AFRICA Nr 2 - Marzo-Aprile 2010

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Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Milano.

n.2 marzo-aprile 2010

www.missionaridafrica.org

Nigeria Primavera nel Delta

Petrolio Offshore Congo

Tanzania La guerra del biliardo

Mali Crociera nel Sahel

TURKANA

anno 88


foto Riccardo Venturi

In mostra a Milano dal 16 al 21 marzo presso il Festival Center (Casa del Pane di Corso Venezia, 63) La mostra “L’Africa nel pallone”, realizzata dalla nostra rivista in collaborazione con il Festival del Cinema Africano, è disponibile per esposizioni in tutta Italia. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0363 44726, africa@padribianchi.it

foto Riccardo Venturi

foto Ugo Lo Presti

Il calcio africano è una miniera d’oro che sforna campioni e favole sportive. Ma anche di delusioni e spietati fallimenti. Alla vigilia dei Mondiali in Sudafrica, venti fotografi scendono in campo per svelare sogni e illusioni di un continente che si gioca il futuro.


editoriale

foto Bruno Zanzotttera

Pensieri in libertà nell’area di servizio S

pesso, quando faccio il pieno, mentalmente, mi scappa di “tirare” qualche accidente alle compagnie petrolifere. Succede anche a un missionario! Sì, perché il prezzo del carburante aumenta immediatamente quando il costo del barile sale, ma quando scende ne segue il corso molto, ma molto più lentamente. Normalmente in tutto questo non si pensa ai Paesi da cui il carburante viene. E ancora meno alle popolazioni, uomini, donne, bambini e anziani, che in quei Paesi vivono. Credo che capiti un po’ a tutti: è così facile fermarsi a una stazione di servizio, fare il pieno, pagare (magari brontolando) e poi fuggire via. È anche per questo motivo che nelle pagine della sezione attualità di questo numero di Africa, abbiamo voluto soffermarci su alcuni Paesi produttori di quell’oro nero che ci permette di vivere come viviamo. Il Congo, per esempio, terzo esportatore africano di petrolio, con i suoi pozzi offshore e le sue sabbie bituminose. La nostra attenzione però è andata soprattutto alla Nigeria, il Paese più popoloso d’Africa, uno dei più complessi e contraddittori ma anche uno dei primi espor-

tatori di greggio del continente. La cronaca infatti ci ha parlato di violenze “religiose” che hanno provocato centinaia di morti. Non è un caso se siano scoppiate in quella fascia centrale che è una sorta di cerniera che tiene uniti il Nord - semidesertico, poco abitato e con una popolazione storicamente islamica - e il Sud - ricco di greggio nel turbolento Delta del fiume Niger, vivace dal punto di vista economico e a schiacciante maggioranza cristiana. Le violenze sono esplose a Jos, capitale dello stato di Plateau. Scintilla, la costruzione di una moschea in un quartiere cristiano della città. L’informazione, superficiale e schematica, ha dato conto dell’accaduto fornendo aggiornamenti soprattut-

to sul numero dei morti. Poi, come sempre, ha archiviato il tutto come “scontri religiosi che periodicamente infiammano la Nigeria”. La solita religione quindi? Nient’affatto! La solita politica? Assolutamente si. La Nigeria, dicevamo, è un Paese diviso tra le élite politiche del Nord e quelle del Sud, che si contendono il controllo del potere centrale, là dove, cioè, transitano i proventi del petrolio. Fino al 1999, le giunte militari al governo sono state le protagoniste del Nord. Poi, le prime elezioni democratiche fatte sotto la pressione occidentale, soprattutto degli Stati Uniti, hanno portato al potere un uomo del Sud, l’ex generale Olusegun Obasanjo. I politici ed i generali del Nord perdevano così il con-

trollo dell’ingente flusso di denaro generato dal petrolio. E di questo ne risentivano soprattutto i loro conti correnti privati all’estero. Da allora il conflitto “religioso” si è acuito, anche perché i governatori degli Stati del Nord hanno deciso di introdurre la shari’a, la legge integralista islamica. Un provvedimento di cui la popolazione, storicamente musulmana, non aveva mai sentito il bisogno. Per i politici, era il modo per ricattare il popolo e riconquistare il potere centrale di cui non avevano più il controllo. Spesso si fanno passare per conflitti etnici o religiosi guerre che sono invece scontri di potere, la cui posta in gioco non è la supremazia di un’etnia sull’altra ma il controllo di risorse economiche contese anche da multinazionali europee e nordamericane (non solo cinesi o russe). Ciò significa che le tensioni religiose ed etniche in Africa non esistono? Certo, ci sono. Ma le popolazioni, solitamente, tendono a smussare le differenze e a convivere, se il contesto economico e politico lo permette. Se qualcuno getta benzina sul fuoco, invece, è tutta un’altra storia. • africa · numero 2 · 2010

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sommario

DIREZIONE, REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE

viale Merisio, 17 24047 Treviglio (BG) tel. 0363 44726 - fax 0363 48198 africa@padribianchi.it www.missionaridafrica.org DIRETTORE

Paolo Costantini COORDINATORE

Marco Trovato

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copertina

40 La culla dell’umanità

di Bruno Zanzottera/Parallelo Zero

attualità

WEBMASTER

Paolo Costantini AMMINISTRAZIONE

Bruno Paganelli PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE

Elisabetta Delfini FOTO

Copertina Bruno Zanzottera/Parallelo Zero Si ringrazia Olycom COLLABORATORI

Claudio Agostoni, Marco Aime, Giusy Baioni, Enrico Casale, Giovanni Diffidenti, Matteo Fagotto, Emilio Manfredi, Diego Marani, Raffaele Masto, Pier Maria Mazzola, Aldo Pavan, Piero Pomponi, Giovanni Porzio, Anna Pozzi, Andrea Semplici, Daniele Tamagni, Alida Vanni, Bruno Zanzottera, Emanuela Zuccalà COORDINAMENTO E STAMPA

Jona - Paderno Dugnano Periodico bimestrale - Anno 88 marzo - aprile 2010, n° 2 Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48 L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la testata e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 675/96 - tutela dei dati personali).

3 4 Nigeria. Primavera nel Delta 10 Somalia. L’ammiraglio senza navi 12 Offshore Congo Africanews

a cura della redazione di Bruno Zanzottera

di U. Borga, M. Fagotto e G.P. Musumeci di Giovanni Porzio

società

20 Tanzania. Un calcio ai pregiudizi 26 Etiopia. Terrore in casa 32 Dakar. Taxi rosa 34 Tanzania. La guerra del biliardo di Marco Trovato e Marco Garofalo di Alice Pavesi

di Claudio Agostoni

di Marco Trovato e Marco Garofalo

libri e musica

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Libri e musica di P. M. Mazzola e C. Agostoni

cultura COME RICEVERE AFRICA per l’Italia: Contributo minimo di 25 euro annuali da indirizzare a: Missionari d’Africa (Padri Bianchi) viale Merisio, 17 - 24047 Treviglio (BG) CCP n.67865782 oppure con un bonifico bancario sul conto della BCC di Treviglio e Gera d’Adda intestato a Missionari d’Africa Padri Bianchi IBAN: IT 93 T 08899 53640 000 000 00 1315

50 Baby star in Sudafrica 54 La mia Africa in un click di Matteo Fagotto

a cura della redazione

per la Svizzera: Ord.: Fr 35 - Sost.: Fr 45 da indirizzare a: Africanum Reckenbüehlstrasse, 14 CH 6000 Luzern 4 CCP 60/106/4

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34 viaggi

56 Crociera nel Sahel

di Aldo Pavan e Marco Aime

storia

64 E l’uomo creò la mappa... 66 La rabbia degli ascari di Diego Marani

di Enrico Casale

chiese

68 L’amico dei ragazzi di Kisangani 70 Il missionario che studia l’islam 72 L’Africa al Museo 74 Brevi togu na 76 vita nostra 77 di Anna Pozzi e Bruno Zanzottera di Anna Pozzi

a cura della redazione a cura di Anna Pozzi

a cura della redazione

a cura della redazione


news

a cura della redazione

Africanews, brevi dal continente 1 Nigeria, cinema di pace Celebratosi lo scorso dicembre a Port Harcourt, l’International Film Festival aveva due finalità: promuovere il cinema indipendente e rilanciare l’immagine del Delta del Niger, la regione petrolifera divenuta tristemente famosa per via di tensioni politiche, violenze etniche e disastri ambientali. Obiettivi perseguiti con successo grazie alla professionalità della squadra che vi ha lavorato. (C.A.)

2 Senegal, stop alle baraccopoli Igiene e decoro dei centri urbani. Sono gli obiettivi del programma «Città senza baracche» lanciato dal governo del Senegal. Il ministro dell’Urbanistica Oumar Sarr ha promesso un risanamento delle zone degradate. I lavori interesseranno 1,8 milioni di persone che vivono nella precarietà ai margini dei centri urbani. Sarà un programma di sviluppo o solo un piano di sgomberi forzati?

3 Gambia, musei e biblioteche Il governo gambiano ha stanziato i fondi per la ristrutturazione della Biblioteca nazionale di Banjul, un’istituzione di riferimento per studenti, ricercatori e studiosi. Inoltre il ministro della Cultura Fatou Jobe Njie ha inaugurato nei

pressi dalla capitale il Museo della Donna. Un’esposizione permanente di oggetti e documenti storici che raccontano la vita e il ruolo della donna in Africa nel corso dei secoli.

4 São Tomé e Príncipe, petrolio all’asta Le concessioni su alcuni dei più promettenti giacimenti di idrocarburi di São Tomé e Príncipe sono state assegnate con un’asta a Londra agli inizi di marzo: lo ha comunicato il Primo Ministro Joaquim Rafael Branco. Con l’inizio dell’estrazione di petrolio e gas naturale questo piccolo arcipelago del Golfo di Guinea potrebbe ridurre la sua forte dipendenza dalle esportazioni di cacao.

(182°) nella classifica dello sviluppo umano stilata ogni anno dall’ONU: il 50% della popolazione è a rischio insicurezza alimentare.

6 Sudafrica, ricchi e poveri Grazie anche ai Mondiali di calcio, in programma tra giugno e luglio, l’economia del Sudafrica crescerà quest’anno del 2,3%: lo ha sostenuto il ministro delle Finanze Pravin Gordhan presentando in parlamento i nuovi sussidi per i lavoratori a reddito più basso e una serie di iniziative di politica industriale. La ripresa della produzione manifat-

fine dell’apartheid. Nel disegno di legge di bilancio è fissato l’obiettivo di aumentare il reddito pro capite in cinque anni a 57.618 rand, l’equivalente di circa 5500 euro.

7 Ghana, quaderni gratis Circa 5 milioni di quaderni sono stati donati dal governo del Ghana agli alunni delle scuole primarie e medie della regione meridionale di Koforidua. Il ministro Samuel Ofosu-Ampofo si è impegnato a garantire a tutti i giovani il libero accesso all’istruzione. Fonte: AgiAfro, Bbc, Jeune Afrique, Misna

5 Niger, crisi profonda Un colpo di Stato militare ha deposto lo scorso 19 febbraio Mamadou Tandja e il suo governo. Il Presidente era aspramente contestato per aver sciolto il parlamento e manomesso la Costituzione, garantendosi il potere oltre il secondo mandato. I golpisti hanno promesso nuove elezioni e nuova Costituzione. Il golpe è stato condannato dall’Unione Africana e dalla comunità internazionale. Il futuro del Niger è reso ulteriormente incerto dalle sue buie prospettive sociali ed economiche: il Paese - 3° produttore mondiale di uranio - è all’ultimo posto

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turiera, in particolare automobilistica e tessile, dovrebbe creare in 10 anni quasi due milioni e mezzo posti di lavoro. Gordhan ha ammesso che resta irrisolto il nodo delle disuguaglianze sociali, «tra le più grandi al mondo» nonostante siano trascorsi oltre 15 anni dalla

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attualità

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testo e foto di Bruno Zanzottera

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Reportage da una martoriata regione della Nigeria. In cerca di riscatto Il Delta del Niger, cassaforte del petrolio nigeriano, vive una stagione cruciale. Dopo decenni di violenze, i maggiori gruppi armati hanno siglato una tregua. Ora tocca al governo investire nello sviluppo e nella pace. Per non spezzare una fragile tregua

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a tribuna dello stadio di Okrika è in gran fermento. I suoni degli ottoni uniti alle grancasse si mischiano alle urla dei tifosi che si sovrappongono alla radiocronaca dello speaker che segue il match, annunciando con grande enfasi ogni azione in campo. Sul terreno di gioco si affronta-

no il Chelsea F.C. e la squadra locale dell’Itaka Utd. Okrika è una cittadina a pochi chilometri da Port Harcourt, la capitale del Rivers State, il cuore dell’estrazione petrolifera della Nigeria. Qui sorge una delle principali raffinerie del Paese, e i tubi degli oleodotti scorrono direttamente da-

Due saloni di parrucchieri dopo il passaggio delle ruspe. Per risolvere i problemi di traffico, il governo sta allargando le strade cittadine. Ma il lavori prevedono l’abbattimento di molte strutture. A destra, il mercato principale di Port Harcourt. La città si è enormemente ingrandita dopo la scoperta del petrolio africa · numero 2 · 2010

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attualità Tramonto su uno dei sobborghi di Port Harcourt. Sullo sfondo il mattatoio principale della città, i cui rifiuti vengono gettati direttamente nella scarpata che scende verso il fiume Niger

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vanti alle case, con gli abitanti costretti a sistemare passerelle di legno per poterli attraversare. Qui inizia il territorio degli Ogoni, l’etnia resa celebre dalla lotta di Ken Saro-Wiwa, il poeta che alzò la sua voce in difesa della gente del Delta e per questo venne impiccato nel 1995 con la falsa accusa di terrorismo.

La partita dei ribelli In alto a destra, due parenti di Ken Saro-Wiwa davanti ai ritratti del celebre scrittore e poeta ogoni, fatto impiccare nel 1995 dal governo militare nigeriano con l’accusa di terrorismo. Saro-Wiwa fu tra i primi a levare la voce contro le multinazionali del petrolio che inquinano il Delta con gravi danni alle popolazioni. A sinistra in alto, il campo di polo di Port Harcourt. Grazie al petrolio esiste una classe ricca che non perde occasione per divertirsi con gli sport più elitari

Al termine del primo tempo, dalle tribune scende in campo uno strano personaggio, per intrattenersi con i calciatori. Viso rotondo, sguardo severo, camicia bianca e panama, porta al collo un grosso ciondolo in oro. Lo accompagnano un gruppo di giovanotti muscolosi e un vescovo in abito da cerimonia. Si chiama Ateke Tom ed è il leader dell’Ndvm (Niger Delta Vigilante Movement), uno dei gruppi guerriglieri locali che da anni combattono contro l’esercito regolare e le multinazionali del petrolio. Il Chelsea non è la blasonata squadra londinese, ma un team composto da africa · numero 2 · 2010

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attualità

Un poliziotto davanti alle baracche di Bundu Waterside, una zona di Port Harcourt. In questi quartieri trovano terreno fertile i militanti del Mend. Ora il governo ha elaborato un piano per abbattere molte baraccopoli.

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IL SORRISO DEL GOVERNATORE Da tre anni Chibuike Rotimi Amaechi, a sinistra nella foto sotto, guida il Rivers State, il turbolento cuore petrolifero della Nigeria. Dinamico, sicuro di sé, con un sorriso alla Eddie Murphy, il governatore è impegnato a cambiare la nomea che il Delta del Niger ha acquisito in questi anni. Proclama: «Port Harcourt, capoluogo della regione, non deve più essere solo

sinonimo di violenza». La città è tappezzata di manifesti che “sconsigliano” rapimenti, violenze e affiliazioni a dubbie sette parareligiose. Amaechi asserisce che lo sviluppo futuro passa attraverso l’istruzione (sta finanziando la costruzione di 50 nuovi istituti scolastici). Per l’inquinamento che ha devastato il Delta auspica che le compagnie petrolifere attuino gli stessi standard utilizzati in Europa. Intanto l’operazione di pulizia procede con le ruspe che, senza tanti complimenti, stanno radendo al suolo interi slum (Claudio Agostoni)

militanti ribelli, e in palio vi è la Wakirike Peace Unity Cup, un trofeo creato per sancire l’adesione del gruppo di Ateke Tom al cessate il fuoco a tempo indeterminato, proclamato dal principale gruppo armato attivo nella regione - il Mend (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger). Non tutti i miliziani nel Delta hanno accettato il piano di pace e l’amnistia proposti dal governo

centrale di Abuja. Alcuni gruppi guerriglieri hanno dichiarato che continueranno a lottare per l’autodeterminazione del loro popolo, accusando le autorità locali e le multinazionali del petrolio di sfruttare e inquinare il territorio del Delta. Non sono mancati nuerosi sabotaggi agli oleodotti e sporadici episodi di violenza. Gli stessi ribelli del Mend hanno minacciato di tornare alla lotta armata, in

assenza di segnali concreti per la pace e lo sviluppo della regione petrolifera. Il Presidente nigeriano Umaru Yar’Adua ha promesso un maggior coinvolgimento delle comunità locali nell’utilizzo dei proventi del greggio. Per il momento ha finanziato la costruzione di scuole, strade e ospedali. I prossimi mesi ci diranno se nella martoriata regione del Delta sarà davvero primavera.•

In alto, una famiglia in motocicletta in un villaggio ogoni. Questa zona è pesantemente inquinata dagli impianti petroliferi della Shell. Sotto, Ateke Tom, leader di un ex gruppo ribelle, arringa i suoi fedeli miliziani, qui in abiti sportivi, nell’intervallo di una “partita per la pace” organizzata dalle autorità nella cittadina di Okrika. Alla sua destra, Mons. Timothy Prestige Adiele, suo compagno di infanzia

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copertina

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di Bruno Zanzottera/Parallelo Zero

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Nelle remote savane del Kenya settentrionale gli scienziati hanno scoperto i resti di antichi ominidi e graffiti rupestri. Tracce di culture neolitiche che paiono rivivere sulle sponde del lago più selvaggio della Rift Valley

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l temporale tropicale è da poco terminato sull’aeroporto di Nairobi, quando il nostro piccolo aereo si lancia verso enormi nuvole nere perforate dai primi raggi di sole. Voliamo verso nord: direzione Great Rift Valley, la gigantesca fossa tettonica formatasi 35 milioni d’anni fa dalla separazione delle placche di Africa e Arabia che si estende per oltre 6mila chilometri, dalla valle del fiume Giordano fino al Mozambico.

La porta dell’inferno Superate le pareti rocciose e i ghiacciai del monte Kenya, il paesaggio sottostante inizia a inaridirsi: i campi coltivati lasciano spazio ad una brulla savana con i letti dei fiumi privi d’acqua, simili a enormi serpenti dalla pelle squamata che incidono i fianchi delle montagne. Il cratere dell’antico vulcano Nabuyaton, “lo stomaco dell’elefante” del popolo Turkana, circondato da infinite onde pietrificate di lava, annuncia la vasta distesa del lago Turkana che, a dispetto delle sue acque “di giada”, è uno dei luoghi più inospitali della terra dove solo i coccodrilli, che occupano le spiagge intorno al vulcano, si trovano a proprio agio. I mitici Sámuel Teleki e Ludwig von Höhnel - gli esploratori austroungarici che nel 1883 rivelarono al mondo occidentale l’esistenza del lago, chiamandolo Rodolfo in onore al Kaiser - espressero la convinzione di aver oltrepassato “la porta dell’inferno” ed essere finiti in un terrificante labirinto di fuoco solidificato in milioni di pietre ardenti.

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copertina

Sulle rive del lago Turkana. Dove il tempo si è fermato Mosaico etnico L’atterraggio leggermente movimentato a causa dei venti avviene sulla striscia di terra dell’aerodromo di Loiyangalani, un grosso villaggio sulle rive sud-occidentali del lago. Loiyangalani è un tipico esempio di integrazione metropolitana tribale: una sorta di porto franco, dove etnie da sempre in conflitto tra loro convivono pacificamente in spazi ben riconoscibili ma non ghettizzati. Emblematico è

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il piccolo campement per i pochi turisti che si spingono fin qui, realizzato e gestito dalle donne del Maendeleo ya Wanawake Movement (Movimento per il progresso delle donne), il cui nome, Mosaretu, rappresenta le iniziali delle popolazioni che vivono a Loiyangalani: El Molo, Samburu, Rendile, Turkana. In una delle capanne, due ragazze turkana si stanno acconciando per recarsi a un matrimonio in un luogo

imprecisato ad un giorno di cammino. Con le mani rosse di un impasto di ocra e burro si spalmano vicendevolmente il viso, il cranio rasato e le innumerevoli collane di perline. Con loro alcuni anziani realizzano complesse acconciature in fango sulla nuca, dentro cui infilano piume di struzzo.

Sempre in movimento I Turkana, nonostante abbiano dato il nome al lago una volta liberatosi dalle

nostalgie coloniali, sono gli ultimi arrivati sulle sue rive. Provengono dagli altopiani orientali dell’Uganda dei loro parenti Karimojong. Sono pastori nomadi per necessità. Il loro territorio è costellato da innumerevoli vulcani e il terreno è un ammasso di rocce laviche nere e taglienti ricoperte da cenere e sabbia, dove la temperatura supera i 50 gradi e le piogge non raggiungono i 200 millimetri annui. In un ambiente simile, la mobilità


totale è l’unica possibilità di sopravvivenza. Si deve camminare con il bestiame alla continua ricerca di erba e acqua: un Turkana è in grado di percorrere a piedi 60 chilometri al giorno e anche per i bambini è del tutto naturale marciare per decine di chilometri alla ricerca dei pozzi. Questo bisogno di spazio per il bestiame con il quale vivono in una sorta di simbiosi («I numeri turkana si fermano al 999, ma esistono 700 espressioni per dire mucca», racconta l’antropologo Alberto Salza) e la

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copertina siccità degli ultimi decenni hanno spinto i Turkana sino alle rive del lago, a stretto contatto con popolazioni storicamente ostili.

