ristoranti del paese. Ora è il momento di chiudere con le polemiche e tenere duro. È tempo di buttare il cuore oltre l’ostacolo. In quest’ottica, nel numero che state per sfogliare, abbiamo intervistato alcuni ristoratori sulla loro “riapertura”, scoprendo tutta la loro voglia di ricominciare e tutta la loro creatività e abbiamo approfondito il tema dell’orto, non solo come giacimento di sapori, profumi e colori, ma anche simbolo di vita, di resilienza e di rigenerazione. È questo che desideriamo per il nostro territorio e per ognuno di noi. Con pazienza, capacità e generosità - doti che non ci mancano - dobbiamo tornare a seminare, ciascuno nel proprio ambito, per raccogliere qualcosa di positivo. Non solo il nostro “orticello”, ma la terra di tutti. La nostra comunità potrà elaborare quello che ha sofferto solo continuando a cercare il benessere dei molti.

SOMMARIO

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4. Da dove si riparte? 9. Lo chef è nell'orto 14. Pranzi e cene a domicilio 18. L'intervista a Roby Facchinetti 21. Comfort food 24. Anche Bergamo ha il suo pecorino 28. Eleganza e freschezza al cucchiaio 30. I tesori d'acqua dolce 34. Novità 36. Nebbiolo: l'autoctono di montagna 39. Leggere di gusto


POSITIVITÀ E SPERANZA ALLE TENTAZIONI DI COSTA VOLPINO

temperatura sia al bar sia al ristorante. Incrementato il servizio d’asporto e aggiunta la consegna a domicilio. «Sono cosciente del dramma che abbiamo vissuto e che, tra le tante conseguenze, ha cambiato il modo di fare ristorazione: l’acquisizione delle merci, ad esempio, avviene di settimana in settimana – spiega Palazzi che ha 26 anni di esperienza nel settore -. Molte cose le impari sul campo come, per esempio, che la tovaglia in tessuto, ovviamente sanificata, è più sicura di quella di carta che subisce diversi passaggi». Una volta varcata la soglia del Caminetto, si possono riscoprire i sapori più autentici della tradizione bergamasca: polenta taragna con coniglio, cervo, manzo all’olio, tagliolini al ragù di cervo o cinghiale. Ricercatissime le pizze, leggere e digeribili, realizzate con la farina intera fornita dal panificio Midali.

ph. Matteo Zanardi

Apriamo la nostra carrellata all’insegna della positività e della speranza «Siamo soddisfatti e anche sorpresi, dopo la prima settimana partita in sordina, come un po’ per tutti, la situazione è migliorata sempre di più e, alla quinta, eravamo già tornati alla situazione pre-Covid – afferma Giacomo Pittelli, che guida le Tentazioni di Costa Volpino insieme al fratello gemello Sandro, chef -. Fortuna vuole che, avendo tanto spazio all’esterno per l’estate, non abbiamo perso coperti, che superano il centinaio». Il menù è tecnologico con il “qr” code o, per chi volesse, resta il tradizionale, plastificato in modo da poter essere sanificato. Solo il 4 maggio sono stati introdotti l’asporto e il delivery, quest’ultimo poi eliminato con la ripartenza. «Abbiamo voluto aspettare che le maglie si allargassero, era un controsenso movimentare i fornitori, quando c’era il lockdown generale» tiene a precisare Giacomo. Ogni norma per garantire la sicurezza del cliente è rispettata. L’ambiente è elegante e dal design moderno, la cucina attenta alla stagionalità dei prodotti. Alle Tentazioni si viene per gustare i piatti della tradizione italiana con spunti creativi e mediterraenei, data l’origine calabrese dei due fratelli, con pomodorini di altissima qualità, peperoncino e ‘nduia, che i bergamaschi apprezzano. Da provare il morone in oliocottura, acqua di pomodoro, fiori di zucca fritti, estratto di mandorla, il luccio in salsa con polenta integrale del Lago Moro e, tra i classici, il baccalà con porri e ‘nduja.

Da dove si riparte?

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ipresa lenta, ma in salita, per i ristoratori bergamaschi che si sono rimboccati le maniche, aprendo la maggior parte già il 18 maggio. La pandemia ha cambiato il modo di svolgere la loro professione e ognuno si è giocato il suo jolly come gli spazi all’aperto o ha introdotto misure speciali e tecnologiche per prenotare. La certezza è che il cliente, da un lato, desidera uscire e mangiare fuori, considerata la lunga quarantena forzata, ormai alle spalle, dall’altro è spaventato e va rassicurato. Da un sondaggio, condotto da Ascom Bergamo Confcommercio, su un campione di oltre cento ristoratori, risulta che il 64,6% ha mantenuto i contatti con i clienti tramite i social e il proprio sito web. In molti (il 60,2%) hanno chiesto finanziamenti alle banche e sono ricorsi agli ammortizzatori sociali (73,5%). Il servizio delivery/asporto è stato utilizzato durante il lockdown dal 59% delle attività. Variabile la perdita del fatturato: per il 42,6% degli interpellati è stata superiore all’80% rispetto al 2019 con cali soprattutto per i pranzi di lavoro (68,4%) e nel fine settimana (68,4%).

RIGORE, SICUREZZA, OTTIMISMO, DIALOGO SONO I PUNTI FERMI DEI RISTORATORI BERGAMASCHI di Rosanna Scardi

Di seguito, una panoramica su come stanno reagendo i nostri ristoratori.

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AL POSTA DI SANT’OMOBONO IL CLIENTE È AL CENTRO Al Posta di Sant’Omobono Terme il contatto con i clienti non si è mai perso ed è quello che fa davvero la differenza. «Ci telefonavano in continuazione e, se non erano loro a farlo, chiamavamo noi, volevamo accertarci che stessero tutti bene, mantenendo un contatto caldo e diretto con loro», afferma la proprietaria, Petronilla Frosio, con quarant’anni di professionalità alle spalle, una delle chef più apprezzate della provincia, erede di una lunga tradizione, avviata dai genitori nel 1910. Prima di cinque fratelli, quando è servita una mano nel ristorante di famiglia, la scelta è ricaduta subito su di lei. Ai fornelli è arrivata nel 1984, senza chiederlo, e quando è cresciuta la passione e sono arrivati i primi risultati era già una cuoca in gamba. Attiva nelle associazioni di categoria, Petronilla è presidente del Gruppo ristoratori di Ascom. Nel suo ristorante il calo riguarda i coperti per il pranzo di mezzogiorno, decisamente migliore la situazione nel fine settimana. «Ma chi ha voglia di uscire, lo fa, non si fa prendere dalla paura o dalle insicurezze - afferma la ristoratrice -. Come si sa, noi bergamaschi abbiamo passato un periodo difficile, ma è anche vero che abbiamo reagito, abbiamo voglia di tornare a vivere, siamo ripartiti, mettendoci in gioco e dandoci da fare, anche se avremmo avuto bisogno di un maggiore aiuto dal governo, soprattutto verso chi è stato in attesa della cassa integrazione». I tavoli al ristorante Posta sono già grandi e distanziati. La pulizia avviene con detergenti specifici e ogni norma, stabilita dal decreto governativo, è rispettata in modo coscienzioso. La cucina è stagionale e fresca. Il piatto forte sono le morchelle, conosciute come spugnole, funghi belli e buoni da portare in tavola, serviti ripieni di coniglio e taccole.

AL CAMINETTO DI BRANZI VIA LE PAURE CON IL DIALOGO Parlare con il cliente davanti a una tazzina di caffé, rassicurandolo per allontanarne paure e insicurezze. È il compito di Cristian Palazzi, titolare de Il Caminetto e presidente della Proloco a Branzi. «È stato difficile capire la normativa e far comprendere alle persone che non corrono rischi, nonostante la nostra sia stata una provincia gravemente colpita dal Covid – dice il ristoratore -. Bisogna riuscire a farle entrare, mostrare loro nel concreto che possono stare da noi in sicurezza. È solo questione di tempo». Palazzi ha messo in campo molte iniziative: il distanziamento dei tavoli (50 posti nelle tre terrazze e altrettanti all’interno), ha acquistato una macchina all’ozono, garantisce la pulizia a fondo a ogni cambio tavolo, fornisce il gel disinfettante e fa controllare dal personale la

GRANDE CURA E AMPIO SPAZIO ALLA BETTOLA DI URGNANO La Bettola di Urgnano rappresenta un vero trionfo di sapori, come il loro piatto forte, “Gran trionfo di mare”, un primo di spaghetti, stracolmo di astice, gamberi, scampi, piovra.

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«Introducendo il servizio delivery da Pasqua abbiamo fatto sentire al cliente la nostra presenza, rimanendo sul mercato, poi, dopo un inizio soft, ci siamo accorti che il trend è a salire» afferma Moris Pezzotta. La gestione è a carattere familiare: alla guida ci sono il papà Mario e la mamma Mariella Brozzoni, oltre al fratello Roberto. La sicurezza è garantita dal termoscanner all’ingresso che rileva la temperatura. Grande cura è riservata alla sanificazione degli ambienti, che sono igienizzati un paio di volte al giorno, e dei tavoli a ogni cambio cliente. Novità è il menù con il “qr code”: inquadrandolo si sceglie la pietanza. Il foglio è, poi, buttato. «Una modalità che piace più ai giovani, meno alla nostra clientela abituale di famiglie - spiega Pezzotta -. Resta, comunque, il menù classico che è sempre igienizzato come dimostra l’etichettatura». A favorire la Bettola è anche lo spazio: 164 coperti all’interno, con il distanziamento ridotti a 70, e 60 nel cortile. Ottimo il filetto “tartaruga”, manzo, proveniente da un allevamento di Zanica, fasciato al bacon sfumato al rosso di Franciacorta, con sopra un cappello di fungo porcino grigliato simile a un carapace. Bandite le tovaglie usa e getta. «Non mi piace la carta, dà l’effetto mensa di ospedale» è l’opinione del ristoratore.

RIGORE E OTTIMISMO ALLA TRATTORIA BOLOGNINI DI MAPELLO Alla trattoria Bolognini di Mapello la situazione è tornata alla normalità per i pasti nel corso della settimana. Le incertezze restano nel weekend. «Purtroppo i clienti hanno paura a uscire, oltre al fatto che la crisi economica ha colpito tutti duramente, l’emergenza Coronavirus non è solo sanitaria, ma anche economica e sociale, la pandemia ha travolto cittadini, sanità e industrie, con la brusca sospensione di tante attività, di ristorazione e non solo, abbiamo pagato tutti un caro prezzo, pertanto se prima faticavi ad accontentare tutti, oggi le famiglie rinunciano a mangiare fuori casa», spiega la titolare, Romina Bolognini, erede di una tradizione di famiglia che dura da settant’anni. La pulizia è il must del locale che, per sanificare, ha sempre usato disinfettanti adeguati e specifici. «Oggi l’accortezza è sicuramente maggiore, oltre all’ambiente, i tavoli, i piani di lavoro, sanifichiamo anche le sedie», aggiunge la proprietaria. Il gel disinfettante è dislocato in diversi punti del locale. Olio, aceto e sale non sono, però, in bustine monodose, ma ogni volta bottiglia o contenitore vengono puliti. Il distanziamento e la misurazione della febbre sono prassi seguite con rigore dal personale. Sono una cinquantina i coperti all’interno, molti meno - circa una quindicina - quelli fuori, i più gettonati considerata anche la bella stagione. Chi arri-

L'intervento

«Mi sembra di gestire un bar del tutto diverso» Dopo alcuni giorni di riapertura, purtroppo, i dati economici di pubblici esercizi e i ristoranti sono negativi e lo sono per varie ragioni. Vorrei evidenziarne un paio. Certamente un aspetto penalizzante è la paura che i nostri clienti hanno nel tornare all’interno dei locali. Io gestisco un’attività che, nel tempo, ha consolidato tre tipologie di clientela: le famiglie, i turisti e i giovani. Ad oggi buona parte della mia clientela, particolarmente nella fascia dai 50 anni in su, non è ancora tornata. Ed è comprensibile essendo la fascia di età che più ha pagato in termini di mortalità. A questo si aggiunge la mancanza totale del turismo straniero. Conseguentemente gli incassi sono penalizzati. Tutto ciò ha creato in me una strana sensazione. Ho come l’impressione di non avere più il locale che avevo prima della pandemia. Mi sembra di gestire un altro bar, completamente diverso, frequentato quasi totalmente da ragazzi. Ragazzi che, fortunatamente, non hanno paura del virus e, tipico della giovane età, hanno questa irrefrenabile voglia di incontrarsi. E vivaddio che ci sono loro, con questa voglia di vivere! Diversamente, se non ci fossero molte delle attività legate all’intrattenimento e alla ristorazione sarebbero drammaticamente chiuse per totale mancanza di clientela. Questo aspetto deve essere preso in considerazione dalle amministrazioni comunali quando decidono di mettere in campo azioni mirate a limitare gli assembramenti. Il desiderio dei giovani di ritrovarsi e di divertirsi va governato, ma assolutamente non va vietato. Se non ci fossero loro, con la loro forza di vivere, a riempire le piazze, il risultato economico sarebbe ancora più drammatico: strade desolatamente vuote con la maggior parte delle attività commerciali chiuse e con le serrande abbassate. E non si dimentichi mai che dietro a quelle serrande abbassate si sono consumati, e in futuro sempre di più si potrebbero consumare, drammi familiari. Va peraltro rimarcato che, come le amministrazioni non devono intervenire in modo repressivo, al contempo noi gestori dobbiamo fare la nostra parte, dobbiamo collaborare con loro e con le forze dell’ordine. Ne va del benessere nostro e delle nostre imprese. A noi, nel precisare che non abbiamo né l’autorità, né la competenza per sostituirci a chi è deputato a gestire l’ordine pubblico, compete il compito di governare

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all’interno dei nostri locali un comportamento responsabile che non metta a rischio la salute pubblica. È ormai chiaro a tutti che la prima fase della pandemia, quella legata alla gestione sanitaria, è stata gestita. Certamente con qualche errore determinato dall’eccezionalità dell’evento, ma comunque gestita. Ora invece la seconda fase, quella degli interventi di aiuto concreto alle imprese, mostra tutti i limiti cronici di un Paese incapace di gestire questa emergenza. Si fa un gran parlare di aiuti miliardari ma, al di là degli annunci, non si vede un euro sia per le imprese che per i dipendenti. E allora credo sia giunto il momento del coraggio delle scelte. È giusto, anzi è sacrosanto, non abbassare la guardia, la salute viene prima di tutto. Ma non possiamo a questo punto non vedere il rischio economico che, nel breve, potrebbe portare il Paese a dover affrontare problemi sociali difficilmente governabili. Quando in autunno si dovranno riprendere i pagamenti oggi sospesi, quando non sarà più in essere il divieto di licenziamento, quando termineranno gli effetti della cassa integrazione, allora tutta la drammaticità del momento potrebbe esplodere in modo incontrollabile con conseguenze devastanti per lungo tempo. Se non si interviene subito con aiuti veri, l’autunno potrebbe essere fatale per molti di noi e per le nostre aziende. Proviamo anche noi, con i nostri comportamenti, ad aiutare il ritorno alla normalità. Cerchiamo, da dietro il banco di lavoro, di trasmettere messaggi positivi, cerchiamo, nel contatto con la clientela, di lanciare una visione ottimistica. È giunto il momento di diffondere notizie confortanti, di cominciare a vedere il bicchiere mezzo pieno. L’Associazione farà la sua parte attraverso tutti i canali disponibili. La gente è impaurita ed ha bisogno di certezze e non di continui allarmi sul “possibile” ritorno in autunno del contagio. È l’ora della responsabilità: diffondiamo ottimismo, ne va del futuro nostro e delle nostre famiglie. L’altro aspetto che vorrei evidenziare è l’insofferenza che mi assale nel sentire il continuo elogio da parte di esperti e politici sul fenomeno dello “smart working” e dell’impatto positivo che avrebbe sulla società se proseguito nel tempo. Niente smog, niente assembramenti, meno incidenti stradali…. E nessuno che faccia un riflessione sulle ricadute che avremmo nei locali pubblici, per la ristorazione e in generale per il commercio, se il “lavoro leggero” proseguisse nel tempo. Nessuno che faccia valutazioni sull’effetto sociale che una tale organizzazione lavorativa provocherebbe. Se questo fosse il futuro, il comparto della ristorazione e dei pubblici esercizi - che trovano ragion d’essere proprio dal quotidiano spostamento da parte di lavoratori - dovrà drammaticamente ridimensionarsi. Pensiamo alle città e a tutto quanto gira attorno a questo mondo e conseguentemente al commercio in

Beltrami al lavoro al Bar Centrale di Lovere

genere. Io non credo avverrà, ma se queste fossero le scelte del futuro, prepariamoci alla drammatica chiusura di migliaia di attività, e alla perdita del posto di lavoro per centinaia di migliaia di dipendenti. E a quel punto avremo consegnato il commercio in mano a poche multinazionali con la tristezza delle consegne a domicilio che, scusate, sarò retrogrado, ma a me non piacciono proprio. Io amo andare a fare acquisti in un negozio dove il titolare mi coccola un poco e mi fa sentire un persona e non un numero. Un negozio dove vengo ricevuto con un sorriso e uni squillante “Buongiorno signore!”. Un negozio di vicinato dove mi sento a mio agio, bevendo un caffè con il titolare. Questo è il mondo commerciale che voglio vivere. Io ho scelto il mestiere che faccio principalmente per l’aspetto legato al contatto umano, alla voglia di stare in mezzo alla gente, di dialogare “fisicamente” con le persone. Quando lavoro dietro al bando e riesco a fare parlare tra loro due clienti, che fino ad minuto prima non si conoscevano, sento di aver svolto un importantissimo ruolo sociale che può dare il là a chissà quali sviluppi tra le due persone! E se poi alla fine uno dei due offre da bere all’altro e magari si scambiano i numeri di telefono, io mi sento realizzato. E se non si capisce questo, non si possono capire i valori che rendono l’Italia il numero uno al mondo in termini di ospitalità e accoglienza. Un patrimonio unico, irripetibile e che ci è invidiato da tutto il mondo! Ecco mi aspetto che esperti e politici, quando ipotizzano cambi epocali sui comportamenti delle persone, ne valutino interamente le ricadute, considerino le conseguenze sulla società tutta e agiscano come si consigliava una volta: “Prima di dar fiato alle trombe, conta mentalmente fino a dieci”.

