AFRICA N. 1 GENNAIO-FEBBRAIO 2019 - ANNO 98
RIVISTA BIMESTRALE
WWW.AFRICARIVISTA.IT
MISSIONE • CULTURA
VIVERE IL CONTINENTE VERO
Reportage
Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 , DCB Milano.
Zimbabwe, anno zero
Egitto
Cristiani resilienti
Natura
Incantevole Okavango
Ghana IL REPORTER MASCHERATO
i seminAri di AFRICA
MISSIONE • CULTURA
SAHARA
LE CIVILTÀ DELLE SABBIE TRA IL SAHEL E IL MEDITERRANEO a cura di
MARCO AIME (antropologo e scrittore)
A lezione da un grande conoscitore dell’Africa, per scoprire storie e culture millenarie. E indagare il tema del viaggio, della differenza e dell’identità.
MILANO SABATO 23 E DOMENICA 24 MARZO Quota di partecipazione: 180,00 euro – 150,00 euro per gli abbonati Sconto Extra di 20,00 euro per gli studenti universitari Posti limitati
in collaborazione con
Programmi: www.africarivista.it
ASSOCIAZIONE SOCIOCULTURALE
informazioni e adesioni: info@africarivista.it
cell. 334 244 0655
Sommario
GENNAIO - FEBBRAIO 2019, N° 1
COPERTINA 42
Volto coperto, schiena diritta
3
di Simone Sapia
EDITORIALE Aiutiamoci a casa loro
di Marco Trovato
ATTUALITÀ 4
prima
pagina di Raffaele Masto
6 panorama di Enrico Casale
AFRICA
MISSIONE • CULTURA
Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo Plinio il Vecchio (I secolo d.C.)
economia di Michele Vollaro innovazione di Martino Ghielmi 10 Non c’è pace per il Sahel di Andrea de Georgio 16 Zimbabwe anno zero di Marco Trovato 22 Il sindacalista dei nuovi schiavi a cura di Marco Trovato 24 Etiopia. C’era una volta una foresta di Irene Fornasiero 8
9
DIRETTORE RESPONSABILE
Pier Maria Mazzola DIRETTORE EDITORIALE
Marco Trovato WEB
Enrico Casale (news) Raffaele Masto (blog) PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA
Matteo Merletto AMMINISTRAZIONE E ABBONATI
SOCIETÀ Ruanda. Vino dalle barbabietole di Giusy Baioni 28 Resilienza e speranza, l’Africa di Gualazzini di G. Colin e M. Gualazzini 32 L’inesauribile energia di Dakar di Simona Cella 38 Kenya. Nello slum a passo di danza di Raffaele Masto e Fredrik Lerneryd 27
Paolo Costantini PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE
Claudia Brambilla PROPRIETÀ
Internationalia Srl EDITORE
Provincia Italiana della Società dei Missionari d’Africa detti Padri Bianchi PUBBLICITÀ
segreteria@africarivista.it FOTO
Si ringrazia Parallelozero In copertina: Simone Sapia Mappe a cura di Diego Romar - Be Brand STAMPA
Jona - Paderno Dugnano MI
NATURA 48
La fine meravigliosa dell’Okavango
CULTURA 52 58
Le inarrestabili carovane del sale di Elena Dak Etiopia. La trappola dei “figli dei fiori” di Marco Trovato
SPORT Sudafrica. La lotta di Santo Stefano
Periodico bimestrale - Anno 98 gennaio - febbraio 2019, n° 1 Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n. 713/48
60
SEDE
RELIGIONI
Viale Merisio, 17 - C.P. 61 - 24047 Treviglio BG 0363 44726 0363 48198 info@africarivista.it www.africarivista.it Africa Rivista @africarivista @africarivista africa rivista UN’AFRICA DIVERSA La rivista è stata fondata nel 1922 dai Missionari d’Africa, meglio conosciuti come Padri Bianchi. Fedele ai principi che l’hanno ispirata, è ancora oggi impegnata a raccontare il continente africano al di là di stereotipi e luoghi comuni. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la rivista e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 196 del 30/06/2003 - tutela dei dati personali).
di Gianni Bauce
62
Eventi di Valentina G. Milani 69 Arte e Glamour di Stefania Ragusa 70 Vado in Africa di Martino Ghielmi 72 Sapori di Irene Fornasiero 73 Solidarietà di Valentina G. Milani 74 Libri di Pier Maria Mazzola
68
Egitto. Cristiani all’ombra delle piramidi
di F. Ghirardelli e G. Paletta
INVETRINA
di Irene Fornasiero
Musica di Claudio Agostoni Viaggi di Marco Trovato 78 Web di Giusy Baioni 79 Bazar di Sara Milanese 80 NerosuBianco di M. Zaurrini 75
76
e A. Sinopoli 80
Calendafrica
di P.M. Mazzola
africa · 1 · 2019 1
i vi A ggi di
AFRICA
MISSIONE • CULTURA
NUBIA (SUDAN) DAL 29 MARZO AL 6 APRILE 2019 con Raffaele Masto (reporter e scrittore) ed Elena Belgiovine (archeologa e guida) Un viaggio d’autore in Sudan nel cuore dell’antica Nubia, regione di superba bellezza, culla di affascinanti civiltà del passato, alla scoperta di templi e piramidi che affiorano dalle sabbie del deserto. Un itinerario esclusivo con due guide d’eccezione.