Mangiatori di pesci Poco più a nord di Loiyangalani si incontrano i villaggi El Molo, un popolo di pescatori-cacciatori stabilitosi sulle rive del Turkana in tempi molto antichi. Negli anni Sessanta furono conosciuti come “la più piccola tribù d’Africa” quando, a causa del costume matrimoniale endogamico, si ridussero a meno di 100 individui. Gli interventi del governo e dei

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missionari a favore di matrimoni misti con Samburu e Turkana, che nel frattempo avevano iniziato ad occupare i territori attorno al lago, li salvarono dall’estinzione, ma ne trasformarono in parte costumi e cultura, ad iniziare dalla lingua di origine cuscita proveniente dall’Etiopia, oggi completamente scomparsa a favore della lingua maa parlata da Samburu e Masai. Il termine El Molo deriva proprio dalla lingua dei Samburu che, spregiativamente, li chiamavano loo molo onsikirri (“la gente che mangia pesce”), cosa

assolutamente da evitare per un popolo di pastori seminomadi quali i Samburu. Dalla collina sovrastante, il villaggio El Molo di Layeni appare come una serie di pallini gialli sopra una distesa di cenere sulla riva di un lago dalle acque verdi. Nessun albero in vista. Con la luce dell’alba può sembrare una visione idilliaca, ma non appena il sole intensifica la potenza dei suoi raggi ci si rende subito conto che vivere qui non deve essere facile. Le capanne a cupola, costruite con fibre e foglie di palma a imitazione di quelle sam-

buru e turkana - che hanno progressivamente sostituito quelle originarie ricoperte con foglie di potamogeton, un’erba che cresce nel lago - diventano l’unico fragile riparo dalla calura.

Risorse per pochi Un tempo gli El Molo integravano la propria dieta a base di pesce con carni di coccodrillo e ippopotamo, che cacciavano con arpioni rudimentali sino all’interdizione totale della caccia da parte del governo. Oggi diventa sempre più difficile conciliare la salvaguardia dell’ecosistema del Turkana


Popoli del Rift keniano Il territorio keniano della Rift Valley è abitato in gran parte da popoli di pastori nomadi che contendono le esigue risorse a piccoli gruppi di pescatori. Ecco una mappa dell’eccezionale mosaico etnico che ruota attorno al lago Turkana. Turkana . Di origine nilo-camitica, vivono nella zona settentrionale del Kenya attorno alle rive dell’omonimo lago. Pastori seminomadi, allevano bovini, pecore, cammelli e capre. Alcuni di loro si sono convertiti alla pesca a causa della siccità e della conseguente perdita del bestiame. El Molo . Sono tra i più antichi popoli insediatisi nella regione. Pescatori stanziali, erano sull’orlo dell’estinzione e solo l’imparentamento con Turkana e Samburu ha permesso loro di sopravvivere. Samburu . Vivono nei territori semidesertici del Kenya settentrionale a sud del lago Turkana. Pastori nomadi, strettamente imparentati con i Masai, si cibano di latte unito al sangue di bovino ottenuto con dei salassi dalla giugulare dell’animale. Rendille . Pastori seminomadi, allevano principalmente cammelli e abitano la parte sudorientale del lago Turkana nel distretto di Marsabit. I loro costumi sono molto simili a quelli dei Samburu, da cui si distinguono per la lingua. Gabbra . Allevatori di cammelli, di origine etiope, sono emigrati nella parte nord-orientale del lago Turkana circa un secolo fa. Sui loro nuovi territori sono entrati in contrasto, per l’utilizzo dei pascoli, con le popolazioni somale, di cui condividono la religione musulmana. Borana . Sono una popolazione del gruppo oromo di origine etiopica, divisi in un centinaio di clan. Nomadi, animisti, si spostano tra la zona settentrionale del lago Turkana e il distretto di Marsabit allevando cammelli, bovini e capre. Dassanetch . Pastori e pescatori di origine etiope, si sono stanziati tra il delta del fiume Omo e l’estremità nord del lago Turkana, entrando in conflitto con le altre tribù keniote.

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copertina con il rispetto di civiltà antichissime e fragili. Le risorse alimentari di questa remota regione sono sempre più esigue. Ciò provoca inevitabilmente delle tensioni tra le diverse popolazioni. I pastori turkana e quelli borana, per esempio, sono in guerra tra loro con vicendevoli accuse di furti e aggressioni. Sembra che nella regione ogni anno 300mila

capi di bestiame cambino proprietario senza compravendita e, da quando i fucili mitragliatori hanno sostituito le lance e i bastoni, la situazione si è oltremodo deteriorata. Non meno cruenti sono gli scontri armati che animano i rapporti di vicinanza tra i Gabbra e i Dassanetch, tra i Rendille e i Samburu. Le scaramucce e gli episodi di sangue si

IN PERICOLO Il Lago Turkana, da cui dipende la sopravvivenza di mezzo milione di persone, è minacciato dalla costruzione di una gigantesco impianto idroelettrico destinato a sbarrare entro il 2013 il fiume Omo, che fornisce l’80% dell’acqua del lago situato al confine tra Etiopia e Kenya. «Le conseguenze della diga sulle comunità Turkana potrebbero essere devastanti», avverte l’idrologo Paul Ikmat. Per approfondire il discorso segnaliamo l’articolo «Omo, il fiume imbrigliato», pubblicato su Africa 1/2010.

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susseguono con una certa regolarità, le autorità intervengono di rado. Se è vero, come affermano gli studiosi, che nel cuore della Rift Valley l’uomo si è evoluto attraverso una spietata lotta per la sopravvivenza che dura da milioni di anni, non sorprende che oggi la legge della civiltà moderna si smarrisca tra le infuocate e selvagge pianure del Turkana. •


Il viaggio periodo . I mesi più freschi per recarsi sul lago Turkana sono giugno, luglio e agosto; gennaio e febbraio sono quelli più caldi. documenti . Passaporto con sei mesi di validità. Il visto viene rilasciato all’aeroporto di Nairobi. norme sanitarie . Richiesta la vaccinazione contro la febbre gialla, attestata sul libretto sanitario. Consigliate la profilassi antimalarica e le vaccinazioni antitifica e antitetanica. cosa portare . Indumenti leggeri, occhiali da sole, collirio, burrocacao, creme per la pelle. Un paio di scarpe da ginnastica o scarponcini da trekking leggero. dove dormire . Loiyangalani, lago Turkana: Oasis Lodge, purtroppo gestito male da un tedesco alcolizzato. Senza piscina ma molto più simpatico il Mosaretu Camp, costituito da confortevoli capanne tradizionali. guide . Kenya, Vallardi 2007 (traduzione italiana della Rough Guide), 28,50 €; oppure Kenya, Edt 2006 (traduzione italiana della Lonely Planet), 22 €. con chi . Il tour operator Kel 12 (www.kel12.com) propone un viaggio suggestivo nella regione del Turkana. Alternative più economiche sono proposte da Africanexplorer (www.africanexplorer.com) e Avventure nel Mondo (www.viaggiavventurenelmondo.it).

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attualità

di Ugo Borga, Matteo Fagotto, Giampaolo Musumeci

L’ammiraglio senza navi La missione impossibile del capo della Marina somala Il comandante Farah Omar vorrebbe contrastare la pirateria somala, una delle organizzazioni criminali più efficaci al mondo. Ma non ha imbarcazioni né armi e neppure uniformi per i suoi marinai

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bbiamo un piano efficace per sconfiggere i temibili corsari, ci serve solo un piccolo aiuto della comunità internazionale». Seduto davanti a un semplice banco di legno che funge da scrivania, in un palazzo situato nell’area portuale della capitale Mogadiscio,

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l’ammiraglio della Marina somala Farah Ahmed Omar è intento a presentare la sua strategia per sconfiggere i corsari del Corno d’Africa. Ai suoi lati alcuni ufficiali, vestiti con un’uniforme giallo canarino sbiadita da quasi vent’anni di naftalina, annuiscono alle affermazioni del comandante.


Lo Stato Maggiore della Marina somala al completo. L’ammiraglio Farah Ahmed Omar, mentre parla al cellulare, orfano delle sue navi, è anch’egli costretto a sedere su una sedia di plastica davanti a vecchi banchi di scuola

Le fregate? Fregate! A metà dell’intervista, una rivelazione strappata a forza all’alto ufficiale fa piombare il gelo nella stanza. Niente navi, niente uomini, niente armi: l’ammiraglio e i suoi comandanti sono alla guida di una forza che non esiste. «Stiamo ripartendo da zero, al momento non abbiamo niente», si giustifica Omar. «E che fine hanno fatto le vecchie navi?», incalza il

giornalista. «Non si sa dove sono. Le hanno rubate…» è l’imbarazzata risposta. Colpa di qualche scaltro ufficiale che nel 1991, allo scoppio della guerra civile, se n’è andato con le navi nello Yemen, riconvertendo fregate e cacciatorpedinieri in pescherecci e diventando un imprenditore del pesce. L’ennesimo paradosso di un Paese, la Somalia, devastato da 18 anni di guerra civile, con un governo la cui autorità è limitata al controllo di un terzo della capitale e dove le milizie armate la fanno da padrone. Dal 1991 il vecchio porto di Mogadiscio che ospitava la «gloriosa» Marina somala, come la definisce l’ammiraglio, è desolatamente vuoto. Nonostante ciò, Omar e i suoi ufficiali tentano di darsi un contegno nell’affrontare quella che sembra una vera mission impossible: contrastare la pirateria somala, una tra le organizzazioni criminali più efficaci al mondo, dotata di una rete di informatori in ogni porto della regione. Il tutto senza il becco di un quattrino. Il governo di transizione somalo (Tfg) non può certo permettersi di investire in navi, assediato com’è dalle milizie islamiche di Al-Shabaab e di Hizbul Islam.

Soldati allo sbando Lo stesso quartier generale della Marina è un palazzo sventrato da vent’anni di guerra civile. Nella stanza al piano terra che funge da ufficio, il comandante può contare solo su un vecchio banco di scuola e una sedia di plastica. Alle sue spalle, dove un tempo doveva es-

banco. «In questo momento i nostri ragazzi non ricevono una preparazione adeguata».

Missione impossibile

Un soldato di guardia al quartier generale della Marina somala: sprovvisto del berretto di ordinanza, indossa il cappellino rosso del Real Madrid e delle ciabatte di gomma

serci una finestra, un immenso buco nel muro dà su un giardino pieno di sterpaglie alte due metri. L’edificio, situato a pochi chilometri dal fronte, è protetto da una ventina di soldati dall’aria svogliata, in mimetica. Per mancanza di fondi, al posto del berretto di ordinanza indossano dei cappellini rosso fiammante con il logo del Real Madrid, di quelli che in Europa si vendono nelle bancarelle fuori degli stadi. Ma su questo particolare l’ammiraglio preferisce soprassedere, concentrandosi sulle primarie necessità del nuovo corpo: significativamente, tra le priorità pone l’arredamento del suo comando. «Avremo bisogno anche di una scuola tecnica dove addestrare le reclute», sottolinea battendo il pugno sul

Le prime 500 reclute del nuovo corpo sono da poco tornate da Gibuti, e stanno completando il corso nell’area del vecchio porto. Allineate sull’attenti nei pressi dell’ex capitaneria, ora ridotta a un rudere incustodito, i nuovi marinai non colpiscono certo per la loro aria marziale o per la sincronia dei movimenti. All’occhio saltano più che altro le loro divise bianche e i soliti berretti da stadio. Al contrario dei primi, questi sono blu e includono una varietà di squadre: oltre al Real Madrid, Benfica e Arsenal sono le più gettonate. Neanche il tempo di salutare il Comandante in visita, che le milizie alleate di stanza al porto cominciano a spararsi tra di loro. Una scena quasi quotidiana a Mogadiscio, e così tra le reclute 18enni comincia un fuggi fuggi generale per mettersi al riparo di qualche edificio e attendere la fine delle ostilità. Difficile pensare di contrastare i pirati con una banda di ragazzini alla mercé di dieci miliziani armati di kalashnikov. Un’impresa del genere scoraggerebbe anche il più temerario dei militari, ma non il Comandante Omar. Stanco dei 18 anni di pensionamento forzato a cui l’ha costretto la guerra civile, non vede l’ora di poter dimostrare il proprio valore sul campo. Ma prima dovrà aspettare che qualche imbarcazione si materializzi all’orizzonte. • africa · numero 2 · 2010

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attualità

testo e foto di Giovanni Porzio

Le acque congolesi al largo di Pointe Noire sono costellate di centinaia di isole d’acciaio che perforano i fondali marini e pompano fiumi di greggio. Vi sveliamo come funzionano

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attualità

A bordo delle piattaforme petrolifere dell’Eni

L’

elicottero sorvola la distesa grigia del Golfo di Guinea, una selva di pozzi e di torri d’acciaio che dalla Nigeria all’Angola sondano senza sosta uno dei più ricchi ed estesi giacimenti petroliferi del pia-

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neta. È un ambiente ostile e desolato. Torrenziali rovesci di pioggia si alternano a roventi sprazzi di sole, su un oceano dove la spessa e uniforme coltre di umidità è interrotta dai bagliori rossastri delle fiaccole del gas.

Lavoro estremo Atterriamo sulla piattaforma DP1-PP del campo di Loango, 70 chilometri al largo di Pointe Noire, una delle 18 gestite dall’Eni in Congo. «Qui vivono 80 tecnici», spiega il direttore delle ope-

razioni offshore Roberto Bevilacqua. «In totale abbiamo in mare 500 uomini che da 200 pozzi estraggono 60mila barili al giorno di greggio». Non è un lavoro per tutti. Turni di 12 ore. Lunghe settimane lontano da casa, rigide


norme di sicurezza, isolamento, spazi esigui. E ovunque pericoli in agguato: cavi ad alta tensione, tubazioni sospese contenenti idrocarburi infiammabili. E la costante presenza di idrogeno solforato, altamente tossico, che riempie l’aria di un odore acre e nauseabondo. Allarmi e sistemi antincendio sono continuamen-

te monitorati, le scialuppe di salvataggio sono pronte all’evacuazione e il personale deve attenersi alle procedure: maschere antigas a tracolla, elmetto, calzature rinforzate, niente sigarette, niente telefoni cellulari.

Esploratori del mare Ci vuole fegato per sopportare condizioni di vita così

estreme. Ci vogliono forza d’animo e spirito di adattamento per resistere su un traliccio ai confini del mondo, dove l’unica via di fuga è l’elicottero o la lancia di soccorso. Ma non sono gli elevati salari a calamitare gli uomini (e più raramente le donne) sulle piattaforme. E nemmeno le prospettive di carriera rese più certe dal-

Le piattaforme sono difese da motovedette e dalle forze speciali. Nelle acque nigeriane pattugliano le unità della Marina americana e i tecnici hanno il divieto assoluto di svelare la posizione delle piattaforme. Per ragioni di sicurezza ogni comunicazione con l’esterno deve essere autorizzata

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attualità

Le cuccette sono piccole ed essenziali: la vita si svolge in spazi ristretti che consentono solo pochi svaghi e la cucina sforna pasti anche di notte poiché il lavoro degli operai non si ferma mai

la corsa al rialzo del greggio, lanciato verso il picco dei 150 dollari il barile. È piuttosto la consapevolezza di appartenere alla compagine degli ultimi esploratori della nostra epoca: una razza nomade e indurita, una legione straniera di tecnici italiani, russi, cinesi, norvegesi, indiani, africani, americani, impegnata giorno e notte a pompare la linfa che alimenta le nostre industrie, le nostre auto, le nostre case. 16

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Tecnici italiani Veterani come Miro Oggioni, bergamasco, responsabile delle squadre notturne della Saipem, che ha passato 32 dei suoi 56 anni tra la Libia, la Nigeria e i campi petroliferi iracheni di Bassora e di Kirkuk. «Mi piace lavorare in piattaforma», dice. «Lo so, è pericoloso: per noi che facciamo i pozzi e li mettiamo in marcia c’è il rischio delle fughe di gas e delle esplosioni. E poi: la fatica della movimentazione dei pesi, i turni massacranti anche sotto il diluvio. Non valgono i 4mila euro del mio stipendio. Ma non potrei mai stare in un ufficio al chiuso». Anche Leandro Gandolfi, 55 anni, di Motta Baluffi (Cr), responsabile operativo del campo di Loango,


I NUOVI GIACIMENTI? NELLA FORESTA Preoccupante futuro dell’esplorazione petrolifera in Africa

REGIONI FORESTALI DI MAKOLA E TCHIKATANGA

Il business dell’Eni in Congo non galleggia solo sulle acque dell’oceano. Il gigante dell’energia italiano punta ad estrarre petrolio dalle sabbie bituminose, ma i suoi piani sono costosi e inquinanti

Ai lavoratori della piattaforma è sempre richiesto il massimo livello di attenzione. La minima disattenzione potrebbe provocare gravi incidenti

Dopo essersi aggiudicata lo sfruttamento delle riserve di greggio offshore davanti alla città costiera di Pointe Noire, l’Eni ha messo le mani sui ricchi giacimenti celati nell’entroterra del Congo. Dopo le acquisizioni del 2007 che hanno garantito a Eni l’accesso al gigantesco giacimento di M’Boundi, nel maggio del 2008 l’azienda italiana ha firmato un accordo di circa 4 miliardi di dollari con il governo di Denis Sassou Nguesso (al potere da 25 anni). Accordo che include, tra le altre cose, il diritto a esplorare le foreste nel sud-ovest del Paese, dove è stato scoperto petrolio in forma solida mescolato al terreno sabbioso. Si tratta di un progetto estremamente costoso, su cui la compagnia ha iniziato a puntare da quando il prezzo del greggio è schizzato alle stelle e le riserve dei giacimenti tradizionali hanno cominciato a calare. Il processo di estrazione del petrolio dalla sabbia prevede l’utilizzo di sostanze chimiche altamente inquinanti e produce alte concentrazioni di prodotti di scarto tossici che si degradano molto difficilmente e persistono come inquinanti nel terreno e nelle falde acquifere. Le organizzazioni ambientaliste e per la difesa dei diritti umani congolesi e internazionali sono preoccupate per il futuro della foresta del bacino del Congo, la seconda foresta pluviale al mondo, ricca di biodiversità, preziosa e fragile. Secondo un recente rapporto della fondazione tedesca Heinrich Böll, il territorio interessato dai lavori dell’Eni, 1790 kmq in buona parte coperto da foresta primaria, è abitata da decine di migliaia di persone e ospita diverse specie animali protette. La compagnia ha dichiarato che le operazioni di esplorazione ed estrazione non avranno conseguenze negative sull’ambiente e

»»

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attualità

Poveri sopra un mare di petrolio Il Congo è il terzo esportatore di petrolio africano, dopo la Nigeria e l’Angola. Un mare di petrolio che le grandi compagnie occidentali hanno iniziato a esplorare già alla fine degli anni Cinquanta, prima dell’indipendenza del Paese, e che fino ad oggi ha lasciato sul territorio gravi impatti ambientali ma scarsi benefici per le comunità locali e la popolazione congolese in generale. L’economia del Paese è dominata dal settore petrolifero, cui corrisponde circa il 52% del prodotto interno lordo, più dell’85% delle esportazioni e circa il 70% delle entrate del governo. La francese Total e l’italiana Eni sono le due compagnie petrolifere con investimenti più importanti nel Paese. La Repubblica del Congo è uno dei Paesi più poveri e altamente indebitati dell’Africa, con un debito estero tra i 5 e i 6 miliardi di dollari. Secondo la Banca mondiale, almeno il 50% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, ma le stime non ufficiali parlano di almeno il 70%. Elena Gerebizza 18

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»» si è fatto le ossa nel deserto libico e nella foresta nigeriana. È lui a raccontarmi il viaggio del petrolio dai giacimenti sottomarini al terminal di Pointe Noire: la piattaforma DP1-PP è attiva dal 1977, i suoi generatori producono l’energia che alimenta le pompe sommerse, i suoi impianti di trattamento separano il greggio dai liquidi e dai gas (bruciati in torcia) e lo immettono nella pipeline. Il rumore è assordante. Gli operai sembrano alpinisti: si arrampicano su per ripide scalette e pareti di tubi, tra grovigli di cavi, valvole e manometri. «Quando c’è

A sinistra, dall’alto: la sala relax e la mensa. Sotto, una veduta aerea della piattaforma i cui piloni vengono regolarmente ispezionati

cattivo tempo - urla Gandolfi nel frastuono - dobbiamo calarci nelle lance di appoggio con un cestello assicurato a un paranco».

Un mondo a parte Nella sala comandi i computer sono collegati ai sensori che controllano la pressione dei pozzi e il flusso nei condotti. Gli incidenti sono rari. «Il problema maggiore qui è la malaria», conferma Annisett Mavungu, medico di bordo, congolese laureato all’Avana. L’equipaggio è in buona salute. Il container con i viveri arriva ogni settimana e tra pranzi e spuntini si mangia cinque volte al giorno. Il pesce fresco, barattato con uova, pasta e con il pane sfornato sulla piattaforma, lo forniscono i pescatori dalle piroghe. Ma niente vino: tutte le installazioni sono rigorosamente “dry”. E pochi svaghi: la tivù, il ping pong, le telefonate a casa. Si arriva stanchi alla fine del turno, e si va in branda. Ai tavoli della mensa il cambusiere croato, Branko Stoiacovic, racconta del suo ristorante a Novigrad, lasciato durante la guerra nei Balcani. Divorziato, ha un figlio di 15 anni che vede quando sbarca, ogni 10 settimane. «Mi manca molto», dice. Sono rare le famiglie degli oilmen che restano in piedi: divorzi, separazioni, doppie vite sono l’amaro risvolto delle lunghe assenze e di una vita randagia. «Ogni telefonata a casa dice Simone Navetto, perito chimico di Orvieto, due figli di 7 e 1 anno - è una coltellata al cuore». •

sulla popolazione locale. Ma offre ben poche garanzie a riguardo alle comunità locali. L’unico luogo sulla terra dove le compagnie petrolifere abbiano iniziato l’estrazione su larga scala delle sabbie bituminose è la regione di Alberta, in Canada. E qui gli impatti ambientali e sociali si sono dimostrati devastanti: le falde acquifere locali sono state inquinate e centinaia di migliaia di ettari di foresta boreale sono andati distrutti.