«SE NON SI INTERVIENE SUBITO, L'AUTUNNO POTREBBE ESSERE FATALE PER MOLTE DELLE NOSTRE IMPRESE»

Giorgio Beltrami

Vice presidente FIPE Presidente Gruppo Pubblici Esercizi Ascom Confcommercio Bergamo

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va alla trattoria Bolognini non può perdersi le sue specialità più ricercate, come i salumi nostrani e il Cabernet, prodotti dall’azienda agricola di famiglia, e i formaggi della zona. «La ripresa ci sarà, a settembre, ma ci sarà, ne siamo convinti», è l’augurio della titolare.

tradizione e all’innovazione, oggi, a causa della pandemia, fatichi a ritrovare la normalità. «Quando abbiamo riaperto il 22 maggio, abbiamo servito un tavolo da due, la sera dopo eravamo al completo – fa presente Pesenti -. La ripresa è lenta, conseguenza di fattori economici e della paura, che hanno portato anche a un drastico calo del turismo. La preoccupazione non manca». I coperti sono una trentina, dieci in meno degli abituali. A pranzo si è deciso di tenere chiuso. Le misure adottate sono il controllo della temperatura, il “qr code” sul menù, la sanificazione. L’asporto è stato introdotto solo durante la chiusura. «A volte è sembrata una gara sui social, per noi è stato un modo per avere delle entrate, chi ti conosce ti cerca comunque per la qualità», afferma il titolare. Il reperimento della materia prima è fondamentale per Alessia che conosce nome per nome tutti i suoi fornitori e la loro filiera. Fiore all’occhiello è la carne di pecora gigante bergamasca, gustosa e delicata, allevata a erba, libera, in alpeggio, che la cuoca usa per polpette o serve come tagliata al sangue accompagnata da verdure di stagione saltate, cotta a bassa temperatura con marmellata di barbabietola, come cotoletta o per il ragù.

MENÙ TECNOLOGICO, DEHORS E RELAX ALL’ANONIMO DI DALMINE Sfogliare il menù come se si fosse al ristorante. All’Anonimo di Dalmine è possibile: a maggio il servizio delivery è stato rinforzato grazie a una app che funziona come una pagina web: sulla schermata appaiono i piatti che si possono ordinare comodamente da casa. «Il riscontro sia dell’asporto, sia delle consegne negli uffici è stato ottimo - spiega Massimiliano Anselmi -: una possibilità, per ora non attivata, consente di prenotare direttamente il tavolo». Massimiliano lavora a fianco del fratello Roberto, mentre la titolare della pizzeria ristorante è la mamma, Maristella Falcone. I coperti sono stati ridotti da 130 a 70, mentre all’esterno, grazie alla possibilità offerta dal comune di ampliare i dehor gratis, sono un centinaio. «I clienti hanno voglia di normalità, è un modo per esorcizzare la paura – spiega Anselmi -. Da noi sai che puoi goderti un paio di ore di buona tavola, in relax, all’aria aperta». Vale la pena provare la “Scrocchiarella experience”, che prima del Covid, era servita sul tagliere e che ora è proposta nell’alternativa tonda: da casa si può ordinare la base già spianata e battuta con gli ingredienti freschi per farcirla, a seconda del gusto richiesto. “Quello che le donne non dicono” contiene passata di datterino giallo, burrata, prosciutto cotto, ciliegino marinato al basilico, melanzana dorata, datterino giallo semi-secco e basilico. “Manco il tempo di una foto” ha fior di latte, crudo di Parma, rucola, ricotta fresca condita, datterino giallo semi secco, pomodoro semi secco e olive leccino. Un tutorial su YouTube spiega come assemblare gli ingredienti nella propria cucina.

EMPATIA E CORDIALITÀ A LA FARAONA DI S. PAOLO D’ARGON Condimenti monouso, gel igienizzante sul tavolo, tavoli e sedie sanificati, misurazione della febbre ai clienti e ai dipendenti a La Faraona di San Paolo d’Argon. E una situazione in progressivo miglioramento. «Ci sono domeniche di grande lavoro, altri giorni meno, è tutto molto altalenante – spiega il titolare Alberto Ferrari -. Il cliente è spaventato e incerto, viene da noi perché si fida, ci conosce e c’è un rapporto di fiducia consolidato nel tempo. Al centro torna a esserci lui, il suo piacere e la sua soddisfazione. Accoglienza, cordialità, servizio, ma soprattutto l’empatia sono i valori su cui stiamo costruendo il rilancio della ristorazione». Il locale è ampio e consente, con il distanziamento, una settantina di coperti, tra dentro e fuori. I cavalli di battaglia sono “La grande bellezza”, fantasia di mare crudo, cotto e alla griglia accompagnato da verdure di stagione. E le pizze prodotte con diversi impasti, anche per gli intolleranti al glutine. Potenziati i servizi di asporto e delivery, che si appoggiano a diversi portali per ampliarne la clientela. «Durante la chiusura, imposta dalla pandemia, non mi sono perso d’animo, anzi è stata un’opportunità per ristrutturare e riorganizzare il locale, guardando al futuro con ottimismo», aggiunge il titolare, che non ha chiesto finanziamenti agli istituti di credito e ha anticipato la cassa integrazione ai dipendenti. Resta chiuso il ristorante Il volo, sempre di Ferrari, collocato all’interno dell’Airport Hotel di Bagnatica, dove è servito il pasto in un contenitore monouso, che viene consegnato con i guanti e lasciato direttamente nelle stanze dell’albergo.

VICINI AL CLIENTE E AL TERRITORIO AL GIGIANCA DI BERGAMO A varcare la soglia dell’osteria “Al Gigianca” per gustare i migliori casoncelli della bergamasca era stato, quattro anni fa, Gualtiero Marchesi, in città per un servizio. Un giorno indimenticabile per la cuoca Alessia Mazzola, che ricevette i complimenti dal genio della cucina. Dal 2010 è la titolare, con Gigi Pesenti, della premiata officina gastronomica di via Broseta. Difficile immaginare come questo luogo, così legato alla

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Lo chef? È nell’orto di Laura Bernardi Locatelli

UNA TENDENZA IN ATTO NELLA RISTORAZIONE COSÌ SI CONTROLLANO QUALITÀ E GIUSTO GRADO DI MATURAZIONE E SI FA DISPENSA PER TUTTO L'ANNO CON CONSERVE E CONFETTURE

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a grande cucina si fa nel campo, come i grandi vini in vigna» sostengono come un mantra gli chef Alfonso e Ernesto Iaccarino. E a fare grande la cucina del Don Alfonso 1890, 2 stelle Michelin, sono i prodotti bio coltivati nell’azienda Le Peracciole. Sette ettari di terra a picco sul mare nella zona più selvaggia della penisola sorrentina garantiscono la maggior parte degli ortaggi al ristorante, oltre all’olio extravergine e ai limoni, esaltati nel liquore fatto in casa. Dal sole della costiera amalfitana si passa a un altro grande orto, nel paesaggio più aspro e struggente delle Langhe. Enrico Crippa del Ristorante Piazza Duomo di Alba, 3 stelle Michelin, ha messo anima e cuore nella creazione del suo orto nella Tenuta Monsordo Bernardina a Barolo, che gli assicura primizie e ortaggi. Ogni giorno lo chef seleziona personalmente verdure, erbe e fiori, capisaldi della sua cucina che da sempre esalta il mondo vegetale. L’orto ispira anche la cucina di Antonia Klugmann, per cui rappresenta una delle basi imprescindibili per una cucina di qualità. E così in

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aperta campagna, tra orti e frutteti, in una terra di confine, tra Italia e Slovenia, a L’argine a Vencò porta avanti la sua idea di cucina, tra erbe spontanee e ortaggi rari. L’elenco degli orto-chef, oltre ad alcuni dei più illustri esempi segnalati, si arricchisce di anno in anno. Farsi l’orto in casa, dietro il ristorante, è una tendenza in atto da anni nella ristorazione. La coltivazione diretta annovera tra i punti di forza l’esaltazione della stagionalità, il controllo assoluto della qualità e del grado perfetto di maturazione di ortaggi e -perché no- anche dei frutti per chi raddoppia con il frutteto. Una scelta che rappresenta un ulteriore passo avanti rispetto alla “cucina di mercato” da sempre sostenuta da Paul Bocuse. Perché l’orto-chef segue direttamente dalla finestra ciò che avviene nel campo e aspetta il momento migliore per raccogliere ortaggi e l’ultimo secondo per erbe aromatiche e fiori. Nel piatto si restituiscono tutti i profumi e i sapori dei prodotti della terra. E anche la fatica e la cura che sta dietro a ogni prodotto, dalla messa in dimora dei semi alla raccolta. Così si imprimono ricordi e suggestioni, sapori precisi e perfetti. Il ritorno alla terra porta con sè una riscoperta quasi ancestrale delle origini e rinnova l’attesa di raccogliere i frutti di quanto si è seminato, accettando anche i rischi e gli imprevisti che la natura offre, suo malgrado. Una metafora quanto mai attuale, in mesi difficili come questi, vissuti con lo spettro del Covid. Dedicarsi all’orto con il lockdown è stata l’occasione per la ristorazione green di coltivare qualità e preparare il terreno per la nuova stagione. Se il maltempo con le grandinate si è accanito duramente sulla Val Seriana, altrove la stagione è valutata da molti la migliore per raccolto degli ultimi vent'anni. Nella nostra provincia non mancano locali che hanno costruito la loro proposta attorno a orto e frutteto. Molti mantengono in vita colture dimenticate e antichi frutti. E, nella patria della polenta, c’è chi sceglie di coltivare da sè varietà autoctone di mais per farine d’autore.

AL GIUBÌ IN CUCINA E IN DISPENSA PRODOTTI BIO E FRUTTI ANTICHI Il Giubì di Almenno San Bartolomeo è un’autentica Osteria, forte di una tradizione che dura dal 1884, portata avanti da

Giuliano Locatelli

dell'azienda agricola, unitamente a ortaggi, frutta e confettura. Quest’anno la produzione va a gonfie vele: «Se il 2020 è stato un anno difficile e terribile per l’impatto della pandemia, per le coltivazioni in campo e i frutti è stata la migliore annata degli ultimi vent’anni» commenta Giuliano Locatelli, che segue tutta la parte agricola, pronto a fornire primizie e i migliori frutti della terra al ristorante, gestito dai fratelli Giuseppe e Gabriele, rispettivamente oste e chef del Giubì. Cascinetto d’Agro produce inoltre vini Igt, che rendono omaggio, nella scelta dei nomi, ai figli del patròn-contadino. “Edoardo” è ricavato dalle uve trentine Marzemino, Rosso Campinetto è invece un incrocio tra il Cabernet Sauvignon e Incrocio Terzi mentre il vino bianco, “Bianco di Beatrice” (la primogenita), è un incontro tra le uve Manzoni e Moscato Giallo.

ALLA CORTE DEL NOCE L'ORTO HA L'HASHTAG

Le colture del Giubì

cinque generazioni dalla famiglia Locatelli. Da sempre il ristorante, all’ombra del complesso romanico di San Tomè, conta sui prodotti dell’orto e su una campagna di cinque ettari complessivi. La coltivazione è rigorosamente bio: negli anni ‘90 il Giubi’ ha fatto da pioniere del biologico e l’azienda Cascinetto d’Agro ha ottenuto nel 2002 la certificazione. Da oltre dieci anni è segnalata dalle principali guide, a partire da Slowfood. Dai primi anni Novanta alla coltivazione si affianca la produzione di vini biologici e confetture. È una delle poche aziende rimaste a coltivare i lamponi dell’Agro di Almenno, piccoli frutti dal gusto sorprendente, e da sempre è impegnata nella riscoperta e valorizzazione di antiche colture. Gli alberi di gelso continuano qui a donare i loro ormai rari frutti, mentre con sambuco, ribes nero, pirole (pere autoctone) e mele cotogne si realizzano ottime confetture. Susini e ciliegi completano il frutteto. Il ristorante può contare sui migliori prodotti di stagione che la terra offre: in campo ci sono oltre sei varietà di pomodori, da quelle più rare come i crispini ai classici datterini e cuore di bue, rosa e ligure. Anche il mais arriva dai campi: parte della terra è dedicata alla coltivazione di mais rostrato rosso di Rovetta, utilizzato per produrre un'ottima farina per la polenta, che non manca mai in nessun mese dell'anno nel menù del Giubì. La natura fa il suo corso: le zucche striscianti tappezzano il terreno e i fagioli borlotti rampicanti seguono le altre colture, in perfetta armonia. Le patate rosse sono insostituibili per preparare gnocchi perfetti e cavolfiore, cavoli e verze sono alla base dei piatti tradizionali del territorio. Tutte le conserve di pomodoro sono preparate in casa. E le primizie di stagione vengono messe sott’olio per accompagnare gli antipasti del ristorante e i classici taglieri. All’immancabile giardiniera di verdure si affiancano composte più ricercate, come quella di zucca e scorza d’arancia, che viene venduta anche nello spaccio

10 luglio-agosto-settembre 2020

La Corte del Noce è un ristorante immerso nel verde nel cuore dello Sporting club di Villa d’Adda, tra piscine e campi da tennis. Dal 1983 è gestito dalla famiglia Foresti. Grazie alla passione per la campagna di papà Pietro, il ristorante conta da quasi quarant’anni su un orto di circa mille metri quadri. La sua cura è ora affidata a un collaboratore, che garantisce la rotazione delle colture e la fornitura di buona parte di ortaggi e primizie al ristorante. La cucina del locale, gestito dal 1999 da Graziano Foresti (figlio di Pietro), affian-

cato in sala dalla moglie Mina Patuelli, è incentrata su una proposta di terra, lago e mare. Non mancano piatti e specialità vegetariane. Per esaltare in cucina i prodotti della terra in carta c’è il piatto #l’orto, che con tanto di hashtag, valorizza sin dall’antipasto, le primizie coltivate fuori dalla porta della cucina. Il piatto si compone di melanzane leggermente grigliate e riempite con ricotta profumata al basilico, zucchine con pesto di pomodoro secco, pomodoro ramato in falde con mozzarella e concassè di zucchina e fiori di zucca con mozzarella e zucchine trombetta. Sempre in carta, con tutto il sapore dell'estate, zucchine alla scapece e melanzane alla brace. Oltre alla classica conserva di pomodoro, buona per fare dispensa, il locale produce una mostarda di pomodori verdi per accompagnare i formaggi. La produzione è limitata ma assicura alcuni prodotti eccezionali in cucina: «Non potrei fare a meno di erbe aromatiche, fiori, zucche e pomodori verdi per le composte d’abbinare ai formaggi» spiega Graziano Foresti. Nell’orto vengono coltivati direttamente fiori eduli come nasturzio e primule, utilizzati come decorazione, tutta da gustare per i gourmet. Tra le erbe aromatiche, alle insostituibili in cucina (prezzemolo, basilico, timo, erba cipollina ) si affiancano la ruta e la melissa. Lamponi e fragole, tra i piccoli frutti, vengono utilizzate per dessert. In estate, in campo trionfano zucchine, pomodori, melanzane. Le zucche d’autunno e cavolfiori, verze, cavoli viola e bianchi assicurano per l’inverno la fornitura base per la preparazione di piatti della tradizione lombarda, sempre rivisitata con gusto.