Quota: 2.990 € a persona
volo compreso
SCONTO SPECIALE di 100 € agli abbonati “Africa Social Club” che si prenotano entro il 15 Febbraio 2019
In collaborazione con Programma: www.africarivista.it/sudan Informazioni e prenotazioni:viaggi@africarivista.it Tel. 02 34934528 lunedì-venerdì (9.30-13 e 14-18.30)
Aiutiamoci a casa loro «Informare sull’Africa significa dare voce a chi non ha voce». È un’espressione che ho sentito ripetere per decenni nel mondo missionario, del giornalismo e della cooperazione. Un tempo forse aveva le sue nobili ragioni d’essere, ma rimaneva comunque ambigua: fino a che punto il processo di “amplificazione” della “voce” dell’Africa le rimaneva davvero fedele, e fin dove, invece, il mediatore, l’informatore, vi si sovrapponeva? Quelle parole, poi, benché pronunciate coi migliori propositi, tradivano un malriposto approccio “umanitario”, tipico di chi si occupa a vario titolo di Africa. Portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti e personaggi di rilievo è il mestiere del giornalista; ma se si tratta di documentare una crisi dimenticata in Congo o in Centrafrica il cronista finisce per percepirsi – ed essere percepito – come un “missionario delle notizie”. È un retaggio culturale (che spesso cela una supposta presunzione o distorta percezione di superiorità) di cui non siamo stati ancora capaci di sbarazzarci, benché gli africani – intellettuali, blogger, cronisti, attivisti – vogliano giustamente farsi ascoltare, senza l’aiuto di portavoce. L’Africa, nel nostro modo distorto di ragionare, non va capita, conosciuta, raccontata. Va aiutata, va salvata. Se facciamo lo sforzo di affrancarci dalla retorica e dall’autocompiacimento, le cose ci appaiono per certi versi rovesciate. Restando alla sfera personale, per esempio, è grazie all’Africa se ho un lavoro che mi dà uno stipendio e tante soddisfazioni. Non sono in credito con questo continente, semmai dovrei sentirmi in debito.
E, a ben guardare, il ragionamento può essere allargato. Consideriamo la galassia italiana del settore non profit, che impiega circa ottocentomila persone: molte di loro lavorano per ong, onlus, cooperative, associazioni, enti caritatevoli che hanno legami con l’Africa. Poi ci sono le decine di migliaia di italiani che vivono e lavorano nel continente africano (per dare un’idea, solo in Sudafrica ci sono più di 35.00 iscritti all’anagrafe consolare). Sono imprenditori, commercianti, cooperanti, diplomatici, ricercatori, reporter, operatori turistici, artisti, dipendenti di agenzie di sviluppo o di multinazionali… Tecnicamente andrebbero considerati “migranti economici”, ma questa definizione nell’immaginario collettivo occidentale mal si concilia con il colore della nostra pelle. Cosicché preferiamo definirci “espatriati”. Badate bene, non è solo una questione formale: le parole che usiamo sottendono un modo di pensare. Un amico congolese tempo fa mi ha lanciato una frecciata: «Voi europei amate ripetere “aiutiamoli a casa loro”. Un refrain che sento pronunciare in continuazione da politici, attivisti, uomini e donne di cultura. Ebbene, per onestà intellettuale, la frase corretta dovrebbe essere “aiutiamoci a casa loro”». Il nostro rapporto con l’Africa è spesso malato di egocentrismo, paternalismo, pietismo. Anche quando facciamo il nostro dovere, il nostro mestiere, ci sentiamo investiti di una missione umanitaria, salvifica. Ma gli africani non hanno bisogno di filantropi e benefattori. Hanno bisogno di rispetto. Marco Trovato
RICEVI AFRICA A CASA La rivista (6 numeri in formato cartaceo e/o digitale) si riceve con un contributo minimo suggerito di: · carta:Italia: 35 €; Estero 50 €; Svizzera: 45 Chf · digitale (pdf): 25 €/Chf · carta + digitale - Africa Social Club Italia/Svizzera: 50 € / Chf Estero: 60 € · Africa + Nigrizia: 60 € (anziché 70 €)
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I lettori che vivono in Svizzera possono versare i contributi tramite: · PostFinance - conto: 69-376568-2 IBAN: CH43 0900 0000 6937 6568 2 Intestato a “Amici dei Padri Bianchi” Treviglio BG
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ATTUALITÀ di Andrea de Georgio
Kenzo Tribouillard / Afp
Non c’è pace per il Sahel
SAHELO-SAHARIANA È TEATRO DI UNA GUERRA SENZA CONFINI TRA COALIZIONI MILITARI, GRUPPI RIBELLI E FORMAZIONI TERRORISTICHE
Dal Mali al Niger, dal Burkina Faso al Lago Ciad, la penetrazione jihadista e il conseguente degrado della sicurezza preoccupano le potenze occidentali, che in questa regione hanno interessi economici e geopolitici rilevanti Gheddafi l’aveva detto. «Se mi fate fuori, il Sahel brucerà». Al netto delle profezie autoavveranti e del delirio d’onnipotenza che spesso accompagnano la caduta dei despoti, oggi, a sette anni dall’uccisione del Rais libico, la fascia sahelo-sahariana appare sprofondata in una spirale di violenza a cui non s’intravede via d’uscita. Dal Mali al Niger, dal Burkina Faso al Lago Ciad, il proliferare delle sigle neojihadiste e il conseguente degrado della sicurezza preoccupano le potenze occidentali, che in questa regione hanno interessi
economici e geopolitici rilevanti. La militarizzazione del Sahel, però, non sembra dare i frutti sperati: nonostante l’eliminazione di diverse teste attraverso mirati raid franco-americani, l’Idra jihadista continua a rinnovarsi e a trovare nelle popolazioni saheliane – sempre più impoverite e frustrate dal cronico isolamento socio-politico – un ampio bacino di reclutamento.