Le popolazioni del Congo sono comprensibilmente preoccupate. Una delle comunità maggiormente interessate al progetto è quella di M’Boukou, a circa 40 chilometri da Pointe Noire, situata nel territorio dove Eni detiene il diritto di esplorazione delle sabbie bituminose. Qui vivono circa 8mila persone che coltivano su scala familiare manioca, banani, palme da olio e altri alberi da frutto. Come verificato da una missione internazionale di organizzazioni non governative, nella primavera dello scorso anno le ruspe avevano già aperto enormi varchi nella foresta, passando in mezzo alle terre coltivate. I membri della comunità affermano di avere sentito continue esplosioni di dinamite, mentre nessuno è stato informato delle esplorazioni in corso. Tutto questo avviene mentre Eni afferma di voler condurre una politica di rispetto dei diritti umani delle comunità locali, promuovendo una consultazione “libera e informata”. Nel vicino villaggio di M’Boundi la gente vive a poche centinaia di metri da due enormi fuochi a cielo aperto che bruciano, 24 ore su 24, il gas naturale che esce assieme al petrolio. Gli abitanti del villaggio dicono che oltre al gas la compagnia brucia anche altro, forse i rifiuti della lavorazione e il materiale raccolto dalla pulizia delle cisterne. Tutto ciò rende non potabile l’acqua piovana, unica risorsa del villaggio. Le piogge infatti sono acide e nei recipienti dedicati alla raccolta si deposita una chiazza nera e oleosa. Inoltre la popolazione denuncia il fatto che le piante di manioca si seccano rapidamente e tra la gente sono sempre più diffuse malattie respiratorie, irritazioni cutanee e affezioni delle mucose.

Elena Gerebizza Questo articolo viene pubblicato in collaborazione coi mensili Valori e Altreconomia. Sui nostri siti pubblichiamo cinque domande “scomode” per i dirigenti dell’Eni. Obiettivo: fare chiarezza sul business del petrolio nelle sabbie congolesi. Anche la Chiesa del Congo è preoccupata per i risvolti sociali e ambientali delle nuove esplorazioni petrolifere. A pagina 75 trovate un’intervista a Brice Makosso, presidente della Commissione Giustizia e Pace della Chiesa congolese.

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testo di Marco Trovato foto di Marco Garofalo

Un calcio ai

In Tanzania scendono in campo gli albini. 20

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PREGIUDIZI Per vincere la paura africa 路 numero 2 路 2010

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Decine di albini tanzaniani sono stati uccisi negli ultimi anni in nome di antiche superstizioni. Ora la neonata squadra dell’Albino United ha deciso di partecipare al campionato nazionale di calcio. Per sconfiggere l’intolleranza

L’

ta dal traffico». John Haule, tecnico dell’Albino United, ha parole di comprensione per i suoi ragazzi. «Non sono ancora dei professionisti. Devono lavorare tutto il giorno per sfamarsi. Alcuni non

hanno neppure i soldi per il biglietto del bus. Siamo una squadra nuova, con pochi mezzi, zero sponsor… Non posso pretendere miracoli». Il miracolo, in verità, è già avvenuto: 25 giovani albini

di Dar es Salaam hanno deciso di dar vita ad una squadra di calcio e di partecipare al campionato della National League (equivalente alla nostra Prima Divisione della Lega Pro, l’ex serie C1). foto Marco Trovato

appuntamento per gli allenamenti è alle 16, ma i giocatori sono in ritardo. «A quest’ora fa troppo caldo per correre, la sabbia del campo brucia. E poi, che diamine, la città è paralizza-

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Vite infernali «Il primo risultato che inseguiamo è dimostrare che l’albinismo non è una pericolosa maledizione», spiega Severin Edward Mallya, attivista dei diritti umani e fondatore del team. In Tanzania le persone affette da questa malattia genetica - caratterizzata dall’assenza di pigmentazione della pelle, dei capelli e degli occhi - sono relegate ai margini della vita sociale. «Il razzismo e l’ignoranza dilagano», chiarisce Mister Edward. «Le persone diverse sono guardate con sospetto e diffidenza, talvolta con paura e rancore. Molte donne africane sputano per terra quando vedono un albino… Per non avere un figlio come lui». Si stima che siano 170mila gli albini tanzaniani, su una popolazione di circa 39 milioni. I bambini, emarginati dai compagni di scuola, vengono maltrattati persino in famiglia perché i genitori si vergognano di loro: alcuni scappano di casa e finiscono sulla strada. Gli adulti sono costretti ad accettare abusi e lavori sottopagati. Un tormento che dura fino ai quarant’anni (l’aspettativa media di vita di un albino

Alcuni giocatori dell’Albino United. L’ultimo a destra è Severin Edward, fondatore del team. L’albinismo può provocare conseguenze pesanti: melanoma e lesioni cutanee, ma anche colpi di calore, infiammazioni alle labbra, disturbi agli occhi

sotto il sole tropicale), fino a quando il cancro alla pelle non li condanna ad una morte atroce.

Caccia all’uomo Ma ad uccidere gli albini in Tanzania è soprattutto la superstizione. Un tempo, nemmeno cent’anni fa, venivano soppressi alla nascita perché si riteneva fossero figli di relazioni extraconiu-

gali con i coloni bianchi. Oggi vengono massacrati e fatti a pezzi per officiare rituali magici. È opinione diffusa che i loro organi siano ingredienti fondamentali per realizzare talismani miracolosi. «Gli stregoni ordinano che parti dei loro corpi vengano appese nelle miniere d’oro, per trovare il metallo prezioso», racconta Severin Edward. «Ai pesca-

tori viene consigliato di usare gli arti staccati come esca o di legare i loro capelli alla rete perché la pesca sia più generosa». Negli ultimi 3 anni più di 50 albini, molti dei quali fanciulli, sono stati uccisi e mutilati in Tanzania, specie nelle regione del lago Vittoria. Un’epidemia di furore superstizioso che ha spinto le autorità tanzaniane a intervenire. Nell’aprile del 2008 il Presidente Jakaya Kikwete ha nominato parlamentare una donna albina (la prima nella storia del Paese), Al-Shymaa Kway Geer, alla quale è stato dato l’incarico di promuovere leggi in difesa delle minoranze perseguitate. Subito dopo il governo ha ordinato un giro di vite contro gli stregoni e i sedicenti curatori che hanno alimentato africa · numero 2 · 2010

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società le terrificanti credenze popolari. Nella primavera del 2009 la polizia ha arrestato almeno 172 persone, ritenute colpevoli di omicidi rituali commessi contro gli albini. Molti dei sospettati hanno ammesso di aver mozzato le mani e i genitali dei cadaveri per «assicurarsi ricchezza e fortuna». Lo scorso settembre un tribunale della regione di Shinyanga, nel nord del Paese, ha condannato per la prima volta a morte 3 persone per l’omicidio di un albino di 14 anni.

L’orgoglio ritrovato

che circonda la comunità albina… Uno sport popolare come il calcio può aiutarci a promuovere una nuova cultura del rispetto e della solidarietà». Ogni domenica l’Albino United dimostra al grande pubblico che gli albini sono persone normali, in grado di praticare sport a livello agonistico. Con passione e lealtà. Senza paura. «All’inizio ci chiamavamo Albino Magic Team - ricorda Oscar

Haule, manager della squadra -; abbiamo preferito cambiare nome perché la parola Magic rischiava di alimentare incomprensioni e stupide fantasie radicate nella gente». La prima partita ufficiale si è svolta il 26 ottobre 2008 nel grande stadio di Dar es Salaam, in diretta tivù, davanti a migliaia di spettatori. Da una parte gli albini, dall’altra il team dei parlamentari. Il risultato non era importante. Conta-

va solo scendere in campo e frantumare l’ultimo tabù. «Temevamo di dover subire bordate di fischi e cori offensivi dagli spalti, invece l’accoglienza del pubblico fu calorosa: un’emozione indimenticabile», ricorda il capitano Deogratias Ngonyani, 21 anni, cuore pulsante del centrocampo. «Quando ero bambino avrei voluto giocare a calcio, ma i miei compagni non me lo permettevano… Ho vissuto anni di umiliazioni e discriminazioni, ma oggi faccio parte di una vera squadra e non ho più vergogna della mia malattia».

Lavori in corso Il campionato dell’Albino United è iniziato da poche settimane e i primi altalenanti risultati (un pareggio, due sconfitte, una vittoria) foto Marco Trovato

«L’azione repressiva del governo aiuta a frenare le violenze, ma non basta», puntualizza Severin Edward. «Bisogna sradicare gli antichi pregiudizi e dissipare il clima di odio

La squadra si ritrova ogni sera di fronte all’ospedale oncologico di Dar es Salaam, dove ha sede l’associazione degli albini tanzaniani

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Voglia di vincere La gran parte dei compagni gioca a piedi nudi o con calzature sfondate. I più fortunati indossano scarpini da calcio, ma sono due-tre misure più grandi del dovuto.

foto Marco Trovato

non hanno spento l’entusiasmo. I giocatori si ritrovano ogni sera nei pressi dell’ospedale oncologico di Dar es Salaam (dove ha sede il quartiere generale dell’Albino Society, l’associazione nazionale che tutela i diritti degli albini). Si allenano in uno spiazzo di terra fetida pieno di buche, senza neppure un filo d’erba, che al primo temporale diventa impraticabile. È un campetto triangolare - «quelli a forma rettangolare erano già tutti occupati», spiegano gli atleti - stretto tra un cantiere che brulica di operai e un posteggio di taxi sventrati. In mezzo c’è un enorme albero di mango e un container abbandonato da chissà quanto tempo. «Ostacoli da schivare con il pallone incollato ai piedi», ordina l’allenatore. I pali delle porte sono due bastoni biforcuti, la traversa una corda penzolante. «Alla prima pallonata mi crolla tutto addosso e tocca sempre a me rimettere in piedi l’opera», sbotta il portiere. Si chiama Charles, ha 24 anni ed è l’unico calciatore non albino della squadra. «I miei compagni non vedono abbastanza per difendere la porta: i loro occhi, privi di melanina, sono troppo chiari e sensibili alla luce. Meglio che mi occupi io di parare, loro devono solo correre e segnare qualche goal».

Dopo gli esercizi di riscaldamento e qualche palleggio mal eseguito, inizia la partitella di allenamento con una squadra del quartiere. In campo non si vedono piedi fatati, la tecnica è piuttosto carente, mancano i fondamentali a troppi giocatori, che non azzeccano un cross né uno stop. Gli schemi di gioco sono vaghi. In compenso c’è grinta e agonismo da vendere. E

tanta confusione. Furiose ammucchiate in stile rugbistico, difese a uomo con marcature molto strette, contrasti duri al limite del regolamento. Nuvole di polvere si alzano come turbini in mezzo al campo. La palla rimbalza all’impazzata, sparisce tra una selva di gambe scalpitanti, sbatte con violenza contro le lamiere del cantiere. L’arbitro non fischia mai,

Aiutiamoli L’Albino United, prima squadra di albini nella storia del calcio africano, ha bisogno di aiuto. Servono finanziamenti per acquistare palloni, scarpe, indumenti e attrezzature sportive. E un pulmino per le trasferte. Chi desidera fornire il proprio contributo può contattare Severin Edward, presidente della Tanzania Youth Enhancement and Poverty Eradication Organization (Tayepeo), l’organizzazione tanzaniana che sostiene la squadra. Tel. +255 22 2462644; sevedo1@yahoo.com lascia correre anche quando la sfera sbrindellata finisce sulla strada. L’azione prosegue con gli albini impegnati a dribblare le auto incolonnate. Lo specialista dello slalom nel traffico è Mohamed Kassim, 35 anni, elettricista precario, bianco come la neve, capocannoniere della squadra. «Ho già segnato 6 reti», dice con orgoglio. «Fino a pochi anni fa la gente mi considerava un fenomeno da baraccone per via del colore della mia pelle. Ma ora faccio parte dello “United” e tutti mi portano rispetto». Non è mica il Manchester, ma guai a farglielo notare. E poi, che diamine, nessuna stella del calcio brilla quanto lui. • africa · numero 2 · 2010

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società

testo e foto di Alice Pavesi

TERRORE

Violenze domestiche, l’inferno delle In Etiopia sette donne su dieci hanno subito maltrattamenti e abusi tra le mura di casa. Un triste primato mondiale, avvolto nel silenzio dell’indifferenza e dell’impunità. Ma dieci vittime hanno trovato il coraggio di denunciare e di raccontare l’orrore

N

onostante la violenza domestica sia un fenomeno che compare senza eccezioni in qualsiasi zona del mondo, in Etiopia il numero di abusi ad opera del partner arriva al 71%: la più alta percentuale al mondo, secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). I maltrattamenti e gli abusi hanno un impatto devastante sulla salute fisica e mentale di una donna, con conseguenze sia immediate che a lungo termine. Specie nell’Afri-

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in casa donne etiopi

DUE VITE AL BUIO Halima ha vissuto per undici anni con un marito violento e alcolizzato, da cui ha avuto due figlie. La più grande, Saba, è cieca da quando aveva otto anni. Anche Halima ha perso la vista. La loro cecità è dovuta ai pugni scagliati dall’uomo sui loro visi, che hanno causato il distacco della retina. “Ogni fine settimana tornava a casa ubriaco”, raccontano le due vittime. “Ci picchiava per i motivi più assurdi: bastava che dimenticassimo una porta aperta, che ritardassimo la cena di pochi minuti, o che indossassimo il vestito sbagliato”. Alla fine Halima decise di scappare con le figlie. Era incinta di sette mesi. Il marito riuscì a trovarla e la picchiò così forte che perse il bambino e quasi la vita. Fu salvata in ospedale. Ora l’uomo dovrà scontare otto anni di prigione. È stato condannato per aver rubato alle sue donne la vista e il sorriso.

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società ca subsahariana, dove l’epidemia dell’Aids espone le vittime ad un altissimo rischio di contagio.

Un mostro per marito Nonostante sia una violazione dei diritti umani fondamentali, la violenza domestica è ancora un crimine largamente impunito in Etiopia. Tra le cause principali, secondo l’Oms, c’è la diffusa opinione nella società che l’uomo sia superiore alla donna e che abbia diritto a picchiarla e maltrattarla: la grande maggioranza delle vittime considera “normali” gli abusi subiti e tende a giustificarli a causa di ragioni culturali radicate. Ciò, ovviamente, espone ancor più le donne a patire in silenzio relazioni violente. La scarsa preparazione delle forze di polizia etiopiche e il confuso sistema giudiziario fanno il resto: solo il 12% dei casi presentati in tribunale finisce con una condanna.

Vincere la paura Eppure ci sono donne che si ribellano e trovano la voce per squarciare il silenzio. Sono le attiviste delle associazioni femminili locali che si battono per vedere riconosciuti i diritti inviolabili delle donne. Sono gli avvocati, i medici e le infermiere che operano nei centri di aiuto per le vittime delle violenze. E soprattutto sono centinaia di giovani etiopi che per lungo tempo hanno vissuto sulla propria pelle un dilemma atroce: se continuare a sopportare i soprusi inflitti dalle persone che hanno amato di più, oppure denunciare questo crimine per ottenere una giustizia incerta. A differenza del 93% delle vittime delle violenze, che non trovano la forza per uscire dall’incubo, le dieci donne che si confessano in queste pagine hanno avuto il coraggio di scappare dall’inferno e denunciare i loro persecutori.• 28

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UNO ZIO ORCO Nel 2004 Mebirat, un’orfana di sei anni, fu stuprata e abusata sessualmente dallo zio trentenne presso cui viveva e per il quale provvedeva alle faccende domestiche. Un giorno venne trovata svenuta a terra in una pozza di sangue dopo un pesante maltrattamento. La bambina, terrorizzata, non ebbe la forza di raccontare la verità, ma in ospedale i medici accertarono gli abusi sessuali e la polizia riuscì ad arrestare lo zio di Mebirat (rilasciato poi su cauzione). A causa delle lesioni riportate Mebirat non potrà mai avere figli.

UNA COMBATTENTE Il suo cognome è Wendafrash, che in amarico significa “combattente”, e Amina è convinta che sia un destino. A dieci anni fu costretta dalla famiglia a sposare uno sconosciuto. Appena dopo il matrimonio fu segregata nella nuova casa e quotidianamente picchiata e abusata dal marito, spesso dal suocero. Dopo quattro anni d’inferno riuscì a scappare fino alla sua città natale, dove scoprì di avere contratto l’Aids, ma i suoi genitori la ripudiarono per avere lasciato il marito. Dopo due tentativi di suicidio, ora Amina vive in un centro riabilitativo per vittime di violenza ed è determinata a cominciare una nuova vita.


IN FUGA DALL’INFERNO Quando Alemnesh aveva quattordici anni, fu rapita da uno sconosciuto e violentata per dieci giorni. Secondo una consuetudine secolare nella regione dell’Oromia, il rapitore mandò a casa della famiglia di Alemnesh la richiesta di convalidare il matrimonio. I suoi genitori non ebbero obiezioni. Dopo tredici anni di violenze, Alemnesh scappò ad Addis Abeba: aveva il corpo ricoperto da cicatrici, un’orecchia tagliata da un coltello e l’altra mozzata da un morso. Suo marito la picchiava e abusava di lei quasi ogni giorno. Uno di questi maltrattamenti avvenne quando Alemnesh era incinta di sette mesi. Le botte le fecero perdere il bambino. Fu in quel momento che decise di scappare.

IL FIGLIO DELL’ORRORE Lomi fu violentata dal patrigno per la prima volta all’età di dodici anni, mentre sua madre era al lavoro, di fronte ai suoi fratellini di due e quattro anni, sotto la minaccia di un coltello puntato alla gola. Dopo quasi tre anni di abusi, decise di raccontare tutto alla madre. Il patrigno fu arrestato e Lomi mise al mondo un bambino alcuni mesi più tardi. «Quando a violentarti è tuo padre, stai zitta per non causare dolore alle persone che ami», racconta. «Solo dopo ho capito che non aveva senso: il dolore viene fuori comunque. Spero soltanto che mio figlio non diventi un mostro come lui».

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società SPRANGHE E PUGNI Igist è stata picchiata e violentata dal marito per dodici anni, prima di trovare il coraggio di denunciarlo. Le botte erano all’ordine del giorno, spesso sotto l’effetto dell’alcol e di una droga locale chiamata khat. La colpiva con spranghe di ferro, pugni, pietre, pezzi di vetro, cinture di pelle. Il corpo di Igist è una mappa dell’orrore. Ora la donna e i suoi sette bambini stanno ricevendo aiuto da un’associazione per vittime di violenza ad Addis Abeba. «Spesso picchiava anche i miei bambini. Non ricordo quante volte ho sentito le loro ossa rompersi. Oggi l’incubo è finito, e il futuro mi appare più sereno».

UNA VITA A PEZZI Abebech, orfana, fu violentata dal fratello dall’età di sette anni. Anche quando questi si sposò continuò ad abusare di Abebech. Quasi ogni settimana minacciava la ragazza costringendola con le botte ad avere rapporti con lui. Fino all’età di quindici anni Abebech non ne parlò con nessuno, ma quando capì di essere incinta trovò il coraggio di confessarlo alla cognata. Lei non le credette e raccontò tutto al marito, il fratello di Abebech, che quasi la uccise con una spranga di ferro. «A volte vorrei che mio figlio morisse, altre la speranza è più forte del vuoto che sento dentro e allora spero solo che possa diventare un raggio di sole nel buio della mia vita». Oggi Abebech, dopo avere denunciato gli abusi alla polizia, lentamente cerca di mettere insieme i pezzi della sua vita. 30

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BOTTE D’AMORE? Il marito di Azemera sosteneva di picchiarla per il suo bene, per insegnarle come si doveva comportare una vera moglie. Dopo sedici anni di violenze, la donna venne buttata sulla strada con i suoi cinque bambini, perché malata di Aids. «Quando sei una bambina ti aspetti che il futuro sia un grande dono, poi cresci e smetti di pensarlo», dice la donna. «Io sono cresciuta a dieci anni, quando mi sono trovata sola. Succede a tante qui in Africa. Ma ora sto meglio: quando riesci di nuovo a provare rispetto per te stessa non c’è più niente che ti possa fare paura».

TRE ANNI DI PRIGIONE Nel 1998 Kasim uccise lo zio, sessantacinquenne, con un coltello. Aveva quindici anni. Come si scoprì più tardi, lo zio l’aveva violentata ripetutamente per quattro anni. A volte stuprava Kasim con altri uomini che lo pagavano per abusare della nipote. La ragazza non ha mai confessato le violenze perché lo zio minacciava di uccidere la madre. Alle minacce seguivano le botte, sempre sulla pancia e sulla schiena, dove non fossero visibili a un occhio esterno. Per l’omicidio ha scontato tre anni di prigione. Ora ha 25 anni, è libera, ma le è stato diagnosticato l’Aids.

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di Claudio Agostoni

Il governo promuove le autiste, i colleghi si ribellano È scoppiata la guerra dei sessi tra i tassisti senegalesi. Le autorità hanno lanciato una campagna per reclutare e sostenere le prime donne tassiste. I colleghi maschi reclamano… pari opportunità

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l debutto ufficiale risale a un paio d’anni fa, per la precisione al 18 settembre 2007. Quel giorno Viviane Wade, first lady del Senegal, annunciò in pompa magna il progetto “Taxi Sister”: il primo tentativo di mettere al volante di taxi urbani, in un Paese a stragrande maggioranza mussulmana, “l’altra metà del cielo”. A sentire i protagonisti di questo esperimento sociale, dopo due anni un primo bilancio registra più ombre che luci.