Graziano Foresti con la moglie Mina Patuelli

11 luglio-agosto-settembre 2020


ALLA TRATTORIA VISCONTI LA TRADIZIONE È A METRO ZERO La trattoria Visconti di Ambivere è un tempio della cucina locale, con l’interpretazione di ricette tradizionali del territorio, a “metro zero”, dai campi di mais al frutteto, dall’orto all’aia. Il ristorante è stato premiato quest'anno con l'ambita chiocciola di Slowfood nella Guida Osterie d'Italia per la valorizzazione dei sapori della tradizione del luogo. L’orto affianca da sempre il ristorante per assicurare tutto l’anno la fornitura di verdure. Fu il “pallino” del bisnonno, Leone, che negli anni Trenta avviò la coltivazione di insalate, spinaci, patate, carote, verze, sedano, pomodori, melanzane e peperoni. Ingrediente fondamentale per ogni piatto in menù è la verdura coltivata direttamente accanto alla trattoria: un orto "antico", che conta su un terreno di 2 mila metri quadri, vivo da generazioni, che ospita varietà di ortaggi che si alternano nelle stagioni (patate, varietà di pomodori, melanzane, zucchine, cavoli, verze, insalate, coste, erbette, porri, peperoni, zucche, fagiolini, piselli, fagioli, cipolle, scalogno). Ogni stagione, l’orto si arricchisce e durante la chiusura forzata per l’emergenza sanitaria, la cura dei campi si è intensificata. Tra le aromatiche, coltivate direttamente fuori dalla porta della cucina per assicurare un approvvigionamento espresso e conservarne tutti i profumi, hanno trovato nuovo spazio erba San Pietro e borragine, utilizzate per il ripieno di ravioli. Con l’estate, l’orto raggiunge la sua massima espressione: in campo ci sono trenta varietà solo di pomodori. Tra i piatti, in carta in questo momento, le polpettine con zucchine accompagnate da caponatina dell’orto: la ricetta (che riportiamo a lato) conquistò Papa Giovanni durante una sua visita a Mapello. In menù anche l’insalata di inizio estate con fiori, frutti e semi dell’orto; da non perdere il risotto con zucchine, con i loro fragranti fiori. La polenta con mais a metro zero accompagna tutti i secondi piatti. A fianco dell'orto c'è infatti spazio per un piccolo appezzamento per la varietà autoctona di mais rostrato rosso dell’Isola, coltivato da vent’anni, e utilizzato per la produzione della farina per l’immancabile polenta e per la preparazione di alcuni dolci. La varietà rinominata “Ambivere”,

TRADIZIONI

classificata dall’Istituto di cerealicoltura, è entrata nella banca del Germoplasma di mais e ha portato alla riscoperta e al rilancio delle pannocchie dell’Isola. L’orto e il frutteto sono un’insostituibile ricchezza anche per la produzione di conserve e confetture che arricchiscono tutto l’anno la dispensa. Oltre al loro impiego immediato in stagione, le verdure vengono utilizzate spesso sotto forma di conserve che ne consentono la degustazione anche nei mesi più freddi. Tra queste, a disposizione anche in vendita, la giardiniera nei vasetti, conservata rigorosamente in olio extravergine d’oliva. Le verdure in agrodolce, preparate in casa, accompagnano da sempre l’antipasto del Visconti. E, fuori dal ristorante, c'è posto anche per un piccolo frutteto con marasche, susine, cachi, fichi, nespole, lamponi, fragole, more, kiwi, ribes. A fianco dell’orto, adiacente al giardino estivo del ristorante, trova spazio anche, come nelle antiche aie, il giardin pollaio, con polletti ruspanti e conigli.

Tuberi e rape nell'orto bergamasco

LA RICETTA AMATA DAL PAPA BUONO

POLPETTINE DI ZUCCHINE DELL’ORTO

Monsignor Roncalli, non ancora divenuto Papa, in visita alla vicina parrocchia di Mapello, dopo aver assaggiato le polpettine di zucchine preparate dai Visconti, si volle informare di chi avesse cucinato questa prelibatezza. Rivolgendosi alla cuoca esclamò: «Ricordati, si è grandi anche nelle cose semplici». La ricetta, che risale agli anni Quaranta, è racchiusa nei taccuini della Trattoria Visconti. Ingredienti per 4 persone 3 800 g zucchine 3 100 g di pane grattuggiato 3 100 g di Parmigiano 3 2 uova 3 8 amaretti sbriciolati 3 sale

3 farina 3 olio extra vergine 3 un mazzetto di prezzemolo, maggiorana ed erba cipollina tritati 3 2 scalogni

Procedimento Rosolare lo scalogno con un cucchiaio d’olio, poi buttare in padella le zucchine tritate a fiammifero e cuocerle per 15 minuti. Lasciare sgocciolare in un colapasta e versare in una terrina aggiungendo il pangrattato e il parmigiano, le uova, le erbe aromatiche e gli amaretti. Dopo aver amalgamato il tutto, formare delle piccole polpette e passarle nella farina. In una pentola antiaderente versarvi dell’olio che copra il fondo e adagiare le polpette. Farle colorire da entrambe le parti e una volta cotte, toglierle ed asciugarle con carta assorbente. Servire calde ma sono ottime anche appena raffreddate.

Giorgio Caccia e Fiorella Visconti nel loro orto

12 luglio-agosto-settembre 2020

L

ungo i secoli l’orticoltura ha rappresentato un’attività economica dalla duplice valenza. Da un lato, soprattutto nel contado, è stata uno dei pilastri storici del regime di autoconsumo per le popolazioni rurali. Dall'altro lato, a questa funzione si è successivamente affiancata quella più orientata al mercato. A partire dal medioevo, i punti di contatto tra le due partizioni si sono fatti progressivamente più radi: la coltivazione degli ortaggi annessi alle dimore coloniche è stata esclusivamente utilizzata per il sostentamento delle famiglie degli affittuari, delegando il rifornimento del commercio ai soli orticoltori professionali. Questa profonda segmentazione ha lasciato una chiara impronta nella storia agroalimentare di Bergamo. Per secoli l’orticoltura orobica rivolta all’autoconsumo ha fatto perno sulla coltivazione di tuberi, radici e bulbi e grazie ad una sapiente opera di ibridazione se ne sono selezionate varietà anche di pregio. È questo il caso delle rape di Orezzo e di Bossico, dalla polpa immacolatamente candida e dall’impareggiabile dolcezza, o della cipolla piatta bergamasca, la cui vena suadente viene esaltata dal suo consumo anche a crudo in insalata. L’aglio, frammisto a mandorle peste ed a mollica di pane ammollata nel brodo, costituiva invece la base di una salsa denominata agliata, della cui invenzione nel cinquecento l’eclettico poligrafo Ortensio Lando rendeva credito a tale Dorotea Prisca da Bergamo. Costei - secondo l’eccentrico letterato - “fu anche la prima che frigesse l’aglio e con l’aceto sel mangiasse”. E con l’agliata, soggiungeva ancora il Lando, si usava insapo-

rire la rapa tagliata a fettine e saltata in padella. Una versione modernizzata del condimento - arricchito da erbe aromatiche, capperi e polpa di acciuga - si affacciava anche nel ricettario del Cocho Bergamasco. Anche in questo caso l’intingolo veniva abbinato alle rape, dando lustro ad una delle più antiche affinità elettive riscontrabili nella gastronomia orobica. L’orticoltura rivolta al mercato cittadino ed alle classi più abbienti ha invece abbracciato, sin da tempi relativamente antichi, una gamma di produzioni di più elevato profilo. Indivie e lattughe, antesignane della celebre scarola dei colli di Bergamo, dovevano costituire una presenza regolare soprattutto sulle mense cittadine e padronali, dato che l’olio d’oliva con cui venivano condite ha rappresentato per parecchi secoli un articolo di gran lusso. Spinaci, biete da taglio ed altre erbette avevano sicuramente ampia diffusione, tanto che gli incartamenti contabili settecenteschi del Convitto Mariano di Bergamo ne prevedevano l’acquisto in gran copia per approntare dei gattò d’erbe arricchiti da formaggio fresco, uova, scorza candita di cedro ed addirittura dallo zucchero. A partire dal XIX secolo l’orticoltura bergamasca ha infine abbracciato la coltivazione di pomodori e peperoni. Ha in particolare distinzione il peperone verde “a sigaretta” di Bergamo, le cui origini forestiere vengono temperate in cucina attraverso il tradizionale abbinamento ad un ingrediente inequivocabilmente nostrano quale il formaggio. Purtroppo la semenza originaria della varietà è ormai quasi scomparsa, e sarebbe assai opportuna un’azione di recupero per assicurarne la sopravvivenza.

13 luglio-agosto-settembre 2020


IL 59% DELLE IMPRESE NE HA FATTO RICORSO MA SOLO IL 4,4% RILEVA UNA CRESCITA

Pranzi e cene a domicilio Spopola il food delivery

Crescita a tre cifre oltre +250% e con il lockdown boom di gelato +400% La crescita del food delivery a Bergamo, prima del Covid, era già anche a tre cifre. È il caso di Deliveroo, tra le principali company di consegna cibo a domicilio, con 80mila ristoranti-partner nel mondo, oltre 9 mila in Italia, che a Bergamo segna una crescita del +254,9% degli ordini (dato di febbraio 2020), un balzo inferiore alla vicina Lecco (+267,4%) e a Brescia ©Deliveroo

di Laura Bernardi Locatelli

CRESCITA OLTRE +250% BOOM DI GELATO +400%

14 luglio-agosto-settembre 2020

I

l cibo a domicilio entra a pieno titolo nel nuovo paniere Istat 2020 e conquista anche Bergamo. Il food delivery ha rappresentato nei due mesi di lockdown, dal 12 marzo al 18 maggio, l’unica forma possibile di lavoro per bar e ristoranti. Una scelta, nella maggior parte dei casi, dettata dalla volontà di mantenere, anche se a distanza, un contatto con la clientela più affezionata, ma anche prestare un insostituibile servizio alla comunità. Food delivery e asporto - come emerge da una recente ricerca presentata da Ascom Confcommercio Bergamo- sono stati utilizzati durante il periodo del lockdown dal 59% delle imprese (prima dell'emergenza erano il 43%), ma dopo il periodo di stop forzato il 27% dei nuovi esercizi ha sospeso il servizio. E, tra coloro che proseguono l'attività, registrano una crescita solo il 4,4% delle imprese. Da ben prima dell’emergenza, a Bergamo e nei comuni più grandi della provincia sono attive tutte le principali compagnie di food delivery, che hanno trovato a questa latitudine una piazza interessante di pubblici esercizi, che cresce di continuo e senza sosta. E che, grazie alle piattaforme, ha potuto incrementare il fatturato, da un minimo del 10% fino al 30% in media (il dato è riferito a condizioni di lavoro “normali”, prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria). Il numero di affiliati è in continua ascesa, come la clientela che sceglie di ordinare piatti pronti tramite app o pc. E nelle vie del centro è sempre più frequente imbattersi nei riders impegnati a effettuare consegne in bici o in moto nel minore tempo possibile. «Il food delivery ha rappresentato durante il lockdown l’unica possibilità di dare un servizio alla propria clientela- sottolinea Petronilla Frosio, presidente del Gruppo Ristoratori Ascom- . Ma i numeri sono ancora bassi e i margini ridotti dalle commissioni richieste dalle piattaforme. Nulla può sostituire il piacere di ritrovarsi a tavola nei nostri ristoranti». (+336,6%). In Lombardia Deliveroo collabora con circa 3mila riders e 3mila ristoranti che in media – secondo i dati forniti dalla company- sono così riusciti a incrementare il proprio fatturato di circa il 30%. A Milano il servizio è attivo dal 2015, a Bergamo e nelle altre province lombarde è sbarcato tra il 2018 e il 2019 e questo spiega le percentuali fisiologicamente più alte. « Dopo un anno di grande espansionecommenta Matteo Sarzana, general manager di Deliveroo Italia- puntiamo, non senza un grande sforzo organizzativo, su un'ulteriore crescita per creare nuove opportunità di sviluppo nel territorio». Quanto alle specialità più ordinate su Deliveroo, spopolano gli hamburger, seguiti da poke hawaiano e dalla classica pizza. Glovo, la piattaforma internazionale di “anything delivery” presente con oltre 5mila partner in oltre cento città italiane, è sbarcata a Bergamo a febbraio 2019 e da allora ha messo a segno una crescita costante, segnando un +180% di ordini negli oltre 100 locali partner in un anno (in Italia la crescita nel 2019 rispetto al 2018 è ancora più alta, con + 247%). Le tre principali preferenze dei bergamaschi in campo food sono l’hamburger, seguito da specialità della cucina italiana e dalla pizza. Le richieste di

©Just Eat

©Carolina Isella

DURANTE IL LOCKDOWN È STATA L’UNICA POSSIBILITÀ PER MANTENERE IL SERVIZIO ALLA CLIENTELA

gelato hanno segnato un boom con il lockdown, crescendo-complice anche l’arrivo della bella stagione- di oltre il 400%. «Fin dall’inizio dell’emergenza abbiamo cercato di sostenere il settore della ristorazione, che ha vissuto un momento di particolare difficoltà - dichiara Elisa Pagliarani, General Manager Glovo Italia- I nostri servizi, divenuti essenziali, hanno inoltre avvicinato numerose “nuove” realtà, tra cui molti ristoratori locali che hanno scelto di rivolgersi a noi e di intraprendere la sfida del delivery. La nostra piattafor-

15 luglio-agosto-settembre 2020


©Carolina Isella

ma vuole accompagnare i cittadini a una riscoperta delle abitudini quotidiane, il tutto nel massimo rispetto delle normative di sicurezza, per la tutela di rider, ristoratori e clienti». Anche Just Eat, piattaforma leader per gli ordini di cibo con 240mila ristoranti nel mondo e oltre 12.500 in Italia, continua a crescere. In città, provincia inclusa, ci sono (febbraio 2020) oltre 130 locali per una crescita del + 30% e una presenza in 52 comuni. Dopo Bergamo, i comuni più attivi per numero di ristoranti sono Treviglio, Dalmine e Stezzano. In Lombardia su Just Eat sono presenti oltre 2.500 ristoranti partner con crescita del 20% in 12 province e 336 città. Le cucine più ordinate e preferite sono, in ordine: pizza, giapponese, hamburger, pollo, cinese, piadine, indiano, panini e dessert. Per quanto riguarda invece il trend di crescita, la piattaforma rileva nella nostra città sia un aumento in termini di apprezzamento e utilizzo del food delivery dagli abitanti che una crescita di scelta del digitale da parte dei ristoranti. Tra le cucine che crescono di più, quelle che propongono pollo, pizza e specialità giapponesi. In aumento anche hamburger, piadine e panini, mentre in Lombardia spopolano poké hawaiano, bao (panino ripieno al vapore) e ravioli e cresce il messicano. «Bergamo continua a rappresentare una realtà dinamica su cui vogliamo continuare a investire per essere sempre più vicini ai nostri clienti» commenta Daniele Contini, country manager di Just Eat.