◀ Un elicottero dell’esercito francese atterra tra un battaglione di paracadutisti legionari dispiegato nell’Adrar des Ifoghas, un massiccio montuoso nel Nord-est del Mali
▼ Militari francesi bruciano utensili ritrovati in un covo jihadista nel deserto del Mali. L’Operazione Barkhane lanciata da Parigi nella regione può contare su oltre 4.000 soldati e mezzi pesanti
Joël Saget /Afp
LA STRATEGICA REGIONE
Guerriglia in Mali Madre dei numerosi focolai che si stanno espandendo a macchia d’olio in Africa occidentale è senza dubbio
africa · 1 · 2019 11
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africa · 1 · 2019 15
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ATTUALITÀ testo e foto di Marco Trovato
Zimbabwe anno zero
REPORTAGE DALL’EX
GRANAIO D’AFRICA,
ALLA RICERCA
DI UNA VIA DI USCITA
DALLA PROLUNGATA CRISI
ECONOMICA E SOCIALE
Un vecchio trattore dell’epoca coloniale arrugginito e contadini che spingono un carro: un’immagine eloquente della crisi delle campagne nello Zimbabwe
A un anno esatto dalla svolta politica che ha sancito la fine dell’era Mugabe, lo Zimbabwe appare un Paese sospeso, in bilico, dal destino incerto. Ansioso di voltare pagina
Il sabato sera si fatica a trovare un tavolo libero al Pariah State, rutilante locale della movida di Harare, luogo di ritrovo per uomini d’affari, proprietari di miniere o di piantagioni. Donne luccicanti di lustrini e paillettes ostentano generose scollature ai rampolli dell’alta borghesia, ingessati in abiti griffati troppo attillati per le loro corporature. Le luci sono soffuse, gli schermi alle pareti trasmettono una partita di Premier League, i camerieri scivolano tra i clienti con vassoi tintinnanti: portano cocktail a base di rum e frutta esotica, whisky pregiato e secchielli di ghiaccio coi migliori vini sudafricani. A pochi isolati di distanza, nel sobborgo di Kensington, un buttafuori piantona l’ingresso del discobar Londoners, raduno irresistibile per chi ama tirar tardi stordendosi di musica e birra. All’interno, i decibel fanno tremare le pareti. L’aria è impregnata di sudore, alcol e tabacco. Il deejay strizza l’occhio alle ragazze che si dimenano sulla pista sotto lo sguardo inebetito dell’unico avventore bianco – un energumeno dall’aria sfatta. Al bancone i giovani tracannano boccali di Zambezi,
le coppiette flirtano su divani avvolti dal buio, a poca distanza da chi si gioca i magri risparmi alle slotmachine o ai tavoli del biliardo. La notte di Harare trasuda voglia di divertimento. Ma tra i vicoli di lamiere di Mbare, una township ai tempi della segregazione razziale, per sballarsi i giovani sniffano colla e s’imbottiscono di pillole medicinali. L’istantanea notturna della capitale dello Zimbabwe, implacabile come una radiografia, mostra le lacerazioni di un Paese diviso, sofferente, alle prese con una crisi economica che acuisce le diseguaglianze. Un vecchio coccodrillo A un anno dalla svolta politica che ha sancito la fine dell’era di Robert Mugabe, l’ex eroe della lotta di liberazione contro il regime bianco rhodesiano, costretto a dimettersi dopo 37 anni, lo Zimbabwe appare un Paese dal destino incerto. L’uscita di scena del novantaquattrenne Padre della patria – un leader politico abile, spregiudicato e feroce – è stata decretata da una lotta per la successione tutta interna all’oligarchia. Il golpe incruento del novembre 2017, seguiafrica · 1 ·2019
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Kieran Dodds / Tearfund
to dalle contestate elezioni dello scorso agosto, ha visto uscire vincitore Emmerson Mnangagwa, 76 anni, protagonista ultradecennale della vita politica del Paese. Ex fedelissimo di Mugabe, soprannominato Garwe (“coccodrillo” in lingua shona) per la sua furbizia, oggi Mnangagwa si presenta come il presidente del rinnovamento. Le sfide sono enormi. Nove giovani su dieci sono disoccupati, e secondo la Banca Mondiale il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. L’economia è impantanata per tanti anni di cattiva amministrazione, ruberie e isolamento. Le infrastrutture sono ferme e senza manutenzione da troppo tempo, burocrazia e corruzione
tengono lontani gli investitori stranieri. I debiti accumulati con le istituzioni finanziarie hanno toccato il record storico di 20 miliardi di dollari. La produzione agricola è crollata nei primi anni Duemila in seguito a una controversa riforma fondiaria che espropriò i latifondisti bianchi: terreni su cui si allevavano i migliori bovini dell’Africa e crescevano tabacco, cotone, canna da zucchero e mais. Le fattorie non vennero ridistribuite tra le cooperative dei contadini zimbabwani: finirono nelle mani di amici e parenti del presidente, che ben presto ne decretarono il fallimento. Uno dei Paesi più prosperi del continente divenne improvvisamente bisognoso di aiuti alimentari.