Taxi Sister Di fronte ad uno dei più grandi alberghi della città, Mama Sakho difende con orgoglio il posto riservato al suo taxi. Una scritta con vernice bianca sull’asfalto: “Taxi Sister”. È da due anni che Mama Sakho conduce il suo taxi nelle turbolente strade di Dakar, evitando accuratamente i colleghi maschi. «Non accettano la nostra presenza, non si abitueranno mai. Per loro dovremmo restare a casa a curare le faccende

domestiche. Ma io penso che tutti hanno diritto ad avere una chance». Il foulard rosa avvolto attorno alla testa non lascia passare che qualche treccia agghindata con perline


bianche. Prima di mettersi al volante Mama Sakho era estetista. Quando la titolare del negozio chiuse bottega, alla televisione vide una pubblicità del ministero della famiglia: «Si ricercano dieci candidate, tra i 25 e i 40 anni, per lanciare un nuovo sistema di taxi femminili». Mama Sakho partecipò, assieme ad altre mille candidate, ad una sorta di concorso, che superò assieme ad altre nove.

Concorrenza sleale? Che i tassisti maschi non abbiano ancora digerito la nuova concorrenza ce lo conferma Cheikh Touré, uno chauffeur veterano che i compagni chiamano “il vecchio”: «Hanno avuto dei posti riservati davanti agli hotel di lusso e così catturano tutti buoni clienti. Non c’è nessun motivo per concedere loro un trattamento di favore. È concorrenza sleale». Pare anche che i clienti preferiscano farsi portare dalle donne perché, a differenza dei colleghi maschi, hanno delle macchine nuove. Sono delle Cherry QQ, pimpanti autovetture cinesi lunghe meno di quattro metri, recentemente introdotte in Senegal. Il concessionario Espace Auto (Gruppo Ccbm) ha

Prime camioniste in Sudafrica In Sudafrica la piaga dell’Aids, alimentata dalla prostituzione, sta falcidiando i camionisti. Una strage resa ancora più drammatica dagli incidenti stradali provocati dall’alcolismo. I sindacati di categoria hanno reso noti i numeri della carneficina: 3mila morti all’anno. Troppi. Le donne hanno cominciato a tappare i buchi al volante. Sulla strada devono affrontare pregiudizi e pericoli (50mila casi di violenza sessuale denunciati ogni anno). Per uno stipendio medio di 400 euro al mese. E qualche gratificazione mediatica. «Secondo le aziende di trasporti - riferisce The Independent - le camioniste sarebbero più affidabili e puntuali. E meno incoscienti”. (Luca Spampinato)

Alle aspiranti tassiste il governo offre lezioni di guida e di gestione aziendale. E un corso di arti marziali per difendersi dalle aggressioni

La concorrenza spietata e la crisi economica alimentano i litigi tra tassisti. Le autiste godono di parcheggi riservati nelle zone più redditizie della capitale e questa è una delle questioni sulle quali i colleghi maschi non sono d’accordo

stipulato un accordo con il “Fondo nazionale di promozione dell’imprenditoria femminile” in base al quale ha fornito alle tassiste i veicoli garantendone la manutenzione. L’auto è stata valutata 7 milioni e 350mila franchi

Cfa, che dovrebbero essere resi in cinque anni con rate mensili di 150mila franchi (circa 230 euro). Seduta nella sua quattro porte decorata con un branco di peluche, Mama Sakho fa i conti: «Giornalmente posso guadagnare fino a 30mila franchi Cfa (45 euro), ma è raro che accada. In questo momento, poiché l’hotel davanti al quale posteggio sta facendo dei lavori di restauro, guadagno tra i 5mila e i 7mila, una miseria». Con simili incassi è difficile onorare il debito e allora, con le sue colleghe, ha smesso di pagare le rate concordate. «È tutta una truffa: ci chiedono montagne di soldi mentre ci usano come veicolo pubblicitario», sbotta Mama Sakho. «Vogliono equipaggiare i 15mila taxi della capitale con le loro auto nuove. Le doteranno di tassametri e proibiranno la tariffa libera. A quel punto non gli serviremo più e assumeranno solo uomini…». Poi con malcelato orgoglio chiosa: «Dalla Costa d’Avorio e dal Mali alcuni privati mi hanno fatto sapere che sono interessati a reclutare delle donne conduttrici di taxi. Non vorrei essere obbligata a emigrare». •

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testo di Marco Trovato foto di Marco Garofalo

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In Tanzania le autorità vietano il popolare gioco: “È pericoloso”

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l tesoro di Kibirizi è nascosto in una catapecchia che pare sul punto di crollare. «Non crederete ai vostri occhi», avverte il giovane guardiano. Sotto un groviglio di rami contorti ci svela il bene più prezioso del villaggio: un tavolo da biliardo. «L’abbiamo recuperato di seconda mano da un mercante sulla

costa», spiega il ragazzo. «Il viaggio fin qui è durato dieci giorni. L’abbiamo trasportato per milleduecento chilometri con un treno merci e un autocarro. Nell’ultimo tratto di pista fangosa ce lo siamo caricati sulle spalle… È stata un’impresa faticosa, ma ne valeva la pena». Ora il tavolo giace esausto su un pavimento di terra battuta a pochi passi dal lago Tanganica. Due pie-

tre ne puntellano le gambe sbilenche, la vernice si è scrostata in più punti, le sponde sono tutte ammaccate, il panno rosso è squarciato e pieno di polvere. «Mica dobbiamo mangiarci sopra», taglia corto il custode del tesoro. Quel cimelio malconcio riempie d’orgoglio la comunità locale. «I pescatori della zona arrivano con le loro piroghe solo per ammirare il nostro gioiel-

lo», si vantano gli studenti che hanno ammassato i loro zaini sotto il biliardo. «Ad ogni ora del giorno c’è sempre la fila di gente che vuole giocare». Una partita costa 300 scellini, poco più di 25 centesimi di euro. «In due anni abbiamo già recuperato i soldi dell’investimento», assicurano raggianti. «Presto riusciremo a raggranellare il gruzzolo per comprarci un nuovo tavolo». africa · numero 2 · 2010

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foto Marco Trovato

In Tanzania l’amore per il biliardo non conosce confini: dal cuore delle metropoli al più piccolo e isolato dei villaggi, non c’è località che sia sprovvista di un luogo dedicato alla pratica di questo nobile gioco. Neppure i campi da calcio sono tanto diffusi e affollati. La passione per la stecca - importata dai coloni britannici ma rimasta confinata per lungo tempo in ambienti elitari - si è scrollata di dosso la vecchia patina aristocratica. La svolta è avvenuta nel 1994, quando la South African Brewers Limited, uno dei principali produttori mondiali di birra (sbarcato nel Paese con l’acquisizione della Tanzania Breweries), ha cominciato a finanziare la diffusione di migliaia di tavoli verdi, con l’obiettivo strategico di riempire i pub e incentivare il consumo dei suoi alcolici. In breve tempo il “gioco delle bilie” è diventato uno sport nazio-

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no su nove gioca con regolarità a biliardo). E migliaia di circoli e associazioni che organizzano tornei delle specialità pool e snooker con montepremi sponsorizzati dalle birre Safari e Kilimanjaro.

A Dar es Salaam la febbre del biliardo è diventata una malattia sociale che frena l’economia e l’occupazione e alimenta la criminalità. Con queste motivazioni la polizia ha blindato i tavoli da gioco. Ma non è riuscita a soffocare la passione della gente foto Marco Trovato

A tutta birra!

nal-popolare e un grande business. Parlano le cifre della federazione nazionale: diecimila rettangoli da gioco importati dall’India e dalla Cina, 25mila stecche vendute, almeno 5 milioni di appassionati (un cittadi-

In Tanzania il biliardo, assieme al calcio e al basket, è uno dei pochi svaghi praticati anche dai poveri. Gli sport più elitari sono il cricket, il golf e il tennis

Passione senza freni «Siamo diventati la prima Repubblica fondata sul biliardo», sghignazza il personaggio di una vignetta satirica pubblicata sul Daily News. «C’è davvero ben poco da sorridere», avverte il giornale. «La proliferazione dei tavoli da gioco è sfuggita ad ogni controllo da parte delle autorità». In effetti, la febbre del biliardo, inarrestabile come un’epidemia, ha assunto i connotati di una vera e propria malattia sociale. «La gente passa intere giornate a giocare al bar», si lamenta un missionario cattolico. «Nessuno ha più voglia di andare a lavorare, le tradizionali attività economiche


sono rallentate». Attorno al popolare passatempo si è sviluppata un’economia torbida fatta di bische clandestine, giochi d’azzardo e scommesse illegali. «Le sale da gioco sono diventate fucine di potenziali delinquenti», ha riferito all’Observer l’ispettore Robert Manumba, direttore dell’Ufficio investigazione criminalità. «I giovani preferiscono bighellonare attorno al biliardo anziché cercarsi un mestiere onesto per campare. Nei pub si pianificano furti e rapine». Un portavoce del governo è stato ancora più duro: «Giocare bene a biliardo è il segno di una giovinezza spesa male», ha detto per giustificare un giro di vite contro il gioco. Nel luglio del 2006 un comunicato della polizia annunciò «la proibizione della pratica del biliardo durante l’orario lavorativo». Apriti cielo! I gestori dei tavoli inviarono lettere infuocate

ai giornali, i proprietari dei locali scesero in piazza per protestare, i giocatori minacciarono clamorosi gesti di ribellione. Ma alla fine tutti parvero farsi una ragione del divieto.

Anche i pubblicitari sfruttano questo sport. «Le autorità hanno fatto bene a intervenire», dice Chata Michael dell’associazione Pool Table Players di Dar es Salaam. «Gestori e giocatori devono seguire la legge»

Guerra alla stecca Oggi, a distanza di tre anni da quel controverso provvedimento, nel mondo del biliardo tanzaniano non si è ancora spenta l’eco delle polemiche. «La polizia ci ha criminalizzato, trattato come malviventi, ma sia-

mo cittadini onesti e pratichiamo uno sport pulito», dicono sdegnati i clienti dell’Ubungo Corner Pub, scalcinato ritrovo per amatori della stecca. È domenica, giorno di libero accesso ai tavoli. Joseph Baji, spac-

ciatore di schede telefoniche agli incroci delle strade, si è concesso un pomeriggio di relax in compagnia di amici. «Lavoro sodo per campare», borbotta mentre maneggia le bocce con l’abilità di un prestigiatore. «Ho il sacrosanto diritto di riempire il mio tempo libero come meglio credo». Nel tavolo accanto, un capannello di spettatori è attratto da un ultrasessantenne che fatica a piegare la schiena ma non sbaglia un colpo. «Vengo ad allenarmi ogni volta che posso - spiega il vecchio -. Al diavolo le proibizioni! Non ho più l’età né la pazienza per ascoltare certe fesserie». E giù una steccata da manuale che strappa applausi al pubblico. Il gestore del locale, Marlow Raphael, ha le idee chiare: «Il divieto ha permesso ai poliziotti di raggranellare qualche soldo con multe e bustarelle. Ma non ha sortito alcun vantaggio sul fronte della lotta alla

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società criminalità che anzi ha potuto organizzarsi meglio di prima nelle ore notturne».

Settore in crisi La campagna moralizzatrice delle autorità ha prodotto pesanti contraccolpi sulla fiorente industria del biliardo. «Molte sale da gioco sono state costrette a chiudere, lasciando a spasso gli assistenti ai tavoli e gli artigiani che offrivano la manutenzione dei panni», spiega Eustace Masaki, manager della Kenice Pool Table, azienda tanzaniana leader nella vendita dei tavoli verdi. «In 3 anni almeno 10mila persone hanno perso il lavoro». Numeri tremendi per un Paese dove la disoccupazione giovanile galoppa al 40%. «Prima che

la polizia dichiarasse guerra al biliardo, gli affari andavano a gonfie vele - puntualizza mister Masaki -. Noi vendevamo una ventina di tavoli ogni settimana e ne noleggiavamo centinaia in tutto il Paese, a 100 dollari al mese. Il nostro slogan era Be cool, play pool: “Segui la moda, gioca a biliardo”. Oggi gli ordini sono crollati: i gestori dei locali non guadagnano abbastanza». Nei mesi scorsi tre aziende tanzaniane che commercializzavano biliardi - la Dar Snooker, la Splash e la Shooters - hanno dovuto chiudere i battenti. Ed ora anche i 60 lavoratori della Kenice, metà venditori e metà costruttori di tavoli, sono preoccupati per il loro futuro. «Le autori-

tà dovrebbero aiutarci a uscire dalla crisi, anziché crearci difficoltà», dice Denis Masenge, un dipendente della ditta che distribuisce volantini pubblicitari fuori da un centro commerciale. «Il biliardo non ha mai fatto male a nessuno. Solo i nostri politici lo considerano pericoloso. Ma i loro assurdi divieti non riusciranno a soffocare la passione della gente».

Giochi clandestini Benché i club più esclusivi di Dar es Salaam vietino ai loro soci di avvicinarsi ai tavoli prima dell’orario consentito, basta allontanarsi dal centro cittadino per scovare innumerevoli locali da gioco affollati ad ogni ora del giorno. «Dobbia-

mo pur lavorare per sfamare la famiglia», si giustifica il gestore di una stamberga incastrata tra le baracche di Mwananyamala. I tavoli sono tutti occupati, il tipico schiocco delle bilie si alterna al rumore delle imbucate, eppure l’umore del proprietario non è del migliore: «Vivo sempre nel terrore», spiega l’uomo. «Se arriva la polizia, devo far sparire bocce e stecche in una manciata di secondi. In ogni momento rischio la confisca del locale». Alcuni gestori di bar o locande hanno preferito spostare i biliardi dalle verande sulla strada ai cortili nel retrobottega. Altri si sono limitati a nascondere il business clandestino dietro teli di stoffa, sacchi di juta o cellopha-

Un altro tavolo abusivo in un quartiere popolare di Dar es Salaam. «Qui possiamo giocare in santa pace, la polizia non viene certo a disturbarci», dice il gestore

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ne sbrindellati. Altri ancora hanno sistemato i tavoli verdi nei posti più impensabili. Risultato: gli appassionati si ritrovano a giocare sotto i capannoni delle chiese evangeliche, in qualche magazzino buio e maleodorante, dentro vecchi container arrugginiti, tra le imbarcazioni sventrate dei cantieri portuali. «Ufficialmente abbiamo censito solo 3mila tavoli da gioco in tutto il Paese, ne mancano ancora molti all’appello», ammette Marimba Abbas, direttore di Gaming Board of Tanzania, l’autorità incaricata di registrare tutti i locali da biliardo. «I gestori sarebbero tenuti dalla legge a pagare 10mila scellini ogni anno di tributi, ma ci sono ancora

troppi furbi che sfuggono ai controlli».

La rabbia e l’orgoglio La più grande sala da biliardo abusiva di Dar es Salaam si trova in mezzo alle bancarelle del mercato di Mcjikichini. Per raggiungerla bisogna serpeggiare in un dedalo di viuzze tutte uguali, un groviglio di fango e di lamiere arrugginite. Al centro del labirinto si trova una piazzetta piena di tavoli riparati da una tettoia. Drappelli di venditori di frittelle e di banane arrostite scivolano tra i giocatori in attesa. Due altoparlanti sfondati sparano musica rap a tutto volume. «Benvenuto nel paradiso del biliardo», urla un uomo imponente e dall’aria spavalda.

«Qui la gente vive solo di bilie in buca. E io sono il più malato di tutti». Si fa chiamare Lokka, impugna le stecche come scettri regali, tra un tiro e l’altro sputa a terra pallettoni di tabacco. I suoi colpi paiono le pennellate di un artista, con tutte quelle palle colorate che scivolano, carambolano e rimbalzano tracciando disegni magistrali. «Sogno di diventare un professionista della stecca - farfuglia -, un giorno mi piacerebbe giocare coi fuoriclasse del panorama internazionale». Potrebbe farcela: il biliardo all’equatore può trasformarsi in un tappeto magico in grado di volare. Ne sanno qualcosa gli atleti della nazionale tanzaniana che

lo scorso novembre si sono qualificati per la prima volta ai campionati mondiali di pool. «È un successo storico che deve riempire d’orgoglio l’intero Paese», ha commentato Issack Togocho, presidente della Tanzania Pool Association. Per i tartassati amatori del biliardo non poteva esserci migliore rivincita. Le finali in programma questa estate in Francia saranno trasmesse nei sontuosi circoli della capitale fino ai tuguri di Kiribizi. Il popolo della stecca sogna un risultato clamoroso. Per entrare nella storia del biliardo. Ma anche per dare una lezione alle autorità. E mandare in buca, una volta per tutte, il più crudele dei divieti. •

La sala da biliardo abusiva nel mercato di Mcjikichini, a Dar es Salaam. La gente del quartiere ha raccolto i soldi per ritagliarsi questo spazio di svago

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libri

di Pier Maria Mazzola

La giornata di Sidi e Karisa

Quali mani asciugheranno le mie lacrime?

Il bambino della cascata e altre storie

Un miracolo nel Botswana

di Mela Tomaselli

di Alain Mabanckou

di Mariatu Kamara

di Manuel Rui

di Alexander McCall Smith

Il libro racconta la giornata-tipo di due fratellini. Un modo per entrare nella “intimità” dei bambini delle campagne del Kenya, con l’aiuto delle illustrazioni di Churchill Ochieng’, anch’egli keniota, e con filastrocche, canzoni e ninnenanne abbinate a ciascun momento della giornata. In uno dei due cd allegati le ascoltiamo così come sono, raccolte in una ricerca sul campo; nell’altro, reinterpretate in italiano da musicisti brevemente presentati da Claudio Agostoni, collaboratore di Africa. Un ottimo contributo per mantenere vive tradizioni che rischiano di scomparire in un mondo in rapida trasformazione. Anche in Africa. Consigliato ad educatori che vogliono formare i bambini all’intercultura.

Mabanckou, congolese tra Francia e California, conferma di essere uno dei più creativi scrittori africani del momento. Il porcospino della storia racconta le sue avventure in qualità di «doppio nocivo» di un ragazzo, dal momento della sua iniziazione fino all’età adulta, che si trova coinvolto in un numero eccessivo di omicidi “magici”. Ma quando arriva al numero 99… Dietro lo svolgimento della storia, immersa in un’Africa rurale e tradizionale, traspare un fine lavorio di allusioni, anche letterarie, che avvicinano universi a prima vista lontani, come quello africano e quello occidentale. Il romanzo si lascia leggere d’un fiato grazie anche (ma non solo) allo stratagemma di una punteggiatura che ricorre alla sola virgola.

Ha 22 anni, ma la sua è già una lunga storia. È appena una bambina quando i “guerrieri” del Ruf le mozzano entrambe le mani. «Ci vollero tre tentativi (…). Non sentii alcun dolore». Ma il dolore era già cominciato prima, in quel clima d’insicurezza, e continuerà soprattutto dopo, in una Sierra Leone sconvolta dalla follia della guerra e dove rimarrà, dodicenne, con in grembo un figlio frutto di violenza. Finché non verrà evacuata in Canada da un’organizzazione umanitaria; da Toronto si dedica oggi ad aiutare le donne e le bambine sierraleonesi in difficoltà. È stata nominata rappresentante speciale dell’Unicef per i bambini coinvolti in conflitti armati.

Le storie sono cinque, e tutte trascinano alla lettura, imbastite come sono attorno a personaggi affascinanti e attraverso una scrittura che fa continuamente i conti con l’oralità. L’ambiente è quello di un’Angola da poco uscita dalla guerra, in preda a contraddizioni socio-economiche estreme. E, in ogni caso, quello che vi viene posto sotto gli occhi in poche pagine è un paese estremamente variegato dal punto di vista culturale. Ma il tutto è narrato, non “predicato”. L’autore, settantenne, è anche poeta nonché autore teatrale e giornalista, ed è uno degli scrittori angolani più tradotti nel mondo. Di lui in italiano possiamo leggere anche Magari fossi un’onda (La Nuova Frontiera 2006).

Una nuova avventura per Precious Ramotswe, la “Miss Marple” africana (vedi articolo a pag. 53). La famosa detective del Botswana è alle prese con una brutta storia che per la prima volta mette in pericolo la sua stessa incolumità. La sua assistente, la valida Grace Makutsi, ha scoperto nella corrispondenza una lettera minatoria, rigorosamente anonima. Benché preoccupata, l’infaticabile signora Ramotswe non può perdere troppo tempo e si tuffa nelle indagini di un nuovo caso, quello di una giovane donna adottata che vuole scoprire se qualche suo consanguineo è ancora vivo. E poi c’è il marito, il bravo signor Matekoni, che spera in un miracolo per la figlia, paralizzata dalla nascita… Una trama avvincente che regala inattesi colpi di scena.

Edizioni Lavoro 2009, pp. 75, € 9,00

Guanda 2010, pp. 235, € 15,50

Emi 2008, pp. 64 + 2 cdaudio, € 13,00

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Memorie di un porcospino

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Morellini 2009, pp. 191, € 18,90

Sperling & Kupfer 2009, pp. 206, € 17,00


musica

di Claudio Agostoni

OYO ANGÉLIQUE KIDJO

Grande performer e incredibile professionista (questa estate dovendo partecipare alla Notte della Taranta si è presentata a Melpignano ostentando un discreto griko, lingua ellenofona parlata in uno scampolo di Salento), Angélique ha sempre avuto problemi di repertorio. Non ha mai azzeccato un album di quelli memorabili. In Oyo ci prova con le canzoni della sua gioventù. Samba Pa Ti di Carlos Santana, Cold Sweat di James Brown, I Got Dreams To Remember di Otis Redding… Ma anche Zelie del togolese Bella Bellow, la ninnananna Lakutsn Llanga e Atcha Houn, un canto tradizionale che Angélique ha cantato per la prima volta a sei anni. Strepitosa Mbube, versione originale di The Lion Sleeps Tonight. Siamo sulla buona strada per avere l’album che attendiamo da anni…

KARAM KIMI DIABATÉ

Secondo lavoro solista per Kimi Diabaté, artista nato a Tobato, Guinea-Bissau, ma, come tradisce il cognome, di ascendenza maliana. La sua è una famiglia di musicisti. Kimi, formatosi al balafon in tenera età, è poi diventato artista a tutto tondo con l’Ensemble nazionale di musica e danza del suo Paese. Il tema che lega queste 15 canzoni è l’Africa: la sua realtà sociale e politica, la lotta alla povertà, la libertà… Ogni canzone, un tema: l’educazione (la title track), il popolo, la donna… Musicalmente il lavoro è variegato: Kimi porta avanti una ricerca personale, basata sulla tradizione della musica mandinga, ma anche sul gumbé, una forma di musica e di danza della Guinea-Bissau, sull’afrobeat nigeriano e sulla morna capoverdiana.