Andrea Cologni e Ylenia Agate di Fudbox

E C'È ANCHE L'APP MADE IN BERGAMO

Dal 2017 Bergamo ha un'app tutta locale per la consegna di cibo a domicilio. Matteo Carrara, 26 anni, ragioniere, ha deciso di lasciare il suo lavoro da dipendente, per creare una rete di locali e ristoranti e gestire per loro take away e consegne. «L'idea- raccontaè nata guardando allo sviluppo che all'estero e nelle città più grandi stava avendo il food delivery. Così ho aperto il primo portale, Flying food, dalla cui esperienza e evoluzione è nato l'attuale Flash Delivery». Il portale e la relativa app contano su circa 30 locali affiliati in esclusiva, una dozzina di fattorini e oltre 1500 consegne al mese. I numeri, anche se piccoli rispetto ai big, sono in continua crescita: «A differenza delle piattaforme internazionali che puntano a numeri e grandi catene, privilegiamo una ristorazione di qualità, con cui siamo in costante contatto e con cui negli anni abbiamo consolidato un rapporto di fiducia» spiega Carrara. Quanto agli ordini, vince il sushi, seguito da pizza e hamburger. E con il lockdown esplode la voglia di gelato e incrementano ordini e affiliati. «Lavoriamo soprattutto la sera e nei week-end- continua il titolare di app e sito-, anche se non mancano gli ordini in pausa pranzo. I nostri clienti abituali sono piccoli gruppi di amici e famiglie con bimbi piccoli».

IL TEST IN REDAZIONE

Per testare l'efficienza del servizio, per un mese in redazione, nella sede Ascom di Via Borgo Palazzo, abbiamo testato via app e pc le principali company di food- delivery presenti in città.

Nella quasi totalità dei casi il servizio è stato onorato nel migliore dei modi, anche se non senza qualche dimenticanza o imprecisione. I tempi di consegna- a nostro avviso la principale discriminante per valutare l'efficienza del servizio, specialmente in pausa pranzo- sono stati quasi sempre rispettati. In un solo caso, il ritardo è stato presto perdonato non solo dalle scuse del rider, ma dall'omaggio di biscotti fatti in casa, consegnati in pacchi monoporzione. In due ordini non sono state incluse le posate che avevamo richiesto. I piatti sono arrivati in tavola in quasi tutti i casi a temperatura ideale. Abbiamo apprezzato la scelta, adottata da tutti i locali, di ricorrere a packaging sostenibile. In due casi i locali hanno optato per l'alluminio, scelta comunque “green” dato che risulta riciclabile al 100%, ma su cui resta ancora controversa la possibilità o meno di riscaldare all'occorrenza le pietanze al microonde.

maggiorati rispetto a quelli praticati nei locali, per andare a recuperare - anche se non totalmente, pena la proposta di prezzi poco concorrenziali - le commissioni richieste dalle company, che vanno dal 15 al 35%. Quanto ai dati, le catene in franchising sono restie a fornire informazioni, come i locali etnici, ma tra le insegne indipendenti emerge un incremento costante che va da un minimo del 10% mensile a oltre il 20% (dato riferito a prima dell’emergenza, in condizioni di lavoro normali). Con il lockdown il food delivery ha consentito, dopo un primo mese di assestamento, di mantenere utili e fatturato. Ma soprattutto di rafforzare il legame con la clientela. È il caso di Fudbox, chiosco di hamburger a prova di gourmet dal 2014 in Piazzale Oberdan. «La spinta a non fermarci è arrivata anche dai messaggi dai nostri clienti- spiega Andrea Cologni- . Non abbiamo mai ricevuto tanti ringraziamenti e telefonate, molte davvero commoventi. Ci piace pensare di aver portato con i nostri hamburger un piccolo assaggio di normalità in mesi durissimi». Il chiosco di fatto non ha mai chiuso e in pausa pranzo ha allargato il giro di clientela alla provincia: «Abbiamo consegnato anche a Dalmine, Stezzano e altri comuni dell’hinterlandcontinua-. L’avere già da tempo sperimentato il delivery ci ha agevolato parecchio, anche perchè in alcuni momenti c’è stata difficoltà anche di reperire packaging e quant’altro». Gli

hamburger di Fudbox sono sempre più richiesti la sera e nei week-end: «Contiamo su una clientela fidelizzata che spesso ci chiama direttamente per gli ordini. Abbiamo scelto di affidarci esclusivamente a app locale, Flash Delivery, per la garanzia di un rapporto diretto e assistenza costante con il gestore, oltre che per commissioni più contenute rispetto ai colossi internazionali. E anche i “riders” sono un gruppo di ragazzi che lavora in modo continuativo». Anche Masterfruit, juice-bar con cucina improntata a salute e benessere, aperto dai fratelli Andrea e Luca Gori nel 2015 in Via Pignolo, ora dal 2017 in Via XX Settembre, rileva una crescita delle consegne, per cui si affida a Deliveroo. «Gli ordini valgono in media il 10% mensile- spiega Andrea Gori-.Non abbiamo rilevato aumenti significativi con il lockdown, se non in concomitanza con promozioni. Le consegne si concentrano in pausa pranzo. Tra i piatti preferiti le bowl, piatti unici con pesce, pollo o veggie, schiacciate e wrap, oltre a insalate, centrifughe e primi piatti». Tra i clienti affezionati studi e uffici del centro, ma si consegna sempre più a casa. Tra le insegne in franchising, da Mi Scusi, specializzata nella proposta di pasta, nonostante il riserbo su dati e incidenza del food delivery sul fatturato, sottolineano come «i valori di condivisione e famiglia siano insostituibili, per cui l’esperienza in store è sicuramente quella che i nostri clienti preferiscono».

IL PUNTO DI VISTA DEI RISTORATORI

Abbiamo contattato i locali che, attraverso le piattaforme di food delivery, ci hanno consegnato i loro piatti in redazione, per capire quale sia l’impatto del “take away 4.0” non solo sull’incremento del fatturato ma anche sulla gestione e organizzazione del loro lavoro di tutti i giorni. Tutti i locali hanno la possibilità di decidere la finestra di orario in cui effettuare le consegne e, in città, sono molti a decidere di puntare esclusivamente sulla fascia serale, escludendo così la pausa pranzo. In generale, i prezzi sulle piattaforme di food delivery sono leggermente

16 luglio-agosto-settembre 2020

Andrea e Luca Gori di Masterfruit

DELIVERY E COMMERCIO SOTTOCASA CON #COMPRAVICINO

L’emergenza sanitaria ha cambiato notevolmente i momenti di quotidianità di molti, come fare la spesa, andare al ristorante e fruire di servizi commerciali, come rilevato dalla ricerca Ascom. In pieno lockdown, Ascom ha supportato i negozi con il portale Compravicino (www.compravicino.com), che ha raccolto gli esercizi commerciali che effettuavano consegne gratuite a domicilio e i relativi recapiti telefonici, fornendo un importante aiuto per gli acquisti di tutti i giorni di beni alimentari e di prima necessità. Dall'esperienza positiva del sito (che ha raccolto oltre 1200 adesioni in città e provincia) nasce una nuova App, pronta a incentivare il commercio di prossimità. Ascom Confcommercio Bergamo e RuneLab (azienda specializzata in processi di trasformazione e digitalizzazione), hanno messo in campo le loro competenze e raccolto le esigenze delle imprese del territorio per sviluppare l'applicazione #Compravicino. L'App, attiva a breve, è gratuita e non prevede il pagamento di commissioni sulle consegne per tutti gli operatori del commercio che si affacciano al modo del commercio online. Tramite l’App è possibile creare la propria vetrina virtuale ed essere trovati in maniera semplice e comoda dai clienti, che a loro volta potranno inserire e inviare al negoziante la propria lista della spesa. L'App è stata realizzata e messa a punto dall'azienda digitale bergamasca RuneLab, con quartiere generale a Seriate.

17 luglio-agosto-settembre 2020


L’INTERVISTA

IL MUSICISTA BERGAMASCO RACCONTA CHE COSA HA SCOPERTO DI SÉ E DEGLI ALTRI IN QUESTI MESI DI SOFFERENZA

L

a sua “Rinascerò, rinascerai”, realizzata con Stefano d’Orazio, è una melodia terapeutica che fa bene e infonde forza. Questo è il compito della musica secondo Roby Facchinetti: dare conforto, sogno, evasione, anche se per poco, da una tragica realtà. Il musicista bergamasco ci racconta come è nato il suo ultimo successo e ci parla anche della rinascita a tavola. Nato da sua famiglia semplice, il cantante è nipote d’arte: il nonno era compositore e direttore di un coro polifonico. Il piccolo Camillo - suo vero nome - ha iniziato a suonare a quattro anni un organetto a bocca. A sei Roby prendeva lezioni di fisarmonica. Il piano lo ha folgorato a dieci anni. E già a undici componeva sulla tastiera. L’incontro con i Pooh, fondati a Bologna da un’idea di Valerio Negrini, è avvenuto nel 1966: gli proposero di sostituire il tastierista inglese Bob Gillott. Facchinetti entrò nel gruppo, mancando solo il loro 45 giri d’esordio. Ne sarà il compositore principale e, dal 1974, con brani quali “Credo” e “Oceano”, anche la voce solista più riconoscibile, capace di marchiare brani senza tempo, molti peraltro scritti da lui con Negrini come “Dammi solo un minuto”, “Chi fermerà la musica”, “Non siamo in pericolo”, “Uomini soli”. Accanto alla carriera artistica, c’è la famiglia, da quasi trent’anni sostenuta da Roby e dalla moglie Giovanna e con cinque eredi: Alessandra, Valentina, Francesco, Roberto e Giulia. E sei nipoti. E ci sono l’amore per la buona cucina e la passione per i vini.

Roby Facchinetti:

«Orgoglioso della mia gente che ha dimostrato carattere e dignità» di Rosanna Scardi

18 luglio-agosto-settembre 2020

soccorso del Papa Giovanni, stravolto in poche ore da decine di malati e con il personale medico costretto a improvvisare. Non si sapeva come curare i pazienti. Non c’erano neppure le mascherine. Un dramma che resterà nella storia dell’umanità. Veniamo al brano “Rinascerò, rinascerai”, un’operazione benefica dai proventi, sia dei download, sia dei diritti d’autore ed editoriali, destinati tutti al Papa Giovanni. È diventato l’inno italiano contro il Coronavirus. Come è nato? Dopo aver visto le prime immagini dei furgoni che trasportavano le salme dei miei concittadini, mi sono messo al piano e in pochi minuti, per magia, sono nati la melodia e il titolo. Ho chiesto a Stefano D’Orazio, che per oltre trent’anni ha vissuto a Dalmine, di scrivere il testo. Decisivo è stato il supporto di mia moglie, Giovanna, volontaria per Abio, Associazione che opera nel reparto oncologico infantile e che ha fatto da ponte con il dottore Stefano Fagioli, il direttore del dipartimento di Medicina, che aveva lanciato il videomessaggio di aiuto in inglese. È stato lui a coinvolgere il personale medico del Papa Giovanni che appare con il foglio con la scritta “Rinascerò, rinascerai”. Nel filmato si vedono anche il mister dell’Atalanta Gian Piero Gasperini, i giocatori Ilicic e Zapata, la sciatrice e campionessa olimpica Sofia Goggia, mio figlio Francesco, l’attore Giorgio Pasotti, la modella e influencer Paola Turani, il Vava, che ha curato i cori e il montaggio con Antonio Iorio. La canzone è anche la colonna sonora di un video, realizzato dalla Croce Rossa Bergamo Hinterland, che ripercorre le fasi più critiche della pandemia. Nei cinque minuti di immagini, dove presto la mia voce per i ringraziamenti a quanti si sono impegnati nell’emergenza, si vedono i soccorritori al lavoro.

Facchinetti, come ha vissuto questo difficilissimo periodo? Come tutti, in modo molto pesante, tragico e spaventoso. Bergamo è stata la città più colpita dal Covid-19, diventata famosa nel mondo come la Wuhan occidentale. L’incubo è stato davanti alla nostra porta di casa. Avevamo perfino paura di aprire le finestre. Allo stesso tempo, sono orgoglioso della mia gente, che ha dimostrato carattere e dignità, pur non avendo mai voluto essere conosciuta per questa disperata situazione. L'augurio è che possa esserci un rilancio a livello turistico. Alcuni miei amici milanesi si sono ritrovati nella nostra città e mi hanno confidato di essersi commossi mentre passeggiavano al pensiero di quello che abbiamo passato, un massacro. Nella provincia bergamasca sono seimila le vittime del Coronavirus, di cui 670 nel solo capoluogo. Ma è risaputo che il numero reale è di gran lunga maggiore poiché non tutti sono stati sottoposti al tampone. Ha perso amici o parenti? Purtroppo sì. Ci hanno lasciato due cugini, il marito di una cugina, il pediatra dei miei nipoti, due miei collaboratori e amici. Ma non dimentichiamoci di imprenditori, medici di base, infermieri, sindaci, persone comuni. Il virus ha colpito indistintamente tutti, anche i giovani. E ci ha impartito una lezione di vita che non dimenticheremo: da un momento all’altro, ogni certezza può essere messa in discussione. Così è accaduto al pronto

Il video di “Rinascerò, rinascerai” solo su YouTube è oggi a quota 16 milioni di clic. In più ci sono le tante versioni in inglese, francese, greco, romeno, polacco, perfino in coreano e vietnamita. Ma i compensi non sono all'altezza. Ci spiega? È così, li definisco ridicoli, umilianti. Mortificano la creatività, bloccano quella delle nuove generazioni. L’Europa ha impartito delle direttive per ogni nazione che costringono i signori

19 luglio-agosto-settembre 2020


in cantina ho allineate oltre 2.500 bottiglie, prevalentemente da invecchiamento, o provenienti da produzioni minori, ma di grande pregio. Mi piacciono i rossi regionali, il Moscato di Scanzo, l’Amarone della Valpolicella, il Negramaro pugliese, il Primitivo di Manduria. Prima o poi berrò tutte le mie bottiglie (dice Roby, ridendo): ma solo con gli amici e ovviamente senza mettere mai a repentaglio la lucidità dell’ispirazione. Si considera un salutista? Mi piace mantenermi in forma, anche a tavola. Amo degustare, al ristorante vado per assaggiare ed è la prima cosa che faccio sapere allo chef. Mi piace provare tutto, fermarmi un passo indietro e alzarmi da tavola con un filo di appetito, mai appesantito. E sono un gran camminatore: riposo, movimento e saper mangiare poco e bene sono le tre condizioni per vivere meglio e più a lungo.

Scatti di famiglia

di piattaforme, come iTunes, Spotify YouTube, che incassano miliardi, non pagando tasse in Italia, a dare un equo compenso. Chiediamo al governo italiano che siano rispettate tanto più che il nostro Paese è la culla della cultura, del canto, della musica. È questa poteva essere l’occasione per dare un segnale: questi big dello streaming hanno perso l’opportunità per compiere un bel gesto che avrebbe avuto un ritorno a livello di immagine. In compenso, la Siaie ha rinunciato a tutti i proventi, annunciando fin da subito, attraverso il suo presidente Mogol e il direttore generale Gaetano Blandini, che, per la prima volta, non incasserà le sue provvigioni, aumentando quindi i guadagni che arrivano da “Rinascerò, rinascerai”.

La tavola è un piccolo mondo in miniatura: tantissimi momenti importanti della nostra vita si svolgono durante un pasto. E d’accordo sulla sua importanza? Eccome. Vengo da una famiglia numerosa, così come lo era quella dei miei nonni. Ci è sempre piaciuto riunirci a pranzo. Vedere figli e nipoti davanti alle pietanze è nel mio Dna e guai se non fosse così. A casa festeggiamo un compleanno al mese. La difficoltà è nell’andare fuori, nel riuscire a trovare un ristorante che permetta ai Facchinetti, che a pieno regime sono 20 persone, di godersi la compagnia, restando defilati. Se potesse scegliere, chi vorrebbe avere a cena? Paul McCartney e Mick Jagger, pionieri indiscussi, che non hanno più nulla da dimostrare al mondo, eterni rivali, anche oggi. Chissà quanti aneddoti potrebbero ripercorrere loro che hanno fatto la storia del rock. Ma una cena non basterebbe.