◀ Backstage di una sfilata di moda ad Harare. Lo Zimbabwe è conosciuto per la creatività dei suoi stilisti e per il gusto per l’eleganza della sua popolazione
▶ Fedeli di una Chiesa evangelica suonano e danzano alla periferia di Harare in occasione di una funzione religiosa. La crisi economica e sociale ha fatto crescere la popolarità dei pastori, autoproclamati profeti di Cristo, che dispensano benedizioni e promettono miracoli
◀ Grattacieli nel centro della capitale: tra uffici governativi e alberghi esclusivi, spicca la sede della Banca Centrale, oggi alle prese con una preoccupante crisi di liquidità ◀ Le pale di un vecchio mulino a vento in disuso nel nord dello Zimbabwe. La riforma agraria di Mugabe, agli inizi degli anni Duemila, ha assegnato molte terre a membri dell’establishment politico privi di competenza agricola, che hanno portato all’inaridimento dei campi ◀ Un campo nel nord del Paese. Da primo produttore africano di mais e frumento, trent’anni fa, oggi lo Zimbabwe è diventato un massiccio importatore di cereali 18 africa · 1 · 2019
▶ L’esportazione del tabacco è una delle poche voci positive nella bilancia commerciale dello Zimbabwe e permette di incamerare valuta pregiata dalle multinazionali del fumo. La terra fertile in Zimbabwe è abbondante, ma l’agricoltura soffre di problemi di approvvigionamento idrico, acuiti dai recenti periodi di siccità ▶ Un grande baobab affianca la pista che conduce al parco di Mana Pools, nella Valle dello Zambesi, oasi naturalistica ricca di fauna selvatica, in attesa del ritorno dei turisti
SOCIETÀ Testo di Gianluigi Colin – foto di Marco Gualazzini
Resilienza e speranza, Pubblichiamo in anteprima alcune immagini del volume Resilient, a breve in libreria, firmato da Marco Gualazzini, collaboratore della nostra rivista, tra i più talentuosi fotoreporter italiani. Sempre in prima linea in Africa
LA VITA E LA MORTE IMMORTALATE DA UN FOTOGRAFO CHE SI DEDICA A DOCUMENTARE CRISI
Esce in questi giorni in libreria un volume fotografico di grande pregio, pubblicato da Contrasto e firmato da uno storico collaboratore della rivista Africa. Pubblichiamo alcuni scatti e uno stralcio del testo scritto da Gian-
luigi Colin, art director del Corriere della Sera. Lo confesso: per me c’è sempre qualcosa di impenetrabile e misterioso intorno alla parola resilienza. Nella scienza biologica, la resilienza è la capacità
UMANITARIE E GUERRE DIMENTICATE, DAL MALI ALLA SOMALIA, DAL CONGO AL SUDAN
l’Africa di Gualazzini di una materia vivente di autoripararsi dopo un grave danno. Ma vale anche per un sistema ecologico: è la forza di Madre Natura capace di vincere la violenza del fuoco, dell’acqua, dei più violenti sconvolgimenti e di far ritornare tutto com’era in origine. In una comunità di esseri umani è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi più traumatici, come possono essere gli orrori delle guerre, le tragedie della fame e la violenza dell’uomo sull’uomo. Questo libro, con immagini scattate nei campi
profughi in Kenya, nelle distese somale, in Nigeria, nei villaggi del Congo e in tanti altri luoghi dell’Africa, racconta storie in un mondo di sofferenze, di immani tragedie, ma anche di riscatti e, soprattutto, di speranze. Questo libro racconta storie di resilienze. Scuotere le coscienze Inevitabilmente, però, mi viene in mente anche un’altra parola, che forse per motivi generazionali e per perdute amicizie sento che mi appartiene di più. La parola è resistenza. Resistenza contiene in
sé esistenza e già questo mi sembra un fatto non secondario. Poi, il verbo resistere ha un significato preciso, diretto, che ci conduce a una idea attiva di opposizione, di contrasto. Si resiste per impedire, per limitare, per bloccare gli effetti di quell’azione che sappiamo essere dannosa, ingiusta, spesso violenta. Si resiste a un nemico, a un sopruso, all’urto di una forza, a un dolore. Il premio Nobel Elias Canetti ricordava con amara saggezza: «La cosa più dura è scoprire quello che già si sa». Proprio in quel-
le parti del mondo dove «si sa» che la libertà è costantemente violata, dove la guerra impone orrori e ◀ Repubblica democratica del Congo, 2012. Nei sobborghi di Goma, capoluogo del Nord Kivu, lo strazio dei famigliari per la morte di Innocence Rugomoga, 37 anni, padre di tre figli, ucciso da tre colpi d’arma da fuoco esplosi da ignoti durante il coprifuoco ▼ Sud Sudan, 2017. Un bambino sopra un termitaio osserva l’orizzonte nei pressi del campo profughi di Yida, che ospita circa settantamila sfollati a causa della guerra civile
africa · 1 · 2019 29
violenze, Marco Gualazzini ha deciso di assolvere a una sua personale necessità: quella di testimoniare. Un testimone acuto, attento, ben consapevole che la fotografia non può cambiare le sorti di un evento (tantomeno della Storia), ma può contribuire ad alimentare una coscienza critica e a fornire gli strumenti fondamentali per una memoria condivisa del nostro tormentato presente. Benché si sappia che la fotografia, come l’informazione, non è mai neutra, il fotoreportage oggi
▼ Somalia, 2015. Le tavolette di legno usate come quaderni dai bambini di una madrassa, una scuola coranica, a Mogadiscio