PHOLA HUGH MASEKELA

Un nuovo album del flicornista sudafricano Hugh Ramopolo Masekela, “fratello Hugh” per i suoi connazionali, 70 anni, mezzo secolo trascorso a diffondere la sua musica per il mondo. Dietro una facciata easy listening, anche questo lavoro ci regala il Masekela pioniere del jazz sudafricano. Phola è una serena riflessione sulla vita, l’amore, la politica, la società, per la quale Masekela ha ingaggiato un ottimo produttore, il polistrumentista malawiano Erik Paliani. Sette dei nove brani del disco vedono Masekela nella duplice veste di cantante e trombettista; dovendo scegliere un brano per l’iPod, ho optato per Malungelo, dove Hugh duetta alla voce con Mingas e il suo flicorno incrocia la chitarra acustica di Jimmy Dludlu.

WARM HEART OF AFRICA THE VERY BEST

The Very Best è un trio, con base a Londra, composto dal cantante del Malawi Esau Mwamwaya e dai produttori/dj franco-svedesi Radio Clit, un duo noto per aver remixato tracce per M.I.A., Lily Allen, Justin Timberlake, Britney Spears… Questo cd nasce sull’onda del successo di un mixtape che ha superato 300.000 download su Myspace, successo che ha invogliato artisti come M.I.A e Ezra Koenig, il cantante dei Vampire Weekend, a partecipare a questo progetto. Warm Heart of Africa è eclettico: i testi in lingua chichewa (di Esau) stanno a meraviglia sulle basi di Etienne Tron e Johan Karlberg, fra dance attuale, suggestioni africane e un pizzico di electro-pop anni ’80. Un vero e proprio esempio di musica “crossover”, lontana dai cliché della musica World.

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cultura

di Matteo Fagotto

I piccoli divi del Millionaire africano

Baby star in sudafrica Arriva nelle sale cinematografiche d’Europa Izulu Lami, pluripremiato film sudafricano, record d’incasso ai botteghini. Abbiamo incontrato i suoi attori-bambini

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eduto nel salotto della sua casa in una baraccopoli nei pressi di Durban, Tshepang Mohlomi ancora non crede alla favola che sta vivendo. Quindici anni e un ruolo da protagonista nel film Izulu Lami, rivelazione cinematografica del 2009 in Sudafrica, il ragazzino ripercorre i suoi primi passi sul set del film che è stato definito la risposta africana a The Millionaire. «È stato fantastico.

Tutte quelle luci, gli attori, le telecamere… Il mio sogno è sempre stato quello di fare l’avvocato, ma ora penso che mi dedicherò al cinema», rivela raggiante.

Neorealismo africano Ambientato a Durban e completamente recitato in zulu, il film (il cui titolo significa “Il mio cielo segreto”) narra la vicenda di Thembi e Khwezi, due ragazzini di campagna rispet-

tivamente di 10 e 8 anni, che si recano in città per vendere una preziosa stuoia dopo la morte, per Aids, della madre. I due si ritrovano presto alle prese con una baby gang di strada e mille avventure: violenze e soprusi, ma anche momenti di intensa umanità, nuove amicizie e la scoperta dei propri sogni e vocazioni personali, prima della conclusione a lieto fine. Tshepang impersona Chili


Due scene tratte dal film rivelazione Izulu Lami

Bite, il leader della banda di tsotsi (“teppisti”, nello slang delle township sudafricane) che prima raggira e poi prende sotto la propria ala protettrice i due sprovveduti campagnoli. «Non è stato facile, il ruolo che ho interpretato è molto diverso dalla mia personalità. Ma sono un professionista, e faccio quello che mi chiedono», commenta con piglio da attore consumato. Costato poche centinaia di migliaia di euro, Izulu Lami ha spopolato ai botteghini sudafricani, rimanendo nella classifica delle 10 pellicole più viste per ben 12 settimane. Vincitore di premi ai festival di Cannes e Zanzibar, già presentato alle rassegne cinematografiche

di Verona e Bari, uscirà nei prossimi mesi nelle sale di mezza Europa (sperando anche in Italia). Realizzato dalla Vuleka Productions, il film è interpretato da attori la cui età varia dagli 8 ai 15 anni, tutti provenienti dalle township attorno a Durban. Alla prima esperienza davanti alla cinepresa, sono stati scelti tra migliaia di aspiranti.

Come in un sogno «I primi giorni delle riprese ero un po’ nervosa e impacciata, ma ci ho messo poco ad ambientarmi. Mi piace stare tra la gente», ricorda Sobahle Mkhabase, la bambina undicenne che recita la parte di Thembi. «Ora le persone mi riconoscono e mi

fermano per strada, la mia vita è diventata una piccola fiaba. Ma voglio continuare a studiare, non mi sono montata la testa». Movenze e atteggiamenti già da piccola diva, Sobahle-Thembi è la protagonista indiscussa della pellicola e quella a più agio davanti a microfoni e telecamere. Sarà perché l’attenzione dei media si è concentrata tutta su di lei e sul suo incantevole viso, cosa che non è passata inosservata agli altri membri del cast. «È la più brava tra tutti noi, mi è piaciuta molto la sua interpretazione», confessa Andiswa Mkhize, con uno sguardo che lascia trasparire molto di più di una semplice ammirazione professionale per la sua collega.

cinema emergente L’industria cinematografica sudafricana è cresciuta negli ultimi dieci anni, con alcuni film acclamati anche a livello internazionale, come nel caso di Il suo nome è Tsotsi, Premio Oscar nel 2006 come miglior film straniero. Oggi il centro gravitazionale del cinema sudafricano è la regione di Città del Capo, che vanta numerosi set e società di produzione.

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cultura Il piccolo divo sudafricano Tshepang Mohlomi assieme al regista di Izulu Lami, Madoda Ncayiyana, che lo ha portato al successo

La protagonista Sobahle Mkhabase, 11 anni. «Non pensavo di avere capacità di attrice,» confessa. «Ringrazio Dio per il talento che mi ha donato»

Scelto inizialmente per la parte del fratellino di Thembi, Andiswa è stato poi dirottato su un ruolo minore: quello di Mayoyo, un altro membro della banda di Chili Bite. Come gli altri, anche lui ci ha messo un po’ a realizzare che sarebbe diventato una piccola star. «All’inizio dei provini, a scuola mi avevano detto che sarebbe stata una gara di po52

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esia», racconta. «Neanche la mia mamma voleva credermi quando le raccontai che mi avevano preso».

Finzione e realtà Nella scena più drammatica del film, Thembi viene tradita da Chili Bite e finisce nell’abitazione di un sieropositivo deciso a violentarla per “purificarsi”, ma riesce fortunosamente a scappa-

re. Secondo il regista Madoda Ncayiyana, grazie a scene come questa, Izulu Lami vuole porre l’accento su uno dei maggiori problemi del Sudafrica di oggi. «È un vero film sui bambini di strada - spiega - non sui crimini che commettono, ma su quello che pensano e provano come esseri umani». Spesso orfani o scacciati dalle loro famiglie perché

sieropositivi, molti finiscono nei grandi centri urbani a chiedere l’elemosina, alla mercè di gente senza scrupoli. Alcuni scompaiono senza lasciare traccia e senza che nessuno li cerchi. Ed è proprio a loro che Tshepang ha voluto dedicare il suo primo lavoro di regista: a margine del film e grazie anche all’aiuto di Ncayiyana, il ragazzo ha realizzato un cortometraggio intitolato I lost my parents, girato interamente con un cellulare. «A scuola ci sono tanti miei compagni che hanno perso i genitori e con essi le loro speranze», spiega. Costretto a vivere in una casa abusiva di fango e paglia, in mezzo a baracche di legno e lamiera, Tshepang ha comunque la maturità e la generosità di pensare a chi, senza una famiglia, sta molto peggio di lui. «Ho voluto realizzare una storia basandomi sulle loro esperienze, per lanciare un messaggio: nonostante le difficoltà, la vita va avanti comunque. Come in Izulu Lami». •


cultura

di Matteo Fagotto

La signora (nera) in giallo Una detective del Botswana trionfa in tivù

B

rillante, saggia, comprensiva e affascinante. Le doti di Mma Precious Ramotswe, la prima detective donna del Botswana, stanno facendo il giro dei piccoli schermi di mezzo mondo, sancendo il successo, anche sul mercato occidentale, di una serie televisiva africana del tutto particolare. Interpretata da Jill Scott, l’investigatrice è la protagonista di The No. 1 Ladies’ Detective Agency, un miniserial tivù sulla prima agenzia di detective composta da sole donne del Botswana. Avvalendosi del prezioso aiuto della sua fedele, anche se un po’ rigida, segretaria Grace Makutsi (impersonata dall’attrice Anika Noni Rose) e del meccanico e aspirante spasimante JLB Matekoni (Lucian Msamati), Mma Ramotswe si trova a dover affrontare casi di sparizioni, omicidi, avvelenamenti, che sconfinano nella stregoneria e nel traffico illegale di diamanti.

Esperimento riuscito L’Africa entra prepotentemente nel copione di ogni episodio, nei dialoghi e nella sceneggiatura: non è solo un’ambientazione esotica e selvaggia. È il mistero torbido e avvincente che avvolge ogni inchiesta. E che rende questa serie televisiva assai diversa dai grandi classici

Il telefilm “The No. 1 Ladies’ Detective Agency” sta spopolando sui piccoli schermi di mezzo mondo. La protagonista è una investigatrice africana dall’intuito infallibile, alle prese con inchieste e delitti misteriosi del genere giallo-poliziesco (dal Tenente Colombo a La signora in giallo, dall’Ispettore Derrick al Commissario Maigret). Prodotta dalla Bbc e tratta dai romanzi di Alexander McCall Smith, The No. 1 Ladies’ Detective Agency è ambientata nei dintorni di Gaborone, capitale del Botswana. Diretti da Anthony Minghella, meglio conosciuto per Il paziente

inglese, i telefilm affrontano casi e questioni prettamente locali, offrendo un interessante spaccato della società dell’Africa australe e contribuendo a far conoscere meglio un Paese, il Botswana, finora rinomato solo per le sue attrazioni turistiche. Non è un caso che il governo di Gaborone abbia partecipato attivamente alla produzione il miniserial, mettendo

La locandina di The No. 1 Ladies’ Detective Agency. Il telefilm, prodotto dalla Bbc, è stato trasmesso anche in Italia da Sky sul canale satellitare Lei

a disposizione fondi e set. Il tutto nella speranza che la serie (di cui sono andate in onda le prime sette puntate) sia solo il primo di una catena di eventi che possano far sviluppare la locale industria cinematografica, portandola magari a rivaleggiare con Città del Capo e Nollywood in Nigeria. I primi risultati sono incoraggianti: il successo dell’agenzia investigativa ha convinto gli autori a scrivere nuovi episodi che verranno presto girati e trasmessi in tivù. Per gli amanti del giallo a tinte africane. •

I protagonisti della fortunata serie televisiva ambientata in Botswana africa · numero 2 · 2010

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cultura

a cura della redazione

La mia Africa

Premiati i vincitori del concorso fotografico L’associazione culturale Progetto Anitié ha invitato piccoli e grandi viaggiatori a ritrarre aspetti inediti e curiosi del continente. Ne è scaturito un mosaico sorprendente

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L’Africa nel pallone

ono moltissime le foto arrivate per Obiettivo Africa, il concorso fotografico organizzato dall’associazione culturale Progetto Anitié (www.anitie.net) in collaborazione con Al Tempio d’Oro di Milano (www.altempiodoro.it). In queste pagine pubblichiamo solo alcuni scatti segnalati dalla giuria. «Realizzati da fotografi dilettanti», precisano gli organizzatori. «Tema del concorso era l’Africa in tutte le sue declinazioni: dai paesaggi esotici ai vol-

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ti incontrati nelle vie delle nostre città, privilegiando una visione personale, lontana il più possibile da cliché e pregiudizi di ogni tipo… Com’è nello spirito della nostra associazione». Nato 5 anni fa, Progetto Anitié (il nome, nella lingua djoula, ha un doppio significato: “ciao” e “grazie”) vuole favorire la conoscenza, lo scambio e la valorizzazione delle diverse culture del mondo. Obiettivo primo: aiutare a superare preconcetti e steccati ideologici. «In

Occidente tendiamo a identificare il continente africano con un’immagine fatta solo di malattie, povertà, ignoranza», fanno notare i responsabili dell’associazione. «La piccola storia del nostro incontro con una parte di questo immenso continente ci ha svelato un mondo diverso, dinamico, estremamente variegato». Lo stesso mondo raccontato dalle foto di molti viaggiatori. Che vanno alla scoperta dell’Africa con passione, rispetto e sincera curiosità. •

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1. Un temporale improvviso sulle strade del Gambia. Questa foto di Marta Bravi ha vinto il Premio del Pubblico 2. Essaouira è una località sull’oceano Atlantico in Marocco, porto di pescatori e

3 È dedicata al mondo del calcio la nuova mostra fotografica promossa dalla nostra rivista. Nell’anno dei Mondiali sudafricani, i primi nella storia ospitati dal continente nero, Africa ha confezionato un collage di immagini e di storie sorprendenti raccolte sui campi di gioco a sud del Sahara. La mostra L’Africa nel pallone, esposta a Milano nell’ambito del Festival del Cinema Africano dal 16 al 21 marzo, potrà essere noleggiata da associazioni, scuole, biblioteche, parrocchie e centri culturali. Per prenotazioni e informazioni rivolgersi alla redazione: tel. 0363 44726, africa@padribianchi.it africa · numero 2 · 2010


in un CLICK

“Obiettivo Africa” 6

fotografia

meta turistica. La foto, di Gionata Galloni, è stata scattata dal tetto di una torretta di avvistamento 3. La foto di Rosanna Moretti è stata scattata in un villaggio del Burkina Faso, in giorno di mercato

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4. In questo scatto di Tiziana Riccardi, alcune studentesse musulmane di ritorno da scuola camminano su una spiaggia di Zanzibar 5. Dakar (Senegal), il Mercato del pesce di Soumbedioune. L’autore

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dello scatto, Gwenael Beltrame, ha vinto l’abbonamento per un anno alla nostra rivista 6. Maria Grazia Viscomi (Premio Foto d’Africa)

Segnaliamo un libro illustrato fresco di stampa. Un collage di immagini e storie raccolte in vent’anni di viaggi. Dalle spettacolari dune dell’Erg di Murzuq, in Libia, alle prosperose praterie del Serengeti, in Tanzania, passando per i fiumi segreti del Congo, le foreste impenetrabili del Gabon, i villaggi sperduti dell’Etiopia, le città imperiali del Marocco, i riti ancestrali del Senegal. Il tutto raccontato da Mauro Querci, 46 anni, giornalista fiorentino, ex direttore del mensile Gulliver, innamorato dell’Africa. Il volume Certe Afriche è in vendita nelle librerie di viaggio (o scrivendo a: mauro.querci@alice. it). I proventi andranno a finanziare un progetto della Ong Cefa di Bologna (www. cefaonlus.it) che si occupa di agricoltura sostenibile. Info: tel. 333 4625 879.

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viaggi

testo di Marco Aime foto di Aldo Pavan

Crociera nel

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ercorrere il corso del Niger è un’esperienza che tocca nel profondo. Se la celebre risalita del fiume Congo, magistralmente narrata da Joseph Conrad, significava addentrarsi nel «cuore di tenebra» dell’Africa, percorrere le acque collose del Niger è

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come andare verso un nulla sempre più luminoso, sempre più pallido, dove tutto si dissolve lentamente. Queste rive non lasciano spazio a mondi misteriosi, popolati da selvaggi feroci, dediti a culti pagani. Non nascondono nulla agli occhi del viaggiatore. Tutto sva-

nisce attorno a te e lo vedi. Il Congo di Conrad creava paura, il Niger ansia e spaesamento per il vuoto che ti circonda. Il Sahel è un’eterna attesa. La sensazione che si prova percorrendone le piste sabbiose è che qualcosa, in quelle piane seccate dal sole, stia sempre


Sahel

per arrivare o accadere. Il Sahel è anche e soprattutto un’assenza. Stupisce più per ciò che manca che per ciò che vediamo. Stupisce perché non nasconde nulla, tutto è lì, davanti agli occhi del viaggiatore e quel tutto deve essere colto nel suo muoversi impercettibile.

Acque lente Bisogna navigare al ritmo lento delle pinasses, con le loro vele fatte di sacchi di cemento cuciti assieme. Enormi rattoppi che intercettano le brezze stanche del fiume, per sospingere genti e merci. Solo così si riesce a leggere il paesaggio, fatti di

Le pigre acque del Niger serpeggiano lente tra villaggi di fango e affollati porti fluviali. In Mali arrivano a lambire le dune del deserto dove le piroghe incontrano i cammelli carichi di merci

terra, sabbia, animali e genti che vivono lungo le rive del Niger. Bisogna sopportare giorni di navigazione, per avere il tempo di interiorizzare quelle immagini, talvolta sbiadite dal sole e dalla foschia di polvere sollevata dall’harmattan. Sulle rive sfilano lenti villaggi fat-

ti di case di terra tra le quali sono sorte leggere cupole di paglia che segnano la presenza di nomadi o ex nomadi, aggregatisi ai villaggi di pescatori bozo. Le siccità degli anni Settanta hanno decimato le mandrie di questi allevatori e alcuni sono stati costretti ad abbandonaafrica · numero 2 · 2010

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viaggi

UN SERPENTE DI ACQUA TRA VERDI PIANURE E SABBIE ROVENTI Strano destino, quello del Niger: nasce a soli 240 chilometri dall’Atlantico, nel quale potrebbe andare a gettare pacificamente le sue acque, attraversando le colline verdeggianti del Futa Djallon, invece si lancia verso est, in una grande avventura attraverso le piane arroventate del Sahel, penetra nel Sahara, compiendo un arco vastissimo, fino a piegare verso sud, per raggiungere lo stesso oceano, ma 4184 chilometri dopo. Una corsa che ha dato la vita a molte popolazioni, che grazie alle sue acque vivono di pesca e di allevamento. Il fiume fa il suo ingresso in Mali all’estremo sud, per poi scorrere nell’entroterra fino a Gao e svoltare bruscamente a destra prima di dirigersi, attraverso lo Stato del Niger e la Nigeria, verso il Golfo di Guinea.

re il loro modo di vivere per diventare sedentari. Molti però hanno conservato il loro stile di vita nomade, l’unico possibile per sopravvivere in un ambiente come questo.

La gente del fiume Chi percorre il Niger nel 58

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mese di dicembre può avere la fortuna di imbattersi nell’attraversamento delle mandrie dei Peul (vedi Africa 4/2008). Nei punti dove le acque sono più basse, si vedono file continue di centinaia e centinaia di buoi e vacche che attraversano da una sponda all’altra. I bo-

vini camminano a fatica nell’acqua, tenendo la testa alta per respirare, poi, giunti dall’altra parte, si arrampicano a fatica sulla terra secca e iniziano il loro cammino verso sud, in cerca di pascoli più verdi. Qui è ormai iniziata la stagione secca.

Le mandrie che percorrono lentamente le rive del Niger sono parte del paesaggio, così come le piccole piroghe dei pescatori bozo che solcano le onde in cerca di un buon posto dove gettare le reti. Nella stagione secca le acque del fiume si abbassano e lasciano affiorare de-


A metà percorso, il letto del fiume si allarga e le acque si diramano in numerosi canali che danno vita al grande lago Débo sul quale galleggiano degli isolotti erbosi formati dal borgou, una graminacea acquatica tipica delle zone saheliane

gli isolotti erbosi nel mezzo del fiume. I pescatori allora si spostano lì, costruiscono capanne di fortuna e sfruttano nuove zone di pesca.

Sfida al deserto L’acqua del fiume allevia, in parte, la sete del Sahel ma talvolta può diventare causa

di deterioramento del suolo. Le acque del Niger, con la loro azione continua, determinano un processo di erosione delle rive sabbiose. Per questo, in alcune zone, i contadini hanno iniziato da alcuni anni a piantare il borgou, una graminacea acquatica tipica delle zone

saheliane, il cui stelo può misurare da 3 a 7 metri a seconda del livello dell’acqua. Il borgou cresce nell’acqua e nelle piane allagate dal suolo argilloso e, formando delle fitte «isole» con i suoi steli, frena le onde del fiume e attenua la sua azione disgregante. Oltre a ser-

vire come barriera contro le acque, è un ottimo foraggio che serve ad arricchire l’alimentazione delle mandrie che i Peul conducono attraverso le aride pianure dell’ansa del Niger. Via via che si scende, il fiume penetra nel deserto, e il paesaggio si fa sempre più africa · numero 2 · 2010

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viaggi L’evento più importante sul fiume è la transumanza dei pastori peul con il bestiame a Diafarabé, che ha luogo ogni anno a dicembre. Da Djenné nel Medioevo partivano imbarcazioni cariche di prodotti agricoli, stoffe, manufatti e schiavi. Oggi le piroghe trasportano poche e povere merci

IL SOLE CHE PROSCIUGA Il clima del Sahel, sempre più frequentemente segnato da siccità prolungate, sta dissanguando il fiume Niger. Dopo le terribili stagioni del 1972-73, con una piovosità inferiore del 75% alla già carente media locale, l’arsura provoca regolarmente una forte evaporazione lungo il corso d’acqua. Il Niger, che a Bamako ha una portata di 1.074 m3/sec, circa 600 chilometri dopo vede le sue acque quasi dimezzate.