La rinascita avviene anche a tavola, simbolo di unione e convivialità. Qual è il suo piatto preferito? Bado molto alle materie prime che devono essere di assoluta qualità. Meglio se a chilometro zero. In questo periodo, ho apprezzato il riso più della pasta, un prodotto che può essere gustato in mille modi, anche solo bollito, condito con olio extravergine d’oliva e una grattugiata di Parmigiano Reggiano o Grana (che apprezzo anche sugli asparagi con le uova). Al ristorante ti servono mille portate, a me basta un buon risotto, un piatto unico e completo, meglio se al Barolo, con le verdure, alla milanese, con i friarielli, altro prodotto stagionale straordinario. Non amo i piatti troppo elaborati o con eccessivo condimento. Il burro, a casa mia, per esempio, è usato pochissimo. Il risotto deve avere un equilibrio, si deve adagiare sul piatto, grazie a una cottura perfetta, che fa sì che si possano contare i chicchi in bocca. Con cosa accompagnerebbe un buon risotto? Con un buon bicchiere di rosso, che contiene tannini, sostanze chimiche che appartengono alla famiglia dei polifenoli. Sono una componente naturale del vino, anticancerogena e antiossidante. Mi piacciono gli italiani che, grazie alle nostre leggi, sono tutti di qualità garantita. I vini li colleziono anche:

Comfort food: perché i sapori diventano emozioni di Marco Offredi

L

a torta della nonna, il polpettone della zia, la minestrina della mamma, ma anche una grande coppa di gelato mangiata davanti alla tv o un succulento hamburger consumato in un centro commerciale: alzi la mano chi non ha il suo comfort food, quel piatto, snack o dolcetto a cui ricorriamo per soddisfare un bisogno emotivo. Sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, come ricordi d’infanzia. Semplice e genuino o junk food e pieno di grassi, il comfort food ci ricorda l’infanzia, ci coccola e scalda il cuore nei momenti “no” della nostra vita. Ma non esiste un solo tipo di comfort food e ognuno ha il suo: uomini, donne, grandi o bambini, il cibo del cuore ci accompagna per tutta la vita perché gratifica, rassicura, calma e a volte “anestetizza” i momenti tristi.

Facchinetti con cinque dei suoi sei nipoti

RINASCERÒ, RINASCERAI Il brano è scaricabile dalle principali piattaforme musicali. Tutti i proventi della canzone, sia dei download sia dai diritti d’autore ed editoriali, saranno interamente devoluti all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Oppure è possibile effettuare donazioni spontanee sul conto corrente dell’ospedale. IBAN IT52Z0569611100000012000X95 - BIC: POSOIT22 Causale: progetto “Rinascerò, rinascerai”, seguito da nome, cognome e codice fiscale.

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ESTER RIZZI, PSICOLOGA SPECIALIZZATA NEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE E TRAINER DI MINDFUL EATING: «OGNUNO DI NOI HA UN SAPORE CHE COCCOLA, GRATIFICA E RASSICURA MA NON DOBBIAMO ELIMINARE LA FAME EMOTIVA, DOBBIAMO SAPERLA RICONOSCERE» Oltre alla fame fisiologica, infatti, spicca in noi il desiderio di mangiare in altre circostanze e alcune emozioni corrispondono a sensazioni fisiche che possono essere confuse con la fame. Del resto viviamo in una società che offre cibo ovunque, dentro e fuori le città, con tutti i rischi e i vizi del caso. Ne parliamo con la dottoressa Ester Rizzi, psicologa specializzata nel comportamento alimentare, trainer di Mindful Eating e con collaborazioni in essere con il Servizio Politiche Sociali della Provincia di Bergamo, l’Associazione Piccoli Passi Per, il sottogruppo Liberamente Espresso del Tavolo di Salute Mentale dell’Ambito 1 di Bergamo e la Community online UbiObe. Perché si parla di comfort food? Le emozioni possono condizionare il nostro comportamento alimentare portandoci a consumare comfort food. Sebbene le nostre scelte siano influenzate dai condizionamenti sociali, alcuni cibi, come lo zucchero, il sale e i grassi, forniscono di per sé un rinforzo positivo poiché hanno un buon sapore e migliorano l’umore. Fin da neonati. Il latte materno è particolarmente dolce e non c’è da stupirsi che quando le persone elencano i loro cibi consolatori, spiccano quelli bianchi, cremosi, dolci come il gelato, la pastina con il formaggino, o una semplice tazza di latte tiepido. Una caratterista del cibo consolatorio che spesso emerge è di essere "pronto all’uso" perché lo mangiamo per rispondere a un’emozione. In questo periodo di stop forzato molti di noi hanno mangiato un po’ di più rispetto alle abitudini dei mesi precedenti perché emergevano emozioni di ansia, paura e noia, gli strumenti a nostra disposizione per far fronte a questo stato emotivo erano limitati, di conseguenza abbiamo cercato conforto nel cibo. Un altro aspetto importante dell’esplorazione delle nostre abitudini alimentari è osservare se tra le “voglie” compaiono zucchero, sale e grasso. Un trio che ha un potente effetto sul nostro stato mentale... Come spiega Jan Chozen Bays in "Mindful eating", l’industria del fast food e in generale dei prodotti industriali come le merendine confezionate prospera grazie alla nostra dipendenza da questi tre elementi: il gusto rassicurante del dolce, il gusto pungente del sale e la consistenza cremosa e fondente del grasso. Queste tre sostanze creano dipendenza, infatti è molto difficile per i bambini cresciuti mangiando fast

food imparare a mangiare in modo più sano. Se mangiati in eccesso, possono essere concausa di molte malattie, tra cui diabete, ipertensione, cardiopatia, obesità, ictus, e malattie del fegato, ma in realtà zucchero, sale e grasso sono un trio benedetto, nutrienti essenziali per la sopravvivenza e il corpo li riconosce come preziosi. Fino a poco tempo fa non erano facili da trovare. La storia del nostro rapporto con questi tre nutrienti dice molto sul perché sono elementi centrali nelle nostre liste delle voglie e perché in tutto il mondo le persone finiscono per consumarli in maniera sbilanciata appena ne hanno un accesso illimitato. Ma chi dice “ho fame”? Lo stomaco o il cervello? Francesco Bottaccioli nel libro "Psiconeuroendocrinoimmunologia e scienza della cura integrata" spiega che la ricerca scientifica ha assodato che esiste un collegamento tra il cervello e la pancia e la comunicazione è bidirezionale: il cervello controlla l’assunzione qualitativa e quantitativa del cibo, la pancia trasmette le influenze che il cibo ha sui sistemi endocrino, immunitario e nervoso e condiziona il funzionamento del cervello. Diciamo che c’è una costante presenza di due elementi interconnessi e imprescindibili nel rapporto con il cibo, vale a dire la componente nutritiva e quella affettiva. La parte corticale del cervello emette messaggi legati alla memoria, alle abitudini, alle convenzioni, allo stato d’animo. Ma attenzione: non dobbiamo eliminare la fame emotiva, dobbiamo saperla riconoscere. Il punto di partenza è: come mi comporto con quel cibo? Ne consumo il giusto per consolarmi o mi abbuffo senza riuscire a fermarmi? Nel primo caso ecco spiegate le sensazioni di comfort legato al food, nel secondo emergono invece frustrazioni, sensi di colpa e vergogna. Possiamo quindi parlare di diversi tipi di fame? Certamente, pensiamo alla fame visiva. I dolci a fine pasto sono un di più: anche se siamo sazi ne veniamo attratti. A Natale, invece, dobbiamo fare i conti con tavole imbandite di tante portate e siamo spinti ad assaggiare tutto. In questo caso predomina il senso del gusto perché, recita il proverbio stesso, siamo "stufi della solita minestra". E allora siamo sempre pronti a esplorare gusti e sapori nuovi, perché una cosa "fa gola". Può sembrare strano ma c’è anche la fame delle orecchie: ci sono suoni che stimolano infatti curiosità e attrattiva verso il cibo, come lo "scrocchiare" di una patatina

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o il rumore di una bibita fresca versata in un bicchiere. Anche in cucina si utilizzano noci tritate per enfatizzare l’effetto crunchy: non è solo sperimentazione ma c’è un risvolto psicologico. Ricordate il claim di un famoso yogurt "Fate l’amore con il sapore"? In quello spot si enfatizzava non a caso il crunch dei cereali. Come mai il cibo diventa un mezzo di conforto? Molte persone con il cibo riescono a sentirsi meglio perché quando mangiamo avvengono dei cambiamenti biochimici nel corpo, come ad esempio l’aumento della serotonina (l’ormone del buonumore), che è uno dei legami tra cibo e umore. Le sue misurazioni nell’ipotalamo sono basse durante il periodo di post-assorbimento, crescono quando si anticipa l’arrivo del cibo e raggiungono il culmine durante il pasto. Altro ormone che influenza il nostro rapporto con il cibo è l’aumento del livello di dopamina, implicata nel circuito del piacere (la cosiddetta acquolina in bocca ne è un segnale). Ci sono poi dei cibi che consolano più di altri - pensiamo alla pizza – e come detto prima specialmente quelli ricchi di grassi, zuccheri e sale. Altre volte, invece, un cibo consolatorio potrebbe essere associato alla nostra infanzia. Il problema quindi non è il comfort food in sé, perché il cibo è nutrimento e forma di conforto. Il problema nasce quando il cibo diventa l’unica forma di conforto. In certi casi l’atto del mangiare aiuta a diventare meno consapevoli delle emozioni che proviamo ma se per consolarci mastichiamo le nostre emozioni anziché ascoltarle e assecondarle in altri modi, rischiamo di entrare in conflitto con il cibo. E se non si hanno alternative al cibo, si rischia di cadere in un’alimentazione eccessiva e inconsapevole. E qui entra in gioco la Food Addiction, in italiano “dipendenza da cibo”? A mio parere siamo su piani diversi perché se alcool, droga, sigarette possono essere eliminate dalla nostra quotidianità, non possiamo togliere il cibo dalla nostra vita. Il cibo è solo cibo. Chi invece sostiene il contrario lo spiega con il circuito della ricompensa e della dopamina: cibi ipercalorici possono essere utilizzati per ridurre la rabbia, la tensione, l’ansia. Il consumo ripetuto e frequente di cibi altamente appetibili può abbassare la sensibilità del circuito di ricompensa (mediato dalla dopamina) e quindi la necessità di una quantità sempre maggiore di quegli alimenti per raggiungere la stessa condizione di piacere. Con il continuo consumo della sostanza avviene una sensibilizzazione del sistema di ricompensa e il soggetto sperimenta un forte desiderio per il cibo, ma non necessariamente esperisce un aumento del piacere: da piacevole atto alimentare, diventa fonte di disagio. La soluzione è mangiare in consapevolezza? Esattamente: quando mangiamo dobbiamo essere consapevoli di stare mangiando, la nostra mente deve essere in sintonia con le azioni che compiamo. Di conseguenza se mangiamo una mela, la nostra mente deve sentire che stiamo compiendo l’azione di mangiare la mela e non deve pensare al lavoro o ad altro. Il monaco buddista Thich Nhat Hanh ci dice che quando si è consapevoli si può riuscire a guardare più in profondità, si vedrà il seme della mela, il frutteto rigo-

glioso, il cielo, le persone che hanno coltivano e raccolto la mela, tutto il lavoro che c’è per fare in modo che la mela giunga fino a noi. Il problema, quindi, non è il cibo. Il cibo è solo cibo. Non è né buono né cattivo. Citando sempre Chozen Bays, l’origine del problema sta nella mente che pensa e nel cuore che sente. In questo senso un approccio utile e che sto sperimentando è la mindful eating, uno strumento indicato per compiere la delicata operazione di aprire i meccanismi interni di questi due organi così importanti.

Mindful eating: di cosa si tratta? La mindfulness in generale è un percorso di scoperta il cui ingrediente principale è la curiosità. È essere consapevoli dei propri pensieri, delle proprie emozioni e delle sensazioni fisiche nel momento in cui le stiamo sperimentando. Con la pratica della mindfulness coltiviamo la possibilità di liberarci dagli schemi reattivi abituali che guidano i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre azioni. La mindfulness promuove l'equilibrio, la scelta consapevole, la saggezza e l'accettazione di ciò che è immodificabile. In particolare la mindful eating ci permette di dare piena attenzione all’atto del mangiare e di non entrare in conflitto con il cibo ma piuttosto di contemplarlo. Come? Usando a pieno i 5 sensi per la scelta degli alimenti, riconoscendo le nostre risposte al cibo senza giudicarle, percependo il senso di fame e sazietà, distinguendole da aspetti psicologici, diventando consapevoli dei pensieri e delle emozioni associati all’atto del mangiare e diventando più consapevoli e padroni delle proprie scelte alimentari.

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latte è quindi in realtà più diffuso di quanto si creda in molte regioni d’Italia, a differenza invece delle nostre zone che, soprattutto in pianura, hanno visto lo sviluppo di altre tipologie di allevamento come quello bovino, spesso intensivo, soprattutto per le caratteristiche ambientali. In Italia la razza di pecora da latte più diffusa rimane la Sarda. Si tratta comunque di una razza rustica e molto produttiva che, nella maggior parte dei casi, viene allevata in modo semi-intensivo o estensivo, spesso al pascolo, soprattutto nel periodo estivo. Anche le sue carni sono molto utilizzate, soprattutto di animali piccoli.

IL FORMAGGIO DI PECORA NELLA TRADIZIONE ITALIANA

Anche Bergamo ha il suo pecorino di Lara Abrati

NEI DECENNI SCORSI IL LATTE DI PECORA ERA UTILIZZATO SOLO IN ALPEGGIO DAI PASTORI PER IL PROPRIO SOSTENTAMENTO ORA IL NOSTRO TERRITORIO PUNTA SU ALLEVAMENTI E PRODUZIONE CASEARIA DI NICCHIA

A

nche la pecora produce il latte a seguito del parto e, per quanto riguarda l’allevamento, esistono come per gli altri animali diverse attitudini, in relazione alle differenti tipologie di razze e metodi di allevamento. Ci sono animali che grazie al loro particolare metabolismo e alla propria struttura sono più adatti ad essere utilizzati per la produzione di latte, mentre altri alla produzione di carni. Tra le più rustiche, esistono poi razze adatte a produrre sia latte che carne e vengono definite nel gergo tecnico come razze a duplice attitudine. Ovvio che le produzioni non saranno elevatissime, ma soprattutto nelle zone di montagna o nei piccolissimi allevamenti sono proprio queste che vanno per la maggiore. In alcune zone d’Italia, l’allevamento ovino per la produzione di latte è molto radicato. Lo si può percepire dalle molte razze ovine atte alla produzione di latte: dalla pecora Sarda, fino a quella delle Langhe, ma anche la Massese (Toscana) o la Comisana, molto diffusa in Sicilia e nell’Italia meridionale. Poi ci sono le razze provenienti dall’estero, come la Frisona (proveniente dalla Frisia, una regione olandese) o la francese Lacaune (anche se è considerata a duplice attitudine), il cui latte è tipicamente utilizzato per la produzione di uno dei formaggi erborinati francesi più conosciuti, il Roquefort. Queste sono solo alcune delle razze allevate in Italia; grazie alla grande biodiversità, in realtà sono davvero molte le diverse razze ovine allevate per la produzione di latte. L’allevamento di pecora da

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Il latte di pecora, a differenza di altre tipologie di latte, si presenta molto ricco sia in grassi che in proteine. Questo non vuol dire che il formaggio prodotto a partire da questa materia prima sarà necessariamente più grasso di altri, questo dipende infatti da molti fattori, tra cui la lavorazione dello stesso. In realtà l’alta presenza di lipidi e proteine rende il latte di pecora molto favorevole alla trasformazione: ha infatti una resa nettamente superiore a quello vaccino, rendendo così più sostenibile questa attività. Il latte di pecora, così come quello di capra, presenta un’acidità superiore a vaccino, per questo motivo, se riscaldato, può avvenire la formazione della cagliata senza che si aggiunga il caglio (si chiama coagulazione lattica ed è il processo con cui sono prodotti i più conosciuti formaggi freschissimi di capra ad esempio). Nella nostra penisola però, sono molti e vari i formaggi prodotti a partire da latte ovino, tra cui formaggi molto famosi tutelati dalla denominazione di origine. È il caso del Pecorino Siciliano DOP, il Pecorino Toscano DOP, del Fiore Sardo DOP, ma anche del Pecorino Sardo DOP oppure il Pecorino Romano DOP (prodotto con latte proveniente dalla Sardegna, dal Lazio e dalla provincia di Grosseto). Questi alcuni tra i più famosi, ma non mancano formaggi locali senza denominazione che un tempo si differenziavano per alcuni passaggi produttivi, oggi sono solo denominazioni utilizzate per determinarne l’artigianalità e la zona di provenienza, come il Pecorino di Pienza (PAT), facilmente acquistabile in zona nelle sue versioni fresco, semi-stagionato o stagionato, ma anche del Casentino o delle Crete Senesi ad esempio. In linea di massima quello che conosciamo come pecorino è una caciotta prodotta con latte crudo o termizzato (a seconda del disciplinare di produzione), la cui cagliata una volta rotta molto fine viene sottoposta a cottura o semi-cottura. Questo permette di produrre un formaggio ottimo se consumato fresco, ma anche adatto alla stagionatura più o meno lunga. Ovvio che con il latte di pecora possono essere prodotti anche molti altri tipi di formaggi e, un altro prodotto di assoluta bontà, la ricotta, prodotto simbolo di una delle ricette simbolo della pasticceria siciliana: il cannolo.