ha ancora la forza di insinuarsi come un seme nella coscienza di tutti. E Marco lo sa bene. Dignità e speranza Robert Capa ricordava che non esistono fotografie belle o brutte, «esistono soltanto fotografie fatte da vicino o da lontano». Marco Gualazzini sceglie di fotografare da vicino. Ma il suo occhio, invece che sulla contingenza della cronaca preferisce fermarsi oltre: oltre il corpo maciullato dalle bombe o quello martoriato dai machete e dalle raffiche dei kalašnikov. Marco Gualazzini, invece della spettacolarizzazione (sì, c’è anche un’estetica della morte che i giornali amano molto) preferisce
narrare storie, preferisce una fotografia che faccia comprendere quello che accade invece di quella del voyeurismo, di una certa pornografia dell’orrore. Gualazzini sceglie una fotografia sospesa nel tempo e carica di rispetto per la dignità dell’uomo: preferisce l’idea di un racconto in cui emerga una lotta silenziosa, sofferta ma non per questo non attiva. Un racconto carico di speranza. Sono storie di donne violentate in Congo, di bambine somale in un perenne viaggio per scappare dalla fame, di ragazze nei campi profughi in Ciad, ma sono anche racconti sui crudeli miliziani nel Nord del Mali, coi mitra in mano mentre indos-
sano la maglietta di una squadra di calcio come simbolo di paradossale rispettabilità. Oppure, ecco le storie del disperato cammino della gente dei Monti Nuba, nel tentativo di sfuggire ai bombardamenti e ai massacri del governo del Sudan. Urla silenziose È una umanità disperata, ma non vinta, che deve far fronte agli eventi che la storia impone in alcuni luoghi volutamente ignorati della Terra, ma su cui tuttora si consumano i grandi interessi dell’economia occidentale. Gualazzini è lì, con la sua macchina fotografica, inviato speciale quasi sempre di sé stesso (quindi come freelance), con
SOCIETÀ di Simona Cella
Raphael Fournier
L’inesauribile energia di Dakar
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africa · 1 · 2019
VIAGGIO NELLA FRIZZANTE CAPITALE DEL SENEGAL, IN BILICO TRA CONSERVAZIONE E VOGLIA DI RINNOVAMENTO
Cantieri avveniristici, eventi d’arte, locali alla moda e il solito allegro caos: la città di Dakar ondeggia con eleganza tra passato e futuro, divisa tra il dovere della memoria e il sogno di un avvenire luccicante Se hai un’idea, realizzala presto, prima che qualcuno la trasformi in una casa. È una battuta che girava tempo fa a Dakar sull’onda dell’entusiasmo edilizio esploso sotto la presidenza di Abdoulaye Wade, che durante il suo lungo mandato (dodici anni a datare dal 2000) ha costruito edifici, autostrade, grandi monumenti, e soprattutto ha dato il via a una speculazione selvaggia nella Corniche, lo splendido lungomare della capitale del Senegal. Costa minacciata Un pezzo di città che solo il sindaco di Dakar, Khalifa Sall, ha cercato di difendere prima di essere arrestato, un anno fa, per corruzione e uso improprio di soldi pubblici. Condannato a cinque anni di reclusione, Khalifa non potrà candidarsi alle presidenziali del 2019: un rivale in meno per il presidente uscente Macky Sall, sussurra qualcuno. È domenica mattina. Mi unisco a un gruppo di uomini e donne che si ri◀ Ogni sera la spiaggia di Dakar si riempie di sportivi: tanti cittadini che fanno footing ma anche atleti di lotta tradizionale che si allenano sulla sabbia
trovano tutte le settimane a camminare sul lungomare. Costeggiamo nuovi impianti sportivi regalati dalla Cina, la Place du Souvenir, il triste parco dei divertimenti Magic Land e l’hotel Terrou-Bi, accusato di voler arraffare altri pezzi di litorale. Nonostante un marciapiede pieno di buche e palme mezze morte, la Corniche rimane uno dei punti più belli della città. Amata e frequentata dai dakarois soprattutto per fare sport, e per passeggiare, incontrarsi, guardare il mare, raccontarsi storie. Opere discutibili Contro la privatizzazione di questa zona si è creato un comitato, capitanato dall’archistar senegalese Pierre Goudiaby Atepa. «I cittadini di Dakar vogliono riappropriarsi dello spazio deturpato dagli speculatori», annuncia severo l’autore della torre della Bceao (la Banca centrale dell’Africa occidentale) che svetta sullo skyline della città ed è ormai il simbolo dell’architettura ibrida e un po’ pasticciata che contraddistingue Dakar. Djibril Diop Mambéty, nel suo cortometraggio Contras’ City, evidenziava già nel 1968, con graffiante ironia, le contraddizioni africa · 1 ·2019
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SOCIETÀ testo di Raffaele Masto – foto di Fredrik Lerneryd
Nello slum a passo di danza
38 africa · 1 · 2019
TRA LE BARACCHE DI KIBERA, DECINE DI GIOVANI KENIANI CERCANO IL RISCATTO SULLE PUNTE
Insegnare danza classica ai bambini della più grande baraccopoli di Nairobi. E scoprire che tra i vicoli di fango e dalle catapecchie di lamiera possono emergere dei grandi ballerini. Una storia vera, nata per caso Come spesso accade, è il caso a decidere le sorti individuali. A fare la differenza saranno il talento e l’intraprendenza personale. Joel Kioko ha avuto senz’altro fortuna, ma ha saputo mettere a frutto le sue straordinarie capacità in uno dei luoghi più improbabili per la disciplina di cui stiamo parlando: il luogo è Kibera, una delle più grandi bidonville d’Africa, e la disciplina è la danza classica. Chi poteva prevedere che un ragazzo cresciuto tra vicoli di fango e baracche di lamiera potesse diventare un prodigio del balletto internazionale? Tutto cominciò per caso, appunto. Cooper Rust,