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Nei pressi di Niafounké, a metà strada tra Mopti e Timbuctu, il fiume ha l’aspetto torpido e stanco. Ma il viaggio verso l’oceano è ancora lungo

arido man mano che si percorre la grande ansa. Gli alberi si diradano, fino a lasciare il posto ad arbusti solitari, le cui radici contorte e rattrappite sembrano denunciare la loro volontà di sopravvivere a un sole sempre più aggressivo. Poi la sabbia.

Le dune scendono fino a lambire l’acqua. Siamo nel Sahara. Non è casuale, infatti, che proprio nel punto in cui il Niger penetra più a nord nel deserto, sia sorta Timbuctu, il luogo dove, come scriveva il cronista arabo As Sadi, «chi viaggia in pi-

roga incontra chi viaggia in cammello». Era un luogo quanto mai strategico per il commercio. Qui si scambiavano merci provenienti dal Mediterraneo con beni che arrivavano dall’interno dell’Africa. In questo luogo sorse una delle più importanti città

della storia africana e non solo.

Una brutta fine Ai fasti del passato non corrisponde un presente altrettanto glorioso. Le antiche città carovaniere come Timbuctu e Gao sono oggi in forte declino, africa · numero 2 · 2010

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viaggi

IL VIAGGIO documenti . Indispensabile il passaporto con visto d’ingresso che consente una permanenza di 30 giorni. Per maggiori informazioni contattare l’ambasciata del Mali (tel. 06 4425 4068; amb.malirome@tiscalinet.It). salute . Vaccinazione obbligatoria: febbre gialla. Consigliate: epatite virale a, tifo e la profilassi contro la malaria. Altri rischi: bilharziosi (nelle acque stagnanti) e colera. periodo . Quello migliore per visitare il Mali è il mese di novembre, prima del caldo torrido che esplode a marzo e dopo la stagione delle piogge. I battelli solcano il Niger in entrambe le direzioni da agosto a novembre. A partire da dicembre l’acqua è troppo bassa per consentire la navigazione. in pratica . I battelli partono da Koulikoro, 60 km a est di Bamako, e raggiungono Gao, 925 km a nord-est della capitale. Il viaggio ha durata variabile, da un paio di giorni a una settimana (dipende dall’imbarcazione). In teoria, un battello parte ogni martedì da Koulikoro e arriva a Gao il lunedì successivo, fermandosi in numerose località lungo il percorso; il viaggio di ritorno inizia ogni giovedì a Gao e raggiunge Koulikoro dopo una settimana. guide . Consigliamo la guida Niger e Mali della Lonely Planet (Edt 2007, pp. 400, € 22), da cui abbiamo tratto le informazioni per il viaggio. In alternativa segnaliamo il volume Mali Niger delle Rough Guides (vallardi 2005, pp. 374, € 21,50). Da leggere Le radici nella sabbia di Marco Aime (Edt 1999).

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segnate dall’isolamento e dall’avanzare del deserto. E anche le realizzazioni più moderne non portano certamente benefici alle popolazioni che vivono sul Niger. Dopo aver piegato a sud, il grande fiume si lancia nella sua corsa verso il mare e proprio qui, nella regione

acquitrinosa del delta, le ultime onde sono testimoni di una tragedia che si sta consumando da anni. Da quando, negli anni Settanta, quest’area, ricca di petrolio, è stata presa d’assalto dalle più grandi compagnie mondiali del settore che ne hanno devastato il territorio.

La devastazione ambientale associata alla mancanza di una equa distribuzione delle ricchezze prodotte alla popolazione, sono le cause determinanti del conflitto che a partire dagli anni Novanta vede opposte le popolazioni locali, che appoggiano il Movimento per l’emanci-

pazione del Delta del Niger (Mend), e l’esercito nazionale. Un brutto finale per un viaggio, quello del Niger, che attraversa l’Africa occidentale come un’arteria vitale, soffrendo anch’esso, assieme alle popolazioni che lo abitano, nel bene e nel male. • africa · numero 2 · 2010

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storia

di Diego Marani

E l’uomo creò la

MAPPA

Dai portolani a Google

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enza mappe non ci sarebbero stati esploratori. Ma anche senza esploratori non ci sarebbero state mappe, in una spirale di viaggi e di carta che si è alimentata nel corso dei secoli.

I primi geografi Per Anassimandro di Mileto, greco del VI secolo a.C., geografo e filosofo, la terra 64

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era un cilindro (prima di lui era considerata una superficie più o meno piatta). Per Aristotele era invece una sfera ed Eratostene ne misurò la circonferenza nel III secolo, sempre prima della nascita di Cristo, arrivando assai vicino ai dati di oggi. L’antica Grecia e il Mediterraneo sono dunque l’origine degli studi geografici occi-

dentali. L’opera di Eratostene, autore dei tre volumi della Geografia, ha avuto un’importanza enorme nella storia della cartografia. La carta geografica era anche in qualche modo una prova del racconto di un viaggio: per Erodoto, il grande storico greco del V secolo a.C., i fenici avevano - o dicevano di avere

Questa volta non ci soffermiamo su qualche figura di esploratore dell’Africa. Ma raccontiamo la storia di uno strumento che ha accompagnato le scoperte di ogni grande viaggiatore: la carta geografica

- circumnavigato l’Africa. Ma non lasciarono alcuna mappa di quel viaggio e la diatriba rimase aperta per secoli. Tolomeo, nel II secolo d.C., cercò di dimostrare che era impossibile circumnavigare l’Africa. La sua influenza rimase fortissima per oltre un migliaio di anni, fino all’epoca delle grandi esplorazioni europee.

L’Atlante catalano Un grande passo in avanti nella storia della cartogra-


fia - e già siamo nel Medioevo - è quello dei portolani, cioè le mappe delle coste, in particolare del Mediterraneo e del mar Nero. Carte che servivano a individuare i porti e le rotte che li congiungevano. Come ricorda lo storico John D. Fage, i portolani sono «gli antenati di tutte le moderne carte nautiche». I principali disegnatori di portolani erano spesso ebrei e nel XIV secolo si concentravano nelle città dove c’erano le migliori flotte: Genova, Venezia, Pisa. Poi molti di loro si trasferirono nell’isola di Maiorca, nelle Baleari. A Maiorca, Angelino Dulcert nel 1339 fu il primo a indicare su una carta geografica l’antico Mali, l’impero al di là del Sahara dove la leggenda sosteneva ci fosse oro in enormi quantità. L’Africa non mediterranea appariva così nelle mappe europee. Sempre a Maiorca un atlante attorno al 1375, elaborato per il re di Francia e attribuito ad Abraham Cresques, anch’egli ebreo, indica in maniera ben riconoscibile le città di Timbuctu e Gao. Questo atlante, cosiddetto “catalano” e oggi custodito nella Biblioteca Nazionale di Parigi, è di una bellezza contemplativa. Nel senso che bisogna stare fermi e gustarselo. Colore per colore, disegno per disegno. Perché non ci sono solo cartine, ma navi e cammelli, accampamenti di tende e re.

Fra Mauro Se l’Atlante catalano è il capolavoro della cartografia del secolo XIV, il mappamondo di Fra Mauro è

Caccia al tesoro L’oro è l’ossessione di tutte le esplorazioni geografiche, dagli antichi egiziani che disegnarono le miniere della Nubia ai portoghesi che, nel 1471, chiamarono Mina, miniera, la costa dell’attuale Ghana, denominata in seguito dagli inglesi Costa d’Oro.

quello del secolo successivo. Risale al 1459, quando a Venezia Mauro, un monaco camaldolese che visse a lungo nel convento di San Michele di Murano, disegnava carte geografiche. L’originale, inviato in Portogallo, non è giunto fino a noi. In compenso, a Venezia la Biblioteca Marciana ne custodisce ancor oggi una copia. È un mappamondo ben diverso da quelli cui siamo abituati, senza meridiani né paralleli, senza una scala e… con il sud messo in alto. La terra è tutta circondata dall’oceano. Fra Mauro mostra che l’Africa è circumnavigabile e quella carta esprime un fascino ancor oggi immutato.

Il planisfero Le navigazioni portoghesi daranno il contributo decisivo alla cartografia dell’era moderna, come si nota nel planisfero di Enrico Martello (che in realtà si chia-

mava Heinrich Hammler ed era un tedesco che viveva e lavorava a Firenze) della fine del XV secolo. L’Africa è piena di nomi lungo la costa occidentale - fin dove si erano spinti i portoghesi -, quasi vuota all’interno e nel sud della costa orientale. Sempre in questo periodo anni Novanta del XV secolo - Martin Behaim a Norimberga produce un mappamondo “sferico”, come noi oggi intendiamo comunemente il termine mappamondo. Da allora la rappresentazione del mondo, il planisfero, è diventata sempre più anche una questione politica, non solo geografica. La visione del mondo diventa sempre più una suddivisione del mondo e, sempre meno, una condivisione del mondo. Un esempio paradigmatico è quello di Mercatore (il fiammingo tedesco Gerhard Kremer) che nel XVI secolo darà una svolta decisiva alla cartografia: il suo atlante è rimasto fondamentale, in particolare per la navigazione marittima.

Peters e l’eurocentrismo Quattro secoli dopo, il geografo Arno Peters, dichiaratamente in polemica con Mercatore e il suo eurocentrismo, proporrà un planisfero in grado di rispecchiare in modo più fedele la superficie e la proporzione dei continenti. La sua geografia è così politica che molti “terzomondisti” espongono la cartina di Peters come un gesto identitario, appunto come un altro modo di vedere il mondo. La spartizione dell’Africa

tra le potenze coloniali europee, avvenuta a Berlino nel 1884-85, e gli attuali confini di molti Paesi africani - dritti, tracciati con il righello sopra una carta geografica - sono ancora una volta la conferma di un modo di concepire la geografia e di utilizzare le carte geografiche in funzione non degli uomini che abitano un territorio ma di un potere politico che deve amministrarlo. E oggi abbiamo Google Maps: internet, le connessioni a banda larga, le comunicazioni satellitari, l’ausilio del Gps che permettono a (quasi) tutti di vedere ogni angolo nel mondo. Sembra il trionfo della tecnologia. Seduti davanti al computer, immobili e velocissimi, possiamo illuderci di possedere il dono dell’ubiquità e di vedere luoghi distanti migliaia di chilometri in pochi secondi grazie a una sequenza di clic. Ma i popoli e le persone rimangono ancora là, in attesa di un incontro che qualunque mappa potrà nel migliore dei casi propiziare. Mai sostituire. •

EXPLORADORES Agli esploratori (che in portoghese significa anche “sfruttatori”), i quali hanno contribuito in maniera decisiva a disegnare le mappe nonché l’immaginario occidentale del “continente nero”, Africa dedica una serie di articoli. Dopo Livingstone, Stanley, Brazzà, Ca’ da Mosto, Ibn Battuta, Alexandrine Tinne, Zheng He, Burton e Speke e questo intermezzo cartografico, la prossima puntata vedrà protagonisti alcuni esploratori italiani.

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storia

di Enrico Casale

LA RABBIA DEGLI ASCARI L’Italia dimentica gli ex combattenti eritrei Ai tempi delle colonie in migliaia lottarono a fianco dell’esercito italiano. Furono impiegati nelle battaglie più cruente e pagarono un alto tributo di sangue. Oggi i vecchi ascari, sopravvissuti alle guerre d’Africa, reclamano una pensione dignitosa

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e gli italiani ci avessero lasciato fare, la guerra contro gli inglesi l’avremmo vinta. Invece…». Chi frequenta gli eritrei avrà sentito questa frase più volte. A pronunciarla sono soprattutto gli anziani, ma non di rado anche i giovani. In quelle parole c’è un po’ di retorica e tanto orgoglio nazionale. Ma c’è anche una sacrosanta verità: gli ascari sono stati tra i migliori soldati che abbiano servito nelle file delle forze armate italiane. Anzi, probabilmente sono stati i migliori. «Gli ascari erano soldati nati - spiega Vittorio Dan Segre, giornalista, storico ed esperto di Africa -, avevano nella loro cultura il coraggio, la devozione e il senso del sacrificio».

«

Teste matte? Ad accorgersi per primo di queste qualità delle popolazioni tigrine non furono gli italiani, ma il Sangiak Hassan, un signorotto albanese che creò un gruppo di mercenari, l’Armata Hassan, meglio conosciuta con il nome turco di basci buzuk (“teste matte” in turco). Il suo intento era di mettersi al 66

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servizio (a pagamento) dei ras etiopi nelle loro guerre locali. Quando gli italiani arrivarono sulle coste del mar Rosso si resero conto che le difficili condizioni ambientali mettevano fuori gioco i soldati del Regio esercito. Per questo, i comandi iniziarono a pensare alla creazione di una milizia territoriale. E nel 1885 acquistarono da Hassan i basci buzuk. Due anni dopo, i miliziani locali vennero inquadrati come soldati regolari dal generale Antonio Baldissera. Vennero creati i primi quattro battaglioni e presero il nome di àscari (“soldati” in arabo). I nuovi combattenti non erano solo eritrei, ma anche sudanesi e yemeniti. Indossavano un copricapo rosso, simile al fez, chiamato tarbush e alla vita portavano una fascia con i colori del battaglione. I reparti erano comandati da ufficiali italiani, mentre i graduati (sciumbasci) erano locali. Anche la disciplina era molto dura ed era affidata ai sottufficiali indigeni che la facevano rispettare a suon di nerbate (che infliggevano ai sottoposti con uno scudi-


La memoria perduta

scio di pelle di ippopotamo detto curbash).

Fedeli fino alla morte I reparti coloniali (ai quali si aggiungevano i dubat somali e i soldati libici) hanno partecipato a tutte le principali campagne africane dell’esercito italiano. Pochi sanno che gli ascari, comandati da ufficiali italiani, furono gli unici a sconfiggere, nel 1894, i ribelli mahdisti sudanesi (nemmeno l’esercito di Sua Maestà Britannica c’era riuscito). Gli ascari combatterono anche contro l’esercito etiope nelle due disastrose (per gli italiani) battaglie di Macallè e Adua. Soprattutto nella seconda pagarono un tributo altissimo di vittime. All’inizio dei combattimenti gli italiani schierarono 4mila ascari: ne morirono un migliaio, un altro migliaio fu ferito e 800 vennero fatti prigionieri. Di questi, quelli di origine tigrina vennero mutilati di un piede e di una mano per ordine dell’imperatrice etiope Taitù (moglie del negus Menelik) che li considerava traditori. Anche la riconquista del-

la Libia (1920-32) venne affidata agli ascari: solo il loro sostegno permise di soffocare la rivolta antiitaliana guidata dai senussi. Lo stesso si può dire per la conquista dell’Etiopia, il cui «merito» va quasi interamente attribuito alle truppe coloniali. La voglia di vendicarsi degli «odiati etiopi» (che per secoli avevano vessato le popolazioni dell’odierna Eritrea) fece sì che quando Benito Mussolini dichiarò guerra ad Addis Abeba, migliaia di eritrei corsero ad arruolarsi (nel 1935, circa il 40% degli eritrei maschi serviva nell’esercito italiano). Furono i reparti coloniali a sfondare il fronte nord e a giungere per primi ad Addis Abeba. Il comando italiano li fermò alla periferia. I nostri generali volevano che i primi a sfilare in città fossero i reparti italiani e non gli ascari. «Ciò che umiliava di più gli eritrei - spiega lo storico Angelo Del Boca - era la legislazione fascista che divideva italiani e locali. La separazione era totale: anche gli ascari vivevano lontani dai soldati italiani».

Lo scoppio della seconda guerra mondiale vide di nuovo le truppe coloniali schierate in prima linea. Il loro contributo di sangue fu enorme. Nella battaglia di Keren, che aprì agli inglesi le porte dell’Africa orientale italiana, le perdite degli italo-eritrei, in 56 giorni di combattimento, ammontarono a oltre 12mila caduti. E il tributo più alto fu pagato dagli ascari. Nonostante gli appelli britannici alla diserzione, solo pochi combattenti abbandonarono le file italiane. Perché? «Dagli eritrei - spiega Amedeo Guillet, leggendario ufficiale delle truppe coloniali, che quest’anno ha compiuto 100 anni - più volte mi sono sentito ripetere: “Noi o saremo indipendenti o staremo con voi italiani. Mai con gli inglesi e tanto meno con gli etiopi, contro i quali abbiamo sempre combattuto”». Nell’Italia gli ascari vedevano la nazione che li aveva affrancati dal giogo della dominazione dei negus. Tant’è vero che molti di loro, dopo la guerra, di fronte alla prospettiva (che poi si verificò) di una federazione (leggi annessione) con l’Etiopia, chiesero di tornare con l’Italia. Hamid Idris Awate, il fondatore del braccio armato del Fronte di liberazione dell’Eritrea, colui che diede il via alla lotta per l’indipendenza dell’Eritrea, era stato un ascaro e un agente dei servizi segreti italiani. Il nostro Paese è sempre stato insensibile a questo moto di affetti. Nel 1950 Roma garantì agli ascari una pen-

Il libro Per gli amanti della storia coloniale italiana segnaliamo il libro Mani sante. Vita negli ospedali di guerra dal 1935 al 1941 (Edizioni Camilliane 2008, pp. 216, € 18,00). Ne è autrice Ina Moretti, infermiera volontaria della Croce Rossa, impiegata a soccorrere i soldati italiani durante le guerre d’Etiopia, Spagna e Libia, dal settembre 1935 al maggio 1941. Un diario personale dai campi di battaglia, pieno di umanità e di dolore. Per non dimenticare l’orrore della guerra. Nunzio Dell’Erba

sione di 50mila lire l’anno (senza la reversibilità per le mogli). Nel 2004 l’Italia propose agli ex combattenti di accettare una somma equivalente a quattro anni di pensione e di rinunciare alle rendite future. Gli ascari rigettarono la proposta e continuarono a prendere il loro assegno annuale. Quest’anno i 200 superstiti hanno chiesto un adeguamento della pensione a 200 euro l’anno (16 euro al mese). Ma non si illudano. La crisi economica e, più ancora, l’indifferenza degli italiani nei confronti della propria storia, sono nemici difficili da battere. Più dei dervisci mahdisti. Più degli etiopi. Più degli inglesi.• africa · numero 2 · 2010

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chiese

testo di Anna Pozzi foto di Bruno Zanzottera

Padre Giovanni Pross ha deciso di dedicare la sua vita alla difesa dei più deboli: i giovani in carcere, i bambini di strada, gli ex babysoldati, i ragazzini accusati di stregoneria…

Un missionario trentino aiuta da vent’anni i giovani congolesi

L’amico dei ragazzi D

a qualche anno, l’ingrato compito di economo lo costringe a lungo alla scrivania. Ma padre Giovanni Pross, missionario dehoniano trentino trapiantato a Kisangani, nella Repubblica Democratica del Congo, non ha abbandonato il suo slancio per la difesa dei minori. Minori in carcere, ragazzini accusati di stregoneria, bambini di strada… «Nel 1989 - racconta - ho cominciato

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ad occuparmi dei prigionieri, sbattuti in cella senza accuse precise. Seguivo i loro dossier, cercando di arrivare alla scarcerazione. Poi ho iniziato a interessarmi ai minori in carcere, che vivevano pesanti situazioni di violenze e abusi. Quindi, con la guerra, si è presentato il fenomeno dei bambini soldato e si è aggravato quello dei ragazzi accusati di stregoneria. Tutti segnali di un pesante degrado del

tessuto sociale e del venir meno di valori e punti di riferimento».

Insegnante al liceo Padre Giovanni era arrivato in Congo come insegnante di latino e francese, nel più prestigioso liceo di Kisangani, costruito e gestito dalla sua congregazione, i sacerdoti del Sacro Cuore detti “Dehoniani” (dal fondatore Leone Dehon). In questa città tutto parla di loro. Lungo

le rive del maestoso fiume Congo, una chiesa e alcune strutture, che richiamano le architetture del Nord Europa, testimoniano della prima presenza cristiana in questa regione. Una presenza legata a doppio filo all’arrivo dei missionari dehoniani, alla fine dell’Ottocento, che sono stati gli evangelizzatori di questa terra e che ancora oggi portano avanti svariate attività pastorali e di formazione per i giovani.


foto Elisa Pozzi

La città martire

di Kisangani Padre Giovanni si divide tra le responsabilità dell’economato e l’attenzione per le problematiche dei minori. Appena fuori Kisangani ha costruito una casa che ospita circa 115 ragazzi, dai sette anni in su. Tutti tolti dalla strada.