I GIOIELLI BERGAMASCHI

Nonostante non sia tra le produzioni casearie tipiche e locali, anche a Bergamo c’è qualcuno che ha creduto in questo prodotto e ha provato a allevare pecore da latte nella nostra provincia, scegliendo razze sicuramente non locali, ma di

assoluto prestigio. Negli alpeggi bergamaschi era uso avere anche le pecore, ma nonostante ne venisse utilizzato il latte, queste erano prevalentemente atte alla produzione di carne, come la Pecora Gigante Bergamasca, comunemente allevata in provincia. Sono ancora pochi gli allevatori che hanno scelto la pecora da latte, anche perché il clima umido e spesso piovoso soprattutto delle zone alpine non è l’habitat ideale per questi animali, abituati a un clima molto secco e caldo. Ma si può fare e lo testimoniano gli autentici gioielli caseari prodotti da Luigi Bianchessi di Gromo, dall’azienda agricola Bianchessi e dal caseificio Via Lattea, che utilizza sempre il latte prodotto da Davide Bianchessi e dalla moglie Simona nella loro azienda agricola.

LUIGI PIETROGALLI DA PANETTIERE A CASARO

Luigi Pietrogalli, 45 anni, ha fatto una scelta di coraggio. A Gromo, zona storicamente dedita alla produzione di formaggelle e stracchini, decide di iniziare con l’allevamento di pecore Sarde. «Non avrei mai pensato di intraprendere questa professione – racconta Luigi – io facevo il panettiere e avevo un panificio di famiglia con i miei fratelli. Ma la pecora mi è

sempre piaciuta, un animale che mi ha appassionato fin da bambino, ma che per molto tempo è stata solo una passione avendo alcuni capi di pecora Gigante Bergamasca. A queste poi avevo aggiunto alcuni bovini, ma continuavo per professione a fare il pane». Luigi è una persona con molta voglia di fare e inventiva «fare il formaggio - racconta ancora - era una cosa che mi mancava, che sentivo mia, mi è sempre piaciuto produrre il formaggio. Grazie ad alcuni amici in Toscana, ho venduto le mie vacche pezzate rosse e le pecore da carne per acquistare una quarantina di pecore Sarde». Ecco che circa 8 anni fa Luigi inizia a caseificare e produrre il suo formaggio, una rarità. In estate le porta in alpeggio, «anche se non è semplicissimo, non è una pecora gestibile facilmente come quelle che avevo, anche per le piogge e il clima molto umido e fresco» racconta ancora Luigi. Il suo formaggio è uno solo, prodotto con una cagliata semi-cotta rotta fino alla dimensione di chicchi di riso; dopo la formatura viene

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salata a secco e stagionata per almeno un mese e mezzo. La stagionatura può anche proseguire, secondo la disponibilità di formaggio. Una pasta morbida, dal sapore dolce predominante, con gli aromi burrosi e che ricordano il fieno. Un dolce ricordo di montagna. E poi c’è la ricotta, sia fresca che stagionata. Il formaggio in città è possibile assaggiarlo a La Fiaschetteria in Borgo Santa Caterina abbinato nel piatto al prosciutto crudo Cà del Botto, per un’inusuale punto di vista della valle Seriana gastronomica.

ALL'AZIENDA AGRICOLA BIANCHESSI LE PECORE SONO FRANCESI

A Quintano (Cremona), a pochi chilometri a sud dalla fine della provincia di Bergamo, il sogno di una giovane coppia è diventato realtà. Davide e Simona hanno dato un taglio alle loro precedenti vite per dare uno sbocco alla loro grande passione per le pecore e hanno dato vita all'Azienza Agricola Bianchessi. «La nostra è una passione che abbiamo condiviso da subito – racconta Simona, classe 1986 e con un passato da impiegata – infatti il nostro viaggio di nozze l’abbiamo passato nel sud della Francia, tra allevamenti ovini e caseifici. Abbiamo sempre avuto le pecore da carne, era il nostro hobby e quando abbiamo avuto la terza bambina, abbiamo deciso di fare qualcosa che fosse nostro e che ci permettesse di seguire la nostra passione con tutta la famiglia». Ecco che nel 2018 il sogno diventa realtà e partiti da zero ora hanno una stalla e stanno finendo l’annesso caseificio e il futuro laboratorio dedicato alla lavorazione delle carni. Allevano pecore di razza Lacaune francese che vengono nutrite a fieno e erba di prato stabile, non lavorati o concimati. In lattazione hanno 120 animali, per un gregge che conta circa 300 pecore. «Il nostro latte in parte lo vendiamo e in parte lo lavoriamo utilizzando ricette e lavorazioni che ci identificano, che richiamano al territorio (dove in genere si utilizza latte vaccino), ma riprodotte con il nostro latte di pecora». Dallo yogurt, che si presenza cremosissimo grazie alla marcata presenza del grasso nel latte, fino a una ricotta spalmabile. E poi lo stracchino e il classico pecorino da stagionare. Infine, producono un formaggio simile al quarti-

rolo, sia nella versione fresca che stagionata, robioline, croste fiorite e l’erborinato. Per quanto riguarda la carne di agnello, propongono preparazioni facili e veloci da cucinare, come le polpette o gli hamburger a partire da carne trita, ma anche le classiche costolette o gli arrosticini di pecora. I loro prodotti si trovano in azienda oppure ai diversi mercatini a cui partecipano. Sempre meglio prenotare la propria spesa.

GLI ANTICHI SAPORI DELLA VIA LATTEA E DA PAGANÌ

IL FORMAGGIO DI PECORA IN CUCINA

È presente in molte ricette regionali classiche, anche se spesso viene erroneamente sostituito da altri formaggi a grana più delicati. È comunque uno dei formaggi più utilizzati in cucina, ma purtroppo non piace a tutti. Specialmente nei piatti tipici dell’Italia centro-meridionale il formaggio comunemente utilizzato era, appunto, il pecorino. Pensiamo a una pasta all’amatriciana o alla famosa carbonara, alle paste casalinghe con ragù di castrato o alle orecchiette pugliesi. Non solo come condimento, in generale i pecorini sono anche formaggi da tavola e in molte zone un tipico piatto primaverile da abbinare alle fave fresche. Anche a ricotta di pecora è un ingrediente simbolo della tradizione gastronomica dell’Italia centro-meridionale: dalla farcitura per i cannoli alla siciliana, fino alla preparazione di dolci o condimenti originali per paste o crespelle. Ecco un paio di idee per valorizzare in cucina il formaggio pecorino.

A Brignano Gera d’Adda esiste ormai da molti anni un caseificio artigianale che lavora latte di capra per la produzione di golosità casearie uniche. Da un po’ di tempo, grazie alla col-

laborazione con l’Azienda Agricola Bianchessi nella fornitura del latte, produce due perle casearie di pecora: il Quintano e il Bombolone di pecora. Entrambi si possono acquistare Da Paganì, sia online che in negozio a Serina, un progetto di Daniele Cavagna che si propone di valorizzare e commercializzare prodotti caseari unici e locali, ma anche alcuni prodotti tipici selezionati. Il Bombolone di pecora è un formaggio prodotto a partire da latte crudo di pecora, a pasta semi-cotta. Dopo la sua produzione e formatura, viene semi-stagionato o stagionato. Un formaggio che all’assaggio regala un grande equilibrio gustativo, che parte dal dolce e arriva al salato e poi acido. Cilindrico, con la pasta compatta e poca occhiatura ben distribuita. Il Quintano è invece un formaggio a crosta lavata, come il Taleggio, prodotto a partire da latte crudo intero di pecora. La pasta è cruda ed è molto simile allo stracchino: forma parallelepipeda e una crosta di colore arancio simile al mattone. Una pasta morbida da godere, soprattutto grazie alla proteolisi che rende cremosa la pasta sotto crosta. Aromi lattici, accompagnati dal sottobosco e da note vegetali. La pecora si sente, ma regala sentori piacevoli e mai fastidiosi. Questo formaggio è arrivato sesto su oltre 1000 formaggi al World Cheese Simona Bianchessi Award di Bergamo a ottobre 2019.

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CANNOLI ALLA SICILIANA

Un must tra i dolci italiani, goloso e buono: piace davvero a tutti. Il segreto consiste nel prepararlo utilizzando una buona e freschissima ricotta di pecora. È un dolce fritto, originariamente riservato a Carnevale. Bisogna armarsi di sfogliatrice e del tipico “cannolo”: oggi si utilizza comunemente quello metallico. Prepariamo l’impasto a base di farina, uovo, strutto (oppure olio extra vergine di oliva), zucchero, Marsala, cannella, aceto e un pizzico di sale. Chi vuole può aggiungere anche della scorza di arancia biologica. Una volta preparato l’impasto, meglio con l’utilizzo di una planetaria, lasciamolo riposare in frigorifero per almeno 2 ore coperto con della pellicola. Estraiamolo e creiamo delle palline da stendere con la classica sfogliatrice da pasta fresca. Creiamo dei dischi di pasta con l’uso di un coppapasta di circa 10 cm e tiriamoli leggermente per creare un ovale; arrotoliamoli ai cannoli metallici e copriamoli perché non si asciughino troppo. Friggiamo quindi in abbondante olio bollente a 175°C circa con la saldatura verso il basso: questa si può sigillare mettendo sul lembo, prima della chiusura, un po’ di tuorlo d’uovo. Lasciamo scolare i cannoli sulla carta assorbente, per eliminare l’olio in eccesso, estraiamo il supporto metallico e passiamo alla crema. Lavoriamo la ricotta con le fruste per qualche minuto, incorporando lo zucchero a velo. Riempiamo i cannoli solo prima di servirli con l’aiuto si una sac à poche o una spatola. Possiamo quindi guarnire le estremità con della scorzetta candita, della granella di pistacchio o delle gocce di cioccolato.

SPAGHETTONE CACIO E PEPE

È forse un classico della cucina regionale italiana, molto semplice nella scelta dei suoi ingredienti, ma non necessariamente nella sua esecuzione. Il segreto è quello di preparare una crema al pecorino che non rapprenda con il calore della pasta. Gli ingredienti sono pochi e davvero semplici: gli spaghetti, il pecorino romano (o altro a scelta e gusto personale) il pepe nero in grani da macinare al momento e del sale grosso per la cottura della pasta. Mettiamo il pepe macinato in una padella e, nel mentre anche l’acqua per la pasta a bollire. Una volta raggiunta la temperatura, buttiamo gli spaghetti. Nel frattempo grattugiamo il pecorino (deve essere stagionato altrimenti filerà a contatto con l’acqua bollente) e mettiamolo in una ciotola. A cottura quasi ultimata della pasta, mettiamo un mestolo di acqua di cottura nella padella con il pepe. Trasferiamone parte nel formaggio e mescoliamo fino a formare una crema. Scoliamo la pasta, facciamola saltare per qualche minuto della padella con il pepe. Togliamola dal fuoco e dopo poco aggiungiamo la crema al pecorino e mantechiamo.

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abbiamo il nostro frutteto che ci rifornisce di more, mirtilli, lamponi e fragole per i semifreddi, anche di pesche e ciliegie per il gelato. La difficoltà nel preparare un buon semifreddo sta nell’equilibrare gli zuccheri. Ogni anno cerchiamo di abbassarne il contenuto. Il cliente non se ne accorge, ma ci guadagna in salute». La Pasqualina suggerisce di provare le varianti panna e fragola, yogurt e frutti di bosco, meringhe con aggiunta di frutta fresca, oltre ai tradizionali crema e cioccolato, crema e nocciola o pistacchio e nocciola per versioni per veri golosi.

CLASSICI RIVISITATI AL CAPRICCIO 84

I semifreddi de La Pasqualina

Eleganza e freschezza al cucchiaio DESSERT SEMPLICI E DI GRANDE EFFETTO PERFETTI PER RINFRESCARCI DOPO UNA CENA NELLE CALDE SERE D’ESTATE

A

di Rosanna Scardi

bituati a considerare il gelato come l’unica soluzione alternativa alle torte, ci dimentichiamo del semifreddo. La sua origine sarebbe antecedente all’invenzione dello stesso gelato. C’è chi la fa risalire, addirittura, a prima della nascita di Cristo. A far confondere la leccornia con il gelato sono le basse temperature alle quali deve essere servito. Eppure, nonostante siano simili per quanto riguarda gli ingredienti, i due dolci differiscono per il metodo di preparazione. I gelati subiscono una mantecatura con un progressivo abbassamento della temperatura, mentre i semifreddi prevedono l’elaborazione degli ingredienti prima del congelamento, che avviene in modo veloce. Inoltre, a distinguerlo è l’incorporamento di aria, pari al 50 per cento del prodotto finito, che ci porta a definirlo una schiuma ghiacciata.

Il fatto che i semifreddi siano tipici dell’estate e che, in questa stagione, ci sia una varietà enorme di frutta fresca, fa sì che quest’accoppiata risulti vincente.

A LA PASQUALINA GLI INGREDIENTI SONO COLTIVATI IN CASA

La Pasqualina usa prodotti di altissima qualità. La pasticceria, che è anche gelateria e cioccolateria, ha una storia lontana: fondata nel 1912 ad Almenno San Bartolomeo, nel 2008 ha aperto anche a Bergamo e, quattro anni dopo, a Porto Cervo. «Noi restiamo sul classico seguendo una filosofia ben precisa - spiega il titolare Riccardo Schiavi -. Leggerezza e digeribilità che derivano da un’ottima materia prima che spesso produciamo in casa. Da due anni, qui ad Almenno,

28 luglio-agosto-settembre 2020

La parola d’ordine per Capriccio 84 di Presezzo è osare e sperimentare, rivisitando i classici in chiave moderna. La gestione della gelateria, caffetteria e wine bar è di Gianfranco e della Mimosa estiva moglie Raffaella, che stanno passando il testimone ai figli Matteo, Francesca e Erica. «Teniamo fede alle ricette originali, cambiando disposizione e decorazione, è come se proiettassimo la tradizione nel futuro - precisa Matteo -. Nelle meringate, le più suggestive alla vista, abbiamo due dischi eseguiti a mano con precisione. Nel caso della variante ai frutti di bosco presentiamo la panna in due formule: nel primo strato aromatizzata ai frutti di bosco con pezzettoni di questi, completandola con frutta freschissima. La classica è proposta con panna bianca e pepite di cioccolato fondente e marron glacé». Altri esempi, sono la Sacher estiva: Pan di Spagna al cacao suddiviso in tre strati: crema ganache al cioccolato fondente, gelèe ai lamponi e, per la finitura, una glassa a specchio al cioccolato fondente, come la tradizionale Sacher, ma con uno spruzzo di colore. Anche la tradizionale Mimosa si trasforma per l’estate: Pan di Spagna tagliato a metà, crema Chantilly aromatizzata al torroncino, cioccolato riproposto sottoforma di goccioline al latte. A ricoprirla è una glassa delicata alla vaniglia e finita con un giro di cubetti, per richiamarne le origini. Sfiziosa la Chantilly Mucchine con morbido Pan di Spagna con, all’interno, crema chantilly e pepite di cioccolato bianco e fondente per creare croccantezza e contrasto di sapori. Glassa ai due cioccolati per finire. La mousse mango e zabaione rappresenta un connubio perfetto tra una crema vecchio stampo e la freschezza della frutta tropicale, con strato di biscuit con mousse allo zabaione e cuore morbido e glassatura a specchio al mango.