una provetta ballerina della Carolina del Sud, aveva deciso di passare le vacanze estive a insegnare inglese e matematica in un orfanotrofio di Nairobi. Là fece conoscenza di Mike Wamaya, un ragazzo keniano appassionato di balletto che cercava di trasmettere i rudimenti della disciplina agli alunni di una scuola elementare. Il loro incontro avvenne nel 2011: ne scaturì l’idea di una scuola di danza classica per i bambini meno fortunati della baraccopoli. Il progetto ottenne il sostegno di un’organizzazione non governativa, Artists for Africa, che garantì l’avvio dei corsi pomeridiani in un mal-
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G. Diffidenti Afp
La scuola di danza classica di Kibera è solo una delle innumerevoli storie di riscatto che affiorano a Nairobi, metropoli vibrante e moderna, lacerata da stridenti contrasti, ma ricca di energia propulsiva, e con lo sguardo perennemente rivolto al futuro. Per scoprire queste storie straordinarie, e per conoscere da vicino i loro protagonisti, così pieni di vitalità e di creatività, la rivista Africa propone ai suoi lettori un viaggio speciale nel cuore del Kenya, dal 21 al 28 luglio. Una settimana densa di appuntamenti culturali, incontri formativi, visite guidate, testimonianze umanitarie ed escursioni naturalistiche nel territorio destinate a lasciare un segno indelebile. Un’esperienza ricca di stimoli, che permetterà di toccare con mano il fermento delle baraccopoli, l’innovazione degli hub tecnologici, la potenzialità del mondo imprenditoriale e universitario, la battaglia coraggiosa di chi lotta ogni giorno per cambiare in meglio le cose: tentando di colmare le profonde ingiustizie sociali, difendendo i diritti civili e le libertà individuali, aiutando i profughi di guerra, proteggendo l’ambiente dal land grabbing, sfruttando le potenzialità del web per creare sviluppo e lavoro, portando avanti progetti di solidarietà e di promozione sociale nelle baraccopoli. I partecipanti avranno la straordinaria opportunità di immergersi in una società dinamica, giovane, in perenne fibrillazione. Guidati da giornalisti, attivisti, imprenditori, missionari, artisti e cooperanti, uomini e donne di grande esperienza e sensibilità. Un viaggio per giovani e adulti, incentrato nella prima parte in una delle capitali più interessanti del continente, che si snoderà poi in aree di eccezionale interesse naturalistico e antropologico del Kenya (con la possibilità di allungare e personalizzare il soggiorno). In particolare, il programma prevede una visita guidata alla foresta di Mau, ecosistema di grande valore ambientale, polmone verde della Rift Valley solcato da fiumi che alimentano il Lago Vittoria e il Lago Natron, minacciato oggi da deforestazione e monocolture. Si proseguirà sul Lago Baringo, situato a circa 3100 metri di altitudine, habitat per 470 specie di uccelli. Programmata la visita alle comunità di Ruko Conservancy, area protetta avviata nel 2004 con l’obiettivo di portare la pace tra gli allevatori pokot e masai che spesso si sono scontrati sui diritti di pascolo. Infine ci sarà tempo per un emozionante safari nel Nakuru National Park che comprende una vasta area intorno al Lago Nakuru (lago alcalino circondato da prati e boschi). Il parco è ricco di fauna selvatica, con entrambe le specie
di rinoceronti (il nero e il bianco), bufalo, leone, leopardo, iena maculata, babbuini, cercopitechi e gnu. Un itinerario inedito e senza filtri, lontano da ogni esotismo e pietismo, alla scoperta di un Kenya spogliato da finzioni folcloristiche. E guardare all’Africa con uno sguardo nuovo. Un viaggio che unisce impegno civile e passione per l’Africa, tra la sorprendente vitalità di Nairobi e gli incantevoli paesaggi della Rift Valley. Con l’accompagnamento dall’Italia del direttore editoriale della rivista Africa, Marco Trovato, e da un referente di ViaggieMiraggi. E la presenza e collaborazione preziosa di Enzo Nucci (corrispondente Rai per l’Africa), padre Kizito Sesana (missionario cattolico) e Bruna Sironi (già cooperante di Mani Tese). Non è necessaria la conoscenza della lingua inglese. Quota di partecipazione: da 1150 euro+volo. Sconto di 100 € agli abbonati Africa Social Club. Programma: www.africarivista.it
Afp
IN KENYA CON LA RIVISTA AFRICA 21-28 LUGLIO 2019
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COPERTINA testo e foto di Simone Sapia
Volto coperto, schiena diritta
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LA STRAORDINARIA LEZIONE DI GIORNALISMO INVESTIGATIVO DI ANAS AREMEYAW, REPORTER MISTERIOSO DIVENTATO UNA STAR
Da vent’anni un giornalista ghanese conduce inchieste portando alla luce decine e decine di casi di corruzione e di violazione dei diritti umani. In Ghana è diventato un idolo popolare. Anche se nessuno ha mai visto la sua faccia Seduto in un giardino di Accra, la capitale del Ghana, attendo una telefonata che mi permetterà di incontrare Anas Aremeyaw Anas. È un giornalista investigativo. Di più: un eroe dell’informazione africana, icona di coraggio e di integrità. Anas è nato alla fine degli anni Settanta nel Nord del Ghana. Si è diplomato in giornalismo al Ghana Institute of Journalists e successivamente laureato in giornalismo e in legge alla Ghana University. Approda al quotidiano indipendente The New Crusading Guide, di cui diventa ben presto caporedattore. Indaga su casi di corruzione e di violazione dei diritti umani. Mette a segno innumerevoli scoop. Con il suo stile originale rivoluziona il mondo del giornalismo africano. Poco si sa della sua vita privata. Benché, infatti, sia diventato celebre e sia amatissimo dalla gente, la sua attività è avvolta nel mistero. Perché Anas è un