Un futuro da inventare «Alcuni vi sono finiti perché la famiglia è troppo povera», spiega mentre ci mostra le aule e il refettorio. «Altri

perché orfani. Alcuni sono stati arruolati giovanissimi dagli eserciti ribelli, mentre altri ancora sono stati accusati di portare il malocchio e sono stati cacciati e picchiati. Talvolta hanno addirittura tentato di ucciderli. Noi, in prima istanza, cerchiamo sempre di ritrovare qualche riferimento familiare e di verificare se c’è la possibilità di un reinserimento. Ma è molto difficile». Poco distante, sempre nel-

la campagna appena fuori Kisangani, il missionario ha costruito una casa che dà rifugio a una cinquantina di ragazze. «Con loro è ancora più difficile», ci spiega. «Hanno subìto traumi e abusi peggiori, molte sono state vittime delle sètte e hanno bisogno di maggiori attenzioni». Accanto a padre Giovanni lavora un comboniano, padre Joseph Mumbere, psicologo con grande espe-

Kisangani è il capoluogo della Provincia Orientale del Congo. Ai tempi della colonizzazione belga si chiamava Stranleyville, in onore del famoso esploratore che raggiunse la località nel 1883. Dopo l’indipendenza è diventata la “città martire”, per la lunga scia di ribellioni, violenze e saccheggi che ha subito. L’ultima sanguinosa battaglia, 10 anni fa, ha visto protagonisti militari stranieri, ugandesi, ruandesi e miliziani locali, che si sono scontrati per sei giorni con armi pesanti in città, provocando moltissime vittime e distruzione ovunque. La posta in gioco: il controllo del territorio e delle sue ricchissime materie prime, in primo luogo diamanti e legname pregiato. rienza, che prova ad aiutare i giovani. Nel frattempo si cerca di insegnare loro un mestiere perché, una volta maggiorenni, possano cavarsela da soli. Ma soli, in un Paese come la RD Congo, senza una famiglia e dei riferimenti, tutto è troppo difficile. Ecco perché padre Giovanni non smette mai di guardare avanti, immaginando sempre qualcosa di nuovo per dare un futuro ai suoi ragazzi. • africa · numero 2 · 2010

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chiese

testo e foto di Anna Pozzi

Imparare l’arabo al Cairo Considerato la porta dell’Africa, l’Egitto è sempre stato per i missionari comboniani una specie di anticamera per il Sudan, la “Perla Nera”. Qui Daniele Comboni, fondatore dell’istituto, apre dal 1867 le prime comunità religiose. Una presenza che serve non solo per acclimatarsi ma anche e soprattutto per l’apprendimento dell’arabo. Ancor oggi la Dar Comboni del Cairo è uno dei migliori istituti per lo studio della lingua e della cultura araba. Situata nell’isola-quartiere di Zamalek, accanto alla parrocchia comboniana - una delle più attive di tutto il Cairo -, offre corsi di lingua a missionari e missionarie, sacerdoti, religiosi e religiose di tutto il mondo, ma anche a laici che intendono approfondire seriamente lo studio dell’arabo. I corsi durano 1 o 2 anni, con frequenza obbligatoria di 5-6 ore al giorno. Oltre a molta grammatica, vengono proposte materie come traduzione, dialogo, composizione di testi, lettura dei giornali, islamistica, lettura dei testi cristiani in arabo. Informazioni su www. comboniegypt.org 70

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Il missionario

Premiato in Egitto un sacerdote

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redo che questa onorificenza riguardi tutti coloro che lavorano nel campo dello studio della civiltà islamica e del dialogo fra civiltà». Con queste parole, padre Giuseppe Scattolin, missionario comboniano in Egitto, ha accolto l’annuncio del riconoscimento che gli è stato assegnato dall’Università di Kafr al-Sheikh (Delta del Nilo) per i suoi lavori sul sufismo. Si tratta della massima onorificenza dell’Università, conferita per la prima volta a un cristiano. Un riconoscimento che ha un alto valore simbolico in un Paese dove non mancano chiusure e spinte fondamentaliste e dove la convivenza tra cristiani e musulmani non è sempre pacifica. Il massacro di Nag Hammadi nei pressi di Luxor, lo scorso 7 gennaio, con nove cristiani copti uccisi, ne è l’ultimo tragico esempio.

«

Un islam sconosciuto Ma in Egitto esistono anche reali opportunità di convivenza, confronto e dialogo, anche ai più alti livelli accademici. «Il sufismo - sostiene padre Scattolin - è un ambito in cui si possono trovare elementi molto positivi di incontro e scambio. Que-

Da trentacinque anni al Cairo, padre Giuseppe Scattolin esplora il mondo dei mistici sufi. «Perché - spiega - aprirsi alle altre religioni è il miglior modo di conoscere meglio sé stessi e la propria fede». I suoi sforzi contro il “tribalismo religioso” non sono passati inosservati…

sta possibilità esiste anche in campo filosofico e giuridico». È da molti anni che padre Giuseppe si dedica a questi studi. In Egitto dal 1980, dopo essere stato in Libano e Sudan, insegna mistica islamica alla Dar Comboni del Cairo (istituto di lingua e cultura araba diretto dai missionari comboniani) e al Pisai di Roma (Pontificio istituto di studi arabi e islamistica). Ha pubblicato una cinquantina tra libri e articoli. Nel suo studio del Cairo,

tappezzato di libri di mistica sufi, padre Giuseppe sfoglia la poderosa antologia di testi da lui presentata lo scorso anno anche al Salone del libro di Torino che aveva come ospite d’onore proprio l’Egitto. Si tratta di una pubblicazione importante che ha avuto grande eco nel Paese e che, nonostante la mole di circa 600 pagine, è andata esaurita in poco tempo. Ma, secondo il missionario, si tratta solo di una “anticipazione” dell’opera completa di oltre quattromila pagine a cui sta lavorando, insieme al suo fedele “discepolo” Ahmed con cui collabora da diversi anni e che ha appena conseguito un dottorato proprio su tematiche legate al sufismo. «Il nostro lavoro - spiegano entrambi con convinzione - ha lo scopo di suscitare maggiore interesse per il sufismo. Si tratta di un aspetto dell’islam semisconosciuto, che in questi ultimi anni è passato ulteriormente in secondo piano, sovrastato dalla grande attenzione per l’islam politico che oggi è dominante».

Il dialogo possibile Scattolin non ha dimenticato la lezione del suo primo grande “maestro”, il sudanese Mahmud Taha che ha


che studia l’islam italiano esperto di sufismo Nella foto, padre Scattolin con il suo “fedele” Ahmed

conosciuto nei suoi primi anni di missione a Khartoum, nel 1976. Fu il primo, Taha, a introdurre una distinzione tra l’islam dei valori e l’islam storico, ovvero tra quello corrispondente

alla fase di Maometto alla Mecca, quando proclamò i principi della fede e della morale, e quello della Medina, quando cioè promulgò una serie di regole e norme che corrispondevano alla

società beduina del settimo secolo. Di qui l’idea, rifiutata ancora dalla gran parte, di una rilettura storica e di una possibile interpretazione di tali precetti. Mahmud Taha venne impiccato nove anni dopo con l’accusa di eresia. Un «martire in nome della libertà di coscienza», dice padre Scattolin. Il tema della libertà di coscienza e di religione, di espressione e di critica, permea ancora oggi il lavoro di padre Giuseppe, sferzante nella critica a

tutti i pregiudizi e chiusure che riguardano non solo il mondo musulmano ma anche il nostro mondo occidentale cristiano. Tutt’altro che buonista o ingenuo, padre Giuseppe vede tuttavia nell’incontro una reale possibilità di conoscenza e rispetto. «Conoscere e aprirsi ad altre religioni, culture e tradizioni è il miglior modo per conoscere meglio anche sé stessi e la propria fede, i pregi e le ricchezze, senza nascondersi i limiti e i difetti». La collaborazione e il confronto quotidiano con Ahmed ne sono la riprova. Un rapporto tra maestro e discepolo, ma anche tra due accademici e studiosi e sempre più tra due amici. «La possibilità di un incontro vero - sostiene padre Giuseppe - chiede che ciascuno metta in discussione anche se stesso. Oggi, invece, ho l’impressione che si vada sempre più verso un “tribalismo religioso”, in cui si usa la fede e l’identità per mettersi in contrapposizione all’altro. Ma la vera sfida è quella di scoprire e mantenere la propria identità aprendosi agli altri. Per farlo però occorre onestà e coerenza, nonché un ritorno all’autenticità dell’ispirazione originale».• africa · numero 2 · 2010

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chiese

a cura della redazione

L’Africa al Museo Guida alle esposizioni etnografiche in Italia ROMA • Museo Coloniale L’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente dispone di una notevole collezione museale. Tra gli oltre 10mila pezzi inventariati, troviamo dipinti di arte etiopica “tradizionale”, documenti di antropologia (calchi antropometrici), materiali archeologici originali (Adulis, Germa), plastici e ricostruzioni in scala di siti archeologici (Sabratha, Leptis Magna); documenti della cultura materiale del Corno d’Africa (armi, selle, costumi, ceramiche, ornamenti, strumenti musicali, modellini di imbarcazioni, ecc.). La collezione comprende un archivio storico di alcune migliaia di scritti datati fra il 1870 e i primi decenni del XX secolo, che documentano la storia delle esplorazioni e dell’amministrazione coloniale. Via U. Aldrovandi 16, Roma. Orari: rivolgersi a martellucci@isiao.it; tel. 06 328551. www.isiao.it/raccolte.php

TORINO • Museo Etnografico e di Scienze Naturali

ROMA • Museo Missionario Etnologico

ROMA • Museo Preistorico Etnografico

Curato dai missionari della Consolata, il ricchissimo Museo Etnografico e di Scienze Naturali è diviso in più sezioni: dall’etnografia all’archeologia, dalla botanica alla mineralogia, fino alla zoologia e all’arte africana. Innumerevoli i reperti di oggettistica tradizionale raccolti tra Masai, Pigmei, Turkana, Zulu. L’erbario raccoglie materiale botanico proveniente dalla flora africana - in particolare del Kenya, della Tanzania, dell’Etiopia, del Mozambico e del Sudafrica. Particolarmente ricca l’esposizione di maschere, feticci, figure antropomorfe e zoomorfe, sculture lignee o in avorio dedicate alle divinità o al culto degli antenati.

Situato all’interno dei Musei Vaticani, il museo fu fondato da Papa Pio XI alla chiusura dell’Esposizione Universale Missionaria, che lo stesso Pontefice aveva voluto nel 1925. L’attuale esposizione museale, che ammonta a circa 100mila opere, è strutturata su due distinti percorsi. Il primo, aperto al pubblico, è organizzato in 24 settori rappresentanti altrettante aree geoculturali di Africa, Asia, Oceania e America. Nel secondo percorso, chiuso al pubblico e visitabile solo su richiesta, è conservato il resto delle raccolta, consistente in manufatti di uso quotidiano, cerimoniale, artistico, provenienti da diverse società e culture.

Il prestigioso museo statale, inaugurato nel 1876, ospita anche una sezione dedicata all’Africa, con un primo nucleo di oggetti raccolti nel XVII secolo in Congo e Angola dai Cappuccini. Essa si è poi arricchita con le raccolte costituite da ufficiali italiani al servizio dello Stato Libero del Congo, la collezione etiopica della Società Geografica Italiana, le raccolte di Romolo Gessi, Vittorio Bottega e altri esploratori italiani, oltre a due rare raccolte di oggetti sudafricani.

Corso Ferrucci 12bis, Torino. Orari: 8.30-12.30 e 14.30-18.00; festivo: 14.30-18.00; chiuso il lunedì. Tel. 011 4400400. www.paleoantropo. net/009museo006.htm

Una biblioteca a Genova La Società delle Missioni Africane gestisce a Genova (via Borghero 4) una biblioteca specializzata sull’Africa, nei suoi vari aspetti (storia, letteratura, etnologia, arte, società, religione) che dispone di quasi diecimila volumi e 300 riviste. La consultazione dell’archivio è gratuita, da lunedì a venerdì (9.39-13.30). Annesso alla biblioteca c’è un piccolo museo d’arte e artigianato africano. Tel. 010 307011. 72

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Musei Vaticani, Città del Vaticano. Orari: 9.00-18.00; chiuso la domenica, ad eccezione dell’ultima del mese purché non coincida con le principali festività religiose. http://mv.vatican.va/2_IT/pages/ MET/MET_Main.html

Piazzale G. Marconi 14, Roma. Orari: 9.00-14.00; chiuso il lunedì dal 1° giugno al 31 agosto. Tel. 06 549521. www.pigorini.arti.beniculturali.it


Maschere, feticci, costumi tradizionali. Ma anche reperti archeologici, oggetti sacri, materiali scientifici. Migliaia di documenti rari e preziosi raccolti in decenni dai missionari. Una collezione immensa. Aperta alla visita di studiosi dell’Africa o semplici curiosi

URGNANO (BG) • Museo e Villaggio Africano Maschere e statue dell’Africa subsahariana sono esposte in diciotto vetrine, corredate da didascalie e pannelli esplicativi. Il materiale etnografico è stato raccolto dagli anni Sessanta ai primi anni Ottanta a partire dalle missioni dei Passionisti di Kenya e Tanzania. Accanto al museo sorge il “Villaggio Africano”, esposizione en plein air di diverse tipologie di abitazioni africane di popolazioni dell’Africa occidentale e orientale. Una lavagna multimediale supporta le visite di gruppo; delle audioguide sono disponibili per i singoli visitatori.

VERONA • Museo Africano

LIONE • Musée Africain

Fondato dai Missionari Comboniani nel 1938, cresciuto nel corso del tempo e recentemente rinnovato, il museo offre percorsi multimediali (integrati con mostre tematiche e laboratori didattici) di interesse etnoantropologico finalizzati allo studio e alla promozione del dialogo interculturale. Da segnalare l’adiacente Biblioteca Nigrizia, con circa 20.000 volumi.

Merita un piccolo sconfinamento oltralpe il Museo africano di Lione, creato dalla Società delle Missioni Africane (Sma). Su una superficie di 750 metri quadri, offre ai visitatori la visione di 2126 pezzi (in 138 vetrine) raccolti dai missionari che operano in Africa occidentale.

Vicolo Pozzo 1, Verona. Orari: martedì-sabato 9.00-12.30 e 14.3017.30; domenica e festivi 14.0018.00; chiuso il lunedì. Tel. 045 8092199. www.museoafricano.org

150, cours Gambetta, Lyon (Francia). Orari: martedì-domenica 14.00-18.00: chiuso il lunedì. Tel. 010 307011 (Italia); +33 (0)4 78616098 (Francia). www.missioni-africane.org

PARMA • Museo d’Arte Cinese ed Etnografico Oltre agli oggetti cinesi, frutto della presenza dei Missionari Saveriani nel grande Paese asiatico, il museo - iniziato nel 1901 - ospita una vastissima collezione di oggetti appartenenti ai Temne e ai Mende della Sierra Leone nonché a una trentina di popolazioni della RD Congo. Viale San Martino 8, Parma. Orari: 9.00-12.00 e 15.00-18.00; chiuso mercoledì e domenica mattina. Tel. 0521 990011 (è gradito preavviso prima della visita) www.museocineseparma.org

Via G.B. Peruzzo 142, Basella di Urgnano (Bg). Orari: lunedì-venerdì 9.00-17.00; domenica 14.00-18.00; chiuso il sabato. Tel. 035 894670. www.museoafricano.it

CHIERI (TO) • Museo Africano Statue, maschere ed ornamenti per un totale di 150 oggetti esposti. Raggruppati per etnia di appartenenza e disposti geograficamente in un immaginario percorso all’interno del territorio centro-occidentale dell’Africa ed attraverso il Burkina Faso, il Mali, la Costa d’Avorio ed il Ghana. Una vetrina preziosa sull’arte africana che è soprattutto un’arte tribale dove i modelli culturali, mentali, simbolici influenzano la creazione dell’opera. I reperti esposti svelano la ricchezza delle società tradizionali Mossi, Gurunsi, Bwa, Bobo e Lobi. Sorto come contributo all’impegno ed allo sforzo continuo dei Fratelli della Sacra Famiglia nel favorire la comunicazione fra culture diverse e l’educazione alla mondialità. Via Peccetto 14, Chieri (TO). Orario: lunedì-venerdì 9-17 Tel. 011 9426335 www.camsafa.org camasafa@camsara.org africa · numero 2 · 2010

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a cura di Anna Pozzi

Sudafrica •

In prima linea contro l’Aids Forte del prestigio e della competenza acquisite in questi anni di duro ed efficace lavoro, la Chiesa cattolica del Sudafrica è pronta oggi a farsi carico di una nuova sfida, sul fronte della lotta all’Aids. Il Catholic Relief Services, la Caritas degli Stati Uniti (Crs), ha infatti deciso di far gestire il programma Aids Relief direttamente dalla Conferenza episcopale dei vescovi di Sudafrica, Botswana e Swaziland (SACB). «Questo evento - ha dichiarato Ruth Stark rappresentante del Crs in Sudafrica - premia l’impegno e i risultati della Chiesa cattolica nel prendersi cura della più vasta popolazione al mondo colpita dal virus Hiv». Il programma AIDS Relief fornisce cura e assistenza a più di 60mila persone nei tre Paesi dell’Africa australe.

Nigeria •

Leader religiosi contro le violenze

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ll’indomani dei drammatici scontri che hanno provocato quasi 400 morti il 17 gennaio scorso a Jos, nello Stato di Plateau, Nigeria, le autorità politiche e religiose cercano di comprenderne le cause più profonde per evitare nuove violenze. A questo scopo è stato organizzato un incontro, a cui ha preso parte il vice-presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan (a cui sono state trasferite le funzioni di Capo di Stato, a causa delle cattive condizioni di salute del Presidente), il governatore locale e diversi leader musulmani e cristiani, tra cui mons. John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja e l’arcivescovo di Jos, mons. Kaigama. «Abbiamo avuto un incontro molto franco e diretto - ha dichiarato quest’ultimo - nel quale ognuno ha potuto esprimere l’amarezza, la rabbia e i timori della propria comunità, che sia cristiana o musulmana. Dal dibattito è emerso che la religione non è affatto la causa degli scontri. Le cause reali delle violenze sono sociali, politiche, etniche, economiche e persino di scontri tra personalità diverse. Quando si attacca una chiesa o una moschea lo si fa perché entrambe sono il simbolo più evidente della comunità che si vuole colpire, ma non in quanto luogo di culto». Al termine dell’incontro è stato creato un comitato di 15 personalità, tra le quali

Algeria • I vescovi chiedono rispetto Dopo il saccheggio e l’incendio di un luogo di culto cristiano a Tizi Ouzou, in Cabilia, avvenuto lo scorso gennaio, i vescovi cattolici del Paese hanno espresso il proprio «grande dolore» per questo ennesimo episodio di violenza, ma anche la speranza che si possa rinsaldare un cammino di «buona convivenza e rispetto». Di fronte al ripetersi di atti contrari alla libertà religiosa, i quattro vescovi del Paese si sono detti «molto preoccupati per gli ostacoli posti, qui e là, alla pratica del culto cristiano e profondamente rattristati». Hanno inoltre manifestato la loro «indignazione di fronte alla profanazione dei segni cristiani, allo stesso modo in cui si indignano quando si rendono conto che si profanano segni della religione musulmana in qualche Paese del mondo». 74

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Elodie PERRIOT/SECOURS CATHOLIQUE

chiesa in africa


Kenya •

Tormenti bioetici in parlamento

S.E. Mons. John Onaiyekan: “Finché non si crea maggior giustizia e distribuzione delle ricchezze nel mondo, vi saranno sempre rabbia e terrorismo“.

lo stesso mons. Kaigama, che dovrà cercare di metter fine alle ricorrenti violenze che interessano lo Stato di Plateau. «I capi religiosi - ha aggiunto l’arcivescovo - devono impedire che quando si manifestano delle tensioni tra le comunità, la religione venga strumentalizzata. Bisoga intervenire subito, evitando di usare un linguaggio che inciti gli animi e predicando invece la pace e la riconciliazione».

Congo •

La chiesa chiede chiarezza all’Eni

A

bbiamo intervistato Brice Makosso, nella foto, presidente della Commissione Giustizia e Pace della Chiesa congolese.

Lei è impegnato in una campagna che intende far luce sui nuovi progetti dell’Eni in Congo (vedi pag 17). Perché? Perché l’azienda italiana non ha ancora reso pubbliche delle informazioni fondamentali: l’esatta posizione dei lavori di esplorazione e i risultati degli studi di impatto ambientale. Temete per la salute della foresta, ma l’Eni assicura di operare in zone di savana… Evidentemente i vertici aziendali non conoscono bene il territorio: la verità è che i lavori dell’Eni

La Chiesa cattolica keniana ha espresso una forte opposizione alla proposta di inserire nella Costituzione una clausola che sposta l’inizio della vita dal concepimento alla nascita. Padre Pascal Mwambi, esperto in bioetica, è molto esplicito: «Se dovesse passare la concezione che la vita inizia solo al momento del parto, negando implicitamente i diritti dell’embrione, si aprirebbero le porte ad ogni forma di manipolazione, ricerca e sperimentazione sull’embrione». Secondo father Mwambi, «Non si tratta solo di modificare una clausola della bozza di revisione costituzionale, ma si tratta di salvare le vite delle generazioni future».

minacciano una fragile zona di foresta tropicale. L’Eni afferma di puntare all’estrazione del petrolio dalle sabbie del Congo, mentre il governo di Brazzaville dice di voler produrre bitume per la copertura delle strade. Chi mente? Purtroppo non sappiamo chi dice la verità, non sappiamo se verrà prodotto petrolio da esportare o bitume per il mercato locale. L’intera vicenda è avvolta da un silenzio inquietante. Nel 2006 lei è stato arrestato e imprigionato per settimane con altri attivisti dei diritti umani. Ora rischia di mettersi di nuovo nei guai… Il vero problema è che il governo non accetta che gli si chieda conto della gestione delle rendite derivanti dal petrolio, e allo stesso tempo non tollera che la società civile esprima le sue preoccupazioni. Stefano Vergine e Federico Simonelli

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togu na

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la casa della parola

Evviva i rabdomanti

I capricci del re

Ho letto con interesse l’articolo di Luca Spampinato sugli ultimi maghi dell’acqua in Africa. La rabdomanzia tecnica divinatoria? Prove certe della sua reale efficacia? Vi porto la mia testimonianza: sono un imprenditore con cinquant’anni di lavoro in Costa d’Avorio nel settore del legname. Tempo fa, nel villaggio di Soioua, dove ha sede la nostra segheria, scarseggiava l’acqua ed era all’opera un rabdomante locale armato di bastoncino. Proprio in quel mentre era arrivato in azienda il nostro direttore italiano che aveva guardato con interesse il lavoro del rabdomante. Per curiosità volle provare anche lui la bacchetta di legno: immediatamente questa si mise a ruotare su se stessa, con una potenza impressionante. Il direttore volle provare le sue capacità anche nello stabilimento di Cagnoa, dove lavoravano più di 600 operai. Lì occorreva installare una nuova caldaia a vapore, un impianto che consumava molta acqua, ma non ce n’era a sufficienza. In breve individuammo dei punti dove il bastoncino vibrava vistosamente. Grazie alle sue insospettate doti, il direttore fece scavare ben tre pozzi artigianali, due dei quali portarono tutta l’acqua necessaria ad alimentare le pompe per le caldaie ancora oggi in funzione. Un rabdomante quindi non è un ciarlatano, ma un uomo con facoltà speciali. E in Africa l’acqua significa vita. Isidoro Bianchi, Lissone

Il ballo delle vergini in onore del re dello Swaziland è una tradizione abbietta che calpesta la dignità delle donne. Il sovrano Mswati III dovrebbe imparare a controllare i suoi appetiti sessuali e portare più rispetto alle sue suddite. Anziché passare il suo tempo in camera da letto con tredici mogli e chissà quante amanti, potrebbe cominciare, per esempio, a promuovere la costruzione di ospedali, pozzi, dispensari, scuole. Così darebbe prova di essere un re illuminato. E conquisterebbe sul serio le donne del suo regno. Christine Mzibuko, Lusaka, Zambia

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Onore ai Faraoni L’Egitto ha conquistato per la terza volta consecutiva la Coppa d’Africa. La nostra nazionale si è sbarazzata nelle fasi eliminatorie di un’Algeria mediocre e nervosa (3 espulsi per falli da macellai). Un sonoro 4-0 che ha ribadito una volta di più la superiorità del calcio giocato al Cairo su quello improvvisato ad Algeri. Rimane l’amarezza per l’ingiusta eliminazione dalla Coppa del Mondo per mano degli algerini. Ai mondiali sudafricani mancherà il bel calcio dei faraoni! Abdel Khayal, Monza

Lezione meridionale Dopo i gravi casi di xenofobia scoppiati a Rosarno, in Calabria, il Meridione è stato dipinto dai media come un luogo infernale per gli immigrati africani.