DA TOFFY ALTERNATIVE ACCATTIVANTI

La pasticceria, gelateria e caffetteria Toffy a Osio Sotto, aperta da cinque anni nella nuova location, per l’estate propone dolci molto simili al semifreddo: sono mousse e bavaresi. Si differenziano per la temperatura (+4 anziché -18 gradi), dunque il bilanciamento di zuccheri, presenti in quantità mino-

re. «La prima è una crema Mousse Passion Fruit particolarmente leggera, grazie alla schiuma d’uovo presente in composizione, si può ottenere con basi differenti e variando la quantità di ingredienti cambia il risultato, la base può essere una meringa all’italiana, oppure la stessa con aggiunta di crema, o un paté à bombe – spiega Luca Caldari -. La bavarese è, invece, un composto a base di crema inglese, panna semimontata che conferisce sofficità, gusto e gelatina». I più apprezzati, durante la stagione calda, sono la bavarese Tris con cioccolato bianco, fondente e al latte e, sotto, un biscuit alle mandorle, e la mousse Passion Fruit con ganache di cioccolato al latte, mousse al limone per infusione, biscuit alle mandorle e glassa di frutto della passione. Mescola le caratteristiche di mousse e bavarese la Coco Passion che, sotto, presenta un biscotto sbriciolato al cacao, bavarese al pistacchio, mousse al cocco e, sopra, gelèe al frutto della passione.

LA PRIMULA OSA CON ABBINAMENTI ORIGINALI

Da segnalare anche le preparazioni che si possono gustare nella pasticceria, caffetteria e panetteria La Primula di Treviglio, dimostrazione che, così come esistono mille gusti di gelato, si possono preparare moltissime proposte fresche e cremose per l’estate. Tra le preferite dalla clientela c’è la Mousse al basilico e limone che contiene due strati di Pan di Spagna con bagna al limoncello, una Mousse al basilico e limone mousse al basilico e una al limone, con coulis di ribes. Rivisitazione di un classico è Foresta Nera con Pan di Spagna al cacao al Kirsch, tipico liquore alle ciliegie, dentro ci sono una bavarese alla panna e gelatina di amarene, sopra riccioli di cioccolato e amarene sciroppate. Dolci con ingredienti inconsueti sono la mousse alla fragola e al pepe del Sichuan, una spezia dal sapore agrumato e floreale che si abbina divinamente alla dolcezza della frutta. E la mousse lime, cioccolato bianco e bottarga abbondante, alimento costituito dalle uova di pesce essiccate e stagionate, che si usa di solito per condire la pasta. «Ha due funzioni: dare sapidità e allontanare il cliente che non vuole osare, poi chi la prova la compra per farla assaggiare agli amici – sorride il pasticcere Mattia Premoli -. Cerco di distinguermi, un ingrediente particolare, può stravolgere e fare la differenza. Anche al ristorante, non chiedo mai un tiramisù, ma cerco sempre l’originalità, quel tocco che dà unicità».

29 luglio-agosto-settembre 2020


È

sempre più difficile trovare sul mercato pesce italiano. Non perché non esista o venga trasportato altrove, ma perché i consumi sono molto alti e la domanda supera di molto l’offerta. Analizzando dati di mercato recenti, si evince facilmente che il pesce che troviamo sui banchi della GDO, all’ingrosso e in pescheria sia all’80% proveniente dall’estero. Spesso anche il pesce che consumiamo nelle zone vicine al mare proviene da località lontane, anche perché le leggi del mercato non lasciano scampo: chi produce o pesca cerca di spuntare il miglior prezzo ed è risaputo che i mercati principali sono quelli che pagano di più.

FIUMI, LAGHI E MARI A CONFRONTO

Dal punto di vista del consumatore invece, un’indagine condotta da Ismea sulle scelte in fatto di prodotti ittici, mette in rilievo il fatto che si tende a scegliere sempre più pesce di provenienza marittima piuttosto che d’acqua dolce. Anzi, si stima che molta gente che risiede nelle città di mare non abbia mai nemmeno assaggiato il pesce d’acqua dolce. Il che non stupisce, se non che anche la gente che risiede nelle zone dell’entroterra preferisca il pesce di mare. Il motivo va ricercato in diverse convinzioni che hanno accompagnato le diverse generazioni di consumatori. Innanzitutto si percepisce il pesce d’acqua salata come più prestigioso, quindi più adatto ai pranzi o alle cene speciali. Ma non solo, infatti vi è anche l’attribuzione di un sapore migliore, in confronto ad un pesce d’acqua che viene pensato come più dolce e un po’ scialbo o, addirittura, con un vago sapore di fango. Questo sfiducia la scelta nei confronti del pesce d’acqua dolce, anche in funzione alle maggiori difficoltà di preparazione in cucina. In secondo piano, ma comunque importante, anche la percezione che il pesce d’acqua dolce presenti carni più grasse e meno compatte. Le scelte ad ogni modo si restringono alle anguille e alle trote, soprattutto salmonate.

ALLEVATO O PESCATO?

I tesori d'acqua dolce IL CONSUMO DI PESCE IN ITALIA E LA SUA PROVENIENZA È UN ARGOMENTO COMPLESSO CHE SPESSO PORTA A COMPIERE SCELTE POCO CONSAPEVOLI

di Lara Abrati

30 luglio-agosto-settembre 2020

Pesce da allevamento o pesce pescato è l’altro grande dilemma su cui ci si interroga spesso. Sempre secondo lo stesso studio, ci sono fattori razionali, ma anche emozionali che guidano il consumatore verso la scelta dell’uno o dell’altro. Da una parte (per chi sceglie il pesce d’allevamento) c’è la sicurezza sanitaria e i relativi controlli, che tranquillizzano, si ha l’impressione quindi sia più sicuro. Inoltre spesso presenta un minore costo e si pensa che abbia un impatto ambientale minore. Certamente è meno vincente se si prende in considerazione la qualità delle carni, al loro sapore e alla succulenza. Questi sono parametri di giudizio razionali, ma che decadono quando si passa al punto di vista più emotivo: l’allevamento viene percepito come artificiale, industriale. Meno ricco e spesso allevato in modo intensivo senza che abbia un’alimentazione varia e corretta. Ad ogni modo, sia che si tratti di pesce d’acqua dolce o salata, è bene conoscere provenienza, tipologia di allevamento, metodo di pesca e stagionalità del pesce. Solo così è possibile fare una scelta il più possibile consapevole, libera da luoghi comuni o convinzioni parziali. Vista la vicinanza territoriale della nostra zona con torrenti, fiumi e laghi, è davvero interessante cerca-

Il torrente Lembrio

re di sfatare il luogo comune che il pesce d’acqua dolce sia una tipologia di difficile approccio, sia per chi lo cucina che per chi poi lo consuma. Insomma, forse un interesse più consapevole potrebbe portare a scelte migliori, di territorio e sostenibili. Benissimo consumare pesce di mare, ma in Italia il suo consumo va nettamente oltre alla produzione e per garantire l’offerta costante è necessario ricorrere all’estero importandolo. I nostri laghi e i nostri fiumi sono ricchi di specie ittiche tutte da scoprire e da assaggiare, in particolare per quello che concerne il consumo fresco, ma anche lavorato. Tra le specie che il lago offre, si spazia dal famoso agone, fino al luccio e al luccioperca. E poi, ancora, salmerini, trota iridea, coregone, il pesce persico (molto apprezzato anche dai più piccoli nella versione fritta) e la famosa tinca. È possibile trovarli dai piccoli pescatori del lago, come Nando Soardi e il figlio Andrea, ma anche a Clusane alla piccola Cooperativa Pescatori. Qui il pesce è venduto fresco secondo stagione e disponibilità. Ma come il pesce di mare, anche quello d’acqua dolce si presta bene all’allevamento e alla lavorazione con l’obiettivo di essere meglio conservato e valorizzato, al fine di creare prodotti unici e gustosi in grado di dare qualcosa in più. Ecco due realtà che stanno portando avanti un progetto virtuoso, che mira alla sostenibilità ambientale del pesce d’acqua dolce allevato localmente, con una grande cura per la qualità delle acque, il loro movimento e l’alimentazione del pesce: l’obiettivo è quello di offrire con costanza un pesce dalle caratteristiche simili al pescato e dalla grande qualità delle carni.

31 luglio-agosto-settembre 2020


CLARABELLA RECUPERA E RILANCIA L’AGROITTICA

Enti BilatErali a sostEgno di imprEsE E lavoratori Lavoratori

Imprese

Assistenza per figli disabili, Concorso spese libri di testo/app didattiche, mensa scolastica Concorso spese asili nido

Incentivi alle imprese per l’assunzione di giovani disoccupati (solo sett.commercio) Formazione e apprendistato Corsi sostitutivi libretto sanitario Concorso spese alle aziende che adottano welfare

Per informazioni e per conoscere tutti i sussidi: tel. 035 4120140 - 035.4120116 | info@entebilcombg.it - info@entebilturbg.it | www.entibilateralibg.it

32 luglio-agosto-settembre 2020 B E R G A M O

A Lodrino, in Val Trompia in provincia di Brescia, la neonata esperienza dell’agroittica Clarabella (facente parte del Consorzio Cascina Clarabella), una cooperativa sociale che qualche anno fa è stata coinvolta in un grande progetto di ri-attivazione di alcuni settori e attività che hanno caratterizzato quelle zone di montagna. Lo staff dei tecnici ha lavorato per anni al progetto di recupero di un allevamento di pesce d’acqua dolce in alcuni bacini montani nel territorio di Lodrino. «Dopo aver fatto alcuni studi rispetto alla sostenibilità economica del ripristino dell’allevamento, abbiamo deciso di non riattivare il ciclo di allevamento, ma di dedicarci all’attività di affinamento o finissaggio, basandoci su una sperimentazione portata avanti sul Lario» racconta l’Ing. Roberto Bendotti. Questa fase non è in genere affrontata dall’allevamento intensivo e, nel caso di Clarabella, consiste nello spostare pesci comunque provenienti da allevamenti estensivi o semi-intensivi, nei bacini d’acqua di montagna, con acque che hanno caratteristiche vicine alla potabilità. Durante questa fase, che si va ad aggiungere al normale ciclo di allevamento, il pesce non viene nutrito per un periodo che varia dai 7 ai 21 giorni in base alla stagione, ma grazie alla presenza di lampade notturne che stimolano la riproduzione di alcuni insetti, trote e salmerini iniziano a interessarsi e nutrirsi di questi. Perdono in questo periodo circa il 5-7% in peso e in un certo senso si “depurano”. Grazie allo studio effettuato sul Lario si è notato che le carni di questi pesci, grazie a questa fase, assomigliano sempre più alle carni dei pesci vissuti in natura, ricchi di omega 3 e omega 6, con un vantaggio per la salute del consumatore e sulla qualità del prodotto che verrà messo sul mercato. Ecco che al laboratorio di Iseo, dove l’agroittica Clarabella lavora molti pesci pescati nel lago Sebino, arrivano trote e salmerini con caratteristiche molto simili a quelle selvagge, pronte da esser trasformate e lavorate al meglio. Dai prodotti marinati, agli affumicati: il pesce d’acqua dolce con una marcia in più.

Le vasche del Centro Ittico Valli Resilienti

Le vasche dell'azienda San Fiorino

SAN FIORINO LE TROTE ALLEVATE SUI MONTI

L’agroittica San Fiorino ha invece sede a Borno (Bs), in media Valle Camonica. Ha una lunga storia durante la quale si sono alternate diverse gestioni, fino a quella più recente, quando l’azienda ha visto l’acquisizione da parte del giovane Mirko Nodari, originario di Madonna di Campiglio. Ecco che ha iniziato ad allevare trote (sia iridee che iridee salmonate) e salmerini in maniera semi-estensiva, utilizzando mangimi genuini nel rispetto del pesce stesso. Le vasche ospitano una giusta quantità di esemplari che godono di un ricircolo di acque sempre pulite e fresche che arrivano direttamente dal torrente San Fiorino. È un allevamento a ciclo chiuso: gli animali nascono e vengono allevati senza acquisti di esemplari dall’esterno e nel rispetto del naturale accrescimento del pesce. Insomma, un allevamento che si svincola totalmente dalle logiche intensive. Per rendere l’idea, è simile a quello attuato per altri animali e intercorre la stessa differenza che si può notare tra un pollo allevato in batteria e uno allevato in modo naturale all’esterno: libero di muoversi e che si nutre di cibo adeguato. L’impianto ittico è costituito da una serie di vasche per una superficie totale di oltre 2.000 mq che hanno un dislivello complessivo di 25 metri; ciò consente una ossigenazione naturale e costante, che avviene durante i salti di circa 3 metri da un piano all’altro. Questo, unito all’ambiente di montagna sano e incontaminato e alle caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua stessa, consente la produzione di pesci con carne simile al pescato. Il pesce viene venduto sia fresco che marinato e poi affumicato a caldo. La lavorazione avviene totalmente in azienda in modo artigianale.

33 luglio-agosto-settembre 2020


NOVITÀ

DANIEL FACEN RILANCIA ASTINO INAUGURA IL RISTORANTE LE ORBE

Per tutta estate, da giugno a agosto, Il Saraceno di Cavernago, che ha conquistato con la sua cucina di pesce una stella Michelin, ha in gestione Terrazza Fausti il food&beverage del suggestivo spazio che sovrasta la boutique d'alta moda, nel cuore del Quadriportico del Sentierone, con vista dominante sulla città. Lo chef stellato Roberto Proto, affiancato dalla moglie Maria Morbi in sala, porta nel cuore della città la sua cucina raffinata di pesce, trasferendo l'intero staff nel centro piacentiniano. Così Tiziana Fausti Boutique e Il Saraceno Ristorante hanno siglato sodalizio dando vita a “Il Saraceno Ristorante in Terrazza Fausti”. Un progetto, così lo definiscono, che vuole essere stimolo per il risveglio della città e incentivo per la ripresa del comparto ristorazione, che si è trovato a dover ridisegnare i principi dell’ospitalità proponendo nuove modalità di accoglienza. «La riapertura del nostro ristorante in uno spazio unico come quello di Terrazza Fausti vuole essere un segnale concreto della volontà di ripartenza nel nome della positività- spiega Roberto Proto, chef patron de Il Saraceno Ristorante-. Per tutto il periodo estivo cureremo sia la carta cocktail che le proposte per il pranzo e la cena armonizzando food e fashion, settori che hanno molto in comune a partire dal senso del “gusto”». Il ristorante aderisce a “Ingruppo Reload” con una selezione di quattro portate, tra cui una tra le ricette simbolo del locale, come il gomitolo di gambero con salsa giardiniera e liquirizia.