◀ Anas ritratto con la sua maschera nei pressi di Accra. Per incastrare i corrotti il celebre giornalista ghanese ricorre ai travestimenti più improbabili
camaleonte e realizza le sue inchieste servendosi di innumerevoli travestimenti: centinaia di maschere, trucchi, parrucche, protesi… Si tramuta in malavitoso, in corruttore, in affarista senza scrupoli. Si infiltra nelle stanze del potere e avvicina le sue prede – politici e uomini delle istituzioni – cercando di corromperle e filmandole con telecamere nascoste. Ha incastrato decine di uomini e donne infedeli allo Stato. Cento mascheramenti La carriera di Anas è iniziata una ventina di anni fa. Fingendosi venditore ambulante documentò le vessazioni della polizia sui commercianti. Come prete cattolico, con tanto di tunica e di rosario al collo, entrò nelle carceri e portò alla luce episodi di torture e omicidi dietro le sbarre. Nel 2003 s’imbarcò come mozzo su un peschereccio e denunciò i maltrattamenti dei lavoratori coreani ai danni dei ghanesi. Più tardi si fece assumere da una fabbrica di dolciumi che utilizzava farina scaduta e infestata di vermi, e dove i ratti spadroneggiavano: registrò tutto con la sua videocamera. africa · 1 · 2019 43
▲ Uno dei murales dedicati ad Anas dell’artista Nicholas “Nico” Wayo che decorano i muri per le strade del quartiere di Nima ad Accra
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▲ I granitici culturisti del gruppo Ghana Bodybuilders indossano durante gli spettacoli maschere di perline in onore del loro idolo
Poi venne la volta del Soja Bar, uno dei bordelli più grandi del Ghana. Nei panni di un addetto alle pulizie portò alla luce la condizione di molte minorenni costrette a pro-
stituirsi. In veste di ricco uomo d’affari dimostrò la corruzione negli uffici consolari: ottenne centinaia di passaporti falsi, addirittura a nome di alti funzionari e di politici, dietro laute ricompense. Una volta si travestì… da roccia per spiare i traffici illeciti di cacao sul confine tra Ghana e Costa d’Avorio. Un altro suo classico è il travestimento da donna. Mentre indagava su un furto di duecento bovini nell’area centrale del Paese, si rese conto che il modo migliore per fare domande aggirando la diffidenza della gente locale era quello di apparire come una donna anziana. Ci sono poi i mascheramenti da sceicco e da poliziotto, da operaio
CULTURA testo e foto di Elena Dak*
Le inarrestabili carovane del sale
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L’INSTABILITÀ E L’INSICUREZZA IN NIGER NON FRENANO LE PARTENZE DEI NOMADI, CHE OGNI INVERNO SOLCANO LE SABBIE DEL TÉNÉRÉ
Il deserto del Niger è infestato di banditi, jihadisti e trafficanti. Le attività criminali sconvolgono le società tradizionali, ma non arrestano le carovane dei Tuareg che da secoli trasportano il sale tra le oasi, con ritmi e gesti precisi Fino all’inizio del Novecento, nel deserto del Ténéré si potevano vedere carovane che trasportavano sale composte da svariate migliaia di dromedari. Anche ventimila, raccontano le cronache del tempo. L’esploratore tedesco Heinrich Barth le vide arrivare all’oasi di Bilma come onde in successione di cui non si riusciva a immaginare la fine. Si trattava di enormi villaggi in viaggio, carichi di paglia all’andata, atti a trasportare, al ritorno, quintali di cristalli bianchi che furono, per secoli, più preziosi dell’oro: il sale. Un secolo dopo, le taghalamt – le carovane del sale in lingua tamasheq – solcavano ancora il deserto, composte non più da migliaia ma da centinaia di animali: dalle montagne dell’Aïr, nel nord del Niger, dirette verso le oasi di Bilma o Fachi, seicento chilometri più ad est, per andare a comprare il sale, di cui i carovanieri erano i mercanti. I Tuareg hanno da sempre detenuto il monopolio della vendi◀ Il fronte di una carovana diretta all’oasi di Bilma, fotografato dall’autrice del servizio, che ha viaggiato oltre un mese assieme ai nomadi tra le sabbie del Ténéré
ta del prezioso prodotto, fondamentale per tenere in buona salute gli animali che tutti, in un Paese come il Niger, possedevano. Erano pastori nomadi, ma tutte le economie pastorali sono, quasi sempre, miste, e occuparsi di traffici carovanieri era la migliore alternativa all’allevamento dei dromedari, il bene più caro, utile e insostituibile mezzo di trasporto. Ancora nei primi anni Duemila, vari segmenti di carovana, circa una dozzina di dromedari e uno o due uomini, scendevano dalle vallate montuose, a partire dall’inizio di ottobre, come rigagnoli di un corso d’acqua, per ritrovarsi alle porte del vasto deserto del Ténéré, da attraversare insieme, numerosi e compatti. Le colonne di animali e uomini affrontavano le sabbie sotto la guida di un capocarovana, un madougou, capace di leggere le stelle e l’ombra degli animali sulla sabbia, e si dirigevano a est camminando ininterrottamente per ore e ore. In cammino coi nomadi La carovana a cui ebbi il privilegio di aggregarmi nel 2005 era composta da trecento dromedari e trenta uomini. Nessuna sosta per nessuna ragione era previafrica · 1 · 2019 53
SPORT testo di Irene Fornasiero – foto di Mujahid Safodien / Afp