Vi voglio portare un piccolo esempio di integrazione riuscita. Collaboro ad un’associazione di volontariato che opera nel Centro Storico di Salerno, quartiere molto popolare e che ancora presenta un notevole grado di disagio sociale. Ci occupiamo di organizzare corsi e attività ricreative sia per adulti che per ragazzi e siamo presenti sul territorio ormai da decenni. Durante gli ultimi dieci anni l’anima di questa associazione è stata una nostra amica zimbabwana che vive a Salerno. Da tempo si è integrata benissimo tant’è che è diventata un riferimento per la gente del centro storico… Una testimonianza non isolata di quanto il sud Italia sappia ancora coniugare accoglienza, integrazione e profondo senso civico. Carmela De Luca, Salerno

Funerali incivili Ho visto le impressionanti foto dei riti funerari nel nord del Camerun. Da quanto ho capito, in onore degli spiriti dei defunti vengono organizzate delle feste danzanti, dove i cadaveri vengono sballottati in mezzo ai balli. Va bene il rispetto delle tradizioni, ma forse le autorità locali dovrebbero limitare simili rituali, che nulla hanno a che fare con il rispetto della dignità delle persone, vive o morte non importa. Leo Vismara, Pavia

Lontani da Mugabe Sull’ultimo numero di Africa ho letto con interesse il

servizio “La città perduta” dedicato alle misteriose rovine di Great Zimbabwe. Sono un’appassionata di archeologia africana e mi piacerebbe visitare i monumenti in pietra di questa stupefacente città medievale. Tuttavia ho deciso di attendere ancora un po’. Finché lo Zimbabwe sarà governato da un tiranno, non metterò piede in quel Paese. E invito altri turisti italiani a fare lo stesso. Non dobbiamo sostenere coi nostri soldi il regime oscurantista del presidente Mugabe. Luigina Carvello, Potenza

Non scherzate Su Africa di gennaio avete scritto che la Valle dell’Omo in Etiopia è minacciata da un gigantesco impianto idroelettrico costruito da un’azienda italiana. Era uno scherzo, vero? Adoro quella regione africana - che ho avuto la fortuna di visitare in tre occasioni - e non mi pare vero che le autorità e l’Unesco possano aver autorizzato la distruzione dell’ultimo paradiso dell’Africa. Vi prego di tenermi informata sulla vicenda e, se possibile, rassicurata sui destini dell’Omo. Veronica Serchia, Roma

Prendete anche voi la parola nella “Togu na”. Scrivete a:

Africa

C.P. 61 24047 Treviglio BG oppure mandate una mail: africa@padribianchi.it o un fax: 0363 48198


n. 2 marzo.aprile 2010 www.missionaridafrica.org

Pellegrinaggio in Mali

Viaggio al santuario mariano di Kita Ogni anno, a novembre, 10mila fedeli cattolici provenienti da tutta l’Africa occidentale si recano in una piccola città del Mali per rendere omaggio alla Vergine Maria di Kita. Un evento maestoso. Raccontato da due pellegrini italiani

La cittadina di Kita - poco più di 30mila abitanti - si trova sulla linea ferroviaria Bamako-Dakar, 150 km ad ovest di Bamako, la capitale maliana, circondata da promettenti miniere d’oro. Ma soprattutto la località riveste una grande importanza per la comunità cattolica. Qui è sorta la prima residenza dei Padri dello Spirito Santo, i pionieri della missione. Vi si trova un’antica

Di Rosi Grazioli e Giovanni Pessina statua d’argilla della Madonna, modellata da un fratello laico che accompagnava i primi missionari, e diventata oggetto di venerazione per i fedeli. Dal 1970 i cattolici del Mali, guidati dai loro vescovi, hanno iniziato a venire qui in pellegrinaggio. Vengono a rendere omaggio alla Vergine Maria di Kita. Vengono per pregare, per meditare, per ringraziare la Madonna. Vengono per chiedere intercessioni e miracoli. Il pellegrinaggio inizia il terzo Sabato del mese di novembre e dura sino alla Domenica pomeriggio. Lo scorso anno vi hanno partecipato più di 10 mila persone, provenienti da ogni regione del Mali, ma anche dai Paesi vicini come il Senegal, la Guinea, il Burkina Faso. In quella folla immensa di pellegrini c’eravamo anche noi. Siamo partiti il venerdì da Bamako su un treno speciale organizzato dalla Caritas. Il viaggio è durato quattro ore e mezzo. Durante le innumerevoli soste ci siamo rifocillati grazie ai venditori di cibarie e bevande che lavorano lungo i binari assediati. L’arrivo a Kita in tarda serata ha riempito la cittadina fino quasi a farla scoppiare. La

Il treno in partenza da Kati mentre venditori presentano cibo e bevande

padri bianchi . missionari d’africa

Statua in bronzo di Maria sul piazzale di arrivo della processione serale

polizia ha convogliato la fiumana di gente verso il punto d’incontro della Cattedrale dove è stato assegnato l’alloggio ad ogni gruppo parrocchiale. Lungo la strada i musulmani locali ci hanno accolto con calore. «Siate i benvenuti», ci hanno ripetuto in tanti, sorridendo. «Fate benedizioni e pregate anche per noi». E poi, in coro, «Xanu Maria, Afubana Maria», cioè «Santa Maria, Ave Maria»… Un segno di comunione sincera. Abbiamo dormito spartanamente per terra, in un clima di festa. E il giorno seguente, il sabato, ci siamo immersi in un mare di celebrazioni solenni. Il suono delle campane della cattedrale ha accolto per tutta la mattinata l’arrivo di migliaia di pellegrini. Un’infinità di persone sono giunte a piedi, in bus, in bici o su camion carichi all’inverosimile. Nel primo pomeriggio c’è stato il grande raduno in cattedrale. Il clou è stato la processione serale dalla cattedrale alla spianata, dove la folla ha reso omaggio a una statua in bronzo di Maria custodita in una grotta. Il fiume di candele tremolanti ha serpeggiato per ore lungo le vie. L’indomani, la celebrazione della messa solenne ha concluso il più straordinario pellegrinaggio del Sahel.

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Tra le ceneri brilla la solidarietà La tragica morte di padre Maffi in Tunisia Un grave lutto ha colpito i Padri Bianchi. Ad esso si aggiunge la perdita di uno straordinario patrimonio culturale. Ma l’affetto espresso ai missionari dalla gente di Tunisi è una testimonianza preziosa che ci spinge a guardare il futuro con rinnovata speranza

Martedì 5 gennaio è morto a Tunisi padre Gianbattista Maffi, 54 anni, originario di Mozzanica (Bg). Il nostro confratello è rimasto vittima di un incendio scoppiato - per cause ancora da accertare - all’interno dell’Istituto di Belle Lettere Arabe (Ibla), più precisamente nella ricca biblioteca aperta al pubblico e gestita da decenni dai Padri Bianchi. Le autorità giudiziarie tunisine stanno ancora indagando sull’accaduto e al momento non si esclude nessuna ipotesi. La gente di Tunisi ha voluto esprimere il proprio dolore e la propria solidarietà con gesti di sincera partecipazione nei confronti dei Padri Bianchi. Poiché l’edificio dell’Ibla era rimasto senza gas ed elettricità, i vicini si sono adoperati affinché i missionari avessero almeno una lampada per la notte, mentre le donne hanno portato del cibo caldo.

Solidarietà inattesa La stampa locale ha dedicato articoli ricchi di elogi a «questi sacerdoti che hanno consacrato la propria vita a Dio e ai libri», «per salvaguardare il patrimonio della Tunisia». Quando ci si è resi conto anche del disastro materiale subito dalla biblioteca, il dolore per la morte del padre si è mescolato a quello per la catastrofe: su 32.000 libri e Un momento delle esequie di padre Gianbattista nella chiesa parrocchiale di Mozzanica (Bg). Sopra padre Maffi in un ritratto recente

di Paolo Costantini documenti, più di 12.000 sono andati irrimediabilmente perduti. L’Ibla conservava dei documenti rari se non unici. Il tragico incidente ha provato, se ce ne fosse stato bisogno, quanto Gianbattista ci avesse visto giusto nel promuovere la digitalizzazione urgente dei testi conservati nella biblioteca. Si era dato da fare per ottenere uno scanner a questo scopo, offerto dalla generosità dei suoi amici e rimasto quasi miracolosamente indenne. Se il progetto fosse stato realizzato prima, il danno sarebbe stato minore. Alcuni giornali hanno paragonato l’incendio dell’Ibla a quello della Biblioteca d’Alessandria; a quello della biblioteca di Baghdad distrutta dalle truppe mongole di Hulegu nel 1258; a quello della Biblioteca nazionale irachena nel 2003… La Biblioteca nazionale ha offerto i propri laboratori e il proprio personale per restaurare il restaurabile; gli studenti dell’Istituto di Belle Arti sono accorsi per aiutare a salvare il salvabile. Sono nati dei comitati per la ricostruzione dell’Ibla in Francia, negli Stati Uniti d’America e nella stessa Tunisia. Mai i missionari dell’Ibla, che temevano di dover affrontare da soli il disastro, si sarebbero immaginati tanta solidarietà. Mai prima di ora si erano resi conto di quanto fossero apprezzati i loro settant’anni di lavoro.

Quel crocifisso non richiesto Solidarietà e stima di tutti anche nella commovente celebrazione eucaristica, Sabato 9 gennaio nella cattedrale di Tunisi. Più della metà del tempio era gremita di tunisini musulmani, venuti a esprimere la loro simpatia a questi uomini di Chiesa a loro servizio da tantissimi anni e ai rappresentanti della famiglia di padre Gianbattista, il fratello e due nipoti accorsi dall’Italia. La presenza di tanti amici musulmani è particolarmente eloquente quando si pensi che la sharia, la legge islamica, non permette a un musulmano di entrare in una chiesa, soprattutto durante una cerimonia. Eppure

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Appunti dal profondo sud Montaggio e messa a punto dello scanner offerto dagli amici di padre Gianbattista

erano lì, a esprimere il loro dolore. Hanno abbracciato i famigliari. Hanno presentato le loro condoglianze al vescovo Maroun Lahham, palestinese. Hanno manifestato la loro solidarietà ai Padri Bianchi presenti. Un segno concreto e toccante non solo della simpatia suscitata, ma soprattutto di quanto l’incontro tra religioni sia possibile, è il crocifisso che i dipendenti dell’agenzia funebre tunisina - dunque musulmani hanno posto sulla bara di padre Maffi. Dove lo abbiano trovato, Dio solo lo sa - è proprio il caso di dirlo. Eppure sulla bara brillava un bel crocifisso dorato! I confratelli sono rimasti particolarmente toccati da questa delicatezza non richiesta. I dipendenti dell’agenzia avevano compreso che Gianbattista era cristiano, era un prete, e che per lui quel simbolo era qualcosa di molto importante. Una sensibilità impagabile. Si parla tanto di “dialogo della vita”; ma forse c’è anche un dialogo… nella morte. Che sempre Vita è.

Un angolo della biblioteca dopo l’incendio

Prosegue il lungo viaggio di padre Claudio in Africa australe. Dopo il Mozambico, fa tappa in Malawi e Sudafrica dove non mancano cose da raccontare Scrivo dalla mitica missione di Mua, in Malawi, dove siamo arrivati stasera. Qui sono approdato 27 anni fa esatti, e di questi tempi sudavo cercando di imparare la lingua del posto, il chichewa. Nel frattempo, è cresciuto il numero di abitazioni, è arrivata l’elettricità e anche la connessione wi-fi per internet.

Un posto speciale

Mentre scalciava furiosamente, il panciuto Capo di Stato ha perso l’equilibrio ed è finito col sedere per terra. L’imbarazzo presidenziale è cresciuto quando qualcuno ha anche chiesto se il budget statale sia sufficiente a sfamare tutte queste bocche (tre mogli, in quanto da una ha divorziato e un’altra si è suicidata, una ventina di figli, una fidanzata ufficiadi Claudio Zuccala le, Bongi Ngema, con cui forse si sposerà il prossimo anno) e se è giusto che i soldi dei contribuenti vengano usati per l’appetito insaziabile del presidente, convinto poligamo. E alla domanda “Chi delle tre mogli andrà con il Presidente nel corso delle visite ufficiali?” la risposta del portavoce presidenziale è stata “Una, due o tutte e tre se così vorrà”. Totò direbbe: “E io pago!” Qui dicono qualcos’altro che non posso ripetere.

La costruzione, che risale al 1902, si trova su una collinetta, con vista sul lago Malawi che dista pochi chilometri. Attiguo alla missione c’è l’importante centro culturale KuNgoni, fondato nel 1976 dal Padre Bianco canadese Claude Boucher. Qui si trova una scuola di formazione per intagliatori, pittori, scultori e molto altro ancora, un museo, una galleria d’arte e una biblioteca. Recentemente è stato aperto anche un piccolo hotel per turisti. KuNgoni è un interessantissimo esperimento di incontro, di sperimentazione interculturale, di conservazione di tradizioni, danze e racconti che rischiano di scomparire. Le missioni di Mua e KuNgoni sono certamente una tappa obbligata per chi visita il Malawi. Vedere www.kungoni.org

Gossip presidenziale Festa grande nel KwaZulu Natal ai primi di gennaio: il Presidente Jacob Zuma, 68 anni, ha sposato la sua quinta moglie, Tobeka Madiba. Uno dei momenti esilaranti nella cerimonia nuziale è avvenuto durante le danze tradizionali zulu in cui Zuma - che ostenta gambe troppo secche e fragili per la sua notevole stazza - ha voluto mettere in mostra le sue abilità ballerine.

padri bianchi . missionari d’africa

Traffico droga Un grande scandalo scoppiato a fine gennaio vede coinvolta Sheryl, la moglie del ministro sudafricano della Sicurezza Siyabonga Cwele (l’equivalente del nostro Maroni), una piacente signora di 50 anni: è stata arrestata con l’accusa di essere implicata nel traffico di droga. Dopo qualche giorno di carcere, ha ottenuto la libertà condizionale dietro cospicua cauzione. Anche qui polemiche a non finire con tanta gente che si chiede come ci si possa sentire sicuri nelle mani di un ministro la cui moglie gliel’ha fatta (grossa) sotto il naso. A meno che…

Viaggio online Chi desidera seguire padre Claudio nel suo viaggio nel cuore dell’Africa australe può visitare il suo blog www.claudiozuccala.blogspot.com ricco di notizie, curiosità e immagini. È possibile lasciare commenti e scrivergli.

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SOLIDARIETÀ I progetti sostenuti da Africa 1-10 RD Congo Sostegno al Centro nutrizionale di Kisenso

5-10 Mali Sostegno al Centro di formazione di laici

Referente: padre Italo Iotti

Referente: padre Arvedo Godina

2-10 Sudan Nuova chiesa a Khartoum

6-10 Burkina Faso Dori - Il mulino della speranza

Referenti: Padri Bianchi in Sudan Prima chiesa autorizzata, dal 1964, nel nord del Paese

Referente: p. Pirazzo Gabriele

3-10 RD Congo Emergenza Goma: assistenza a profughi e rifugiati

Referente: padre Luigi Morell

Referente: padre Biernaux

7-10 Borse di Studio Per studenti Padri Bianchi 8-10 RD Congo Rcostruzione maternità Aboro Referente: padre Pino Locati

4-10 Mali Una motozappa a Kolongotomo Referente: padre Alberto Rovelli

Come contribuire? Per ogni invio, si prega di precisarne la destinazione indicando il numero del progetto • Usando il CCP 67865782 allegato alla rivista • Con bonifico bancario intestato a Missionari d’Africa IBAN: IT93 T088 9953 6400 0000 0001 315 • Con un assegno non trasferibile intestato a Missionari d’Africa Chi intendesse usufruire della detrazione dalla dichiarazione dei redditi può utilizzare il conto intestato alla Onlus: Amici dei Padri Bianchi - Onlus - IBAN: IT73 H088 9953 6420 0000 0172 789 Per ogni invio, si prega di indicare ben chiaro il numero del progetto

Il tuo aiuto ai missionari: dona il 5 per mille a “AMICI DEI PADRI BIANCHI - ONLUS” Sostieni chi consacra la propria vita a seminare speranza. Basta un gesto: 1. Porre la propria firma nel riquadro: “Scelta per la destinazione del 5 x MILLE dell’IRPEF” 2. Riportare nell’apposito spazio il nostro Codice Fiscale:

93036300163 Le scelte di destinazione dell’8 x MILLE e del 5 x MILLE dell’IRPEF non sono in alcun modo alternative fra loro. Pertanto possono essere espresse entrambe. Se non presenti la dichiarazione dei redditi, puoi ugualmente donare il tuo 5 x MILLE a “Amici dei Padri Bianchi - Onlus”: • Con un bonifico a: Amici dei Padri Bianchi - Onlus IBAN: IT73 H088 9953 6420 0000 0172 789 • Con un assegno intestato a: Amici dei Padri Bianchi - Onlus Amici dei Padri Bianchi è una Onlus ai sensi del D.L. 460/1997.

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Potrai quindi usufruire dei seguenti Benefici fiscali : Per le persone fisiche: • Detrarre dall’imposta lorda il 19% dell’importo donato a favore delle Onlus, fino ad un massimo di € 2.065,83 (art. 15, comma 1 lettera i-bis del D.P.R. 917/86). Per le imprese • Dedurre la donazione a favore delle Onlus per un importo non superiore a € 2.065,83 o al 2% del reddito d’impresa dichiarato (art.100 comma 2 lettera h del Dpr 917/86). Per usufruire di questi benefici fiscali è necessario conservare: • la ricevuta di versamento, sia postale che bancaria, nel caso di donazione con bollettino; • l’estratto conto nel caso di donazione tramite bonifico bancario o carta di credito; • una fotocopia dell’assegno in caso di versamento con lo stesso.


informazioni Per un’Africa riconciliata - Memoria del II Sinodo africano

Convinta che il Sinodo riguarda l’Africa ma non solo, la Conferenza degli Istituti Missionari Italiani (Cimi), insieme ad altre forze missionarie e laiche e a una rete di organismi, ha promosso un Osservatorio per accompagnare i lavori del Sinodo. L’iniziativa ha fatto da cassa di risonanza a quanto si discuteva all’interno del Sinodo, grazie anche alla collaborazione dell’agenzia Misna e delle riviste missionarie. L’Osservatorio ha potuto portare a conoscenza dell’opinione pubblica e della chiesa italiana proposte, problematiche e prospettive che si aprono per un rinnovato impegno nel continente africano nonché le ricadute sull’Europa, in modo particolare sull’Italia. Il libro è suddiviso in due parti: la raccolta dei documenti conclusivi della II Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi (Messaggio e Proposizioni ), preceduta da riflessioni e analisi di protagonisti dell’Assemblea e di osservatori.

a cura di Anna Pozzi, € 10 - Edizioni EMI - www.emi.it

Oltre il capitalismo - Proposte per uscire dalla crisi sociale, ambientale ed economica Per anni ci è stato insegnato che il libero mercato è un modello economico perfetto, in cui ognuno, agendo in base ai propri interessi, crea il massimo dei benefici per tutti. La crisi iniziata negli Usa nel 2008 rimette in discussione questa dottrina. Ora anche tra gli economisti si rafforza la posizione favorevole a maggiori controlli sul mercato, a partire da quello dei prodotti finanziari. Oltre il capitalismo racconta la storia delle politiche economiche dal 1929 a oggi, spiega la cause dell’ultima grande recessione e presenta una sintesi delle possibili vie di uscita. Le crisi sono fonte di sofferenza, ma possono anche servire a diventare più consapevoli, a scegliere stili di vita più sobri e responsabili verso l’umanità e l’ambiente. Perché è solo da questa nuova mentalità e cultura che nasce e si afferma una nuova economia.

di Bosio Roberto – pp. 224 - € 13 - Edizioni EMI - www.emi.it

Due riviste per tutto il 2010

Africa

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