Il Saraceno in Terrazza Fausti Piazza Vittorio Veneto, 15 - Bergamo tel. 035.19960577

INGRUPPO RELOAD 19 GRANDI LOCALI A PREZZO ACCESSIBILE Dopo cinquantaquattro giorni di chiusura forzata, 19 tra i ristoranti più rinomati delle province di Bergamo,Milano e Monza – Brianza, tra cui 7 stellati e 2 tristellati Michelin, danno nuovo slancio a Ingruppo, nella sua versione “Reload”. La nuova edizione della celebre iniziativa nata per avvicinare anche la clientela meno tradizionale per la ristorazione gourmet, nel nuovo “reload”, durerà ben 54 giorni, tanti quanti quelli che sono stati di chiusura. Un segnale forte, espressione della tenacia che da sempre contraddistingue l’imprenditoria bergamasca. I clienti potranno scegliere tra le proposte di ristoranti d’eccellenza, come: Da Vittorio dei fratelli Cerea e il Mudec di Enrico Bartolini, fiori all’occhiello della rassegna che ha tra i suoi promotori ben 2 dei 3 chef tristellati della Lombardia (sono 11 in Italia). Tra gli indirizzi, Sadler, Casual, Frosio, Il Saraceno, Loro e Osteria della Brughiera, tutti con una stella Michelin. Tra le new entry, Impronte, che con il giovane chef Cristian Fagone, classe 1988, ha conquistato quest’anno la sua prima stella. E ancora, aderiscono all’iniziativa Collina, La Caprese, Lio Pellegrini, Al Vigneto, Antica Osteria dei Camelì, Posta, Roof Garden Restaurant, Tenuta Casa Virginia, Pomiroeu e Cucina Cereda. In totale sono 16 i ristoranti, tra città e provincia, di Bergamo, che, secondo la 65°guida Michelin presentata lo scorso novembre, conferma la sua posizione dell’olimpo della ristorazione italiana. Ognuno di loro, come dal tradizionale format di Ingruppo, presenterà proposte di alta qualità, dalla scelta della materia prima alla sua lavorazione con creatività e nella mise en place. Sarà infatti possibile degustare, tutti i giorni, sia a pranzo che a cena, un menu di quattro portate (con acqua, caffè e vino, in alcuni casi anche con entrèè e pre-dessert) al prezzo di 60 euro a persona. Da Vittorio, Sadler e Bartolini, il prezzo sarà invece di 120 euro a persona. www.ingruppo.bg.it

34 luglio-agosto-settembre 2020

ALLA CANTALUPA ESTATE A TUTTE BOLLICINE CON DAV PIZZA & BARBECUE Con lo stop ai banchetti per l'emergenza sanitaria, La Cantalupa riconverte lo spazio a bordo piscina, cornice da sempre per eventi esclusivi e occasioni speciali, in un ristorante dall'anima pop, ma con lo stile e la qualità che hanno portato la famiglia Cerea nell'Olimpo della ristorazione mondiale, con 3 stelle Michelin. Una delle aree esterne del resort La Cantalupa, ospita fino a inizio settembre DaV Cantalupa Pizza & Barbecue. L’idea della pizzeria, un posto easy, dall'atmosfera più informale e rilassata e accessibile a tutti, permette a La Cantalupa di recuperare parte del lavoro perso con lo stop a banqueting, per salvaguardare il cospicuo gruppo di dipendenti dedito a eventi e cerimonie. La proposta, incentrata su pizzeria gourmet, con pizze in teglia al vapore e a più cotture, e barbecue, si affianca a una selezione di antipasti e primi piatti, a partire dai classici paccheri alla Vittorio. Dal grill, in carta italian baby back ribs, cuberoll di wagyu e non manca la classica Chateubriand con salsa bernese. Pollo di Bresse e costate completano l'offerta rovente di DaV. Nella proposta pizzeria, si va dalla Regina Margherita che esalta, con semplicità, tutto il sapore della madre di tutte le pizze, a "La Chicco doppio colpo", prima fritta e poi passata in forno, e alla fine condita con burrata di bufala e crudo di Parma. Non manca una selezione di pizze in teglia e al vapore, con i migliori prodotti e ingredienti possibile e un impasto a lunga lievitazione. Il wine pairing prevede un trionfo di bollicine, dalle migliori etichette italiane a una selezione di Champagne. In carta anche birre selezionate, perché a trionfare siano informalità e relax in una ritrovata convivialità en DaV Cantalupa Pizza & Barbecue plein air. Aperto su prenotazione tutti i giorni dalle 19.30 alle 23, sabato e domenica Via Cantalupa, 17- Brusaporto (Bg) anche a pranzo, a partire dalle 12.30. tel. 035.681024

35 luglio-agosto-settembre 2020

ph. Patrizio Donati

IL SARACENO VA IN CITTÀ IL MARE CON VISTA IN TERRAZZA FAUSTI

Ha inaugurato il 1° luglio, Le Orbe, nel chiostro del Monastero di Astino. Il ristorante, nella cornice esclusiva del complesso vallombrosano, è la prima realizzazione di un progetto più ampio e ambizioso che nei prossimi anni intende rilanciare la cucina italiana nell'Accademia d'Alta formazione che sorgerà nel Monastero, nel rispetto del luogo e del suo ruolo di depositario del sapere. Il progetto è portato avanti dall'azienda della ristorazione Treverde Srl, che ha costruito il suo successo sulla filiera, partendo dalla terra, attraverso la Cooperativa agricola Cascina nella Terra di Ghiaia e nell'esaltazione della tradizione contadina nel piatto, con il locale Mate- Madre Terra di Treviglio. L'obiettivo è quello di valorizzare in cucina i prodotti della terra e del territorio nella valle della biodiversità: «Il nome, Le Orbe, sta infatti per origini bergamasche e orti bergamaschi, per non perdere il valore insostituibile della cultura, intesa nel suo senso più pieno, come qualcosa da coltivare. Anche nel campo, in un processo virtuoso, di filiera incentrato su economia circolare e sostenibilità» spiega Alberto Trovato, direttore de Le Orbe. La cucina esalta il territorio, ma con creatività. E non Le Orbe potrebbe essere altrimenti con ai fornelli uno chef come Daniel Facen, instancabile speriChiostro del Monastero di Astino, 13 mentatore di tecniche di cottura hi-tech e ideatore dell'utilizzo del bagno ad ultrasuoni per Bergamo far esplodere il gusto di pesce, carne e verdure. Per lo chef, trentino d'origine e nell'anima, tel. 347.1688184 ma ormai bergamasco d'adozione (qui, al ristorante Anteprima di Chiuduno ha conquistato la stella Michelin) si apre una nuova sfida culinaria, con ingredienti e prodotti tipici del territorio, che affianca alla consulenza in Umbria, al ristorante Atmosfera al San Gemini Palace di Sangemini, 5 stelle lusso. Il menù propone casoncelli bergamaschi con pancetta e salvia e tagliatelle carbonara d'uovo e tartufo estivo. La carta promette di soddisfare i palati più esigenti: il merluzzo si abbina a latte di cocco, la ricciola affianca guacamole, zenzero e ortiche fritte, i ravioli di patate e curcuma guardano a mare e monti, con gamberi rossi, finferli e fiori eduli. «Partiamo con entusiasmo, dopo mesi di stop, con una cucina creativa, leggera, con ingredienti selezionati del territorio e altre grandi materie prime- commenta lo chef Daniel Facen-. La proposta si amplierà e arricchirà nei prossimi mesi». Il ristorante, all'ombra della Torre del Guala, nel chiostro completamente ristrutturato, parte con circa 30 coperti, per poi estendere da settembre, nei locali un tempo adibiti a cantine del Monastero, la proposta gourmet. Per l'estate l'apertura è solo a cena, ad eccezione del weekend in cui si raddoppia a pranzo.


Nebbiolo

l’autoctono di montagna UN VITIGNO A BACCA ROSSA UTILIZZATO PER LA PRODUZIONE DI ALCUNI DEI PIÙ IMPORTANTI E CONOSCIUTI VINI ROSSI DEL NORD ITALIA di Lara Abrati

È un vitigno utilizzato in concomitanza ad altri per la produzione di vini che appartengono a numerose denominazioni. In realtà, è errato parlare di Nebbiolo. Questo perché esistono numerose sottospecie che fanno riferimento alla cultivar e vengono coltivate prevalentemente nelle zone prealpine e alpine della Lombardia, del Piemonte, con un accenno particolare alla zona della Langhe. È un vitigno quindi che predilige i climi freschi e ben matura nel luoghi dove vi è un’escursione termica importante. Fuori da queste zone, a parte qualche ettaro in Sardegna e in Valle d’Aosta, è praticamente assente, nel senso che l’estensione delle aree coltivate a vigneto utilizzando questa cultivar sono trascurabili. Un vitigno che potremmo quindi considerare assolutamente locale e di territorio. Questa affermazione è vera non solo per la presenza di sotto-varietà ben adattate alle diverse zone in cui viene coltivato, ma è altresì vera perché il risultato delle uve portate in cantina viene particolarmente influenzato dal clima e dal terreno in cui sono state coltivate: un vitigno, insomma, che nel bicchiere esprime in maniera importante il suo terroir.

È UN VITIGNO ORIGINATO DA SPONTANEE MUTAZIONI GENETICHE CHE HANNO CREATO UNA SERIE DI CULTIVAR NEL BICCHIERE ESPRIME IN MANIERA IMPORTATE IL SUO TERROIR

IL CONCETTO DI TERROIR

P

er gli italiani, appassionati di vino e non, è facile pensare al Nebbiolo come ad un vitigno molto diffuso nella penisola e molto conosciuto nel mondo. Non c’è nulla di più sbagliato. È infatti un vitigno che concorre alla produzione di numerosi vini che rappresentano in modo importante parte della vasta produzione vitivinicola del nord Italia, in particolare nelle zone alpine e prealpine. È utilizzato infatti per la produzione dei più importanti vini Piemontesi e Valtellinesi, tra cui il prestigioso e blasonato Barolo DOCG.

36 luglio-agosto-settembre 2020

genee, originatasi per spontanee mutazioni genetiche che hanno creato una serie di cultivar: lampia, rosè, michet, bolla, nebbiolo Rossi, chiavennasca (ciuvenasca, ciuvenaschin con le quali si fa riferimento alla cultivar rosè e ciuvenascon o intagliata, con le quali si fa riferimento alla michet). È doveroso sottolineare che questa varietà, o convarietà come è in uso chiamarla nel mondo scientifico, è tutt’ora oggetto di studio per le sue particolari caratterizzazioni genetiche. La Chiavennasca, coltivata in Valtellina, viene localmente considerata spesso una varietà a tutti gli effetti, dal momento che si coltiva da moltissimi anni e presenta localmente una grande variabilità anche al suo interno. Tutta questa premessa riesce a dare un’idea di quanto la varietà sia affascinante e quanto ci si possa davvero perdere nel mondo dei nebbioli, assaggiando con gli occhi, l’olfatto e il gusto tanti piccoli pezzetti del nostro territorio. Questo vitigno probabilmente non ha visto una diffusione europea o mondiale, a differenza di altre cultivar, non solo probabilmente quindi per l’estrema variabilità genetica, ma anche per le sue esigenze climatiche che ne rendono non sempre facile la coltivazione. Il vino si caratterizza per l’avere un colore intenso, ma che tende fin da subito al rosso rispetto ad altri vitigni italiani che inizialmente tendono al rosso violetto. Inoltre è importante la presenza di tannino: per semplificare al massimo, questa è la caratteristica che lo rende adatto alla produzione dei grandi rossi a lungo invecchiamento. Con il processo di maturazione e invecchiamento appunto si vanno ad arrotondare le caratteristiche di ruvidezza all’assaggio che si percepiscono ne vini giovani, grazie alla grande presenza di tannini. In Valtellina esistono numerose sottozone dove viene coltivato il Chiavennasca e vengono prodotti diversi vini. Questo perché la Valtellina ha una conformazione longitudinale. Una vera e propria viticoltura quasi eroica, che vede una scarsissima meccanizzazione a causa della forte pendenza dei vigneti che obbliga a una coltivazione con terrazzamenti molto ripidi e stretti. I vini prodotti in queste zone non differiscono quindi per il vitigno utilizzato, bensì per l’esposizione e i diversi microclimi che le sottozone Grumello, Inferno, Sassella, Maroggia e Valgella sanno regalare. Il Piemonte è la regione in cui il Nebbiolo è in assoluto più coltivato. Sia per la produzione dei grandi vini di Langa, ma anche per gli altri vini della zona alta della Regione. È utilizzato per la produzione del Barolo DOCG, del Barbaresco DOCG, ma anche del Nebbiolo d’Alba DOC, il Langhe DOC Nebbiolo e del Roero DOCG. Viene utilizzato in purezza nella produzione anche di altri importanti vini piemontesi, come il Gattinara DOCG.

In realtà il termine terroir ha un significato molto più complesso di quello che si pensi. È possibile definirlo come un insieme di caratteristiche che influiscono e contribuiscono nel rendere unico e identificabile un certo prodotto. Un’area in cui il clima, le condizioni geografiche, la tradizione enologica e il lavoro dell'uomo permettono la realizzazione di un vino specifico, con caratteristiche specifiche. Il clima come si sa ha un'influenza diretta sulla qualità di un vino, ne determina ad esempio il residuo zuccherino e il tenore alcolico. Con la sua capacità di trattenere acqua e nutrienti, il terreno è un fattore importante per il processo di sviluppo e maturazione delle uve. Così come è importante la tradizione enologica, che spesso si rispecchia anche nella legislazione e nella tutela con le Denominazioni d’Origine, basti pensare ai casi in cui è consentito soltanto l'utilizzo di determinati vitigni. E infine, da non dimenticare l’apporto del lavoro dell'uomo in vigna e in cantina. Ecco, forse il terroir può essere definito proprio come l’interazione tra tutti questi fattori.

LE ZONE DEL NEBBIOLO: PIEMONTE E VALTELLINA

Il Nebbiolo è coltivato su tutta l’area del Piemonte, in Lombardia solo in Valtellina, dove è chiamato anche in diverso modo: il Chiavennasca. Sotto l’aspetto genetico il Nebbiolo è, fra i vitigni, uno di quelli che si presenta con una popolazione fra le più etero-

37 luglio-agosto-settembre 2020


LEGGERE DI GUSTO

© Matteo Zanardi

FRIGGERE, BOLLIRE E BRASARE, VIAGGIO NEL MONDO DELLA COTTURA

Dalla più antica delle tecniche di cottura direttamente sulle fiamme o sulla brace alle moderne tecniche sottovuoto, passando per griglie, padelle, pentole, forni elettrici e a pressione. L’uomo ha inventato decine di modalità per rendere le pietanze più buone e digeribili. Ripercorrendo la storia della cottura, Eugenio Signoroni, curatore delle guide Osterie d’Italia e Birre d’Italia, tratta la cottura come se fosse una scienza, descrivendo le modalità usate in tutto il mondo, la loro origine, l’evoluzione e i principi che consentono di ottenere un buon risultato. Accanto ai metodi più comuni, anche quelli di cultura gastronomiche lontane e tradizionali, cercando di rispondere a quesiti importanti: materiali diversi danno risultati diversi? E le fonti di calore? Le temperature? Un manuale per gli appassionati di cucina e per chi avesse dubbi su quale sia la regola giusta per un certo tipo di cibo. E chi volesse mettersi alla prova, può farlo sperimentando le 95 ricette, esempi pratici di ciò che viene spiegato a livello teorico in ogni capitolo, dalla fiorentina alla pizza Margherita, dalla tajine di carne e verdure al pollo tandoori.

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38 luglio-agosto-settembre 2020

Il signore dei formaggi, volto della rubrica del Tg5 “Gusto”, ripercorre 35 anni di professione, tracciando una mappa geografica e sentimentale, dei luoghi e delle famiglie che lo hanno portato a conoscere il mondo caseario italiano. Un racconto autobiografico che è, insieme, un resoconto di viaggio alla scoperta dei più preziosi formaggi regionali, senza dimenticare i cugini francesi. Camminare la terra dei formaggi. Diario di bordo di un maître fromager italiano di Alberto Marcomini Cinquesensi - 2019 - 22 euro

Sulla spalla sinistra aveva tatuato un galletto francese, simbolo di attaccamento alla patria. Paul Bocuse (1926-2018) è il cuoco del secolo, colui che è stato capace di trasformare la figura dello chef in una star. Con la sua innata arte di vivere ha reso un modesto ristorante con tanto di tovaglie di carta un rinomato tre stelle ed è partito alla conquista del mondo. Per raccontare la sua epopea, Robert Belleret ha incontrato chef, collaboratori e persone vicine a monsieur Paul.

Oltre 200 pagine dedicate all’amaro italiano, dalle origini all’impiego nella mixology e in cucina. L’itinerario affronta le origini, le botaniche tradizionali e quelle innovative come le giuggiole, il lampascione o il radicchio rosso di Treviso. Ma anche le curiosità e le tecniche di degustazione di uno degli spiriti più in voga del momento, con un focus su 300 etichette, passando dal più piccolo produttore al più grande da milioni di bottiglie all’anno.

Paul Bocuse, Lo chef, il mito di Robert Belleret Giunti - 2020 - 18 euro

Il grande libro dell’amaro italiano di Matteo Zed Giunti - 2019 - 29 euro

39 luglio-agosto-settembre 2020

Uno storico indaga sulle origini del nostro piatto identitario per eccellenza, che ha impiegato duemila anni per costituirsi come tale. Massimo Montanari risale a tempi distanti, chiamando in causa mondi lontani, dalle prime civiltà agricole al medioevo con le sue innovazioni. Scopriamo, così, che ricercare le origini non ci porta quasi mai a ritrovare noi stessi, bensì ci avvicina ad altre culture, popoli e tradizioni. Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro di Massimo Montanari Editori Laterza - 2019 - 9 euro

a cura di Rosanna Scardi


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