La lotta di Santo Stefano Ogni anno, il 26 dicembre, nel nord del Sudafrica gli uomini dell’etnia Venda danno vita a un grande torneo di lotta tradizionale conosciuta come Musangwe. In palio c’è la gloria che spetta ai più forti Ogni anno, da quasi due secoli, gli uomini del popolo Venda, nel nord-est del Sudafrica, danno vita a uno straordinario torneo di lotta tradizionale, una sorta di pugilato a mani nude noto con il nome di “Musangwe”. Nel giorno di Santo Stefano, mentre il mondo cristiano sta ancora festeggiando la nascita di Gesù, sulle rive del fiume Limpopo il villaggio di Tshifudi accoglie una folla eccitata e festosa, radunatasi per assistere e partecipare agli incontri. In origine la manifestazione veniva
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indetta dal sovrano per selezionare gli uomini più coraggiosi e vigorosi del regno e farne dei guerrieri. Oggi i giovani pugili si sfidano solo per l’orgoglio e la gloria. E per mettersi in mostra di fronte alle donne che cercano marito. Tutti possono partecipare alla lotta, che si svolge all’aperto, in uno spiazzo polveroso cintato dal pubblico. Le regole sono semplici: l’incontro termina solo quando uno dei due combattenti si arrende. Non c’è limite di tempo. Non c’è un arbitro a
sancire la fine anticipata di un incontro, nemmeno di fronte alla plateale inferiorità di uno dei due contendenti. Le botte terminano solo con la capitolazione del rivale – se alza un braccio in segno di resa o se cade a terra tramortito – oppure se le ferite inferte provocano un copioso sanguinamento. Fino a quel momento si continua ad assestare fendenti a oltranza, colpo dopo colpo, fino a esaurimento delle forze. E ogni colpo è un’esplosione di violenza. Il regolamento vieta infatti l’uso di guantoni e caschi protettivi. Al massimo si possono usare fasce di tessuto per proteggere le nocche delle mani. Non è chiaro se questa forma di brutale pugilato sia nata dall’incontro dei Venda coi conquistatori europei o se la sua origi-
ne preceda il periodo coloniale. Le prime notizie certe del torneo annuale di Musangwe risalgono agli inizi dell’Ottocento. Oggi gli incontri sono suddivisi in tre categorie in base all’età: i ragazzini combattono come mambibi e gli adolescenti come rovhasize. La categoria regina è naturalmente quella degli adulti, che vede un uomo porsi al centro dell’arena e cercare uno sfidante. Allo spettacolo possono assistere turisti e visitatori stranieri. Ma attenzione: quando un contendente va al centro del campo di battaglia per lanciare la sua sfida, l’avversario deve emergere dal pubblico. Quindi non mostratevi troppo esaltati tra un match e l’altro, ed evitate di finire accidentalmente dentro l’arena: potreste essere scambiati per un audace concorrente.
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RELIGIONI testo di Francesca Ghirardelli – foto di Giulio Paletta
Cristiani all’ombra delle piramidi
IN EGITTO LA MINORANZA COPTA RESISTE CON FERMEZZA E COMPOSTEZZA AI CRESCENTI ATTACCHI PERSECUTORI
Discriminazioni, abusi, violenze settarie e terroristiche: la comunità cristiana in Egitto – il 10 per cento della popolazione – è sotto attacco. Ma sembra non vacillare la sua fede temprata dalle difficoltà «Avevo sette anni quando me l’hanno tatuata, ne vado orgoglioso», racconta Kyrillos, giovanissimo egiziano copto, mostrando la piccola croce impressa sulla pelle del polso, tradizione diffusa fra i suoi correligionari. Proviene dal governatorato di alMiniā, come un gran numero di copti d’Egitto. Si stima sian o il 10 per cento della popolazione, cioè 10 milioni, la minoranza religiosa più consistente del Paese e la più ampia comunità cristiana del Medio Oriente. Sotto attacco Gli attacchi ai copti in Egitto si sono intensificati dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak. I gruppi jihadisti, a partire dall’Isis, ne hanno fatto uno dei loro bersagli preferiti. Nel dicembre 2017 una serie di attacchi a chiese e negozi al Cairo causò decine di vittime per le festività natalizie. Nell’aprile dello stesso anno gli islamisti avevano fatto strage di fedeli la do-
◀ Cristiani copti fuori da un locale nel quartiere collinare della Muqattam, affacciato sul centro del Cairo
menica delle Palme in una chiesa di Tanta, nel Delta del Nilo, altra regione con una forte componente cristiana. Il presidente Abdel Fatah al-Sisi ha fatto della sicurezza, e anche della difesa dei cristiani, una delle priorità del suo governo, ma gli attacchi continuano a ripetersi con inquietante regolarità. L’ultimo raid terroristico contro i cristiani risale allo scorso novembre. Tre pullman di pellegrini diretti al monastero di San Samuele, a sud del Cairo, sono stati attaccati a un check-point presso la cittadina di AlIdwah. Almeno sette persone sono state uccise, altre 14 ferite. Nel maggio del 2017 un attacco dalle stesse modalità era costato la vita a 35 pellegrini a Menyah. Abusi e disparità La comunità copta ha una storia antichissima. È parte delle Chiese ortodosse orientali e, secondo la tradizione, risalirebbe al 50 d.C., con la visita dell’evangelista Marco in Egitto. Lungo il corso del Nilo, nel Medio Egitto, ci sono molti monasteri millenari e vi è la più alta concentrazione della minoranza cristiana. I rapporti coi musulmani africa · 1 · 2019 63
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